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QUESITO:

Che differenza c’è tra al solito e di solito?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono molto diverse. Al solito significa ‘come avviene di solito’, quindi mette a confronto un evento con tutti gli altri eventi simili accaduti in passato: “Al solito, quando non prendo l’ombrello piove”. Questo confronto è usato tipicamente in commenti polemici oppure amaramente ironici (come quello dell’esempio). Di solito significa semplicemente ‘abitualmente, normalmente’, quindi non instaura nessun confronto e non suggerisce nessuna sfumatura polemica o ironica. Per questo motivo, una frase come “Di solito, quando non prendo l’ombrello piove” sarebbe un po’ strana, perché rappresenterebbe l’evento come un fatto effettivamente abituale (mentre, ovviamente, non può essere così).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Retorica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1a) La voglio tutta.
2a) Vi ho visti tutti.
3a) Noi veniamo tutti da Roma.
4a) Noi verremo in tanti alla festa.

Le frasi si possono riformulare così:
1b) Voglio tutta la torta (aggettivo).
2b) Ho visto tutti voi (aggettivo).
3b) Tutti noi veniamo da Roma (aggettivo).
4b) In tanti/tanti di noi verranno alla festa (pronome).
Nelle frasi “a” si fa un uso avverbiale dei pronomi e aggettivi?

 

RISPOSTA:

Nelle frasi del primo e del secondo gruppo tutto è sempre aggettivo e non ha mai la funzione di un avverbio: accompagna, infatti, sempre un nome o un altro pronome, anche se la sua posizione cambia. Anche la locuzione in tanti, che è aggettivale nella frase del primo gruppo, mentre è pronominale nella frase del secondo gruppo, non ha mai la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?

 

RISPOSTA:

La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentarepotenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.

 

RISPOSTA:

Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implementoimplementabileimplementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?

 

RISPOSTA:

La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?

 

RISPOSTA:

In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito di se con valore concessivo, vi chiedo se la seguente frase sia corretta utilizzando il condizionale nella protasi e se la stessa sia possibile omettendo la congiunzione anche: “Ho pochissimo denaro e non ho niente da comprare. Anche se mi piacerebbe avere una bicicletta nuova, non posso permettermela”.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta; la proposizione anche se mi piacerebbe, però, non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una concessiva. La protasi del periodo ipotetico, ovvero la proposizione ipotetica, detta anche condizionale, non ammette il modo condizionale. Se si elimina anche dalla proposizione concessiva, chiunque continuerà a interpretare la proposizione come concessiva, sulla base del significato complessivo della frase, e della presenza del condizionale; la proposizione sarebbe, però, mal composta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto il seguente periodo: “Sfido chiunque adesso mi sta leggendo e leggerà questi racconti, a non desiderare una simile avventura”. Non dovrebbe essere chiunque adesso mi stia leggendo…Chiunque regge sia il congiuntivo che l’indicativo, ma in questo caso è pronome sia indefinito che relativo (= ‘qualunque persona che’).

 

RISPOSTA:

Il pronome relativo indefinito chiunque richiede effettivamente il congiuntivo; la scelta dell’indicativo è molto trascurata. Immagino che sia stata influenzata dall’indicativo futuro leggerà subito successivo, che è l’unica forma possibile per esprimere il futuro in questa frase, per cui è accettabile anche nello scritto di media formalità (l’alternativa con il congiuntivo non potrebbe assolutamente veicolare l’idea del futuro, a meno che non venga aggiunto un avverbio di tempo: chiunque adesso mi stia leggendo e legga in futuro questi racconti).
La frase presenta un’altra scelta infelice: la virgola tra la reggente (Sfido) e la completiva oggettiva (a non desiderare…). Le completive, escluse le dichiarative, non devono essere separate dalla reggente con alcun segno di punteggiatura (tranne che non ci sia in mezzo un’incidentale), allo stesso modo in cui, nella frase semplice, il verbo non deve essere separato dal complemento oggetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.

Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?

 

RISPOSTA:

Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è la differenza tra “antonomasia” e “denomastico”?
Ad esempio, “luddismo”, “galateo”, “mecenate”… sono denomastici oppure antonomasie?

 

RISPOSTA:

Un “deonomastico”, o “deonimico”, è un nome comune derivato da un nome proprio. Questo passaggio può avvenire attraverso un processo morfologico, come nel caso di luddismo, o attraverso un processo semantico, come nel caso di galateo e mecenate. Il primo caso prevede la trasformazione di un nome proprio con un affisso: il cognome Ludd, dall’operaio olandese Ned Ludd, unito al suffisso -ismo dà origine a luddismo, sostantivo maschile che indica il movimento operaio inglese di inizio Ottocento. Il secondo caso, quello semantico, può avvenire attraverso uno slittamento semantico di un nome proprio che sostituisce (o funziona come) un nome comune. Può accadere che la sostituzione avvenga per indicare una qualità della persona: “è un Einstein” per indicare ‘un genio’; oppure, può verificarsi che un nome proprio diventi un nome comune come nei casi di mecenate (dal nome Mecenate) e galateo (da Galateo, italianizzazione del nome latino Galatheus, cioè Galeazzo) per indicare rispettivamente un protettore e finanziatore di artisti e di arti, e l’insieme delle norme di buone maniere.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’

Quale delle due è corretta? La prima, vero?

 

RISPOSTA:

Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre  la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di ina; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.

 

RISPOSTA:

Il superlativo relativo si misura, appunto, in relazione a una categoria di cui fa parte l’individuo dotato della qualità. Per questo motivo il sintagma che segue questo superlativo è considerato un complemento partitivo. Ovviamente, un sintagma formato con in o a + nome di luogo non può essere un complemento partitivo. Vero è, però, che può svolgere quasi la stessa funzione si potrebbe dire per metonimia. Se dico, cioè, che qualcuno ha una qualità al massimo grado in un luogo, per metonimia sto dicendo che la qualità è al massimo grado in relazione a tutti gli individui della stessa categoria che si trovano in quel luogo. Ad esempio, “Luca è il più bravo della sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che fanno parte della sua squadra” / “Luca è il più brano nella sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che si trovano nella sua squadra’, Lo stesso vale, ad esempio, per “L’Empire State Building è il grattacielo più alto di New York / a New York”. La differenza tra il complemento partitivo e quello di stato in luogo in questi casi è effettivamente minima, tanto che i nativi non riuscirebbero a individuarla facilmente. In ogni caso, l’uso del complemento di stato in luogo per esprimere (per metonimia) il partitivo è piuttosto raro (anche se il gusto personale può avere un certo ruolo nella preferenza): in generale è preferito soltanto in alcuni casi quasi idiomatici, come al mondo; per il resto è una possibilità poco sfruttata. Direi che le ragioni per cui le grammatiche non riportano questa possibilità sono proprio queste: si tratta di un uso estensivo ed è piuttosto raro.
Se poi ti interessa sapere perché a volte si usi in e a volte a, questo dipende dalla regola generale dell’alternanza tra queste preposizioni: in Italiain Sicilia, ma a New Yorka Roma… 
La questione dell’articolo è così schematizzabile: tra i nomi propri geografici non richiedono l’articolo i nomi di città e piccola isola, mentre lo richiedono i nomi di Stato, continente e simili (con pochissime eccezioni, come Israele). Neanche questi ultimi, però, vogliono l’articolo quando sono preceduti da in e a (in Italiain Asia). Soltanto i nomi di Stato o simili plurali richiedono l’articolo anche con in anegli Stati Uniti. Vogliono sempre l’articolo, infine, i nomi di luoghi fisici, come il Mediterraneogli Appenniniil Gardale Baleari ecc., perché sottintendono sempre un nome comune (il mar Mediterraneoi monti Appennini, il lago di Gardale isole Baleari). Lo stesso vale anche per quei pochi nomi di luoghi fisici che non sottintendono un nome, come le Alpi (nelle Alpi).  
Questa distribuzione dell’articolo è una di quelle regole che si formano per convenzione e non hanno alla base una motivazione razionale o funzionale. 
Fabio Ruggiano
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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.

1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».

2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).

 

RISPOSTA:

No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».

Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se il periodo indicato più sotto sia sintatticamente corretto (sia con il congiuntivo trapassato sia con quello imperfetto) e se, eventualmente, esisterebbero delle alternative valide, senza che queste vadano ad alterarne il senso.

«Se avessi puntato su un terno che alla prima estrazione fosse uscito/uscisse, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».

 

RISPOSTA:

Sembra migliore la prima soluzione, al trapassato congiuntivo («fosse uscito»), dal momento che l’intera azione è al passato e si riferisce a qualcosa che non è accaduto. La soluzione all’imperfetto congiuntivo («che uscisse») sarebbe un po’ strana, perché suggerirebbe l’idea che chi ha puntato già sapesse che il terno sarebbe uscito o comunque che poteva uscire (e quest’ultima ipotesi sarebbe ovvia: qualunque puntata ha la probabilità di andare a buon fine). La possibile soluzione al condizionale passato («che sarebbe uscito») sarebbe anch’essa strana, perché lascerebbe intendere, anch’essa, la certezza dell’uscita del terno, se uno l’avesse puntato. Infine, dato che uscire è un verbo inaccusativo, il soggetto posposto al verbo funziona meglio: «Se avessi puntato su un terno che fosse uscito alla prima estrazione, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».

Una piccola aggiunta. Nel testo della sua domanda («Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esisterebbero delle alternative valide») si notano una assimmetria e un uso del condizionale non del tutto accettabili. Sarebbe stata migliore la forma seguente: «Gradirei sapere se […] fosse sintatticamente corretto […] e se […] esistessero delle alternative valide», oppure «Gradirei sapere se […] è sintatticamente corretto […] e se […] esistono delle alternative valide», oppure, ma peggiore: «Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esistano delle alternative valide». L’ultima alternativa è la peggiore perché da vorrei dipende preferibilmente il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente (come spiegato qui).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.

Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?

 

RISPOSTA:

Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.

L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:

A: Come mai sei interessato all’italiano?

Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.

Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.

Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.

 

RISPOSTA:

Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».

Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si dice che i pronomi personali rispondano alla domanda A CHI? Il pronome personale indiretto me = a me, ti = a te, gli = a lui, le = a lei, ci = a noi, vi = a voi e loro = a loro (anche gli).

Ho letto un pezzo nel Corriere della Sera qualche anno fa in cui un pronome personale indiretto era usato per far riferimento a una cosa inanimata, non a una persona. Ho pensato a un altro esempio in cui il pronome personale indiretto dovrebbe essere accettabile per far riferimento a una cosa: “Hai lasciato l’assegno alla banca?” “Sì, le ho lasciato l’assegno”, o “Sì, gliel’ho lasciato”.  Le = alla banca.

Se il mio esempio con la banca è corretto, potrebbe spiegarmi come mai viene accettato? È perché in quel esempio, le vuol dire ‘alla commessa’ o ha a che fare con il verbo?  Potrebbe fornirmi altri esempi in cui un pronome personale indiretto può far riferimento a una cosa invece di una persona? Immagino che sia una cosa molto particolare.

 

RISPOSTA:

Nessun uso irregolare, né particolare. Oggi gli e le (come anche lo, la) possono essere senza timore riferiti a cose, anche nell’uso scritto, nonostante le obiezioni di qualche grammatico attardato. La domanda cui rispondono non è dunque «a chi?» bensì «a chi, a che cosa?». Già negli anni Ottanta Serianni osservava, nella sua Grammatica, l’assoluta normalità di frasi come «Quest’orologio non funziona: che cosa gli hai fatto?». L’alternativa con esso è del tutto innaturale, e dunque da evitare: «che cosa hai fatto a esso?». L’unica alternativa possibile, se non piacciono gli/le riferiti a cose (che però, come ripeto, sono assolutamente corretti e normali) è ripetere il nome: «L’orologio non funziona. Che cosa hai fatto all’orologio?». Gli esempi di le riferiti a cose femminili sono innumerevoli e tutti corretti e normali (non eccezionali): «quando le dai una verniciata?», riferito a parete; «le ho dato una spinta per farla ripartire» (riferito a automobile) ecc. ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”

Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?

 

RISPOSTA:

La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida

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QUESITO:

Dopo la parola giardino, alla fine del terzo verso è opportuno l’uso del punto e virgola o sarebbe stato corretto l’utilizzo dei due punti?

È facile mimare le vocazioni dell’egoismo,
basta ammutolire la coscienza e la sete va libera
come una bimba nel primo giardino;
la mano si allunga, compulsiva nel prendere,
e senza uno specchio più largo della faccia,
restano dietro persino i fanghi del rimorso.

 

RISPOSTA:

Entrambe le proposte sono legittime. Con il punto e virgola si separano due unità informative logicamente e sintatticamente autonome; con i due punti, invece, si introduce una conseguenza di quanto detto prima.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Dopo mare e prima di che (al primo verso) è opportuno inserire la virgola (come nel testo) o sarebbe stato meglio l’uso del punto?

“Sogno il mare, che ancora mi sveli
il petto incostante, le possibilità!”

RISPOSTA:

La proposizione in questione (“che ancora mi sveli) è senza dubbio un’oggettiva introdotta dal verbo sognare, quindi prima di che non va inserita la virgola. Si può, eventualmente, spezzare la frase, ma cambiandone il significato, aggiungendo i due punti (“Sogno il mare: che ancora mi sveli…); in questo modo, quella introdotta da che è una proposizione indipendente di tipo esclamativo (segnalata, appunto, dal segno interpuntivo finale). In ogni caso, in un testo poetico la punteggiatura raramente è vincolata dalla grammatica.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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QUESITO:

Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.

 

RISPOSTA:

Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccoglieresi deve raccoglierloun gesto simile lo si vede fareun gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche civilalile) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarrese lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.

 

RISPOSTA:

La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Insegnate a vostro figlio a pensare alle azioni da fare per prepararsi per categorie anziché elenchi”, quale complemento è per categorie?

 

RISPOSTA:

Complemento di fine, visto che la preparazione è finalizzata alle categorie.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se la forma mal riscattata (o malamente riscattata) al secondo verso è corretta e se si può usare una forma univerbata malriscattata.
/caparra
mal riscattata
di trenta monete d’argento/

 

RISPOSTA:

Mal riscattata è certamente possibile (come anche malamente riscattata). La variante univerbata malriscattata non è attestata, ma sarebbe in astratto ugualmente possibile e ben formata; in un contesto poetico come è questo, per sua natura incline all’invenzione verbale, è quindi lecito impiegarla.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Neologismi
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Categorie: Semantica, Sintassi
RISPOSTA:

Nelle due frasi, come introduce proposizioni di natura diversa, che si costruiscono diversamente. Nella prima frase la proposizione è un’interrogativa indiretta, che preferisce sempre il congiuntivo, e in particolare lo richiede decisamente quando è introdotta da come; nella seconda è una comparativa, che, al contrario, richiede l’indicativo quando è introdotta da come. Si noti che nella prima subordinata l’uso dell’indicativo non è escluso: “Mi aveva colpito come era riuscito a raccontare la storia” è possibile, con uno slittamento della proposizione verso il valore di oggettiva, non più di interrogativa indiretta. Con l’indicativo, in altre parole, come diviene equivalente a che.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?

 

RISPOSTA:

In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?

 

RISPOSTA:

Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burratamozzarellacrescentina
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?

 

RISPOSTA:

In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?

Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.

 

RISPOSTA:

Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “con i piedi lontano/lontani da terra” è corretto usare l’avverbio o l’aggettivo?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, perché lontano in italiano ha i valori di aggettivo e di avverbio. L’aggettivo richiede l’accordo di genere e numero con il nome cui si riferisce (piedi lontani), l’avverbio invece, in questo caso costruito come locuzione preposizionale (lontano da), rimane invariato. La variante con l’aggettivo è più comune, ma non per questo preferibile alla variante con l’avverbio.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Volevo chiedere quale delle tre versioni è corretta/preferibile o se invece sono tutte e tre ugualmente accettabili:

Questioni relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione,

Questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione,

Questioni relative all’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione.

 

RISPOSTA:

I tre esempi sono tutti e tre corretti (in quanto contemplati dal sistema grammaticale italiano), ma il primo è preferibile. Le grammatiche son tutte concordi nell’ammettere la possibilità dell’ellissi preposizionale nei casi di più elementi retti dalla medesima preposizione, ma ribadiscono anche che, per chiarezza, talora è bene ripetere la preposizione. Nel caso specifico, dato che la preposizione è articolata, sarebbe meglio ripeterla o quanto meno ripetere l’articolo: “Questioni relative all’interpretazione e l’applicazione”.

La -d eufonica va limitata a casi di incontro tra due vocali identiche, dunque, semmai, “interpretazione ed educazione”, ma “interpretazione e applicazione”.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Comunico la mia assenza per domani 10 marzo. Ne allego di seguito il giustificativo”.

Vorrei sapere se questo uso pronominale sia corretto. Dal punto di vista formale, scomponendo i rapporti sintattici, mi pare che non ci sia niente di sbagliato. (Ne allego il giustificativo = allego il giustificativo dell’assenza.) Quando ho letto il messaggio la prima volta, però, ho avuto un principio di perplessità. Chiedo a voi, come al solito, per sciogliere il dubbio.

 

RISPOSTA:

La frase è perfettamente corretta. Le ragioni della sua perplessità sono dovute alla distanza tra il pronome ne e il nome cui si riferisce (assenza). Dato che però nessun altro dei costituenti prima di ne (domani, 10 marzo) si presta ad essere sostituito da ne, la coreferenza tra ne e assenza, sebbene svolta nell’arco di due diverse frasi, è perfettamente rispettata.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?

Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.

 

RISPOSTA:

Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:

“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,

– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)

– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”

– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.

 

RISPOSTA:

Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.

Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.

Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.

Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?

 

RISPOSTA:

Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.

Potreste cortesemente esprimervi in merito?

 

RISPOSTA:

La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.

Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei bisogno di aiuto per sciogliere un dubbio sull’uso di proprio.
I RAGAZZI STUDIANO SPERANDO DI REALIZZARE UN GIORNO I ………… SOGNI.
Nello spazio va inserito proprio o loro?

 

RISPOSTA:

L’aggettivo proprio si preferisce a loro quando si riferisce al soggetto grammaticale della frase. Diviene obbligatorio per riferirsi al soggetto in una frase in cui ci sono più referenti possibili; in quel caso, infatti, loro rimanda sicuramente non al soggetto. Nella sua frase il riferimento non può che essere i ragazzi, quindi proprio (in questo caso nella forma propri) è preferibile, visto che i ragazzi è il soggetto della frase, ma non obbligatorio; in una frase come “I ragazzi hanno rivelato ai professori che studiano sperando di realizzare i _____________ sogni”, invece, propri è obbligatorio perché loro si riferirebbe ai professori (i loro sogni, cioè, sono i sogni dei professori).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere, cortesemente, se lasagne è un nome comune o proprio.

 

RISPOSTA:

Lasagna (nei vocabolari questa parola è messa a lemma al singolare) è un nome comune che indica un tipo di pasta tagliata a strisce larghe.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “esprimo la mia opinione in relazione alla mia esperienza con voi”, il sintagma introdotto da “in relazione alla” esprime un complem. di limitazione?

 

RISPOSTA:

Sì. Potrebbe peraltro anche essere considerato un complemento di argomento, dal momento che le aree semantiche di questi due complementi sono spesso limitrofe, se non addirittura in parte sovrapponibili. Dipende dal contesto: se l’opinione verte sulla relazione, allora si tratta di complemento di argomento, se l’opinione verte su altre cose, ma è data nell’ambito di una relazione, allora è complemento di argomento. Naturalmente, come ben si vede, queste considerazioni riguardano la sfera meramente semantico-contestuale e nulla hanno a che vedere con la sintassi. Il che ci fa ribadire, per l’ennesima volta, la suprema inutilità (a non dir di peggio) dell’analisi logica (che di logica non ha nulla) tradizionalmente intesa.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.

 

RISPOSTA:

L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.

Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.

 

RISPOSTA:

Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il mio dubbio riguarda la costruzione della seguente frase: “L’animale si chiamava Bubu e ovunque sarebbe andato avrebbe obbedito solo al suo padrone”.

È corretto il condizionale passato dopo “ovunque”, in quanto azione futura nel passato, o si deve usare il congiuntivo “ovunque fosse andato”?

 

RISPOSTA:

La soluzione col condizionale passato fa leva, come giustamente osserva lei, sul futuro nel passato; la proposizione è però, a sua volta, dipendente da una reggente che già esprime il futuro nel passato (“avrebbe obbedito”), pertanto è decisamente da preferire la seconda soluzione col congiuntivo trapassato (“ovunque fosse andato”), per via della carica eventuale (quasi protasi di periodo di ipotetico) della subordinata relativa introdotta da ovunque: “se fosse andato in un posto qualunque, avrebbe obbedito”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?

Uomo = soggetto

Era impegnato = pred. verbale

Per conto di una ditta = complemento di sostituzione

In una attività = stato in luogo figurato

Di manutenzione = complem. di specificazione

Su un impianto = stato in luogo

Di zuccherificio = compl. specificazione

 

RISPOSTA:

L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “La Ficht conferma il rating BBB dell’Italia” oppure “per l’Italia”?
Inoltre:
1) dell’Italia = compl. specificazione?
2) per l’Italia= compl. di vantaggio?

 

RISPOSTA:

Le due varianti sono corrette ma cambiano il significato della frase: conferma il rating BBB dell’Italia indica che il rating era già stato assegnato (è, appunto, il rating dell’Italia) e ora l’agenzia lo conferma; conferma il rating BBB per l’Italia indica che il rating era stato annunciato, se ne era parlato, ma soltanto adesso è stato effettivamente assegnato (quindi la conferma riguarda non il rating già assegnato, ma l’anticipazione a proposito del rating che sarebbe stato assegnato). In analisi logica dell’Italia è complemento di specificazione, per l’Italia è complemento di vantaggio (o di svantaggio, se la frase lascia intendere che il rating è una brutta notizia) se si intende il rating come un servizio reso all’Italia; è, in alternativa, complemento di argomento se si intende il rating come un voto che riguarda l’Italia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Nella frase “Venite a trovarci, più ne siamo e meglio è”, è corretta la presenza della particella ne e, nel caso, che funzione grammaticale svolgerebbe? Oppure non si dovrebbe utilizzare?

 

RISPOSTA:

L’inserimento del ne in costrutti del genere è diffuso dell’italiano regionale meridionale; nella varietà standard dell’italiano (quella descritta dalle grammatiche) il costrutto non richiede il pronome: la forma corretta è più siamo. Il ne, si noti, è richiesto quando il verbo è alla terza plurale (più ne vengono), ma non quando è alla prima e alla seconda; mentre il soggetto della prima e della seconda, infatti, è sempre noto (perché coincide con il gruppo a cui appartiene l’emittente o con il gruppo a cui appartiene il ricevente), il soggetto di terza persona dipende dalla frase, quindi deve essere richiamato con il pronome, che ha la funzione di complemento partitivo. L’inserimento di ne alla prima e alla seconda plurale può essere, pertanto, interpretato come un’estensione del costrutto della terza persona. A margine sottolineo che con il verbo essere alla terza persona il ne deve essere preceduto da cepiù ce ne sono (non *più ne sono).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?

 

RISPOSTA:

Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi seguenti sono corrette?

Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.

A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.

In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.

Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:

Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,

La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.

E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.

Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.

Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.

apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.

Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.

Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.

Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.

 

RISPOSTA:

Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.

“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.

In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei una consulenza sul significato della frase complessa riportata di seguito: “La frase è una forma linguistica indipendente, non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore, escluso il testo”.

La frase è una forma linguistica indipendente = frase reggente principale;

Non compresa (che non è compresa = subordinata relativa) mediante alcuna costruzione grammaticale (attributo + complemento di esclusione) in una forma linguistica maggiore (complemento di stato in luogo figurato) escluso il testo (subord. di esclusione).

Come può essere parafrasata, ossia cosa significa in concreto, la frase in questione?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dall’analisi del periodo.

“La frase è un forma linguistica indipendente”: proposizione principale;

“non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”: subordinata relativa implicita;

escluso il testo (subordinata esclusiva implicita).

Analisi logica della proposizione relativa:

la frase: soggetto sottinteso evincibile dal predicato verbale “non compresa”;

non compresa: predicato verbale;

mediante alcuna costruzione grammaticale: attributo + complemento di mezzo;

in una forma linguistica maggiore: complemento di stato in luogo figurato + attributo.

Il senso (e quindi la parafrasi) della frase in questione, che è una delle tante possibili definizioni di “frase”, è il seguente. La frase è, dal punto di vista sintattico, indipendente da altre frasi, cioè non fa parte di nessuna frase complessa (in quanto è essa stessa una frase, semplice o complessa, che si conclude con un punto, senza altri vincoli sintattici con strutture esterne alla frase stessa). Naturalmente, bisogna tener conto del contesto, o per meglio dire del cotesto, cioè dell’intero testo in cui la frase è inserita, per comprenderne a pieno il significato. Quindi, benché autonoma sul piano sintattico, sul piano semantico la frase non è del tutto autonoma, perché va inquadrata in un’unità di rango superiore detta testo.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In vita ho sempre detto indistintamente:

  1. A) Lunedì prossimo.
  2. B) Il lunedì prossimo.
  3. C) Il prossimo lunedì.

Mentre ho sempre visto come errore:

  1. D) Prossimo lunedì.

Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.

Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).

L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.

Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio, Nome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta l’analisi della seguente frase?  “Tiziano propone classi separate per studenti disabili, una mossa lesiva dei diritti di queste persone, in contrasto con i principi pedagogici”.

Tiziano = soggetto

Propone = predicato Verbale

Classi separate = compl. Oggetto + attributo

Per studenti disabili = complemento di destinazione + attributo

Una mossa lesiva = apposizione + attributo

Dei diritti = complemento di termine

Delle persone = compl. di specificazione

In contrasto con i principi pedagogici = complemento di paragone e attributo

 

RISPOSTA:

Secondo l’analisi logica tradizionale, vi sono alcune inesattezze o precisazioni da fare. Quello che lei chiama complemento di destinazione può essere classificato anche come complemento di vantaggio. “Dei diritti” è complemento di specificazione, anziché di termine. Come si vede e come chiarito più volte nelle risposte di DICO, però, una analisi siffatta non spiega nulla della struttura sintattica della frase, limitandosi ad apporre impressionistiche etichette semantiche ai vari sintagmi. Più utile sarebbe invece comprendere e distinguere, per esempio, il valore argomentale di “classi separate” e di “dei diritti” (che completa il sintagma “mossa lesiva”), rispetto al valore di circostante o di espansione degli altri sintagmi. In particolare, il circostante “una mossa lesiva dei diritti” (del tutto omologa a una relativa “che lede i diritti”) amplifica tutto ciò che precede (“propone classi separate per studenti disabili”); questa funzione di amplificazione (o circostante) si perde nella banale etichetta di apposizione, che sembra limitare (erroneamente) il riferimento di “una mossa lesiva dei diritti” al solo “classi separate”, quando invece è evidente che ad essere una mossa lesiva non siano soltanto le classi separate, bensì la proposta delle classi separate. Ancora una volta, dunque, più che la sciocca, inutile e dannosa analisi logica tradizionale sarebbe importante che la scuola insegnasse un’oculata e semplificata versione della grammatica valenziale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

Sì, l’analisi logica è corretta.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.

Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?

 

RISPOSTA:

Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Si prega di recarsi all’appuntamento nel rispetto dell’orario assegnato. Portare con sé il documento di riconoscimento.”

Il pronome “sé” può essere usato anche quando una frase non ha un soggetto espresso (non so se si possa parlare in tale esempio di “soggetto logico“), oppure si tratta di un uso improprio?

 

RISPOSTA:

Si può, la frase è del tutto corretta. “Portare con sé”, infatti, equivale in tutto e per tutto a “Ognuno (o ciascuno) porti con sé”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase “Si fa presto a dire amore” potrebbe essere analizzata nel seguente modo?

Si fa presto = reggente impersonale

A dire amore = subordinata limitazione

 

RISPOSTA:

Sì, la subordinata è una limitativa implicita. Tenga poi conto, però, che per le implicite il confine tra diversi tipi di subordinata è molto sfumato (limitativa, causale, finale, consecutiva, tra le altre, spesso possono legittimamente essere confuse), in virtù della estrema polisemia dei connettivi (per, di, a ecc.) e dei modi verbali. Dunque, vale per le subordinate quanto detto spesso per i complementi: più che accanirsi sul tipo (semantico), è meglio comprendere la funzione sintattica della subordinata. In questo caso, non v’è alcun dubbio sulla natura avverbiale della subordinata.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “I romani, sotto la guida di Cesare Giulio, conquistarono le Gallie”, sotto la guida può considerarsi complemento di mezzo?

“Voteremo sulla base/ in base a queste considerazione”….”Sulla base di” introduce un complem. di limitazione?

 

RISPOSTA:

Le due risposte sono entrambe corrette. Resta l’insensatezza della tipologia dei complementi secondo l’analisi logica tradizionale, che si limita a porre etichette semantiche (e impressionistiche) del tutto inutili a spiegare il funzionamento sintattico e logico della frase. Su questo aspetto, si rimanda alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/il-complemento-di-quantita-e-il-complemento-di-specificazione-linutilita-dellanalisi-logica-tradizionale/

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“I capelli sono pettinati in ciocche sottili e sono tinti di nero”

I due predicati sono nominali o verbali?  Sono entrambi due participi passati che possono essere usati anche come aggettivi o no?

 

RISPOSTA:

Sì, sono entrambi participi, e come tali possono avere valore sia verbale sia nominale. Dunque in entrambe le proposizioni il predicato può essere analizzato sia come verbale, sia come nominale. Abbiamo già discusso nel dettaglio questa dicotomia nel quesito https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/, cui rimandiamo per un approfondimento della complessa questione.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. A) Gli ho assicurato/accertato che non era così.

(complemento di termine + completiva oggettiva diretta esplicita)

  1. B) Gli ho assicurato/accertato la buona riuscita del progetto.

(Complemento di termine + complemento oggetto)

  1. C) Li ho assicurati/accertati che non era così.

(complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)

  1. D) Li ho assicurati/accertati della mia innocenza.

(complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])

Sul web mi sono imbattuto su discussioni che riguardavano i due verbi in questione.

Ho letto di gente che dava come corrette solo le costruzioni con complemento di termine, ritenendo scorrette frasi come C e D, visto che si andava in contro ad un paradosso, cioè due complementi oggetti connessi fra loro, paradosso che, a pensarci bene, potrebbe riguardare anche un verbo come “informare”, visto che quest’ultimo ammetterebbe costruzioni come in C e D, col quale però certe costruzioni sono del tutto normalizzate e idiomatiche.

Io penso che le costruzioni di C e D siano corrette, solo poco comuni, anche perché queste ultime sono altrettanto corrette nella loro forma riflessiva:

  1. E) Mi assicuro/accerto che tutto vada secondo i piani.

(Complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)

  1. F) Mi assicuro/accerto della tua innocenza.

(Complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])

Detto questo, mi interessava sapere cosa ne pensasse un esperto in materia, un linguista, in modo che potessi avere le idee più chiare.

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei: la presenza del complemento oggetto nella reggente non impedisce affatto la presenza di una completiva dipendente dal medesimo verbo che regge il complemento oggetto: “ho rassicurato i miei genitori che sarei tornato presto”. La subordinate completive, pur comportandosi similmente a un oggetto (o a un soggetto) non possono essere considerate del tutto equivalenti a un complemento oggetto, come dimostrano le completive indirette, le quali, se trasformate in sintagma, richiederebbero una preposizione anziché un complemento diretto: “li ho rassicurati che verrò” > “li ho rassicurati della (o sulla) mia venuta; “informo Luca che arriverai” > “informo Luca del tuo arrivo”.

Quello che non va, in alcune delle frasi da lei citate a esempio, è il complemento; infatti non tutti i verbi ammettono il complemento oggetto o il complemento di termine della persona nel modo da lei (o dalle sue fonti) espresso, e questo indipendentemente dal fatto che vi sia anche una completiva o no. In particolare: “accertare qualcuno” (e non “a qualcuno”); “assicurare qualcuno” (oppure “rassicurare qualcuno”), non “a qualcuno”. Assicurare e accertare, insomma, non possono reggere il complemento di termine della persona che si assicura/accerta, ma soltanto il complemento oggetto (nelle accezioni qui commentate). Inoltre, “accertare qualcuno” appartiene comunque a un registro elevato e raro (“di basso uso” lo definisce il Gradit di De Mauro) che sarebbe meglio evitare, tant’è vero che l’italiano comune usa accertare soltanto in riferimento a fatti, non a persone: “accertare la morte”, “una notizia” e simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Il Giappone è un paese in via di sviluppo in termini economici e sociali” può essere analizzata nel seguente modo:.
Il Giappone= soggetto
E’= predicato nominale
Un paese= nome del predicato
In via di sviluppo= complemento di luogo figurato
In termini economici= complem di limitazione.

Nelle frase “Abbiamo deciso di pensarci in termini di costi”, il complemento “in termini di costi” è complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

È: copula, che insieme al nome del predicato “un paese” costituisce il predicato nominale.
In via di sviluppo: complemento di qualità; ma, nell’insensatezza dell’analisi logica tradizionale, essendo una locuzione aggettivale (pur costituita da un sintagma preposizionale), può essere tranquillamente analizzata anche come attributo del nome del predicato. Quel che conta è comprendere che “in via di sviluppo” svolge qui il ruolo di circostante (cioè, più o meno, attributo) rispetto a “un paese”.
Sì per tutto il resto: sono entrambi complementi di limitazione (ovvero, più utilmente, svolgono il ruolo di espansioni frasali).
Quanto al senso della prima frase, è certamente errato definire il Giappone un paese in via di sviluppo.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non mi è ben chiaro come distinguere se nelle seguenti frasi gli elementi in maiuscolo sono aggettivi o pronomi indefiniti. Inoltre possono essere considerati tutti quantificatori, o alcuni di essi (ad es. “altri”) non hanno la funzione di quantificare?

1) In un mondo multietnico, inevitabilmente siamo in TANTE, TUTTE diverse e OGNUNA con il suo fascino e la propria identità, ma è pur vero che tra queste ALCUNE hanno un carisma irresistibile.

[tante=aggettivo indefinito quantitativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo; ognuna= pronome indefinito collettivo; alcune=pronome indefinito singolativo]

2) Ne ho sentite dire di TUTTI i colori su di me.

[tutti=aggettivo indefinito collettivo]

3) TANTI mi confessano che trasmetto loro i piaceri della bellezza. ALTRI dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni.

[tanti=pronome indefinito quantitativo; altri= pronome indefinito singolativo]

4) Sono UNA che lascia il segno e con orgoglio vi comunico che nella competizione mondiale sono arrivata quarta. Conosco gente di TUTTE le età che si avvicina a me per i motivi più diversi.

[una=pronome indefinito singolativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo]

 

RISPOSTA:

Sono tutti quantificatori e indefiniti e sono quasi tutti pronomi, tranne quelli accompagnati a un nome, cioè “tutti i colori” (aggettivo indefinito) e “tutte le età” (aggettivo indefinito). In “sono una”, una, a rigore, è pronome numerale, anche se, dato il significato di “una certa persona” o “quel tipo di persona”, può anche essere interpretato come pronome indefinito. L’importante è riconoscerne il valore pronominale (anziché aggettivale, visto che non si accompagna a un nome) e di quantificatore.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Frase “Egli ha il ruolo di un testimone che si limita a citare le  parole della persona in questione, lasciando a lei la responsabilità di quanto dice”.

Quesiti:

  1. “Sì limita a citare” si può considerare un unico predicato verbale (Come se dicessi “cita soltanto…”)?
  2. “In questione” = complemento di argomento?
  3. “Lasciando” = introduce una subordinata modale, finale o consecutiva?

 

RISPOSTA:

  1. “Si limita a citare” non può essere considerato come un unico predicato, secondo la sintassi tradizionale, perché “si limita” non svolge né il ruolo di verbo modale, né il ruolo di verbo aspettuale o fraseologico. Pertanto “si limita” è il verbo della proposizione reggente, mentre “a citare” è il verbo della subordinata implicita infinitiva, che può essere analizzata sia come completiva sia come finale.
  2. La tradizionale tipologia dei complementi è del tutto inutile, in sintassi. Qui l’importante è capire che la locuzione aggettivale “in questione” svolge un ruolo analogo a quello di un aggettivo (come se fosse “la persona nota” o “già nominata”), ovvero di circostante frasale. In quanto tale, se proprio si vuol tornare all’inutile nomenclatura scolastica, potrebbe essere analizzato come complemento di qualità.
  3. La subordinata implicita gerundiva “Lasciando a lei la responsabilità”, stante la polifunzionalità del gerundio, può essere analizzata sia come modale (che è la scelta migliore), sia come consecutiva (è talmente asettico da lasciare a lei la responsabilità…), sia come finale (lo fa per lasciare a lei la responsabilità…).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ieri sono rientrato al lavoro con il turno pomeridiano”, il complemento “con il turno” si considera complem. di unione o mezzo?

 

RISPOSTA:

Come abbiamo più volte sottolineato nel nostro sito DICO, la tradizionale nomenclatura dei complementi è scarsamente o per nulla produttiva, perché cerca di sviscerare inutili minuzie semantiche, senza nulla dire della funzione sintattica dei sintagmi. In questo caso, quel che interessa è che “con il turno pomeridiano” non ha valore argomentale ma di espansione, cioè non contribuisce a completare il senso del verbo, ma soltanto dell’intera frase. Se proprio vuole poi ricondurre questo valore all’inutile nomenclatura scolastica, allora il complemento può essere, secondo il contesto, sia di unione (se si fa leva soltanto sul fatto che si è rientrati a lavoro e si è svolto il turno pomeridiano), sia di mezzo (se si dà più importanza al turno che al rientro), o addirittura di causa (se è proprio il turno pomeridiano che ha consentito il rientro, mentre quello mattutino lo avrebbe reso impossibile).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non riesco a capire che funzione ha “questo” nella seguente frase (chi parla è la personificazione della lingua italiana): «Altri dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni. Sarà forse per QUESTO che l’Opera è nata nel mio Paese»,

In questo caso, “questo” è un pronome dimostrativo che sostituisce un’intera frase (“il fatto che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni”)? O è una locuzione congiuntiva, sostituibile con “perciò”, “per tale motivo”? O è qualcosa d’altro?

 

RISPOSTA:

Questo è un pronome dimostrativo che funge da incapsulatore, in questo caso, cioè pronominalizza un’intera frase o porzione di testo, piuttosto che un singolo sintagma. Per questo, con parziale perdita semantica e grammaticalizzazione, può essere inteso anche come locuzione congiuntiva di valore analogo a perciò; tuttavia, nel caso specifico, la forte coesione della frase (con il complemento per questo retto dal verbo sarà) fa propendere per la prima interpretazione. Il valore di locuzione congiuntiva, o meglio ancora di segnale discorsivo, sarebbe più probabile in un caso del genere: «Per questo, l’opera è nata nel mio paese». Con perciò il confine tra i due tipi (molto sfumato) è più semplice, perché la grammaticalizzazione ha comportato l’univerbazione di per ciò in perciò (come per che in perché, poi che in poiché ecc.). Mentre per questo non ha (ancora) dato luogo a perquesto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda gli aggettivi numerali cardinali invariabili ma che si estende anche a tutti gli aggettivi qualificativi.

Se io scrivo: “Le mie tre rose sono fiorite”, posso fare l’analisi grammaticale dell’aggettivo numerale cardinale “tre” come femminile plurale dato che si accorda al nome “rose”?

Genere e numero dell’aggettivo numerale cambierebbero infatti se associati al nome: “I tre palazzi”.

Se io scrivo: “la bambina è gentile” posso analizzare l’aggettivo qualificativo come femminile e singolare anche se accanto ad un nome maschile singolare scrivo comunque “gentile”?

 

RISPOSTA:

Gli aggettivi (di qualunque tipo) non hanno un genere proprio, ma cambiano il genere in base al nome cui si riferiscono. Pertanto tre in tre rose è femminile, mentre è maschile in tre palazzi. Altrettanto gentile: femminile in persona gentile, maschile in modi gentili. Ciò vale dal punto di vista morfosintattico (cioè per quanto riguarda l’analisi grammaticale e la funzione dell’aggettivo). Dal punto di vista meramente formale, tre è un aggettivo invariabile, cioè che non varia (nella forma) tra maschile e femminile. Anche gentile è invariabile nel genere, anche se varia nel numero (gentile, gentili). Dal punto di vista funzionale, invece, come già detto, tutti gli aggettivi assumono il genere e il numero del nome cui si riferiscono.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In un recente intervento di una parlamentare ho sentito questa frase: “Non vorrei che nessuna donna che in questo momento VORREBBE abortire si sentisse attaccata da questo stato”. Si tratta di un intervento emotivamente concitato, però l’uso del condizionale non mi convince, per via della sfumatura ipotetica. Cosa ne pensate, è accettabile?

 

RISPOSTA:

Il condizionale nella relativa di questa frase non è accettabile, ma va sostituito con il congiuntivo imperfetto: la relativa, infatti, è fortemente attratta dal modello della proposizione ipotetica (che in questo momento volesse abortire = se in questo momento volesse abortire).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).

“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.

Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?

 

RISPOSTA:

A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascoltofare il proprio ingressoprendere una decisionemettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.

 

RISPOSTA:

In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

I prefissi come super-arci-iper-ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?

 

RISPOSTA:

Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutinomensilearchitettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendofantasticomeraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimosupermeravigliosoiperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimofantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è l’analisi logica della frase “La mamma difende i cuccioli dalle iene”?

 

RISPOSTA:

La mamma = soggetto;
difende = predicato verbale;
i cuccioli = complemento oggetto;
dalle iene = complemento di svantaggio.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il periodo “Come si fa ad essere creativi?” può considerarsi formato da come si fa = prop. principale/reggente; ad essere creativi = prop. subordinata di fine?

 

RISPOSTA:

Sì.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:

(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).

Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?

Secondo esempio:

(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).

A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?

Terzo esempio:

(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.

Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che, tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste correggere le seguenti frasi? 
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.

 

RISPOSTA:

Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Norda Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nordal Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro

 

RISPOSTA:

Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Il file è in fase di caricamento”, il complemento in fase di caricamento può considerarsi predicativo del soggetto o stato in luogo? L’espressione in sciopero della fame si può analizzare così?
In sciopero = c. di luogo figurato;
della fame = c. di fine

 

RISPOSTA:

La fase di caricamento non è una qualità del file, ma è un processo nel quale si trova il file; si può, quindi, interpretare il sintagma come luogo figurato. Volendo sottolineare che tale luogo si configura come un processo, si può anche sostenere che il complemento sia di moto per luogo.

In sciopero indica una situazione in cui si trova una persona, quindi può rientrare nell’idea di stato in luogo figurato; della fame, invece, specifica di che tipo è lo sciopero, cioè che cosa lo caratterizza, quindi è un complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In “Fattelo spiegare da Giulio”, il complemento da Giulio si può considerare un complemento di origine?

 

RISPOSTA:

Sì. In alternativa, considerando che la costruzione fattitiva (fare + infinito) è parafrasabile con quella passiva: io mi faccio spiegare un argomento da Giulio = io faccio in modo che l’argomento mi sia spiegato da Giulio, è giustificabile anche l’interpretazione del sintagma come complemento d’agente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In base a può introdurre un complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

Sì, per esempio nella frase “In base ai dati, la situazione è in miglioramento”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

A) Se ci fosse un libro che mi intrattenesse, lo comprerei.
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe, lo comprerei.
C) Se ci fossero delle persone che mi aiutassero, sarei loro riconoscente a vita.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero, sarei loro riconoscente a vita.

Le frasi col congiuntivo (A e C) mi sembrano senza dubbio corrette.
Il mio dubbio riguarda le frasi B e D, cioè quelle al condizionale.
Secondo me, però, potrebbero avere una loro correttezza grammaticale, immaginando che quel condizionale abbia una protasi implicita:
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe (se lo leggessi), lo comprerei.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero (se mi trovassi in difficoltà), sarei loro riconoscente a vita.

 

RISPOSTA:

Le frasi B e D sono effettivamente scorrette: il condizionale, infatti, non si giustifica in nessun modo, mentre il congiuntivo delle frasi A e C è attratto dal congiuntivo delle proposizioni reggenti. Anche in presenza di protasi al congiuntivo imperfetto, le proposizioni relative, che sarebbero le apodosi di questi (arzigogolati) periodi ipotetici, sarebbero costruite comunque al congiuntivo. Possibile, invece, l’indicativo, che abbassa leggermente la formalità delle frasi: Se ci fosse un libro che mi intrattieneSe ci fossero delle persone che mi aiutano.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “in risposta alle sue richieste, Le daremo appuntamento per giovedì prossimo” è corretta la seguente analisi logica?
In risposta alle sue richieste = complem di fine+ attributo;
Le = c. di termine;
daremo = predicato verbale;
appuntamento = c. oggetto;
per giovedì prossimo = c. di tempo determinato + attributo.

 

RISPOSTA:

L’analisi ha un solo problema: il sintagma In risposta alle sue richieste non dovrebbe essere considerato insieme, ma dovrebbe essere diviso in In risposta e alle sue richieste. Di questi due, alle sue richieste è un complemento di termine, mentre In risposta può essere considerato un complemento di fine, se intendiamo il sintagma equivalente a al fine di rispondere, oppure – opzione per me più ragionevole – un complemento predicativo dell’oggetto (che è appuntamento) se lo consideriamo equivalente a in qualità di risposta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?

 

RISPOSTA:

Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “un saluto da me”, da me è un complemento d’origine?

 

RISPOSTA:

Sì; indica che il saluto proviene da / si origina da qualcuno. A differenza del complemento di moto da luogo, esso non indica un movimento.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

A differenza di introduce un complemento di paragone?

 

RISPOSTA:

Sì, la locuzione preposizionale a differenza di risponde alla domanda “rispetto a chi o a che cosa?” e introduce un paragone fra due individui o due situazioni: “A differenza di Luca, io preferisco il mare”.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
Fai il saggio e TRANNE vantaggio.
Fai il saggio e TRAINE vantaggio.

 

RISPOSTA:

La forma verbale corretta è traine, formata da trai seconda persona singolare dell’imperativo del verbo trarre, e ne, particella pronominale che in questo caso può essere parafrasata con ‘da questo comportamento’. La forma tranne (che coincide con la preposizione tranne ‘eccetto’) non fa parte della coniugazione di questo verbo; non bisogna, quindi, confondersi con gli imperativi di altri verbi correttamente formati con il raddoppiamento della n di nedanne (da dare), fanne (da fare), dinne (da dire), vanne (da andare), stanne (da stare).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Coerenza
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QUESITO:

In aperitivo per eccellenza il sintagma per eccellenza è un complemento di qualità?

 

RISPOSTA:

Sì; esso può, infatti, essere parafrasato con un aggettivo qualificativo, come straordinarioeccelsoimpareggiabile o simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica
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QUESITO:

Nella frase “Mi servo di te”, di te a quale complemento appartiene?

 

RISPOSTA:

Nell’analisi logica è un complemento di specificazione; la funzione del sintagma, però, si coglie meglio con l’etichetta di oggetto obliquo, propria della grammatica valenziale. Dal momento che servirsi di si comporta come godere di, rimando a questa risposta per la spiegazione dell’etichetta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?

 

RISPOSTA:

L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesseavrebbe volutovoleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.

  • Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;

  • L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida

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QUESITO:

Vorrei sapere se nella frase che segue è consentito l’uso della virgola prima della preposizione “per”, e se non sia il caso di inserire una virgola prima del “che” (anche in relazione alla presenza o assenza del termine “altrettanto”): “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che vedranno il nostro gruppo offrire servizi sempre migliori, per una crescita in linea con quelle che sono le richieste dei propri fornitori”.

 

RISPOSTA:

La virgola prima della subordinata introdotta da per è facoltativa; inserendola, poniamo la subordinata sullo stesso piano informativo della altre proposizioni. L’assenza o la presenza della virgola prima della proposizione relativa influisce sul significato della frase (nel primo caso si parla di relative limitative, nel secondo di relative esplicative: la rimando a quest’articolo per approfondire il tema). Nella frase esemplificata l’interpretazione più ovvia della relativa è quella limitativa perché l’informazione è determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa.
In generale, però, l’intera frase risulta appesantita da costrutti ridondanti (quelle che sono le richieste) e da costruzioni sintattiche poco chiare (vedranno il nostro gruppo offrire servizi). Le suggerisco, quindi, una possibile riscrittura: “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che permetteranno al nostro gruppo di offrire servizi migliori, per una crescita in linea con le richieste dei fornitori”.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nello scritto è più corretta la forma con il congiuntivo o l’indicativo: “Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti” oppure “Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti”?

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono ugualmente corrette, ma diverse. La prima è un periodo ipotetico del primo tipo, o della realtà, con l’indicativo sia nell’apodosi (la proposizione principale), sia nella protasi (la proposizione ipotetica); la seconda è un periodo ipotetico misto, con un’apodosi della realtà e una protasi del secondo tipo, o della possibilità. La scelta tra le due frasi dipenderà dal significato ricercato: con la prima l’ipotesi è rappresentata come fattuale, con la seconda la stessa ipotesi è rappresentata come possibile, eventuale, incerta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?

 

RISPOSTA:

Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?

 

RISPOSTA:

In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida

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QUESITO:

Il mio quesito è duplice. Mi farebbe piacere sapere se nella frase “Non feci in tempo a scansarmi che l’uomo in bicicletta mi travolse” ci troviamo di fronte a un caso di che polivalente. Io lo percepisco come tale e mi sentirei di segnalarlo e correggerlo in un tema. Non trovo però una forma valida con cui sostituirlo senza intervenire su tutta la struttura della frase, ad esempio “L’uomo in bicicletta mi travolse senza che potessi fare in tempo a scansarmi”. Più in generale mi chiedo spesso se i tratti di italiano neo-standard vadano corretti o accettati in ambito scolastico.

 

RISPOSTA:

In frasi come la sua il connettivo che è usato con una funzione esplicativo-consecutiva, che rientra tra quelle raggruppate sotto l’etichetta di che polivalente. La stessa funzione può essere ravvisata in frasi come “Tu esercitati, che prima o poi avrai successo”, o “Vieni che ti spiego tutto”. Quest’uso è certamente tipico del parlato di formalità medio-bassa (come suggerisce il senso stesso delle frasi esempio); la sua accettabilità nello scritto di media formalità, invece, oscilla in relazione alla sensibilità dei parlanti e alla costruzione dell’intera frase. Nella sua frase, per esempio, l’uso ha un’accettabilità più alta che negli esempi fatti da me, perché non fare in tempo che è un costrutto quasi cristallizzato (un costrutto pienamente cristallizzato di questo tipo è fare in modo che). Per la verità, un’alternativa del tutto standard (e per questo meno espressiva) alla costruzione che non richieda lo stravolgimento della frase esiste: “Non feci in tempo a scansarmi: l’uomo in bicicletta mi travolse”. La variante sintattica, si noti, rivela che il che polivalente è spesso un “riempitivo” coesivo per un collegamento logico che altrimenti rimarrebbe implicito; anche nei miei esempi, infatti, il che si può semplicemente eliminare (con l’effetto secondario di elevare il registro).
Anche per altri tratti del neostandard l’accettabilità dipende oltre che, ovviamente, dal contesto, dalla sensibilità dei parlanti e dalla costruzione dell’intera frase. Per esempio, una dislocazione a sinistra come “Questo argomento lo tratteremo la prossima volta” è più accettabile di “Di questo argomento ne parleremo la prossima volta”, perché anche se in entrambe le frasi la tematizzazione del costituente rafforza il collegamento con la frase precedente, nella seconda la ripresa pronominale non è necessaria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?

 

RISPOSTA:

Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entroentro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.

 

RISPOSTA:

L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta: “Sarà difficile che ti ricorderai di me” oppure “sarà difficile che ti ricordi di me”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Un evento futuro espresso con una proposizione completiva dipendente da una reggente al futuro o al presente può essere descritto con il congiuntivo presente (qui ricordi) o con l’indicativo futuro (qui ricorderai). Il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più adatta al parlato e allo scritto medio-basso. Per un approfondimento della questione si veda questa risposta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.

 

RISPOSTA:

In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi chiedo come fare l’analisi logica di frasi come questa: “La lezione dovrà essere interessante”. Il verbo _essere_fa da copula anche se accompagnato dal servile? O va considerato predicato verbale? Ma in quest’ultimo caso, l’aggettivo finale cosa sarebbe? Predicativo del soggetto?

 

RISPOSTA:

In analisi logica il verbo viene considerato per la sua funzione di predicato, non per la sua forma: il sintagma dovrà essere, pertanto, viene analizzato tutto insieme, perché svolge una funzione unitaria. Tale funzione è quella di copula, cioè di collegamento tra il soggetto e un suo completamento, che qui è rappresentato dall’aggettivo interessante, definito nome del predicato o parte nominale. Il sintagma complesso dovrà essere interessante è, quindi, un predicato nominale.
Si noti, a margine, che la parte nominale del predicato nominale è di fatto un tipo di complemento predicativo del soggetto; ha, infatti, la stessa funzione del predicativo del soggetto retto da verbi copulativi. In “Luca è simpatico” e “Luca sembra simpatico”, cioè, simpatico ha la stessa funzione di completare il soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.

 

RISPOSTA:

Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Maria traduce il testo dall’italiano all’inglese”. Che complementi sono dall’italiano e all’inglese?

 

RISPOSTA:

Sono, rispettivamente, complemento di origine o provenienza e complemento di moto a luogo figurato. Quest’ultimo può anche essere definito in questo caso complemento di destinazione, ma questa etichetta non rientra tra quelle più comunemente usate nei manuali di grammatica italiana (è usata, invece, per descrivere la funzione del caso dativo delle lingue antiche).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Espressioni come ne consegue ne deriva , o anche se ne desume, reggono il congiuntivo? Oppure l’Indicativo? O entrambi? In genere, quando scrivo preferisco, a livello di suono, il congiuntivo, non credo però ci sia una forma necessaria. Quale potrebbe essere più corretta?

 

RISPOSTA:

Queste espressioni impersonali reggono una proposizione soggettiva, che può essere costruita con l’indicativo o il congiuntivo. Il modo scelto non modifica il significato della frase, ma influisce sul registro: il congiuntivo è più formale e più adatto allo scritto medio-alto; l’indicativo è meno formale, quindi più adatto al parlato e allo scritto trascurato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto iniziare una frase, che non ne precede altre, con affinché?

 

RISPOSTA:

Sì, l’ordine delle proposizioni all’interno di una frase può variare, quindi una proposizione subordinata finale introdotta dalla congiunzione affinché può precedere la reggente, come nel seguente esempio: “Affinché la torta sia cotta [subordinata], il forno deve mantenere una temperatura di 150 gradi [reggente]”. Sarebbe sbagliato, invece, lasciare la subordinata sospesa, cioè senza la proposizione reggente; una frase come *Affinché la torta sia cotta risulterebbe priva di senso.
Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In grammatica, la posizione delle particelle pronominali è codificato da regole ben precise, oppure è libera e segue pertanto le preferenze del parlante?
In particolare, le costruzioni sotto indicate sono valide e caratterizzate dallo stesso grado di formalità?

1a) Posso parlarti?
1b) Ti posso parlare?
2a) Ti sto guardando
2b) Sto guardandoti
3a) Non ti muovere!
3b) Non muoverti!
4a) Ti sto venendo a cercare
4b) Sto venendoti a cercare
4c) Sto venendo a cercarti.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi riportate negli esempi sono corrette. I pronomi atoni (mi, ti, gli, lo ecc.) possono collocarsi, a seconda del modo verbale, prima o dopo il verbo: quando si trovano prima del verbo, i pronomi si chiamano proclitici (mi scrivi), quando stanno dopo il verbo, e quindi formano un’unica parola con esso, si chiamano enclitici (scrivimi).
Vediamo nel dettaglio perché tutti gli esempi da lei riportati ammettono questa doppia possibilità. Nelle frasi 1a e 1b l’infinito parlare è retto dal verbo servile potere; in questi casi, il pronome può seguire l’infinito, come nella frase 1a, oppure può precedere il servile, come nella frase 1b. Anche il verbo stare seguito dal gerundio, che indica un’azione nel suo svolgersi, ammette la doppia posizione del pronome atono; per questo motivo, le frasi 2a e 2b sono equivalenti. Il pronome può precedere o seguire il verbo anche quando la frase contiene un imperativo negativo, come nei casi di 3a e 3b; se, invece, la frase contenesse un imperativo affermativo il pronome potrebbe stare soltanto in posizione enclitica (muoviti). Le frasi 4a, 4b e 4c ammettono una triplice possibilità perché il verbo stare regge un verbo di moto (andare) che, a sua volta, regge un infinito preceduto da preposizione (a cercare): il verbo, quindi è andare a cercare. Per tali ragioni, il pronome può trovarsi prima o dopo la costruzione stare + gerundio (4a e 4b), oppure dopo l’infinito del verbo (4c).
Raphael Merida

Parole chiave: Coesione, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se la preposizione “a“ davanti a “cui“ può essere sempre omessa, o se, in determinati casi, l’ellissi possa determinare costruzioni errate.

1) La riflessione (a) cui vorrei portarti è questa…
2) La signora (a) cui ho chiesto un favore è tua sorella.

Sono molto curioso circa l’origine della regola, e soprattutto mi chiedo per quale ragione si applichi esclusivamente, se non vado errato, a questa preposizione semplice e non anche ad alcune delle altre.

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette (cui / a cui) perché nei due esempi cui assume la funzione di complemento di termine. L’oscillazione risale alla forma latina cui che significa ‘al quale’; a causa della possibile ambiguità generata dalla mancanza della preposizione, si è sentita l’esigenza di accostare al pronome cui la preposizione tipica del complemento di termine, cioè a. Per queste ragioni, la forma senza preposizione è considerata più formale di quella con la preposizione.
L’omissione riguarda anche la preposizione di in frasi come “Maria la cui bravura è proverbiale”, dove cui, posizionato fra l’articolo e il sostantivo, ha valore di complemento di specificazione (la frase, altrimenti, dovrebbe essere tradotta così: “Maria, la bravura della quale è proverbiale”). In casi come questo, fino all’Ottocento, la preposizione di era ammessa in una costruzione ormai uscita dall’uso, cioè il di cui.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si nota l’influenza dell’arte africana sulla sua opera.
Buonasera! In analisi logica, “l’influenza” è soggetto o oggetto? Ovvero “si nota” è passivante o impersonale? Inoltre mi permetto di chiedere che complemento sia “sulla sua opera”: luogo figurato?

 

RISPOSTA:

Nel suo esempio, il verbo è costruito con il si impersonale. Si nota assume la funzione di soggetto (è come se si intendesse “Qualcuno nota”), l’influenza è complemento oggetto, dell’arte africana complemento di specificazione, sulla sua opera complemento di stato in luogo figurato.
Per un approfondimento sul si impersonale / si passivante, la esorto a consultare l’archivio di DICO.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali fra queste due frasi è corretta?

Si sono create circostanze ed eventi che hanno portato…

Si sono creati circostanze ed eventi che hanno portato…

La mia intenzione è che il verbo creare comprenda sia circostanze che eventi.

 

RISPOSTA:

Quando due o più nomi sono sono di genere diverso, la norma prevede che l’accordo del participio (lo stesso vale per l’aggettivo) sia plurale maschile, quindi si sono creati circostanze ed eventi. In un caso come questo, però, in cui il primo nome è femminile, l’accordo risulta poco gradevole; tuttavia, questo problema può essere risolto ripetendo il participio: si sono creati le circostanze e si sono creati gli eventi; oppure, più economicamente, invertendo l’ordine dei nomi: si sono creati gli eventi e le circostanze.
Raphael Merida

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Non mi è chiaro perché, in una precedente risposta del 2020, nella frase sembrano guidare l’infinito corrisponde ad una soggettiva. Vi chiedo altresì indicazione di una grammatica che possa fugare dubbi del genere.

 

RISPOSTA:

La proposizione retta da sembrare non può che essere di tipo completivo, perché il verbo sembrare, come gli altri verbi copulativi, collega il soggetto con un suo completamento o sintagmatico (“I cavalli sembrano stanchi“) o, per l’appunto, proposizionale (“I cavalli sembrano essere stanchi“). Nel primo caso il sintagma che completa il predicato (detto nominale) è un complemento predicativo del soggetto, nel secondo caso la proposizione è una soggettiva.

Una grammatica che tratta casi di questo tipo è la Grande grammatica italiana di consultazione, in tre volumi, a cura di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti, Bologna, il Mulino (ultima edizione 2001).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.

 

RISPOSTA:

No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mariola porta di casail tavolo di legnomangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddodi caldodi famedi setedi gioia ed altre emozioni (di pauradi doloredi felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria freddaPer ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.

 

RISPOSTA:

sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

Quale delle seguenti è una forma passiva del verbo andare?
a) Io vado
b) Io sono andato
c) Andando
d) Nessuna delle precedenti; il verbo andare non ha la forma passiva

La risposta corretta è d. Il verbo andare non ha la diatesi passiva, come tutti i verbi intransitivi; non è possibile, infatti, rappresentare il processo dell’andare come subito da qualcuno o qualcosa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Quando rientrerà la mamma, sarò libera dall’impegno di badare al mio fratellino” di badare al mio fratellino è da considerarsi una subordinata dichiarativa (in quanto specifica il significato di impegno nella principale) oppure una finale?

 

RISPOSTA:

L’aggettivo libero è uno di quelli che possono reggere un argomento (come adatto adegno dipronto a). Quando l’argomento prende la forma di una proposizione, questa non può che essere considerata argomentale, per l’appunto. Tra le argomentali, la dichiarativa è quella che corrisponde più da vicino alle caratteristiche della proposizione così formata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

“Che ore sono?” è un’interrogativa diretta.
“Dimmi che ore sono” è un’interrogativa indiretta perché dipende da una principale.
Considerate queste premesse, la frase “Mi dici che ore sono?” Oppure “Puoi dirmi che ore sono?” ha il punto interrogativo e perciò non dovrebbe essere un’interrogativa indiretta, ma allo stesso tempo dipende da una reggente. Come la si può interpretare, dunque?
Stesso problema per: “Hai visto cosa ha fatto?”.

 

RISPOSTA:

Nella premessa c’è una imprecisione; una volta rettificata quella la risposta risulta subito evidente. Le frasi con la proposizione interrogativa indiretta non sono interrogative indirette, ma contengono una interrogativa indiretta. La proposizione che regge l’interrogativa indiretta può ben essere una interrogativa diretta, quindi richiedere il punto interrogativo alla fine; è quello che succede in “Mi dici che ore sono?”: Mi dici? è la proposizione principale, interrogativa diretta, che regge l’interrogativa indiretta che ore sono. Il punto interrogativo, in queste frasi, è legato alla principale, non alla subordinata. Lo stesso vale per “Puoi dirmi che ore sono?” e “Hai visto cosa ha fatto?”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere la differenza che c’è tra i due tempi verbali delle due frasi che seguono:

1. Ora Luca mangia un gelato;

2. Ora Luca sta scrivendo al computer.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi descrivono un evento che avviene mentre l’emittente sta parlando o scrivendo, quindi Luca mangia un gelato mentre io sto parlando, o Luca sta scrivendo al computer mentre io mangio. A differenza della prima frase all’indicativo presente (mangia), la seconda è costruita con la perifrasi progressiva stare + gerundio (sta scrivendo), che indica un processo in corso di svolgimento la cui durata si protrae oltre il momento in cui l’emittente si focalizza.
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nel periodo: “Avevo visto Mario e gli avevo chiesto di passare dal mio studio, ma non ha portato i documenti che avrei dovuto consultre” la coordinata avversativa ma non ha portato i documenti è da considerare legata alla coordinata copulativa e gli avevo chiesto oppure alla subordinata oggettiva di passare dal mio studio?

 

RISPOSTA:

La coordinata introdotta da ma è formalmente collegata alla coordinata alla principale e gli avevo chiesto; nessun elemento al suo interno, infatti, può collocarla su un piano della gerarchia sintattica diverso dal primo. Certo, se sottraessimo la subordinata oggettiva, il contenuto della seconda coordinata non sarebbe comprensibile (e gli avevo chiesto, ma non ha portato i documenti); questo, però, è un effetto della forza del legame di subordinazione completivo (quello che lega gli avevo chiesto e di passare dal mio studio), per il quale la reggente risulta incompleta senza la subordinata.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amicol’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?

 

RISPOSTA:

Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: illol’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?

 

RISPOSTA:

L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffapavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guidala guardiala persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaioarchitettoil presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio relativo all’analisi grammaticale degli aggettivi possessivi loro e altrui.
Essendo entrambi invariabili vorrei capire se nel momento in cui devo analizzarli è sufficiente scrivere “aggettivo possessivo invariabile” o se devo anche specificare maschile, femminile, singolare e plurale osservando il nome dell’oggetto posseduto.
Per esempio: “Le formiche portavano delle provviste nel loro formicaio”.
In questa frase devo scrivere: “aggettivo possessivo invariabile” o anche “maschile e singolare” perché si riferisce a formicaio, che è appunto maschile singolare? O lo devo analizzare come femminile plurale perché è riferito a formiche?

 

RISPOSTA:

La questione è duplice: bisogna capire con quale sintagma concorderebbe loro se fosse variabile e come è meglio descrivere tale accordo nell’ambito dell’analisi grammaticale. Per il primo punto possiamo servirci di uno stratagemma: osserviamo come si comportano gli aggettivi possessivi variabili in italiano, per esempio nella frase “Abbiamo preso il suo zaino”. Come si vede, la scelta dell’aggettivo è determinata dalla persona o cosa che detiene il possesso (nella frase lo zaino appartiene a una terza persona, quindi si usa l’aggettivo di terza persona singolare), ma la forma dell’aggettivo dipende dal nome accompagnato (nella frase suo concorda con zaino). Allo stesso modo, nella sua frase loro è scelto perché il possessore è una terza persona plurale (le formiche), ma se l’aggettivo fosse variabile concorderebbe con formicaio (e lo stesso vale per altrui). Per quanto riguarda la descrizione dell’aggettivo nell’analisi grammaticale, loro deve essere descritto come invariabile; a rigore, infatti, attribuire a loro un genere e un numero è scorretto, perché qualsiasi scelta non corrisponderebbe all’effettiva forma della parola (che, per l’appunto, non ha né genere né numero).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla corretta analisi del participio passato nella seguente frase: “Luigi è stato colpito da una tegola MOSSA dal vento”. il participio mossa lo considero come un predicato verbale che introduce un’altra proposizione di cui dal vento è una causa efficiente?
In altre parole, può un modo indefinito introdurre un predicato verbale? Ho consultato un paio di grammatiche ma ho sempre trovato esempi con modi finiti.

 

RISPOSTA:

Il participio passato e, in generale, una qualsiasi forma indefinita del verbo possono essere analizzati come predicato verbale (sebbene il participio possa fungere anche da sintagma nominale e aggettivale e l’infinito da sintagma nominale). Nel caso specifico, mossa equivale a che era (stata) mossa, quindi è il predicato verbale di una proposizione relativa implicita, completata dal complemento di causa efficiente dal vento.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

È corretto l’uso della virgola in una frase di questo tipo (dopo il verbo, prima del complemento oggetto ma in presenza di da una parte… dall’altra)?
“Il documento mostra, da una parte il tuo elaborato, dall’altra il mio”.

 

RISPOSTA:

La virgola va evitata, proprio perché separa il complemento oggetto dal verbo. In alternativa si può inserire la locuzione tra due virgole; a quel punto, però, per simmetria si dovrà fare lo stesso con la locuzione correlativa:
“Il documento mostra, da una parte, il tuo elaborato, dall’altra, il mio”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Parlerò soltanto con chi conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
“Non parlerò con chi non conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
Con chi parlerò?

 

RISPOSTA:

La relativa introdotta da chi ha un valore consecutivo (chi (non) conosca = ‘le persone tali da (non) conoscere’), che giustifica l’uso del congiuntivo. Il tempo del congiuntivo nella relativa è deittico, cioè allineato con il tempo extralinguistico: se il conoscere è presente o futuro (quindi comunque presente ai fini della scelta del tempo del congiuntivo) si dovrà usare il presente; se, invece, il conoscere è passato (“parlerò ora o domani con chi conoscesse ieri i principi essenziali”), si userà l’imperfetto. L’imperfetto, per la verità, potrebbe essere usato anche per il presente, perché chi (non) conoscesse può essere interpretato come se qualcuno (non) conoscesse; si tratterebbe, però, di un uso ambiguo e, in più, la sfumatura ulteriore di eventualità aggiunta dall’imperfetto sarebbe superflua. In questa risposta può trovare la spiegazione di un caso analogo al suo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.

 

RISPOSTA:

L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentaremostrareessere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In italiano, se scriviamo la data, per esempio:
Lunedì 18 maggio 2024
dopo lunedì si mette la virgola?

 

RISPOSTA:

Non c’è una regola codificata per questo caso. Procedendo per analogia, potremmo assimilare la data al nome proprio di una persona: 18 maggio 2024 equivarrebbe allora al nome e cognome della persona, mentre lunedì sarebbe un’apposizione, come signordottoravvocata o simili. Come in, per esempio, dottor Mario Rossi, quindi, la virgola in lunedì 18 maggio 2024 non è richiesta. Seguendo la stessa analogia, se posponiamo lunedì la virgola è necessaria: 18 maggio 2024, lunedì (come Mario Rossi, dottore).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nel Credo si dice:  «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?

 

RISPOSTA:

La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?

 

RISPOSTA:

L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice «ha constatato che il sig. X fosse presente» o «ha constatato che il sig. X era presente»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: quella al congiuntivo è più formale, ma quella all’indicativo è più comune. Nelle subordinate completive l’indicativo e il congiuntivo sono intercambiabili, sebbene con gradi di accettabilità differenti a seconda del verbo reggente e anche del fatto che vi sia o no la negazione, oltre che in base al grado di formalità. Con la negazione, per esempio, il congiuntivo è sempre preferibile: «Non ha constatato se X fosse presente». Con la negazione, tra l’altro, la completiva non è un’oggettiva, bensì una interrogativa indiretta, introdotta da se. Nelle frasi affermative, vi sono verbi che ammettono, e quasi prediligono, l’indicativo, quali constatare, appurare, dire, vedere, sentire (una frase come «sento che Luca sia affannato», ancorché non erronea, è al limite dell’inaccettabile, in un italiano comune); e verbi che invece preferiscono il congiuntivo (la maggior parte: volere, temere, credere, pensare, ritenere, dubitare, sognare…). In linea di massima, i verbi che esprimono una percezione diretta della realtà prediligono l’indicativo (tranne che con la negazione), mentre i verbi che esprimono un’ipotesi, un timore, una volontà e simili prediligono il congiuntivo. Oltre che dal grado di formalità, la presenza dell’indicativo o del congiuntivo nelle subordinate, dunque, non dipendono tanto dal grado di certezza (come erroneamente spesso si dice), quanto dalla percezione più o meno diretta. Se dipendesse dalla certezza, allora frasi come le seguenti sarebbero impossibili: «credo fermamente che Dio esista»; «ho sognato che volevi uccidermi», mentre invece sarebbero poco naturali «credo fermamente che Dio esiste» e «ho sognato che volessi uccidermi». Questo perché sognare si riferisce comunque al frutto di una percezione diretta, mentre il verbo credere (così come avere fede), pur non mettendo in dubbio il frutto di quanto viene creduto, lo esprime comunque con un verbo che indica una elaborazione del pensiero (come pensare).  

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Avrei bisogno di un chiarimento in seguito ad un diverbio per l’uso del verbo avere dopo la preposizione se.

Durante una conversazione riguardante una persona che dovrebbe unirsi a me e ad altre persone per un viaggio (persona con un atteggiamento poco incline al girare a piedi una città) è stata detta la seguente frase «certo, se avrebbe anche a Londra questa visione di visitare la città meglio che non venga», volevo sapere se «avrebbe» usato in questa maniera diciamo ipotetica può essere giusta o se si sarebbe dovuto usare «se avesse».

 

RISPOSTA:

La congiunzione (e non preposizione) se, in questo caso, introduce la protasi di un periodo ipotetico e dunque non può mai reggere un condizionale, ma soltanto un congiuntivo, oppure un indicativo: «se avesse… sarebbe meglio», «se ha… è meglio». Le ragioni dell’errore sono facilmente intuibili: il/la parlante coglie la dubitatività dell’evento e la esprime dunque la condizionale: «potrebbe avere anche a Londra questa visione… allora è meglio che non venga». Tuttavia, come ripeto, dato che il periodo è ipotetico, dopo se è ammissibile soltanto o l’indicativo o il congiuntivo, mai il condizionale. Peraltro, se si vuole rendere a pieno la modalità della protasi, in questo contesto, a metà tra il volitivo e l’epistemico, la soluzione migliore sarebbe la seguente: «Certo, se deve avere anche a Londra questa visione di visitare la città, è meglio che non venga per niente».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».

Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.

La frase, parafrasata, sarebbe questa:

«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».

Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nel linguaggio, spesso frettoloso e trascurato, della messaggistica, ho ravvisato esempi del genere:

1) Visto due film, stasera: spettacolari.

2) Fatto. Comprato pane e marmellate.

Si tratta evidentemente di due casi in cui si è scelto di omettere l’ausiliare coniugato.

(Ho) visto due film. (Ho) comprato pane e marmellate.

Innanzitutto, vi domando se le costruzioni così presentate sono corrette.

Se si volesse unire l’economicità della comunicazione, che sembra essere fondamentale in questo contesto, con il rispetto della sintassi, si potrebbe optare, secondo voi, per il compromesso di flettere il participio passato secondo il genere e il numero?

Dal punto di vista della brevità (e dell’immediatezza) non ci sarebbero differenze.

3) Visti due film, stasera: spettacolari.

4) Fatto. Comprati pane e marmellate.

 

RISPOSTA:

Entrambe le costruzioni (visto/visti, fatto/fatti) sono corrette, ma non v’è dubbio sulla maggiore formalità della seconda, che dunque è da preferire. Infatti, mentre nel primo caso («visto due film», «comprato pane e marmellate») l’unico modo per giustificare la presenza del participio passato è quello di ricorrere all’ellissi dell’ausiliare, col risultato di ottenere una frase telegrafica e, in quanto tale, traballante, assolutamente da evitare nello stile anche di media formalità, nel secondo caso, invece, il participio passato al plurale, e cioè accordato col soggetto di una frase passiva («sono stati visti due film», «sono stati comprati pane e marmellate»), è perfettamente standard e adatto a qualunque contesto, interpretabile come costrutto implicito, senza bisogno di invocare l’ellissi dell’ausiliare. Tant’è vero che le stesse proposizioni potrebbero trovarsi come subordinate implicite: «visti due film, sono poi andato a letto»; «comprati pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione». La stessa possibilità è negata al participio singolare maschile, che in questo caso sarebbe agrammaticale: *«visto due film, sono poi andato a letto»; *«comprato pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione»

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:

L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.

Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?

 

RISPOSTA:

Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nel seguente esempio la proposizione che inizia con dovreste esprime una possibilità, giusto?

Non mi pare che dovreste avere troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note (M. Morazzoni).

È possibile formulare la proposizione senza dovere (“Non mi pare che avreste troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note”)?

Un altro esempio: “Penso che Mario potrebbe uscire stasera” (possibilità); se cambio la frase con “Penso che Mario uscirebbe stasera” dovrei esplicitare una condizione, ad esempio se avesse tempo?

Nella frase “Io penso che dovremmo tenerla unita, questa fortuna, tenere insieme i figli, e le donne e noi stessi, tutti insieme” (U. Riccarelli), mi sembra che dovremmo esprima in modo cordiale un consiglio invece che una possibilità. Per questo tipo di completiva penso che sia necessario usare dovere, potere, o volere e non sarebbe possibile scrivere la proposizione senza un verbo servile; giusto?

 

RISPOSTA:

I verbi servili aggiungono sempre una sfumatura di significato al verbo che reggono. Nella prima frase, dovreste rappresenta il non avere difficoltà come ipotizzato dall’emittente, quindi che il parlante è incerto se quello che sta dicendo si avvererà. Il condizionale, in questo caso, non è legato a una premessa, ma esprime il dubbio dell’emittente (come se nella frase fosse sottinteso se avessi ragione, se la mia idea fosse corretta o simili). Se eliminiamo il verbo servile, viene meno la sfumatura ipotetica; avreste indicherebbe che il non avere difficoltà è la conseguenza di una premessa. Tale premessa dovrebbe essere esplicitata, altrimenti la frase rimane in sospeso. Lo stesso vale per la seconda frase: come da lei proposto, il servile potere rappresenta l’uscire come potenziale; senza il servile, uscirebbe diviene la conseguenza di una premessa che deve essere esplicitata.

Nella terza frase, dovremmo esprime ancora un’ipotesi dell’emittente; visto il significato della frase, però, in questo caso l’ipotesi è interpretata automaticamente come un auspicio, quindi anche come un invito all’interlocutore a realizzare il contenuto della frase. Anche qui senza il verbo servile il tenerla unita e le altre azioni diventerebbero conseguenze di premesse che devono essere esplicitate. Ovviamente, se sostituiamo dovere con un altro verbo servile il significato della frase cambia: con potere l’invito si trasforma in una possibilità, con volere in un desiderio.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Se ho un discorso diretto interrotto da un inciso, come “Prendi il libro”, disse la mamma, “E mettiamoci al lavoro”, è necessario scrivere la e maiuscola anche se la frase è iniziata nel discorso diretto precedente?

 

RISPOSTA:

Non è necessario, proprio in considerazione del fatto che il discorso continua dal blocco precedente. Anche l’uso della maiuscola, del resto, non può dirsi scorretto, visto che si tratta comunque di un blocco di discorso diretto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho un dubbio su questa frase: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e app».

È corretto indicare «altri» al maschile anche se app è al femminile? Oppure è meglio dire: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e le altre app»? Qual è la regola grammaticale al riguardo?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda è più formale. L’italiano prevede il maschile sovraesteso in caso di due o più elementi di genere diverso. Certamente, però, la forma «gli altri servizi e le altre app» è preferibile, soprattutto perché, nel caso di due soli elementi, non allunga troppo il testo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su due frasi:

1) per me hai ragione tu

2) si studia per sé e non per gli insegnanti

 

RISPOSTA:

L’analisi logica delle due frasi è la seguente: 1) hai ragione: predicato verbale; tu: soggetto; per me: complemento di limitazione. 2) Il periodo è composto da due proposizioni; una reggente e una coordinata. Analisi logica della reggente: si studia: predicato verbale; per sé: complemento di vantaggio; e non (si studia): predicato verbale sottinteso; per gli insegnanti: complemento di vantaggio.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Mario è nato al rombo del cannone” o “Mario era nato al rombo del cannone”? A mio parere la prima espressione è corretta a patto che Mario sia ancora in vita, la seconda invece è da preferirsi qualora Mario sia ormai defunto. Vorrei sapere se questa mia opinione è corretta.

 

RISPOSTA:

La sua interpretazione, ancorché non del tutto priva di qualche intuizione, è troppo rigida e quindi, sì, infondata nella sua assolutezza. Sebbene il passato prossimo indichi di norma una conseguenza o una ricaduta (talora in verità più teorica, o “pragmatica”, che reale) dell’azione al passato sul tempo presente, e il remoto tenda a escludere, invece, tale ricaduta, i due tempi sono ampiamente intercambiabili in italiano (tranne che per verbi dal significato decisamente durativo, non puntuale, quali capire e sentire in espressioni quali hai capito, hai sentito e simili, decisamente substandard, o regionali, se al passato remoto in certi contesti: *capisti, *sentisti e simili), con una maggiore formalità per il passato remoto. Quindi, anche per una persona defunta, posso ben dire, per esempio: «Giacomo Leopardi è nato a Recanati» (e non necessariamente «nacque»). Quanto al trapassato prossimo, esso implica di norma il rapporto di anteriorità rispetto ad altro evento sempre al passato. Nel suo esempio, peraltro sempre corretto, dunque, «era nato» non ha nulla a che vedere col fatto che Mario sia morto o vivo e vegeto, bensì con l’eventuale prosecuzione del discorso, al passato, con altre azioni o eventi legati a Mario: «era nato al rombo del cannone mentre era in corso la seconda guerra mondiale».

Fabio Rossi

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QUESITO:

1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.

 

RISPOSTA:

La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida

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QUESITO:

Una giornalista, alla radio, ha detto: «Era un artista che metteva tutti i suoi discepoli a proprio agio». Forse sono troppo pedante, fossilizzandomi sulle regole della sintassi e trascurando così il messaggio che il parlante voleva chiaramente suggerire, o, forse, sono io a essere in errore; ma quell’aggettivo, proprio, non dovrebbe riferirsi al soggetto?

Se così fosse, il significato della frase sarebbe alquanto bizzarro: l’“agio” sarebbe stato dell’artista stesso invece che dei discepoli di quest’ultimo. Al posto della giornalista, avrei detto «a loro agio».

 

RISPOSTA:

Ha perfettamente ragione, proprio è un errore, perché può riferirsi soltanto al soggetto della proposizione nella quale è inserito. Viceversa, a volte in luogo di proprio è ammesso anche loro, se non genera equivoci: «gli studenti, con le loro brave cartelle sulle spalle» (o «proprie cartelle»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».

La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.

La costruzione è corretta?

 

RISPOSTA:

No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.

Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

  1. Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.

Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.

  1. Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
  2. Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.

 

RISPOSTA:

La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le mogli litigano con i mariti.

Le fidanzate ballano con i fidanzati.

Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.

Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.

È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.

Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?

Le donne litigano con i (propri) mariti.

Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.

Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…

Quali soluzioni suggerireste?

 

RISPOSTA:

L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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QUESITO:

Vorrei chiedere un parere su questa frase: “Io da piccolo ero geloso di mio cugino, ma con il passare degli anni noi abbiamo creato un legame che oggi è saldo. Nel 2021 lui aveva subito un incidente e sua moglie non mi aveva avvisato, lo avevo saputo solo quando i vicini mi informarono. Andai subito a trovarlo.”
Non si dovrebbe usare solo il passato remoto (subì, avvisò, seppi)?

 

RISPOSTA:

No, perché il trapassato prossimo serve a indicare un evento passato rispetto a un altro, anch’esso passato. In questo caso l’evento dell’incidente è trapassato perché è precedente all’altro evento, quello dell’informare.
Raphael Merida

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Gradirei sapere quale dei due termini che vi proporrò è il più adeguato per definire la seguente condizione: vi sono delle perdite di acqua in un appartamento, il muro è fessurato eccetera. Orbene, definendo questa situazione, è più corretto parlare di problemi edilizi o architettonici oppure entrambi i termini sono corretti?

 

RISPOSTA:

Più che un dubbio linguistico il suo esempio riguarda un problema ingegneristico. Perdite d’acqua o fessurazioni nel muro, infatti, possono coinvolgere sia l’edilizia sia l’architettura e per definire con precisione il problema sarebbe bene conoscerne la natura attraverso un’analisi dettagliata. Sia la parola edilizia sia la parola architettura richiamano il concetto di ‘tecnica e arte della costruzione di edifici’, ma la prima si concentra sulla costruzione fisica dell’edificio e la seconda sull’estetica e sulla funzionalità degli spazi. A prima vista, si potrebbe dire che i problemi di infiltrazione o di fessurazione nel muro siano più legati a un problema edilizio. Tuttavia, se le fessurazioni sono il risultato di una cattiva progettazione strutturale, potrebbe trattarsi di un problema architettonico, e quindi potrebbe sovrapporsi al problema edilizio. In conclusione, non è possibile assegnare un aggettivo adeguato in base a un contesto così generico.
Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È possibile dire «Vorrei che faccia» invece che «Vorrei che tu facessi»? È corretto pensare che il congiuntivo presente dia al mio desiderio una sfumatura di maggiore cogenza, un senso imperioso? Normalmente, da quello che trovo anche nelle grammatiche, si usa il congiuntivo imperfetto nella subordinata, poiché l’evento è dato come realizzabile solo se si attua il mio desiderio. Ma nel caso in cui io parlante intenda il mio vorrei come ‘obbligo’, e usi il condizionale solo in quanto formula di cortesia, è accettato il congiuntivo presente? In sintesi: è un vero e proprio errore usare il congiuntivo presente nella frase citata in apertura, o si tratta di una forma poco usuale, ma in alcuni casi prevista e possibile? Si tratta di un problema di grammatica o di semantica?

 

RISPOSTA:

Come spesso accade, di errori veri e propri nella lingua ve ne sono pochi; il più delle volte si tratta di varietà, improprietà, sfumature. In questo caso, se non errato, l’uso del presente congiuntivo in associazione col condizionale presente, possibile in astratto, è improprio e decisamente minoritario (nelle persone colte), sia per ragioni semantiche, sia per ragioni grammaticali, o per meglio dire di analogia con altri costrutti che associano congiuntivo a condizionale. Dal punto di vista semantico, come giustamente ricorda lei, la spiegazione che si dà al condizionale è che il parlante/scrivente «mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63). Può trovare approfondimenti al riguardo in numerose altre domande di DICO, riassunte qui. Quel che più conta, però, è l’uso dei parlanti e degli scriventi, più che le loro eventuali intenzioni recondite. Nell’uso comune, quando compare il condizionale presente nella reggente, scatta quasi sempre l’uso combinato del congiuntivo imperfetto. Perché? Evidentemente per via del costrutto che più d’ogni altro (come frequenza d’uso) combina i due modi e tempi, vale a dire il periodo ipotetico del secondo tipo (il più frequente dei periodi ipotetici): «verrei se potessi» (e non «se possa»!). Per questa ragione, i parlanti e gli scriventi colti (e conseguentemente le grammatiche) associano all’uso combinato di condizionale presente più congiuntivo presente un valore di estrema trascuratezza, prossimo all’errore. La giustificazione che lei dà dell’opzione del congiuntivo presente è ineccepibile, ma logicistica: le lingue non funzionano con astratte logiche a posteriori, bensì in base a consuetudini consolidate.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta? 

 

RISPOSTA:

No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.

Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si dice “L’idea che era scomparso o che fosse scomparso mi rendeva triste”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette: si tratta soltanto di una differenza diafasica, cioè l’indicativo è meno formale, il congiuntivo più formale.
Può approfondire l’argomento, molto presente nel nostro Archivio, digitando nel campo di ricerca “indicativo congiuntivo”.
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Tra i vari usi del condizionale troviamo anche quello, tipico del linguaggio giornalistico, di illustrare un fatto ipotetico, di cui non si ha pertanto elementi che possano attestare il suo essersi verificato.

Ho però notato che talvolta si tende a costruire interi periodi con questo modo verbale, trasformando tutte le azioni descritte come dubbie, anche quelle che, al contrario, sono oggettive.

Mi spiego con un esempio.

“Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005 quando avrebbe ricoperto il ruolo di assessore.”

Se non è sicuro che Tizio abbia affermato qualcosa in quel periodo di tempo (di qui l’impiego inappuntabile del condizionale), è certo che Tizio abbia (o ha) ricoperto, in quegli anni, il ruolo di assessore.

La subordinata temporale non avrebbe dovuto essere costruita con l’indicativo?

 

RISPOSTA:

Ha ragione. I giornalisti abusano del condizionale di distanziamento al punto da estenderlo spesso arbitrariamente anche a contesti nei quali andrebbe usato l’indicativo, dal momento che non v’è alcun dubbio sulla veridicità o oggettività dell’evento riportato.

L’esempio da lei riportato andrebbe corretto come segue (con l’imperfetto, però, data la continuità nel passato): «Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005, quando ricopriva il ruolo di assessore».

Più che di eccesso di scrupolo e ci cautela, ovvero la volontà di non sbilanciarsi nel dare per veritiere notizie ancora non provate, direi che agisca qui la forza dell’abitudine e della stereotipia: il condizionale viene associato (dalle penne meno esperte) così stabilmente allo stile giornalistico da divenirne un contrassegno (quasi ipercorrettistico) anche praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se la costruzione implicita «Spero di incontrarci» possa essere giudicata, in astratto, corretta, o almeno accettabile, quale alternativa alla certamente più comune «spero che possiamo incontrarci». Considerando che i soggetti di principale e subordinata coincidono, non dovrebbe essere, a rigore, una soluzione valida?

 

RISPOSTA:

La costruzione implicita non è corretta perché non vi è identità di soggetto tra reggente e completiva: il soggetto della reggente, infatti, è io, mentre quello della completiva è noi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho letto il contributo sulla vostra pagina sull’argomento «a condizione che» (qui) e mi sarei interessato perché non avete consigliato il congiuntivo trapassato nella terza frase: «casomai avesse studiato molto avrebbe superato l‘esame». Secondo me si tratta del 3. grado ipotetico.

 

RISPOSTA:

Se si vuole esprimere l’irrealtà, va usato certamente il periodo ipotetico del terzo tipo; si dà cioè per scontato (si presuppone) che non ha studiato molto: «Se avesse studiato molto avrebbe superato l’esame». Va precisato, però, che questo periodo ipotetico funziona perfettamente con se (che è la congiunzione ipotetica, o condizionale, per antonomasia), ma funziona meno bene con gli altri connettivi (dunque non del tutto sinonimici) quali a patto che, a condizione che, purché, caso mai (o casomai), i quali si conciliano meglio con il periodo ipotetico dei primi due tipi. Purché, per esempio, si adatta soprattutto a contesti al congiuntivo presente: «leggi i fumetti, purché tu legga»; casomai (quando è usato come congiunzione e non come avverbio) si usa quasi esclusivamente all’imperfetto congiuntivo: «casomai passassi da Messina, fammi uno squillo». Non a caso, se consulta la banca dati repubblica.it, scopre che la grande maggioranza dei casomai ha valore avverbiale («Più controlli (casomai armati) o più educazione»); nei rari casi di casomai congiunzione ipotetica, essa è costruita praticamente sempre soltanto con il congiuntivo imperfetto («Accetto suggerimenti, casomai mi ricapitasse»).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».

 

RISPOSTA:

La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Iniziò tutto un anno fa: ero solo e lei venne a parlarmi. Quest’inverno lei mi è stata vicina».

Non sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo visto che questo legame continua?

 

RISPOSTA:

L’esempio è ben scritto sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Con il passato remoto il livello stilistico si innalza: non a caso, il passato remoto è il tempo tipico dei testi narrativi letterari (racconti, romanzi ecc.). È senza dubbio vero che il passato prossimo, a differenza del remoto, serve a indicare una conseguenza dell’azione nel presente, tant’è vero che sarebbe quasi inaccettabile una frase come «Quest’inverno lei mi fu vicina», poiché ci si aspetta una conseguenza di quella vicinanza (per esempio lo sbocciare di una storia d’amore, il consolidarsi di un’amicizia e simili), ancor più evidente per via del deittico questo. Diverso sarebbe «Lo scorso inverno mi fu vicina»: da una frase del genere non mi aspetto le conseguenze dell’evento. È vero altresì che non è bene passare dal passato remoto al passato prossimo (o viceversa), senza un’effettiva necessità. Tuttavia, l’attacco del periodo («Iniziò tutto un anno fa») e anche il suo seguito immediato («venne a parlarmi») sembrano qui indicare un evento preso nel suo isolamento, anche indipendentemente da quel che segue. Nella frase successiva è come se il discorso riprendesse da capo. Se si vuole ottenere una maggiore contiguità tra gli eventi si può volgere tutto al passato e al trapassato prossimo: «È iniziato (o Era iniziato)… è venuta (o era venuta)». Devo dire però che il passato remoto ben si presta, come già detto, allo stile letterario e a quel distacco temporale tipico dell’incipit dei romanzi e dei racconti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Pongo il seguente quesito. Nella frase “il gatto gli balzò addosso”, il termine “addosso” è da considerarsi avverbio o preposizione impropria riferita a “gli”? Io lo interpreto come avverbio e quindi penso a due complementi diversi in analisi logica, ma la presenza della particella pronominale prima del verbo mi pone qualche imbarazzo. Il problema si ripresenta in frasi come: “il bambino gli andò incontro; gli saltò sopra; gli rimase dietro; le mise sopra un cappello” e simili. Voi come lo interpretate?

 

RISPOSTA:

I casi portati a esempio rientrano nella tipologia dell’estrazione della preposizione nei casi di locuzione formata da preposizione polisillabica (o impropria, secondo la grammatica tradizionale) e preposizione semplice (cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 1988, vol. I, pp. 524-528; si veda anche la voce Preposizione, curata da Hanne Jansen, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2011, liberamente accessibile online nel sito treccani.it). L’estrazione consiste in questo: in determinate condizioni (per es. in presenza di clitico, o particella pronominale atona), viene eliminata (tecnicamente, estratta; o meglio: viene estratto il sintagma preposizionale, ovvero il complemento: gli = a lui ecc.) la preposizione semplice, mentre il clitico viene anticipato: «il gatto balzò addosso a lui» > «il gatto gli balzò addosso». Quindi addosso, in questo caso (oppure incontro, dietro, contro, accanto ecc.) è una preposizione e non un avverbio. Dunque vi è un solo complemento, non due.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “È meglio ridere che piangere” il soggetto è ridereè meglio è predicato nominale e che piangere è proposizione comparativa?

 

RISPOSTA:

Nella frase, o consideriamo entrambi gli infiniti sostantivati, quindi ridere è soggetto e che piangere è complemento comparativo (o secondo termine di paragone), oppure consideriamo entrambi verbi, quindi ridere è una proposizione soggettiva e che piangere è una proposizione comparativa.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla seguente frase: “Non vorrei che dopo siamo in troppi”. È preferibile usare il congiuntivo imperfetto, ma la frase è comunque corretta, oppure è sbagliata?

 

RISPOSTA:

In questa frase agiscono due ragioni contrarie: da una parte ci si aspetta “Non vorrei che dopo fossimo in troppi”, perché i verbi di desiderio al condizionale presente richiedono il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva (per un approfondimento su questa norma si veda qui); dall’altra l’avverbio dopo sottolinea la posteriorità dell’essere rispetto al volere, e questo rinforza la legittimità del congiuntivo presente con funzione di proiezione nel futuro. Da queste premesse si può ricavare, come soluzione ragionevole, che l’imperfetto è comunque la soluzione oggi considerata preferibile, ma il presente è giustificabile (anche se sarebbe visto con sospetto da molti parlanti, quindi dovrebbe essere riservato a contesti informali).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?

 

RISPOSTA:

A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?

 

RISPOSTA:

Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anchesoltantoneanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasisempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se entrambe le soluzioni riportate di seguito sono corrette, oppure se ve ne sia una meno formale rispetto all’altra:
È una sfumatura semantica che risulta difficile cogliere.
È una sfumatura semantica che risulta difficile da cogliere.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono possibili e praticamente equivalenti dal punto di vista semantico; la prima, però, ha una costruzione sintattica intricata, per quanto del tutto comprensibile e ammessa dalla grammatica.
L’intrico dipende dalla natura della proposizione che cogliere, contemporaneamente relativa e soggettiva; da una parte, infatti, che riprende il sintagma una sfumatura semantica (quindi introduce una relativa), dall’altra la proposizione funge da soggetto di risulta difficile (quindi è una soggettiva). Per evidenziare questa sovrapposizione di funzioni, potremmo parafrasare questa parte della frase con cogliere la quale risulta difficile.
La seconda frase è più lineare dal punto di vista sintattico: che è il soggetto della proposizione relativa che risulta difficileda cogliere è una proposizione completiva assimilabile a una oggettiva, retta dall’aggettivo difficile. Non è facile associare le due frasi a determinati registri: in linea generale, mentre la seconda è adatta a tutti i contesti, la prima è più adatta a contesti medio-alti, soprattutto scritti, per via della complessità della costruzione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito digrazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?

 

RISPOSTA:

La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.

La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Incontro difficoltà nel collocare le virgole in questa costruzione:
“Marco accusa Paolo che accusa Luigi che fa finta di niente”.
Mi verrebbe spontaneo inserire soltanto una virgola, dopo Luigi: “Marco accusa Paolo che accusa Luigi, che fa finta di niente”, ma al tempo stesso mi domando se non servirebbe anche dopo Paolo: “Marco accusa Paolo, che accusa Luigi, che fa finta di niente”.

 

RISPOSTA:

La soluzione corretta è quella con due virgole: entrambe le relative, infatti, sono per forza esplicative, perché i nomi propri sono fortemente determinati e possono essere ulteriormente identificati con una relativa limitativa soltanto in condizioni speciali (per esempio “Ho incontrato quel Paolo che fa il barista a Modena”).
Maggiori informazioni sulle relative limitative ed esplicative possono essere ricavate qui.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?

 

RISPOSTA:

No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere a quale persona si riferisce il pronome _questi _nella seguente frase:
“Con l’acquisto operato dal donante, Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e questi con atto del 2002 enunciava che il trasferimento avveniva nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava il cespite”.

 

RISPOSTA:

In base alle regole del riferimento anaforico questi riprende (o è coreferente con) Tizio, ovvero quello tra i due possibili antecedenti (Caio e Tizio) che non è il soggetto della proposizione reggente (Con l’acquisto Caio trasferiva lo stesso bene con i relativi confini). Per riprendere il soggetto di una proposizione reggente, infatti, bisogna usare l’ellissi del soggetto; per riprendere Caio nella coordinata, quindi, la frase avrebbe dovuto essere “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e con atto del 2002 enunciava…”. Esiste un’alternativa all’ellissi per riprendere il soggetto della reggente, ma non è questi, bensì un pronome esplicito come lo stesso (preferibilmente completato dal nome): “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e lo stesso Caio con atto del 2002 enunciava…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Coerenza, Nome
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QUESITO:

Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?

 

RISPOSTA:

I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?

 

RISPOSTA:

In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi diservirsi di, contare suobbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Marioil cancello della scuolal’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcunoobbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.

 

RISPOSTA:

Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.

Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:

1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;

2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.

Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.

Ora si osservino queste due frasi:

3. Dieci persone sono venute alla festa;

4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.

In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.

Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.

Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:

5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!

6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!

Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.

7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.

8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.

Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?

 

RISPOSTA:

I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È sbagliato far seguire il congiuntivo presente all’espressione come se, oppure è obbligatorio l’imperfetto?
“Ne parli come se sia colpa mia!”
“Apri le finestre come se faccia caldo”.
È possibile omettere se fosse senza alterare il significato della frase dal punto di vista temporale?
“Carlo cammina come se fosse un ubriaco che non riuscisse a reggersi in piedi”.
“Carlo cammina come un ubriaco che non riuscisse / riesca a reggersi in piedi”.
La seconda alternativa conserva la stessa sfumatura ipotetica oppure colloca l’azione nel passato?

 

RISPOSTA:

La proposizione comparativa ipotetica, introdotta da come se, presenta un evento ipotetico che somiglia a quello descritto nella reggente e che potrebbe, pertanto, spiegarlo. L’ipoteticità dell’evento presentato richiede una costruzione che ricalca quella della proposizione ipotetica, ovvero il congiuntivo imperfetto per la possibilità, il congiuntivo trapassato per l’irrealtà. L’irrealtà, si noti, corrisponde in questa proposizione all’atteggiamento di incertezza dell’emittente riguardo alla somiglianza tra gli eventi); ad esempio: “Rispose come se avesse paura” (l’avere paura è presentato come potenzialmente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, spiegarlo), “Rispose come se avesse avuto paura” (l’avere paura è presentato come incertamente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, essere preso in considerazione tra le spiegazioni possibili).
Per quanto riguarda le due frasi confrontate, la prima presenta una comparazione ipotetica, la seconda presenta una comparazione oggettiva; con la prima, pertanto, l’emittente è più cauto nell’accostare il modo di camminare di Carlo a quello di un ubriaco. In ogni caso, la rappresentazione della comparazione non condiziona la costruzione della proposizione relativa (che non riesca / riuscisse). Questa proposizione può essere costruita nella prima e nella seconda frase tanto con il presente quanto con l’imperfetto; nel primo caso il riuscire è semplicemente rappresentato come presente, nel secondo si aggiunge una sfumatura ipotetica, conferita dalla sovrapposizione tra che non riuscisse e se non riuscisse.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadrettia losanghea pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti afuori dainvece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“I bambini dovranno allegare un file in formato pdf, elaborato secondo lo schema allegato, contenente l’elenco dei disegni trasmessi, in pdf non modificabile, di seguito indicati:”
Nella frase precedente è il file contenente l’elenco che deve essere in pdf non modificabile, o ciascuno dei disegni?

 

RISPOSTA:

Il sintagma in pdf non modificabile non può che essere interpretato dal lettore come retto da disegni, perché si trova tra disegni e di seguito indicati, che è inequivocabilmente concordato con disegni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.

L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.

 

RISPOSTA:

Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Stringo la coppa tra le mani” che funzione logica ha il sintagma tra le mani? Indica uno stato in luogo o un complemento di mezzo?

 

RISPOSTA:

Indica uno stato in luogo, ma l’interpretazione come complemento di mezzo è legittima. Non è raro che un’indicazione di luogo sia ulteriormente interpretabile come informazione circa un mezzo. Succede, per esempio, in espressioni come in trenoin macchinain bicicletta…: in una frase come “Vado a scuola in bicicletta”, infatti, il complemento introdotto da in indica il luogo in cui mi trovo mentre vado a scuola, ma quel luogo ha anche la funzione del mezzo con cui copro il tragitto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Può essere ritenuto corretto (o almeno non scorretto) un uso della virgola dopo espressioni come a seguire e al termine?
Ad esempio: “Al termine, consegna della medaglia al vincitore”, “A seguire, assegnazione di una borsa di studio al miglior studente”.

 

RISPOSTA:

La virgola non è affatto scorretta; al contrario, è preferibile inserirla. In generale, i sintagmi che hanno la funzione di espansioni (ovvero contengono informazioni che non sono collegate al verbo o a un singolo argomento del verbo, ma riguardano l’intera frase) e sono inseriti all’inizio della frase vanno separati con la virgola dal resto della frase. Se, invece, le espansioni si trovano in coda, la virgola è opzionale: “Consegna della medaglia al vincitore al termine” / “Consegna della medaglia al vincitore, al termine”. L’inserimento della virgola accentua la rilevanza informativa dell’espansione. Se, infine, la frase lo consente, l’inserimento dell’espansione al centro della frase richiede tipicamente la separazione dal resto della frase con le virgole di apertura e chiusura: “La medaglia sarà consegnata, al termine, al vincitore”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.

 

RISPOSTA:

La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?

 

RISPOSTA:

La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

Quale complemento rappresenta il sintagma introdotto da in base a nella seguente frase?
“È necessario agire in base alle esigenze del volgo”.

L’analisi logica non permette di classificare con la stessa precisione tutti i sintagmi possibili, nonostante la tipologia sia ricca (secondo alcuni persino troppo ricca). Nel caso in questione, il complemento più vicino alla funzione sintattico-semantica svolta dal sintagma in base alle esigenze è quello di causa, visto che si può parafrasare il sintagma con ‘in modo che il nostro agire sia l’effetto di’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.

 

RISPOSTA:

Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.

Fabio Ruggiano

Francesca Rodolico

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QUESITO:

Leggendo in rete questa frase: “Michelangelo disegnava la lista della spesa siccome la sua domestica era analfabeta”, mi sono imbattuto in un commento che criticava l’uso della congiunzione causale (siccome può essere usato soltanto a inizio frase). Dal momento che mi sembra una vera e propria regola fantasma, approfitto del portale per chiedere se ciò sia vero o meno.

 

RISPOSTA:

Possiamo definirla una regola fantasma per due ragioni: 1. non c’è una vera e propria restrizione dell’uso di siccome in tutte le posizioni, per quanto questa congiunzione in contesti formali preferisca una certa posizione; 2. la posizione preferita della congiunzione non è a inizio frase, cioè prima della principale, ma prima della reggente, anche quando quest’ultima segue la principale (si pensi a una frase come “Sono stanco di sentire che siccome sono basso non posso giocare a pallacanestro”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio nato da questa conversazione:
Tizio: «Ho una brutta notizia da darti?»
Caio: «Perchè? Ne hai anche (di) belle?
In questo caso il di è di troppo e quindi impossibile?

 

RISPOSTA:

Innanzitutto non sempre un sintagma di troppo è impossibile. Nella lingua d’uso comune è frequente l’inserimento nelle frasi di sintagmi superflui dal punto di vista sintattico, ma utili sul piano testuale o comunicativo (per esempio perché enfatizzano la partecipazione emotiva del parlante). In altri casi ancora il sintagma superfluo deriva dall’attrazione di un altro elemento della frase, ma rimane giustificabile perché non rende la frase ambigua e, anzi, la sua sottrazione rende la frase meno naturale. In questo caso il di è superfluo per attrazione, perché serve a costruire un sintagma partitivo non necessario attratto dall’altro sintagma partitivo presente nella frase, costruito con ne. La domanda, in altre parole, si può parafrasare così: “Hai anche alcune tra le notizie tra quelle che sono belle?”, mentre è sufficiente “Hai anche alcune tra le notizie che sono belle?” (ovvero “Ne hai anche belle?”). La domanda, pertanto, può ben essere costruita come “Ne hai anche belle?”. L’inserimento di di, però, non danneggia in alcun modo la sintassi e, per la verità, si può anche giustificare sul piano sintattico: in teoria, infatti, le notizie belle sono un sottogruppo delle notizie, per cui è possibile indicare le notizie possedute dall’interlocutore come una parte delle notizie belle, che a loro volta sono una parte delle notizie.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

In una comunicazione e scritta e meglio usare il presente o il futuro per riferirsi al futuro? Ad es. “I genitori possono/potranno partecipare all’iniziativa organizzata per domani, recandosi… Se per esigenze particolari non si riesce/non si dovesse riuscire a rispettare l’orario indicato, si può/potrà avvisare telefonicamente….”.
Chiedo anche se la punteggiatura va bene.

 

RISPOSTA:

Per descrivere un evento futuro si può ovviamente usare l’indicativo futuro; si può, però, usare anche il presente, specie in contesti informali e, nel parlato, anche mediamente formali. Il presente al posto del futuro è accettabile soprattutto nei casi in cui la nozione di futuro è affidata ad elementi esterni al verbo, per esempio espressioni di tempo (come domani nella prima parte della sua frase). Nella proposizione ipotetica della stessa frase, l’alternativa dovrebbe essere tra si riesce e si riuscirà (si dovesse riuscire è ovviamente possibile, ma non è né presente né futuro, quindi non c’entra con la domanda). Anche in questo caso, come anche nella proposizione reggente che segue l’ipotetica, la scelta del presente è possibile ma abbassa il registro.
In quanto alla punteggiatura, l’unico suggerimento che si può fare è di eliminare la virgola prima della proposizione al gerundio (domani, recandosi); tale proposizione, infatti, dovrebbe essere interpretata come strettamente connessa alla reggente, visto che presenta lo strumento con cui può realizzarsi l’evento in essa descritto (partecipare all’iniziativa).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali frasi sono corrette?

1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi

Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida

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QUESITO:

A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?

 

RISPOSTA:

In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questa risposta si dice che “le completive subordinate di secondo grado preferiscono il congiuntivo“ e viene riportato, al riguardo, il seguente esempio:

“Non sapevo che tu sapessi che io sapessi“.

 Qui abbiamo una proposizione principale negativa che giustifica, secondo me, la subordinata di primo grado al congiuntivo e, sempre secondo me, in qualche modo condiziona tutto il periodo. Se avessimo però una principale affermativa, l’indicazione di massima sarebbe comunque valida (vedi soluzioni 1b e 1c), oppure l’indicativo sarebbe la soluzione più felice (1a)?

1a) Sapevo che tu sapevi che io sapevo.

1b) Sapevo che tu sapevi che io sapessi.

1c) Sapevo che tu sapessi che io sapessi.

 

RISPOSTA:

È vero che il congiuntivo nella completiva è preferibile quando la reggente è negativa (o ha un verbo impersonale). Anche con la principale affermativa e la subordinata di primo grado all’indicativo, comunque, la subordinata di secondo grado tende a preferire il congiuntivo. Nel caso specifico del verbo sapere affermativo, l’indicativo nella subordinata di primo grado è una scelta un po’ forzata (ma lo è meno se il verbo della principale è all’imperfetto); in quella di secondo grado è, invece, del tutto accettabile (come nella sua variante 1b).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho notato che, in presenza di come e quanto, per ragioni a me ignote, il congiuntivo prevale sull’indicativo, che tuttavia non dovrebbe essere scorretto:

1) Ho visto quanto tu la amassi / amavi.

2) Mi aggiornò su come volesse / voleva intervenire.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi da lei proposte le subordinate sono interrogative indirette, che sono il tipo di completiva più naturalmente costruito con il congiuntivo. Come può anche sostituire che in proposizioni soggettive e oggettive, come nella frase “So / È noto come tu ritenga la cosa sbagliata” (= “… che tu ritieni la cosa sbagliata”). Nelle proposizioni così costruite è decisamente preferibile il congiuntivo, probabilmente perché esse vengono associate alle interrogative indirette.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali delle seguenti costruzioni sarebbero da evitare perché troppo, o troppo poco, formali?

1) Lascio intendere che si vuole / voglia.

2) Con quelle parole gli fece capire che cosa stava / stesse succedendo.

3) Ho compreso perché tu lo hai / abbia fatto.

4) Constatò fino a che punto riuscivano / riuscissero a mentire i suoi colleghi.

5) Gli spiegò chi era /  fosse.

6) Ero a conoscenza di che cosa voleva / volesse.

7) Prendo atto che la mia scelta ha / abbia generato critiche.

8) Secondo te non mi sono accorto che lei è / sia bella?

9) Mi fece sapere che cosa era / fosse accaduto.

10) Mi basta capire che lei è / sia una brava dottoressa.

11) È questo il motivo per cui l’uomo lo aveva / avesse aggredito.

12) Ho specificato che cosa aveva / avesse detto.

13) Vorrebbe davvero affermare che sua moglie è / sia stata insultata?

14) Gradirei che mi confermaste che tutto è / sia a posto.

15) La tua affermazione mi fa capire che cosa è / sia accaduto.

16) Capivo dove voleva / volesse andare a parare.

17) Avete constatato che ogni oggetto era / fosse al proprio posto?

18) Rivelò a chi era / fosse rivolto il prodotto.

 

RISPOSTA:

Gli esempi da lei proposti sono ugualmente ben costruiti nelle due varianti (tranne il numero 11), con la precisazione che il congiuntivo è più formale dell’indicativo, quindi la scelta tra l’una e l’altra variante va fatta in base allo stile personale e al contesto comunicativo. Va, comunque, precisato che la proposizione interrogativa indiretta è, tra le completive, quella costruita più naturalmente con il congiuntivo. Nell’esempio 11 la proposizione subordinata non è una completiva, ma una relativa; questa proposizione si costruisce di norma con l’indicativo, ma può prendere il congiuntivo per assumere una sfumatura consecutivo-finale (che qui sarebbe fuori luogo).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere di che tipo sono gli avverbi come “fortunatamente, sfortunatamente, purtroppo”, sui quali non c’è molta chiarezza sui manuali di studio.

 

RISPOSTA:

Sono avverbi di giudizio che esprimono un punto di vista personale.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nell’espressione spaziare da un argomento all’altro che complemento è da un argomento?

 

RISPOSTA:

Complemento di origine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Mi piacciono molto i romanzi, soprattutto quelli di avventura”, di avventura è un complemento di specificazione o di argomento?

 

RISPOSTA:

Entrambe le risposte sono giustificate. Volendo essere pignoli, possiamo osservare che un romanzo di avventura non ha come argomento l’avventura, ma racconta una storia avventurosa, ovvero caratterizzata da avventurosità. Propenderei, pertanto, per il complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?

RISPOSTA:

In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida

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QUESITO:

All’interno di un opuscolo che annunciava una serie di eventi in pubblico, mi è capitato di leggere un’espressione simile a questa: “Ore 18.00 piazza Chiesa: Inizio della competizione (etc.)”.

Al riguardo, mi chiedo se siano corretti l’uso dei due punti (che, immagino, siano stati impiegati per separare la puntualizzazione del luogo da quella del rispettivo appuntamento) e l’uso del maiuscolo per la successiva parola “Inizio”.

 

RISPOSTA:

Di norma, i due punti separano due segmenti di testo dello stesso periodo; quel che viene dopo questo segno interpuntivo, dunque, non richiede la lettera maiuscola. Nell’esempio occorre separare non soltanto il luogo dalla descrizione dell’evento, ma anche l’ora dal luogo. Per scandire meglio le informazioni potremmo inserire un trattino (“Ore 18.00 – piazza Chiesa: inizio della competizione”) o una virgola (“Ore 18.00, piazza Chiesa: inizio della competizione”). Un altro espediente efficace consiste nell’inserimento del luogo tra parentesi tonde: “Ore 18.00 (piazza Chiesa): inizio della competizione”.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Pensavo che avesse detto qualcosa in più, che io non AVESSI afferrato”.

È corretto/accettabile l’uso del congiuntivo nella relativa qui proposta o sarebbe stato più corretto usare l’indicativo?
Credo che il congiuntivo dia una sfumatura di eventualità o si tratta di un ipercorrettismo o attrazione modale?

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa si costruisce normalmente con l’indicativo. In questa proposizione il congiuntivo può essere utile a esprimere una sfumatura consecutivo-finale (“Cerco una persona che mi capisca”); quando, inoltre, essa è subordinata a un’altra proposizione al congiuntivo, può prendere il congiuntivo per quella che possiamo definire attrazione modale. Che il congiuntivo nel suo caso non sia richiesto per ragioni semantiche è dimostrato dal fatto che, sostituendolo con l’indicativo (che io non avevo afferrato), il risultato non solo è pienamente accettabile, ma mantiene lo stesso significato. Perdipiù, il congiuntivo è persino forzato nella relativa esplicativa (quale è quella della sua frase), che aggiunge informazioni accesorie all’antecedente (qualcosa); risulterebbe del tutto naturale, invece, nella relativa limitativa, che serve a identificare l’antecedente: “Pensavo che avesse detto qualcosa in più che io non AVESSI afferrato”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altrauno dall’altro oppure uno dall’altra?

 

RISPOSTA:

I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi aiutereste nell’analisi logica della seguente frase?
Non credo che mangiare questa pizza possa farti bene, ma decidi tu.

 

RISPOSTA:

L’analisi logica considera soltanto la frase semplice; la sua frase, pertanto, deve essere divisa in quattro parti, corrispondenti a quattro frasi semplici, per poter essere analizzata con questa procedura: non credo | mangi questa pizza | ciò non può farti bene | decidi tu. Nella prima frase il soggetto è io e il predicato verbale è non credo; nella seconda frase il soggetto è tu, il predicato verbale è mangi, che regge il complemento oggetto con attributo questa pizza; nella terza frase il soggetto è ciò, il predicato verbale è non può fare bene (considerando fare bene alla stregua di un’unità lessicale, equivalente a giovare), che regge il complemento di termine (o di vantaggio) ti; nella quarta frase il soggetto è tu e il predicato verbale è decidi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Leggo che “cui” si accorda sia con il singolare che con il plurale, quindi vorrei chiedere se c’è differenza tra le seguenti due frasi o se sono intercambiabili:

Vorrei persone con cui essere me stesso.

Vorrei persone con le quali essere me stesso.

 

RISPOSTA:

Le due forme sono sovrapponibili: cui, in questo caso, si riferisce solamente a persone, quindi non crea equivoci di numero o di genere grammaticale.
Raphael Merida

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QUESITO:

Quale di queste due espressioni è corretta:

“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.

 

RISPOSTA:

Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere quale sarebbe il verbo corretto da usare in questa frase:
“Il ricordo del tuo luminoso sorriso e del tuo buon cuore sarà/saranno per sempre la nostra forza”.

 

RISPOSTA:

Il soggetto della frase è il ricordo, quindi il verbo va concordato alla terza persona singolare: sarà. Il verbo sarebbe al plurale se il soggetto fosse il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore, per esempio se la frase fosse costruita così: “Il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore saranno per sempre la nostra forza”.
Fabio Ruggiano

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“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.

Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidatotutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto l’uso di conosciuto come sinonimo di noto?

 

RISPOSTA:

Sì, conosciuto e noto sono sinonimi. Come tutti i sinonimi, comunque, non sono intercambiabili sempre: ovviamente conosciuto non può essere sostituito da noto quando è usato come participio passato, non come aggettivo (“L’ho conosciuto in un bar”); a sua volta noto è preferito a conosciuto quando si riferisce a qualcosa che deriva la qualità dall’essere stata trattato o discusso in precedenza: “L’argomento è noto a tutti; non serve tornarci su”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non riesco a capire bene quale ausiliare usare con il verbo volare se non si è in presenza di un moto a luogo e da luogo. Come posso comportarmi in queste frasi?

1. Questo è l´aereo su cui ho volato/sono volato.

2. Ho volato in Italia (qui inteso come stato in luogo).

3. Cosa ha volato/è volato in cielo?

4. Sono volato/ho volato (con il deltaplano).

5. L’uccellino ha volato/è volato (ma non via).

6. I partecipanti sono volati/hanno volato sulla pista (inteso come stato in luogo).

Quanto al verbo vincere, esso regge la preposizione contro?

 

RISPOSTA:

Il verbo volare può essere costruito con entrambi gli ausiliari quando si riferisce a persone (che possono volare grazie all’uso di mezzi di trasporto aerei o in significati figurati), di animali dotati di ali e di veicoli deputati al volo. In questi casi avere è il più utilizzato, mentre è preferibile utilizzare essere quando il verbo è accompagnato da complementi di moto da luogo o a luogo, in quasi tutti i significati figurati e per le azioni in corso di svolgimento. Di conseguenza, negli esempi 1, 2, 4 e 5 sarebbe preferibile selezionare l’ausiliare avere. Al contrario, richiedono l’ausiliare essere l’esempio 3, in quanto qui il soggetto potrebbe essere un oggetto che si libra in volo sospinto dal vento o altre forze, e l’esempio 6, perché qui volare è usato con il significato figurato di ‘muoversi velocemente’ (lo stesso che si userebbe in frasi come “Sono volato, ma sono arrivato comunque tardi”).

Nell’esempio 5 la scelta dell’ausiliare influisce sul significato della frase: ha volato significa ‘è riuscito a volare’; è volato,  preferibilmente seguito da un sintagma che indica il luogo (vialontanofuori dalla finestra…), significa ‘si è spostato in volo’.

In quanto alla seconda domanda, il verbo vincere può essere transitivo (vincere la partita), ma è più spesso intransitivo (vincere a dadi, di due punti, con l’inganno). In entrambi i casi può essere accompagnato da complementi indiretti che indicano l’avversario sconfitto e sono costruiti con con o contro. Quando è transitivo, inoltre, l’avversario può essere costruito come complemento oggetto: vincere il nemico.

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Vorrei chiedere come si divide in sillabe la parola “spirituale”, perché a mio avviso nella parola si verifica un dittongo, mentre molti dizionari riportano come corretta la divisione “spi-ri-tu-a-le”.

 

RISPOSTA:

Nella parola spirituale si verifica uno iato perché la u primo elemento del gruppo ua è una vocale e non una semiconsonante (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla a). Come lei osserva, i principali dizionari concordano sulla divisione in sillabe spi-ri-tu-à-le. Il problema può emergere sulle parole in cui la coppia ua è atona come in spiritualità o spiritualista; in questi casi è difficile dire con certezza se si tratti di dittongo o iato. I dizionari, infatti, divergono sulla divisione in sillabe di queste parole: alcuni applicano il criterio dell’analogia, per cui se nella parola spirituale si verifica uno iato anche in spiritualista si avrà uno iato, quindi spi-ri-tu-a-lì-sta; altri, invece, considerano la sequenza atona un dittongo ascendente, quindi spi-ri-tua-li-tà.
Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda le proposizioni correlative costruite con non solo… ma anche, come nel periodo seguente:
“Si occuperà non solo della gestione, ma anche della programmazione”.
Ma se io scrivessi:
“Marco si occuperà non solo della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli (anche) la programmazione”, per la correttezza del periodo è necessario che ci sia anche?
Inoltre, avendo un rapporto di interdipendenza, sono considerate entrambe proposizioni coordinate correlative? E la principale?

 

RISPOSTA:

Anche può essere omesso sempre, non solo nel suo caso; i parlanti, però, preferiscono inserirlo perché chiarisce il rapporto di correlazione con non solo, che il solo ma lascia in parte sospeso (aumentando l’ambiguità della frase). Nella seconda frase, in ogni caso, il problema è un altro: i due termini in correlazione non sono la gestione e la programmazione, bensì i comportamenti di Marco e Andrea; la frase risulta, pertanto, più chiara se entrambe le locuzioni correlative vengono inserite prima dei due nomi (“Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà anche lasciargli la programmazione”). Si noti che anche non può essere inserito prima di Andrea, perché questo avverbio (che molti considerano una congiunzione) ha una portata ristretta: si riferisce al costituente immediatamente adiacente, quindi anche Andrea significherebbe ‘Andrea oltre a qualcun altro’. La posizione obbligata di anche, però, non è un problema, perché la correlazione tra Non solo Marco si occuperà e ma Andrea dovrà anche lasciargli (ovvero ‘dovrà in più lasciargli la programmazione’) funziona perfettamente. La frase sarebbe ben formata anche così: “Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli anche la programmazione”; in questo caso si metterebbe in evidenza che Andrea dovrà lasciare a Marco la programmazione oltre alla gestione.
Dal punto di vista dell’analisi del periodo, la proposizione che contiene ma anche è coordinata all’altra, che possiamo considerare reggente, in cui appare l’altra parte della correlazione (non solo). La prima parte della correlazione funziona da anticipazione della seconda parte; un po’ come tanto funziona da anticipazione del che che introduce la proposizione consecutiva: “Sono tanto stanco che vado subito a letto”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se in un periodo come il seguente sia opzionale l’uso del che, e quali differenze ci sono.
“Non mi serve (che) tu venga”.

 

RISPOSTA:

Le proposizioni completive esplicite (come la soggettiva che tu venga nella sua frase) sono introdotte da che (e più raramente da come). La congiunzione introduttiva può essere omessa senza alcuna conseguenza semantica; la frase senza che è, però, percepita come più raffinata. L’omissione del che è favorita dalla presenza di un altro che nella frase, nella reggente (“Ho capito tardi che lei pensava (che) io non fossi quello giusto”) o in una subordinata (“Ritengo (che) non sia conveniente che tu partecipi alla riunione”). Si noti che nella completiva non introdotta da che è fortemente richiesto il modo congiuntivo: l’indicativo risulta quasi sempre molto trascurato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È sbagliato usare “proprio” al posto di “nostro” come nell’esempio che segue?
“E per colpa tua, mettiamo anche oggi in dubbio la propria conoscenza”.

 

RISPOSTA:

Proprio può sostituire soltanto i possessivi di terza persona suo e loro. La frase proposta quindi non è corretta perché propria non si riferisce a un soggetto di terza persona (“E per colpa tua, Mario anche oggi mette in dubbio le sue/proprie conoscenze”), ma a un soggetto di prima persona plurale: “E per colpa tua, (noi) mettiamo anche oggi in dubbio la nostra conoscenza”.
Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

Ho un quesito forse un po’ singolare suscitato dall’aver letto da qualche parte che Francis Scott Fitzgerald avesse dei problemi con l’ortografia. Volevo sapere: è davvero possibile? Inoltre, qual è il rapporto dei grandi scrittori con la grammatica? Ogni grande autore, o quasi, è un grammatico? Si trovano imperfezioni nei libri dei grandi autori o si sono trovati nei loro manoscritti? Se ne parla poco ma io lo reputo un discorso molto interessante.

 

RISPOSTA:

Non è questa la sede per discutere dell’ortografia di Francis Scott Fitzgerald; non è, però, inconcepibile che uno scrittore stenti ad adattarsi alle regole della grammatica. Gli scrittori non sono grammatici; piuttosto è la grammatica che trova la conferma delle sue regole negli scrittori. Sul versante della lingua, infatti, gli scrittori svolgono almeno tre ruoli: ne sono utilizzatori privilegiati, tanto da riuscire a costruire con essa interi mondi; sono fonti autorevoli delle sue forme allo stato attuale; sono innovatori, ovvero promotori del cambiamento di quello stesso stato. A seconda della personalità e della formazione del singolo scrittore, il peso di un ruolo può essere predominante sugli altri. In italiano ci sono stati, addirittura, scrittori scarsamente alfabetizzati, come Vincenzo Rabito, autore di Terramatta; ovviamente scrittori di questo tipo svolgono soltanto il ruolo di costruttori di mondi di parole, e non possono essere presi a modello né per la lingua attuale, né per la lingua del futuro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Chiedo delucidazioni sull’uso dell’espressione proseguire gli studi.
Queste forme sono tutte corrette e alternative?
PROSEGUIRE GLI STUDI AL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI PRESSO IL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI NEL CORSO DI STUDI…

 

RISPOSTA:

La variante più naturale è nel corso di studi. Accanto a questa si può usare presso ilpresso, infatti, è usato comunemente con il significato di ‘in, dentro’, sebbene significhi propriamente ‘vicino a’ e sebbene l’uso con il significato di ‘in’ sia più adatto all’ambito burocratico. La scelta più insolita sarebbe al, visto che la preposizione a _è preferita per introdurre ambienti associati fortemente a specifiche esperienze (_a casaa scuolaall’università) oppure ambienti dai confini non facilmente determinabili (a Romaa Venezia, ma in Italia). Possibile sarebbe anche riformulare la frase inserendo il verbo iscriversi, per esempio così: proseguire gli studi iscrivendosi al corso di (o anche nel corso). In questo caso la preposizione a _(o _in) sarebbe richiesta direttamente dal verbo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.

 

RISPOSTA:

La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vaiseppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei esprimere un dubbio in merito all’uso del congiuntivo passato e trapassato con il pronome relativo misto chiunque. Nella frase “Chiunque abbia pronunciato un giudizio così avventato, avrebbe dovuto documentarsi più scrupolosamente”, dopo il pronome chiunque potrebbe andarci bene anche il trapassato congiuntivo avesse pronunciato? Se sì, perché?

 

RISPOSTA:

La frase chiunque avesse pronunciato… è corretta: il trapassato avesse pronunciato può servire a collocare l’evento prima di un altro evento passato, per esempio in una frase come “Luca pensò che chiunque avesse pronunciato…” (in questo caso il passato non sarebbe corretto: *”Luca pensò che chiunque abbia pronunciato…”). Il trapassato è anche comunemente usato in relazione al presente, non al passato; in questo caso la relazione temporale rimane identica a quella instaurata dal passato: (penso che) chiunque abbia pronunciato… = (penso che) chiunque avesse pronunciato…. Quest’uso deriva dalla sovrapposizione sulla proposizione relativa introdotta da chiunque del modello della proposizione ipotetica (chiunque avesse pronunciato = se qualcuno avesse pronunciato); a ben vedere, però, la sovrapposizione è indebita, perché la sostituzione del passato con il trapassato non modifica il senso generale della proposizione relativa. Proprio perché il trapassato in queste condizioni (nella proposizione relativa introdotta da chiunque senza un rapporto di anteriorità rispetto al passato) è di fatto equivalente al passato, se ne può sconsigliare l’uso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho bisogno del vostro aiuto per capire come interpretare uno dei criteri previsti per l’authorship di un articolo su una rivista scientifica.
La frase, tradotta da me in italiano è la seguente:
“Contributi sostanziali all’ideazione o alla progettazione dell’opera; o all’acquisizione, analisi o interpretazione di dati per il lavoro”.
Dalla prima parte della frase mi è chiaro che è sufficiente avere contribuito in maniera sostanziale all’ideazione O alla progettazione dell’opera; ho però un dubbio su come interpretare la seconda parte della frase, laddove si tratta dell’analisi dei dati. Tra acquisizione e analisi è possibile che si intenda una E, oppure, visto che l’ultima congiunzione dell’elenco può essere solo sottintesa (senza alcun dubbio) una O?
Per completezza riporto anche la frase originale inglese:
“The ICMJE recommends that authorship be based on the following 4 criteria:
Substantial contributions to the conception or design of the work; or the acquisition, analysis, or interpretation of data for the work; AND (…)”.

 

RISPOSTA:

Si tratta di tre alternative; per attribuirsi il titolo di author, cioè, bisogna aver contribuito sostanzialmente almeno a una delle tre fasi di elaborazione del lavoro (oppure anche a nessuna delle tre, se si è contribuito alla ideazione o alla progettazione).
Ovviamente, bisogna considerare anche gli altri tre criteri (qui non riportati), che sono chiaramente indicati come aggiuntivi (non alternativi) tramite AND.
Sottolineo che in italiano bisogna ripetere la preposizione articolata o almeno l’articolo davanti a tutti i membri dell’elenco: oppure all’acquisizione, all’analisi o all’interpretazione / oppure all’acquisizione, l’analisi o l’interpretazione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Mi fai sentire come (ipotesi) un insegnante del dopoguerra che rimproverasse (presente o passato?) un alunno che si comporta / comporti / comportasse male”.
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato?

“Che il castigo, se al giuramento vengo / venissi / venga meno, ricada sulla mia testa”.
Le varianti sono tutte legittime?

“Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta, tu che cosa risponderesti?”.
Di nuovo, con l’imperfetto ci si riferisce al passato?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il congiuntivo imperfetto rimproverasse rappresenta correttamente l’evento come passato. La proposizione costruita intorno a rimproverasse è una subordinata di tipo relativo, che si colorisce di una sfumatura eventuale per via del congiuntivo. Le forme si comporta / comporti / comportasse sono tutte possibili: con il congiuntivo imperfetto si rappresenta l’evento del comportarsi come passato, sullo stesso piano di rimproverare; con il presente si sposta il punto di vista al passato per rappresentare l’atto del comportarsi come fosse attuale. La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente in questo caso dipende dal grado di formalità che si vuole conferire alla frase. Sarebbe possibile anche si era comportato / si fosse comportato, per collocare l’atto del comportarsi prima di quello del rimproverare.
Nella seconda frase la subordinata è ipotetica: in questa subordinata il tempo del verbo determina il grado di realtà dell’evento: l’indicativo presente rappresenta l’evento come fattuale, il congiuntivo imperfetto come possibile, il congiuntivo trapassato come controfattuale, ovvero non più realizzabile. In questa proposizione il congiuntivo presente non si usa.
Nella terza frase la parte su cui ci si concentra (Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi) è una sequenza di due ipotetiche coordinate. Come detto sopra, in questa proposizione la forma del verbo esprime il grado di realtà dell’evento; questa funzione è indirettamente collegata al tempo, perché la fattualità (espressa dall’indicativo presente) è legata al presente o al massimo a un futuro già programmato; la possibilità è legata ugualmente al presente o al futuro; la controfattualità è legata al passato. Per quanto riguarda l’interrogativa diretta (quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta), la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente dipende dal registro, come per si comporta / comporti. Il condizionale in questo caso non è giustificato, perché non è indicata nessuna ipotesi tale da condizionare la qualità dell’altezza.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.

Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?

 

RISPOSTA:

La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori:  è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso di riferirsi in questa situazione comunicativa:
“Per ogni informazione si riferisca a quanto indicato sul programma”.
Può essere qui usato come sinonimo di attenersi?

 

RISPOSTA:

Qui riferirsi a significa ‘prendere con punto di riferimento’, non ‘riguardare, avere come argomento’ (che è il significato più comune). Con questo significato, il verbo si avvicina ad attenersi, ma non può essere considerato suo sinonimo: attenersi, infatti, contiene una sfumatura di precisione che non ammette deroghe assente in riferirsi a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile usare glielo rivolgendosi a un gruppo di persone (solo maschi, solo femmine o a composizione mista): “Non appena lo avrò saputo, glielo riferirò”.

 

RISPOSTA:

Nell’esempio riportato, glielo è corretto e può essere usato per riferirsi a una donna o a un uomo. Ciò è possibile perché quando due pronomi complemento deboli sono usati in coppia il primo cambia forma: così avviene, per esempio, per mi che diventa me (“Mi presti il libro?” > “Me lo presti?”), per ti che diventa te (“Ti presto il libro” > “Te lo presto”) e per gli e le che si trasformano in glie invariabile (“Presto il libro a Fabio/Maria” > “Glielo presto)”.
È bene specificare che in passato l’uso della forma pronominale atona gli in funzione di complemento di termine per loro, a loro non era accettata; adesso, invece, è da ritenersi una forma senz’altro corretta in quasi tutti i livelli della lingua (tranne che nel caso, forse, di registri altamente formali, dove è consigliabile l’uso di loro al posto di gli). Per questo motivo, una frase come “Ho detto a Maria e Fabio che glielo presto” può essere considerata corretta.
Raphael Merida

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Perché nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio”, un genio è complemento predicativo dell’oggetto? Lo capirei se ci fosse scritto “Molti ritengono Steve Jobs un genio”.
Riesco a fare l’analisi del periodo ma quando provo a fare l’analisi logica non mi ritrovo più:
Molti: sogg.
trovano: p. verbale
Steve Jobs: c. ogg.
che (il quale): sogg.
sia stato: copula
un genio: c. pred. del soggetto
Evidentemente così non va.

 

RISPOSTA:

L’analisi logica si applica alle frasi semplici. Nella frase da lei proposta, invece, ci sono due proposizioni legate da un rapporto di subordinazione. A causa di questo rapporto specifico, di tipo completivo, il soggetto della proposizione subordinata (Steve Jobs) è nello stesso tempo il complemento oggetto “logico” del verbo della proposizione reggente, tanto che lei stesso ha riformulato la frase trasformando la subordinata oggettiva in un complemento oggetto seguito da un complemento predicativo dell’oggetto. La frase, insomma, non può essere analizzata con gli strumenti dell’analisi logica senza incappare in questo dilemma.
Va sottolineato, per chiarezza, che nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio” che non è un pronome relativo (come è indicato nella sua analisi, effettivamente impossibile), ma è una congiunzione che introduce la proposizione oggettiva.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come si svolge l’analisi logica di una frase come “Eccolo!”?
Da qui la mia domanda: si può svolgere l’analisi logica di una frase nominale, visto che manca il predicato? Nell’esempio citato, bisogna considerare sottinteso un predicato? Come si può analizzare (se si può)?

 

RISPOSTA:

L’analisi logica è una procedura con molti limiti. Già nelle frasi standard produce a volte risultati insoddisfacenti (per esempio nella classificazione degli oggetti obliqui, come in obbedire alle leggi); si rivela, inoltre, inadeguata, e persino inutilizzabile, per capire la struttura degli enunciati che infrangono le regole sintattiche standard, come le frasi marcate (per esempio quelle dislocate) o le frasi nominali. Bisogna ammettere, comunque, che anche gli altri tipi di analisi sintattica (la grammatica valenziale e quella trasformazionale, per esempio) non sono attrezzati per spiegare la struttura degli enunciati sintatticamente imperfetti. Gli enunciati, è bene ricordare, sono costruzioni linguistiche legittimate dalla situazione in cui vengono realizzate; a volte coincidono con frasi standard (e in questi casi possono essere analizzati con le categorie dell’analisi logica), altre volte sfuggono alle regole della sintassi standard. Eccolo è un esempio di enunciato sintatticamente imperfetto ma comunicativamente funzionale: potrebbe essere usato in risposta a una domanda banale come “Dov’è il telecomando?” eppure manca dell’elemento imprescindibile per la sintassi: il verbo. Né c’è modo di riconoscere accanto a Eccolo un verbo sottinteso, rispetto al quale individuare il soggetto. Costruzioni come questa, o Bravo!Forza!, Su, coraggio e simili, sono opache agli occhi dell’analisi logica.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei capire in quali situazioni è obbligatorio affiancare il congiuntivo imperfetto al condizionale presente, come nel caso di un periodo ipotetico.
Queste due frasi rischiano di essere avvertite come errate per il semplice fatto che si è abituati ad associare il condizionale al congiuntivo imperfetto, e ciò a volte manda in confusione anche me:
“Non potrei stabilire se l’abbia fatto un bambino o un adulto”.
“Vorrei che venga espulsa” (In questo caso il condizionale è una forma ingentilita del presente).

 

RISPOSTA:

Nel quadro della consecutio temporum, il condizionale presente richiede gli stessi tempi del congiuntivo richiesti dall’indicativo presente. Per esempio, quindi, immagino che venga = immaginerei che venga (contemporaneità); immagino che venisse / sia venuto / fosse venuto = immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto (anteriorità). A questa regola si sottraggono i verbi di volontà, desiderio, opportunità (come voleredesiderarepretendereessere conveniente e simili), che instaurano il rapporto di contemporaneità con il congiuntivo non presente, ma imperfetto (probabilmente perché sono influenzati dal modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui al condizionale presente corrisponde il congiuntivo imperfetto). A immaginerei che venga, quindi, corrisponde vorrei che venisse. La variante vorrei che venga in astratto è corretta, ma è di fatto giudicata decisamente trascurata. Coerentemente, per l’anteriorità alla costruzione immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto corrisponde il solo vorrei che lui fosse venuto. La variante vorrei che lui venisse per esprimere l’anteriorità è sconsigliata perché sarebbe interpretata come esprimente la contemporaneità.
Per ulteriori informazioni sui tempi del congiuntivo dipendenti da vorrei è possibile consultare questa risposta e questa risposta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei farvi una domanda riguardo all’uso delle congiunzioni condizionali (escluso se).
Come sappiamo, nella parte condizionale va messo il congiuntivo, ma non sono certa se la scelta tra il presente e l’imperfetto dipenda soltanto dalla possibilità oppure anche dal tempo presente / passato?
A condizione che / purché / a patto che / casomai studi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, avrai / avresti superato l’esame.
Ho anche un altro dubbio: dopo aver scelto il tempo della parte condizionale, cosa posso fare con quella reggente? Uso l’indicativo per esprimere una certezza e il condizionale per una possibilità?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni introdotte da a patto chepurchéa condizione che e casomai (o caso mai) sono condizionali (nel periodo ipotetico sono chiamate protasi e contengono la descrizione della condizione) e richiedono il modo congiuntivo; il tempo dipende sia dal grado di possibilità dell’evento espresso sia dal rapporto temporale (la cosiddetta consecutio temporum) con il verbo della reggente (che nel periodo ipotetico è chiamata apodosi e contiene la conseguenza della condizione contenuta nella protasi). La sua prima frase è un caso canonico di periodo ipotetico della realtà. Questo costrutto serve a rappresentare l’evento della reggente come certo.
La seconda frase presenta un esempio di apodosi della realtà e protasi della possibilità: il costrutto, corretto, esprime un dubbio circa la possibilità della condizione (il parlante non è certo che l’interlocutore si metta a studiare bene) e la certezza riguardo alla conseguenza della condizione.
Il terzo e ultimo esempio presenta nuovamente nella subordinata il congiuntivo imperfetto, mentre nella reggente propone due opzioni diverse: un verbo all’indicativo (il futuro anteriore avrai superato) e un verbo al modo condizionale composto, o passato (avresti superato).
Il futuro anteriore si usa per indicare un evento che avverrà in un futuro più prossimo rispetto a un altro più lontano nel futuro. Si tratta di un tempo verbale usato raramente, perché il rapporto di successione tra gli eventi risulta quasi sempre chiarito dal contesto. In questo caso specifico non è presente un altro evento di riferimento successivo, di conseguenza il futuro anteriore non è giustificato. L’opzione diventerebbe possibile se si aggiungesse un evento di riferimento; per esempio: “A patto che studiassi bene avrai superato l’esame prima di accorgertene”. Bisogna, però, ammettere che la frase, corretta in astratto, difficilmente sarebbe prodotta da un parlante, per via della sua complessità.
L’ipotesi con avresti superato è impossibile se studiassi si riferisce al presente: presenta, infatti, la conseguenza come precedente rispetto alla condizione. La frase diviene corretta se il congiuntivo imperfetto è usato con valore astorico, legato non al presente, ma a un principio generale: “Se tu studiassi (= avessi l’abitudine di studiare) bene avresti superato l’esame”.
Prima di selezionare i tempi e modi verbali è opportuno valutare il grado di possibilità degli eventi selezionati a partire dalla reggente: è il verbo della reggente che governa quello della subordinata, in relazione al rapporto temporale e, nel caso del periodo ipotetico, al grado di possibilità che si vuole rappresentare.
Per ulteriori informazioni sull’uso di a patto che è possibile consultare questa risposta nell’archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.

Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?

  • La differenza è poco/poca
  • Due settimane è poco/sono poche

 

RISPOSTA:

Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.

Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se una persona è defunta in quale maniera ci si riferisce “all’essere” della stessa: “Non credo che tutti sappiano chi lei sia / fosse / fu”?

 

RISPOSTA:

Tutt’e tre le alternative sono corrette. Il congiuntivo imperfetto fosse è ineccepibile; il passato remoto fu è legittimo, ma è più informale del congiuntivo. Anche il congiuntivo presente sia, pur insolito, potrebbe andar bene in questo contesto: per un fattore psicologico e affettivo, ci si potrebbe riferire al defunto come a una persona ancora viva nei nostri pensieri.

Raphael Merida

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

I verbi essere e stare sono intercambiabili?

Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?

C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?

Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?

RISPOSTA:

La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.

Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).

Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:

Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.

La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.

 

RISPOSTA:

La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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QUESITO:

Nella frase “… a cui vorresti rivolgerti tu” il tu è pleonastico o si può considerare un rafforzativo?

 

RISPOSTA:

Non è pleonastico: il soggetto pronominale ribadito a destra della frase serve a sottolineare che la volontà di rivolgersi a quel qualcuno è proprio del soggetto, non di altri. Questa sottolineatura può essere utile per esempio se il parlante non condivide tale volontà, oppure se vuole elogiarla, perché altri avrebbero manifestato una volontà più comoda (ovviamente, dipende tutto dal contesto). L’esplicitazione del soggetto pronominale non sarebbe pleonastica neanche se questo fosse collocato prima del verbo: “… a cui tu vorresti rivolgerti”. In questo caso il pronome richiamerebbe al centro della discussione la responsabilità del soggetto nell’esprimere la volontà, senza, però, veicolare sfumature contrastive. Tali sfumature, però, sarebbero veicolate anche con il soggetto preverbale, se la frase fosse pronnciata con un’enfasi intonativa sul pronome.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”

 

RISPOSTA:

L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calmaper favoredi frettada sballoa rigore, ma anche a casain ufficioa scuolaa teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinemain banca ma alla postain ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a marea spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffèoroacqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se entrambe le soluzioni sotto proposte possono essere giudicate valide.

1) Si è dovuto intervenire per placare gli animi.
2) Si è dovuti intervenire per placare gli animi.

A condizione di non essermi confusa durante la consultazione e l’analisi, in letteratura le due costruzioni coesistono.

 

RISPOSTA:

I verbi intransitivi (come intervenire) concordano il participio passato con il soggetto (Luisa è intervenuta). Nella costruzione impersonale, in cui, per definizione, manca il soggetto grammaticale, il participio viene concordato con un soggetto “logico”, che coincide con una prima persona plurale (maschile o femminile secondo le normali regole dell’accordo). La costruzione, pertanto, può essere si è intervenuti o si è intervenute. La presenza del verbo servile dovere complica questa regola, perché questo verbo ha come ausiliare avere, quindi nella forma impersonale mantiene il participio passato invariabile. Si pensi, per esempio, a una conversazione del genere:
-Siete intervenuti?
-Si è dovuto (impossibile *si è dovuti).
Come si può immaginare, le due costruzioni concorrenti entrano in conflitto, creando la doppia possibilità. Per le ragioni spiegate, entrambe le costruzioni sono giustificabili, anche se la seconda è preferibile, perché il verbo servile ha una forte tendenza a prendere la costruzione del verbo retto, che è semanticamente dominante. Questo si vede, per esempio, nella netta preferenza dei parlanti per forme come sono dovuto andare rispetto a ho dovuto andare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»

 

RISPOSTA:

L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si scrive: “Un bel e solido palazzo” oppure: “Un bello e solido palazzo”? Ovviamente è preferibile scrivere: “Un palazzo bello e solido”. Ma dovendo scegliere, in questo caso, tra bel e bello, quale si fa preferire?

 

RISPOSTA:

Bel e bello seguono gli stessi criteri degli articoli il e lo. In questo caso, davanti a vocale, può avvenire l’elisione di bello; avremo quindi “Un bell’e solido palazzo”.

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Desidererei sapere se la parola competenza può essere usata in un contesto come il seguente: “Non è di mia competenza pagare questa somma”. Il termine competenza farebbe pensare ad ‘abilità, conoscenza’ ecc, quindi dovrebbe essere improprio usarlo in una espressione come quella precedentemente citata; tuttavia mi capita frequentemente di sentirlo espresso in simili contesti.

 

RISPOSTA:

Nel contesto da lei presentato la parola competenza è pienamente legittima. Come giustamente osserva, competenza vuol dire ‘abilità, conoscenza’; questi significati, però, che non sono gli unici e, anzi, rappresentano soltanto uno dei campi semantici di questa parola. Nel suo significato più ampio, competenza indica la ‘capacità di orientarsi in un determinato campo’ (“Quella professoressa parla con competenza di ogni aspetto della storia moderna”); in quello tecnico, invece, cioè quello legato alla sfera giuridica, designa la ‘legittimazione di un’autorità o di un organo a svolgere specifiche funzioni’: “Questa causa è di competenza del giudice amministrativo”. Dal significato tecnico, il campo semantico di competenza si è esteso per indicare la ‘pertinenza’, cioè ciò che spetta a qualcuno (come nel suo esempio). Sempre connesso a questa sfera, il sostantivo plurale competenze indica il compenso: “Dobbiamo pagare all’avvocato le sue competenze”.

Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi permetto di dissentire da questa vostra risposta. Quel chiunque sia non può essere inteso come nel caso di qualora o nel caso in cui?: “Qualora qualcuno fosse interessato, mi contatti”.
Oppure come nel caso di un passato: “(…) la denuncia può essere fatta da chiunque sia stato presente ad un fatto punibile o ne abbia avuta cognizione in altro modo, senza essere stato offeso, né danneggiato (…)” (“Codice di procedura penale del Regno d’Italia”, 1871).
O come nel caso di una concessiva: “Chiunque sia stato, non la passerà liscia”.
O come la formulazione di una ipotesi: “Una macchina che sia rotta non potrebbe gareggiare”.

 

RISPOSTA:

Se assimiliamo la costruzione chi fosse a se qualcuno fosse, con riferimento al presente, la costruzione chi sia dovrebbe essere assimilata a se qualcuno sia, che non è prevista in italiano (e si sovrapporrebbe funzionalmente a se qualcuno fosse). Gli esempi che lei fa per contestare questa spiegazione riguardano non chi, ma chiunque: quest’ultimo pronome contiene un tratto di forte indeterminatezza che ne favorisce l’associazione al congiuntivo anche al presente a prescindere dalla sovrapposizione del costrutto ipotetico. Per la verità, chiunque è obbligatoriamente accompagnato dal congiuntivo, proprio in virtù del suo significato indeterminato, particolarmente coerente con la sfumatura non-fattuale attribuita al congiuntivo.
Chi può comportarsi come chiunque, quindi prendere il congiuntivo anche al presente, se nella relativa c’è il tempo passato, che accentua la non-fattualità dell’evento (chi sia stato interessato è del tutto legittima). Questa osservazione risponde alla sua seconda ipotesi: il passato cambia le condizioni d’uso del congiuntivo (e faccio comunque notare che nella citazione del Codice non c’è chi, ma chiunque). Un’altra circostanza che favorisce l’uso del congiuntivo nella relativa è l’indeterminatezza dell’antecedente. Questa non si applica a chi, che non ha un antecedente esplicito, ma a che; la cito qui perché spiega il suo ultimo esempio: “Una macchina che sia rotta…”.
Per quanto riguarda il terzo esempio, infine, non solo questo ripropone l’associazione tra chi sia e chiunque sia stato, doppiamente indebita perché chiunque sia stato è indeterminato e passato, ma viene definito “caso di una concessiva”, mentre nella frase non è presente alcun legame logico di concessione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Alcuni vocabolari riportano la forma grafica “neoassunto”, altri no.
Scrivere “neo assunto” è comunque corretto?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è neoassunto, riportata anche dai principali dizionari dell’uso.
Neo-, che significa ‘nuovo, recente’, è un prefissoide di origine greca; si tratta cioè di un elemento lessicale dotato di autonomia semantica che può essere premesso a parole di qualsiasi origine (si pensi per esempio ad auto- nel significato di ‘da sé’ da cui si formano parole come autocoscienza, autocritica, automobile). Per queste ragioni, le parole composte con un prefissoide prediligono la forma univerbata a quella staccata.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nell’esempio il presente indicativo del verbo potere è corretto: “Va in ospedale, dove incontra Virginia che gli chiede se può avere il fine settimana libero”.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Se può avere è un proposizione interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro.
Può approfondire l’argomento inserendo come parole chiave “interrogativa indiretta” all’interno dell’Archivio di DICO.
Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidero, per favore, chiedere se la consecutio di questa frase è errata:
“Navigherò fintanto ché ci siano mari da navigare”.

 

RISPOSTA:

La costruzione è corretta. La congiunzione fintantoché introduce una proposizione temporale e ammette il verbo al congiuntivo (come nell’esempio) o all’indicativo: “Navigherò fintantoché ci saranno mari da navigare”. Può approfondire l’argomento anche in queste due risposte: Le mille forme della proposizione temporale e Usi dei tempi con fintantoché.

Raphael Merida

Parole chiave: Congiunzione, Verbo
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QUESITO:

Gradirei sapere se l’affermazione “persona impositiva”, riferita ad un soggetto capace di farsi valere, può essere definita corretta.

 

RISPOSTA:

No, perché l’aggettivo impositivo è usato perlopiù in riferimento al tono, oppure in contesti burocratici, in riferimento a un provvedimento, un’autorità, una legislazione e simili, non a una persona. Naturalmente, è sempre possibile, con una certa forzatura semantica, che in qualche testo impositivo venga riferito a una persona, ma per esprimere il concetto di “che impone il proprio volere o autorità” esistono altri aggettivi in italiano, quali autoritario, oppure, con significato ancora più fortemente connotato negativamente, arrogante, dispotico, sopraffattore ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase è corretto l’uso del condizionale sarebbe?

E non so neanche se sarebbe stato in grado di leggerla.

 

RISPOSTA:

Il condizionale è corretto: la proposizione introdotta da se è una interrogativa indiretta, che ammette i modi indicativo, congiuntivo e, appunto, condizionale.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?

RISPOSTA:

Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sarebbe possibile inserire una virgola tra un sostantivo e il suo aggettivo?

“Ha una bella macchina, rossa”

Oppure prima di una preposizione?

“È andato via, a casa”

 

RISPOSTA:

Sì, in certi contesti la virgola può dividere in più unità informative una struttura semantica altrimenti addensata in una singola unità testuale. In questo caso, l’aggettivo rossa in posizione conclusiva e separato dal nome attraverso la virgola crea un doppio fuoco informativo che mette in rilievo sia il fatto che la macchina è bella sia il fatto che la macchina è rossa.

La virgola si inserisce perfettamente anche nel secondo esempio: la separazione del sintagma preposizionale (a casa) dal resto della frase è favorita dalla posizione conclusiva del sintagma. Non avremmo potuto separare, invece, la preposizione dal nome con cui essa costituisce un sintagma (*a, casa).

Raphael Merida  

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QUESITO:

Non ho ben capito se il verbo interessare regge il complemento oggetto o il complemento di termine. Ad esempio nella frase «Mi interessa questo libro», «mi» che complemento è?

Quanto all’uso di anch’io/neanch’io, vanno bene queste frasi?

«Non vado al cinema». «Anch´io non vado» / «Neanch´io».

 

RISPOSTA:

Interessare può essere usato sia transitivamente (cioè col complemento oggetto: interessare qualcuno), sia intransitivamente (cioè col complemento di termine: interessare a qualcuno). Nonostante le sottili differenze semantiche rilevate dai vocabolari (interessare + compl. oggetto ha un valore meno intenso, e può significare sia ‘incuriosire’ sia ‘riguardare’: «l’esenzione interessa soltanto i maggiori di 60 anni»; interessare + compl. di termine significa ‘avere a cuore’: «a Laura interessava molto Raphael»), i due usi sono spesso intercambiabili, anche se la costruzione con il complemento di termine (cioè di interessare come verbo intransitivo) è molto più frequente. Per cui una frase come «Mi interessa questo libro» può valere sia ‘interessa me’, sia, più probabilmente ‘interessa a me’, tanto più se il complemento è espresso dal pronome clitico mi, ti ecc., che ha la medesima forma all’accusativo e al dativo. La costruzione transitiva, a differenza di quella intransitiva, può essere usata anche in riferimento alle cose: «l’interruzione interessa la strada statale 113» (e non *alla strada).

Anche non non è corretto in italiano. Con la negazione anche si trasforma in neanche, neppure o nemmeno: «Neanch’io» / «Neanche io varo al cinema» / «Non vado al cinema neanche io».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se una frase che comincia con “che peccato” abbia bisogno dei puntini di sospensione (tralasciando il punto esclamativo) o possa farne anche a meno. Esempi:

Che peccato dover andarmene così presto…

Che peccato sia morto così giovane…

 

RISPOSTA:

Che peccato! è di per sé una formula esclamativa che può indicare dolore, dispiacere o, in alcuni casi, ironia, quindi il segno interpuntivo richiesto è il punto esclamativo; in frasi che cominciano con che peccato però è possibile aggiungere i puntini di sospensione. Aggiungendoli, infatti, il discorso rimane sospeso volontariamente (in questo caso per reticenza o per un sottinteso allusivo) lasciando intendere però gli impliciti sviluppi. La prima frase può essere, per esempio, interpretata così: “Che peccato dover andarmene così presto… mi stavo proprio divertendo!”; la seconda, invece: “Che peccato sia morto così giovane… era un bravissimo ragazzo!”. Le stesse considerazioni valgono per “Che peccato…”, che lascia intendere all’interlocutore o al lettore qualcosa di non detto.

Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Retorica
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QUESITO:

“I rigori sono sempre una sfida di nervi tra chi calcia e il portiere, e stavolta ha vinto lui”. Lui chi? Il portiere o chi calcia?

 

RISPOSTA:
La frase non è ben composta, proprio perché non è decidibile quale sia l’antecedente di lui. Può essere corretta in diversi modi, per esempio sostituendo lui con il primo o il secondo (o anche quest’ultimo), a seconda di chi abbia effettivamente vinto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Chi fosse interessato mi contatti” o “chi sia interessato mi contatti”?
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato? (Chi era interessato, tre giorni fa, mi contatti adesso).

 

RISPOSTA:

La variante con il congiuntivo presente è ingiustificata, quindi da considerare errata. Le alternative possibili sono chi fosse… e chi è... Lei ha ragione a rilevare nell’imperfetto un valore di passato: in effetti il significato della prima frase potrebbe essere quello da lei inteso; tale significato astratto, però, sarebbe senz’altro scartato dai parlanti per via dell’incoerenza tra un interesse passato e l’azione presente. In altre frasi potrebbe, comunque, essere attivo; per esempio “Chi fosse vivo nel 1910 oggi è certamente morto”. Rimane da spiegare quale sia la differenza tra chi è… e chi fosse…. Il congiuntivo imperfetto aggiunge alla proposizione relativa una sfumatura di ipoteticità (chi fosse = se qualcuno fosse) assente nell’indicativo presente. A ben vedere, tale sfumatura è superflua, visto che la situazione descritta è già ipotetica in sé (il parlante non sa se qualcuno lo contatterà e chi sia questo qualcuno); i parlanti, però, dimostrano di apprezzare l’enfatizzazione di questo tratto, ottenuta proprio con il congiuntivo imperfetto, che avvicina, come detto, chi fosse a se qualcuno fosse.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho notato che appurare e constatare sono dati per sinonimi dai vocabolari. Appurare dovrebbe stare per ‘accertare’, ‘verificare’; l’utilizzo di questo verbo presuppone che non si sia certo di un qualcosa.

Esempio:

  1. A) Ho appurato l’esattezza di questa teoria.

Il senso della frase dovrebbe essere questo: “Ho verificato/valutato l’esattezza di questa teoria”.

Quindi il verbo appurare si dovrebbe usare quando c’è un dubbio e si vuole verificare se un qualcosa sia vero o falso. Questo qualcosa potrebbe rivelarsi vero o anche falso, in questo caso una teoria, quindi non si sa se sia vera o falsa, in quanto ho fatto una verifica senza dare l’esito.

Esemplifico la stessa frase con il verbo constatare:

  1. B) Ho constatato l’esattezza della teoria.

In questo caso, il verbo mi dà l’impressione di non mettere in dubbio la cosa, bensì confermare e dimostrare, dare conferma del fatto e non investigare sulla veridicità, ma riconoscere come vero un qualcosa che è stato verificato in precedenza e il riscontro alla fine è stato favorevole, ovvero la teoria che poi si è rivelata esatta ed è una verità fattuale.

Si possono fare altri esempi:

  1. C) “Ho appurato la sincerità di quella persona. Ti posso dire che è meglio starne alla larga.”

D)”Ho constatato la sincerità di quella persona.”

Nella frase C con appurare dico di aver indagato, ma solo dopo la successiva frase ti faccio capire implicitamente che è una persona falsa facendoti capire l’esito del controllo che ho svolto

Nella frase D invece non ho bisogno di aggiungere altro, in quanto mi sono reso conto della sua sincerità e la posso confermare.

È proprio per questa enorme differenza, forse, che mi sembrerebbe strano dire: “Hai constatato se ci sono tutti”, in quanto constatare, oltre a verificare qualcosa, dà anche l’impressione proprio di confermare positivamente la cosa, senza lasciare la sfumatura del dubbio.

RISPOSTA:

I verbi appurare e constatare significano ‘accertare’, quindi sono legati da un rapporto di sinonimia. La distinzione più netta, che ha permesso la conservazione di entrambi i verbi, è di tipo diafasico; ciò significa che il loro uso varia a seconda del contesto situazionale: constatare è usato in ambito giuridico, appurare no.

In tutte le sue frasi i due verbi sono equivalenti. L’ultima frase (“Hai constatato se ci sono tutti”, alla quale occorre aggiungere il punto interrogativo alla fine), invece, è costruita in modo sbagliato: il verbo constatare, in questo caso, richiede l’uso di che + indicativo, quindi: “Hai constatato che ci sono tutti?”.

Per trovare una sfumatura di significato occorre risalire all’etimo: il latino constat (da constare) significa ‘è certo’, mentre purus significa ‘puro’, cioè il risultato dell’eliminazione delle impurità. Da queste considerazioni si ricava che appurare(derivato di purus) allude al processo di eliminazione dei dubbi per arrivare alla verità e constatare invece al risultato dello stabilire la verità.

Raphael Merida

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Si dovrebbe scrivere: “Lei recitò un Ave Maria” con l’apostrofo o senza? L’Ave Maria è una preghiera e quindi si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo, il che significa “Recitare una Ave Maria”. Però nessuno direbbe: “Recitare una Padre Nostro”.

RISPOSTA:

Visto che Ave Maria (anche nelle grafie avemaria e avemmaria) è un sostantivo femminile, l’articolo da usare sarà la/una, quindi “un’Ave Maria”. Anche se si tratta di una preghiera, Padre nostro (anche nella grafia univerbata Padrenostro) è un sostantivo maschile; quindi, avrà come articolo il/un: “un Padre nostro”.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Articolo
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QUESITO:

Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:

Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

RISPOSTA:

Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.

Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.

Raphael Merida

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QUESITO:

“Le ricordo che, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”

Vorrei sapere se il periodo è sintatticamente corretto, oppure se sarebbe preferibile evitare di “spezzare” la proposizione principale con una subordinata (in questo caso, “qualora ci fosse…”).

 

RISPOSTA:

La frase è ben costruita e l’inciso, segnalato opportunamente dalle due virgole, non crea problemi alla comprensione del messaggio. Tuttavia, il testo, che sembra di natura amministrativa, può essere semplificato:

  1. spostando l’inciso all’inizio o alla fine del periodo, in modo tale da non spezzare la proposizione principale (“Qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.” / “Le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale”);
  2. sostituendo la congiunzione composta qualora con quella semplice se (“Se ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”);
  3. riducendo le informazioni non necessarie o ridondanti (in tempo reale non si presta bene a designare un servizio telefonico; semmai, potrebbe essere attribuito a un servizio di messaggistica istantanea).

Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dubbi sulla correttezza del condizionale in una frase indipendente come: “tranquillo: lui non si ALLONTANEREBBE” (senza il nostro consenso)

È corretto? Grazie

 

RISPOSTA:

Il condizionale nella dichiarativa (“lui non si allontanerebbe”) è ammesso e accentua la sfumatura semantica potenziale. Al posto del condizionale potremmo trovare anche un indicativo presente “lui non si allontana”, che sottolinea, invece, un’affermazione (“sono sicuro che lui non si allontana”).

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:

Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.

 

RISPOSTA:

Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non mi è molto chiara la differenza tra i verbi essere e esserci.
Ad esempio alla domanda “C’è Mario?”, possiamo rispondere “Sì, c’è /Sì, è qui”, ma non va bene “Sì, c’è qui”, ma non capisco perchè, invece, va bene dire “C’è un uomo qui”.

 

RISPOSTA:

Il verbo esserci significa proprio ‘essere in luogo’, quindi l’espressione c’è qui è inutilmente ripetitiva. La ripetizione, però, è ammessa, e in certi casi necessaria, se la frase è marcata, cioè è costruita per mettere in forte evidenza una certa informazione, per segnalare il collegamento tra la frase e il resto del testo o per precisare quale sia la rilevanza della frase nel contesto situazionale. Nella frase “C’è un uomo qui”, per esempio, il parlante precisa che l’uomo si trova nello stesso luogo in cui si svolge la conversazione, perché dal suo punto di vista la presenza dell’uomo è rilevante soltanto in relazione al luogo (per esempio perché è sorpreso di trovare un uomo in quel luogo). Va detto che tale frase sarà pronunciata con una pausa prima di qui, a dimostrazione del fatto che l’informazione qui è isolata rispetto a c’è un uomo, come se fosse un elemento aggiunto a parte. Nello scritto, tale pausa può essere rappresentata con una virgola, quindi “C’è un uomo, qui”. La stessa costruzione può adattarsi a “C’è Mario, qui” soltanto in assenza della domanda precedente (“C’è Mario?”): se il parlante risponde alla domanda, non ha motivo di precisare qui, perché la presenza nel luogo è presupposta proprio nella domanda. A sua volta, la domanda può essere costruita in modo marcato: “C’è Mario, qui”, per precisare che l’interesse per la presenza di Mario è legato proprio al luogo in cui si svolge la conversazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretta questa frase?

“Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che coloro che anche ultimissimi saranno premiati”.

Il senso è che anche gli ultimi arrivati in una gara porteranno a casa qualcosa.

 

RISPOSTA:

La frase non è corretta dal punto di vista sintattico e necessita di essere riscritta. Suggerirei alcune riscritture semplificate:

  1. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che anche gli ultimissimi saranno premiati”;
  2. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che saranno premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”;
  3. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu coloro che saranno arrivati anche ultimissimi premiati”;
  4. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati coloro che saranno arrivati anche ultimissimi”;
  5. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”.

Raphael Merida

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QUESITO:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.

Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).

Raphael Merida

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In frasi come la seguente, il valore del costrutto mi sembra temporale o causale:

 

  1. Alla mia vista, è rimasto sorpreso = quando mi ha visto è rimasto sorpreso.

 

Nelle seguenti frasi mi sembra più vicino ad un complemento di luogo che temporale o causale:

  1. È davvero piacevole alla vista.
  2. Si trova tutto alla tua vista = si trova tutto davanti a te.
  3. È stato messo più alla vista di qualsiasi altra cosa.

 

Nella 4. si potrebbe utilizzare anche “in vista”, che infatti suona (quantomeno a me) più naturale.

In ogni caso, è un ragionamento corretto il mio o ci sono delle falle evidenti?

 

 

RISPOSTA:

  1. Alla vista assume un valore temporale-causale, perfettamente traducibile come ha fatto lei (“quando mi ha visto, è rimasto sorpreso”, oppure “a causa del fatto che mi ha visto, è rimasto sorpreso”).
  2. Si tratta di un complemento di vantaggio (“è piacevole [a vantaggio di che cosa?] alla vista”).
  3. Indica un complemento di stato in luogo (“si trova tutto [dove?] alla tua vista).
  4. Alla vista coincide con la locuzione in vista; tuttavia, riformulerei la frase 4 cambiando il verbo mettere, che richiama alla mente la locuzione cristallizzata mettere in (bella) vista ‘esporre qualcosa alla vista di tutti’. Sostituendo il verbo mettere con esporre possiamo scrivere la seguente frase senza alcuna ambiguità nell’uso delle locuzioni alla vista/in vista: “È stato esposto alla vista più di qualsiasi altra cosa”.

L’ultima frase, in cui alla vista o in vista rappresenterebbe comunque un complemento di stato in luogo, evidenzia bene un concetto già espresso più volte in molte risposte di DICO (può cercare le varie risposte scrivendo la parola chiave complementi): per comprendere le strutture sintattiche e lessicali di una lingua, alle volte, non è necessario applicare acriticamente la tassonomia dei complementi a tutti i sintagmi della frase, ma occorre proporre diversi tipi di analisi che tengano conto dei parametri sintattici e semantici della frase.

Raphael Merida

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QUESITO:

1) “Non riesco a crederci che sia andata così”. È corretto l’uso della particella ci oppure sarebbe più corretto usare solamente l’infinito “Non riesco a credere che …”. Perché?

2) “Se ne hai voglia, leggi questo libro”. È corretto l’uso di ne oppure sarebbe più corretto scrivere/dire “Se hai voglia…”. Qual è la differenza?

3) “In più, consiglio di dare un’occhiata, anche a questi libri”. È ammissibile la virgola dopo consiglio di dare un’occhiata oppure viola le norme della punteggiatura?

4) Dei clienti entrano in un ristorante; dovrebbero dire: “Buongiorno, siamo quattro” oppure “… siamo in quattro?” C’è una differenza?

 

RISPOSTA:

1) Il pronome atono ci in crederci serve ad anticipare il tema: “Non riesco a crederci che sia andata così”. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato. Si tratta di un costrutto tipico del parlato o dello scritto informale.

2) Sì, è corretto. Il sostantivo voglia unito al verbo avere (“avere voglia”) richiede l’argomento di ciò di cui si ha voglia, per avere senso; deve essere seguito, quindi, dalla preposizione di (“ho voglia di”). La frase può essere infatti parafrasata come segue: “Se hai voglia di leggere, leggi questo libro”. Il ne sostituisce il complemento di tipo argomentale di leggere.

3) No, non è ammissibile. Non bisogna mai separare con una virgola il predicato dall’oggetto. In questo caso il predicato è formato dalla locuzione dare un’occhiata, facilmente parafrasabile con guardare. Questo tipo di costrutti è definito dai linguisti “a verbo supporto” (per questo argomento la rimando alla risposta Fare piacere, i verbi supporto e i verbi causativi).

4) In questo caso non esiste una regola precisa, ma potrebbe esserci una sottilissima sfumatura semantica tra le due varianti. La presenza della preposizione tra il verbo e il numerale (“siamo in quattro) sembra indicare un gruppo definito di persone, il cui numero non è casuale ma già stabilito; l’assenza della preposizione (“siamo quattro”), invece, dà l’idea di un gruppo il cui numero è variabile e in corso di definizione. La preposizione in è essenziale, infine, con i verbi diversi da essere: “Giocheremo in cinque”, “Abbiamo viaggiato in venti” ecc.  

Raphael Merida

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QUESITO:

  1. Forse al 23 di Ottobre saremo già salvi.

In italiano standard si direbbe:

  1. Forse il 23 di Ottobre saremo già salvi.

Tuttavia (a proposito della frase “a”) la preposizione articolata al posto dell’articolo mi sembra piuttosto ricorrente, sentendo anche parlare gente di diverse zone d’Italia, da nord a sud.

È solo un regionalismo/dialettalismo oppure è ammissibile anche in italiano standard?

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette e si differenziano per una leggera sfumatura semantica. La frase 1., formata con la preposizione articolata al prima della data, indica l’idea di tempo continuato, cioè per quanto tempo dura l’azione o la circostanza espressa dal verbo: “forse (da questo momento fino) al 23 ottobre saremo salvi”; la frase 2., formata con l’articolo determinativo il, specifica un tempo determinato, cioè il momento esatto in cui si verificherà l’azione espressa dal verbo. Entrambe le frasi possono essere scritte anche senza la preposizione di prima del mese senza che il significato cambi.

L’indicazione della data con l’articolo determinativo maschile singolare è una caratteristica dell’italiano moderno. Anticamente, infatti, l’articolo era condizionato dal numerale seguente: per il numero ‘1’ l’articolo era il (oppure al, nelecc.: «il primo di giugno»; dal numero ‘2’ in poi i (oppure ai, nei ecc.: «ai 23 di ottobre»). L’articolo plurale li (oggi non più in uso) permane tuttora in alcuni formulari burocratici: Roma, li 13 luglio (sull’erronea accentazione di li rimando alla risposta Numeri, date, forme con q e con g dell’archivio di DICO).

Segnalo, infine, che i nomi dei giorni della settimana e dei mesi vanno scritti con la lettera minuscola, quindi lunedì, giugno ecc.

Raphael Merida

Parole chiave: Articolo, Preposizione
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QUESITO:

 

“Mai che qualcuno dica” o “dicesse la verità”?

Quale delle due va bene? E di che tipo di costruzione si tratta?

 

RISPOSTA:

 

L’alternativa con il congiuntivo presente è certamente preferibile, quella con il congiuntivo imperfetto sarebbe corretta nell’italiano standard per riferirsi al passato: «mai che qualcuno dicesse la verità quando frequentavo quelle persone»; può, però, valere anche per riferirsi al presente: «mai che qualcuno dicesse la verità quando gli chiedi spiegazioni». Questo secondo uso è di provenienza regionale ed è substandard (cioè ancora non del tutto corretto), ma sempre più accettato e diffuso nella lingua parlata.  

Il costrutto mai che + congiuntivo, di recente diffusione, è sicuramente informale perché il che è polivalente (come nei costrutti, ugualmente di recente diffusione, mica che, solo che, certo che…). Sui vari usi di che la rimando alla risposta Un che, tante funzioni dell’Archivio di DICO.

Raphael Merida

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della virgola. Sono abituata a scrivere frasi del tipo “vi comunico, con grande piacere, che oggi pomeriggio…”. È corretto mettere “con grande piacere” tra le virgole? Io lo considero un inciso.

RISPOSTA:

Nel suo esempio le virgole sono corrette, così come sarebbe corretta la variante senza virgole. La scelta di separare dal nucleo della frase un complemento con funzione di espansione (con grande piacere, in questo caso) è arbitraria. Sarebbe indispensabile, invece, se l’inciso fosse composto da una subordinata che precede la proposizione principale: «Manifestando il mio grande piacere, vi comunico che…».

Raphael Merida

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QUESITO:

 

Vorrei capire se in questo elenco («camicie a righe, a disegni, a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, coi monogrammi in indaco») le due coppie di colori – corallo e verde mela, lavanda e arancione chiaro – sono riferite soltanto alle camicie a scacchi o all’intero elenco di camicie. E, nel secondo, caso se a tutt’e tre i tipi di camicia.

Questa citazione è tratta da “Il grande Gatsby”.

 

RISPOSTA:

 

Il dubbio può essere sciolto controllando la versione originale del testo: «shirts with stripes and scrolls and plaids in coral and apple-green and lavender and faint orange, with monograms of Indian blue». Stando al testo in inglese, sarei orientato ad affermare che i colori non si riferiscono necessariamente ai tipi di camicie descritti prima; lo si deduce dalle preposizioni che seguono la parola shirts ‘camicie’: with, in e dopo ancora with. Si suppone, quindi, che le camicie siano di vario genere (a righe e a disegni e a scacchi) e di vari colori (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). La presenza della virgola prima di with monograms (coi monogrammi in indaco) mi pare dimostri quasi sicuramente il riferimento dei monogrammi a tutti i tipi di camicia. Del resto, una persona cifra tutte le camicie (per marcarne l’appartenenza e l’identità), non solo un certo tipo. Sia i colori sia il monogramma, quindi, si riferiscono, a mio modo di vedere, a tutte le camicie, non soltanto a quelle a scacchi.

La traduzione in italiano, pur fedele, rende meno tutta la distinzione che, invece, si nota meglio nel testo originale (anche se l’assenza della virgola dopo plaids lascia un certo margine di ambiguità). La differenza fra testo originale e traduzione risiede nel modo di elencare: il primo per polisindeto, cioè attraverso l’accumulo della congiunzione and (e); il secondo per asindeto nella prima parte (a righe, a disegni, a scacchi) e per polisindeto nella seconda (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). L’elencazione per polisindeto rallenta la prosa, quella per asindeto, al contrario, la velocizza.

Raphael Merida

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QUESITO:

1) Sarebbe stato meglio che tu fossi andato via.

2) Sarebbe stato meglio che tu andassi via.

Parliamo di due frasi corrette, anche se credo sia preferibile la a.

Io ho sempre visto, in questi contesti, l’imperfetto congiuntivo e il congiuntivo trapassato come due opzioni altamente interscambiabili, ma forse è una mia percezione erronea.

C’è invece qualche differenza tra la prima e la seconda frase da un punto di vista semantico?

 

RISPOSTA:

Le due frasi hanno significato diverso. La frase 2 indica un rapporto di contemporaneità tra il momento di riferimento (quello dell’essere meglio) e il momento dell’azione (quello dell’andare); il momento dell’andare, cioè, era lo stesso in cui l’azione sarebbe stata preferibile. La frase 1, invece, esprime un rapporto di anteriorità del momento dell’azione rispetto a quello di riferimento. La differenza si capisce meglio se allarghiamo il contesto:

  1. Grazie per aver fatto la spesa, ma sarebbe stato meglio che ci fossi andato io.
  2. Sei stato imprudente: sarebbe stato meglio che tu non parlassi così apertamente durante l’intervista.

Anche se la 2 è legittima, essa viene sfavorita dalla sovrapposizione di questa costruzione con quella del periodo ipotetico, per cui a un condizionale passato nell’apodosi di solito corrisponde un congiuntivo trapassato nella protasi (sarebbe stato meglio che tu fossi andatosarebbe stato meglio se tu fossi andato). In seguito a questa confusione, la 1 viene usata sia nel suo valore proprio (anteriorità dell’azione rispetto a un momento di riferimento passato), sia in quello che sarebbe proprio della 2 (contemporaneità dell’azione con un momento di riferimento passato).

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non mi è del tutto chiaro quando è considerato accettabile sostituire che con il quale/la quale/i quali/le quali.

Da quanto ho capito è frequente e accettata la sostituzione in una relativa esplicativa in cui il pronome è soggetto (es: «Più tardi verrà a trovarci il nuovo vicino, il quale si è trasferito qui da sole due settimane».)

Sono considerate accettabili le forme composte come oggetto nelle relative esplicative (es: Paola e Giovanna, le quali hai conosciuto l’altro giorno alla festa, mi hanno detto che hanno intenzione di trasferirsi a Parigi.)

Inoltre, sono ancora considerate accettabili le forme composte nelle relative restrittive, o è ormai percepita come “strana”, se non errata?

Ad esempio:

Mi piacciono i fumetti che/*i quali propongono avventure.

Mi porteresti la borsa che/*la quale ho dimenticato nel portabagagli?

Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.

Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.

Cerco un gatto che/il quale* ha il pelo nero e il muso bianco.

È raro incontrare una persona che/*la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio.

 

RISPOSTA:

Le sue considerazioni sono tutte giuste. Nelle relative esplicative il quale è usato in modo intercambiabile con che, sebbene ne rappresenti la variante più formale. Nelle relative limitative il quale è ancora usato, sebbene in modo minoritario, quando l’antecedente è un numerale, un pronome indefinito o un sintagma indeterminato come nell’esempio «È raro incontrare una persona la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio»; quando invece l’antecedente è un sintagma determinato è impossibile la sostituzione: «Il mio amico *il quale ti ho presentato l’altro anno è morto ieri». Sulle relative esplicative e limitative la rimando alla risposta Relative limitative o esplicative contenuta nell’archivio di DICO.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

La lineetta, come nel caso della parentesi, va posta due volte, all’inizio e alla fine di un inciso anche nel caso in cui dopo si trovi il punto, oppure può bastare anche una volta sola?

  1. Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie – rosse, marroni e verdi –.
  2. Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie – rosse, marroni e verdi.

Inoltre, in ambito digitale, la lineetta a quale segno corrisponde? Escludendo il trattino breve, rimangono questi due: (–), (—).

 

RISPOSTA:

La lineetta, o trattino lungo, è un segno grafico che insieme alle parentesi e alle virgole correlative provocano discontinuità nell’enunciazione. È possibile che un inciso o una parentetica inseriti alla fine della frase siano introdotti da una lineetta priva della lineetta di chiusura (assorbita comunque dal segno di fine frase, per esempio il punto fermo), come nella frase 2. In questi casi, solitamente si preferiscono le parentesi tonde alle lineette: «Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie (rosse, marrone e verdi).» con il punto dopo la parentesi di chiusura.

In ambito digitale la lineetta corrisponde al segno (–).

Raphael Merida

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

(1) Chiedo alle persone che conoscessero già la risposta di restare in silenzio.

(1a) Volevo confermare che nella proposizione relativa possiamo sostituire conoscessero sia al congiuntivo presente conoscano sia all’indicativo conoscono senza cambiare la semantica della proposizione.  In altre parole, il valore del congiuntivo (sia all’imperfetto sia al presente) è diafasico, giusto? La proposizione relativa è propria, giusto? È soltanto una questione del registro.

 

Prendiamo un’altra frase che mi sembra strutturalmente simile:

(2) Possono iscriversi al primo anno tutti coloro che abbiano passato l’esame di amissione.

(2a) La struttura della frase sembra uguale alla frase dell’esempio 1 nel senso che c’è un requisito o una limitazione, giusto?

(2b) Possiamo sostituire avessero passato e avevano passato per abbiano passato senza cambiare la semantica della frase? Anche qui i diversi modi dei verbi sono soltanto una cosa del registro e i valori sono diafasici?

(2c) Come possiamo capire che il pronome relativo che non può essere sostituto per esempio con “tale che” per darle una sfumatura di una proposizione consecutiva.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi 1 e 2 si può sostituire il congiuntivo con l’indicativo senza alcun cambiamento di significato; la scelta tra i due modi è un fatto che determina il maggior o minor grado di formalità. Sulla scelta fra presente e imperfetto congiuntivo la rimando alle seguenti risposte nell’archivio di DICO: Congiuntivo e consecutio nella proposizione relativa e Relative improprie.

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Potreste indicarmi quale delle due versioni che seguono sia più corretta?

  1. Mi ha chiamato o mi ha chiamata (se donna);
  2. Ci hai inibito o ci hai inibiti?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono corrette. In casi come questi, cioè quando le particelle pronominali ricoprono la funzione di complemento oggetto e si trovano prima del verbo, è possibile scegliere liberamente l’accordo sia per il genere (anche se il pronome indica una persona di sesso femminile), sia per il numero. Questa libertà non vale per i pronomi di terza persona singolare e plurale per i quali l’accordo di genere e numero del participio con l’oggetto è obbligatorio: «Li ho visti» (e non *li ho visto); «l(a) ho mangiata» (e non *l(a) ho mangiato).

Raphael Merida

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QUESITO:

La frase di partenza viene da Moravia:

(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.

Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:

(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).

 

Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?

 

(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:

“Mi ci faceva credere”.

Per me, il pronome mi ha valore di “a me”.  Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.

 

RISPOSTA:

Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.

L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.

Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

Quesito:

Ho un dubbio riguardo alla corretta interpretazione dell’uso di anche nella seguente frase:

Si consiglia intervento psico-educativo (2-4 ore a settimana, anche in piccolo gruppo).

Sulla base delle diverse definizioni del significato di anche“, sembrerebbe che la frase dovrebbe interpretarsi nel seguente modo:

Si consigliano 2/4 ore di intervento psico-educativo e anche 2/4 ore del medesimo intervento da svolgersi in piccolo gruppo (per un totale dunque di 4/8 ore).

L’interpretazione in senso “additivo” di anche del secondo elemento intervento in gruppo rispetto al primo elemento intervento sottinteso è corretta? L’interpretazione, se corretta, può definirsi univoca o può essere ambigua?

 

RISPOSTA:

Il significato di anche nella frase è senza dubbio rafforzativo; con esso, cioè, si ammette che l’intervento descritto precedentemente venga svolto nella modalità indicata subito dopo (in piccolo gruppo). Non bisogna, quindi, considerare l’intervento in piccolo gruppo come aggiuntivo rispetto a un altro intervento da svolgere con modalità diversa. Si tratta comunque di un’aggiunta, a ben vedere, ma ciò che viene aggiunto è una modalità alternativa per lo stesso intervento, non un ulteriore intervento. Se fosse aggiunto un intervento, la frase sarebbe stata formulata diversamente, esplicitando i termini salienti dell’intervento aggiuntivo (2-4 ore); per esempio (2-4 ore a settimana in seduta individuale e anche / inoltre 2-4 ore in piccolo gruppo).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Le due proposizioni introdotte dalla negazione “né” sono ben collegate al resto del periodo?

1) Ho effettuato due chiamate al vostro numero: non sono riuscita a parlare con un operatore, né sono stata richiamata, come (invece) promesso.

2) Ho effettuato due chiamate al vostro numero senza aver parlato con un operatore, né essere stata richiamata, come (invece) promesso.

Domando, a latere, se l’avverbio “invece” in questi casi sia consigliato, da evitare perché ridondante, oppure sbagliato.

 

RISPOSTA:

Nel primo periodo la congiunzione è usata del tutto correttamente, nel secondo no. vuol dire e non, quindi «e non sono stata richiamata» ecc. Invece è del tutto pleonastico in entrambi i periodi, quindi da evitare, anche se non è errato. Nel secondo periodo, non si può sostituire con e non: *«senza… e non…». Tuttavia, la coordinazione copulativa negativa correlata a senza è abbastanza diffusa (perché senza, sebbene non sia una negazione, esprime un concetto di negazione, cioè di privazione di qualcosa), nell’italiano colloquiale, quindi si può anche ammettere, nei registri meno sorvegliati. Ma è senza dubbio da evitare nello scritto più sorvegliato.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Nella frase “una madre di un ragazzo ogni giorno mette il suo zaino nell’entrata per ricordarglielo”, non ci sono errori o possibili equivoci nel pronome “suo”? Come ci si deve regolare in questi casi per non sbagliare?

 

RISPOSTA:

In questo caso non mi sembra vi siano equivoci, sia per motivi contestuali (perché mai la madre dovrebbe indurre il figlio a prendere il proprio, anziché il suo, zaino, per andare a scuola?), sia per motivi morfologici: infatti, se si volesse specificare l’appartenenza dello zaino al soggetto della frase (cioè, alla madre), si sarebbe potuto utilizzare proprio, per evitare ambiguità. In altri contesti, qualora vi fosse ambiguità, è suggeribile sostituire il possessivo con un sintagma disambiguante: «Luca accompagna Laura a casa di lei»; anche se, pure in questo caso, basterebbe sua, se ci si riferisce alla casa di Laura, propria se ci si riferisce a quella di Luca.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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QUESITO:

Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei capire meglio la differenza tra i seguenti termini: serio / serioso: una persona seriosa è una persona pesante?

Emozionante / emozionale: può un bracciale essere emozionale perché richiama delle emozioni?

A tempo, per tempo, in tempo-di fretta, in fretta: comprendo la differenza tra andare in fretta e andare di fretta ma, ad esempio, nel caso di «mangiare» si dice «mangiare di fretta» o «mangiare in fretta»?

Solo, da solo

 

RISPOSTA:

Sì, una persona seriosa è una persona pesante, che si prende troppo sul serio; anche un argomento può essere serioso.

Emozionale ha un uso molto limitato, sebbene oggi se ne abusi per influenza dell’inglese emotional, per cui non mi meraviglierei se anche un bracciale venisse (impropriamente) definito emozionale, anche se a rigore emozionale non è ciò che produce emozioni, bensì ciò che riguarda le emozioni, quindi si può parlare di stato emozionale (o emotivo).

Meglio «mangiare in fretta»; «di fretta» di solito si riferisce a andare o essere (ma non solo): «vado di fretta», «sono di fretta» = «ho fretta». Comunque, non è scorretto dire «mangiare di fretta».

Solo e da solo sono spesso intercambiabili: «sono sempre solo / da solo». Ma a volte non sono equivalenti: «riesci a farlo da solo» vuol dire ‘senza l’aiuto di nessuno’.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio, Italiano L2
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Su varie grammatiche, incluso Treccani, si legge che tra avverbi interrogativi (interrogativa diretta) e verbo è impossibile frapporre un elemento, che sia soggetto o qualsiasi altro elemento:

1)Quando marco arriverà a destinazione?*

2)Dove oggi andrai?*

Se si parla di congiunzione interrogativa, e di conseguenza di interrogative indirette

è possibile la frapposizione solo del soggetto:

3)Non so quando Marco arriverà.

4)Non so dove oggi andrà a fare shopping.*

Tutte queste regole e regolette, però, non valgono con “Perché”, usato sia come avverbio interrogativo che come congiunzione interrogativa; infatti con “perché” è possibile sia frapporre complementi (“Qui”, “con me” ecc…) sia soggetti (“Lui”, “Marco”), anche insieme, volendo, come nelle frasi 5 e 6.

Tutto questo sia nelle interrogative dirette o indirette che siano, per esempio:

5)Perché Marco all’estero si trova male?

6)Non so Marco all’estero si trovi così male.

Credo e spero che da 1 a 6 lei possa concordare con me.

Ci sono però dei casi, che non so per idiomaticità o meno, ma contravvengono a ciò che ho detto da 1 a 6, cioè:

a)Ricordo quando da bambino giocavo al parco con gli amichetti.

b)Non ho mai saputo quando da bambino hai avuto la prima fidanzatina.

c)Quanto la fortuna potrà incidere sul risultato?

Le frasi “a” e “b” sono dello stesso tipo della frase 4, mentre la frase “c” mi sembra dello stesso tipo della frase “1”.

Seguendo la (mia) logica, a meno che non abbia fatto un discorso errato dall’inizio alla fine, le tre frasi in questione sono scorrette, eppure le ho sentite spesso, anche con una certa frequenza; infatti anche a me è capitato di dirle in svariate occasioni, poiché al mio orecchio suonano particolarmente idiomatiche e non vi ravviso nessuna stonatura.

Qual è quindi la verità?

 

RISPOSTA:

Da assiduo navigatore di DICO, sa bene che la grammatica e la linguistica non si valutano in base alla verità (ammesso che si sappia cosa sia, la verità…), bensì ad altre categorie, quali la frequenza, l’accettabilità, la variabilità ecc. Ciò premesso, non è affatto vero che gli interrogativi non ammettano elementi tra sé e il verbo, e, tra i miliardi di frasi possibili, basterebbe questa: «Perché Marco non arriva?». Quindi, non soltanto concordo con lei, ma le confermo che nessuna delle frasi da lei citate (a, b, c) è sbagliata, e non perché siano idiomatiche (e infatti non lo sono), ma perché la mobilità dei costituenti consente queste e altre modificazioni dell’ordine cosiddetto diretto. Neppure le altre frasi da lei citate sono scorrette né agrammaticali, tranne la 2: «*Dove oggi andrai?», che però diventa quasi accettabile se al verbo si aggiunge un altro elemento: «Dove, oggi, andrai a fare la spesa?» (non naturalissima, ma possibile).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Tante di cose” o “tante di persone”, come dice Lei, sono agrammaticali, ma in caso di ripresa nominale, cioè col “ne” come ripresa pronominale in aggiunta al “di” partitivo (“Ne vede tante di cose/persone”), sarebbero legittime.

Se non si vuole utilizzare il pronome di ripresa “ne” allora bisognerebbe modificare il nome “cose”:

“Ogni giorno vede tante di queste cose/persone”.

Secondo lei, se cambiassimo ”vede tante di cose/persone” in “Vede tante di cose/persone interessanti” cambierebbe qualcosa o si resterebbe nell’agrammaticalità?

 

RISPOSTA:

Secondo me sì, sarebbe agrammaticale; accettabile, forse, soltanto in uno stile molto informale. L’indefinito tanto può reggere il partitivo, ma in contesti in cui sia chiara la ripartizione di un sottogruppo: «tanti dei miei amici non sono laureati», oppure: «vedo qui presenti tante delle persone che ho conosciuto al corso di francese» o simili. Invece, nel suo esempio («vede tante di persone interessanti») non c’è questa ripartizione, perché «tante persone» indica genericamente un numero elevato di persone e non un sottogruppo nell’ambito di un gruppo più ampio o di una totalità.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi propongo questa frase che ho avuto modo di leggere recentemente: “Il tempo è una dimensione nell’ambito della quale avviene la trasformazione della materia”. È corretto il termine “dimensione” riferito al tempo? Se sì, sarebbe altrettanto corretto usare il termine “entità” che, nella sua estrema genericitâ, dovrebbe contenere anche il concetto di tempo?

 

RISPOSTA:

Da un punto di vista fisico, secondo la teoria della relatività, il tempo è una dimensione, per la precisione la quarta; tuttavia, da un punto di vista più generale, qualunque oggetto o concetto può essere definito entità (cioè qualcosa che è), e dunque anche il tempo. Quindi entità è l’iperonimo (cioè il termine più generale), mentre dimensione è l’iponimo (cioè il termine più specifico). Ed è sempre possibile definire un iponimo con il suo iperonimo: dire di un fiore con le spine che è una rosa non esclude che sia anche un fiore e prima ancora un vegetale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

mi sarebbe gradito il vostro parere relativamente alla correttezza del termine metafora riferito ad un’opera letteraria. Mi sembra molto più appropriato, in questo caso, l’uso del termine allegoria; però mi è capitato frequentemente di imbattermi anche nella prima soluzione. Faccio un esempio: “Quest’opera è una metafora della vita”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio il termine allegoria sarebbe più appropriato, dal momento che rimanda, usualmente, a un complesso di concetti simbolici, piuttosto che al singolo uso traslato di una singola parola o espressione (come invece fa la metafora). Tuttavia, spesso il termine metafora è usato nel senso meno tecnico e più lato (e prossimo quindi a quello di allegoria) di ‘uso allusivo, simbolico’, e dunque si può accettare anche «un’opera come metafora della vita».

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?

L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:

  1. a) Ce ne sono (tante) di cose!
  2. b) Ne ha fatte (tante) di cose!

Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:

  1. c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
  2. d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
  3. e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.

Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.

Quello che mi chiedo è:

Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?

  1. f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?

 

RISPOSTA:

La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.

In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».

In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. a) Forse ci sarebbe chi accetterebbe a occhi chiusi.
  2. b) Forse ci sarebbe chi accettasse a occhi chiusi.

Tra le due mi suona di più la frase “a”, dove peraltro penso si possa ipotizzare una protasi velata/sottintesa:

“Forse ci sarebbe chi (se ne avesse la possibilità) accetterebbe a occhi chiusi”.

Ecco, sempre in merito alla questione del congiuntivo, condizionale e un’eventuale protasi implicita, ho letto delle risposte recenti su “Dico”, formulazioni del tipo “Chiunque volesse/vorrebbe, farebbe…”

La mia personale proposta è:

  1. c) Chi parteciperebbe alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.
  2. d) Chi partecipasse alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.

La frase “d” ricalca ovviamente il periodo ipotetico:

“Se qualcuno partecipasse alla gara, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte.”

Mentre la frase “c” ha un condizionale che è innescato e condizionato da una protasi che resta implicita:

“Chi parteciperebbe alla gara (se ne avesse la possibilità), forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte”.

Protasi, quest’ultima, che forse “potrebbe” (uso il condizionale) anche essere espressa per confermare la correttezza (?) del costrutto:

“Chi parteciperebbe alla gara se ne avesse la possibilità, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte”.

Che ne pensa? Sono intuizioni corrette, le mie?

 

RISPOSTA:

Sì, le sue sono intuizioni sostanzialmente corrette. Con alcune precisazioni. Il fatto che le “suoni” meglio «Forse ci sarebbe chi accetterebbe a occhi chiusi» si spiega con la struttura della frase, cioè una frase scissa con c’è presentativo, che dunque è un po’ come una frase semplice anziché complessa, equivalente a «Forse qualcuno accetterebbe a occhi chiusi». La modalità epistemica della frase autorizza pienamente il condizionale (ma anche il congiuntivo) senza alcun bisogno di sottintendere una protasi. Il concetto di sottinteso, infatti, andrebbe invocato il meno possibile, per evitare di sostituire le nostre personali e opinabili intuizioni all’effettiva natura della frase. Motivo per cui «Chi parteciperebbe alla gara…» è decisamente da respingere, a meno che, come dice lei, la protasi non sia presente. Ma, ne converrà, la frase con protasi “suona” come del tutto innaturale, nella sua farraginosità: «Chi parteciperebbe alla gara se ne avesse la possibilità, forse si ritroverebbe davanti un avversario troppo forte». Eviterei dunque questi tentativi scolastici e alessandrini di far tornare a tutti i costi i conti di frasi che nessuno pronuncerebbe mai, in contesti naturali. Meglio, dunque, il piano e naturale «Chi partecipasse alla gara» ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questi giorni mi sono imbattuto in questa frase: «Il suo passatempo consiste nel coltivare i fiori». Mi chiedo cosa sia «consiste nel coltivare i fiori» in analisi del periodo.

 

RISPOSTA:

Il suo passatempo consiste: principale

nel coltivare i fiori: subordinata completiva (soggettiva) implicita.

Sebbene l’infinito sia sostantivato (nel coltivare), esso viene comunque analizzato come proposizione.

Sebbene la proposizione si comporti non come soggetto, bensì come parte nominale di un predicato nominale (consiste nel = essere: il passatempo è coltivare…), essa è comunque analizzabile come completiva soggettiva.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Possono gli indefiniti reggere il condizionale?

Ecco alcune frasi:

Chiunque vorrebbe partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista.

Ecco una piccola guida per chi vorrebbe avere maggiori informazioni.

Quale tempo e modo regge, invece, dovunque?

-Ti seguirò, dovunque tu vai/vada/andrai/andresti/andassi.

E se nella principale c´é un condizionale?

-Ti seguirei, dovunque …

-Ti avrei seguito, dovunque…

 

RISPOSTA:

Gli indefiniti possono reggere il condizionale soltanto se si trovano nella proposizione reggente, non se si trovano in una proposizione relativa con sfumatura ipotetica come tutte quelle da lei indicate, nelle quali è ammesso soltanto il congiuntivo o l’indicativo. Vediamo caso per caso.

«Chiunque volesse/voglia partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista»: la relativa retta da chiunque ha un evidente valore ipotetico, cioè è analoga alla protasi del periodo ipotetico: «se qualcuno volesse partecipare…». Quindi comprende bene come il condizionale sarebbe del tutto abnorme: *se qualcuno vorrebbe…

Identico discorso per le altre frasi:

«Ecco una piccola guida per chi volesse/voglia avere maggiori informazioni».

«Ti seguirà, dovunque tu vai/vada/andrai/ andassi» (ma non *andresti).

«Ti seguirei, dovunque tu andassi»: identico a sopra, con preferenza per andassi, sempre in parallelo con il periodo ipotetico: «se andassi in qualunque luogo, io ti seguirei».

«Ti avrei seguito, dovunque fossi andato».

Diverso il caso in cui l’indefinito si trovasse nella reggente, cioè con valore analogo a quello di una apodosi di un periodo ipotetico, cioè con valore condizionale, appunto: «chiunque potrebbe partecipare» (se volesse);

«Ti seguirei dovunque» (se partissi);

«Ti avrei seguito dovunque» (se fossi partito).

Molto interessanti le ultime frasi, perché, come vede, a seconda della pausa (o, per meglio dire, a seconda della relazione col verbo reggente), dovunque può avere funzione avverbiale («Ti seguirei/avrei seguito dovunque»), e in questo caso, come parte della reggente, può accompagnarsi a un condizionale, oppure funzione pronominale o di congiunzione relativa («Ti avrei seguito, dovunque fossi andato»), in cui il valore è di pronome doppio ‘in qualunque luogo in cui’, il quale, essendo alla testa di una subordinata relativa ipotetica, non può ammettere il condizionale.

Ecco un’altra coppia di esempi: «ti seguo/seguirei ovunque (tu) vada/andassi» DIVERSO DA «se io non ti seguissi tu andresti ovunque». Nel primo caso ovunque ha valore di congiunzione relativa (cioè di pronome relativo doppio: ‘in qualunque luogo in cui’), mentre nel secondo caso ha valore di avverbio (‘dappertutto, in qualunque luogo’).

Prevengo subito un’altra domanda possibile: allora non può esistere una subordinata relativa al condizionale? Sì, ma soltanto se ha valore condizionale, cioè come una sporta di apodosi di periodo ipotetico con protasi sottintesa: «questi sono i soldi che ti lascerei» (protasi sottintesa: «se io morissi/se dovessi averne bisogno» ecc.).

Fabio Rossi

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Nella parola saggio, -ggi- può essere considerato un trigramma composto dal digramma -gg- + -i- muta?

Le doppie non sono mai menzionate negli elenchi dei digrammi perché rappresentano non fonemi determinati, ma varianti rafforzate di altri fonemi. Non sarebbe, però, del tutto scorretto considerarle comunque digrammi, al pari dei digrammi che rappresentano fonemi scempi. Seguendo il primo criterio, -ggi- in saggio, ovvero, foneticamente, [dʒ:] o [ddʒ], è la variante rafforzata del fonema [dʒ]; seguendo il secondo, è un trigramma che rappresenta il fonema [dʒ:], distinto da [dʒ]. In entrambi i casi, il grafema -i- in questa parola non corrisponde a un fonema, ma serve a distinguere il suono palatale da quello velare (che si avrebbe in saggo); il termine tecnico per definire questa funzione della -i- è diacritica o (segno) diacritico. Di solito, inoltre, non si dice che la -i- è muta perché in altre parole rappresenta una semivocale (cambio) o una vocale a tutti gli effetti (farmacia); diversamente, l’-h- è detta muta perché in italiano non ha mai un suono (per approfondimenti si veda qui).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Scritto-parlato-mediato
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“È arrivato il momento che il proprietario venga a ritirare la macchina”. La frase è corretta o si dovrebbe scrivere con in cui?
“È arrivato il momento in cui il proprietario venga a ritirare la macchina”.
Perché mi suona meglio la prima?

 

RISPOSTA:

Subordinate come quella da lei presentata si collocano a metà strada tra le relative, le temporali e le soggettive. Se la consideriamo una relativa dobbiamo costuirla con in cui, perché un evento succede in un momento; se la consideriamo temporale la costruiremo con quando; se la consideriamo soggettiva useremo la congiunzione che (in questo caso è il momento che viene assimilato a è il caso che o simili). I parlanti sfavoriscono decisamente l’opzione temporale e oscillano tra la relativa e la soggettiva, per via della somiglianza tra le due costruzioni (non a caso il che usato in casi come questi rientra nella casistica del cosiddetto che polivalente), preferendo, di solito, la seconda. Quest’ultima è da considerarsi del tutto regolare e utilizzabile in ogni contesto. A conferma della vicinanza di questa subordinata alle soggettive, se il soggetto della subordinata è impersonale essa si costruisce con di + infinito, proprio come le soggettive: “È arrivato il momento di andare”. Va detto, però, che la costruzione relativa diviene preferibile se il momento non è all’interno di un costrutto presentativo, per esempio “Nel momento stesso in cui l’ho visto ho provato una forte emozione”. In questo caso la costruzione con che è percepita come più trascurata.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Riguardo il suo ultimo intervento (“È bastato a/per e topicalizzazioni”) mi è quasi tutto chiaro.

L’unica cosa che non mi è totalmente chiara è quella che riguarda la topicalizzazione.

Secondo me: Per esempio, con un complemento di fine o proposizione finale anteposta, quest’ultimo/a è topicalizzato/a e invece l’elemento focalizzato/marcato all’interno della frase è il soggetto posposto (“impegno”) ed è lì che cade la tonica:

  1. a) Cosa è bastato a raggiungere l’obiettivo/ al raggiungimento dell’obiettivo?
  2. b) A raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo è bastato il sano impegno.

Invece quando il complemento di fine o proposizione finale viene posposto/a (piuttosto che anteposto/a) diventa l’elemento focalizzato/marcato (cioè, vi cade la tonica) e di conseguenza il soggetto (“impegno”) non ha particolare rilievo nella frase:

  1. c) L’impegno a cosa è bastato?
  2. d) L’impegno è bastato a raggiungere l’obiettivo/al raggiungimento dell’obiettivo.

Era questo che intendevo parlando di focalizzazione.

Sono corrette le mie considerazioni?

 

RISPOSTA:

Sì, le sue considerazioni ora sono corrette. Dalla sua precedente domanda sembrava considerare focalizzato quanto si trovasse preposto al verbo o alla reggente, mentre in quei casi di tratta di topicalizzazioni. Benché la terminologia sui fenomeni di sintassi marcata talora oscilli lievemente (non tutti danno a focus lo stesso significato), di norma ciò che è focalizzato ha maggiore salienza fonica (non soltanto accentuativa), ha maggior rilievo informativo, veicola un’informazione nuova e talora contrastata e riguarda il comment (o rema) o una sua parte. Di norma si trova sul lato destro degli enunciati, tranne casi specifici in cui viene anticipato, ma con forte rilievo prosodico: per es., «LUI devi incolpare, non me!». Quanto è topicalizzato, all’opposto, ha funzione di topic (o tema), è dato, ha intonazione ascendente-sospensiva, non saliente, si trova di norma sul lato sinistro degli enunciati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Sintassi marcata, Tema e rema
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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Quell’esame di laboratorio si avvale dell’uso di sostanze radioattive”. Desidererei sapere se il verbo in questione può riferirsi ad una procedura oltre che a colui o a coloro che tale procedura pongono in atto.

 

RISPOSTA:

Non sono sicuro di aver ben compreso la sua domanda: vuole sapere se il verbo avvalersi può ammettere un soggetto inanimato (quell’esame), oppure soltanto animato (i tecnici di laboratorio)? Se la domanda è questa, la risposta è sì, il verbo avvalersi, benché propriamente riferito a soggetti animati, può, per metonimia, riferirsi anche a soggetti inanimati che indichino, per traslato, le persone. È evidente che con esame di laboratorio si intende qui la persona o le persone che hanno eseguito quell’esame.

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In realtà non penso di aver trovato una risposta. Qualcuno (per es. nella voce «relative, congiunzioni», di Giuliana Fiorentino, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani) considera questi casi (Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece;

Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata; Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato; L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino) come introdotti da una congiunzione relativa. Ho semplicemente detto che sui dizionari si parla di congiunzione relativa assimilabile a “in cui” (“quell’estate quando lo incontrai”) o di congiunzione relativa doppia (“lo conobbi quando ero a Roma”). Tuttavia, nelle quattro frasi riportate (soprattutto la seconda), non mi sembra che la funzione di “quando” sia né quella di una congiunzione relativa né quella una congiunzione relativa doppia, visto che Lei stesso mi ha fatto notare che né “in cui” né “nel momento in cui” possono sostituire quel “quando” nelle frasi. Infatti, da lì è nato il mio dubbio, visto che ho chiesto quale valore avesse quel “quando” (vista la connessione che aveva con l’antecedente a mo’ di pronome relativo) e come lo si potesse eventualmente parafrasare.

 

RISPOSTA:

In effetti la classificazione di questi casi è problematica, né le grammatiche né i dizionari aiutano molto, dato che taluni classificano alcune subordinate introdotte da quando soltanto come temporali (escludendo dunque la possibilità di un quando congiunzione relativa), mentre altri pongono il caso. Ancora una volta, come ribadito più volte nelle nostre risposte di DICO, non esiste una risposta giusta e una sbagliata, ma è solo questione di diversi punti di vista da cui guardare al fenomeno. Chi classifica tutti i casi come temporali (Serianni), chi, invece, fa definizioni più sottili (come la voce «relative, congiunzioni», di Giuliana Fiorentino, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani. Certamente, però, il discrimine non può essere quello della parafrasi, perché, da questo punto di vista, anche una congiunzione temporale può essere parafrasata con ‘nel periodo/momento in cui’ o simili: «andrò al mare quando avrò finito gli esami». Allora forse sarebbe più prudente (ma, ripeto, è soltanto una delle tante soluzioni possibili) considerare quando come congiunzione relativa (o pronome relativo) soltanto nei casi di un antecedente chiaro: “quell’estate quando lo incontrai”. Per tutti gli altri casi, invece, ivi compresi quelli da lei segnalati in “Che temporale” (risposta di DICO), ritengo ancora più prudente la classificazione come temporale, senza dare rilievo alla parafrasi, che porta fuori strada per i motivi già detti. Infatti, in buona sostanza, in tutti e 4 i casi da lei segnalati la parafrasi possibile è uguale sia nel valore temporale, sia nel valore relativo. Ma allora che senso ha aggiungere quest’altra categoria? Entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem. A meno che non si guardi alla struttura profonda della frase, sceverando di volta in volta se il valore sia più vicino all’amplificazione di un sintagma nominale (relativo), oppure a un valore avverbiale, cioè extranucleare (temporale). Per riprendere i suoi esempi:

  1. «Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece». Parafrasi: nel periodo/all’epoca in cui
  2. «Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata». Parafrasi: nel periodo in cui.
  3. «Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato». Parafrasi: in un momento in cui.
  4. «L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino». Parafrasi: nel momento in cui.

 

Come vede, in nessun caso c’è un antecedente (specifico) espresso, ma andrebbe ricostruito come se fosse inglobato nella congiunzione (o pronome) quando. Cosa che ho fatto nella parafrasi, che però, attenzione, è solo a scopo esplicativo. Se le frasi fossero davvero prodotte con la parafrasi da me proposta, sarebbero delle pessime frasi, cioè del tutto innaturali. In conclusione, come ripeto, ma che senso avrebbe addurre la parafrasi a riprova del valore relativo se quella stessa parafrasi spiegherebbe anche il valore temporale propriamente detto? «Rispondi quando ti chiamo», parafrasi: nel momento in cui.

Ovviamente, in altre frasi, quando può avere anche valori (interrogativo, ipotetico, avversativo), ma questa è un’altra storia.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è la più corretta e formale?

1) serve un sacco di cose

2) servono un sacco di cose

Io personalmente credo che la prima sia la più formale in quanto richiama una concordanza grammaticale, mentre la seconda più diffusa nel linguaggio confidenziale sembra accordata “ad orecchio”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio la prima è più formale e ineccepibile, dal punto di vista grammaticale, dato che «un sacco», testa del sintagma, è singolare. Il secondo è un caso normalissimo (e ormai accettato anche dall’italiano standard) di concordanza a senso, in cui la concordanza del verbo al plurale si spiega con il fatto che l’intera espressione «un sacco di X» indica una molteplicità, del tutto equivalente a «molti X». Inoltre, dato che è la stessa espressione «un sacco di» ad essere informale e colloquiale, e dato che essa si è del tutto lessicalizzata come pressoché assoluto sinonimo di «molti», la concordanza “grammaticale” col verbo al singolare appare in questo caso un’inutile, e un po’ goffa, pedanteria. Si può aggiungere, infine, che talora al Nord può essere preferita la prima forma (col verbo al singolare) non in quanto più formale, bensì in quanto più vicina ad analoghi casi (ma stavolta non standard) di italiano regionale con verbo al singolare accordato a soggetto plurale, come per esempio «ce n’è molti».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su una frase: “avrei bisogno di sapere se potessi sostenere l’esame (giorno x)”. Non mi suona male ma mi è stato fatto notare che non era così corretta e che dovrei dire invece “se sia possibile(…)”. Potreste aiutarmi? Vanno bene entrambe?

 

RISPOSTA:

In effetti, non si giustifica l’imperfetto, perché in questo caso il rapporto temporale tra le due proposizioni non è di contemporaneità nel passato, bensì di posteriorità o di contemporaneità nel presente, quindi la scelta migliore è il congiuntivo presente, oppure l’indicativo presente: «… se posso sostenere… / se è possibile sostenere…». Inoltre, è sbagliato (o quantomeno troppo informale e regionale) «giorno 12» (per es.), perché la forma dell’italiano standard prevede l’uso dell’articolo, cioè «il giorno 12».

Fabio Rossi

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QUESITO:

1.Probabilmente non ci sarebbe nessuno che mi desse/darebbe una mano.

2.Se avessi cercato aiuto, non avrei trovato qualcuno che mi desse/avrebbe dato una mano.

3.Se fosse il caso, te lo direi prima che tu te ne vada/andassi/andresti.

4.Se fosse stato il caso, te lo avrei detto prima che tu ne andassi/fossi andato/saresti andato.

Secondo me, nelle prime due frasi si può usare sia il congiuntivo imperfetto che il condizionale presente (1) e passato (2).

In merito alla terza, per una questione di orecchiabilità, direi corretto l’imperfetto e un po’ meno il congiuntivo presente, mentre “no” assoluto per il condizionale presente, che con “prima che” non penso sia compatibile.

In merito alla quarta, va bene l’imperfetto e congiuntivo trapassato, mentre, come dicevo prima, no per il condizionale passato in quanto incompatibile con “prima che”.

Cosa ne pensa? Sono considerazioni corrette oppure ravvisa degli errori di valutazione?

 

RISPOSTA:

Le sue interpretazioni mi sembrano ineccepibili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1a) Cosa è bastato a fargli cambiare idea?

1b) A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.

2a) Cosa è bastato per fargli cambiare idea?

2b) Per fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.

Sono sicuro della correttezza grammaticale di 2a e 2b, mentre non saprei esprimermi sulla correttezza grammaticale di 1a e 1b?

Ho consultato vari dizionari, ma non ho trovato esempi di quello che intendo: Se all’interno della frase il complemento di fine (introdotto da “a”) è focalizzato/marcato(su cui cade la tonica), allora so per certo che tale preposizione si può utilizzare:

-Questo a cosa è bastato?

-Questo è bastato a chiarire.

Se invece è il soggetto quello ad essere focalizzato/marcato (ovvero sempre l’elemento su cui cade la tonica), allora su ciò non ho trovato esempi:

-Cosa è bastato a fargli cambiare idea?(???)

-A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico(???)

Lei cosa ne pensa?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono corrette. Non si tratta in nessuna di complemento di fine, né di soggetto, bensì di proposizioni subordinate finali. Inoltre, se la finale è anteposta alla reggente non è focalizzata, bensì topicalizzata, cioè in funzione di topic.

Diverso il caso di «Questo a cosa è bastato?», in cui il pronome interrogativo «a cosa» ha in effetti funzione di complemento di fine ed è sicuramente più comune di «per» (che comunque non sarebbe scorretto), in dipendenza da bastare. Tuttavia, nella frase successiva, in cui il complemento di fine diventa invece una subordinata finale, a e per sono intercambiabili: «Cosa è bastato a/per fagli cambiare idea?».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. Mi sembra ieri che/quando eri ancora piccolo tra le mie braccia e guardati adesso invece.
  2. Mi sembra di essere ritornato piccolo che/quando la vita era più spensierata.
  3. Chiami proprio adesso che/quando sono così impegnato.
  4. L’informazione è arrivata proprio ieri che/quando è successo il casino.

Il “che” in queste frasi che valore ha, di pronome relativo assimilabile a “in cui”?

“Quando” invece potrebbe essere una congiunzione relativa col valore di “in cui” oppure invece potrebbe essere una congiunzione relativa doppia, paragonabile a “il periodo in cui/nel periodo in cui”?

Fermo restando che tutti le alternative proposte in sostituzione di “che” o “quando” non mi suonerebbero nelle quattro frasi elencate.

 

RISPOSTA:

Il che in questione è un tipico «che temporale», vale a dire di valore intermedio tra il pronome relativo e la congiunzione, in alcuni casi; in altri con valore decisamente di congiunzione temporale. Quando è una congiunzione temporale e non un pronome relativo doppio, anche se la distinzione è di carattere più convenzionale-nomenclatorio che sostanziale: per esempio, è chiaro il parallelismo con dove pronome relativo doppio (‘nel luogo in cui’: «va’ dove di pare»); però, per convenzione, esistono le subordinate temporali, e non le “locali”, che vengono invece categorizzate come relative. In nessuna delle frasi proposte sarebbe possibile la sostituzione con “in cui”. Anche la sostituzione con “il periodo in cui” sarebbe del tutto innaturale.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Premetto che tendo a evitare di chiedere chiarimenti su argomenti ampiamente discussi, ma stavolta non posso rinunciarvi: si tratta di un dubbio che mi assilla da tempo (e, evidentemente, non assilla soltanto me). Confido sempre in voi quando mi trovo in tale condizione: siete un solido punto di riferimento.
Detto questo, vengo al dunque.
In vari articoli – alcuni dei quali sono piuttosto recenti – avete spiegato e ribadito che nelle completive, in particolare nelle oggettive, il condizionale è ammesso se la protasi è esplicita.
Mi riallaccio a un esempio già analizzato, introdotto da sarebbe possibile/è possibile.
La mia domanda è diretta: il condizionale nella proposizione oggettiva è ammesso come variante accettabile delle soluzioni con il congiuntivo, oppure è l’unica forma ammessa?
In altre parole, anche quando vi sia una protasi esplicita, o quando essa sia ricavabile dal contesto senza grossi sforzi logici, il parlante può comunque selezionare il congiuntivo?
Le varianti sintattiche (sono tutte corrette?) che un esempio come quello sopra citato potrebbe accogliere sarebbero le seguenti:
a) Sarebbe possibile che arriverebbe, se lo aspettassimo ancora.
b) Sarebbe possibile che arrivi, se lo aspettassimo ancora.
c) Sarebbe possibile che arrivasse, se lo aspettassimo ancora.
d) È possibile che arriverebbe, se lo aspettiamo/aspettassimo ancora.
e) È possibile che arrivi, se lo aspettiamo/aspettassimo ancora.

Ho sempre privilegiato il congiuntivo nelle oggettive affini a quella che è al centro del quesito (in questo caso, ad esempio, fra tutte le varianti, sceglierei la C e la E, indipendentemente dalla presenza della protasi). Ho inoltre notato, effettuando alcune ricerche su Google Libri, che molti autori, nelle loro opere, hanno seguito la stessa strada.
Chiedo aiuto a voi, come al solito, per dissipare la nebbia intorno a questo argomento.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle cinque frasi può dirsi errata, anche se quelle meno felici sono proprio la a) e la d), perché da una completiva retta da “possibile” ci si aspetta in primo luogo il congiuntivo. Qui il condizionale ovviamente si giustifica perché la completiva è a sua volta apodosi di periodo ipotetico, però, come ripeto, il congiuntivo è comunque la scelta preferibile. Sulla consecutio temporum arrivi/arrivasse (entrambe forme corrette), può leggere la risposta di DICO Congiuntivo presente o imperfetto in dipendenza da vorrei e altre risposte connesse.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) Lo fai pentire delle sue azioni.

2) Lo fai pentirsi delle sue azioni

3) Lo lasci pentire delle sue azioni.

4) Lo lasci pentirsi delle sue azioni.

Per quanto mi riguarda, penso che con “fare” sia sbagliata l’inserzione del pronome riflessivo “si”, nonostante il verbo sia intransitivo pronominale e lo richiede.

Per quanto riguarda il verbo “lasciare” credo che si possa utilizzare il riflessivo, o almeno l’ho sempre fatto, ma non so se sia necessario al 100%.

Quindi significa che per me sono corrette la prima e la quarta, la terza potrebbe forse essere corretta, infine c’è la seconda che è errata.

Non ho i mezzi per stabilirlo, quindi chiedo a lei.

Magari saprebbe dirmi se ci sono delle regole e ragioni grammaticali ben precise in merito, con cui si può stabilire la correttezza o la non correttezza delle quattro frasi?

 

RISPOSTA:

Come si legge nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino, 1991, vol. 2, p. 509, «I verbi riflessivi appaiono nella costruzione fattitiva senza il clitico riflessivo», pertanto le sole frasi corrette sono la 1 e la 3. In altri termini, quanto il verbo fattitivo o causativo (fare, lasciare) determina lo spostamento del soggetto della subordinata infinitiva, ingloba in sé anche il clitico riflessivo, che invece deve essere espresso se lo spostamento del soggetto (e l’infinitiva) manca, cioè: «Fai (o lasci) che si penta delle sue azioni». Lo stesso vale per soggetto/oggetto espresso in forma piena: «Fai/lasci pentire (e non pentirsi) Marco delle sue azioni», ma «fai/lasci che Marco si penta (e non penta) delle sue azioni.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.

“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.

Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.

L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La ringrazio per aver chiarito il mio dubbio sulla questione delle proposizioni causali/finali.

Lei ha però sollevato la questione del tema del controllo, su cui non avevo mai fatto più di tanto caso.

Nella frase “spero di redimermi” vi è una oggettiva implicita, che si lega al verbo sperare, il cui soggetto è “controllato” dal soggetto della reggente.

Ci sono casi in cui, però, la subordinata implicita più che essere legata direttamente al verbo, fa da modificatore di un sintagma nominale, quest’ultimo legato direttamente al verbo:

  1. a) Non dimenticherò mai il fatto di essere sempre stato leale con tutti voi.
  2. b) Pensavo che questa fosse l’occasione per potermi pentire.

Queste due frasi sono molto idiomatiche, ma da un punto di vista puramente grammaticale (sempre riallacciandoci alla questione che la subordinata implicita non ha un contatto diretto col soggetto della reggente, ma piuttosto tale subordinata è parte del sintagma nominale) possono essere viste come corrette?

In queste due frasi, può effettivamente il soggetto della reggente (io) essere il controllore della subordinata implicita?

C’è poi un ulteriore costrutto grammaticale, a mio modo di vedere molto idiomatico e utilizzato:

  1. c) Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore, molto spesso sottovalutate.

In questa frase, abbiamo nuovamente una subordinata implicita (introdotta da “per” o “di”) e che si lega al sintagma nominale, come nei due casi precedenti.

La vera differenza la fa lo stesso sintagma nominale, che è il soggetto grammaticale della reggente.

Quindi ci sarebbe da chiedersi: Perché si lega il soggetto della implicita alla seconda plurale “voi”?

Forse l’aggettivo “vostro” controlla il soggetto della subordinata implicita? Secondo lei, potremmo quindi vedere tale aggettivo come soggetto logico della reggente? Il soggetto logico, secondo le grammatiche, può controllare il soggetto della subordinata implicita, in quanto è colui che materialmente fa qualcosa:

“Mi sembra di aver capito”.

“Mi” equivale a “io”, che sarebbe riformulabile in tal modo:

“Io penso di aver capito”.

Cosa ne pensa lei di questi particolari casi?

 

RISPOSTA:

Certamente le frasi da lei riportate sono corrette (e non sono idiomatiche, né colloquiali, ma del tutto normali in qualunque registro dell’italiano standard). Anche quando le subordinate espandono un sintagma nominale, cioè dipendono da un nome, un aggettivo o un pronome anziché da un verbo (e troverà numerosi esempi di questo sempre nella solita Grande grammatica italiana di consultazione), il soggetto è controllato da un elemento della reggente. Nelle prime due frasi da lei citate, infatti, il soggetto della subordinata è controllato dal soggetto della reggente (io).

Molto giusta la sua intuizione sulle altre frasi: il soggetto della subordinata può essere controllato anche da altri elementi della reggente, ivi compreso un soggetto logico, a senso, generico ecc.:

  1. c) «Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore»: il controllore è sicuramente vostra.
  2. d) «Mi sembra di aver capito»: il controllore è mi (cioè il benefattivo o esperiente, chi prova una determinata esperienza, ovvero il soggetto logico, in questo caso).

Ma ci possono essere anche casi più complessi sintatticamente, per esempio:

«Ti ho dato la scusa per/di andartene»: il soggetto della subordinata (tu) è controllato dal complemento di termine della reggente (ti).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il condizionale passato può essere impiegato – come spiegato a più riprese – per indicare il futuro nel passato; può, però, esprimere anche anteriorità rispetto a un dato momento di riferimento e, nel contempo, mantenere la sua funzione di eventualità?

In un periodo come quello riportato più sotto, l’azione descritta con il condizionale passato sarebbe interpretata come anteriore, posteriore (rispetto a quella della subordinata) o sarebbero possibili entrambe le soluzioni?

1. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero lasciato la spiaggia.

In assenza di altri elementi, la semantica mi porterebbe a optare per l’interpretazione posteriore; ma, in astratto, potrebbe anche essere vero il contrario.

Con verbi differenti, ad esempio, non avrei alcuna esitazione a stabilire il rapporto tra le due proposizioni.

2. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa (condizionale passato = posteriorità rispetto al congiuntivo trapassato: Laura raggiunge lo stabilimento e i suoi amici, dopo, vanno a casa).

3. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero stati a casa (condizionale passato = anteriorità rispetto al congiuntivo trapassato. Laura raggiunge lo stabilimento, ma i suoi amici se ne sono andati a casa).

In sintesi, il condizionale passato, a seconda dei casi, può esprimere anteriorità o posteriorità rispetto a un momento di riferimento (anche tralasciando l’enunciazione), come negli esempi sopra indicati?

Riguardo al periodo 1, l’inserimento di un avverbio come già potrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione temporale dell’azione, spingendo a considerare la proposizione espressa con il condizionale passato nel passato rispetto alla subordinata? (“Laura sapeva che nel momento in cui avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero già lasciato la spiaggia” = Gli amici di Laura hanno lasciato la spiaggia prima che lei abbia raggiunto lo stabilimento).

 

RISPOSTA:

Il condizionale descrive un evento condizionato rispetto a un altro condizionante (tipicamente costruito con una proposizione ipotetica); il rapporto tra la condizione e la conseguenza attiva automaticamente un rispecchiamento temporale in cui la condizione precede la conseguenza. Questa funzione modale e temporale che lega la proposizione con il condizionale alla proposizione con il congiuntivo (o l’indicativo) da essa dipendente si intreccia con quella relativamente temporale che lega la stessa proposizione con il condizionale a quella che la regge (se la frase la prevede). In questa seconda relazione entra in gioco il valore di futuro nel passato.

In particolare, quando la reggente è al presente, quindi il momento dell’enunciazione è presente, il condizionale passato descrive un evento anteriore, quindi passato: “Penso [adesso] che lui avrebbe agito diversamente [nel passato] se le condizioni lo avessero consentito”. Lo stesso vale se il momento dell’enunciazione è futuro: “Ti renderai conto che lui avrebbe agito diversamente…”. Se il momento dell’enunciazione è passato, la funzione relativamente temporale del condizionale passato diviene di posteriorità (è il cosiddetto futuro nel passato). Per questo, nelle sue tre frasi, gli eventi al condizionale passato sono sempre successivi a quello del sapere espresso nella proposizione principale Laura sapeva. Per quanto riguarda la relazione tra la proposizione con il  condizionale e la subordinata al congiuntivo nelle sue frasi, bisogna considerare l’ambiguità provocata dalla semantica dei verbi e dalla congiunzione che introduce la subordinata stessa. Nella frase 1 non c’è dubbio che l’evento del lasciare sia conseguente, quindi anche successivo, a quello del raggiungere;  nella frase 2 l’evento dell’andare potrebbe essere avvenuto precedentemente a quello del raggiungere, quindi potrebbe non esserne la conseguenza. Questa possibilità vale perché la locuzione congiuntiva nel momento in cui ammette un’interpretazione temporale, quindi è possibile che l’andare segua il sapere ma preceda il raggiungere. Questa interpretazione non sarebbe possibile se al posto di nel momento in cui ci fosse se (“Se avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa” = gli amici vanno certamente via come conseguenza dell’arrivo di Laura, quindi dopo). Lo stesso vale a maggior ragione per la frase 3, in cui il verbo essere costringe a un’interpretazione anteriore rispetto a raggiungere (ma comunque sempre successiva a sapere), perché indica uno stato e non un’azione (diversamente da lasciare e andare). Nella frase, infatti, la congiunzione se sarebbe ammessa soltanto con una sfumatura concessiva (se = anche se), perché rappresentare un evento precedente a un altro come la conseguenza di quest’ultimo sarebbe incoerente. Ovviamente, l’aggiunta di già enfatizza la precedenza dell’essere rispetto al raggiungere.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Stavo pensando a qualche frase:

1) Lo ringrazio per avermi aiutato

2) Lo rispetto per avermi aiutato

3) Questo lo dico al di là del rispetto che io ho per lui per avermi aiutato.

Partiamo dalle prime 2:

Qui abbiamo una proposizione causale, il cui soggetto rimanda all’oggetto diretta della reggente.

Ora, esistono numerosi verbi che si comportano in questo modo, ma che solitamente reggono la preposizione di, (come anche lo stesso verbo “ringraziare”), per esempio:

– lo supplico di andarsene (finale).

– ti ringrazio di avermi dato ascolto (causale).

Quella di far concordare oggetto diretto della reggente e soggetto della finale o causale introdotta da “per” può ritenersi un grossolano errore, se non un colloquialismo, in quanto sarebbe meglio una proposizione esplicita come “perché, “poiché”, “affinché” ecc…?

La terza frase è quella che mi desta più dubbi, in quanto non c’è un oggetto diretto (lui) che possa concordare col soggetto della proposizione implicita causale, ma il soggetto della causale sembra comunque essere lo stesso del pronome del sintagma preposizionale “per lui”.

Forse, è proprio a causa di quel “per” che il tutto mi suona scorretto, forse cambierebbe qualcosa se in questa frase dicessimo “di lui” al posto di “per lui”.

Rimetto a lei l’ultima parola, quella che possa far luce sull’intrigo.

 

RISPOSTA:

Come già osservato in altre risposte, il tema del “controllo” (come si definisce in sintassi, o se preferisce dell’identità del soggetto con altro elemento della frase) del soggetto delle subordinate implicite, ora da parte del soggetto della reggente, ora da parte di altri complementi (non solo l’oggetto) è ricco e complesso. Non c’entra nulla la colloquialità, nei casi specifici da lei sottoposti. Può avere una prima panoramica della ricchissima casistica del controllo del soggetto delle subordinate all’infinito nella Grande grammatica di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1991, vol. 2, pp. 483-569.

Come ripeto, la frase 3 va benissimo, il soggetto della subordinata implicita infinitiva causale («per avermi aiutato») è controllato da «per lui», non è colloquiale e non cambierebbe nulla rispetto a «di lui» (per es.: «…considerazione che ho di lui…»).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Non sempre riesco a trovare la preposizione giusta, proprio come nel caso dei verbi e aggettivi seguenti:

discutere di politica so che é corretto ma va anche bene ´discutere di Carlo o su Carlo´?

parlare di musica o sulla musica

persuado Ines a iscriversi…

sono persuaso di o a

mi sono persuaso di o a

convinco Ines di o a

mi convinco di o a

mi sono convinto di o a

fortunato di o a 

sono d´accordo di o a

badare di non cadere o a non cadere

sono deluso di o per aver perso

Come ci si comporta quando non si riescono a trovare le giuste preposizioni per un verbo, un aggettivo … nel dizionario?

 

RISPOSTA:

La scelta della preposizione è tutt’altro che semplice, anche per i madrelingua. In caso di dubbio, i vocabolari migliori aiutano quasi sempre, perché di solito specificano le principali reggenze preposizionali soprattutto dei verbi, talora anche dei sostantivi e degli aggettivi. I dizionari più utili in questo senso sono il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera), il GRADIT di Tullio De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito internazionale.it) e il Nuovo Devoto Oli. Vediamo ora i suoi casi specifici.

«Discutere di politica», «di Carlo» vanno benissimo. Si può anche discutere su qualcosa, però è sicuramente una scelta più formale o adatta a una discussione più specifica, non per parlare del più e del meno, per cui «discutere su Carlo», ancorché corretto, suonerebbe un po’ strano.

«Parlare di musica» è la scelta migliore. Se si sta parlando a un convegno si può dire anche «fare una conferenza sulla musica di Chopin». Su presuppone un parlare più specificamente, mentre di ha un uso esteso a tutte le situazioni.

«Persuado Ines a iscriversi»: benissimo.

«Sono persuaso di» va bene, ma è possibile anche a, che accentua il fine: «mi persuasi ad ascoltarlo», «sono persuaso di volerlo fare».

«Convinco Ines di o a» vanno bene entrambi, ma, se il contesto sottolinea il fine, allora è meglio a, come per persuadere: «Convinco Ines a venire a cena con me», «sono convinto di volerla invitare a cena».

«Fortunato di» è meglio di «fortunato a», se segue una proposizione infinitiva, ma se segue un nome si può usare solo a: «sono fortunato di giocare a tennis con te», ma «sono fortunato al gioco», «a carte». Ma è possibile anche di in alcuni casi: «fui fortunato del risultato». Ed è possibile anche in: «fortunato in amore». Dipende dal contesto: in certe espressioni è meglio a, in altre di, in altre in: in casi simili la consultazione del vocabolario è indispensabile.

«Sono d’accordo» può reggere sia di sia a. «Sono d’accordo di finire prima», «è d’accordo a vendermi la moto». Per l’argomento su cui si è d’accordo si usa su: «essere d’accordo su qualcosa».

«Badare di non cadere» o «a non cadere» vanno bene entrambi, il primo è più comune.

«sono deluso di» o «per aver perso» vanno bene entrambi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1.Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

2.Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare:

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

3.Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Quello che penso è che nel caso della preposizione “per” sia necessario il complemento oggetto, a quel punto avremmo due interpretazioni differenti:

a = soggetto coreferente

b = soggetto generico introdotto nella subordinata.

Con la preposizione da è diverso, perché se si inserisce il complemento oggetto, l’interpretazione (a) diventa quella che vede due soggetti coreferenti, mentre se non si usa alcun complemento oggetto, parliamo di un interpretazione (b) che ha un valore passivo/impersonale.

Seguendo questa logica se io dicessi:

4.Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare”, potrei voler dire:

Interpretazione a = il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Frase decisamente irrealistica, in quanto è impensabile come frase, ma è giusto per far capire la differenza)

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poter sopportare:

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poterlo sopportare:

Interpretazione a) il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Come la quarta nella interpretazione “a”)

Sono corretti il mio ragionamento e le mie interpretazioni?

Cioè che la preposizione “per” richiede il complemento oggetto e può avere doppia interpretazione, a e b, generando magari ambiguità.

Mentre la preposizione “da”, in dipendenza dalla presenza o assenza del complemento oggetto, può avere una sola delle due interpretazioni.

 

RISPOSTA:

No, la sua interpretazione non è corretta. È vero che da + infinito di un verbo transitivo indica un valore passivo, cioè qualcosa che deve essere fatto: da fare, da comprare, da vedere ecc. In quanto tale, il clitico è pleonastico e comunque, sia che ci sia, sia che manchi, non muta il significato della frase: «il dolore è troppo forte da sopportare/sopportarlo» può voler dire soltanto ‘…troppo forte per essere sopportato’. La versione col clitico è decisamente informale e da evitarsi in uno stile sorvegliato.

La finale implicita con per + infinito, così come da + infinito, impone l’obbligo dell’identità del soggetto della subordinata e di quello della reggente. Quindi:

  1. «Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare». L’unica interpretazione possibile è: ‘Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò’. Se invece si vuole esprimere che Mario viene sopportato allora bisogna rendere esplicita la subordinata ed esprimere il soggetto: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare».
  2. «Mario era abbastanza tranquillo da (poter) sopportare». Benché sia possibile l’interpretazione ‘da essere sopportato’, la frase suscita comunque ambiguità, pertanto sarebbe meglio renderla esplicita: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare». Al limite, informalmente, si potrebbe usare il si passivante: «Mario era abbastanza tranquillo da sopportarsi/potersi sopportare», cioè «essere/poter essere sopportato».
  3. «Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare»: è possibile soltanto l’interpretazione ‘Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare qualcosa’.

Quindi: se non c’è identità di soggetto chiara tra reggente e subordinata implicita, è sempre meglio trasformare la subordinata in esplicita ed esprimere il nuovo soggetto.

  1. «Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare»: soltanto il senso consente di evitare l’interpretazione assurda ‘il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno’. La frase è comunque imperfettamente formata e dunque sarebbe meglio cambiarla in: «il dolore era troppo grande per essere sopportato».
  2. «Il dolore era troppo grande da poter sopportare»: la frase è mal formata per le stesse ragioni della precedente e della n. 2; pertanto è meglio cambiarla in «il dolore era troppo grande per essere sopportato», oppure, informalmente, «da sopportarsi».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi potete verificare se l’analisi del periodo sotto è corretta?

“Perché il suo discorso mi aveva entusiasmato, mi parve giusto dirgli quel che ne pensavo”

Mi parve giusto=principale

Perché il suo discorso mi aveva entusiasmato=sub. causale implicita

Dirgli=sub. soggettiva implicita

Quel che ne pensavo=sub. oggettiva esplicita

 

RISPOSTA:

No, è sbagliata. Ecco l’analisi corretta:

mi parve giusto: principale

dirgli quello: sub. soggettiva implicita di primo grado

che ne pensavo: sub. relativa esplicita di secondo grado

perché il suo discorso mi aveva entusiasmato: sub. causale esplicita di secondo grado.

Inoltre, quando la causale è anteposta alla reggente, perché è sconsigliato; meglio poiché, siccome, dato che, dal momento che.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?

2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?

3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?

4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?

5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?

Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?

La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.

Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:

6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene

6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*

A pensarci  bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.

È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?

 

RISPOSTA:

La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):

– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).

Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:

1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».

2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.

3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.

4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.

5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.

6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.

6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Le parole scritte restano”. In analisi grammaticale qual è la funzione di “scritte”?

 

RISPOSTA:

Aggettivo qualificativo, femminile, plurale. Naturalmente, trattasi di participio passato del verbo scrivere usato, nella frase in questione, con funzione aggettivale. Dato che le parole non funzionano in isolamento, in nessuna lingua, bensì inserite in un contesto (frase), è bene analizzarle nella funzione (non a caso, lei nella sua domanda utilizza la parola funzione) che svolgono all’interno della frase. In questo caso non v’è alcun dubbio che la funzione di scritte sia aggettivale (ovvero attributo in analisi logica). Vi sono peraltro dei casi limite: «Le parole scritte da te restano». In questo caso la presenza del complemento d’agente lascerebbe propendere per l’analisi come verbo, cioè participio passato. Tuttavia, dato che anche gli aggettivi (e i nomi) possono reggere argomenti («sensibile ai complimenti», «utile a/per scopi diversi» ecc.), non è questo un discrimine per stabilire se un participio sia verbale o aggettivale. Ancora una volta, come spesso accade nelle lingue, non si tratta di bianco o nero ma di come si decide di ritagliare la realtà linguistica: chi opta per valorizzare sempre la natura verbale del participio (che, per inciso, si chiama così proprio perché partecipa della doppia natura di verbo e di nome, ovvero aggettivo), chi invece (e io mi colloco tra questi ultimi) pensa che si debba valutare caso per caso a seconda del contesto sintattico. Non vi sarebbe alcun dubbio, per esempio, nel considerare verbale il participio della frase seguente: «Scritte, le parole restano», nella quale «scritte», isolato dal resto della frase, non può che assumere la funzione di subordinata (ipotetica implicita: «se scritte…»). Anche nella sua frase si potrebbe sostenere che «scritte» sia una relativa implicita: «Le parole che sono scritte restano», ma sarebbe una spiegazione antieconomica: perché mai scomodare una struttura sottintesa quando la linearità della frase è chiarissima? Come vede, la distinzione tra analisi grammaticale e analisi logica, necessaria in teoria per tener distinti i piani dell’analisi linguistica, è meno netta nella realtà dei fatti: per stabilire se analizzare «scritte» come aggettivo o come verbo è prima necessario comprendere la sintassi della frase. In conclusione, ribadisco la mia opinione: «scritte», nella frase in questione, va analizzato come aggettivo e non come participio passato.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le soluzioni sotto indicate sono sintatticamente possibili?

In caso di risposta affermativa, tra esse ce ne sono alcune che potrebbero essere giudicate illogiche?

(Personalmente, mi sentirei di scartare soltanto la numero 4; mentre la numero 1, con i due congiuntivi invertiti, mi pare tutto sommato coerente.)

1) Mettiamo che il giornalista che si interessasse al caso ci faccia domande scomode…

2) Mettiamo che il giornalista che si interessasse al caso ci facesse domande scomode…

3) Mettiamo che il giornalista che si interessi al caso ci faccia domande scomode…

4) Mettiamo che il giornalista che si interessi al caso ci facesse domande scomode…

 

RISPOSTA:

Sì, vanno tutte bene: la relativa impropria (con valore epistemico-eventuale) può essere espressa sia con il congiuntivo presente (a rigore il tempo più adatto, trattandosi di contemporaneità al presente: si suppone infatti che il giornalista se ne interessi adesso e ci faccia delle domande adesso), sia all’imperfetto (adatto proprio per il valore eventuale: se si interessasse, ci farebbe… se ci facesse delle domande…).

lo stesso vale per «ci faccia / ci facesse delle domande».

Come giustamente osserva lei, la 4 sembra non funzionare, perché presenta uno scollamento tra il presente (il giornalista se ne interessa ora) e l’imperfetto; anche se, in teoria, sarebbe sempre possibile che ci si riferisse a un evento passato: il giornalista al caso si interessa tuttora e ieri, mentre ci intervistava, ci faceva delle domande scomode. Al di fuori di quest’eventualità (comunque equivoca, se non vengono fornite esplicite coordinate temporali), il numero 4 risulterebbe mal formato.

La frase migliore, comunque, e dunque più adatta a uno stile formale, proprio perché non suscita alcun equivoco, è la n. 3; sarebbe altrettanto corretta e formale con una relativa propria: «Mettiamo che il giornalista che si interessa al caso ci faccia domande scomode».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase “Ne ha preparate tre, poi gliele ha spedite per congratularsi del suo successo” quali sono le funzioni sintattiche dei pronomi? Ecco la mia proposta:
Ne = pronome personale atono, compl. specificazione o partitivo
Tre = pronome numerale, complemento di quantità? O forse più genericamente compl. specif.
Gliele = pronome personale. Gli: compl. termine. Le: compl. ogg.
Si (congratularsi) = pron. personale, intransitivo pronominale.
Suo = agg. possessivo, compl. specif.

 

RISPOSTA:

Le sue analisi sono sostanzialmente corrette, tranne i seguenti punti:
Tre = complemento oggetto. Il si contenuto nel verbo congratularsi, che è intransitivo pronominale, non ha una funzione sintattica precisa, ma contribuisce alla costituzione del significato del verbo (forse lei intendeva proprio questo nella sua analisi, ma non è chiaro). Suo è l’unica parola tra quelle analizzate che non è un pronome, ma un aggettivo; dal punto di vista sintattico gli aggettivi non svolgono la funzione di complementi ma sono analizzati come attributi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tre esempi da <> Elisa Morante

(1) (p234 ): Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza CHE subito appena svegli incominciavano a mischiarsi fra loro due in giochi e risate……

Il che mi pare una congiunzione.   Quale tipo di proposizione èa la subordinata? Una dichiarativa?

Possiamo trasformare la frase cosi:

Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza INCOMINCIARE subito appena svegli a mischiarsi far loro due in giochi e risate…

(2) p227   e mentr’esse, in coro, gli magnificavano quel nuovo figlio, lui gli accordò solo un’attenzione opaca distratta, con l’aria di un ragazzo forastico, e cresciuto fuori della famiglia, A CUI LE SORELLE MINORI MOSTRASSERO la propria bambola.

La subordinata dopo a cui è una proposizione relativa impropria consecutiva?   Possiamo scriverla cosi:

in modo tale che le sorelle minori mostrassero la propria bambola?

L’indicativo e’ anche accettabile?

(3) p. 264  Intanto SI SAPPIA …che il fatale bacio, nella mia memoria capricciosa, s’era fatto più ingenuo del vero (come una musica di cui SI RAMMENTI solo il semplice tema).

Si sappia viene considerata l’imperativo o l’esortativo?

Possiamo anche usare Si RAMMENTA senza cambiare il significato della subordinata?  (non mi sembra ne’ una proposizione finale ne’ consecutiva).

 

RISPOSTA:

1) Il primo caso è una relativa dipendente da verbi di percezione, che può essere trasformata in una completiva. Pertanto: in «li udivo che incominciavano» il che è relativo, ma se trasformiamo la frase in una completiva (con il medesimo significato) il che diventa completivo: «udivo che loro incominciavano». È, come dice lei, possibile anche la trasformazione in relativa/completiva implicita: «li udivo incominciare».

2) Sì, può sostituire l’indicativo al congiuntivo senza alcun cambiamento di significato. Il congiuntivo si spiega non tanto per la sfumatura consecutiva (pure possibile) quanto per la sfumatura comparativo-ipotetica di tutta la frase: aveva l’aria come uno che…, come se…

3) «Si sappia» è congiuntivo esortativo impersonale. Anche in «ri rammenti/a» la sostituzione dell’indicativo al congiuntivo non cambia in nulla il significato della frase. Non occorre ipotizzare, ancora una volta, una sfumatura consecutiva (pure possibile, mentre è del tutto sbagliata la sfumatura finale), perché, ancora una volta, il congiuntivo si giustifica con la sfumatura eventuale.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“In Norvegia non ci sono mai stato”. Quel “ci” può essere accettato anche in un linguaggio formale, pur essendo un pleonasmo, oppure è preferibile dire: “In Norvegia non sono mai stato”?

 

RISPOSTA:

Sicuramente il pleonasmo è evitabile nel registro formale, a condizione, però, di modificare l’ordine dei costituenti: «Non sono mai stato in Norvegia». Infatti la tematizzazione (o topicalizzazione), cioè la collocazione del tema in prima posizione, richiede la ripresa clitica (dislocazione a sinistra): «In Norvegia non ci sono mai stato». Se eliminasse il «ci» l’enunciato verrebbe interpretato come focalizzazione, anziché come tematizzazione, ovvero: «In Norvegia non sono mia stato [mentre in Svezia sì]».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In un precedente intervento ho sottoposto alla sua attenzione alcune frasi.

Ne è conseguito che “possibile” o “possibilità” non reggono il condizionale quindi le seguenti frasi sarebbero sbagliate:

  1. È possibile che arriverebbe.
  2. Sarebbe possibile che arriverebbe.

3.C’è la possibilità che arriverebbe.

  1. Ci sarebbe la possibilità che arriverebbe.

Immagino che, come il condizionale semplice, “possibilità/possibile” non possa reggere nemmeno il condizionale composto, ma mi corregga se sbaglio.

Varrebbe lo stesso discorso anche per costruzioni analoghe come le seguenti:

  1. a) Può/ potrebbe darsi/ essere che lo mangerebbe.
  2. b) Poteva/ avrebbe potuto darsi/ essere che lo avrebbe mangiato.
  3. c) È/ sarebbe probabile che lo mangerebbe.
  4. d) Era/ sarebbe stato probabile che lo avrebbe mangiato.
  5. e) C’è/ ci sarebbe la probabilità che lo mangerebbe.
  6. f) C’era/Ci sarebbe stata la probabilità che lo avrebbe mangiato.

Personalmente un condizionale semplice o composto, non mi suonerebbe affatto male, però è solo una mia impressione.

Cambia qualcosa oppure ci troviamo nella stessa situazione di prima, e quindi mi sbaglio nuovamente?

 

RISPOSTA:

Come le ho già scritto nella precedente risposta [Possibile/possibilità che + congiuntivo o condizionale?], sarebbe bene limitare l’uso di esempi fatti a tavolino, pesanti sintatticamente e che pretendono di presupporre protasi sottintese. Aggiungo, inoltre, che il condizionale passato ha una gamma di funzioni diverse da quelle del congiuntivo presente, ovvero può essere usato anche per indicare il futuro nel passato (come può vedere nella recente domanda di DICO Futuro nel passato). Ciò premesso, commento le sue frasi una ad una.

  1. È possibile che arriverebbe. Da evitare. La frase corretta è «è possibile che arrivi».
  2. Sarebbe possibile che arriverebbe. Da evitare. La frase corretta è «…che arrivasse/arrivi». Naturalmente, se nel discorso ci fosse una protasi allora il condizionale sarebbe ammesso: «Sarebbe possibile che arriverebbe, se lo aspettassimo ancora». Ma, ripeto: o c’è, o non c’è, perché presupporla come sottintesa?

3.C’è la possibilità che arriverebbe. Come sopra.

  1. Ci sarebbe la possibilità che arriverebbe. Come sopra.
  2. a) Può/ potrebbe darsi/ essere che lo mangerebbe. Come sopra: «…che lo mangi», ma con la protasi: «può tarsi che se lo mangerebbe, se provassimo a darglielo».
  3. b) Poteva/ avrebbe potuto darsi/ essere che lo avrebbe mangiato. «Poteva darsi che lo mangiasse». Oppure, con protasi: «poteva darsi che lo avrebbe mangiato, se glielo avessimo dato».
  4. c) È/ sarebbe probabile che lo mangerebbe. Come sopra.
  5. d) Era/ sarebbe stato probabile che lo avrebbe mangiato. Come sopra.
  6. e) C’è/ ci sarebbe la probabilità che lo mangerebbe. Come sopra.
  7. f) C’era/Ci sarebbe stata la probabilità che lo avrebbe mangiato. Come sopra.

In conclusione: non invocare protasi sottintese: o ci sono, o non ci sono.

Aggiungo però che con “può darsi” e “poteva darsi” il condizionale funziona meglio, e sa perché? Perché può darsi si è quasi grammaticalizzato come un avverbio, cioè come se fosse forse, e dunque: «forse lo mangerebbe» = «può darsi che lo mangerebbe», «poteva darsi che lo avrebbe mangiato».

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “porta il latte con te, ma che sia freddo”, il “che” si riferisce a latte?

 

RISPOSTA:

No, il che è un mero introduttore del congiuntivo desiderativo. Come se fosse: «[fa’ in modo] che sia freddo».

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1a)Il segreto per il successo, te lo potranno svelare quanti sono arrivati al successo.

2a)Tendo ad apprezzare quanti hanno il coraggio di rischiare la vita.

1b)Questo lo sanno quanti ne sono arrivati l’anno scorso.

2b)Prendo quanti ne restano sul vassoio.

1c)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti sono sopravvissuti alla strage.

2c)Ho salutato (in?) quanti hanno partecipato alla riunione.

1d)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti ne sono arrivati l’anno scorso.

2d)Ho salutato (in?) quanti ne sono arrivati oggi.

È giusto usare quanti / in quanti come soggetto nelle varianti 1 e come complemento oggetto nelle varianti 2?

In linea di massima, le frasi sono ben costruite?

Sui vari dizionari quanti viene classificato anche come pronome, quindi pensavo che potesse avere la funzione di soggetto o di oggetto in base al contesto.

 

RISPOSTA:

 

Alcuni pronomi indefiniti (molti, pochi, tanti) e il pronome quanti sia come relativo sia come interrogativo possono essere costruiti con la preposizione in quando hanno la funzione di soggetto e si riferiscono a un gruppo di persone. In particolare, il pronome quanti ammette la costruzione con in quando è soggetto o della reggente, o della subordinata o di entrambe le proposizioni. In tutte le frasi proposte è possibile sostituire quanti con in quanti tranne che nella 2b, in cui quanti non si riferisce a un gruppo di persone ma agli oggetti rimasti sul vassoio.

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?

 

RISPOSTA:

In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho la necessità di esprimere un concetto che potrei sintetizzare così: prima arriveranno, prima se ne andranno.
Per ragioni più narrative che prettamente linguistiche, ho dovuto scartare la suddetta soluzione, a favore di un’altra che sposasse un modello sintattico affine a quello del periodo ipotetico con la coppia di correlativi quanto più/tanto più.
Il risultato è stato questo: “Quanto prima fossero arrivati, tanto prima se ne sarebbero andati”.
La frase in questione è corretta dal punto di vista della scelta dei modi (congiuntivo/condizionale), oppure sarebbe stato preferibile adottare il condizionale per entrambi i predicati?
Se i suddetti correlativi non fossero adattabili a questa costruzione, e si scegliesse dunque di limitarsi alla forma prima… prima, il modello ipotetico “congiuntivo-condizionale” sarebbe comunque possibile? “Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”.

 

RISPOSTA:

I due avverbi correlativi prima… prima introducono una sfumatura ipotetica nel periodo, tanto che questo viene assoggettato alla costruzione tipica con l’indicativo (“Prima arriveranno, prima se ne andranno”) o il congiuntivo nella proposizione che contiene la condizione, ed è quindi assimilabile alla protasi, e il condizionale in quella che contiene la conseguenza, ed è quindi assimilabile all’apodosi (“Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”). Si noti che, diversamente dal periodo ipotetico, in questo caso il congiuntivo imperfetto nella proposizione dipendente è molto innaturale (?“Prima arrivassero, prima se ne andrebbero”, ma “Se arrivassero prima, se ne andrebbero prima”). L’aggiunta di quanto / tanto non cambia niente nella costruzione (né, per la verità, aggiunge alcunché al significato della frase): i modi e i tempi richiesti rimangono quelli indicati per prima… prima.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Sarebbe sbagliato dire “Speravo che sarebbe venuto” e “Avrei sperato che sarebbe venuto”?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono corrette: al loro interno il condizionale passato serve a descrivere un evento futuro rispetto a un altro passato. Questa funzione del condizionale passato, nota come futuro nel passato, è descritta in molte altre risposte dell’archivio di DICO, tra cui questa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ormai siamo (quasi) tutti d’accordo che QUAL, avendo forma autonoma, non necessiti di apostrofo. Si dirà quindi: “Qual è la tua opinione, qual era la tua opinione” etc. Ma davanti a un sostantivo si usa QUAL o QUALE? Esempio: si può scrivere “Quale insalata preferisci?” oppure, avendo forma autonoma, si deve scrivere “Qual insalata preferisci?” Ancora: Lei scriverebbe “Quale evento della tua vita…” oppure “Qual evento della tua vita…”.

 

RISPOSTA:

La forma apocopata qual non ha restrizioni: in astratto è utilizzabile sempre. È, però, di fatto rarissima; si usa quasi esclusivamente davanti alle forme verbali è e era e nell’espressione qual buon vento. Per il resto si usa sempre quale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Tutto bene, davvero non vi preoccupate per me”, tutto è pronome, aggettivo o nessuno dei due? Inoltre, ha la funzione sintattica di soggetto?

 

RISPOSTA:

Nella frase tutto equivale a ‘tutte le cose, ogni cosa’, quindi è un pronome. La frase “Tutto bene” è analizzabile come frase nominale, cioè priva di verbo. In una frase senza verbo l’identificazione del soggetto è complicata, visto che quest’ultimo si definisce come il costituente sintattico con cui il verbo concorda. D’altro canto, è facile riconoscere la costruzione verbale soggiacente quella non verbale: “Va tutto bene”; in questa frase tutto ha proprio la funzione di soggetto.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

 

Anche dopo aver fatto alcune ricerche online, con i seguenti verbi non so quale sia l’ausiliare corretto.

 

1.Questi Paesi sono progrediti/hanno progredito nella civiltà.

2. Sono progredito/ho progredito nel cammino.

3. Ho/sono proceduto lentamente.

4. Ho/sono proceduto lentamente negli studi.

5. Le proteste hanno proseguito/sono proseguite.

6. La casa è bruciata/ha bruciato.

7a. Ho scivolato con la moto per 20 metri (forse è intenzionale?)

7b. Sono scivolato con la moto per una ventina di metri (forse non è intenzionale).

 

RISPOSTA:

 

Non esiste una regola che determini la scelta dell’ausiliare con i verbi intransitivi e per sciogliere il dubbio spesso bisogna consultare il vocabolario. Tuttavia, una delle proposte più diffuse e accettata da grammatiche e vocabolari suggerisce di usare essere se il participio del verbo intransitivo può essere usato come attributo (per esempio “gli avvenimenti accaduti un anno fa” > “gli avvenimenti sono accaduti un anno fa”); suggerisce di usare avere se il participio del verbo non può assumere funzione attributiva (con il verbo dormire, per esempio, non si può costruire una frase come “il ragazzo dormito qua”). Ma andiamo all’analisi delle frasi qui proposte.

1. Il verbo progredire ha il significato di ‘evolversi per migliorare’ e può essere costruito sia con essere sia con avere.

2. Il verbo progredire ha il significato di ‘andare avanti’ e, anche in questo caso, può essere costruito sia con essere sia con avere.

3. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘avanzare’, può avere sia l’ausiliare essere sia l’ausiliare avere.

4. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘continuare qualcosa che si è intrapreso’ richiede soltanto l’ausiliare avere, quindi “Ho proceduto negli studi”.

5. Anche con il verbo proseguire si possono avere entrambi gli ausiliari.

6. Nel significato proprio di ‘andare a fuoco’, il verbo bruciare richiede soltanto l’ausiliare essere; quando bruciare è usato in senso transitivo, per esempio nel significato di ‘scottare’ si può avere l’ausiliare avere: “Il caffè mi ha bruciato la lingua”.

7a e 7b. In entrambe le frasi l’ausiliare richiesto è essere. L’ausiliare avere, ma sempre in alternanza con essere, è possibile soltanto nell’accezione di ‘scorrere rapidamente su una superficie che non oppone resistenza’: “Lo slittino ha scivolato sulla pista ghiacciata”, ma più comune “Lo slittino è scivolato sulla pista ghiacciata”.

Raphael Merida

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nel periodo “Se non vuoi soccombere, devi reagire”, la proposizione Se non vuoi soccombere è una subordinata condizionale, causale o finale?

 

RISPOSTA:

La proposizione è condizionale, e con la reggente devi reagire forma un periodo ipotetico del primo tipo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Vorrei sapere se il termine “leoluchiane” è corretto per indicare “Giornate di studio dedicate a San Leoluca” (“Giornate leoluchiane”).

 

RISPOSTA:

L’aggettivo leoluchiano è ben formato e rappresenta bene il nome di Leoluca. Aggiungo che l’aggettivo san si scrive per lo più con la minuscola quando indica la persona (come nel caso di san Leoluca), con la maiuscola quando fa parte del nome proprio di una chiesa (“la basilica di San Pietro”), di una località (“l’estate scorsa sono stato a San Gimignano”), di una via o di una piazza (“piazza San Francesco”).

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Volevo sapere la differenza tra : di questa e su questa.

Es: “non mi hanno detto nulla di questa cosa”;

“non mi hanno detto nulla su questa cosa”.

 

RISPOSTA:

 

Dire di o dire su si equivalgono perché sia la preposizione di sia la preposizione su introducono un complemento di argomento. L’oscillazione tra queste due preposizioni è da sempre presente in italiano, basti vedere alcuni titoli di opere del passato come “Sulle guerre di Fiandra” o “Dei sepolcri” (in quest’ultimo caso la preposizione di ricalca il complemento di argomento latino, costruito con la preposizione DE + ablativo come “De bello gallico”).

Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

A) Spererei che venisse.

B) Spererei che venga.

C) Spererei che verrebbe.

Sono tutte accettabili? Il mio dubbio riguarda l’ultima opzione.

Dopo i verbi di volontà e desiderio solitamente non si può utilizzare il condizionale, e il verbo sperare mi sembra che ne faccia parte, come volere, preferire e simili.

È anche vero che la frase C potrebbe sottintendere una protasi dipendente dall’oggettiva e una dipendente dal verbo principale:

“[Se fossi lì] spererei che [se ci fosse la possibilità] verrebbe”.

 

RISPOSTA:

La soluzione preferibile è la A; la B è accettabile, anche se il verbo sperare rientra tra quelli di desiderio, che preferiscono il congiuntivo imperfetto nell’oggettiva per esprimere contemporaneità (si veda questa risposta). La C è la più sospetta: per quanto non ci siano ostacoli grammaticali alla costruzione di questa oggettiva con il condizionale (un caso simile è la soggettiva sarebbe impensabile che rimarrei a casa commentata nella stessa risposta a cui si è rimandato sopra), tale costruzione è sicuramente sconsigliabile, perché la sfumatura semantica aggiunta dal condizionale è appena percepibile, vista la presenza del condizionale nella proposizione reggente, ed è ottenuta al costo di appesantire notevolmente la costruzione. Anche se l’oggettiva reggesse a sua volta una proposizione condizionale, come nella sua riformulazione della frase, il condizionale non sarebbe comunque necessario (anzi, risulterebbe ancora più innaturale), e il congiuntivo imperfetto rimarrebbe la soluzione migliore: “Spererei che se ci fosse la possibilità venisse”.

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

 

Si dice: “questi discorsi non c’entrano nulla” oppure “questi discorsi non centrano nulla”?

 

RISPOSTA:

 

La forma corretta è c’entrano. Entrarci è un verbo procomplementare che, come ci ricorda il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), può essere usato con valore intensivo nel significato di ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’ («In questa stanza c’entrano mille persone») o con il significato figurato di ‘avere attinenza con qualcosa’, come nel caso da lei presentato. In una frase come «questi discorsi non centrano l’argomento» il verbo in questione è, invece, centrare nel significato figurato di ‘cogliere con precisione il punto centrale di un tema’.

Per approfondire la morfologia del verbo entrarci la invito a leggere la risposta La posizione del pronome.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

 

Gradirei sapere se negli esempi elencati di seguito l’uso di “quale” è corretto in sostituzione di “come”.

  1. Ha adottato lo stoicismo quale filosofia di vita per affrontare i problemi della quotidianità.
  2. Si è posto la realizzazione di una mostra personale quale obiettivo artistico e professionale.
  3. L’aggettivo “espansivo” non è preciso quale sinonimo di “intraprendente”.
  4. Ho scelto il cinema quale alternativa alla solita birra al pub.

RISPOSTA:

 

L’aggettivo quale può assumere la funzione di aggettivo relativo con il significato di ‘come’; tutte le frasi da lei proposte, quindi, sono corrette.

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

 

Vorrei sapere se in queste due frasi è possibile inserire (oppure omettere) la virgola:

 

  1. «Questo inoppugnabile assioma, proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato(,) e costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze, […]».

C’è il rischio che “costato” venga inteso per il Paese e non per l’umanità?

 

  1. «È esattamente nelle questioni forse “banali” e riguardanti la scelta da parte dell’individuo (,) che raggiunge la sua massima potenza giuridica.»

C’è il rischio che senza la virgola si confonda il senso della frase (“riguardanti la scelta da parte dell’individuo che raggiunge”), che insomma sia l’individuo a raggiungere la sua massima potenza giuridica e non l’assioma (come invece vorrei fare intendere)?

Inoltre, vorrei sapere se, quando la virgola viene aggiunta prima di e in frasi che hanno il soggetto diverso e sono distanti per contenuto e grammatica («eravamo arrivati puntuali, e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar»), possa essere anche omessa: «eravamo arrivati puntuali e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar».

 

RISPOSTA:

 

Suppongo che le due frasi da lei esemplificate facciano parte di un unico periodo, cioè: «Questo inoppugnabile assioma, proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato (,) e costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze, è esattamente nelle questioni forse “banali” (,) e riguardanti la scelta da parte dell’individuo che raggiunge la sua massima potenza giuridica».

La presenza della virgola prima di e costato non è indispensabile ma produce una sfumatura di significato diversa perché mette sullo stesso livello entrambe le unità informative («proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato» e «costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze»); anche senza la virgola però non c’è il pericolo di confondersi perché il participiocostato fa riferimento ad assioma e poi ad umanità mentre sviluppato è soltanto l’aggettivo di Paese. La verifica è semplice perché basta aggiungere il verbo per capire che si tratta di due subordinate alla principale: «Questo inoppugnabile assioma, che [l’assioma] è proprio…, e che [l’assioma] è costato…».

Nel secondo caso non va inserita la virgola perché la proposizione introdotta da che («che raggiunge la sua massima potenza giuridica») è una completiva e si riferisce naturalmente alla reggente («Questo inoppugnabile assioma è nelle questioni banali»); si può inserire la virgola soltanto se si mette per inciso (quindi fra due virgole) la proposizione «…, riguardanti la scelta da parte dell’individuo, …».

Sull’uso della virgola prima della congiunzione e, e in generale sugli usi della punteggiatura, non esistono delle regole ferree. Nel caso di «Eravamo arrivati puntuali e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar» il soggetto della coordinata diverso rispetto a quello della reggente rappresenta un segnale di autonomia. La frase, quindi, può ammettere anche la virgola.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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QUESITO:

1)Ripensandoci meglio, ho dovuto rettificare/emendare/correggere il mio precedente “sì” in un “no”.

2) ho dovuto specificare il mio “no, grazie, non posso venire” in “no, non verrò MAI”.

È legittimo questo uso di questi verbi con la preposizione “in”?

La sua funzione che sembra avere, ammesso che siano corrette le frasi, è la stessa che hanno verbi come “trasformare”, “cambiare” e simili:

– Lo ha trasformato in un brav’uomo.

– Ho cambiato una banconota da 20 euro in monete da 2 euro.

– Il malcontento si tradusse in rivolta.

Il complemento in questione non saprei descriverlo, in quanto in maniera generica parlerei di “complemento di moto a luogo figurato”, per via del passaggio/della transizione che sembra essere da una condizione all’altra, da uno stato all’altro.

Per quanto riguarda la prima frase sono sicuro di aver letto e sentito frasi simili.

Per quanto riguarda la seconda, col verbo “specificare”, invece no, in quanto ho pensato che potesse avere senso e rientrare in quel tipo di frase che riguarda appunto “trasformare” e affini.

 

RISPOSTA: solitamente

La preposizione in non è appropriata con nessuno dei quattro verbi. Semmai, potrebbe essere usata la preposizione con, con funzione di introduttore di complemento di mezzo: correggere/emendare/rettificare/specificare A con B. Inoltre, emendare solitamente è costruito soltanto con il complemento oggetto e non con altro complemento che indichi la versione sostituita a quella emendata. Più o meno lo stesso vale per rettificare. Se segue un altro complemento, oltre all’oggetto, con emendare, esso è introdotto o da da o da di, per intendere i difetti dai quali (o dei quali) il documento è stato emendato: «emendare qualcosa dai (o dei) vizi».

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il quesito a cui volevo sottoporre la sua attenzione è quello di frasi che apparentemente sembrano delle relative, o che forse lo sono in parte.

Questo tipo di frasi contiene spesso un che, che potrebbe forse trattarsi di un che polivalente.

Proporrei qualche frase che secondo me possono rientrare in questa definizione:

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo.
  3. Ho finito che sono diventato povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso.
  5. L’ho trovato che dormiva beato.
  6. Sono qui che aspetto.

Le frasi in questione, per quanto contengano il pronome relativo che, mi sembrano abbiano tutt’altra funzione.

Per esempio, da 1 a 5 direi che quel che sia molto vicino ad un complemento di tempo.

Nella sesta il che mi sembra abbia valore finale: «Che aspetto» = per aspettare/ad aspettare.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, sono relative improprie, ovvero il che in esse usato può rientrare nell’ampia tipologia del che polivalente. Proviamo a spiegarne alla svelta l’uso caso per caso.

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo: valore temporale, ma in uno stile meno informale può essere risolto anche con un complemento predicativo del soggetto: sono arrivato qui da piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo. Come sopra.
  3. Ho finito che sono diventato povero. Qui l’equivalente meno informale sarebbe più o meno un verbo aspettuale o fraseologico: ho finito per (o col) diventare povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso. Questa e la frase successiva rientrano nella tipologia delle relative con verbi di percezione (o simili): l’ho visto che dormiva / l’ho visto dormire.
  5. L’ho trovato che dormiva beato. Come sopra.
  6. Sono qui che aspetto. Valore finale: sono qui ad aspettarti, ma anche: ti sto aspettando qui.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Desidererei sapere quale espressione è più corretta per definire un insieme di sintomi che, dapprima sottostimato tanto da generare. un quadro privo di collocazione nel lessico medico, ad un certo punto finisce per trovare un termine specifico che lo definisca. Il dubbio si riferisce a queste due espressioni: «Ha trovato (l’insieme di sintomi) una sua dignità sul piano nosologico o nosografico». Ritengo che entrambi i termini siano corretti, ma non essendone certo, vorrei un vostro parere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Nosologico e nosografico sono sinonimi, pertanto, nella frase in questione, può usare indifferentemente o l’uno o l’altro. Gli aggettivi, infatti, derivano da nosologia e nosografia, dati come sinonimi dalla Enciclopedia della medicina Treccani con la seguente definizione (s.v. nosografia): «Studio descrittivo delle malattie. La n. comprende la classificazione delle malattie per organi e apparati e per generi eziologici, la semeiotica, la sintomatologia e l’eventuale epidemiologia. La classificazione nosografica è in uso nelle istituzioni sanitarie pubbliche a fini statistici, finanziari ed epidemiologici».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: «Gli studiosi si sono chiesti come sarebbe andata a finire». In questo caso «chiesti» mi pare decisamente corretto. Se dico però: «Gli studiosi se lo sono chiesti», quel «chiesti» è altrettanto corretto o è necessario dire «chiesto»? Oppure entrambe le soluzioni sono accettabili?

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni sono corrette e con frequenze analoghe, in italiano. Infatti, se ricerchiamo le frequenze odierne in Google, troviamo 55.200 risultati per «se lo sono chiesti», contro 58.400 per «se lo sono chiesto». Quindi con una lieve prevalenza per l’accordo con l’oggetto. Come si può facilmente verificare sia nella Grammatica di Serianni (per es. la Garzantina), sia nella Grande grammatica italiana di consultazione di L. Renzi, G. Salvi e A. Cardinaletti (il Mulino), cioè le due più accreditate grammatiche dell’italiano, opposte nella concezione tanto da essere complementari, l’accordo del participio passato presenta una tipologia variegatissima in italiano, secondo mille variabili: a volte si tratta di cambiamento nel tempo, altre volte di usi regionali, altre volte di registro, altre volte ancora dipende dal tipo di verbo e finanche dal suo significato; molto spesso, infine, l’accordo è del tutto libero, cioè sono ammesse entrambe le forme (cioè con accordo o col soggetto, o con l’oggetto, o, addirittura, senza accordo, cioè al maschile indistinto non marcato). Data la ricchezza di usi e possibilità è impossibile ripercorrerne qui le coordinate dei vari costrutti. Pensi però a usi (tutti possibili) come i seguenti:

– me ne sono bevuta/o una (di birra) – ma: ho bevuto una birra

– se lo sono visti/o davanti (l’orso) – ma: hanno visto l’orso

– ne hanno prese/o/i due (di scatole) – hanno preso due scatole

– ne ho comprati/o/e due chili (di mele) – ma: ho comprato due chili di mele

– Paola non se ne è mangiati/a per niente (di biscotti) – ma: Paola non ha mangiato i biscotti.

Come linea di tendenza molto generale, l’accordo col soggetto e la forma senza accordo sono più rari, nei verbi pronominali con oggetto, laddove la forma preferita è quella dell’accordo con l’oggetto. Ma, come ha visto, le eccezioni sono numerose.

La lingua italiana, e qualunque altra lingua del mondo, è fatta di un’estesa «zona grigia», come la chiamava Serianni, cioè di usi plurimi tutti ammessi dalla norma. Il grigio (con tutte le sue sfumature), dunque, più del bianco o del nero, è il colore che si addice alla grammatica.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?

 

RISPOSTA:

Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.

In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.

Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.

Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):

 

  1. quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
  2. in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
  3. prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
  4. davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.

 

Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se dopo le classiche affermazioni poste a fine lettera, per esempio «distinti saluti», «cordiali saluti», «grazie per l’attenzione» eccetera, è bene far seguire un punto prima del nome (per esempio: «Distinti saluti.

Mario Rossi») oppure se questo può essere omesso (per esempio: «Distinti saluti

Mario Rossi»), oppure se si può ricorrere anche alla virgola (per esempio: «Distinti saluti,

Mario Rossi»).

 

RISPOSTA:

La sua domanda affligge molti scriventi, evidentemente ormai disavvezzi alla corrispondenza tradizionalmente intesa. Nella quale sono ammesse tutte e le tre le soluzioni da lei prospettate, anche se quella con il punto è decisamente la più moderna e mai, o quasi mai, contemplata in passato. Quindi è anche da ritenersi la meno formale, in quanto meno in linea con la tradizione. Per il resto, oggi si tende all’uso maggioritario della virgola, che è anche la soluzione suggerita da vari manuali di bon ton scrittorio (per es. quelli della fortunata coppia di linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota). Invece in passato (fino almeno alla metà del Novecento) la tradizione escludeva qualunque segno di punteggiatura, tra i saluti e la firma, giacché il solo a capo con spazio bianco costituiva una evidente separazione tra le due sezioni. E quindi:

Cordiali saluti

Fabio Rossi (senza né virgola, né punto, ma con un solo a capo seguito o no da uno spazio bianco).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1a. C’è la possibilità che arrivi qualcuno.

2a. Ci sarebbe la possibilità che arrivasse qualcuno.

3a. C’è la possibilità che arriverebbe qualcuno.

4a. Ci sarebbe la possibilità che arriverebbe qualcuno.

2b È possibile che arrivi qualcuno.

2b. Sarebbe possibile che arrivasse qualcuno.

3b. È possibile che arriverebbe qualcuno

4b. Sarebbe possibile che arriverebbe qualcuno.

Avrebbe senso il condizionale delle frasi 3a, 3b, 4a e 4b, secondo lei, magari se la soggettiva esplicita introdotta da “possibile/ possibilità” racchiudesse al suo interno una protasi implicita / sottintesa?

Immagino uno schema di questo tipo:

Sarebbe possibile = complemento predicativo del soggetto.

Che arriverebbe qualcuno (se ci fossero i presupposti) = soggettiva implicita che introduce una apodosi e una protasi “nascosta”.

Cosa ne pensa lei? Boccerebbe le 4 frasi in questione o sono grammaticalmente corrette?

 

RISPOSTA:

Sì, le boccerei per evitare costrutti astratti e pesanti come quelli proposti. Perché mai ipotizzare una protasi sottintesa? Limitiamoci a ciò che è espresso negli enunciati, senza creare astrusi e farraginosi esempi inventati a tavolino e che nessuno direbbe o scriverebbe mai (senza commettere errori), e usiamo i modi e i tempi verbali nel modo più chiaro possibile. Quindi: «che arrivi», oppure «che arrivasse». Vi sono peraltro casi, per esempio in dipendenza da verba putandi, in cui è possibile il condizionale anche in assenza di protasi: «credo (che) faresti meglio ad andartene»; ma sono casi limite e comunque, anche in quel caso, la forma più attesa è «credo che tu faccia meglio ad andartene».

Concludo con due correzioni alla sua analisi del periodo indebitamente combinata con l’analisi logica:

Sarebbe possibile: proposizione principale (costituita da un predicato nominale con soggetto sottinteso). È meglio classificare, secondo l’analisi logica tradizionale, «possibile» come nome del predicato (nominale), piuttosto che come predicativo del soggetto, sebbene tra le due classificazioni di fatto non vi sia alcuna differenza.

Che arrivi (e non arriverebbe) ecc.: soggettiva esplicita (e non implicita).

Fabio Rossi

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QUESITO:

L’altro giorno osservavo mia moglie che si stava gustando una salsiccia che mio figlio, di ritorno da Norcia, le aveva portato. La mangiava a piccoli pezzetti per farla durare di più e con più gusto rievocando antichi sapori in quanto da bambina, per sfuggire dai bombardamenti su Roma, era stata ospitata da alcuni lontani parenti che abitavano nei dintorni di Norcia. Nel guardarla ho usato il termine “stai centellinando quella salsiccia da oramai tre giorni…..” e mi è venuto il dubbio che il termine centellinare potesse essere usato correttamente solo per bevande e non anche in senso figurato per cibo a piccoli morsi anche se l’obiettivo in fondo è lo stesso: ‘gustare di più’, ‘far durare più a lungo’, assaporare evocando antichi sapori. È corretto usare il termine in questo senso?

 

RISPOSTA:

Il verbo centellinare ha come significato principale ‘bere a piccoli sorsi’ (il centellino o centello è il ‘piccolo sorso’) ma può essere usato anche in senso figurato per riferirsi al cibo e, più in generale, a tutto ciò che è connesso alla sfera sensoriale del gusto; non può essere usato, invece, nel significato da lei proposto di ‘assaporare evocando antichi sapori’. Possiamo quindi “centellinare un buon caffè”, “centellinare una salsiccia”, “centellinare un libro”: se nel primo caso il significato di centellinare sarà quello di ‘bere a piccoli sorsi per assaporare meglio’, negli altri due sarà quello di ‘gustare lentamente qualcosa per trarne il massimo piacere’. Inoltre, centellinare può essere usato in senso figurato anche con il significato di ‘usare con parsimonia’ come nel caso di “centellinare le energie”.

Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È preferibile dire: «Ieri avrei voluto tornare a casa presto ma ho trovato tanto traffico» oppure «Ieri sarei voluto tornare a casa presto ma ho trovato tanto traffico»? Non mi risulta che esista una regola rigida. Credo che entrambe le frasi possano essere corrette. Sbaglio?

 

RISPOSTA:

Non sbaglia. Nel caso di costrutto servile + infinito l’italiano ammette la doppia possibilità: o l’ausiliare del servile (avere), o l’ausiliare del verbo retto dal servile (o essere o avere, a seconda del verbo). Solitamente al Nord si preferisce la prima opzione, al Sud la seconda, ma non esiste una regola, sono soltanto tendenze d’uso e talora addirittura soltanto gusto personale ed eufonia (a seconda del tipo di frase e delle parole che la costituiscono). Tendenzialmente, per esempio, io, da centromeridionale, preferisco il secondo tipo (con essere), mentre molti miei amici settentrionali usano quasi sempre avere.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase «sembrava loro che fosse il più adatto» ho individuato in «il più adatto» un complemento predicativo del soggetto, però mi è stato corretto…

 

RISPOSTA:

Le è stato giustamente corretto perché nel periodo in questione, che è costituito da due proposizioni, deve prima procedere all’analisi del periodo e poi all’analisi logica proposizione per proposizione.

Analisi del periodo: sembrava loro: proposizione principale; che fosse il più adatto: proposizione soggettiva esplicita di primo grado.

Analisi logica della principale: soggetto sottinteso; sembrava: predicato verbale; loro: complemento di termine. Analisi logica della subordinata: fosse il più adatto: predicato nominale (fosse: copula + il più adatto: parte nominale).

Se invece il periodo fosse stato costituito da un’unica proposizione, per esempio: «sembra il più adatto», l’analisi logica sarebbe stata la seguente: soggetto sottinteso; sembrava il più adatto: predicato nominale. Oppure (soluzione alternativa e altrettanto corretta) sembrava: predicato verbale con verbo copulativo; il più adatto: complemento predicativo del soggetto.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Me l’hai preso tu il libro che stavo leggendo?». La frase sopra riportata è corretta? La parola libro è una ripetizione?

 

RISPOSTA:

Sì, la frase è corretta, benché sia appropriata a un contesto informale e soprattutto parlato, meno appropriata (con qualche eccezione) nella lingua scritta e formale. Il costrutto si chiama dislocazione a destra (oppure a sinistra, se è rovesciato: «il libro me l’hai preso tu») e prevede la ripetizione, come dice lei, dell’oggetto, che, nel caso della sua frase, compare sia in forma piena (il libro), sia nella forma pronominale (l’). I motivi che inducono a scegliere un costrutto siffatto sono di solito legati all’esigenza di dare maggiore o minore rilievo a determinate informazioni della frase. Nel caso specifico, per esempio, si mette in rilievo l’azione e chi la compie (hai preso e tu) e si dà quasi per scontato il libro, come se fosse (come in effetti è) già ben presente nell’orizzonte comunicativo degli interlocutori; il libro, comunque, acquista esso stesso un suo particolare rilievo, perché diventa il tema su cui verte l’intero atto comunicativo. Delle dislocazioni abbiamo più volte discusso, nella banca dati di DICO. Può vedere, per esempio, la domanda/risposta “Dimmelo tu cosa sono le dislocazioni”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le espressioni carteggio informatico e carteggio digitale, usate al fine di indicare uno scambio di e-mail, messaggi WhatsApp o sms, possono essere considerate corrette? Se così non fosse, quali altre espressioni potrebbero essere usate in loro vece?

 

RISPOSTA:

Sì, entrambe le espressioni potrebbero essere usate per indicare uno scambio di sms, di messaggi inviati tramite e-mail o servizi di messaggistica istantanea. Per avere il requisito di carteggio (digitale o informatico), però, è necessario che lo scambio di messaggi fra due persone sia continuo nel tempo. Sarebbe possibile usare anche il termine corrispondenza, già adottato nel linguaggio informatico per indicare uno scambio di messaggi che hanno in comune lo stesso destinatario o lo stesso oggetto.

Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Scritta così, questa frase «Dovresti aiutarmi, non chiudermi la porta in faccia», vuol dire: «Dovresti aiutarmi, non, invece chiudermi la porta in faccia» (insomma, esprimere un giudizio), oppure può essere interpretata come una frase esortativa: «Non chiudermi la porta in faccia! Devi aiutarmi»? C’è il rischio di fare confusione?

 

RISPOSTA:

Non c’è il rischio di confondersi perché, come nota lei, per avere la sfumatura esortativa dovremmo scrivere la frase in un altro modo. Tra le due proposizioni “Dovresti aiutarmi” e “non chiudermi la porta in faccia”, unite per asindeto dalla virgola, c’è una relazione di opposizione (o di sostituzione) interpretabile come: “Dovresti aiutarmi, non, invece, chiudermi la porta in faccia”.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Analisi del periodo: «credo che Luca sia inadatto a fare il falegname».

 

RISPOSTA:

Credo: principale.

Che Luca sia inadatto: subordinata oggettiva esplicita di 1° grado.

A fare il falegname: subordinata consecutiva implicita (o per taluni, meno correttamente, finale) di 2° grado.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi posso chiedere l’analisi del periodo di questa breve espressione? «Neanche se me lo chiede in turco gli dirò che credo sia il migliore di noi». Io l’ho svolta così:

Gli dirò: principale

Neanche se me lo chiede in turco: concessiva esplicita

Che credo: oggettiva esplicita

Sia il migliore di noi: oggettiva esplicita

 

RISPOSTA:

L’analisi è corretta. Se vuole, può aggiungere il grado di subordinazione, ovvero:

Neanche se me lo chiede in turco: concessiva esplicita di 1° grado.

Che credo: oggettiva esplicita di 1° grado.

Sia il migliore di noi: oggettiva esplicita di 2° grado.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase «Sembra un vino di ottima qualità», «di ottima qualità» è un complemento di qualità, ma non potrebbe essere anche complemento predicativo del soggetto?

 

RISPOSTA:

Nell’ambito dell’analisi logica tradizionale (su cui abbiamo più volte, nelle risposte di DICO, espresso forti perplessità: cfr. da ultima la risposta Analisi logica: fare finta di niente) non è il solo sintagma preposizionale, con valore di locuzione aggettivale, «di qualità» (che da solo può essere analizzato come complemento di qualità, qui accompagnato dall’attributo ottima), bensì l’intero sintagma nominale complesso (composto da sintagma nominale + sintagma preposizionale + sintagma aggettivale) «un vino di ottima qualità» a dover essere analizzato come complemento predicativo del soggetto (che è sottinteso: esso) della frase.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase «Luca faceva finta di niente», che complemento è «di niente»? Mi è venuto in mente argomento ma non credo sia corretto.

 

RISPOSTA:

È complemento di specificazione, secondo la nomenclatura tradizionale dell’analisi logica. Tuttavia, come abbiamo detto più volte nelle nostre risposte di DICO (cfr. per es. le risposte Analisi logica “per intenditori”; L’inutilità, e l’impossibilità d’analisi, di alcuni complementi; Il complemento di quantità e il complemento di specificazione: l’inutilità dell’analisi logica tradizionale), la tassonomia dei complementi non serve a molto, nella comprensione delle strutture sintattiche e lessicali di una lingua. Infatti, «fare finta di niente» è un’espressione cristallizzata, idiomatica, che va analizzata nel suo complesso, soprattutto nella sua seconda parte, che dunque andrebbe analizzata come segue: Luca = soggetto; faceva = predicato verbale; finta di niente = complemento oggetto. Oppure, ancora meglio secondo le tendenze più aggiornate della sintassi: faceva finta di niente = predicato verbale formato da verbo + argomento.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se queste frasi sono entrambe corrette:

«Ce ne fosse uno che lavorasse!»

«Ce ne fosse uno che lavori!»

Il “ne” che in questo caso può sostituire ad esempio “di loro”, può essere considerato superfluo?

Inoltre ho un dubbio: come si distingue il congiuntivo esortativo da quello desiderativo?

È chiaro che per esprimere un’esortazione bisogna utilizzare il congiuntivo presente («Impari l’italiano!»), mentre è sbagliato utilizzare l’imperfetto («Imparasse l’italiano!»). Ma se l’imperfetto venisse usato per esprimere una sorta di desiderio, come a dire: «Se solo imparasse l’italiano!», «Imparasse l’italiano…»?

 

RISPOSTA:

È corretta soltanto la seconda frase, perché si tratta di contemporaneità nel presente: io adesso esprimo il mio sdegno che nessuno (adesso, e non nel passato) lavori. Il ne non è scorretto. Lascia intendere che ci si stia riferendo non all’umanità dei lavoratori (o dei non lavoratori) in generale, ma a un gruppo specifico di persone, tra le quali nessuno lavora. Il congiuntivo esortativo è al presente, mentre quello ottativo, o desiderativo, è all’imperfetto, come dice lei: «Impari l’italiano!» (esortativo), «Imparasse l’italiano!» (desiderativo: ‘quanto vorrei che imparasse l’italiano!’)

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi indicate, l’uso del gerundio è appropriato?

1a) Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, vincendo però la guerra.

1b) Chi non avesse la possibilità di presenziare alla cerimonia di premiazione [domanda un candidato, nda] perderebbe esclusivamente il diritto al ritiro del premio, mantenendo quindi il piazzamento ottenuto, oppure no?

 

RISPOSTA:

Sì, il modo gerundio è appropriato in entrambe le frasi, dal momento che esprime una subordinata implicita (in entrambi i casi di tipo avversativo, con le precisazioni fatte sotto) con identità di soggetto rispetto alla reggente. Per quanto riguarda la consecutio temporum, è perfetta nella seconda frase (perderebbe il diritto ma manterrebbe il piazzamento), mentre nella prima sarebbe in realtà preferibile usare il gerundio passato, se davvero si vuole mantenere un rapporto di parallelismo con l’aver perso la prima battaglia (anteriore rispetto a immaginava) e l’aver vinto la guerra. Dunque una versione più corretta della frase sarebbe: «Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, avendo però vinto la guerra». Se invece si volesse intendere che la vittoria della guerra è causa della sconfitta della prima battaglia, allora andrebbe bene il gerundio presente; ma quest’ultima interpretazione sarebbe incoerente: semmai, dovrebbe essere ribaltata (per quanto anche in questo caso la coerenza sarebbe labile): «Non immaginava che avesse vinto la guerra perdendo la prima battaglia». Per evitare equivoci sull’esatto significato della frase, sarebbe meglio trasformare la gerundiva in una subordinata esplicita, oppure utilizzando comunque un connettivo che ne chiarisca il rapporto logico tra gli elementi. Per es. «Non immaginava di aver vinto la guerra pur avendo perso la prima battaglia»; oppure (visto che il verbo immaginare, a differenza di sapere, fa ipotizzare che ancora non si sapesse l’esito della guerra, che dunque non era ancora finita all’epoca dell’immaginava; pertanto bisognerebbe ipotizzare una subordinata posteriore, e non anteriore, alla reggente): «Non immaginava che avrebbe vinto la guerra, dato che aveva perso la prima battaglia». Quest’ultima mi sembra la versione più coerente della frase 1a, e dunque forse la più fedele all’intento dell’emittente.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Queste due alternative sono corrette?

1. Sei cieca se pensi che sia inutile.

2. Sei cieca se pensi che è inutile.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette entrambe le frasi. La prima è formata con il congiuntivo presente e rappresenta l’opzione più formale, in una subordinata completiva; la seconda è all’indicativo e costituisce l’opzione meno formale ma comunque corretta.

Per approfondire l’argomento, molto presente all’interno del nostro Archivio, la rimando a questa risposta: Indicativo o congiuntivo nelle completive.

Raphael Merida

 

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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire: “Ho dormito fino adesso” oppure “fino ad adesso”. Ritengo che entrambe le espressioni siano corrette.

 

RISPOSTA:

Entrambe le locuzioni sono corrette. La preposizione fino è seguita, di solito, da un avverbio o da una preposizione che determina il momento preciso in cui si conclude qualcosa che ha una durata nel tempo. Con alcuni avverbi di tempo, come adesso, ora, allora, la preposizione a può essere omessa. Fino adesso, dunque, equivale a fino ad adesso, così come, per esempio, la locuzione finora (o con grafia non comune fin ora) corrisponde a fino a(d) ora. Per ragioni di eufonia si può usare sino al posto di fino.
Raphael Merida

Parole chiave: Avverbio, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedervi una consulenza sintattica sulla frase “questo quadro è stato comprato da qualcuno che se ne intende”. In particolare, mi interessava capire il valore sintattico della particella se. Ne è complemento di specificazione (o forse di argomento), m non riesco a comprendere la funzione di se.

 

RISPOSTA:

Se ne intende equivale a intendersene ‘essere competente in qualcosa’, che rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso si, nella forma se, e ne) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo. L’appendice pronominale –sene, quindi, non ha un significato autonomo ma arricchisce il verbo base attraverso una sfumatura emotiva; nel caso da lei proposto, intendersene (o il corrispettivo intendersi), a differenza del transitivo intendere, richiede un complemento di specificazione: “se ne intende di arte” / “si intende di arte”.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.

Raphael Merida

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QUESITO:

Nonostante abbia già letto molte grammatiche su imperfetto e passato prossimo, continuo ad avere dei dubbi. Ad esempio, se voglio raccontare del concerto dove sono andata, che tempo devo usare nella frase seguente: “C’erano / ci sono stati tanti cantanti al concerto”.
E in queste altre frasi qual è il tempo piú adatto?
– Stavo benissimo / sono stato benissimo in vacanza.
– Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?
– Oggi pomeriggio ero / sono stato al cinema.
– Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto.
– Ieri al concerto ero seduto / sono stato seduto dietro.
– Non hanno mai ricevuto i soldi di cui hanno avuto bisogno / hanno bisogno / avevano bisogno.

 

RISPOSTA:

Bisogna ricordare che l’imperfetto rappresenta l’evento come continuato nel passato, mentre il passato prossimo come concluso, sempre nel passato, ma con una persistenza delle conseguenze nel presente. A volte un tempo esclude l’altro, ma più spesso entrambi possono essere usati, modificando il significato della frase. Nella prima frase, il tempo più naturale è l’imperfetto, perché lo scopo della frase è descrivere lo svolgimento del concerto, non darne una visione complessiva; al contrario, molto strana sarebbe la frase “Il concerto era entusiasmante”, mentre del tutto naturale sarebbe “Il concerto è stato entusiasmante”, proprio perché, in questo caso, ciò che conta è la visione d’insieme, non lo svolgimento. La seconda frase è simile alla mia riscrittura della prima, per cui ci si aspetta il passato prossimo, che rappresenta la visione d’insieme della vacanza; l’imperfetto, si badi, non è del tutto escluso, ma andrebbe meglio in un contesto come “Quanto mi pesa tornare al lavoro; stavo così bene in vacanza!”. Nella terza frase le due opzioni sono ugualmente valide: con la prima ci si riferisce, ancora una volta, alla situazione nel suo svolgimento; con la seconda si considera la situazione nel suo complesso. Lo stesso vale per la quarta. Nella quinta la scelta tra volevo e ho voluto produce una conseguenza importante: con la prima forma la frase significa che la volontà del soggetto caratterizzava quel periodo, ma non esclude che, passato quel periodo, essa sia cessata e l’incontro sia avvenuto; con la seconda forma, invece, si esclude che l’incontro sia avvenuto, perché il processo del non volere è rappresentato come concluso, ovvero definitivo. Per la sesta frase vale quanto detto per la terza (“Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?”). Per l’ultima vale quanto detto per la quinta (“Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto”): avevano bisogno comporta che forse in un momento successivo non ne hanno avuto più bisogno; hanno avuto bisogno comporta che il fine per cui avevano bisogno dei soldi si è concluso, quindi in qualche modo i soggetti sono riusciti a risolvere il problema anche senza aver ricevuto i soldi. In quest’ultima frase il presente hanno bisogno cambierebbe anche il tempo, implicando che il bisogno è ancora in corso nel momento in cui il parlante sta parlando.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Verbo
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QUESITO:

Queste due frasi, nonostante contengano il non, hanno lo stesso significato?
“Incapacità di fare silenzio”
“Incapacità di non fare silenzio”
Io le interpreto entrambe con il significato di ‘urlare’.

 

RISPOSTA:

Nelle espressioni (più che frasi sono parti di frasi) il non è determinante: se parafrasiamo non frase silenzio con parlare (non è necessario ricorrere al verbo urlare), la seconda espressione significa ‘incapacità di parlare’, che è, come ci si aspetta, data la presenza della negazione, il contrario del significato della prima espressione, in cui non non c’è.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho udito in TV il seguente passaggio giornalistico:
1a) Una malattia da cui si è scoperto che xxx è affetto da tempo.
La frase, francamente, mi lascia molto perplessa. Forse sbaglio nella ricostruzione sintattica; ma, tradotta, la frase a mio avviso suonerebbe più o meno così: “Dalla malattia [da cui xxx è affetto] si è scoperto che…”, e non è certamente questo il significato che il giornalista voleva trasmettere ai telespettatori. Mi sono così applicata per provare a elaborare delle alternative, che vorrei sottoporvi, partendo da quello che dovrebbe essere il messaggio di base della frase.
1b) Una malattia da cui – si è scoperto – xxx è affetto da tempo.
Ho introdotto un inciso per non eliminare il si impersonale.
1c) Una malattia da cui xxx ha scoperto di essere affetto.
(Ho eliminato il si impersonale.)
Che cosa ne pensate?

 

RISPOSTA:

Ha ragione a considerare la frase mal costruita: il pronome da cui difficilmente può essere collegato a essere affetto, visto che il primo si trova nella proposizione relativa da cui si è scoperto, il secondo nella soggettiva esplicita che xxx è affetto da tempo, retta dalla relativa. Il pronome viene, invece, naturalmente collegato a scoprire, venendo a costituire un significato chiaramente impossibile per la frase, perché essere affetto rimane senza un argomento, quindi incompleto. La sua ricostruzione 1b è efficace, perché restaura il significato inteso mantenendo quasi la stessa forma della frase; la 1c, invece, pur essendo formalmente corretta, tradisce il significato inteso, perché attribuisce indebitamente la scoperta alla persona affetta dalla malattia. Si noti che la frase 1c riutilizza quasi la stessa struttura della 1a, con, però, la differenza determinante che la soggettiva esplicita è stata trasformata in una oggettiva implicita. Se l’oggettiva fosse esplicita la frase tornerebbe a essere mal costruita (per esempio “Una malattia da cui Luca ha scoperto che Andrea è affetto da tempo”, oppure “Una malattia da cui ho scoperto che sono affetto da tempo”), perché il che che introduce l’oggettiva (e la soggettiva nella frase 1a) interferisce con da cui.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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QUESITO:

Le proposizioni relative nelle frasi di seguito sono limitative o esplicative? La virgola serve oppure no? In certi casi potrebbe essere utile un “rinforzo” pronominale per il che?
1a) Queste sono le sue parole(,) su cui vorrei soffermarmi.
1b) Queste sono le sue parole, quelle su cui vorrei soffermarmi.
2a) Ho dovuto accettare le sue ragioni(,) che non condivido.
2b) Ho dovuto accettare le sue ragioni, quelle che non condivido.
3a) Ero attratta dal suo ragionamento(,) che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
3b) Ero attratta dal suo ragionamento, quello che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi proposte sono possibili; in esse le relative sono costruite prima come limitative (che non richiedono la virgola), poi come esplicative, e questo cambiamento influisce sul significato della frase. Nella prima coppia, per esempio, la variante a indica che il soggetto vuole soffermarsi su alcune parole proferite da qualcuno; la variante b prima presenta le parole, poi indica che il soggetto vuole soffermarsi sulle parole presentate. L’inserimento del pronome dimostrativo nelle relative esplicative, possibile ma non necessario, ha l’effetto di separare ancora più nettamente le subordinate dalle reggenti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale fra queste due affermazioni è corretta dal punto di vista grammaticale?
1) L’ultima sua opera è stato un libro.
2) L’ultima sua opera è stata un libro.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: il participio passato della copula può concordare con il soggetto o con il nome del predicato, se è un nome di genere diverso dal soggetto, come in questo caso. Si noti che il participio passato dei verbi copulativi preferisce di gran lunga l’accordo con il soggetto (“L’ultima sua opera è sembrata un capolavoro”; meno comune “… è sembrato un capolavoro”), mentre il participio passato dei verbi che richiedono il complemento predicativo del soggetto concorda soltanto con il soggetto (“L’ultima sua opera è stata ritenuta un capolavoro”; non *”… è stato ritenuto un capolavoro”).
Si noti che se il nome del predicato o il complemento predicativo è plurale mentre il soggetto è singolare, il verbo in qualsiasi sua forma preferisce di gran lunga la concordanza con il nome del predicato o il complemento predicativo, non con il soggetto (“Il suo miglior piatto sono / sono state / sembrano / sono sembrate / sono ritenute le lasagne”). Al contrario, nei pochi casi in cui il soggetto è plurale e il nome del predicato o il complemento predicativo è singolare, il verbo concorda con il soggetto (“I suoi amici sono la sua famiglia”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali sono i tempi e i modi verbali piú adatti nelle proposizioni comparative? Il modo condizionale é corretto?
È piú stupido di quanto tu pensi (indicativo o congiuntivo?) / pensassi / abbia pensato / avessi pensato.
È stato piú semplice di quanto tu creda / credessi / abbia creduto / avessi creduto.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti da lei ipotizzate sono corrette, e le possibilità sono ancora di più. Al variare del modo cambia il grado di formalità (il congiuntivo è più formale dell’indicativo) o si aggiunge una sfumatura semantica (il condizionale presenta l’evento della subordinata come condizionato da un altro evento o come eventuale); al variare del tempo cambia la collocazione dell’evento descritto dalla subordinata sulla linea temporale (e solo secondariamente il rapporto temporale tra questo e l’evento della reggente). Si noti che le possibilità prescindono dal tempo della reggente, perché i due eventi rappresentati nella reggente e nella subordinata sono reciprocamente autonomi dal punto di vista temporale. Possiamo, dunque, avere in entrambe le frasi:
“… di quanto tu credi / creda” (indicativo e congiuntivo presente), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel presente;
“… di quanto tu credevi / credessi” (indicativo e congiuntivo imperfetto), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato per un certo tempo;
“… di quanto tu hai creduto / abbia creduto” (indicativo passato prossimo e congiuntivo passato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito ed è ancora ben presente nella mente del parlante;
“… di quanto tu credesti” (indicativo passato remoto), per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito lontano dalla percezione del parlante;
“… di quanto tu avevi / avessi creduto” (indicativo e congiuntivo trapassato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene in un momento del passato precedente a un altro momento (per esempio “È più stupido di quanto tu avevi / avessi creduto prima che succedesse quell’incidente”;
“… di quanto tu crederai” (indicativo futuro), per indicare che il credere avviene nel futuro;
“… di quanto tu crederesti” (condizionale presente), per indicare che il credere è condizionato (per esempio “È più stupido di quanto tu crederesti se lo guardassi in faccia”) o semplicemente eventuale, e avviene nel presente;
“… di quanto tu avresti creduto” (condizionale passato), per indicare che il credere è condizionato o semplicemente eventuale, e avviene nel passato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Visto che sapere regge l’indicativo, ma in frase negativa anche il congiuntivo, queste alternative sono tutte corrette?
“So che è possibile che sia sia rotto”
“So che è possibile che si è rotto”

“Non so se sia possibile che si sia rotto”
“Non so se è possibile che si è rotto”
“Non so se sia possibile che si è rotto”
“Non so se è possibile che si sia rotto”

 

RISPOSTA:

Le alternative sono tutte corrette. Si consideri che nel secondo gruppo le varianti con il congiuntivo sia nella subordinata di primo grado (se sia possibile) sia in quella di secondo grado (che si sia rotto) sono le più formali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Se leggerò un’ora tutti i giorni, quando arriverò al 31 di dicembre avrò letto almeno una decina di libri”.

Il periodo dovrebbe essere corretto. Se volessimo accentuare la componente ipotetica, potremmo introdurre il congiuntivo imperfetto al posto dei due futuri semplici e, in relazione al futuro anteriore, il condizionale passato?

Mi spiego meglio con un esempio:

“Se leggessi un’ora tutti giorni, quando arrivassi al 31 di dicembre, avrei letto almeno dieci libri”.

 

RISPOSTA:

La trasformazione del futuro semplice in congiuntivo imperfetto e del futuro anteriore in condizionale passato è corretta, ma non è l’unica possibile. Nel periodo ipotetico del secondo tipo si usa il congiuntivo imperfetto per esprimere la condizione possibile e il condizionale presente per esprimere la conseguenza (quindi nel suo caso avremmo “Se leggessi un’ora tutti giorni, al 31 di dicembre leggerei almeno dieci libri”). Se, però, vogliamo sottolineare che la conseguenza è collocata nel futuro rispetto a una condizione che è collocata nel passato, possiamo optare per il condizionale passato, che assommerà in sé le due funzioni di condizionale e di forma verbale della posteriorità rispetto al passato. Si potrebbe osservare che se leggessi è collocato nel presente, non nel passato, ma bisogna considerare che questa azione entra in relazione con la data futura, per cui finisce con l’essere considerata da una prospettiva futura.

A margine faccio notare che il secondo futuro (arriverò) non può diventare condizionale nella trasformazione della frase, ma deve rimanere futuro, perché altrimenti il parlante rappresenterebbe l’evento dell’arrivare come possibile, come se avesse qualche ragione per credere che non arriverà al 31 dicembre.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Un uomo attraversava i ghiacciai…: era equipaggiato, era armato ed era in viaggio verso chissà dove”. Il correttore del testo considera i verbi era equipaggiato ed era armato come forme passive. Avrei qualche perplessità in merito.

 

RISPOSTA:

Fa bene: in questo caso equipaggiato e armato sono usati come aggettivi e funzionano da parti nominali dei predicati nominali era equipaggiato e era armato. Può trovare maggiori spiegazioni sulla distinzione tra participio passato verbale e nominale in questa risposta dell’archivio di DICO.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo un dubbio di punteggiatura riguardante il titolo di un libro: “Ultima fermata Parma”. Mi chiedo se fra fermata e Parma sia preferibile collocare due punti oppure una virgola.

 

RISPOSTA:

I titoli come quello da lei proposto sono frasi nominali; l’assenza di un verbo rende difficilmente applicabili le comuni regole sintattiche, comprese quelle sulla punteggiatura, e configura la frase come un enunciato, unità comunicativa in cui emergono le esigenze testuali, legate alla segnalazione del ruolo informativo dei costituenti. Nel caso specifico Ultima fermata rappresenta il tema, o topic, dell’enunciato, mentre Parma ne è il rema, o comment; in altre parole, nell’enunciato viene introdotto un elemento, il topic, intorno al quale viene aggiunta un’informazione, il comment. La distinzione tra topic e comment nel parlato è affidata a una pausa, tipicamente accompagnata da un’intonazione specifica per l’uno e l’altro costituente: il topic sarà pronunciato con un andamento prosodico verso l’acuto sulla sillaba tonica, subito prima della pausa, quindi il rema avrà un’intonazione conclusiva. In questo quadro le soluzioni interpuntive sono varie: è possibile non inserire alcun segno, lasciando che la distinzione emerga da sé nella lettura, oppure si possono inserire una virgola o i due punti. Con la virgola si segnala soltanto la separazione, presentando il comment come aggiunto al topic; con i due punti si suggerisce un dettaglio in più (che tutto sommato è ricavabile anche con la virgola, ma con un piccolo sforzo interpretativo del lettore), cioè che il comment veicola una spiegazione, una chiave di lettura del valore del topic. Ovviamente con questa soluzione lo scrivente sottolinea che il lettore abbia bisogno di questo tipo di istruzione, quindi lo invita apertamente a riconoscere il rapporto tra i costituenti come carico di un implicito da scoprire.

Si può, infine, usare anche il punto fermo, con la conseguenza di creare due enunciati, quindi di dare la funzione di comment a entrambi i costituenti.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:

1) Mario era  troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.

2) Mario era  troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.

3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.

Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era  troppo grande perché lo si capisse”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A) Ci sono degli studenti, molti dei quali non si impegnano abbastanza.
B) Ci sono degli studenti, di cui molti non si impegnano abbastanza.

La A ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma nominale, come per esempio:
‘Molti di quelli che vedi non si impegnano abbastanza’.
La B invece ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma verbale, come per esempio:
‘Di quelli che vedi molti non si impegnano abbastanza’.
È un’analisi corretta la mia? Se così fosse, non ci sarebbe nessuna differenza d’uso tra A e B?

 

RISPOSTA:

L’unica differenza tra A e B è la forma del pronome relativo (di cui / dei quali). A prescindere dalla forma, la funzione del relativo è sempre quella di introdurre una proposizione relativa, che è un modificatore di un sintagma nominale (in questo caso gli studenti). Per quanto le due varianti del relativo siano funzionalmente identiche, quella analitica, formata dall’articolo determinativo e quale, è meno comune e più formale di quella sintetica, formata dal solo cui. Va aggiunto che la proposizione relativa richiesta qui è certamente limitativa, cioè contenente informazioni che identificano l’antecedente; questo tipo di proposizione relativa non va separato dalla reggente con alcun segno di punteggiatura e preferisce senz’altro la forma sintetica del relativo. Diversamente, la relativa esplicativa, che contiene informazioni aggiuntive sull’antecedente, va separata e può essere costruita con entrambe le forme (per esempio: “Quest’anno ho una classe con molti studenti, molti dei quali / di cui molti non si impegnano abbastanza”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nel mio lavoro di rilevazione degli incidenti stradali, quando si raccoglie la dichiarazione è prassi scrivere: “proveniente da Via X percorrevo Via Y in direzione di Piazza Z …”. Io però preferisco cominciare usando il gerundio: “Provenendo da …”. L’inizio con il participio presente in funzione verbale è da ritenersi errato, tollerato o corretto? Se corretto non è comunque preferibile il gerundio?

 

RISPOSTA:

Il participio presente con funzione verbale è raro e solitamente sgradito dai parlanti (anche se non può essere definito scorretto). Si usa quasi esclusivamente in ambito burocratico, da cui proviene, non a caso, il suo esempio; anche in questo contesto, però, può essere sostituito da altre forme, come il gerundio, nell’ottica di un salutare avvicinamento del burocratese alla lingua comune.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Se io, in caso accadesse una disgrazia, mi comportassi come se nulla fosse accaduto, trasparirebbe la mia recita e si capirebbe comunque quel che è accaduto”. Ragionandoci sopra, mi pare che sarebbe più logico dire quel che sarebbe accaduto (cioè sarebbe accaduto se tutto ciò fosse avvenuto davvero): quale delle due versioni è la più corretta?

 

RISPOSTA:

Non è necessario usare il condizionale (per quanto si possa comunque scegliere di farlo), perché l’ipoteticità dell’evento è resa chiarissima dai due periodi ipotetici precedenti e non c’è bisogno di ribadirla.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Era uno dei miei pregi, o almeno credevo che fosse tale.”

Tale dovrebbe equivalere a un pregio. Dal punto di vista logico, non mi pare che la costruzione presenti grandi difficoltà interpretative; ma, dal punto di vista sintattico, _tale_ si riferisce a un termine che nel testo non compare, se non nella forma plurale (uno dei miei pregi).

Considerando ciò, il periodo è corretto?

 

RISPOSTA:

Il periodo è corretto. Bisogna precisare intanto che il referente uno dei miei pregi è singolare (appunto uno), non plurale. Può, comunque, capitare che un elemento anaforico rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore, ma semmai come una costruzione tipica del parlato; per esempio “Non c’è neanche uno yogurt in frigo? Ma se ne ho presi sei l’altro giorno!” (ovvero ho preso sei yougurt).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho preparato questo quesito perché, talvolta, ho difficoltà a capire su chi ricada l’azione della subordinata. La regola secondo cui, se non vado errata, è consigliata (tranne alcuni casi) la forma implicita, laddove vi sia identità di soggetto tra la reggente e appunto la subordinata, non so se possa essere applicata agli esempi proposti:

1) Stefano ha chiesto ad Alessia di uscire.

2) Stefano ha detto quella bugia ad Alessia per illuderla di aver ragione.

Riguardo al primo esempio: Stefano ha chiesto ad Alessia che fosse lei ad uscire, oppure Stefano ha chiesto il permesso per uscire ad Alessia?

Riguardo al secondo esempio: la bugia è stata detta ad Alessia per illuderla che Stefano avesse ragione, oppure Stefano, con quella bugia, ha voluto illudere Alessia?

Vorrei infine aggiungere un terzo esempio. Stavolta si tratta di un’interrogativa indiretta; ma l’incertezza sui rapporti semantici tra le parti permangono:

3) Stefano ha chiesto ad Alessia se poteva/potesse uscire.

Stessa criticità: chi “poteva (o potesse) uscire” tra i due?

 

RISPOSTA:

La regola generale dice che la subordinata completiva implicita presuppone che il soggetto sia lo stesso della reggente; ci sono, però, dei casi in cui questa regola entra in competizione con altre regole, oppure con la logica ingenua del parlante, con l’effetto di creare confusione nel parlante stesso. Nella frase 1) il problema è causato dalla polisemia del verbo chiedere: se lo intendiamo come ‘chiedere il permesso’ allora la subordinata rientra nella regola dell’identità di soggetto, per cui è Luca che vuole uscire; se, invece, lo intendiamo come ‘richiedere’, la subordinata rientra nella regola della costruzione con i verbi di comando, che prevede l’identità tra il soggetto della subordinata e l’oggetto del comando. In questo secondo caso, quindi, è Alessia che deve uscire. C’è anche una terza possibilità, attivata dal verbo chiedere in combinazione con uscire, e cioè che Luca abbia invitato Alessia a un appuntamento romantico. In questo caso la subordinata ha come soggetto loro, che non coincide né con Luca né con Alessia: la soluzione regolare sarebbe, quindi, “Luca ha chiesto ad Alessia che uscissero”, che, però, sarebbe interpretata piuttosto come ‘… ha richiesto ad Alessia di far uscire altre persone’. Con questo terzo significato, la costruzione più comune sarebbe ancora “Luca ha chiesto ad Alessia di uscire”, a rigore non corretta. La disambiguazione tra le tre possibilità sarà garantita dal contesto; la soluzione 3), invece (pure possibile), non aiuta completamente, perché l’inserimento di potere esclude la terza interpretazione, ma lascia aperte le prime due (anche se la seconda sarebbe molto favorita): nel primo caso potere sarà interpretato propriamente come ‘avere il permesso’; nel secondo sarà interpretato come segnale di cortesia, quindi la frase sarebbe la variante indiretta di “Alessia, puoi uscire, per favore?”.

Per quanto riguarda la frase 2), l’identificazione del soggetto di aver ragione è problematica perché l’oggetto pronominale della proposizione reggente (la) è sentito come un possibile candidato, anche se a rigore non lo è: il soggetto di aver è Stefano, ovvero il soggetto della proposizione reggente; se, invece, si vuole che il soggetto sia Alessia, bisognerà costruire la subordinata in modo esplicito: “…illuderla che avesse ragione”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

  1. “Stiamo parlando di voi stessi, ragazzi miei.”
  2. “Stavo parlando ai ragazzi di loro stessi.”

In questi due casi, stessi è corretto quale rafforzativo, oppure si tratta di un uso scorretto, in quanto il soggetto della proposizione non coincide con il pronome cui si riferisce l’aggettivo?

 

RISPOSTA:

L’uso è corretto in entrambi i casi; l’aggetto stesso può accompagnare i sintagmi nominali della frase (anche costruiti con un pronome) a prescindere dalla funzione sintattica da questi svolta.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.

1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.

Cerco di contestualizzare.

Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:

“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).

Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:

“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.

 

RISPOSTA:

L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).

A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.

In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.

“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”

Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.

Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”

In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:

“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?

“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?

 

RISPOSTA:

Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.

La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La preposizione di può  essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.

Esempio:

“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.

Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:

“il panettone si mangia sempre di dicembre /  Natale” = ‘ogni dicembre /  Natale’.

In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:

“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.

Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.

Ecco una frase tratta da un dizionario:

“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.

Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:

“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).

 

RISPOSTA:

La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.

I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alla possibile collocazione dei modificatori nominali in diversi contesti e situazioni.

Modificatori del nome preceduti da un modificatore verbale:

1a. Ho messo una cosa qui bellissima / di marmo / che potrebbe aiutarmi.

Modificatori del nome dopo il verbo dell’interrogativa:

2a. Quale cosa hai venduto di plastica / plasticosa / che non andava venduta?

3a. Quante ne hai dezuccherate / senza zucchero / che non fanno male alla salute?

4a. Cosa hai osato toccare di colore giallo / di legno / che non andava toccato?

5a. Di quale parte sei della Svezia?

Questione ancora più complicata:

Modificatori del nome, preceduti da un modificatore verbale, collocati dopo il verbo di un’interrogativa:

6a. Quale cosa hai messo qui di colore rosso / rossa / che non apprezzi più di tanto?

7a. Quale cosa hai comprato senza nemmeno avvisarmi di colore rosso / rossa / che ti piace?

Chiaramente tutte le frasi possono essere riformulate in questo modo:

1b. Ho messo qui una cosa bellissima / di vetro / che potrebbe aiutarmi.

2b. Quale cosa di plastica / plasticosa / che non andava venduta hai venduto?

3b. Quante dezuccherate / senza zucchero / che fanno male ne hai?

4b. Cosa di colore giallo / di legno / che non andava toccato hai osato toccare?

5b. Di quale parte della Svezia sei?

6b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che non apprezzi hai messo qui?

7b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che ti piace hai comprato senza avvisarmi?

La questione potrebbe farsi più intricata se si pensa che in alcune di queste frasi il complemento preposizionale / aggettivo potrebbe essere interpretato come modificatore verbale, più precisamente come complemento predicativo del soggetto / oggetto, non come modificatore nominale, vista la sua posizione postverbale, per la precisione negli esempi da 2 e 4.

Inoltre, l’esempio 7 potrebbe essere ambiguo, in quanto che ti piace potrebbe essere anche inteso come subordinata esplicita del verbo avvisare, dando il senso che qualcuno compra un qualcosa che gli piace, senza però avvisare qualcun altro.

Chiaramente queste situazioni di ambiguità si possono creare, ma quello che mi chiedo è questo: sintatticamente e grammaticalmente parlando, possiamo parlare di frasi corrette in questi significati e nel senso che vorrei dare? Cioè, i vari modificatori nominali (di legno, che non andava toccato, della Svezia, bellissima ecc.) delle frasi b si possono considerare dei modificatori nominali tanto nelle varianti a quanto nelle varianti b?

 

RISPOSTA:

Qualunque sia la posizione del modificatore, esso sarà sempre ricondotto al sintagma modificato; anche se interpretiamo i modificatori come complementi predicativi (o predicazioni supplementari), dal punto di vista sintattico e semantico essi modificano ancora i sintagmi nominali a cui si riferiscono. Va, però, detto, che il modificatore è tipicamente adiacente al modificato, tranne che non ci siano ragioni per allontanarlo (per esempio l’inserimento di un altro modificatore più strettamente legato al modificatore o la funzione predicativa del modificatore): alcune frasi a, pertanto, risultano innaturali e al limite dell’accettabilità (per esempio “Ho messo una cosa qui bellissima”, perché difficilmente si può accettare che l’aggettivo qualificativo sia legato al sintagma nominale qualificato meno strettamente di un’indicazione di luogo). La proposizione esclusiva nella frase 7 non è in nessun caso un modificatore del nome (infatti non può essere in alcun modo trasformata in una relativa il cui pronome introduttore riprenda il sintagma nominale o in un aggettivo); modificatori di sintagmi nominali introdotti da senza sarebbero, ad esempio, borsa senza manici (ovvero che non ha i manici), oppure maglietta senza maniche (smanicata).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase, leggere è un verbo o un sostantivo, e ha funzione di complemento oggetto?

“Amo tanto leggere, in particolare mi piacciono i libri fantasy”.

 

RISPOSTA:

Nella frase non è possibile decidere se l’infinito abbia valore di verbo o di nome: entrambe le analisi sono, pertanto, legittime. Il fatto che la parola non sia preceduta dall’articolo, comunque, fa propendere per l’analisi come verbo; diversamente, in una frase come “Amo tanto il leggere” la parola sarebbe certamente da analizzare come nome. Al contrario, se leggere fosse seguito da un complemento oggetto (per esempio “Amo tanto leggere romanzi d’avventura”) emergerebbe più chiaramente la funzione verbale.

Se leggere è un nome, esso rappresenta il complemento oggetto del verbo amo; se, invece, è un verbo, allora rappresenta una proposizione oggettiva subordinata alla reggente amo tanto.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tutte queste frasi e alternative sono corrette?

“Mi ha chiesto che cosa significasse quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significhi quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significherebbe quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significa quel gesto”

 

“Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia(,) imparerebbe tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli”.

 

“Un amico che diffami / diffama / diffamasse non è / sarebbe un buon amico”.

 

Attenendomi, per esempio, a queste tabelle della “Treccani”, una frase del genere sarebbe agrammaticale: “Credo che l’avesse visto”?

A che attenersi per sapere se si sta (o stia?) costruendo una frase che rispetta (o rispetti?) la concordanza dei tempi verbali?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti dei tre gruppi sono corrette. Nel primo gruppo la subordinata è una interrogativa indiretta, che è strettamente vincolata alla consecutio temporum; non tutte le varianti presentate, però, hanno a che fare direttamente con il sistema della consecutio. Le varianti con significa / significhi sono semanticamente equivalenti; in questo caso la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo è di tipo diafasico, cioè di registro (lo stesso vale per sta / stia e rispetta / rispetti della frase finale della sua domanda). Quella con il condizionale contiene, ovviamente, una sfumatura di condizionalità; presuppone, cioè, che ci sia una condizione (espressa altrove o implicita) per l’avverarsi dell’evento del significare (per esempio “…che cosa significherebbe quel gesto se lui lo facesse“). In alternativa (ma la corretta interpretazione dipende dal contesto), il condizionale può essere interpretato come un segnale di cortesia, ovvero come una variante indiretta di significa. Per quanto riguarda la consecutio temporum, queste tre varianti esprimono tutte la contemporaneità con il presente; il passato prossimo (qui ha chiesto), infatti, può funzionare da passato ma anche da presente, se descrive un evento che è ancora in corso (ha chiesto comporta che la domanda è ancora valida nel momento in cui l’emittente parla). Diversamente da queste tre, la variante all’imperfetto esprime (anche qui l’interpretazione dipende dal contesto) la contemporaneità con il passato, l’anteriorità rispetto al presente o anche l’anteriorità rispetto al passato; per esempio “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (contemporaneità con il passato) il nostro incontro”; “L’ho appena incontrato e mi ha chiesto (domanda ancora valida = presente) che cosa significasse il mio discorso di ieri (anteriorità rispetto al presente)”; “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (anteriorità rispetto al passato) il mio discorso del giorno prima”.

La seconda e la terza frase contengono subordinate relative, che non sono strettamente legate alla consecutio temporum; le varianti legge / legga funzionano come significa / significhi del gruppo precedente; leggesse qui non è interpretabile come passato, per via del verbo della reggente (imparerebbe), che è presente; esso va, quindi, interpretato come una variante di legga favorita dalla sovrapposizione del modello del periodo ipotetico: che leggesse …imparerebbe = se leggesse …imparerebbe. Si noti che se il verbo della reggente fosse passato, leggesse sarebbe interpretato come passato (per esempio “Un bambino che cinquant’anni fa leggesse per bene una enciclopedia avrebbe imparato…”).

Per “…tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli” vale quanto appena detto, tranne che qui è ammesso sia il congiuntivo imperfetto, con la stessa sfumatura ipotetica della prima relativa, sia il condizionale presente (non ammesso nella prima relativa per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico), attratto dal condizionale della proposizione reggente. A margine sottolineo che la virgola tra enciclopedia e imparerebbe non va inserita, perché si configurerebbe come virgola tra il soggetto (Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia) e il verbo.

Per la relativa della terza frase vale tutto quello che è stato detto per la prima relativa della seconda. Chiaramente, se si opta per diffamasse la reggente prenderà il condizionale sarebbe per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico.

La frase “Credo che l’avesse visto” non è affatto agrammaticale, ma descrive una situazione in cui un parlante riferisce di un evento passato precedente un altro; per esempio “Luca ieri è rimasto a guardare il film per pura gentilezza; credo che l’avesse già visto”. Lo schema presentato nella pagina a cui lei rimanda contiene soltanto i casi più comuni di relazione temporale tra reggente e subordinata completiva; i tanti casi non contemplati non sono esclusi, ma solo tralasciati per brevità. Sulla consecutio temporum in generale rimando alle tante risposte dell’Archivio di DICO che contengono la parola consecutio; in particolare la scelta dei tempi nelle relative è al centro di questa.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La costruzione sotto indicata dovrebbe essere valida:

“Sia l’indicativo sia il congiuntivo sono ammessi.”

Due domande in proposito: sarebbe accettabile anche la coniugazione al singolare del verbo (è ammesso)?

E se il parlante decidesse di anteporre il predicato, quale soluzione sarebbe preferibile?

“È ammesso sia l’indicativo sia il congiuntivo”, “Sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo.”

 

 

RISPOSTA:

La correlazione di sia… sia equivale alla coordinazione con e, quindi sia l’indicativo sia il congiuntivo equivale a l’indicativo e il congiuntivo. Ne consegue che il verbo deve essere coniugato al plurale, qualunque sia la sua posizione rispetto al soggetto. Il verbo al singolare, attratto dalla forma singolare del soggetto più vicino (“Sia l’indicativo sia il congiuntivo è ammesso“, o “È ammesso sia l’indicativo sia il congiuntivo “), è un errore non grave, accettabile in contesti informali.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In una frase come: “Vuoi partire o rimanere?” La coordinazione è tra due subordinate?

Vuoi: principale;

partire: subordinata;

o rimanere: coordinata alla subordinata.

Oppure si tratta di una coordinata alla principale?

Vuoi partire: principale;

o (vuoi) rimanere: coordinata alla principale.

 

RISPOSTA:

Il verbo servile forma una unità con l’infinito che lo segue, quindi la seconda analisi è quella corretta. 

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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QUESITO:

1a) Le parole che iniziano / terminano per a.

1b) La lettera per cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.

1c) Per quale lettera inizia / termina questa parola?

2a) Le parole che iniziano / terminano in a.

2b) La lettera in cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.

2c) In quale lettera inizia / termina questa parola?

Sempre con per e in, a livello sportivo, ho sentito frasi come:

3a) La partita che è finita per 1-1.

4a) La partita che è finita in 1-1.

Azzarderei anche delle frasi (che ovviamente sono di mia invenzione e non ho ancora sentito, onestamente, ma che sono la versione in forma di frase interrogativa e relativa delle due frasi precedenti) come ad esempio:

3b) Questo è il risultato per cui è finita la partita.

4b) Questo è il risultato in cui è finita la partita.

3c) Per quale risultato è finita la partita?

4c) In quale risultato è finita la partita?

Quali sono rispettivamente i complementi introdotti da per e in nelle frasi?

Per quanto riguarda in azzarderei che si possa trattare di complemento di luogo figurato, mentre per quanto riguarda per non saprei che dire.

 

RISPOSTA:

Dobbiamo distinguere tra le frasi del gruppo 1, in cui il verbo iniziare significa ‘essere formato nella parte iniziale’ e terminare significa ‘essere formato nella parte finale’, e le altre, in cui finire significa ‘raggiungere un certo stato’, quindi ‘diventare alla fine’. Nelle frasi 1 i due verbi sono completati da un sintagma argomentale (cioè sintatticamente necessario alla costruzione della frase) che nell’analisi logica rientrerebbe nel complemento di mezzo e può essere formato con le preposizioni per, in o anche con. Si noti che termina in a va interpretato non come ‘nella a’ (complemento di stato in luogo), ma, appunto, come ‘per mezzo di a’ (complemento di mezzo). Nelle altre frasi, il verbo finire richiede un complemento predicativo (anch’esso argomentale), che di norma non è preceduto da alcuna preposizione; la forma più comune della frase 3a sarebbe, infatti, “La partita è finita 1 a 1”, ovvero ‘alla fine è diventata 1 a 1’.  In questo stesso contesto il verbo finire può anche prendere il significato di ‘completarsi, essere chiuso’, avvicinandosi molto al terminare delle frasi del gruppo 1; quando è usato con questo significato esso può richiedere il completamento con il complemento di mezzo formato con le proposizioni  per, in e con. Per la verità, in questo contesto quest’uso è limitato a pochi casi e a poche espressioni, spesso cristallizzate (quindi soltanto con un po’ di sforzo inquadrabili nello schema dei complementi): in particolare il complemento formato con per si usa soltanto nella forma semplice e affermativa della frase (le frasi 3b e 3c sono del tutto innaturali), in si usa soltanto nell’espressione in parità o in espressioni come in modo imprevedibile, che dal complemento di mezzo sfuma nel complemento di modo (tutte le frasi 4 sono, invece, impossibili), con si usa in espressioni come con un pareggio, con la vittoria di…, con la sconfitta di…

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se io dico “Siamo in 4 con mamma”, quest’ultima è inclusa nel 4?

 

RISPOSTA:

Sì, il con in questo caso indica che il numero viene raggiunto considerando anche la persona nominata. Se si volesse aggiungere una persona al numero si direbbe più, o anche oltre a.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulle frasi seguenti.

1a. È la prima volta che vedo questo film.

1b. È la prima volta che ho visto questo film.

1c. È stata la prima volta che ho visto questo film.

 

2a. Visto/viste tutte le poesie, abbiamo deciso che…

2b. Dato/dati i risultati, abbiamo deciso che…

 

RISPOSTA:

Nel primo gruppo di frasi la proposizione subordinata è di fatto una relativa (il che che la introduce è detto polivalente, ma la proposizione si comporta comunque come una relativa), quindi ha ampia libertà nella scelta del tempo verbale. La logica esclude la 1b, perché se la prima volta è presente anche la visione del film deve essere presente. Le altre due sono corrette. Nel secondo gruppo i participi passati concordano con i soggetti delle subordinate implicite (le poesie e i risultati): le proposizioni, infatti, sono equivalenti a “Essendo state viste tutte le poesie” e “Essendo stati dati tutti i risultati”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In rete si trovano liste di alcuni verbi che reggono l´indicativo e liste di altri che vogliono il congiuntivo. Come ci si deve comportare qualora il verbo che si vuole adoperare non rientrasse in queste liste? Per quale modo dobbiamo propendere? I verbi che reggono l´indicativo vogliono il congiuntivo in domande e frasi negative? Ad es.

Non sapevo che tu sapessi che io sapessi.

Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore (è una domanda indiretta?)

Deve dirmi quale sia la versione migliore.

Deve decidere chi abbia ragione.

Mi pare di aver capito che voglia venire

Mi pare di aver capito che non voglia venire.

 

RISPOSTA:

Le risposte dell’archivio di DICO che contengono la parola congiuntivo sono più di 320: da questo numero si capisce che la scelta del modo verbale nelle proposizioni subordinate completive (come quelle dei suoi esempi) è un problema aperto per i parlanti, nativi e, ovviamente, non nativi. Per orientare questa scelta possiamo dire che:

1. l’alternanza è possibile per quasi tutti i verbi. In questo caso il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più informale;

2. alcuni verbi richiedono l’indicativo: dire, sapere, scrivere, leggerevederesentire (ma non è possibile fare una lista completa);

3. i verbi di pensare (pensare, ritenere, immaginare) preferiscono il congiuntivo. Con questi verbi, l’indicativo nella subordinata risulta una scelta trascurata;

4. le soggettive rette da verbi di sembrare (sembrare, apparire + aggettivo, parere) preferiscono decisamente il congiuntivo. Con questi verbi l’indicativo nella subordinata risulta una scelta molto trascurata;

5. quando il verbo è negativo o inserito in una espressione impersonale (quindi la subordinata è soggettiva) il congiuntivo è quasi sempre preferibile;

5a. alcuni verbi che richiedono l’indicativo, come diresapere, ammettono, come scelta più formale, il congiuntivo nel caso descritto al punto 5: “Non dico che Luca sia un ritardatario”; “Si dice che Luca sia un ritardatario”, “Non so se Luca è / sia un ritardatario”, “Si sa che Luca è / sia un ritardatario”;

5c. in generale, le soggettive ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive;

6. le interrogative indirette ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive: “So che Luca è un ritardatario” / “Sai se Luca è / sia un ritardatario?”, “Deve dirmi quale sia la versione migliore”, “Deve decidere chi abbia ragione”;

7. le completive subordinate di secondo grado preferiscono il congiuntivo: “Non sapevo che tu sapessi che io sapessi“, “Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore” (la proposizione sottolineata è una oggettiva), “Mi pare di aver capito che voglia venire“, “Mi pare di aver capito che non voglia venire“.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Leggo su un libro di Grammatica la suddivisione che riporto: è possibile che sia un errore di battitura o qualcosa de genere?

Frase: “Dice / che le sente frullare / come se fossero uccellini in gabbia.”

Mi aspettavo anche la suddivisione di “… le sente / frullare…”

 

RISPOSTA:

Ha ragione: bisogna distinguere tra reggente e subordinata anche nei casi di infinitiva retta da un verbo di percezione (vedere, sentire ecc.). Probabilmente le peculiarità del costrutto avranno indotto l’errore. In effetti i verbi di percezione reggono un’infinitiva peculiare, sia perché è molto prossima a una relativa («sente loro che frullano»), sia perché il soggetto dell’infinitiva diventa oggetto della reggente (le).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Bisogna attenersi a quanto affermato dal “Sabatini”: «Se l’elemento negato è anteposto al verbo, questo rifiuta il non: neanche io so come fare»?

«Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» sono le uniche possibilità corrette? Tuttavia mi è capitato di leggere esempi contradditori con quanto appena affermato anche in La luna e i falò.

E se l’elemento di negazione è posposto al verbo: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più»?

 

RISPOSTA:

Sebbene l’italiano richieda, o ammetta, la doppia negazione in alcuni casi («non voglio niente»), la rifiuta in altri, precisamente quando un elemento (avverbio, congiunzione, aggettivo o pronome, a seconda dei casi) di negazione come neanche, neppure, nemmeno, niente, nessuno è anteposto al verbo. Come giustamente osserva Serianni nel cap. VII, par. 193, della sua Grammatica, «questa norma va oggi osservata scrupolosamente, almeno nello scritto formale. Tuttavia, nell’italiano dei secoli scorsi e anche in quello contemporaneo non mancano le deflessioni in un senso o nell’altro», dovute per esempio a forme regionali, di italiano popolare, di trascuratezza, di espressività. Tra le deflessioni, troviamo addirittura Manzoni: «Una di quelle donnette alle quali nessuno, quasi per necessità, non manca mai di dare il buongiorno». Deflessioni, tra i moltissimi altri, in Pavese: «Neanche tra loro non si conoscevano», «neanche qui non mi credevano». Cionondimeno, ciò non altera la norma dell’italiano. Pertanto, «Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» vanno bene, mentre «Neanche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» va evitato. Quando l’elemento di negazione è posposto al verbo, la doppia negazione è ammessa: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più» va altrettanto bene quanto «Non sarebbe un problema anche se dovessimo aspettare di più».

Fabio Rossi

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QUESITO:

I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.

Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:

«Mi mangio la mela»: uso intensivo.

«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.

Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?

 

RISPOSTA:

Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.

Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).

«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».

Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.

«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.

«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.

Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?

Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?

In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?

Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”

 

RISPOSTA:

La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.

C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».

Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nel verso della canzone “Dammi solo un’ora baby / e un po’ di coca-cola che mi graffi la gola”, la relativa è consecutivo-finale, ma se al posto del congiuntivo graffi usassimo l’indicativo graffia la semantica della frase cambierebbe?

 

RISPOSTA:

Nel verso la relativa con che e il congiuntivo ha un valore a metà strada tra il consecutivo e il finale; il modo migliore per trasformarla è tale che + congiuntivo. La trasformazione con tale che + indicativo non sarebbe equivalente; tale costruzione sarebbe, anzi, molto strana, perché il graffiare è qui rappresentato non come una qualità della Coca-Cola (come sarebbe in una frase come “La Coca-Cola contiene una tale quantità di anidride carbonica che graffia la gola”), ma come lo scopo per cui il parlante chiede la Coca-Cola.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase «Era bagnato fradicio e tutto coperto di neve», i due predicati, in analisi logica, sono verbali o nominali?

 

RISPOSTA:

Possono essere analizzati sia come predicati verbali, sia come predicati nominali, a seconda che si dia ai participi passati il valore verbale o aggettivale. Come spesso accade, l’interpretazione cambia a seconda dell’ottica dell’analista: non si tratta, cioè, di un’opposizione di sistema (cioè della grammatica italiana), bensì del punto di vista del linguista. La differenza tra predicato verbale e predicato nominale è meno netta di quanto comunemente si creda e dipende essenzialmente dal grado di autonomia semantica attribuito al verbo (debole, nel caso della copula nel predicato nominale) e all’aggettivo o sostantivo che lo accompagna. Nel caso specifico, bagnato e coperto possono essere interpretati come parte di un imperfetto passivo, oppure come aggettivi. Dato che non vi sono elementi dirimenti per attribuire un ruolo verbale a bagnare e coprire (per esempio la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «bagnato dalla pioggia», «coperto dalla neve»), mi pare più prudente l’interpretazione di bagnato e coperto come aggettivi, e dunque l’interpretazione di «era bagnato» e «era coperto» come predicati nominali. Completiamo l’analisi logica della frase: tutto è complemento predicativo del soggetto, mentre di neve è comunque un complemento argomentale (non importa se di specificazione, qualità, mezzo o altro), cioè un complemento che serve a completare il significato del participio (coperto) che altrimenti resterebbe incompleto. Si potrebbe dunque dedurre da ciò che «coperto di neve» sia analogo a «coperto dalla neve» e che dunque il predicato sia verbale; tuttavia il valore argomentale di «di neve» non è dirimente, ai fini del valore verbale piuttosto che aggettivale, dal momento che anche gli aggettivi possono esigere un complemento argomentale per essere completati, come nel caso di «essere pieno di neve», «essere adatto alle strade bagnate», «essere tifosa di una squadra» e simili. Pertanto, esattamente come «era fradicio» e «era pieno (di neve)» sono predicati nominali, analogamente «era bagnato (fradicio) e «era coperto (di neve)» sono predicati nominali, mentre «era sferzato dal vento», per esempio, sarebbe un predicato verbale, dal momento che, proprio come in «bagnato dalla pioggia» e «coperto dalla neve», i complementi di causa efficiente consentono la trasformazione della frase da passiva in attiva («il vento lo sferzava», «la pioggia lo bagnava», «la neve lo copriva»), requisito di un predicato verbale (ma non di un predicato nominale: gli aggettivi e i nomi, non essendo temporalizzati, non hanno diatesi attiva o passiva). Tornando però, circolarmente, all’inizio del mio ragionamento, anche quest’ultima analisi potrebbe essere contestata, dal momento che non tutti i verbi passivi reggono un complemento d’agente o di causa efficiente, né soltanto i verbi ammettono la reggenza di un argomento oltre al soggetto. Come si vede, in casi siffatti, più che la distinzione tra predicato verbale e nominale sembra contare il riconoscimento della predicazione e la struttura sintattica della frase, cioè il riconoscimento di tutti gli argomenti del verbo, dei sostantivi e degli aggettivi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Tutte e tre le varianti sono ammissibili?

“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).

Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?

“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.

La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.

Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase (1) “Possono candidarsi al concorso solo persone che abbiano compiuto i 18 anni di età”, la relativa è definita da alcune fonti condizionale-restrittiva. L’uso del congiuntivo in questo tipo di proposizione relativa è diafasico?

Mi domando se sia anche possibile considerarla una proposizione relativa impropria consecutiva? Volevo provare a modellare altre frasi di questo genere:

(2) Gli anziani che abitino nella zona 5 possono vaccinarsi domani.

(3) Le persone che abbiano paura dei vaccini possono parlare con il rappresentante regionale della sanità. 

(4) Gli anziani che abbiano paura del covid dovrebbero vaccinarsi.

Non sono sicuro se le frase 3 e 4 funzionino con il congiuntivo e sembrano un po’ diverse dalla prima, ma non riesco a descrivere come mai.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa in 1 non è di tipo consecutivo; il congiuntivo al suo interno ha un valore diafasico, ovvero innalza lo stile rispetto all’indicativo. Se sostituiamo abbiano con hanno il significato complessivo non cambia. Bisogna, ovviamente, considerare che i parlanti associano al congiuntivo una sfumatura di eventualità; a ben vedere, però, persone che abbiano compiuto e persone che hanno compiuto descrive esattamente la stessa circostanza. Lo stesso vale per le proposizioni relative nelle altre frasi; queste frasi, però, risultano più forzate perché l’antecedente del relativo è determinato, quindi in contrasto con la sfumatura eventuale associata al congiuntivo.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le proposizioni completive introdotte dalla locuzione “il fatto che” (ma anche da “la notizia che”, “la circostanza che”, “la teoria che” e simili) possano essere costruite tanto con il congiuntivo quanto con l’indicativo, riconducendo la scelta alle preferenze del parlante o al livello di formalità che lo stesso voglia ascrivere all’espressione.

Domando questo perché, effettuando alcune ricerche su internet – anche all’interno di siti attendibili –, mi sono imbattuto in una “indicazione d’uso” secondo la quale tale scelta debba invece essere legata non già alle motivazioni sopra segnalate, bensì al predicato della reggente.

Nel tempo, lo ammetto, non mi sono mai posto questo problema, e il predicato della reggente non mi ha mai condizionato circa il modo da impiegare per costruire la subordinata: ho sempre, e sottolineo sempre, optato per il congiuntivo; ma a questo punto mi chiedo se, talvolta, con questa tendenza possa aver sbagliato.

Negli esempi che mi sono permesso di raccogliere più sotto entrambi i modi sono ammissibili?

1)        Il fatto che in Italia si legga/legge poco, è un dato allarmante che si conferma da anni.

2)        Non ho dubbi sul fatto che tu ti sia/ti sei impegnato.

3)        Il fatto che la squadra sia riuscita/è riuscita a vincere la gara, ci dimostra che l’allenatore sa fare il proprio lavoro.

4)        Non le sfuggì il fatto che anche questa volta fosse stata/era stata la sorella a ingannarla.

5)        Ho compreso il fatto che lui voglia/vuole più tempo per sé.

6)        Il fatto che tu ti sia/ti sei preparato per il colloquio, ti dà maggiori probabilità di ottenere il posto.

 

RISPOSTA:

In tutti gli esempi da lei riportati entrambi i modi sono ammissibili e la differenza tra il congiuntivo e l’indicativo è solo diafasica, ovvero il congiuntivo è più formale, senza alcuna influenza del verbo reggente. Il verbo reggente può spiegare la preferenza per l’indicativo o il congiuntivo, ma in altre completive, non in quelle (dichiarative) da lei segnalate, anche perché le dichiarative dipendono da un sostantivo (fatto, notizia ecc.) non da un verbo. In altre subordinate, come per es. le oggettive, le soggettive e le interrogative indirette, il verbo reggente può determinare la preferenza per il congiuntivo (per es. spero, temo, mi auguro) oppure per l’indicativo (so, si sa). Frasi come «spero che tu vieni» o «so che oggi tu vada al cinema» sono al limite dell’inaccettabile, proprio a causa della violazione del modo atteso dal verbo reggente. A volte addirittura basta una negazione a far scattare la scelta di un modo diverso: «sapevo che eri uscito» / «non sapevo che fossi uscito»; «si sa chi è stato» / «non si sa chi sia stato».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette

1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre

2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre

 

RISPOSTA:

Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.

Le pongo qualche esempio:

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.

In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:

Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.

Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.

Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.

Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.

Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.

Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.

Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.

Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?

 

RISPOSTA:

L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi propongo un altro quesito.

  1. Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.

Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.

Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:

  1. Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
  2. Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.

Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.

Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.

 

RISPOSTA:

Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.

Fabio Rossi

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QUESITO:

  1. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia capitata ad altre persone.
  2. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia potuta capitare ad altre persone.
  3. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa possa essere capitata ad altre persone.

In una costruzione come questa il verbo servile “potere” serve per modificare leggermente il senso del messaggio (varianti 2 e 3), oppure la frase può essere privata di tale verbo (esempio 1) senza comportare sostanziali differenze semantiche?

  1. Non mi ricordo neppure quale fosse il suo nome, e questa la dice lunga su quanto (poco) mi importasse di lui.

L’avverbio “poco”, in questo caso, costituisce un elemento ridondante?

 

RISPOSTA:

In entrambi i casi gli elementi sono ridondanti, a rigore, in quanto ricavabili dal contesto. Non è però scorretto specificarli, se si vuole sottolineare un aspetto particolare. Dato che personalmente opto sempre per una sintassi e una semantica ergonomiche, suggerirei di eliminare entrambi gli elementi.

In tutte le prime tre frasi, la stessa reggente «non esclude che» implica che il capitare o no di una certa esperienza sia una possibilità, non una certezza, e questo rende pleonastico il servile potere. Suggerirei di evitarlo per non appesantire ulteriormente la sintassi frasale.

Nella quarta frase il disinteresse del soggetto è talmente evidente («Non mi ricordo» ecc.) da rendere inutile «poco». Anche in questo caso ne suggerirei l’eliminazione.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Salve quale affermazione è corretta?

Grazie per esserci stata vicinO

Grazie per esserci stata vicinA

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, perché vicino ha due diversi valori in italiano: come aggettivo o come avverbio. Come aggettivo richiede l’accordo di genere e di numero («stati vicini», «state vicine») con il nome o il pronome cui si riferisce, come avverbio è invece invariabile. Pertanto in «Grazie per esserci stata vicina», vicino è un aggettivo e come tale va accordato con il soggetto (sottinteso) cui si riferisce (cioè tu). In «Grazie per esserci stata vicino» invece vicino è un avverbio e come tale non cambia né nel genere né nel numero («stati vicino», «state vicino»). Come avverbio vicino è simile a «accanto».

Il significato delle due frasi non cambia nella sostanza, anche se il valore aggettivale è meno impersonale e dunque, in certo qual modo, più caloroso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho sempre visto come corrette delle frasi come «sarebbe impossibile / difficile che tu ce la faresti» o «sarebbe stato impossibile / difficile che tu ce l’avresti fatta».

In particolare la prima venne posta come quesito sul Treccani e tale frase venne giudicata scorretta: https://eur01.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Ft.ly%2FcAH1&data=05%7C01%7Cdico%40unimeit.onmicrosoft.com%7C6e16b9f793c349bff4b108db1c545e1f%7C84679d4583464e238c84a7304edba77f%7C0%7C0%7C638134920903056748%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C3000%7C%7C%7C&sdata=ksgYbWZ1G3CzalQb%2FG%2BomQ7%2Fa%2BcHdSo%2Fl88W%2F%2BRGhhU%3D&reserved=0.

Sinceramente, pensandoci e ripensandoci, non ne capisco il motivo, perché:

-Penso che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).

-Penserei che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).

-Pensavo che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).

-Avrei pensato che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).

Per lo stesso motivo riterrei corrette anche:

-È impossibile / difficile che tu ce la faresti (protasi implicita nella soggettiva).

-Era impossibile / difficile che tu ce la avresti fatta (protasi implicita nella soggettiva).

Seguendo la stessa logica, anche le due frasi iniziali mi sembrano corrette.

Lei cosa ne pensa?

 

RISPOSTA:

Come giustamente spiegato nella risposta del sito Treccani, la protasi implicita («se ci provassi» o «se ci avessi provato») è dipendente dall’apodosi «sarebbe (stato) impossibile / difficile», non certo da «che tu ce la facessi», che dipende, come completiva soggettiva, dall’apodosi stessa. Quindi la frase da lei proposta, al condizionale, è sbagliata, poiché in dipendenza da «è difficile / impossibile» le uniche alternative possibili sono il congiuntivo o, informalmente, l’indicativo: «sarebbe (stato) impossibile / difficile che tu ce la facevi».

In tutti gli altri casi, in cui la completiva è oggettiva e non soggettiva, la protasi sottintesa («se ci provasse / avesse provato») dipende dall’oggettiva stessa, e non dalla proposizione da cui l’oggettiva dipende («penso» ecc.), ecco perché, in questi ultimi casi, il condizionale è ammesso, mentre nei casi da lei proposti no, perché, come ripeto, l’apodosi non è rappresentata dalla soggettiva bensì dal verbo da cui la soggettiva dipende, cioè «sarebbe impossibile / difficile», che infatti è regolarmente al condizionale. Il suo errore è pertanto duplice: 1) nel credere che l’apodosi sia costituita dalla soggettiva (anziché dalla proposizione che regge la soggettiva) e 2) nell’estendere indebitamente il condizionale (già esistente) nell’apodosi alla completiva che ne dipende.

Dunque il condizionale in dipendenza da una soggettiva è sempre impossibile? No, è raro, ma non impossibile. Per es. in dipendenza da verbi che indicano certezza o conoscenza: «È certo / noto che tu potresti farcela», perché in questo caso, effettivamente, la protasi sottintesa dipende dalla completiva: «se ci provassi [è certo che] ce la faresti / potresti farcela». Perché? La risposta, non semplicissima, risiede nel differente statuto semantico-strutturale di verbi impersonali come è noto, è sicuro ecc. rispetto a verbi (con un diverso grado di impersonalità) quali è difficile e simili. Infatti posso trasformare in personale «è noto» con «qualcuno sa» (trasformando dunque la soggettiva in oggettiva), mentre l’unico soggetto possibile di «è difficile» è la stessa cosa che è difficile. Tant’è vero che «è difficile» (e simili) ammette una dipendente implicita («È difficile riuscirci»), mentre «è noto» (e simili) no (*«È noto riuscirci» è inammissibile in italiano).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Trattandosi di una interrogativa indiretta, la correttezza circa gli usi del condizionale e dell’indicativo è fuori discussione: «Vorrei sapere se sarebbe […]».

Il congiuntivo imperfetto è possibile soltanto nel caso in cui si voglia riferirsi al passato, e non esprime quindi contemporaneità: «Vorrei sapere se fosse – tempo addietro, anni prima – […]». Mentre il congiuntivo presente attenua il tono diretto della richiesta espressa tramite l’indicativo.

Ma, se sapere non regge il congiuntivo, come fanno questi ultimi modi a essere leciti?

 

RISPOSTA:

L’interrogativa indiretta implica comunque una non certezza (cioè una modalità epistemica), che autorizza quindi sempre il congiuntivo. Anzi, le grammatiche più tradizionaliste suggeriscono di utilizzare sempre il congiuntivo in tutte le interrogative indirette. Ecco spiegato come mai sapere, che pure di solito regge l’indicativo, nelle interrogative indirette possa reggere (o regga preferibilmente) il congiuntivo. Come al solito, inoltre, il congiuntivo ha comunque un grado di formalità superiore rispetto all’indicativo. Inoltre, non è vero che il congiuntivo imperfetto si possa usare soltanto al passato (o meglio, per la contemporaneità nel passato), perché, nel caso del verbo volere, come spiegato più volte da Luca Serianni e anche nelle nostre risposte di DICO, l’imperfetto congiuntivo è preferibile per via del fatto che l’oggetto del volere subisce una sorta di proiezione al passato (tanto lo vorrei che lo considero già come avvenuto). Tant’è vero che si dice, come nella traduzione italiana del capolavoro dei Pink Floyd, «Vorrei che tu fossi qui» e non «Vorrei che tu sia qui». È vero che ciò accade perlopiù quando volere è usato come verbo autonomo, e non come servile. Tuttavia anche come servile il congiuntivo imperfetto è ammissibile, se non preferibile, con volere. Come opportunamente osserva lei, inoltre, il congiuntivo (e spesso ancor più il congiuntivo imperfetto, con una carica di potenzialità maggiore rispetto al presente, dovuta all’uso nel periodo ipotetico della possibilità) attenua il tono diretto della richiesta, rispetto all’indicativo. Quindi: «Vorrei sapere se fosse disposto ad aiutarmi» oppure «se sia disposto ad aiutarmi», oppure «se sarebbe disposto ad aiutarmi», oppure (più informalmente e un po’ troppo direttamente) «se è disposto ad aiutarmi» o «se era disposto ad aiutarmi». Come vede in quest’ultimo caso, informale, comunque l’imperfetto (sebbene stavolta all’indicativo) serve ad attenuare l’azione proiettandola nel passato.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sottoporre due quesiti che mi attanagliano:

«È/è stata la cosa migliore che avremmo/avessimo potuto fare»?

«Mi sembra tutto/tutta una follia»

Credo siano tutte forme corrette, ma vorrei capire nello specifico che cosa cambi.

 

RISPOSTA:

Sì, in entrambi i casi entrambe le varianti sono corrette, senza alcun cambiamento semantico rilevante.

Nella prima variante della prima frase, la prospettiva è quella di considerare la cosa da fare come un futuro nel passato: io adesso racconto che nel passato avremmo potuto fare una cosa (cioè nel futuro rispetto al passato, ma comunque nel passato rispetto a ora) che effettivamente poi abbiamo fatto (nel passato). Nel secondo caso, invece, prevale il punto di vista di considerare la cosa come semplicemente passata. Esiste inoltre una terza possibilità, cioè quella dell’imperfetto congiuntivo: «È/è stata la cosa migliore che potessimo fare». Quest’ultima variante, che indica contemporaneità (e/o possibilità) nel passato, funziona meglio con la reggenza al passato («È stata la cosa»), tuttavia funziona anche in dipendenza dal presente («È la cosa»), in quanto rimane tuttora, a ripensarci, la cosa migliore (che potessimo/avremmo potuto/avessimo potuto fare). Tra tutte le soluzioni, quella che mi pare più naturale è «È [perché lo è tuttora] la cosa migliore che potessimo fare», oppure, in modo ancora più semplice e chiaro (e dunque sempre preferibile: perché complicare e complicarci la vita?), «Abbiamo fatto la cosa migliore».

Nella seconda frase, l’accordo può avere come testa sia il soggetto ([Ciò] mi sembra tutto una follia»), sia il predicativo del soggetto («una follia»). Nel primo caso, inoltre, si può anche sostenere che «tutto» sia un soggetto posposto e comunque il significato della frase non cambierebbe.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nell’espressione «di tanto in tanto lo sguardo dell’uno sfiora la mano dell’altra, e viceversa» è necessario aggiungere quel «viceversa» per indicare reciprocità dell’azione, o si può omettere?

 

RISPOSTA:

Si può omettere nella gran parte dei casi; in questo, in realtà, anche aggiungendo «e viceversa» permane qualche margine di ambiguità. Procediamo con ordine. In presenza di verbi reciproci (come incontrarsi, salutarsi, toccarsi, sfiorarsi ecc.) sono superflui «sia l’un l’altro/a» (locuzione che indica reciprocità) sia «e viceversa». Nel caso da lei segnalato, tuttavia, neppure la presenza di «e viceversa» consente di capire se l’altra ricambia guardando la mano dell’uno, oppure offrendo la mano allo sguardo dell’uno. Inoltre, l’espressione «lo sguardo sfiora la mano» è davvero molto insolita: lo sguardo di norma non sfiora, semmai si posa, scruta, passa ecc. Se tuttavia le piace questa metafora (che io personalmente trovo infelice, ma è questione di gusti) allora forse dovrebbe chiarire il senso della reciprocità: la donna, insomma, guarda a sua volta la mano dell’uomo (non vedo altro senso possibile nella metafora ‘sfiorare qualcosa con lo sguardo’), oppure «sfiora con la mano lo sguardo dell’uomo» (cioè, sempre metaforicamente, fa sì che la mano si offra allo sguardo sfiorante dell’uomo)?

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nel caso seguente, cos’è più corretto?

«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante»

oppure

«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuovo, nato da un esperimento interessante».

Ossia, la concordanza dell’aggettivo va fatta con “un tipo” o con “sedia”?

 

RISPOSTA:

La concordanza corretta è soltanto quella al maschile, con «un tipo», che è la testa del sintagma «un tipo di sedia». Se vuole la concordanza al femminile non deve usare «un tipo di sedia» ma «una sedia»: «La ZIPPO è una sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante».

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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QUESITO:

Mi hanno sempre insegnato che la congiunzione “semmai“, quando ha valore condizionale, regge il congiuntivo e, talvolta, l’indicativo futuro.
Mi sono recentemente trovato a scrivere, di getto, il periodo seguente:
“Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?“
Magari è un mio limite, ma incontrerei molta resistenza nel sostituire quel trapassato prossimo con il trapassato del congiuntivo (fosse stato).
La grammatica che cosa dice in proposito?
Vi domando inoltre se questa congiunzione ammette tutti i verbi del congiuntivo – quindi anche il presente e il passato –, se il futuro semplice possa essere considerato una variante meno formale – ma ugualmente corretta – del congiuntivo presente e se, infine, il futuro anteriore, al di là della “regola“ cui accennavo più sopra, possa essere incluso nei verbi compatibili, quale alternativa al congiuntivo passato.
Elenco alcuni esempi per illustrare la mia richiesta multipla:
1) Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità.
2) Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia.
3) Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno.
4) Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza.

 

RISPOSTA:

Semmai è un connettivo ipotetico o condizionale (usato anche, qualche volta, come avverbio o per meglio dire segnale discorsivo, col significato di ‘eventualmente’, ‘caso mai’: «Semmai non preoccuparti, ci vedremo un’altra volta») che regge perlopiù il congiuntivo e che si comporta sostanzialmente come la congiunzione ipotetica da cui deriva, cioè se. Come osservato da grammatiche (per es. quella di Serianni) e dizionari (per es. il Sabatini-Coletti nel sito del Corriere della sera), può reggere anche l’indicativo (soprattutto futuro), che rappresenta la scelta meno formale ma comunque sempre corretta.

La sua frase («Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?») va benissimo all’indicativo, e condivido la sua resistenza a volgerla al congiuntivo trapassato, decisamente troppo ricercato e anche meno adatto alla sintassi meno legata e più colloquiale dell’inciso nel quale semmai si trova.

L’uso dei tempi nei verbi retti da semmai dipende dalla consecutio temporum esattamente come se, pertanto sia il presente sia il passato congiuntivo, sia il futuro, vanno bene. Sicuramente l’imperfetto e il trapassato congiuntivo sono i più frequenti, in virtù della loro frequenza nei costrutti che esprimono eventualità: «Semmai avessi tempo potresti passare a trovarmi», «semmai ti fossi ricordato ti passare sarei stato molto contento» ecc. (ma si veda comunque sotto sulla preferibilità accordata a costrutti più semplici e retti da se piuttosto che da semmai).

Il futuro semplice è dunque corretto (ancorché meno formale del congiuntivo), e in determinati contesti anche il futuro anteriore (per indicare anteriorità nel futuro), che però risulta sempre un po’ innaturale, motivo per cui spesso si preferisce il presente (indicativo o congiuntivo) o addirittura il passato prossimo, con proiezione del punto di vista al passato: «Semmai avrai preso un bel voto, ti porterò a Londra», che nella lingua spontanea sarebbe «Semmai prendi un bel voto ti porto a Londra» o «Se/Semmai hai preso un bel voto ti porto/porterò a Londra».

Per quanto riguarda gli altri esempi da lei proposti:

1) «Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità»: entrambi corretti, con una terza possibilità: «… semmai ce ne fosse…», o, ancor più naturale: «Chiamami, se possibile» o «Chiamami se puoi» (quest’ultima è la scelta migliore, più semplice e comune in un italiano sciolto, snello e comprensibile).
2) «Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia». Come sopra. In italiano comune: «Puoi ascoltare la musica, se ti va».
3) «Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno». Come sopra. In italiano comune: «Ti vengo a prendere, se serve».
4) «Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza». In base a quanto già detto, vanno bene entrambe le forme, ma quella al futuro anteriore è abbastanza forzata. La scelta più naturale sarebbe al presente indicativo: «… se/semmai ha lo slancio…».

Tendenzialmente, se è quasi sempre preferibile a semmai, sempre nell’ottica di un italiano fluido e snello. Perché ricorrere a semmai se nella lingua comune (e anche in quella formale) se è molto più comune? Tutti gli esempi da lei fomiti funzionerebbero molto meglio con se. La semplicità nei costrutti è quasi sempre da preferirsi, e non soltanto nell’italiano parlato e familiare. A maggior ragione negli esempi da lei forniti, che si muovono tutti nell’ambito comunicativo della quotidianità: un conto è la (sublime) sintassi arrovellata di Marcel Proust per scandagliare i meandri interiori e sociali, un altro conto è l’inutile complicazione di situazioni normalissime come l’incontrarsi, l’ascoltare musica, il dare un passaggio a qualcuno e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quando si dice “fammi sapere come è andata, come va, come andrà”, quel presente “fammi” è corretto? Tecnicamente l’unico modo corretto non dovrebbe essere “mi farai sapere come andrà”? Un po’ come dire: “Domani vado a correre”. “Andrò”, non “vado”.

 

RISPOSTA:

Fammi non è presente indicativo, bensì imperativo presente e come tale è la forma migliore per formulare una richiesta. Se si vuole rendere la richiesta meno perentoria e più mitigata si possono utilizzare molte forme alternative, una delle quali è il futuro, oppure una perifrasi di questo tipo: «Ti sarei grato se mi facessi sapere come va», «Ti dispiacerebbe farmi sapere come andrà?» e simili.

Tutt’altro discorso è quello del presente indicativo in luogo del futuro, anch’esso perfettamente corretto e da sempre previsto in italiano, in casi come «Domani vado a correre», in luogo di un più formale «Domani andrò a correre», nel quale peraltro il futuro è addirittura ridondante, dal momento che l’avverbio di tempo già colloca inequivocabilmente nel tempo l’evento. Tant’è vero che gran parte delle lingue del mondo non ha il futuro, o lo forma in modo perifrastico (come l’inglese). Anche in italiano, infatti, il futuro è in netto regresso, quasi sempre sostituito dal presente. Per inciso, anche l’origine del futuro in italiano è perifrastica: amare habeo (cioè ‘ho da amare’, ‘devo amare’) > amerò.

In «[Fammi sapere] come è andata / come va / come andrà» tutte e tre le alternative sono corrette, con un crescendo di formalità dal presente (che è la soluzione più informale) al futuro (più formale). Benché apparentemente controintuitivo e controfattuale, anche il passato va bene, perché il locutore, mettendosi nei panni di chi gli darà informazioni quando l’evento sarà già concluso (dicendogli: «è andata bene/male»), lo proietta direttamente nel passato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.

1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.

2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.

(Verbo intransitivo/participio passato verbale)

3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.

4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione

(Verbo passivo/participio passato verbale)

5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.

6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.

7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.

(Participio presente verbale)

8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia

9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione

(Participio passato con funzione aggettivale)

10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno

(Participio presente con funzione aggettivale)

11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.

12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.

13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.

(Aggettivo)

Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.

Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:

“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.

In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.

Per esempio:

Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.

Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.

Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.

Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?

 

RISPOSTA:

Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».

«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).

«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».

«I partecipanti al convegno»: uso nominale.

«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.

«I laureati in economia»: nominale.

«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.

«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.

«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.

Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei proporvi queste tre parole: pleonastico, ridondante e tautologico. A mio parere si tratta di sinonimi che significano ‘eccessivo’, ‘superfluo’.

Questi termini hanno a che fare con un aspetto quantitativo, cioè con la ripetizione dello stesso concetto facendo ricorso a parole diverse (es. bella, attraente e fisicamente perfetta) e non qualitativo (es. uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate). Inoltre ritengo che i termini pleonastico e ridondante si riferiscano soltanto ad un discorso, mentre il vocabolo tautologico si possa attribuire tanto ad un discorso quanto ad un parlante. Ovviamente non sono sicuro di ciò ed è per questo motivo che mi sarebbe gradita la vostra opinione a riguardo.

 

RISPOSTA:

Tra le tre parole non vi è un rapporto di sinonimia assoluta (del resto rarissima), bensì di quasi sinonimia. Tautologico si riferisce perlopiù all’uso di termini che non aggiungono nulla in più rispetto a quanto già espresso dal significato di altri termini, per es. «il cantante canta». Tautologico non si riferisce, di norma, a una persona, ma soltanto a un uso linguistico, a un testo, e perlopiù a una definizione o simili (concetto, ragionamento ecc.).

Pleonastico si usa perlopiù in riferimento a pronomi o costrutti ridondanti, in quanto rimandano allo stesso referente già designato da un altro sintagma, per es. «il mare lo vedo» (dove lo si riferisce a il mare). In questo senso, pleonastico e ridondante, nella lingua comune, possono essere usati come sinonimi, sebbene ridondante abbia un campo semantico più ampio, mentre pleonastico sia più specifico. Ridondante, di tutti e tre gli aggettivi, è quello che più si presta a un uso più generale, e dunque si può riferire anche, genericamente, a un discorso eccessivamente carico e ampolloso: «testo ridondante di tecnicismi», «discorso ridondante di complimenti» (in nessuno dei due casi ridonante può essere sostituito da pleonastico o da tautologico), «stile o prosa ridondante» ecc. In questo senso, dunque, ridondante è l’unico dei tre aggettivi a potersi riferire anche, qualitativamente, all’uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Retorica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la seguente costruzione possa essere giudicata corretta (in particolare l’attacco, per così dire, della coordinata, con il pronome relativo che si riallaccia alla proposizione precedente).

«Spero che la poesia sia icastica e che le cui metafore traggano origine dal mondo della natura».

 

RISPOSTA:

No, la frase non è corretta, in quanto il pronome relativo, che introduce una subordinata relativa, risulta qui privo di verbo; il verbo in questione, traggano, è infatti in questo caso il verbo della subordinata completiva (che traggano) e non della relativa, che rimane dunque appesa, cioè senza un verbo. Quindi la versione corretta della sua frase è «Spero che la poesia sia icastica e che le sue metafore traggano origine dal mondo della natura». L’unico modo per inserire una relativa in dipendenza da un’altra subordinata è quello di far sì che entrambe le subordinate abbiano un verbo. Per esempio: «Apprezzo che tu abbia scritto una poesia icastica, le cui metafore traggono origine dal mondo della natura».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ci sono dei casi in cui è possibile usare sia l´imperfetto che il passato prossimo? Ad esempio, come si comportano questi tempi verbali nelle frasi sottostanti? Grazie.

Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte.

Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati.

 

Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato.

Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato.

 

Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva.

Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto.

 

Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici.

 

Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava.

Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore.

 

Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare.

 

Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica , da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola.

 

Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo.

 

RISPOSTA:

La differenza di massima tra imperfetto e passato prossimo è nell’aspetto, ovvero nel modo in cui l’azione e il tempo vengono espressi dal verbo. In questo senso, mentre il passato (prossimo o remoto) indica soltanto che l’evento si è concluso (sebbene le sue conseguenze possano essere ancora presenti e determinanti: ho capito, ho ricordato, ho imparato ecc.), l’imperfetto invece qualifica l’azione come in continuo svolgimento o abituale, sia pur sempre nel passato. L’imperfetto, inoltre, può assumere anche molte sfumature modali (indicando, dunque, l’atteggiamento del parlante/scrivente su quanto sta dicendo/scrivendo), che lo rendono una delle forme verbali più usate in italiano e tale da sostituirsi spesso anche ad altre, come per es. al congiuntivo: «Se mi aiutavi facevamo prima» (equivalente, ma più informale, a «Se mi avessi aiutato avremmo fatto prima»). Fin quei la regola e la giustificazione del fatto che l’imperfetto sia molto diffuso, anche al posto di altre forme verbali. Nell’uso, poi, le cose sono sempre più sfumate, rispetto alle regole rigide. Ecco perché, in molte delle sue frasi, la differenza tra i due tempi verbali (imperfetto o passato prossimo) è minima o quasi nulla, perché quello che cambia è una sfumatura aspettuale (cioè un modo di guardare all’evento) talmente piccola da annullarsi o quasi. Quindi la risposta alla sua domanda è sì, spesso si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo. Analizziamo ora caso per caso per vedere che cosa cambia nell’una e nell’altra opzione.

«Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte»: meglio il passato prossimo, perché l’indicazione di tempo centinaia di volte comunque circoscrive l’evento. L’imperfetto è comunque possibile, perché sottolinea l’abitualità e la ripetitività dell’azione, sebbene il suo uso sia più naturale con un’espressione di tempo che ne indichi, per l’appunto, la ricorsività, per es. tutti i giorni, dieci volte al mese ecc.

«Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati»: il significato è praticamente identico; il far caldo è un evento che si protrae nel tempo (mentre tuffarsi è puntuale), e dunque ben si presta all’uso anche all’imperfetto.

«Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato / Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato». Meglio il passato prossimo (sono tutte azioni puntuali), a meno che non si trasformi all’imperfetto anche «cucinavo uno stufato» e si aggiunga però un’espressione al passato che rappresenti l’evento che si è verificato mentre lei faceva tutte quelle altre cose (espresse all’imperfetto, cioè con continuità mentre si è verificato l’evento); per es.: «Ieri facevo il bucato, pulivo casa e cucinavo uno stufato, quanto è arrivato Gianni e finalmente mi sono riposata».

«Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva / Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto»: pressoché identici: potere, avere le capacità di fare qualcosa ben si prestano ad un uso continuato nel tempo.

«Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici»: decisamente meglio l’imperfetto, dato che l’azione di abitare è continuata e abituale, non certo puntuale.

«Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava»: meglio il passato prossimo, per via dell’espressione di tempo specifica oggi pomeriggio. Andrebbe bene l’imperfetto se seguisse un evento puntuale: «Oggi pomeriggio aspettavo all’aeroporto (cioè: stavo aspettando), quanto mi hanno rubato la borsa».

«Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore»: l’imperfetto non si può usare, perché arrivare è un’azione momentanea: l’aereo è arrivato in un momento specifico. Sorvolo sulle eccezioni in cui anche arrivare potrebbe assumere  una sfumatura continua (per es. «Quando ero piccolo la fine dell’inverno non arrivava mai»).

«Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare»: meglio l’imperfetto (ma il passato è comunque possibile), perché l’essere previsto e l’essere chiuso sono eventi continuati nel tempo e non momentanei.

«Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica, da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola»: è preferibile il passato prossimo perché, anche se il convincersi e l’essere (riferito al fatto) possono essere fotografati nel loro svolgersi continuo nel tempo, in questo caso c’è un singolo elemento (il fatto che l’amica non lavorasse in quel periodo) che ha convinto a prendere la decisione di andare.

«Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo»: vanno bene entrambe le forme, ma il senso della frase cambia lievemente; all’imperfetto indica che queste azioni avvenivano abitualmente, mentre al passato prossimo si suggerisce l’idea di qualcosa di limitato in un tempo. Chiaramente si potrebbe anche aggiungere un elemento temporale al passato: «Per tutto il mese siamo andate in spiaggia dove abbiamo alternato letture e chiacchierate. Con lei è (o era) possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo». E anche altre sfumature di differenza possono essere colte in un testo del genere, che conferma quanto detto all’inizio sulle numerose sfumature aspettuali (e modali) dell’imperfetto. Per es. questo mi mancava molto sottolinea che manchi ancora, mentre in questo mi è mancato molto potrebbe anche darsi che sia mancato fino a questo momento ma che ora non manchi più (dato che le due amiche si sono riviste o si stanno per rivedere). Ma, come ripeto, sono davvero dettagli minimi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei porre un quesito: in frasi come “non sentirsela di …”, qual è il tipo di subordinata così introdotta?

 

RISPOSTA:

È una subordinata completiva, per la precisione oggettiva; infatti il verbo pronominale (o più precisamente procomplementare) sentirsela per essere completato ha bisogno di un argomento (che funge da complemento oggetto) rappresentato dalla subordinata oggettiva implicita introdotta da di, come se fosse sento di…: «Non me la sento di uscire» = «Non mi sento di uscire» (analogamente a «Non sento la voglia di uscire»).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle seguenti affermazioni è corretta?

1) penso che loro stanno bene

2) penso che loro stiano bene

Sono più propenso nel linguaggio formale a ritenere corretta la seconda frase, tuttavia la prima può essere usata nel parlato informale confidenziale.

 

RISPOSTA:

È esattamente come osserva lei: nelle completive dipendenti da pensare il congiuntivo è la scelta preferenziale, in quanto più formale, ma l’indicativo non è scorretto, bensì più informale, pertanto possibile in situazioni, come il parlato o lo scritto che si avvicina al parlato, meno sorvegliate.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il quesito di cui vorrei parlare in questo filone è la questione della protasi e apodosi del periodo ipotetico dell’irrealtà all’interno di un’oggettiva / una soggettiva.

Ciò che penso per quanto riguarda le seguenti 3 frasi è che l’unica soluzione corretta è col condizionale, ma a me è capitato di sentire soluzioni differenti dal condizionale:

A-Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto.

B-Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto.

C-Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa.

Sono soluzioni con l’imperfetto indicativo, l’imperfetto congiuntivo e l’infinito.

Io, per logica, come già detto, direi che l’unica possibilità sia quella del condizionale, visto che si parla di una situazione non realizzata (periodo ipotetico dell’irrealtà), ma a pensarci bene, ragionando sui tempi presenti, le possibilità mi sembrano molte di più e tutte (più o meno) accettabili:

-Non penso di pentirmi se lo facessi.

-Non penso di pentirmi se lo faccio.

-Non penso che Mario si arrabbi se passassi.

-Non penso che Mario si arrabbi se passo.

-So che lui arriva se ci fosse pure gli altri.

-So che lui arriva se ci sono pure gli altri.

Che ne pensa delle tre frasi in questione?

Quella che mi lascia più perplesso è la B, che ho sentito in televisione, di sfuggita, in una serie americana doppiata in italiano.

La frase era “non pensavo ti desse fastidio se lo facevo”.

 

RISPOSTA:

Cercando di semplificare il più possibile la casistica da lei presentata, diciamo subito che anche nel periodo ipotetico dipendente vale il divieto di utilizzare il condizionale nella protasi, possibile (ma non obbligatorio) soltanto nell’apodosi. Vediamo ora di commentare alla svelta tutte le frasi.

  1. A) Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto: come al solito, l’indicativo è possibile, ma più informale del congiuntivo.
  2. B) Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto: come sopra. Entrambe le completive di A e B sono possibili anche con il condizionale in quella che di fatto è l’apodosi del periodo ipotetico: «Non pensavo che mi sarei pentito…»; «Non pensavo che ti avrebbe dato fastidio…».
  3. C) Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa: come sopra: indicativo possibile ma meno formale del congiuntivo. Anche qui è possibile il condizionale in apodosi: «… che non saresti dovuta rimanere da sola…».

– Non penso di pentirmi se lo facessi: va bene.

– Non penso di pentirmi se lo faccio: non solo è meno formale, ma implica anche una probabilità maggiore di farlo: se lo faccio non mi pento.

– Non penso che Mario si arrabbi se passassi: non funziona. O si mette il condizionale in apodosi («Non penso che Mario si arrabbierebbe se passassi») o il presente in protasi («se passo»), come nella frase successiva.

– Non penso che Mario si arrabbi se passo: va bene, come pure «…si arrabbierebbe…».

– So che lui arriva se ci fossero pure gli altri: non funziona. O si usa il condizionale in apodosi («…lui arriverebbe…») o si usa il presente in protasi come nella frase successiva.

-So che lui arriva se ci sono pure gli altri: va bene.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Esprimerò la mia richiesta in forma esemplificata in quanto una diversa strategia espressiva la renderebbe alquanto farraginosa. La TV riprende una partita di calcio e non la trasmette in diretta e il giorno dopo la manda in onda. Se io vedo la partita in questa seconda fase si può dire che la vedo in differita. Poniamo ora che la TV riprenda la partita e la mandi in diretta e poi, domani, la invii di nuovo in onda tutta o in parte. Io che la guardo in questa seconda fase, posso asserire di vederla in differita o in questo caso (visto che il giorno prima c’era stata la diretta) questo termine diventerebbe improprio?

 

RISPOSTA:

Con il sostantivo differita si intende una trasmissione radiofonica o televisiva registrata e mandata in onda in un momento successivo (Zingarelli 2023), perciò l’uso di questa parola va bene nel suo primo caso; un programma già andato in onda e nuovamente trasmesso in un momento successivo prende, invece, il nome di replica.
Raphael Merida

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QUESITO:

So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.

 

RISPOSTA:

Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Un mio amico mi ha detto che non ci sarebbe stato al mio compleanno, ma che avrebbe voluto esserci. La risposta corretta è: «sarà come tu ci fossi» oppure «sarà come tu ci sia»?

 

RISPOSTA:

Si presume che la festa non ci sia ancora stata, pertanto la risposta, con il verbo reggente al futuro, richiederebbe, in teoria, il presente e non l’imperfetto, che invece implicherebbe un riferimento al passato. Del resto, il futuro è allineato al presente nella consecutio temporum, e se il verbo reggente fosse al presente avremmo il congiuntivo presente nella subordinata: «(adesso) è come se tu ci sia» (o, informalmente, «come se tu ci sei»). Tuttavia, le comparative ipotetiche (introdotte da come se, con possibile ellissi di se) hanno per l’appunto una forte componente ipotetica che rende pienamente giustificabile (e tutto sommato preferibile) anche l’alternativa al congiuntivo imperfetto, in analogia con quanto avviene nel periodo ipotetico della probabilità: «se tu ci fossi sarebbe bello». Proprio per la carica epistemica (comunque tu non ci sei), dunque, qui anche l’imperfetto congiuntivo è corretto, e anzi preferibile: «è come (se) tu ci fossi», «sarà come (se) tu ci fossi».

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Leggo su un giornale a diffusione nazionale quanto dichiara un noto giornalista: «Vi spiego come si diventa giornalista». Io avrei usato il plurale: «Vi spiego come si diventa giornalisti». Sono corrette entrambe le varianti? Se sì, quale si fa preferire?

 

RISPOSTA:

Le due forme sono del tutto equivalenti, sul piano strutturale e stilistico, e dunque entrambe perfettamente corrette in italiano. Il singolare si riferisce al ruolo, mentre il plurale dà più rilievo alle persone che ricoprono quel ruolo. Capisco la sua preferenza: parlando a un uditorio ampio, per esempio a studenti e studentesse, puntare alla concreta possibilità che ciascuna/o di loro diventi giornalista può sembrare più efficace. Però a favore del singolare rema l’essere adatto sia a un uomo sia a una donna, laddove il plurale al maschile indistinto, oggi più che mai, può essere comprensibilmente avvertito come discriminatorio. Allora al plurale sarebbe bene aggiungere “e giornaliste”. Il singolare è più economico e più inclusivo e quindi, in fin dei conti, preferibile: laddove la morfologia aiuta l’inclusività è sempre bene sfruttarne le risorse.

Fabio Rossi

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QUESITO:

A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.

«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».

C’è qualche regola da seguire?

Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.

Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».

 

RISPOSTA:

In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).

Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.

«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».

«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».

Fabio Rossi

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QUESITO:

“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?

 

RISPOSTA:

Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono corrette frasi come: «Penso che io sia sordo» oppure «penso che io sia chiaro»?

 

RISPOSTA:

Non sono scorrette ma sarebbe bene evitarle, dal momento che una completiva con lo stesso soggetto della reggente si esprime di norma in forma implicita, anziché esplicita: «Penso di essere sordo» e «penso di essere chiaro».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nelle frasi sotto riportate, l’articolo e la proposizione, a seconda dei casi, posti tra parentesi, sono facoltativi (e quindi corretti) oppure errati?

La loro presenza nel testo, specie nel caso dell’articolo dei primi due esempi, modifica, anche lievemente, il senso generale del messaggio; oppure non c’è differenza tra le frasi complete e quelle ellittiche?

1) (Il) pensarti mi fa star bene.

2) (Il) leccarsi le ferite è un inutile atteggiamento di autocompatimento.

3) Mi spiace (di) non essere venuta alla festa.

4) Cerco (di) te.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte ben formate, sia con l’articolo (o la preposizione), sia senza. Nessuno dei quattro casi è però configurabile come ellissi, perché si tratta di costrutti alternativi e dotati di loro autonomia senza dover ipotizzare la caduta di un elemento. Nei primi due casi, addirittura, la trafila storica è esattamente al contrario: prima nasce la forma senza articolo, poi quella con articolo.

1) e 2) È sempre possibile trasformare un infinito in un infinito sostantivato, mediante l’aggiunta dell’articolo. Non c’è alcuna apprezzabile differenza semantica tra l’interpretazione come infinito sostantivato e l’interpretazione come completiva soggettiva; stilisticamente, la variante con l’infinito sostantivato è un po’ più pesante, dunque meno adatta a un contesto formale.

3) Le due frasi sono del tutto equivalenti. In molti casi l’italiano presenta alternative nella reggenza verbale, con o senza preposizione. La forma senza preposizione è la più antica (cioè come il latino, che non ammetteva la preposizione davanti all’infinito), mentre quella con la preposizione è più recente; quella con la preposizione è meno formale.

4) La forma con di è decisamente rara e ha anche una sfumatura semantica diversa: ‘chiedere di qualcuno’: «cercano dell’avvocato Rossi», cioè chiedono se c’è l’avvocato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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QUESITO:

All’epoca, dopo che era avvenuta quella disgrazia, eravamo come foglie che il vento…

  1. a) portasse via
  2. b) portava via.

Suppongo che entrambe le soluzioni siano valide.

Mi chiedo però se la differenza tra l’una e l’altra sia di tipo (come insegnate voi) diafasico, oppure se essa sia di tipo semantico.

 

RISPOSTA:

Come al solito, la differenza è essenzialmente di tipo diafasico (più formale il congiuntivo, meno formale l’indicativo), ma, come spesso avviene, le ragioni diafasiche non escludono quelle sintattiche e/o semantiche. In questo caso, in virtù della frequente associazione del congiuntivo (soprattutto imperfetto) a contesti ipotetici quali la protasi del periodo ipotetico, la versione al congiuntivo conferisce al periodo da lei segnalato una sfumatura epistemica (cioè di probabilità o possibilità), quasi a sottolineare che il vento può portare via (o anche non portarle) quelle foglie. Ricordo che le relative al congiuntivo possono assumere sfumature varie (finali, consecutive, epistemiche ecc.). Nel caso specifico, però, c’è davvero bisogno di indicare che il vento può portare o non portare via le voglie? Non è in certo qual modo ovvio dal contesto semantico complessivo? Occorre sempre chiedersi se il congiuntivo sia necessario o no, magari se sia un mero sfoggio di “bello stile” (in realtà retaggio di certe malintese pseudonorme scolastiche). Inoltre, sempre a proposito di stile, non sarebbe molto meno faticoso il periodo senza proposizione relativa? Cioè così: «…eravamo come foglie al vento».

Fabio Rossi

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QUESITO:

È corretto l’utilizzo del verbo provvedere in questo modo? “Avresti dovuto PROVVEDERE IN QUELLA DIREZIONE per evitare problemi”.

 

RISPOSTA:

Sì; in una frase come la sua il verbo provvedere è usato assolutamente, ovvero come verbo intransitivo monovalente (o inergativo). Con questa costruzione, il verbo assume il significato di ‘cercare una soluzione’ e può certamente essere arricchito da sintagmi aggiunti (o espansioni) come in quella direzione, che restringe l’ambito dell’intervento a quello nominato precedentemente nel discorso.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi chiedo di propormi la vostra analisi del periodo di questo breve testo.

“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nei buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Claudio Magris, Un altro mare).

 

RISPOSTA:

Di seguito l’analisi del periodo; in coda si forniranno alcune note.

Carlo gli aveva detto, lui = principale

che, nell’ora sarebbe salito sull’abbaino della soffitta = sub. oggettiva di I grado;

in cui la nave doveva salpare, = sub. relativa di II grado;

per guardare, nella sera in direzione di Trieste, là = sub. finale di II grado;

che si spegneva, = sub. relativa di III grado;

dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di III grado;

quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio = sub. comparativa ipotetica di III grado;

e salvare le cose dall’oscurità = coord. alla sub. comparativa ipotetica di III grado;

che aveva insegnato = sub. relativa di I grado;

che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire = sub. oggettiva di II grado;

vedere le cose lontane = sub. oggettiva di III grado;

come fossero vicine, = sub. comparativa ipotetica di IV grado;

abolire la brama = coord. alla sub. oggettiva di III grado;

di afferrarle, = sub. dichiarativa di IV grado;

perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere = sub. causale di V grado.

 

La proposizione principale nel testo è divisa in due parti, che si trovano a grande distanza l’una dall’altra; la prima parte (Carlo gli aveva detto) è continuata da una serie di subordinate contenenti descrizioni di luoghi e azioni, la seconda (il pronome lui) prolunga a distanza la principale per aggiungere alla frase un’informazione astratta (nella quale, però, si rispecchia il soggetto). Il sintagma complesso in direzione di Trieste, là è quasi certamente aggiunto al verbo guardare, ma non è escluso che ruoti intorno al verbo spegnere. Se si segue questa seconda interpretazione l’analisi di quella parte diventa:

per guardare, nella sera = sub. finale di II grado;

che si spegneva, in direzione di Trieste, là = sub. relativa di III grado.

Ancora, la relativa dove lui, Enrico, partiva può essere interpretata come dipendente da quest’ultima proposizione, per cui avremmo:

dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di IV grado.

In questo caso guardare cambia valenza e significato; non è più bivalente con il significato di ‘osservare un oggetto o un processo’, ma monovalente con il significato di ‘soffermarsi a contemplare’.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho diverse domande sull’uso dei modi nelle subordinate.

1. L’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo ha una valore diafasico nelle completive?

2. Per quanto riguarda la proposizione relativa, nelle frasi seguenti il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo senza cambiamento di significato?

a. E poiché il denaro, in America come altrove, si guadagna in mille modi ma difficilmente con lo studio delle lettere e delle arti e alle lettere si dedicano volentieri soprattutto i facoltosi che vi siano inclinati (Soldati, America primo amore).

b. La stazione della vecchia Delhi di notte è uno di quei posti dove un viaggiatore che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).

c. Per un professionista sessantenne, che a suo tempo abbia fatto buoni studi superiori ma poi si sia occupato di altro – poniamo di import-export o di ortopedia –, la storia sarà probabilmente la disciplina che si interessa di guerre… (Serianni, Prima lezione di grammatica, p. 3).

d. Ho sentito storie da favola su tante notti passate all’aperto, non un problema che sia uno, tutto liscio come nei film (Daniele Mencarelli, Sempre tornare, p. 34).

e. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (Corriere della Sera, 31 gennaio 2023, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?).

f. Era l’unico che avesse la qualità per farlo.

3. Nella frase “Ho trovato qualcuno che potrebbe / può aiutarci” il congiuntivo possa non va bene. È vero?

4. Nei prossimi esempi la scelta tra il congiuntivo e l’indicativo è libera?

I ragazzi che non studino / studiano bene la lingua italiana non riusciranno a lavorare come giornalisti.

Un ragazzo che non studi bene….

5. Nella seguente frase è possibile sostituire pigliassero con pigliavano senza cambiare la semantica?

Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo (Pavese, La luna e il falò, p. 109).

6. In questi esempi la relativa è investita di un senso ipotetico di improbabilità?

Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia.  (Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, p. 46).

Un viaggiatore armato di binocolo che si trova / si trovi a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia (frase da Ammaniti modificata).

 

RISPOSTA:

1. Nei casi in cui l’alternanza è possibile (quindi esclusi i casi in cui è obbligatorio usare o l’indicativo o il congiuntivo) essa ha valore diafasico: la variante con il congiuntivo è più formale di quella con l’indicativo.

2. Nelle proposizioni relative a-d il congiuntivo ha ancora valore diafasico. Nell’esempio e la relativa è consecutivo-finale (un’intelligenza artificiale che possa prendere = un’intelligenza artificiale tale da poter prendere); la variante all’indicativo presenterebbe il poter prendere come fattuale. L’esempio f presenta una relativa apparentemente consecutiva, ma in cui, invece, il congiuntivo ha valore diafasico (avesse = aveva). Consecutivo-finale sarebbe una frase come “Era l’unico che avesse la possibilità di farlo; mentre, infatti, la qualità è certamente posseduta dal soggetto, e non può essere rappresentata come un’acquisizione possibile, la possibilità è per definizione un’acquisizione possibile.

3. Nella frase l’uso del congiuntivo è impedito dal verbo trovare al passato, che presenta l’antecedente qualcuno come certamente reale. Si noti che la relativa consecutivo-finale al congiuntivo sarebbe possibile se al posto di trovare ci fosse, per esempio, pensare (“Ho pensato a qualcuno che possa aiutarci”) e anche se il verbo trovare fosse presente (“Trova qualcuno che possa aiutarci”), perché in quel caso qualcuno non sarebbe certamente reale, ma sarebbe ipotetico.

4. Nella frase con l’antecedente i ragazzi la relativa al congiuntivo è molto innaturale, perché l’antecedente è determinato e complessivamente la frase è di formalità media. In quella con l’antecedente singolare si possono usare entrambi i modi, perché l’antecedente è indeterminato; in questo caso non sarebbe facile stabilire se il congiuntivo avrebbe valore diafasico o la funzione di rendere la relativa consecutiva: le due funzioni si sovrapporrebbero.

5. L’indicativo si può sostituire al congiuntivo, ma cambia il significato della frase. Il congiuntivo, infatti, è attratto dalla proposizione finale reggente (per non avere i sergenti che mi pigliassero in giro = affinché i sergenti non mi pigliassero in giro); l’indicativo darebbe, invece, alla relativa la funzione di qualificare fattualmente l’antecedente.

6. Nella frase originale che si trovasse = se si trovasse; nella frase modificata l’alternanza ha un valore simile a quello della seconda frase dell’esempio 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.

– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.

– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)

– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile

– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.

– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.

– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.

– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.

– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.

– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).

– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.

– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.

– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.

– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.

 

RISPOSTA:

Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:

– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.

Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.

 

– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).

In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.

 

– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.

L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.

 

– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.

Esclusa fosse.

 

– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.

Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.

 

– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).

Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).

 

– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.

Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.

 

– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.

In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).

 

– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.

La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.

 

– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.

Impossibile avessimo trovato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un discorso racconto o poesia,  passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?

 

RISPOSTA:

In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:

«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?

«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»

O ancora:

«Perché non si è intervenuto/i prima?».

 

RISPOSTA:

Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.

I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il testo che segue è la parte di una favola. Vorrei sapere se la punteggiatura e i verbi sono corretti:
«In una grande prateria ci vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che così appena gli sarebbe venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e si sarebbe preso una botta/crapata e così andò».

 

RISPOSTA:

In brano presenta svariate inesattezze, che commenterò sotto.

«In una grande prateria ci vivevano [il ci è pleonastico: indica infatti il complemento di luogo già espresso da in una grande prateria; ci va dunque eliminato] bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… [eviterei i due punti che spezzano inutilmente il discorso; li sostituirei con una virgola] Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è [refuso per e congiunzione] proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, [prima di infatti va un segno di punteggiatura forte, come un punto e virgola] infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che [eliminare il che e aggiungere due punti] così [virgola] appena gli sarebbe [fosse: qui il condizionale è sbagliato perché è come se fosse un periodo ipotetico: se gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato…] venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e [manca il soggetto, altrimenti il lettore crede che si tratti sempre dell’insetto, mentre invece qui il soggetto cambia ed è il bufalo] si sarebbe preso una botta/crapata [crapata è troppo informale/regionale e stona in un racconto; anche il generico botta non è il massimo; meglio testata, o gran testata, seguito da un punto] e così andò».

Quindi il brano corretto sarebbe come segue:

«In una grande prateria vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo, forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi e proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male; infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero: così, appena gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e il bufalo si sarebbe preso una gran testata. E così andò». Oppure: «così, appena il bufalo gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e quello si sarebbe preso una gran testata».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se i verbi sono usati correttamente negli esempi 1-4:
(1) Mi ha chiesto se io lo avrei chiamato quando sarei tornato in Italia
(2) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando sarei tornato in Italia.
(3) Mi ha chiesto se lo avrei chiamato quando io fossi tornato in Italia.
(4) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando io fossi tornato in Italia
Inoltre, so che posso dire “Lo chiamerò quando sarò tornato in Italia”, ma penso che la forma “Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarò tornato in Italia” venga considerata sbagliata dato che non rispetta la consecutio temporum. Giusto?
Altre variazioni della stessa frase con le stesse domande:
(5) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarei tornato in Italia.
(6) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando fossi tornato in Italia.

 

RISPOSTA:

Le forme verbali nelle frasi 1-4 sono corrette (ma eviterei di esplicitare il soggetto pronominale io tanto nella proposizione interrogativa indiretta quanto nella temporale). Per descrivere un evento futuro rispetto a un momento di riferimento passato (mi ha chiesto) nelle proposizioni completive si può usare sia il condizionale passato sia il congiuntivo imperfetto. Quest’ultimo è più formale, ma anche più ambiguo, visto che la stessa forma si usa per esprimere la contemporaneità nel passato. Il congiuntivo imperfetto, insomma, esprime una contemporaneità nel passato proiettata nella posteriorità; il condizionale passato esprime soltanto la posteriorità rispetto al passato. La proposizione temporale descrive un evento da una parte posteriore rispetto al momento di riferimento (mi ha chiesto), dall’altra anteriore rispetto all’evento del chiamare, che diventa un secondo momento di riferimento. In questa situazione si può scegliere se collegare l’evento del tornare a quello del chiedere o a quello del chiamare. Nel primo caso avremo le frasi 3 e 4, con il congiuntivo trapassato che esprime anteriorità rispetto al passato (visto che la contemporaneità e la posteriorità nel passato si comportano come passati); nel secondo caso avremo le frasi 1 e 2, con il condizionale passato che esprime posteriorità rispetto al passato (mi ha chiesto), trascurando il rapporto temporale con il chiamare. Va detto, inoltre, che la proposizione temporale introdotta da quando con il congiuntivo viene a coincidere con la ipotetica (quando fossi tornato = qualora fossi tornato), quindi assume una sfumatura di incertezza.

Nella completiva può essere usato anche l’indicativo futuro, come nelle ultime due frasi, se si vuole sganciare l’evento dal rapporto con il momento di riferimento (mi ha chiesto) e si considera rilevante il momento dell’enunciazione (ora). In questo modo l’evento del chiamare è rappresentato come posteriore rispetto al presente, ovvero come futuro. Se si fa questa scelta (che sarebbe adatta al parlato e allo scritto poco sorvegliato), nella temporale bisogna usare o il futuro semplice tornerò o il futuro anteriore sarò tornato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nell’analisi grammaticale dei nomi collettivi trovo difficile indicare se si tratti di nomi di persona, animale o cosa. In un esercizio scolastico, sarebbe opportuno tralasciare tale dicitura oppure è possibile far rientrare questi nomi in una categoria? Ed eventualmente quale? Ad esempio, gregge può essere definito un nome comune di animale? O un nome comune di cosa? Oppure semplicemente un nome comune, collettivo?

 

RISPOSTA:

Semplicemente nome comune, collettivo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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Categorie: Punteggiatura, Semantica

QUESITO:

Quando scrivo utilizzo molto spesso la virgola insieme alla congiunzione, sempre con una specifica motivazione determinata dal senso che desidero attribuire alla frase. Talvolta, nemmeno così raramente, mi capita di usare la virgola anche negli elenchi in cui è presente una “e”.

Mi sento spesso dire che non so scrivere, che non conosco l’uso della punteggiatura. Solitamente sorrido, ascolto, mi stanco. Mi piacerebbe capire se ho torto, ed ammettere i miei limiti.

Faccio degli esempi: “pane, pasta, e pomodoro” ha un significato diverso da “pane, pasta e pomodoro”. Lo stesso vale anche per “l’amava, e l’odiava”. Anche questa espressione è diversa e differente da “l’amava e l’odiava”. Così “Dio, patria e famiglia” non è esattamente lo stesso di “Dio, patria, e famiglia”. Giusto?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei su tutta la linea: questa del divieto della virgola prima della congiunzione è una delle tante regole di fantagrammatica (come la chiama Sgroi, o, per essere più generosi, di norma sommersa, come la chiama Serianni) inventate senza alcuna ragione dai maestri di scuola. A volte l’errore, come in molti dei suoi begli esempi, è proprio nel non metterla, la virgola prima della e.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nel mio lavoro da copywriter, creo spesso delle campagne pubblicitarie per i social, la carta stampata e le affissioni.

Nelle “headline” (i titoli delle campagne pubblicitarie) io non metto mai il punto, a meno che non sia un punto interrogativo o esclamativo.

Tantissimi altri miei colleghi invece lo fanno.

Ad esempio nella headline “La colazione dei campioni” secondo me il punto non ci va. Mentre altri lo mettono.

Ho ragione io, hanno ragione i miei colleghi, o è una scelta stilistica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei: nei titoli di norma il punto non va. È pur vero che, soprattutto nella testualità online, lo stile la fa da padrone, come anche l’espressività, le consuetudini scrittorie (mutate) e le attese dei lettori. Motivo per cui taluni argomentano sostenendo che il punto può conferire maggiore perentorietà, sicurezza, affidabilità (come a dire: punto e basta, so quello che dico e che offro). Per queste ragioni, all’opposto, in altri tipi di testo il punto viene bandito anche fuor dai titoli: se ha esperienza di testualità nei social, sa come un punto alla fine di un post di fb o di un messaggio whatsapp può rompere amicizie e amori (è successo più volte veramente), perché viene interpretato come una chiusura all’altro, un atto di violenza, una rottura del rapporto.

Cionondimeno, da affezionato tradizionalista alla testualità analogica, mi sento di suggerirle di rimanere fedele alla nostra vecchia e amata norma di non mettere mai il punto fermo alla fine di un titolo. Punto (ma sia qui detto e scritto senza alcuna ostilità, anzi…)

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.

Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli  è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza?

Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.

Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.

 

RISPOSTA:

I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza.

In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».

Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Causa la mia ignoranza vorrei sapere con certezza se in questo slogan pubblicitario la mancanza del congiuntivo sia da considerarsi errore (da bocciatura) o se invece è corretto così com’è per quanto possa forse suonare male o poco abituale:

NON VOGLIAMO CHE TU INVESTI. VOGLIAMO CHE INVESTI MEGLIO.

Ora, INVESTA, suonerebbe meglio; ma non è forse anche artificioso, o comunque non obbligatorio, nel senso: questa frase, la cui reggente è all’indicativo, non richiederebbe, nella subordinata, sempre l’indicativo? In considerazione anche del fatto che la frase sì esprime una speranza, un desiderio, ma la sua forma però è assertiva, imperativa. La forma con cui non avrei dubbio alcuno se usare il congiunto sarebbe la seguente e la più corretta (ma per nulla adatta allo slogan): NON VORREMMO CHE INVESTISSI TANTO. VORREMMO CHE INVESTISSI MEGLIO.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta, ma non per una questione di suono, bensì di sintassi e di stile. Senza dubbio la versione al congiuntivo è più formale, ma il significato di entrambe le frasi è identico. Nelle subordinate completive (come quelle dipendenti da voglio) sono ammessi tanto il congiuntivo (più formale) quanto l’indicativo (meno formale). Per il resto, la sua spiegazione non è corretta: non c’entra (quasi) nulla il modo verbale della reggente. Decisamente da preferire il congiuntivo nella seconda frase: «Vorremmo che investissi…». Altresì giusta la riflessione che l’indicativo nella prima frase renda forse meglio la decisa volontà che le persone investano. Però, ripeto, a governare l’uso del congiuntivo è più il registro di formalità che la semantica, per cui, per evitare di sentirsi dare dell’ignorante dai puristi, le suggerirei comunque la forma al congiuntivo «vogliamo che investa».

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo è corretto l’uso dei verbi e della punteggiatura: 1) «Ci siamo incontrati al corso di musica quando avevano tre o quattro anni: al primo impatto volevo stargli alla larga, perché era scatenato quasi come le persone che entrano in campo da calcio durante una partita. Con il passare delle lezioni capii (ho capito) che era un bravo bambino ed è da lì che diventammo (siamo diventati) amici».

Inoltre è meglio scrivere: 2) «oltre ad essere/oltre a essere»; 3) «io sto/sono simpatico a lui e viceversa»?

 

RISPOSTA:

1) Tutto corretto, sia al passato remoto sia al prossimo, e con la giusta punteggiatura. In alternativa ai due punti si possono usare il punto e virgola o il punto. 2) Del tutto equivalenti. 3) Sono è la scelta più formale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In un avviso qual è la forma corretta da scrivere?

1) Si avvisa ai signori condomini

2) Si avvisa i signori condomini.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle due, bensì: «Si avvisano i signori condomini», con il si passivante con valore impersonale: ‘i signori condomini sono avvisati’. Avvisare è intransitivo e dunque regge il complemento oggetto, non il complemento di termine (ai). Un’alternativa possibile soltanto in Toscana sarebbe quella con il si con valore di prima persona plurale: «Si avvisa i signori condomini», cioè ‘noi avvisiamo i signori condomini’.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Premetto che sono un cantautore e si tratta di una frase di un nuovo testo di una canzone. Non riesco a capire se è corretta o meno, ho chiesto anche a mia moglie diplomata al liceo classico e laureata in lingue…

La frase è la seguente: «Direi, anche una frase ti direi se la ricorderai».

Per questioni di metrica deve essere così, il dubbio è se grammaticalmente devo usare necessariamente «se la ricordassi». Il significato non vuole essere retorico, ovvero non voglio dire che non ti dico una frase perché poi non te la ricordi ma è quasi interrogativa, ovvero se tu mi prometti, o mi dici che la ricorderai allora quasi quasi ti direi anche una frase…

 

RISPOSTA:

Il verso va benissimo, è corretto e anche efficace: l’indicativo nel periodo ipotetico è sempre possibile, ancorché meno formale del congiuntivo. Inoltre, in questo caso, oltre ai motivi metrico-poetici (già validissimi di per sé, in una canzone), c’è anche una ragione semantico-pragmatica, cioè la (quasi) certezza, la garanzia, del ricordo: devi proprio promettermi «me la ricorderò».

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua letteraria, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale frase è corretta? Li adoro / Gli adoro?

 

RISPOSTA:

Li adoro, perché adorare regge il complemento oggetto (li) e non il complemento di termine (gli, loro).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo all’uso del termine quest’ultimo, per il fatto che ho paura che ci siano dei fraintendimenti nelle frasi e nei concetti espressi. L’esempio è questo:

«Carla l’ultima volta che l’ho vista indossava una giacca di lana, quest’ultima era molto bella e aveva un colore blu scuro”. In questa frase è possibile che ci sia l’ambiguità quando si usa quest’ultima insieme agli aggettivi bella e di colore blu scuro, che magari non si capisce se questi aggettivi sono riferiti alla giacca come capo d’abbigliamento nella sua interezza o specificamente e solamente alla stoffa di lana di cui è composta la giacca? Chiedo questo perché l’ultimo sostantivo in ordine di apparizione nella frase è la parola lana che viene dopo la parola giacca, quindi quest’ultima potrebbe sembrare si riferisca solo a lana anziché a giacca.

 

RISPOSTA:

In effetti è spesso problematico il recupero anaforico di quest’ultimo, motivo per cui, in casi dubbi, è meglio ripetere il sintagma piuttosto che pronominalizzarlo con quest’ultimo. Ora nel caso che pone lei il buon senso aiuta a non riferirsi alla lana, ma all’intero capo di abbigliamento, però ci sono casi davvero problematici, soprattutto nei giornali, e soprattutto, come dice lei, nel caso di sintagmi che dipendono da altri sintagmi. Per esempio: «Il figlio del tabaccaio è stato rapito. Quest’ultimo aveva trent’anni». Chi, il tabaccaio o suo figlio? Meglio ripetere: Il figlio aveva trent’anni.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette e ben scritte, e se non lo sono, perché. Tra parentesi inserisco i punti che mi interessano:

1) Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre, ecc. (necessaria)

2) Chi è senza, non usa le dovute maniere. (La virgola).

3) Piuttosto che: “Il lavoro nobilita l’uomo”, dovresti dire ecc. (Il “piuttosto che” con discorso diretto)

4) La scuola non solo ti insegna tante cose, ma ti dà la possibilità di conoscere tante persone. (Nessuna virgola dopo “scuola”).

5) Gli uomini hanno costruito le strade per spostarsi. (Hanno costruito).

6) Nel mondo di oggi la vita è pervasa da ecc. (L’assenza della virgola dopo “oggi).

 

RISPOSTA:

Su alcune si queste abbiamo già pubblicato una risposta, ma la ripetiamo in sintesi.

1) Necessario: qui l’accordo non è con amica, ma con avere un’amica.

2) La virgola può andare, per segnalare l’ellissi, che tuttavia è strana (per l’ellissi e per l’adiacenza senza non), quindi sarebbe bene evitarla (l’ellissi e conseguentemente anche la virgola) prima di aver nominato l’oggetto in forma piena. Per esempio: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarne uno», in questo caso senza virgola, per non separare il soggetto dal predicato.

3) Va bene ma elimini i due punti, perché non è né un vero e proprio discorso diretto (piuttosto la citazione di un proverbio) né un elenco, sibbene una frase linearizzata, senza bisogno di staccarne i costituenti.

4) Senza dubbio senza virgola: mai separare il soggetto dal predicato.

5) Corretta. Costruite sarebbe ridicolmente pomposo e arcaico.

6) Senza virgola, per carità: mai separare il soggetto…

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Mi sorge un dubbio. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? Questi è mio cugino oppure questo è mio cugino?

Se dico: mio cugino fa il falegname. Questi è molto bravo nel suo lavoro.

Oppure si deve usare questo?

 

RISPOSTA:

Questo è più informale, questi è molto formale. Tuttavia nel suo esempio sono inappropriati entrambi, perché non c’è alcun bisogno di ribadire il soggetto nominato tre parole prima. Quindi l’unica frase adatta è la seguente: «Mio cugino fa il falegname. È molto bravo nel suo lavoro» (oppure «ed è molto bravo…»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho sempre utilizzato la parola latina ius premettendo ad essa l’articolo lo, probabilmente influenzata da casi analoghi (lo Ione di Platone). Mi accade però di leggere il ius su un manuale. Quale dei due articoli (il/lo) costituisce la forma corretta?

 

RISPOSTA:

Senza dubbio alcuno lo ius. Infatti, anche volendo appigliarsi alla pronuncia (forse) non semiconsonantica, ma vocalica, della i prevocalica, l’articolo mai sarebbe il, ma semmai l’: l’imbuto. E infatti l’ius (così come l’iena, per la iena) è possibile, sebbene minoritario e arcaico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

vorrei sapere la differenza tra in frigorifero e nel frigorifero.
Inoltre, se nella frase «Chi è senza, dovrebbe indossare un cappello», la virgola sia errata.

 

RISPOSTA:

In è più adatto a espressioni generiche (come conservare in frigorifero, da tenere in frigorifero, mettere la spesa in frigorifero), mentre nel è più indicato per espressioni specifiche, in cui si sottolinei il luogo o l’azione di riporre qualcosa di specifico nel luogo: ho messo il latte nel frigorifero (ma anche in frigorifero); nel frigorifero non c’è niente (ma anche in frigorifero) ecc. Come vede dagli esempi, in (in quanto più generico) è molto più comune di nel, che invece è usato in un numero minore di frasi: nessuno direbbe mai (o quasi) il vino bianco va tenuto nel frigorifero. Una piccola prova di frequenza relativa: in Google adesso in frigorifero conta oltre 6 milioni di occorrenze, a fronte delle 277 mila di nel frigorifero.

La frase da lei segnalata si può scrivere con o senza la virgola; anche se sarebbe più elegante e più chiaro fare l’ellissi dopo (e non prima) che si è nominato l’elemento pieno: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarlo» (oppure «indossarne uno»), che è meglio scrivere senza virgola. Nel primo caso la virgola può andare (pur contravvenendo alla regola di non separare mai il soggetto dal predicato) proprio per arginare la stranezza dell’adiacenza di senza con dovrebbe e segnalare dunque una forte ellissi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi logica di questa frase, potreste aiutarmi?

«Il gatto è capace di scendere».

 È corretto dire che di scendere è un complemento indiretto? 

 

RISPOSTA:

Cominciamo dall’analisi del periodo: il gatto è capace: proposizione principale; di scendere: subordinata completiva (detta anche argomentale) indiretta (ovvero è come se fosse un’oggettiva, pur non dipendendo da un verbo transitivo). Dunque di scendere non è un complemento bensì una proposizione subordinata.

Analisi logica della principale: il gatto: soggetto; è capace: predicato nominale, analizzabile in è: copula + capace: parte nominale (o nome del predicato).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Cordiali linguisti,

«Indipendentemente dal fatto che io…

  1. Sia o non sia religiosa
  2. Sia religiosa o meno
  3. Sia religiosa
  4. Possa essere religiosa».

Quando mi sono imbattuta nella redazione di questa frase, ho incontrato non poche difficoltà nello scegliere quale soluzione adottare tra quelle prospettate.

Alla fine ho optato per la numero 3, giudicando le altre, in particolare la numero 1 e la numero 2, ridondanti.

La numero 4, invece, mi pare, per così dire, cauta, con una sfumatura attenuativa del messaggio.

Gradirei molto una vostra opinione in merito.

 

RISPOSTA:

Nulla da aggiungere alla sua interpretazione, che non fa una piega. Forse si potrebbe spezzare una lancia a favore della 1 dicendo che è di più immediata perspicuità per i lettori più pigri. La 3, in effetti, potrebbe indurre il lettore distratto a credere che, comunque, lei stia ammettendo (il fatto) di essere religiosa, senza alternative esplicite. Cionondimeno convengo con lei che la presenza del congiuntivo e l’intera costruzione della frase fanno optare per l’interpretazione dubitativa: potrei esserlo come non esserlo, e ciò è indipendente da quel che segue. A volte, peraltro, la ridondanza serve proprio a scongiurare ogni rischio di ambiguità nei lettori (sempre più distratti).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Potrebbe gentilmente chiarirmi un dubbio riguardo all’uso della vocale I nel digramma GN? I verbi impegniamo, bagniamo, insegniamo si scrivono con la I?

Potrebbe inoltre dirmi come fare la divisione in sillabe delle stesse parole?

 

RISPOSTA:

Le forme verbali da lei segnalate si scrivono con la i, alla prima persona del presente indicativo e congiuntivo, perché la i fa parte della desinenza verbale (-iamo), non della radice (e infatti i verbi sono impegnare, bagnare, insegnare ecc., senza i). Diciamo amiamo, non *amamo. Naturalmente la i si scrive ma non si pronuncia, perché viene assorbita dalla pronuncia palatale del nesso GN. La divisione in sillabe è la seguente: im-pe-gnia-mo; ba-gnia-mo; in-se-gnia-mo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio riguardo l’utilizzo del congiuntivo nella frase che riporto qui sotto:

«ci vediamo domenica per chi ci fosse».

In un gruppo di persone che si ritrovano ogni fine settimana per delle gare sportive c’è una di queste che, dando appuntamento per la domenica successiva, dice «ci vediamo domenica per chi ci fosse».

Non è più corretto «per chi ci sarà»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, quella al congiuntivo è più formale. Trattandosi di una relativa con sfumatura potenziale/ipotetica (alcune persone possono esserci oppure non esserci) il congiuntivo sottolinea proprio questa eventualità, che però è lievemente ridondante, visto che la semantica della frase esprime già di per sé (visto che nessuno può prevedere il futuro e che non ci si può vedere con chi non c’è) il fatto che le persone possono esserci o no. Alla base della scelta del congiuntivo imperfetto è il seguente periodo ipotetico soggiacente alla semantica dell’intera frase: se ci foste (domenica prossima), ci vedremmo, altrimenti non ci vedremmo. Che però, in uno stile lievemente meno formale, può essere espresso anche così: se ci siete (o sarete) ci vediamo (o vedremo).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Molti amici italiani mi dicono che non devo dire frase (1) quando fissiamo un appuntamento per fare un’altra chiacchierata nella settimana prossima.

(1)     Se non riuscissi a parlare (nella data fissata) ti scriverei.

Volevo usare questo tipo di ipotesi per indicare che è improbabile che non ci sia. è sbagliato?

So che posso esprimere (1) come

(1a) Nel caso in cui non riuscissi a parlare ti scriverò.

Domanda 1: Quale potrebbe essere il problema con il mio uso della frase (1)?

Nel Corriere della Sera (29/10/22), ho trovato questo esempio che sembra non seguire le regole del periodo ipotetico:

(2) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……

Capisco che vuol dire

(2a) Nel caso in cui i dati  del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……

Domanda 2:  l’uso del l’imperfetto del congiuntivo in (2) permette il futuro nella frase conseguenza?  Non trovo nessun esempio nei miei libri.

Domanda 3 Se (2) viene scritta come (2b) cambia il significato?

(2b) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterebbe la liberta delle persone……

 

RISPOSTA:

 

1) La frase va bene. Anche 1a va bene: la 1 è leggermente più formale ed entrambe lasciano aperta la possibilità che lei non possa riuscire a parlare nella data stabilita, oppure che possa.

2) Stessa cosa: le frasi vanno tutte bene sia col condizionale (che è la scelta più canonica per il periodo ipotetico della possibilità), sia col futuro, che contamina la possibilità con la realtà (è cioè un periodo ipotetico misto). Le sfumature sono molto sottili e non da tutti percepite allo stesso modo. Diciamo che, in linea di massima,  in entrambi i casi del gruppo 1 e del gruppo 2, la scelta del futuro sembra rendere più probabile il verificarsi dell’ipotesi e quindi della conseguenza, mentre viceversa il condizionale sembra rendere molto più improbabile sia l’eventualità del non riuscire a parlare, sia quella del peggioramento dei dati del Covid. La presenza di anche (anche se), inoltre, esclude in ogni caso che il governo limiti la libertà, sia col futuro sia col condizionale.

Rilegga bene Serianni e gli altri libri di grammatica: casi di periodo ipotetico misti sono sempre ammessi, in italiano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase seguente «ll Dirigente scolastico e gli insegnanti hanno il piacere di incontrarvi per presentare la nostra scuola», non sarebbe meglio scrivere presentarvi?

 

RISPOSTA:

Non è indispensabile, il senso è chiarissimo ugualmente. Del resto il verbo presentare richiede il dativo soltanto se si presenta una persona a un’altra, ma per altri contesti si può presentare una relazione, un progetto, una scuola, senza specificare a chi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Quesito:

Vorrei sapere se, dopo i due punti, sono  richieste le virgolette anche se non viene riportato il discorso di una persona diversa dallo scrivente. Per esempio: gli dissi: il tuo discorso non lo condivido. 

Risposta:

No, non sono obbligatorie. Dipende se si vuole sottolineare il tono dialogico (quasi teatrale), oppure ci si concentra soltanto sul contenuto delle parole dette. In quest’ultimo caso, naturalmente, c’è sempre la possibilità di usare anche il discorso indiretto: gli dissi che non condividevo il suo discorso.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione esclusi eventi imprevedibili può essere definita corretta. Ho letto che, secondo alcuni studiosi, il termine escluso dovrebbe essere trattato come una sorta di avverbio quando significa ‘ad eccezione di’, per cui nella fattispecie sarebbe corretto usare l’espressione escluso eventi imprevedibili. Io penso che entrambe le soluzioni siano corrette, comunque vorrei il vostro piacere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Il processo di grammaticalizzazione del participio passato (con valore aggettivale o nominale) di escluso, ancora in corso, non può certo dirsi concluso (come invece è accaduto per eccetto). Quindi oggi è decisamente minoritario l’uso di escluso (invariabile) come preposizione (e non avverbio), in casi come escluso la domenica. Decisamente maggioritario (43 mila contro 16 mila oggi in Google) l’uso aggettivale: esclusa la domenica (impossibile invece, oggi, eccetta la domenica). Quindi, oggi è decisamente più corretta (e accetta in tutte le varietà di lingua) la sua frase (esclusi eventi imprevedibili), piuttosto che l’altra (escluso eventi imprevedibili). Chissà, però, che tra cent’anni (più o meno, a grammaticalizzazione conclusa) le cose non si invertano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se con piuttosto che si possano usare i due punti, come nel caso: «Piuttosto che: “L’occasione fa l’uomo ladro”, si dovrebbe dire…».

Inoltre, se nella frase “Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre”, sia giusto mettere “necessaria” e non “necessario”.

 

RISPOSTA:

No, nel primo caso non si tratta di un elenco, ma di una frase legata, che come tale non richiede i due punti.

Nel secondo caso, l’accordo corretto è al maschile (necessario), perché l’aggettivo non si riferisce all’amica, bensì all’azione (e alla proposizione) avere un’amica.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un brano tratto da un dialogo cinematografico.

«Quando sarà svelato il contenuto delle carte, la verità verrà a galla una volta per tutte. Sarebbero i miei parenti, eventualmente, a correre i rischi maggiori. Alla fine, che cosa ne saprebbero? Io, nel frattempo, potrei essermi rivolta a un legale per tutelarmi».

La proposizione «potrei essermi rivolta…» è corretta?

Se, invece, fosse stato detto (o scritto) «sarei potuta rivolgermi…» il periodo complessivo sarebbe stato comunque corretto nonostante la modifica del suo senso generale?

 

RISPOSTA:

Sì, corrette entrambe (oppure «avrei potuto rivolgermi»). Con i verbi servili è ammesso sia l’ausiliare del servile, sia l’ausiliare dell’infinito che dipende dal servile. Inoltre, nel caso specifico, il passato (condizionale) può essere costruito sia per il servile (avrei potuto rivolgermi) sia per il verbo che da esso dipende (potrei essermi rivolta). Sorvolo sulle sfumature (opinabili e personali) associabili a ciascuna opzione. In questo caso la sintassi sembra comunque molto involuta, per rendere la forte carica epistemica (ipotetica e di proiezione degli eventi nel futuro: ancora non è accaduto nulla di quello che si sta preventivando) del testo. Il fatto che si usi il passato (nel futuro) indica una sorta di proiezione: se tutto ciò accadesse/accadrà, io da adesso a quando (non) accadrà (nel frattempo), potrei decidere di rivolgermi a un legale. Quindi, se io mi rivolgo al legale adesso, quando la cosa accadrà io mi ci sarò già rivolto. Proprio per questo la prima soluzione (che enfatizza per l’appunto il passato nel futuro del verbo rivolgersi) mi pare più felice rispetto a avrei potuto rivolgermi, che invece mi sembra schiacciare il senso sull’irrealtà, cioè sul fatto che avrei potuto ma non l’ho fatto. Ma, come ripeto, sono sfumature molto sottili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.

Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.

La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?

 

RISPOSTA:

L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).

Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.

Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .

Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava,  è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).

Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se sia sempre errato inserire una virgola prima o dopo un complemento («Hai lasciato altre cose in macchina», «Qui, nevica», «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia», «Con il vocativo, ci va la virgola», «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania, ecc.), oppure prima del che («L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»).

Mentre sono certo che una frase del genere è agrammaticale: «Il gatto di Luca, è un persiano.», «È un persiano, il gatto di Luca.»

 

RISPOSTA:

L’uso della punteggiatura, poco sistematico nelle trattazioni grammaticali, risponde a una molteplicità di funzioni, almeno sintattiche, pragmatiche, testuali, espressive, stilistiche, mimetiche dell’intonazione.

Quindi in molti degli esempi da lei riportati la virgola può esserci, oppure no, a seconda del contesto e della sfumatura pragmatico-semantica da dare al testo. Vediamoli in dettaglio.

1) «Hai lasciato altre cose, in macchina»: la presenza della virgola prima di in macchina attribuisce al sintagma il valore di informazione condivisa, per esempio perché è stata già introdotta: so che sai di aver lasciato alcune cose in macchina, ma ti faccio notare che ne hai lasciato anche altre (in macchina).

2) «Qui, nevica»: efficace nei casi di contrasto: qui, nevica, mentre da te in Sicilia immagino ci sia un sole che spacca, beato te!

3) «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia»: la virgola prima di dall’Australia mette lui in relazione con qualcun altro che parte dall’Australia (per es. “Non saremo gli unici australiani alla riunione; domani parte anche lui, dall’Australia”).

4) «Con il vocativo, ci va la virgola»… mentre col soggetto no.

5) «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania»: la virgola attribuisce pari importanza a entrambe le proposizioni.

6) «L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»: con le relative la virgola ne segnala la natura esplicativa, anziché limitativa. Cioè, se c’è la virgola la relativa aggiunge un particolare accessorio, non determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa, come in: «La macchina, che può avere dei problemi, è di Luca»: c’è solo una macchina, che è di Luca e che può avere dei problemi; «La macchina che può avere dei problemi è di Luca»: ci sono almeno due macchine, una con problemi (e di Luca) e l’altra no.

7) «Il gatto di Luca, è un persiano»: mai separare il soggetto dal predicato con una virgola, a meno che non si voglia mettere in evidenza il soggetto, come in «È un persiano, il gatto di Luca», che va benissimo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».

«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.

Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?

 

RISPOSTA:

Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei bisogno di sciogliere questo dubbio:

1 Si sono cominciate a introdurre nuove regole.

2 Si è cominciato a introdurre nuove regole.

Sono entrambe frasi corrette?

 

RISPOSTA:

Sì, sono entrambe frasi corrette e significano la stessa cosa. La prima è costruita con il si passivante, e dunque letteralmente equivale a «Nuove regole hanno cominciato a essere introdotte». La seconda è costruita con il si impersonale: «Qualcuno ha cominciato a introdurre nuove regole». In Toscana quest’ultima frase avrebbe anche il significato di «Noi abbiamo cominciato a introdurre nuove regole».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla coniugazione del verbo mangiare.

Se dico parlando di me stesso: se pensi che (io) non mangi il dolce ti sbagli…

È corretto riferendomi a me stesso dire “non mangi” o bisogna dire “non mangio”?

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le forme. Non mangi è congiuntivo e costituisce dunque l’opzione più formale, in una subordinata completiva; non mangio è indicativo e costituisce dunque l’opzione meno formale ma comunque corretta.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

E’ giusto scrivere: “Quadri orario o quadri orari” , “Moduli orari o moduli orario”?
 

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le soluzioni, in italiano. L’una, più tradizionale (quadri orarimoduli orari), tratta il secondo termine come aggettivale e dunque lo accorda col sostantivo precedente, mentre l’altra (più sul modello inglese, e dunque forse meno apprezzata in uno stile più tradizionale) tratta orario come sostantivo con ellissi della preposizione reggente: cioè quadro orario = quadro dell’orario. I sintagmi con omissione della preposizione (come anche, ad es., monte ore), ancorché ammissibili, hanno spesso un sapore tra il tecnologico e il burocratico sgradito ai palati più raffinati e pertanto, se possibile, potrebbero essere utilmente sostituiti dai costrutti più tradizionali (quadri orarimoduli orarimonte orario ecc.).

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quando il verbo essere viene usato in una costruzione tipo il fatto è che, dato che essere è un verbo copulativo, non è possibile che la proposizione introdotta dal pronome che sia un’oggettiva, è vero? Il fatto diventa il predicato nominale? 
Prendiamo questo esempio: “Sono contento che sia andata così”. Qui abbiamo il verbo copulativo essereIo è il soggetto, giusto? Contento sembra un predicato nominale, giusto? La proposizione dopo il che non può essere una soggettiva anche se il verbo nella prima frase è essere: come mai? È a causa del predicato nomiale contento o a causa del soggetto io? O è qualcos’altro? 
Prendiamo questo esempio dal libro Il francese di Massimo Carlotto:

Si era convinto che quella bella ragazza non POSSEDESSE altro che il suo corpo (p. 9-10).
 
Sembra un’altra proposizione oggettiva (dopo che). Non riesco a capire come mai non è scritto “Si era convinto del fatto che quella bella ragazza non possedesse altro che il suo corpo”. Quale tipo di proposizione segue il che nella frase scritta da Carlotto?

 

RISPOSTA:

La copula non può reggere il complemento oggetto, quindi se la reggente è il fatto è o espressioni simili la subordinata è soggettiva. In effetti questa subordinata potrebbe rappresentare sia il soggetto del verbo essere (per esempio “Il fatto è che non voglio venire” = “Che non voglio venire è il fatto”), sia il completamento del predicato di cui fa parte il verbo essere (che non potremmo chiamare predicato nominale, visto che sarebbe formato dalla copula più un’intera proposizione); per semplicità, comunque, la consideriamo soggettiva (e in nessun caso oggettiva). Nella frase “Sono contento che sia andata così” la proposizione subordinata non può fare da soggetto del verbo essere: in questo caso il soggetto della reggente non può che essere io e il predicato nominale è sono contento. L’aggettivo contento può essere completato da un argomento preposizionale (che prende il nome di oggetto obliquo), per esempio sono contento del risultato, oppure da una proposizione argomentale (ovvero completiva) oggettiva. L’aggettivo convinto ha la stessa costruzione di contento: può reggere un argomento preposizionale (per esempio sono convinto della mia opinione) o una proposizione oggettiva, come nel suo esempio. Nella variante della frase sono convinto del fatto che… l’aggettivo convinto è completato dall’argomento preposizionale del fatto, il quale, a sua volta, regge una proposizione argomentale. Questa proposizione può essere classificata ancora come oggettiva, se consideriamo convinto che equivalente a convinto del fatto che, oppure (come farei io) dichiarativa, visto che è retta non da un verbo, ma dall’argomento di un verbo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette per quanto riguarda la punteggiatura e la grammatica:
– Quest’estate mi sono svegliato alle tre di mattina per andare a Linate; qui ho preso l’aereo che mi ha portato a Roma.
– Arrivati, siamo saliti su un pullman per andare in centro, dove siamo arrivati alle ore 15:00.
– La casa era poco spaziosa, però ci siamo arrangiati, perché stavamo tutto il tempo in spiaggia.
– Siamo andati in spiaggia: era vuota e il mare era calmo.
– Purtroppo di pomeriggio non c’era il problema delle meduse, ma quello dei turisti, perché arrivavano in tanti.
– L’ottavo giorno, che era il più importante, perché saremmo saliti sul vulcano.

 

RISPOSTA:

Sì, tutte le frasi sono perfettamente corrette, sia nella punteggiatura sia nella grammatica e nel lessico.
Naturalmente, come quasi sempre accade soprattutto con la punteggiatura, sarebbero possibili anche alternative diverse:
– Quest’estate mi sono svegliato alle tre di mattina per andare a Linate. Qui ho
preso l’aereo che mi ha portato a Roma
– Per evitare la ripetizione di arrivati, si potrebbe eliminare il primo: Siamo poi saliti su un pullman per andare in centro, dove siamo arrivati alle ore 15:00. O, ancora più agilmente: Siamo poi andati in centro in pullman. Siamo arrivati alle 15:00.
– Purtroppo di pomeriggio non c’era il problema delle meduse ma quello dei
turisti, perché arrivavano in tanti.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi una frase la cui correttezza mi è stata contestata a torto, secondo il mio parere: “Che sia la prima e l’ultima volta che vi permettete di agire in questo modo”. La frase corretta sarebbe: “Che
sia la prima e l’ultima volta che vi permettiate di agire in questo modo”.
Quest’ultima formulazione a me pare inaccettabile, comunque ci terrei molto a conoscere il vostro parere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Come giustamente dice lei, la sua frase è corretta e non richiede affatto la sostituzione dell’indicativo col congiuntivo, che è tuttavia possibile. Essa, oltre, come la solito, a innalzare il livello diafasico della frase, le conferisce un valore potenziale: “che vi permettiate”, nel senso di ‘qualora pensaste di potervelo permettere un’altra volta’… Dato il senso della frase, tuttavia, questa sfumatura potenziale è del tutto superflua, perché di fatto “ve lo siete già permesso”.
Insomma: la sua è la versione migliore della frase e chi gliel’ha corretta mostra di non avere le idee chiarissime sul funzionamento dell’indicativo e del congiuntivo in italiano.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

L’ambiguita’ fa parte della bellezza e della frustrazione della lingua italiana dato che la particella <>  puo’ indicare diverse cose. Lo sapevo gia’.
Per evitare questi malintesi, che cosa puo’ consigliarmi? Devo evitare questo uso di ci nelle frasi che le ho girato o devo cambiare i miei interlocutori (scherzo).
Questo tipo di cosa mi succede abbastanza frequentemente anche se provo a fare pratica con gli italiani colti.   A volte mi fa impazzire quando va cosi’.    Vuol dire che la lingua italiana debba essere semplificata?  Forse vuol dire che in questi giorni con la tecnologia, i bombardamenti delle informazioni, non c’e’ tempo per studiare bene la lingua italiana in Italia.  Ne sono molto curioso.
Questo tipo di cosa succede anche tra le madrelingue?   Immagino di si’ dato che la lingua e’ a volte ambigua.  Potrebbe fare un’ipotesi per spiegarmi come mai due dei miei interlocutori non mi abbiano fatto una domanda per farmi chiarire quello che volevo dire con la particella ci???
 

 

RISPOSTA:

Come dice lei, l’ambiguità fa parte di tutte le lingue naturali del mondo. Se così non fosse, ci vorrebbe una quantità infinita di segni (parole, frasi ecc.) per esprimere un rapporto univoco segno / significato, ma la memoria umana non è fato per gestire l’infinito, pertanto ci si deve rassegnare alla polisemia (cioè al fatto che uno stesso segno, parola, frase, abbiano più significati) e all’ambiguità. Ambiguità che peraltro 99 volte su cento il contesto e la collaborazione tra gli interlocutori contribuiscono a limitare. Proprio per questo i suoi interlocutori, in quanto parlanti nativi e attivi, cioè collaborativi, non hanno avuto alcun problema a disambiguare, grazie al contesto, il suo enunciato.
Di casi come questi ne troverà a miliardi, in tutte le lingue del mondo, e non sono un male, bensì un bene delle lingue. Appunto perché consentono di risparmiare le risorse della nostra limitata memoria. La polisemia non ha nulla a che vedere né con lo studio, né con l’imperizia dei parlanti, né con la decadenza, o la semplificazione, delle lingue. Comunque, tutte le lingue tendono alla semplificazione delle risorse.
Quindi dorma pure sonni tranquilli e confidi nella forza del contesto e nello spirito collaborativo dei suoi interlocutori.
Per quanto riguarda (tra i miliardi) altri esempi possibili di polisemia di ci, nei vari contesti, pensi anche a un verbo pronominale come tenerci, che può indicare sia ‘avere interesse per qualcuno o qualcosa’, sia ‘tenere in un luogo’:
1) (riferito a una scatola): ci tengo (nel senso di ‘mi piace molto’)
2) ci tengo le sigarette.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Pronome
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QUESITO:

Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato.  (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
 Le ho risposto:  Spero che tu CI abbia portato dei soldi.    
Intendevo “a Madrid” per CI.     E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano.  Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male.   E’ una questione del verbo?  E’ locuzione?  Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire).  Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”  
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?

 

RISPOSTA:

Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario. 
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Se si dice: “L’esame è andato abbastanza bene” vuol dire che è andato meglio o un po’ meno bene di quando si dice:  “L’esame è andato bene”?
È preferibile che il nostro esame vada bene o abbastanza bene?

 

RISPOSTA:

Il siciliano abbastanza non ha lo stesso significato dell’equivalente parola italiana. In italiano con abbastanza si indica di solito una quantità appena sufficiente, o di poco superiore alla sufficienza, cioè quanto basta, laddove il siciliano l’intende come quasi sinonimo di molto. Motivo per cui, se in Sicilia un esame passato abbastanza bene è lodevole, in italiano esso rappresenta un risultato mediocre. Insomma, in italiano è preferibile che l’esame vada bene, piuttosto che abbastanza bene.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se i verbi fraseologici e modali adottati negli esempi sotto indicati confliggano con le costruzioni nelle quali sono stati inseriti.

1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge.

 

RISPOSTA:

Non c’è un conflitto sintattico, bensì una ridondanza semantica, che invita a eliminare i modali e i fraseologici, in quanto il loro valore è già implicito nel sintagma reggente o nel contesto generale della frase:
1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa: è chiaro che lo spavento sia legato a qualcosa che viene vissuto come un obbligo. Quindi meglio: L’idea di affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti: è chiaro che il dono riguarda una abilità, una capacità, cioè il saper fare qualcosa. Quindi meglio: Il dono di dipingere [meglio ancora: il dono della pittura] viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara: se è una capacità, il senso del riuscire è implicito. Quindi meglio: La capacità di trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me: opportunità è sinonimo di possibilità, quindi poter è del tutto pleonastico. Meglio: L’opportunità di parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge: il pensiero, cioè la preoccupazione, è legato proprio alla necessità, quindi dover è del tutto pleonastico. Meglio: Il pensiero di lasciar perdere mi affligge.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

‘In questo letto si dormono sonni tranquilli’.
In questa frase è corretto dire che il “si” è passivante e non impersonale?
Il soggetto, infatti, è “sonni tranquilli” (= in questo letto vengono dormiti sonni tranquilli).

 

RISPOSTA:

Sì, il si in questo caso ha valore passivante. La forma attiva è il costrutto con oggetto interno: dormire sonno tranquilli, al passivo: sono dormiti sonno tranquilli, ovviamente del tutto innaturale e impossibile, in questa forma, in italiano. Come sempre, il confine tra il si passivante e il si impersonale è molto labile, dal momento che i costrutti passivi servono proprio, spesso, a mascherare il soggetto, cioè nel caso di espressioni impersonali, come in questo caso: chiunque (cioè un soggetto generico, impersonale) può dormire sogni tranquilli in questo letto.
In conclusione: è un si passivante con valore impersonale.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggendo una raccolta di indovinelli per adolescenti ho trovato questa frase:
Un re decide di offrire una grande somma di denaro al suddito che gli racconti una bugia “intelligente”.
Mi potreste spiegare il perché è stato usato il congiuntivo con il verbo raccontare?
 

RISPOSTA:

Il congiuntivo è qui necessario perché conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica che altrimenti, con l’indicativo, si perderebbe. Il congiuntivo non ha a che vedere con il verbo raccontare, bensì, per l’appunto, con la relativa. Se il verbo fosse al modo indicativo (che gli racconta una
bugia “intelligente”
), vorrebbe dire che il suddito effettivamente gli racconta una storia intelligente e il re lo paga. Invece il re ancora non ha pagato il suddito, perché ancora non sa se ne troverà uno in grado di raccontargli una storia da lui ritenuta “intelligente”. Ed è proprio questa incertezza (troverà un suddito? Saprà raccontargli una storia? Sarà la storia ritenuta intelligente dal re oppure no?) che viene espressa solo grazie al modo congiuntivo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Volevo chiedervi alcuni consigli per riformulare una frase che vorrei usare in due testi diversi. Io ho provato a riformularla, però non so se  possa risultare un tantino ripetitiva; perciò vi chiedo se posso riscriverla meglio. Inoltre volevo sapere se il termine suddetto e la locuzione [non so se sia giusto definirla così] di cui sopra possano essere utilizzati per far riferimento a quanto descritto in precedenza, o se fossero meglio altri termini, come sopra descritte sopracitate.

1a) Svolgi tutte le azioni di cui sopra in modo disinvolto e deciso, mostrandoti disinteressata e noncurante a tutto ciò che ti sta intorno.
1b) Esegui tutte le suddette azioni con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a tutto ciò che ti sta attorno.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi da lei proposte vanno bene, con preferenza per la seconda versione (con disinvoltura è sicuramente più agile, rispetto a in modo disinvolto). Sono però forse proprio quel suddetto e di cui sopra a renderle un po’ troppo burocratiche. Non si potrebbero eliminare? in fondo, se qualcosa è stato già detto non c’è bisogno di sottolinearlo: in quanto già detto, il lettore è in grado da sé di recuperarlo.
Propongo pertanto la seguente versione ulteriormente semplificata della frase:

Svolgi tutte le azioni [oppure: queste azioni] con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a ciò che ti sta attorno.

Ripeto: suddetto e di cui sopra (sì, è una locuzione aggettivale) sono corretti e vanno bene per esprimere qualcosa che è stato già detto in precedenza, ma si confanno meglio a uno stile burocratico che a uno medio, piano e narrativo. In quest’ultimo caso, possono essere omessi oppure sostituiti con locuzioni più agili quali “di cui abbiamo già parlato”, “di cui s’è già detto”, “già nominate”, “già descritte” e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua della burocrazia
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Su un bando di un concorso artistico ho letto il seguente passaggio:
“Elaborati con cui si sia partecipato a precedenti competizioni non sono ammessi dal presente regolamento”.
Quel si sia dovrebbe ricondursi a un uso impersonale e, se non sbaglio, come tale dovrebbe ammettere l’ausiliare essere.
Per prima cosa: la frase letta sul bando è costruita bene?
Poi: l’uso, in un esempio del genere, dell’ausiliare avere sarebbe stato un errore grave? Nelle costruzioni impersonali l’ausiliare è sempre e comunque essere?

 

RISPOSTA:

La frase da lei riportata è costruita bene. La costruzione impersonale con il pronome si richiede sempre l’ausiliare essere. L’ausiliare avere può emergere in produzioni molto trascurate di parlanti il cui dialetto prevede tale costruzione; essa va considerata scorretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La frase
a) “Si sarebbero voluti far guidare dal leader del partito”
è equivalente (e quindi corretta, anche se meno elegante) di
b) “Avrebbero voluto farsi guidare”
o
c) “Avrebbero voluto essere guidati”?

 

RISPOSTA:

La frase a) è semanticamente equivalente alla b), rispetto alla quale si distngue soltanto per l’anticipazione del pronome si, che provoca il cambiamento di ausiliare. L’anticipazione del pronome (o risalita del clitico) è effettivamente una scelta che abbassa leggermente la formalità della frase. La c) è anche molto simile alle altre due, ma la sostituzione di farsi guidare con essere guidati produce un cambiamento di significato: essere guidati è più neutrale di farsi guidare, che implica un maggiore grado di dipendenza del soggetto dalla guida.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se questa espressione è corretta: “È cominciata male ed è finita peggio”. È possibile anche dire: “Ha cominciato male ed ha finito peggio”? Istintivamente vedrei meglio la prima espressione se il soggetto sottinteso fosse una situazione, mentre vedrei meglio la seconda se il soggetto sottinteso fosse una persona.

 

RISPOSTA:

L’espressione cristallizzata è quella con l’ausiliare essere. L’altra variante non è scorretta, ma non ha il valore idiomatico proprio della prima e, inoltre, ha un significato leggermente diverso: è cominciata significa ‘ha avuto inizio’ e sottintende un soggetto come la cosala situazioneha cominciato significa ‘ha dato inizio’ e sottintende un soggetto animato, oltre che un complemento oggetto come la cosala situazione.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione salutamelo in sostituzione di salutalo a nome mio può essere considerata corretta anche in un linguaggio di registro alto o se va considerata come una espressione informale.

 

RISPOSTA:

Si suppone che in un contesto che richieda un registro alto gli interlocutori si diano del lei, quindi la variante più formale sarebbe lo saluti a nome mio, o persino la prego di porgergli i miei saluti, e così via. Salutalo a nome mio, quindi, si situa a metà strada tra soluzioni più articolate come queste e salutamelo, che è una scelta di media formalità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

vorrei proporvi queste tre parole: sollecitosolerte e alacre. Per quanto ne so io, sollecito alacre sono sinonimi di velocepronto nell’agire, quindi i termini sopracitati si riferiscono alla prontezza nell’agire e nulla dicono circa la qualità dell’azione, mentre solerte non ha a che fare con la velocità della risposta bensì con la qualità, l’accuratezza dell’azione. Se ciò fosse vero io potrei tranquillamente dire: “Costui ha agito con sollecitudine (o alacremente)” ma “Il lavoro svolto è di scarsa qualità (cioè non è svolto con solerzia)”. Mi capita sempre più spesso però di sentire che il termine solerte è usato come sinonimo di alacre sollecito.

 

RISPOSTA:

La semantica lessicale è l’ambito della lingua più difficile da fissare e più soggetto al cambiamento nel tempo. Un punto fermo nell’individuazione del significato di una parola è fornito dall’etimologia, che, però, deve essere valutata con cautela, proprio perché i significati cambiano nel tempo. Sollecito viene dal latino sollicitus, a sua volta composto di sollus ‘tutto’ e citus ‘agitato’. Questo aggettivo, in linea con la sua etimologia, indica una persona che agisce con velocità, ma anche con cura e diligenza, quindi che non sacrifica la qualità alla velocità. Può essere riferito anche a un’azione o un comportamento. Lo stesso costituente sollus è in solerte, unito ad ars ‘arte’: una persona solerte agisce a regola d’arte, rispettando tutte le regole previste, compresa la velocità di esecuzione; un’azione solerte, a sua volta, è compiuta velocemente e a regola d’arte. Come si può vedere, sollecito e solerte sono vicini nel significato; li distingue una sfumatura, che è quella individuata da lei: sollecito enfatizza l’aspetto della velocità (coerentemente con il costituente citus), mentre solerte quello della diligenza (coerentemente con ars). Alacre è dal latino alacer ‘allegro’, da cui proviene anche allegro, che ne è, quindi, l’allotropo popolare. Il dizionario GRADIT elenca, tra i sinonimi di questo aggettivo, sia solerte sia sollecito; anche questo, però, si distingue dagli altri per una sfumatura specifica: più che al modo di compiere un’azione, si riferisce all’atteggiamento, persino al carattere, di chi la compie. Alacre, insomma, è una persona dal carattere attivo, vivace, operativo, a prescindere dalla singola azione compiuta; non a caso, questo aggettivo, diversamente dagli altri due, non si può associare a un’azione, ma può solo riferirsi a una persona.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Gradirei sapere se è possibile usare i pronomi lui, lei, loro riferendoli a cose o ad animali. Mi suonerebbe piuttosto strano riferirmi ad un gatto usando il pronome esso (o essa  se fosse una gatta) o essi se si tratta di più animali. Lo stesso vale per animali considerati, più o meno a torto inferiori come, per esempio, gli scarafaggi. Così pure mi suonerebbe male parlare di un mobile usando il pronome esso anzichè lui o di più mobili servendomi del pronome essi anzichè usare loro.

RISPOSTA:

I pronomi esso, essa, essi, esse sono usati preferibilmente in riferimento a oggetti inanimati (anche se non è escluso l’uso riferito a esseri animati). Il caso degli animali è problematico, perchè gli animali sono esseri animati, ma generalmente considerati non come individui, bensì come “copie” dello stesso prototipo (per quanto questa convinzione sia discutibile). La scelta del pronome per gli animali, pertanto, è delegata alla sensibilità  del parlante, e non è soggetta a una regola precisa; spesso i parlanti sono indotti a usare lui, lei, loro in riferimento ad animali domestici, con i quali hanno un legame affettivo, e negli altri casi esso, essa, essi, esse, oppure questo ecc. o, quando possibile, nessun pronome o alternative al pronome, come la ripetizione del nome che definisce il genere dell’animale. Va anche detto che esso ;e varianti sono divenuti in generale rari in italiano, per cui in ogni caso i parlanti cercano modi per evitarli.
L’uso di esso e varianti in riferimento a mobili o altri oggetti inanimati non crea nessun problema, a parte, appunto, l’avversione per il pronome ormai raro, a cui vengono preferite sempre alternative come i pronomi dimostrativi, sintagmi nominali o l’omissione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Di che tipo sono le seguenti proposizioni introdotte da che, e come mai la prima è costruita con l’indicativo e la seconda con il congiuntivo?
(1) Il lato positivo è che è andata bene
(2) Ciò che conta è che io riesca a uscire di casa.  

 

RISPOSTA:

Le due proposizioni sono soggettive; possono essere interpretate, infatti, come il soggetto del verbo essere della reggente. La scelta del modo verbale in queste proposizioni, come anche nelle altre completive, è legata a ragioni prima di tutto stilistiche: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. Entrambe le proposizioni possono, infatti, essere costruite con l’indicativo e il congiuntivo: “Il lato positivo è che sia andata bene”; “Ciò che conta è che io riesco a uscire di casa”. Oltre alla ragione stilistica, altri fattori possono spingere a usare l’indicativo o il congiuntivo. Primo fra tutti è la cristallizzazione dell’uso, cioè l’abitudine dei parlanti di costruire una certa costruzione tipica sempre allo stesso modo: nella prima frase, per esempio, il lato positivo è che somiglia alla costruzione tipica è che o il fatto è che, che normalmente sono seguite dall’indicativo. Il congiuntivo, inoltre, può veicolare, in alcuni casi, una sfumatura di non fattualità, ovvero di eventualità, possibilità, incertezza: nella seconda frase, per esempio, che io riesco a uscire sarebbe facilmente interpretato come la constatazione del fatto che il parlante può effettivamente uscire; che io riesca a uscire, invece, sarebbe interpretato come la proiezione della possibilità nel futuro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono chiesta spesso se verbi come “aumentare“, “crescere“, “diminuire“ e simili si prestano alla formazioni delle costruzioni correlative.
Ecco due esempi:
“(Tanto) più la materia prima scarseggia, (quanto) più i prezzi al dettaglio crescono“.
“(Tanto) più l’inflazione aumenta, (quanto) più il potere d’acquisto diminuisce“.

 

RISPOSTA:

Sì, si prestano come tutti gli altri verbi, e le frasi da lei portate a esempio sono perfettamente costruite e adatte a tutti gli usi. Sicuramente le costruzioni correlative, specialmente se basate sulla contrapposizione (più A sale, più B scende) richiedono un certo sforzo cognitivo, per essere comprese. Sforzo cognitivo che oggi sembra creare problemi sempre maggiori nei lettori. Il problema, però, sta in quei lettori (o meglio, in un mondo che sembra relegare la lettura, lo studio e la riflessione agli ultimi posti e che pensa che ogni testo debba essere ipersemplificato, addomesticato, reso immediatamente digeribile senza alcuno sforzo, ovvero in una società che a forza di semplificare tutto quello che scrive giungerà presto a instupidire milioni, miliardi di lettori, scrittori, utenti delle lingue), non certo nella lingua italiana, né nei costrutti correlativi, né nel significato di certi verbi.
Mi scuso per la lunghezza della parentesi, volutamente lunga e complicata, per dimostrare come la semplicità non sia sempre un valore: la realtà, il mondo, le lingue sono fatti di pensieri complessi, che se troppo semplificati si svuotano di senso. Viva la complessità, in tutte le sue forme!

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Porto alla vostra attenzione il seguente testo:
“Sarebbero scattate le sanzioni, se si fossero superate le cinque infrazioni annuali del regolamento interno“.
Il si passivante è corretto? “Se si fossero superate“ equivale cioè a “se fossero state superate“? Quest’ultima forma sarebbe stata sostituibile all’altra, senza differenze di rilievo, nell’esempio menzionato?

 

RISPOSTA:

Sì, il si passivante è perfettamente corretto ed equivalente alla forma passiva, che in questo caso andrebbe ugualmente bene nell’esempio da lei fornito, senza scarti stilistici rilevanti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

E’ risaputo che l’imperativo di “dire” è di’( con l’apostrofo) in quanto ci troviamo di fronte al troncamento di “dici”. Questo “dici” da dove esce? È forse una espressione italiana arcaica?

 

RISPOSTA:

No, in italiano, di ieri e di oggi, l’imperativo del verbo dire, che deriva da dic (e non dice) latino, è sempre stato di’ (scritto con varie grafie, sebbene oggi l’unica standard sia quella apostrofata). Dunque dici NON è apocope dell’italiano dici, che non esiste (o quanto meno non è contemplato dal sistema verbale dell’italiano standard)! Dici, pure attestato in italiano (substandard) di ieri e di oggi può avere varie spiegazioni (ogni errore, o se preferisce ogni alternativa substandard, ha una sua spiegazione, cioè una sua regola, o più d’una):

  1. è un tratto dialettale: in Sicilia, molti, quasi tutti, dicono dici, come imperativo, perché c’è nel loro dialetto. Lo stesso dicasi per il napoletano. E’ insomma un tratto di italiano regionale.
  2. Può essere un’erronea ricostruzione della forma di’, avvertita come apocope da dici (che però, come già detto, non è apocope dall’italiano, bensì dal latino dic, che perde solo la c, non ce/ci, che non esistono).
  3. Erronea estensione analogica degli imperativi delle altre forme verbali: dunque dici come leggiprendi ecc., uguali alle seconde persone dell’indicativo.
  4. Dici può anche essere, in certi contesti, un’estensione dell’indicativo usato come imperativo (cioè il cosiddetto indicativo iussivo): “Ora la finisci e mi porti i compiti” (anziché “Finiscila e portami i compiti”). Ovviamente, se fosse questo il caso (per es. “ora mi dici tutta la verità”), dici non sarebbe un errore.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se l’affermazione “è invalso l’uso di dire ecc.” è corretta o meno. Controllando il significato di “invalso” ho notato che vuol dire “entrato nell’uso”, quindi l’affermazione suddetta dovrebbe essere ridondante.

 

RISPOSTA:

Sebbene il solo invalso (cioè ‘diffuso’) sia la forma più usata un tempo, oggi la locuzione “invalso nell’uso” (oppure “è invalso l’uso”) è talmente comune da potersi considerare a tutti gli effetti corretta e identica al solo invalso, come dimostrano autorevoli esempi facilmente reperibili online: lo stesso sito Treccani alterna, nelle varie opere lessicografiche, tra un uso (il primo, maggioritario) e l’altro (minoritario ma pure attestato).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

a) I negozi che sono vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.

Credo che entrambe le soluzioni siano corrette.

Vorrei sapere se rendendo la frase ellittica del primo predicato il parlante possa
comunque decidere quale soluzione adottare.

b) I negozi vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni vanno bene, e sono chiare, sia nella versione con verbo espresso, sia nella versione nominale, cioè priva di verbo.
Vicino a è locuzione preposizionale costruita con l’avverbio (come tale invariabile) vicino + la preposizione a.
Vicini è invece l’aggettivo (e come tale flesso) costruito con la preposizione a (ovvero un aggettivo che richiede un argomento preposizionale). Non c’è alcun motivo per preferire l’una costruzione all’altra.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Da giorni mi tormenta l’analisi di questo periodo:
“Quanto più egli ha fatto al di là del proprio merito, tanto più è ritenuto degno
di ammirazione”.
È corretto dire che si tratta di due principale legati dalla correlazione “quanto
più… tanto più “?
 

 

RISPOSTA:

Sì, sono due proposizioni coordinate dalla coppia di congiunzioni correlative quantotanto.

Fabio Rossi 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la seguente frase è corretta: “Io penso che, in quel caso, lui lo aspetterebbe fintantoché non fosse ritornato”. Mi riferisco in particolare a quel “fosse ritornato”.

 

RISPOSTA:

Sì, è corretta, ma sono possibili anche altre alternative, tutte parimenti corrette: “fintantochè non ritornasse”; “fintantochè non sarebbe ritornato”. 

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se può essere corretta l’espressione “avrebbe voluto andare” al posto dell’usuale “sarebbe voluto andare”.

 

RISPOSTA:

Sì, è corretta, perché nei costrutti di infinito dipendente da verbo servile la grammatica italiana prevede la doppia possibilità: o si usa l’ausiliare del servile (avere voluto), oppure quello del verbo all’infinito (essere andato).

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

a) “Bisogna sempre impegnarsi, sia che si tratti di lavoro, sia che si tratti di
occupazioni extralavorative.“

Per snellire la parte correlativa della frase, mi sono venute in mente alcune
soluzioni, che vorrei proporvi per una valutazione.

b) “Bisogna sempre impegnarsi, che si tratti di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“
c) “Bisogna sempre impegnarsi, che si tratti (o) di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“
d) “Bisogna sempre impegnarsi, sia che si tratti di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“

Le soluzioni sono tutte accettabili, considerando anche quella originaria? Quale
consigliereste per uno scritto formale? E infine, a proposito dell’esempio numero
due, la prima congiunzione è preferibile specificarla oppure ometterla?

 

RISPOSTA:

Le soluzioni vanno tutte bene, tranne la d): è sconsigliabile alterare la serie correlativa sia… sia… o sia… che… utilizzando un’atra congiunzione (o).
Per quanto riguarda la c), essa è preferibile nella versione senza la prima o, perché la o è in certo qual modo pleonastica, visto che il senso della correlazione è introdotto già da “che si tratti”.
In conclusione, in uno scritto formale vanno bene la a), la b), la c1, senza particolari predilezioni. 

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

il mio dubbio riguarda una frase del tipo: “Tutti quelli che si fossero schierati
dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze”. Potrebbe
essere riscritta utilizzando il condizionale anche nel gruppo del soggetto?
(“Tutti quelli che si sarebbero schierati dalla sua parte, sarebbero andati
incontro a terribili conseguenze”)
Se sì, sarebbero entrambe valide e corrette? Una sarebbe preferibile all’altra?

 

RISPOSTA:

Il condizionale da lei proposto è al limite dell’inaccettabilità in quanto la frase è come se fosse un periodo ipotetico: Se si fossero (e non sarebbero!) schierati dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze. Diverso il caso di una frase costituita da un’unica proposizione: Si sarebbero schierati dalla sua parte. In quest’ultima caso, infatti, il condizionale passato indica il valore potenziale o di futuro nel passato (sappiamo che sarebbe successo questo). Questa carica potenziale, però, non può occultare la sintassi che, in caso di periodo ipotetico (o di strutture analoghe, come quella da lei proposta), impone il congiuntivo, e non il condizionale, in protasi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

vorrei riallacciarmi a una frase inviata qualche settimana fa ´´L’otto febbraio
era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Come mi avete spiegato, il contesto è passato.
Ma se invece le due riunioni non fossero ancora avvenute e se fossimo ad esempio
ai primi di gennaio, il pensiero generale sarebbe: ´´chiunque parteciperà
(partecipi/partecipasse) alla riunione del 23 gennaio, sa che ci sarà anche quella
dell´otto febbraio´´
Sarebbe allora possibile scrivere così:
La riunione dell’otto febbraio è(sará/sarebbe) prevedibile da chiunque
assisterà(assisti/assista/assistesse/assisterebbe) alla seduta del ventitré
gennaio.
Per esprimere, invece, il futuro nel passato andrebbe bene la seguente frase?
´´La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile da chiunque avrebbe
(avesse) assistito alla seduta del ventitré gennaio´´.

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalle prime alternative proposte nella domanda. L’unica versione totalmente corretta, rispettosa cioè delle regole della consecutio temporum, è la seguente: La riunione … è prevedibile da chiunque assista (oppure assisterà) …
Sulle altre si può osservare: assisti non è italiano (è cioè un errore di italiano popolare). Sará prevedibile può andare ma è inutile (se è prevedibile è ovvio che è un evento non ancora avvenuto).  Sarebbe prevedibile è inutile (sempre perché la carica eventuale è già inclusa nell’aggettivo prevedibile).
Assistesse non va bene perché non è un rapporto di contemporaneità nel passato. Assisterebbe è scorretto perché la frase dipendente qui richiede il congiuntivo, come se fosse un periodo ipotetico: se assistesse all’incontro…
Passiamo all’ultima frase. Visto che il 23 gennaio è prima dell’8 febbraio, in questo caso si tratta di anteriorità, non di posteriorità, quindi la scelta corretta è: La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile [solo questo è il futuro nel passato] da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Gli chiese di darle delle lezioni, ma lui preferì “dirottarla” verso un altro insegnante”. La mia domanda è: quel dirottarla, posto fra virgolette, è da considerarsi corretto oppure no? 
 

 

RISPOSTA:

Dirottare ha, come accezione metaforica, proprio quella di “convogliare in altra direzione”, quindi va benissimo usarlo senza virgolette, dal momento che si tratta di un uso perfettamente italiano. L’uso delle virgolette, ancorché un po’ ingenuo, non è però da considerarsi scorretto, per segnalare ulteriormente questo scarto semantico rispetto al significato meno figurato.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se l’espressione “credo che Dio esiste” in sostituzione di “credo che Dio esista” (che ritengo esatta) è corretta o meno. Nel primo caso (“credo che Dio esiste”)quel “credo” non ha il significato di “suppongo”, ma quello di “sono fermamente convinto” e quindi mi sembrerebbe che anche questa via espressiva possa essere accettata.

 

RISPOSTA:

Su questo problema del congiuntivo/indicativo in dipendenza da credo, e anche sull’esempio specifico, può leggere un libro che dirime la questione in modo chiaro: S. C. Sgroi, Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet, 2013. In breve: l’indicativo può sempre sostituirsi al congiuntivo, in italiano. La differenza non risiede nel valore di dubitatività del congiuntivo, rispetto a quello di certezza dell’indicativo, bensì nel maggior grado di formalità del congiuntivo rispetto all’indicativo.
Quindi credo che Dio esiste/a sono entrambe frasi corrette e non hanno nulla a che vedere con l’ipotesi o la certezza. Nel senso che il verbo credere può valere tanto ‘essere sicuri’, quanto ‘ipotizzare’ indipendentemente dal modo verbale che segue, ma solo in base al contesto.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

  • Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.

 

La lettura di questa frase all’interno di un romanzo, mi ha lasciato alquanto perplessa. 

È corretta o l’autore/traduttore ha preso un abbaglio?

 

Mi è venuto spontaneo formulare due composizioni alternative, che vorrei sottoporre al vostro vaglio.

 

  • Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.

  • Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne compiuti trenta da qualche giorno.

 

Mi rendo conto che quest’ultima alternativa potrebbe risultare un po’ “pesante“, ma sarebbe grammaticalmente accettabile?

 

RISPOSTA:

Nessuno degli esempi riportati è corretto. Le uniche versioni corrette sono le seguenti:

Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne compiuti trenta da qualche giorno.

Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuti trenta da qualche giorno.

In italiano infatti il passato di compiere è ho compiuto, non certo ho avuto compiuto/i.
Per lo stesso motivo, le alternative corrette delle frasi da lei proposte sono le seguenti:

  • Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne compiuti (o averne avuti) trenta da qualche giorno.

  • Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne (o compierne) trenta da qualche giorno.

    Le ultime due frasi sono comunque troppo faticose (soprattutto la seconda, che, con quel condizionale passato riferito a potere sembra escludere, contraddittoriamente, l’ipotesi dei trent’anni): per esprimere l’eventualità del fatto (cioè l’ipotesi sull’età della sorella), basta o il verbo potere o il condizionale passato, non c’è bisogno di usarli entrambi (il troppo stroppia).
    Il motivo dell’errore di avere avuto compiuti in luogo di avere compiuti (nessun errore è immotivato e ogni errore segue sue proprie regole) può essere duplice:
    1) lo/la scrivente si confonde tra due possibili costrutti, che combina erroneamente: A) ho trent’anni / B) ho compiuto trent’anni. La confusione è incoraggiata dalla sintassi complessa data dalla formulazione di un’ipotesi fatta su un evento del passato.
    2) lo/la scrivente è siciliano/a e dunque tende a preferire costrutti sintetici col participio passato che ritiene italiani mentre invece sono solo regionali. Per es. molti siciliani (quasi tutti) sono persuasi che “come vuoi cucinata la carne”, o “che cosa vuoi regalato per il compleanno” sia costrutti italiani, mentre invece sono validi soltanto in alcune aree regionali. In italiano si dice: “come vuoi che cucini la pasta” e “che cosa vuoi che ti regali (o per/come regalo) per il compleanno”.

    Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi introdotte da “non è un caso che“ si possono costruire anche con il modo indicativo? Personalmente, ho sempre e soltanto adoperato il congiuntivo, ma effettuando una consultazione in rete, ho riscontrato che l’indicativo spopola, anche in seno ad autori di indubbia fama.

Vorrei inoltre domandarvi se questo sintagma accetta tutti i tempi del congiuntivo, oppure se sussistano delle limitazioni d’uso.

  • Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.

  • Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.

  • Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.

A proposito di quest’ultimo esempio, quale dei due tempi è da preferire? Potrebbero essere ammessi entrambi?

 

RISPOSTA:

Come quasi sempre accade in italiano, le ragioni per preferire il congiuntivo all’indicativo solo esclusivamente di tipo diafasico, non sintattico. Detto in parole più semplici: l’indicativo al posto del congiuntivo va quasi sempre bene, fin dalle origini dell’italiano, solo che conferisce al testo un livello di formalità più basso rispetto al congiuntivo. Pertanto, in tutti i suoi esempi retti da non è un caso che (o se) va bene anche l’indicativo, che è però più informale.
Le regole della consecutio temporum sono sempre le stesse: presente per contemporaneità nel presente tra le due proposizioni, imperfetto per contemporaneità nel passato, passato per anteriorità dipendente dal presente, trapassato per anteriorità dipendente dal passato. Questo a rigore, anche se poi in questo come in altri casi è ammessa una certa flessibilità, data anche dalla reggente che di fatto si comporta quasi come un avverbio o un complemento (si è cioè quasi grammaticalizzata: non è un caso che/se = non a caso).
Veniamo ora al commento dei suoi casi specifici uno per uno.

  • Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.

    Come già detto, risieda rappresenta la scelta più formale, risiede quella meno formale ma altrettanto corretta.

  • Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.

    parlasse formale, parlava informale. Per quanto riguarda il tempo verbale, l’imperfetto in questo caso non si motiva per la contemporaneità nel passato, visto che siamo qui in regime di anteriorità in dipendenza dal presente, bensì dalla natura continuativa, e non puntuale dell’azione: lo parlava abitualmente, non una volta soltanto. Infatti se usassimo il passato (abbia parlato / ha parlato) il senso della frase cambierebbe: lo ha parlato una sola volta, in un momento specifico.

  • Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.

    Meglio abbia sconfessato (anteriorità, in dipendenza dal presente: non è un caso), ma avesse sconfessato non può dirsi scorretto. Il trapassato (sia indicativo sia congiuntivo) oggi sempre più spesso può sostituirsi al passato, per motivi non semplicissimi da individuare.

    Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Sei talmente ingenuo che non ti accorgeresti di essere in una dittatura, nemmeno quando, appeso a testa in giù, CREDERESTI di avere il cielo sotto i tuoi piedi” quando può reggere il condizionale o era indispensabile CREDESSI?

 

RISPOSTA:

Nella sua frase quando equivale a se, quindi introduce una proposizione ipotetica. Tale proposizione rifiuta il condizionale, in quanto esprime la condizione al cui avverarsi un altro evento avviene, mentre il condizionale esprime proprio l’evento condizionato.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

È corretto scrivere fuori dal o fuori del?

 

RISPOSTA:

La forma comune è fuori dal (e fuori dallodalla ecc.); fuori di si usa soltanto in alcune espressioni cristallizzate, nelle quali non si mette l’articolo, come fuori di casa e fuori di testa (ed equivalenti, come fuori di zuccadi melone ecc.). Con gli avverbi di luogo quiqua sono possibili sia fuori da sia fuori di.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Avverbio, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quale fra queste due espressioni è quella corretta (oppure se lo sono entrambe): “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” oppure “Se io volessi che tu lo faccia”.

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe. A rigore, secondo la consecutio temporum, sarebbe migliore “Se io volessi che tu lo faccia”, dal momento che si suppone che il rapporto tra l’azione del volere e quella del fare sia di contemporaneità nel presente. Il fatto che ci sia l’imperfetto congiuntivo in volessi non ha a che vedere col tempo dell’azione bensì con la sua eventualità.
Tuttavia anche “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” non può dirsi scorretto. Infatti, benché l’imperfetto congiuntivo serva di norma a indicare la contemporaneità nel passato, in dipendenza dal verbo volere (se quest’ultimo è usato al condizionale) si preferisce di solito l’imperfetto, piuttosto che il presente, congiuntivo: “vorrei che tu lo facessi”, meglio di “vorrei che tu lo faccia”. Ne ha parlato Luca Serianni e più di un quesito di DICO è dedicato a questo fenomeno. Dato che nel suo caso l’eventualità del verbo volere non può essere resa dal condizionale (perché ci troviamo in protasi di periodo ipotetico), essa si esplica comunque col congiuntivo, dal quale dunque, trattandosi del verbo volere, può in questo caso dipendere l’imperfetto, anziché il presente, benché ci si stia riferendo al presente.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Ha tanta generosità il padre, quanto attaccamento al denaro (hanno) i figli.”
La costruzione è ben impostata? Il secondo verbo (hanno) è facoltativo, quindi a discrezione dello scrivente, è suggerito specificarlo, o è addirittura preferibile ometterlo?
 

 

RISPOSTA:

L’ellissi verbale è sempre ammessa, in italiano, quando la costruzione non generi alcun equivoco, e in questo caso (reggente + subordinata comparativa di uguaglianza) non ne genera.
Non vi sono motivi evidenti, in questo caso, per preferire la forma con ellissi a quella con verbo espresso, o viceversa, se non il gusto personale.
Senza dubbio, però, la frase potrebbe essere espressa anche in molti altri modi, qualcuno dei quali anche più lineare, come per esempio: “La generosità del padre è pari all’attaccamento al denaro dei (o da parte dei) figli”. Oppure: “Il padre è tanto generoso quanto i figli sono attaccati al denaro”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Volevo sapere quale delle seguenti frasi è scritta meglio dal punto di vista interpuntivo. So benissimo che non ci sono regole ferree nella punteggiatura, però volevo un vostro consiglio su quale delle due fosse migliore, come pure conoscere la differenza fra entrambe. Inoltre desideravo sapere se nei rispettivi casi fosse meglio usare il corsivo oppure le virgolette, nonché se fosse necessaria la maiuscola per il testo tra gli apici o quello scritto in corsivo. Se poi conoscete un modo migliore per formulare la frase, non esitate a suggerirmelo. 

Ecco le seguenti frasi:

1) Quando hai effettuato la ricarica postepay inviami la foto della ricevuta, con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com

2) Quando hai effettuato la ricarica postepay, inviami la foto della ricevuta con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi da Lei proposte vanno bene.
Nello specifico: la virgola dopo una subordinata premessa alla reggente (Quando hai effettuato la ricarica postepay,) si può mettere, ma non è mai obbligatoria. Anche la virgola prima del complemento (, con su scritto…) si può mettere o no.
In generale, la presenza delle virgole (entrambe quelle segnalate) ha come risultato quello di dare maggiore rilievo semantico, in certo qual modo maggiore autonomia, alle due componenti separate dalla virgola stessa.
Quanto all’alternativa virgolette/corsivo, decisamente meglio le virgolette, dal momento che si tratta di una citazione diretta della frase scritta o da scrivere. Il corsivo, comunque, non sarebbe del tutto errato, dal momento che segnalerebbe, metalinguisticamente, l’oggetto della citazione.
Quanto all’iniziale maiuscola o minuscola all’interno della citazione, anche in questo caso entrambe le soluzioni sarebbero accettabili: di solito si preferisce la minuscola quando la citazione è integrata sintatticamente alla frase citante (per es.: la frase “scrivi il tuo nome” è corretta), la maiuscola quando la frase citata è sintatticamente autonoma dal contesto (come nel suo caso, dopo i due punti). Un’altra ratio è quella filologica: cioè si usa la minuscola o la maiuscola a seconda che nell’originale citato (o nell’esempio fornito) vi sia, o debba esservi, la minuscola o la maiuscola.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In quali casi è corretto il SE con il condizionale?
Es. ‘Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere’ è corretta?
Come si chiama, in questo periodo, la subordinata introdotta dal SE?

 

RISPOSTA:

Di norma, se + condizionale si usa nelle interrogative indirette per esprimere un rapporto di posteriorità, cioè quando l’oggetto della domanda è futuro rispetto alla richiesta. Per es.: “Mi chiedo se mi daresti una mano”; Mi chiedevo se mi avresti dato una mano”.
In rari casi il condizionale dopo se si può usare anche nelle ipotetiche, come quella da lei segnalata, che però, di fatto, sembra un’ipotetica ma in realtà è un avversativa:
“Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”, che in uno stile più formale sarebbe espressa con mentre: “Mentre potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
In questo caso (cioè in una ipotetica con valore di avversativa), l’imperfetto congiuntivo (cioè il tempo e il modo corretti se fosse stata un’ipotetica pura) sarebbe scorretto:
*”Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
Se fosse un’ipotetica pura sarebbe per es. così:
“Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, probabilmente lo faremmo”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo

Marco non era a casa
Marco non c’era a casa

Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?

 

RISPOSTA:

“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Volevo sapere se la frase che segue è corretta. Se solo saprei farlo!!!

 

RISPOSTA:

No. L’espressione del desiderio (cioè il valore ottativo) in questo caso si esprime con Se + l’imperfetto congiuntivo: “Se solo sapessi farlo!”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione “vuoto a perdere” può essere usata come sinonimo di “cosa inutile”, “cosa che non serve più”. Io l’ho sempre usata in questo senso, ma ho letto recentemente che il significato corretto è “cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo”. Il significato che ho finora dato  io al termine può essere accettato oppure no?

 

RISPOSTA:

Il significato con cui usa lei l’espressione è quello corrente e va benissimo. Per comprenderlo, bisogna pensare a una vecchia abitudine italiana (io me la ricordo ancora, e ho 55 anni). Essa prevedeva che, in casi di liquidi acquistati in bottiglie di vetro, si potesse optare per due soluzioni: 1) restituire la bottiglia al venditore, avendone indietro una piccola somma di denaro (soluzione detta “vuoto a rendere”); 2) non restituire la bottiglia e dunque non avere indietro alcuna somma di denaro (soluzione detta “vuoto a perdere”). Poteva capitare che i vuoti a perdere (donde il significato metaforico di ‘cosa che non serve a niente’, visto che il vuoto a perdere non comportava alcuna restituzione di denaro) si accumulassero e che ci si trovasse nella fastidiosa condizione di non riuscire a disfarsene, o comunque doversi scomodare per disfarsene, a differenza di quelli a rendere che venivano prontamente restituiti al venditore, col duplice vantaggio del denaro e dello smaltimento. In virtù di quest’ultima considerazione, è anche possibile usare l’espressione nella seconda accezione metaforica da lei segnalata, cioè ‘cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo’, che però non scalza, semmai direi rafforza, la prima: una cosa talmente inutile da diventare un fastidioso accumulo, che alla fine risulta difficile anche da smaltire e che si finisce dunque per lasciare lì a far ingombro e sporco.
Insomma, la metafora è in ogni caso altamente spregiativa, come si può ben vedere nelle varie attestazioni presenti in Google libri e nella magnifica canzone di Noemi Vuoto a perdere (2011).

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Propongo questa frase: “Qualora ciò dovesse accadere, per la presenza di un fanatico che agisce (o agisse?) in modo sconsiderato, sarebbero guai”. A me sembra più corretto dire agisse perché, nell’ambito dell’ipotesi (l’esistenza del fanatico), l’azione sconsiderata non è del tutto scontata. Comunque, non essendo certo di ciò, ci terrei a conoscere il suo parere al riguardo.
 

 

RISPOSTA:

Sono possibili sia agisce sia agisse. Il presente indica semplicemente che il fanatico agisce nel presente (con una proiezione nel futuro). Si può anche sostituire l’indicativo con il congiuntivo agisca, che eleva il registro. L’imperfetto agisse ha un significato ambiguo: può avere valore temporale o può dipendere dall’attrazione dell’imperfetto dovesse della proposizione reggente. Nel primo caso esso indica che il fanatico agiva nel passato; nel secondo caso si riferisce al presente e assume la stessa sfumatura ipotetica di dovesse. La prima interpretazione è un po’ forzata, considerando la costruzione di tutta la frase: se il fanatico agiva nel passato, è preferibile descrivere questa situazione con l’indicativo imperfetto (… per la presenza di un fanatico che agiva in modo sconsiderato…).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti frasi si accorda o no il participio passato con il pronome diretto?

Frase 1:
Il senso dell’umorismo lo ha aiutato  (lui)

Frase 2:
L’ironia lo  ha aiutato    o
L’ironia lo ha aiutata? (lui)
 

RISPOSTA:

Il participio passato si accorda, in questo caso, con il pronome, che esprime il complemento oggetto: dunque, essendo maschile, l’unica forma corretta è al maschile. Se ci fosse “la” come pronome, allora il participio andrebbe al femminile: L’ironia la ha (o l’ha) aiutata (cioè lei, per es. Giulia).
Di norma, il participio passato nei verbi composti o non si accorda (è cioè al maschile indistinto): ti ho scritto una lettera. Oppure si accorda con l’oggetto se è transitivo attivo (l’ho salutata), con il soggetto se è intransitivo (Giulia è andata) oppure transitivo passivo (Giulia è stata promossa).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta la frase “non so se sarei capace di farlo”?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta: la proposizione se sarei capace di farlo è una interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro richiesto dall’occasione comunicativa.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta la frase “Temo che per le 20 di oggi non abbiano ancora finito i lavori”, oppure dovrei dire “temo che per le 20 di oggi non FINIRANNO / FINISCANO i lavori”?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti vanno bene: finiscano è quella più formale. Il congiuntivo passato può essere usato per descrivere un evento futuro perché il momento evocato per il termine dei lavori (le 20 di oggi) viene considerato il punto rispetto al quale i lavori sono o non sono finiti come se il parlante immaginasse di osservare la fine dei lavori da quel momento. Con l’indicativo futuro anteriore, pure possibile (“Temo che per le 20 di oggi non avranno ancora finito i lavori”), il parlante osserverebbe la fine dei lavori dal momento in cui parla (quindi la considererebbe futura), ma rispetto al momento evocato (quindi anteriore).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Avrei paura che tu lo liquidi con poche, asciutte parole”, “Non te lo confesserei, perché avrei paura che tu ne risentissi”.
In questi due passaggi narrativi, i relativi autori hanno compiuto scelte diverse. Muovendo dall’articolo 2800821 dell’archivio delle domande incluso nel vostro sito, deduco che entrambi i tempi siano ammessi.
Una volta mi pare di aver letto – non ricordo se in rete o in una pubblicazione cartacea – un passaggio costruito invece con il condizionale del verbo potere.
È possibile che per una frase iniziante per avrei paura che, o per predicati ascrivibili al medesimo concetto, la scelta sintattica abbracci in linea teorica tre soluzioni?
1. Avrei paura che tu possa fallire.
2. Avrei paura che tu potessi fallire.
3. Avrei paura che tu potresti fallire.
È inoltre possibile – domando ancora – che i servili, in particolare potere, facilitino l’introduzione del modo condizionale in una subordinata normalmente incline al congiuntivo?
Al mio orecchio, linguisticamente imperfetto, la frase numero 3 suona meglio rispetto a un’ipotetica
4. Avrei paura che tu falliresti.

 

RISPOSTA:

Le frasi con la completiva al condizionale sono ugualmente problematiche: non ci sono regole che vietino questa costruzione (e comunque la presenza del verbo servile non è rilevante), ma essa è comunque sfavorita, probabilmente perché la coppia formata dalla reggente al condizionale presente e dalla completiva al congiuntivo è assimilata al periodo ipotetico con apodosi al condizionale presente e protasi al congiuntivo quasi sempre imperfetto. Lo stesso motivo potrebbe essere alla base della preferenza del congiuntivo imperfetto nella completiva retta da una proposizione al condizionale presente, laddove la consecutio temporum richiede il congiuntivo presente. Eviterei la costruzione della completiva al condizionale, tranne nel caso in cui quest’ultima è a sua volta l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio: “Avrei paura che tu falliresti / potresti fallire se ci provassi”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

(1) C’è un modo per controllare se le informazioni scritte sul sito per i DVD sono siano sbagliate?
Il congiuntivo presente viene anche accettato? Qual è la ragione grammaticale se siano viene accettato?

(2) E come spiegare che un Nero su cinque abbia votato Trump? (Rampini, Fermare Pechino, p. 269).
È una proposta soggettiva e questa è la ragione per cui il congiuntivo va bene nella proposizione principale? È uguale a E come si spiega che

 

RISPOSTA:

Nella prima frase vanno bene sia l’indicativo sia il congiuntivo; il secondo è la soluzione più formale. Nella seconda frase nella principale non c’è un congiuntivo ma un infinito (spiegare). La presenza dell’infinito si spiega con l’omissione del verbo servile potereE come si può spiegare…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho ascoltato in TV la seguente frase:
“Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che sarà stato comunicato l’esito del voto”.
La frase è corretta?
Il congiuntivo passato non sarebbe stato più indicato? E inoltre, il congiuntivo imperfetto avrebbe potuto essere parimenti ammesso?
 

 

RISPOSTA:

Nella frase si scontrano due prospettive diverse, quella ipotetica della vittoria e quella fattuale della comunicazione dell’esito; da qui la doppia costruzione, con il congiuntivo e l’indicativo, che non è sbagliata, per quanto risulti sgradevole. Addirittura, è possibile anche sostituire il futuro anteriore con il passato prossimo: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che è stato comunicato l’esito del voto”. Il passato prossimo, infatti, può indicare un momento precedente a un altro momento futuro. In alternativa, si può costruire anche la temporale con il congiuntivo imperfetto (non trapassato), attratto nella sfera della proposizione ipotetica: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che fosse comunicato l’esito del voto”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Propongo questa frase: “Oggi sto bene, a differenza di ieri che avevo 38 di temperatura”. Quel che può essere accettato o è indispensabile sostituirlo con quando

 

RISPOSTA:

Si tratta di un che polivalente (sul quale può leggere la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO), molto frequente nella varietà di lingua usata comunemente nel parlato e nello scritto informale. In una frase come questa, quindi, è accettabilissimo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto questa frase e vorrei approfondire l´uso dei verbi in presenza di un pronome indefinito.
“L’otto febbraio era prevedibile da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Mi stavo chiedendo quale sarebbe il significato assunto dal congiuntivo trapassato, forse di evento passato ipotetico ed eventuale?
Se invece dicessi da chiunque aveva assistito, l´evento é passato è avvenuto?
Potrei anche usare il condizionale passato (da chiunque avrebbe assistito) per esprimere il futuro nel passato? Sarebbero possibili altri tempi?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni relative introdotte da pronomi indefiniti reggono preferibilmente il congiuntivo; l’indicativo, però, è corretto: “L’otto febbraio era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”. La differenza tra le due forme è che l’indicativo è meno formale: il significato delle frasi rimane uguale. Il condizionale passato non può essere usato in questa relativa, perché il ventitré gennaio precede l’otto febbraio, quindi non si giustifica la posteriorità rispetto al passato. La struttura standard della proposizione non ammette altre forme verbali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Non capisco in che senso l’aggettivo stesso indicherebbe identità tra due cose: “Io e mia fratello abbiamo lo stesso prof di matematica”… il prof è uno solo, quindi perché si parla di identità?

 

RISPOSTA:

L’identità si ricava per inferenza: il professore del primo fratello coincide con il professore del secondo fratello.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase seguente:
“A proposito di quello che si insegna nelle aule di medicina e CHE né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano esserne a conoscenza”
ovviamente sarebbe stato meglio scrivere di cui al posto di che: ma è proprio sbagliato?

 

RISPOSTA:

Nella frase il pronome relativo indiretto è sostituito dalla forma base che; la funzione sintattica persa a causa della sostituzione è recuperata inserendo il secondo pronome, ne, nel corpo della frase (esserne). La variante standard, quindi, richiede in cui al posto di che e essere al posto di esserne…e di cui né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano essere a conoscenza.  
Costruzioni come questa sono sempre più comuni nell’italiano contemporaneo (la persona che te ne ho parlato = di cui ti ho parlatola festa che non ci sono andato = alla quale non sono andatoil collega che ci ho pranzato insieme ieri = con cui / insieme a cui ho pranzato ieri ecc.), favorite dal vantaggio di usare i pronomi che e tutti quelli personali, ad alta funzionalità, quindi più facili da ricordare e scegliere correttamente per i parlanti, al posto delle forme indirette del pronome relativo, a bassa funzionalità, quindi più complicate. Non solo non sono previste dallo standard, ma comportano un uso dei pronomi contrario alle regole della sintassi; per questo sono da considerarsi trascurate e da evitare in contesti anche di media formalità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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QUESITO:

Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?

 

RISPOSTA:

Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Secondo gli schemi della consecutio, una proposizione (oggettiva) introdotta dal condizionale presente ammette, sulla scorta della sfera di certezza o di incertezza-soggettività del verbo introduttore, tanto l’indicativo quanto il congiuntivo quanto il condizionale: “Crederei che potrebbe farcela”.
Eccettuati tutti quei predicati indicanti volontà, desiderio e simili che, come tutti sappiamo, richiedono il congiuntivo imperfetto nella subordinata (“Vorrei che fosse già inverno”); negli altri casi, la scelta tra il congiuntivo e il condizionale è libera dal punto di vista sintattico, oppure il modo che introduce la subordinata alle volte “condiziona“ quello di quest’ultima?
Anche se lui provasse, penso che non ce la farebbe.
Anche se lui provasse, penserei che non ce la faccia.
Parto da tali esempi perché, per risalire una volta per tutte dal particolare al generale e cogliere la regola, se esistente, ero giunto alla conclusione che, al di là delle differenze semantiche, entrambi i modi fossero ammessi dalla sintassi. Ma poi mi sono imbattuto nella frase, contenuta nel vostro archivio, “Penso che
non ce la faccia, anche se provasse”, giudicata scorretta, e sono di nuovo sprofondato nel caos. La proposizione che non ce la faccia non dipende direttamente dalla principale penso, a prescindere dalla concessiva? Secondo la consecutio, una subordinata dipendente da un indicativo presente non può essere costruita con un congiuntivo presente, oltreché con un altro indicativo?
In presenza di una ipotetica e di una concessiva, anche sottintese, il condizionale è l’unico modo possibile, come spiegato a proposito dell’ultimo vostro esempio? Quando il verbo della reggente indica volontà o desiderio questo non avviene:
Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole.
Per concludere, al solo scopo di sgomberare il campo dai dubbi sopraccitati, apprezzerei se poteste cortesemente indicarmi, tra gli esempi riepilogati in elenco (in parte già segnalati), quelli scorretti.
1) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini possano protestare.
2) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini potrebbero protestare.
3) Anche se provassi, penserei che non ce la faccia.
4) Anche se provassi, penserei che non ce la farebbe.
5) Anche se provassi, penso che non ce la faccia.
6) Anche se provassi, penso che non ce la farebbe.

 

RISPOSTA:

Tanto nella frase “Penso che non ce la faccia” quanto in “Penserei che non ce la faccia” la subordinata oggettiva che non ce la faccia è legittima, quindi il suo ragionamento tiene: in dipendenza da un indicativo e da un condizionale è ammesso il congiuntivo. Se, però, l’oggettiva diviene la reggente di una proposizione condizionale o concessiva costruita con il congiuntivo (come nel caso della frase “Penso che non ce la faccia anche se provasse”) la situazione cambia e ci aspettiamo che sia costruita al condizionale. In una frase con più subordinate, insomma, la costruzione delle singole proposizioni può dipendere dall’incrocio di più reggenze. Si noti che nella risposta “Penso che userei il condizionale se…” dell’archivio (a cui lei fa riferimento) la frase è etichettata come ingiustificata, non scorretta: in ragione della presenza della proposizione concessiva al congiuntivo imperfetto “ci si aspetta” il condizionale presente. 
Tra tutte le frasi che porta come esempi e controesempi (sia “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole” sia quelle numerate da 1 a 6) non sono pertinenti, perché in esse la conseguenza della condizione concessiva è descritta nella proposizione che regge l’oggettiva, non dall’oggettiva. In “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole”, per esempio, la conseguenza dell’eventualità che non andiamo in ferie è che vorrei (che succedesse qualcosa); allo stesso modo, se ballassimo tutta la notte avrei paura (l’oggetto della paura è indipendente dalla condizione) ecc. Nella frase “Penso che non ce la farebbe anche se provasse”, invece, la condizione eventuale anche se provasse origina la conseguenza non ce la farebbe, descritta nell’oggettiva.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Due amiche si incontrano di domenica. Una vuole organizzare una festa per il sabato seguente e l’altra le confermerà la sua partecipazione o meno il giorno dopo, dicendole: “Te lo dirò domani, se verrò o meno alla tua festa”. Purtroppo non dice nulla il lunedì. Si incontrano poi il martedì e viene pronunciata questa frase: “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere ieri se saresti venuta sabato alla festa”.   

Potrebbe essere corretta? Oppure sarebbero preferibili altri tempi verbali? Per esempio “Mi hai detto che me lo avresti fatto sapere ieri se vieni / venivi / verrai / fossi venuta sabato alla festa”.

In aggiunta, sono corrette queste altre frasi?

Te lo avrei detto, se sarei venuta o meno.

Te lo avrei detto, se fossi venuta o meno

 

RISPOSTA:

La frase “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato saresti venuta alla festa” è corretta (anche se un po’ complicata). In questa frase la proposizione se sabato saresti venuta alla festa è una interrogativa indiretta; questo tipo di proposizione richiede il condizionale passato se descrive un evento successivo a un altro evento passato, proprio come in questa frase. Anche la proposizione che lunedì me lo avresti fatto sapere ha la stessa caratteristica, e infatti è correttamente costruita con il condizionale passato. Quindi: Domenica mi hai detto [= dire è un evento passato] che lunedì me lo avresti fatto sapere [= fare sapere è un evento successivo a dire, ma è comunque passato] se sabato saresti venuta alla festa [= venire è un evento successivo a fare sapere]. Il condizionale passato può essere sostituito dall’indicativo imperfetto (non dal futuro verrai né dal congiuntivo trapassato fossi venuta): “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato venivi alla festa”; e persino “Domenica mi hai detto che lunedì me lo facevi sapere, se sabato venivi alla festa”. Per scegliere se usare l’indicativo imperfetto o il condizionale passato bisogna considerare che il significato della frase rimane uguale con entrambe le forme verbali, ma l’indicativo imperfetto è più informale, cioè adatto a contesti privati. Aggiungo che la frase così costruita indica che se saresti venuta alla festa è un argomento già toccato in precedenza nella conversazione, perché è anticipato dal pronome lo. Se, invece, le due amiche si sono appena incontrate, quindi non hanno ancora parlato dell’argomento, la frase sarà costruita così: “Domenica mi hai detto che lunedì mi [non me lo] avresti fatto sapere se sabato saresti venuta alla festa”.

Per quanto riguarda le ultime due frasi, la prima è analoga a quella che abbiamo commentato adesso, quindi è corretta alle stesse condizioni. La seconda è anche corretta, ma ha un significato diverso: in questo caso la proposizione introdotta da se non è una interrogativa indiretta, ma una ipotetica e indica che la persona non è andata alla festa (che è già passata) e che, se fosse andata, avrebbe avvisato.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto il periodo sotto indicato e vorrei sapere se l’uso del trapassato nella frase introdotta da da quando è corretto.
“Da quando il quartiere era finito sotto il controllo della microcriminalità, i residenti si erano organizzati in un comitato a favore della legalità urbana”.
Non potendo, per ragioni pratiche, riportare altri elementi del contesto, segnalo, a margine, che ho estrapolato il passaggio da un testo scritto prevalentemente al passato remoto. L’autore, per indicare anteriorità, ha costruito vari periodi al trapassato.
Fino ad oggi mi sono sempre imbattuta nel passato prossimo dopo il sintagma da quando.

 

RISPOSTA:

La scelta del tempo verbale dipende in pochissimi casi dalla congiunzione che introduce la subordinata. Per esempio, una proposizione introdotta da da quando può difficilmente avere l’indicativo presente. Per il resto, la scelta del tempo dipende da due coordinate testuali: il collocamente dell’evento sull’asse del tempo (passato, presente, futuro) e il rapporto tra il tempo dell’evento descritto e quello dell’evento della proposizione reggente (precedenza, contemporaneità, posteriorità). Queste due coordinate si intrecciano in vario modo, producendo di volta in volta risultati diversi (per un approfondimento può fare una ricerca nell’archivio di DICO con le chiavi consecutio temporum e tempo verbale). Nel caso specifico, l’evento del finire non solo è passato, ma è anche precedente rispetto a un altro evento, quello dell’organizzarsi, a sua volta passato (più precisamente trapassato, ma ai fini di questa analisi questo dettaglio non importa). Per descrivere un evento precedente a un altro evento passato si usa (tranne che in casi speciali) proprio il trapassato. Per quanto riguarda la scelta tra il trapassato prossimo e il remoto va ricordato che quest’ultimo è divenuto raro nell’italiano contemporaneo e viene quasi sempre sostituito dal primo. Il trapassato remoto, inoltre, veicola una sfumatura di momentaneità, per via della costruzione con il passato remoto dell’ausiliare, non adatta a questa frase, nella quale l’evento del finire sotto il controllo è percepito come un processo svoltosi in un certo lasso di tempo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei chiedere una precisazione sull’analisi grammaticale dei nomi astratti. È corretto in analisi grammaticale scrivere… “nome astratto, individuale”? Esempio: tristezza = nome comune di cosa, astratto, individuale etc.
Individuale è solo per i nomi concreti, giusto?

 

RISPOSTA:

I nomi individuali sono tutti quelli che si riferiscono a un singolo individuo di qualsiasi categoria; sono, quindi, tutti i nomi che non sono collettivi. Stando alla definizione, quindi, anche i nomi astratti possono essere distinti in individuali e collettivi. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Volevo sapere se nella seguente frase fosse corretto l’uso di esternarmi, o se è meglio usare esternare

In sostanza: non ti fai problemi a esternarmi il tuo lato rustico e primitivo.

 

RISPOSTA:

Esternarmi, che si distingue da esternare perché ha il pronome mi integrato (esternarmi = esternare a me), è corretto. Alternative pure valide sono manifestarmimostrarmirivelarmisvelarmi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità”. Le due virgole che delimitano l’inciso (oltre alla sua competenza professionale) è preferibile porle oppure no? Mi faccio questa domanda perché, tolto l’inciso, la frase dovrebbe mantenere una sua scorrevolezza, ma, in questo caso, ciò non accade (ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità). Quell’anche non ci sta, acquista un senso solo In dipendenza al contenuto dell’inciso. In definitiva, in questo caso, le virgole vanno poste oppure no?

 

RISPOSTA:

Il sintagma va messo tra virgole; è, infatti, un’espansione e può, pertanto, prendere molte posizioni (purché, appunto, racchiusa tra virgole): 
Oltre alla sua competenza professionale, ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità, oltre alla sua competenza professionale.
Chiaramente, anche è inserito perché si suppone che l’espansione ci sia, qualsiasi posizione essa prenda: bisogna, quindi, distinguere il piano sintattico, sul quale la frase “Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità” è corretta, da quello semantico, sul quale la stessa frase è leggermente strana proprio perché privata di un pezzo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?

 

RISPOSTA:

Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Ho ottenuto una coppia del libro consigliato per l’imperfetto e ho letto un po’.  In particolare penso di aver trovato un altro esempio del imperfetto epistemico nel libro Fermare Pechino da Federico Rampini. Volevo
chiederle se ho capito bene:
P.104
<<A qualcuno è andata molto peggio. Fang Fang forse è stata protetta dalla sua
fama letteraria. Per aver scritto cose simili sconta quattro anni di carcere Zhang
Zhan, una reporter le cui cronache da Wuhan sono state accusate di <<seminare
zizania e disordini>>.  Zhang Zan ha 37 anni. Di formazione avvocato, ERA una di
quelle figure sempre più rare in Cina…….>>
Dato che è ancora viva, anche se è adesso in carcere, era qui viene considerato
l’uso epistemico dell’imperfetto?  Se fosse morta, verrebbe usato è stata una….
No?
Potrebbe farmi qualche altro esempio con il verbo essere con l’uso dell’imperfetto
epistemico senza un avverbio temporale come domani (che riferisce al futuro)?

 

RISPOSTA:

L’esempio da Lei riportato non è un uso epistemico, bensì un normale uso temporale-aspettuale dell’imperfetto per esprimere una condizione nel passato. D’accordo, è ancora viva, però si suppone che dal carcere non eserciti più, e dunque “era” ecc. va benissimo sia per persona morta, sia per persona viva, ma non più nelle condizioni di prima. Se fosse morta, si sarebbero potuti usare anche “è stata”, “fu”, meno bene anche “era stata”, che invece, nel caso specifico (di persona viva ma non più in determinate condizioni) non sarebbero molto appropriati. Come comprende, si tratta di sfumature sottilissime, e dunque non c’è un giusto/sbagliato, in questi casi, bensì un più o meno naturale, più o meno appropriato ecc. Come al solito al lingua procede per sfumature e per gradi piuttosto che per salti bruschi e rigide dicotomie.
L’uso epistemico di un verbo (non importa se essere o altro verbo), per essere tale, deve esprimere l’idea o della possibilità, dell’ipotesi, del dubbio, o comunque della non perfetta aderenza al tempo comunemente espresso. Quindi, nel caso dell’imperfetto, sono epistemici sia gli usi potenziali sia quelli controfattuali riferiti al futuro.
Un esempio del primo tipo: “se venivi con me era meglio”, che in uno stile più formale sarebbe: “se fossi venuto con me sarebbe stato meglio”.
Un esempio del secondo tipo: “Ma non era martedì?”, che può essere detto sia oggi, se non ricordo che giorno sia, sia in riferimento al futuro, per es. tra due giorni, se pensavo che avessimo un impegno martedì prossimo, ma non ne sono sicuro e sto chiedendo conferma. Oppure, analogamente, “Ma non era Ralph”? Oppure, per riprendere il suo esempio: “Ma  Zhang Zhan non era ancora viva?”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi sarebbe gradito sapere se queste due frasi possono essere considerate corrette dal punto di vista sintattico:1)”Se io credessi che tu fossi pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu fossi pazzo”. Ovviamente il problema che mi interessa riguarda il “se io credessi che tu fossi” e “crederei che tu fossi”.

 

RISPOSTA:

Secondo la consecutio temporum, dal presente (indicativo o condizionale che sia) dipende un tempo presente e non l’imperfetto (che indica invece più spesso la contemporaneità nel passato, meno spesso l’anteriorità). Quindi: credo/crederei che sia; credevo che fosse. La deroga è con il verbo volere, che proietta l’aspettativa al passato e dunque richiede preferibilmente l’imperfetto congiuntivo piuttosto che il presente: “vorrei che fosse”, piuttosto che “vorrei che sia”. In base a questa regola, le sue frasi vanno riformulate col presente congiuntivo piuttosto che con l’imperfetto: 1)”Se io
credessi che tu sia pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu sia pazzo”. Infatti, lo crederei adesso, e non nel passato. Certamente, per il passato sarebbe più opportuno fossi stato sia stato, ma anche fossi sarebbe possibile, pertanto, a scanso di equivoci, per fare capire che l’importante per me è che tu non sia pazzo adesso, e non che lo fossi, poniamo, anni fa, è meglio usare il congiuntivo presente.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Come già chiarito in passato, nonostante alle scuole mi abbiano insegnato che
quando si dal del Lei ad una persona si accorda al femminile (es. “Signor Verdi la
vedo stanca), Lei mi ha insegnato che al giorno d’oggi è consentito l’accordo al
maschile anche quando si da del Lei (es. “Signor Verdi La vedo stanco)…
Io sono d’accordo con Lei e la ringrazio per questo suo chiarimento, tuttavia
alcuni insegnanti di lettere miei amici dicono che accordare al maschile “la vedo
stanco” sia errato.
Ribadisco che invece io sono d’accordo con Lei.
Cosa ne pensa di questi insegnanti?
Volevo porLe una domanda ancora:
dando appunto del Lei ad una persona di sesso maschile, si dice “Signor Verdi
l’avrei chiamata o l’avrei chiamato?”

 

RISPOSTA:

Come giustamente ricorda Lei, sebbene l’accordo grammaticale richieda il femminile con l’allocutivo di cortesia Lei, l’italiano comune prevede che, per gli aggettivi connessi a un destinatario maschile, si violi l’accordo preferendo il maschile al femminile. Tuttavia questo non può accadere per l’accordo del participio passato, dal momento che l’accordo al maschile lascerebbe intendere, erroneamente, che ci si riferisse, non deitticamente, a qualcuno diverso dall’allocutario. Infatti, nell’esempio da Lei fornito, “Signor Verdi l’avrei chiamata” è l’unica forma corretta per rivolgersi all’uomo cui ci si sta rivolgendo, laddove, invece, “l’avrei chiamato” si riferirebbe ad altro uomo esterno alla conversazione. Naturalmente, in caso di allocutaria, il fraintendimento rimane, sebbene nel contesto dialogico l’interpretazione preferenziale sia sempre quella del riferimento alla persona cui si sta dando del Lei: “Signora l’avrei chiamata”. Ovviamente sarebbe la stessa forma anche se il “chiamata” si riferisse ad altra persona: “L’avrei chiamata, sua figlia”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho scritto un altro testo dei miei e desideravo ricevere consigli in
merito alla ripresa pronominale. In particolar modo, volevo sapere quale
pronome dimostrativo fosse corretto fra *questo* e *quell*o e *lo stesso. *Io
sarei più propenso per gli ultimi due, visto che l’ultimo sintagma non è
naso, bensì* l’interno.* In più, volevo sapere se fosse corretta la
perifrasi [non so se sia giusto definirla così]* fai finta per qualche
minuto di voler infilarmici dentro. *Per quanto riguarda la punteggiatura,
volevo sapere se fosse corretta la virgola prima di *dicendomi. *Se, poi,
avete ulteriori suggerimenti in merito all’interpunzione, sarò felice di
accettarli.

“Nonostante ciò non demordi, e finalmente, dopo diversi sforzi, riesci a
catturarmi: una volta che mi hai acciuffato mi porti un’altra volta a
pochissima distanza dal tuo viso, facendomi osservare bene il tuo naso
gigantesco e, in particolar modo, l’interno di quello. Oltre a ciò, fai
finta per qualche minuto di voler infilarmici dentro. Infine – dopo avermi
stuzzicato abbastanza – ti rivolgi a me in modo minaccioso, prepotente,
deciso e sprezzante, dicendomi che non ho alcuna via di scampo e che non
posso più fuggire dalle tue grinfie”.

 

RISPOSTA:

Tutte le scelte sono corrette, sia la perifrasi, sia la virgola (che separa la subordinata gerundiva dalla reggente) sia quello, meglio del pesante e burocratico stesso. In realtà, il testo potrebbe essere alleggerito, dal momento che certe precisazioni lo rendono un po’ prolisso: è ovvio che l’interno sia del naso, di che altro potrebbe essere? Anche i quattro aggettivi di seguito sono decisamente troppi e inutili: la prepotenza e la decisione sono inclusi nella minaccia e nell’atteggiamento sprezzante.
Eccone una possibile scrittura alleggerita e più adatta alla narrativa:
Nonostante ciò non demordi, e finalmente, con fatica, riesci a catturarmi: dopo avermi acciuffato mi porti un’altra volta a pochissima distanza dal tuo naso gigantesco, facendomene vedere bene l’interno. Poi fai finta per qualche minuto di voler infilarmici dentro. Infine – dopo avermi stuzzicato abbastanza – ti rivolgi a me con tono minaccioso e sprezzante, dicendomi che non ho alcuna via di scampo e che non posso più fuggire dalle tue grinfie. 

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei un chiarimento circa un tema che avete già discusso. Spero di non indurvi
a spiegazioni che io non abbia assimilato a dovere.
Si tratta di come esprimere l’anteriorità rispetto a un’azione costruita con il
condizionale presente.
Prendiamo ad esempio il periodo “Se l’interrogato confermasse questa versione,
vorrebbe dire che, nel marzo dell’anno scorso, quando ha parlato per la prima
volta, ti…“

Secondo me le scelte possibili sono tre (più una sulla quale si concentrano i
dubbi maggiori):
1. Ha mentito
2. Mentì
3. Aveva mentito

Suppongo che la numero tre sarebbe corretta se ci fosse un momento temporale
intermedio; il trapassato “aveva mentito“ sarebbe così anteriore non soltanto al
condizionale della principale, ma anche a tale riferimento.

L’ultima soluzione è quella costruita con il condizionale composto. Se non
sbaglio, in almeno uno dei vostri articoli si segnala che questo tempo può essere
considerato corretto, dal punto di vista sintattico.
Mi domando se la sua correttezza sia comunque connessa con la dipendenza da una
proposizione – ipotetica o concessiva – anche sottintesa.
4.1 (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
4.2 (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
Oppure il tempo resterebbe valido a prescindere, senza nessuna protasi di sorta,
indicando semplicemente un passato rispetto al condizionale presente?

 

RISPOSTA:

Si tratta di sfumature sottili, spesso tutte corrette, come le tre che elenca lei, tutte possibili, dal momento che esprimono l’anteriorità. Poco conta che vi sia il condizionale, e che sia una apodosi di periodo ipotetico. Quel che conta è il rapporto di anteriorità, qui reso più complicato dalla “proiezione” del verbo di dire (“vuol dire che”…) e dallo stesso periodo ipotetico.
Va meno bene il passato remoto (che poco si presta a contesti di dipendenza da altri verbi che non siano il presente o lo stesso passato remoto), mentre vanno molto bene sia il passato prossimo, sia il trapassato prossimo. Quest’ultimo, come lei intuisce, è reso possibile dalla presenza di un contesto all’imperfetto (“se confermasse”), che però è prodotto dal periodo ipotetico e non tanto dal riferimento al passato. Comunque, ripeto, sia il passato prossimo sia il trapassato vanno bene in questo caso.
Più complesso il suo secondo quesito, per mancanza di un contesto più ampio. In generale, si può quasi sempre, in contesti ipotetici con il condizionale passato (a meno che il condizionale passato non serva a esprimere un futuro nel passato: “mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato”), ricavare una protasi sottintesa, anche se non occorre farlo per forza:
– (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
– (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
La ricostruzione da lei proposta va bene, ma sono possibili anche altri contesti quali: “è stato sempre sincero con te ma poi, dopo due anni, ti avrebbe mentito”. Certo, volendo anche qui è possibile una protasi sottintesa (per esempio: “se non vi foste lasciati”), ma non necessariamente. Qui infatti il contesto è a metà strada tra l’ipotetico e il futuro nel passato: stiamo parlando di eventi accaduti nel passato, in cui sia l’essere stato sincero, sia l’aver poi mentito si sono verificati nel passato rispetto al momento in cui vengono riportati. E posso, per l’appunto, dire, in quel contesto. “Poi dopo due anni ti avrebbe comunque mentito”.
Però, se il contesto è quello di sopra, cioè delle prime tre frasi, allora sì, in quel caso (assai faticoso, e dubito che nessuno formulerebbe mai un periodo così artificioso), soltanto se fi fosse una protasi sarebbe ammissibile il condizionale passato, altrimenti impossibile.
In linea di massima, il giochino del “è possibile o no?” è poco produttivo, nelle lingue, perché la risposta è quasi sempre “certo che è possibile”, data l’infinita duttilità di lingue altamente strutturate come l’italiano. Più produttivo, piuttosto che questo ozioso gioco di ipotesi più o meno peregrine e innaturali, è invece commentare casi reali, effettivamente raccolti nell’uso vivo, meglio orale che scritto. Raramente ciò che si coglie nell’uso vivo dei parlanti nativi può dirsi “sbagliato”, nel senso di “non previsto dal sistema linguistico di riferimento”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Il mio dubbio riguarda il verbo riapparire alla terza persona singolare del passato remoto.
Infatti, in luogo dei correntemente usati riapparve/riapparse, vorrei poter usare anche riapparì, che in certi casi mi suona più gradevole. Sarebbe un errore oppure è ammissibile?

 

RISPOSTA:

Decisamente troppo desueto, letterario, al punto da risultare errato, se usato fuori contesto (cioè fuor di letteratura volutamente arcaizzante).
Delle tre forme di passato remoto di apparire l’unica comune, e dunque l’unica consigliabile, è apparve, come suggerisce lo Zingarelli, mentre apparì è marcato come letterario e apparse come raro.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo avere una consulenza sui seguenti due termini : “pavido” e “affabile”.
Nello specifico volevo sapere se entrambi i termini  possano essere usati nella stessa frase per esprimere un concetto di senso compiuto. Ad esempio, potrebbe essere corretto scrivere la frase: “Giorgio ha dimostrato,
col suo comportamento, tutta la sua natura pavida e affabile”.

 

RISPOSTA:

La risposta secca è “no, non possono stare insieme perché esprimono concetti quasi opposti, dunque possono semmai essere coordinati da una opposizione (è pavido e non affabile), ma non da una coordinazione affermativa”.
Però la lingua, si sa, è bella perché varia e riesce a esprimere quasi tutto e il contrario di tutto; dunque, per motivi espressivi, si potrebbe trovare anche il modo di giustificare un’accoppiata così insolita: io sono uno che si spaventa di tutto e di tutti (pavido), e dunque, pur di non mettermi nessuno contro, faccio sempre il simpatico e il disponibile con tutti (affabile). 
In quest’ultimo caso, però, affabile non è il termine più appropriato: chi è pavido (che più o meno sta per vile, vigliacco, eccessivamente timoroso ecc.), infatti, è anche molto timido, introverso, e dunque ha la qualità opposta all’affabilità. Invece il termine che esprime il non volersi mettere contro nessuno non è tanto affabile, quanto accondiscendente, con i sinonimi compiacente e conciliante.

Fabio Rossi

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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Una commentatrice mi ha contestato la costruzione di una frase tramite l’estensore del seguente articolo:
«“Ancora una volta XXX NON perde occasione per tacere e fare un uso sconsiderato e violento dei social network – afferma YYY –”… che dovrebbe, prima, imparare l’italiano (Non per difendere XXX, ma la nostra lingua)».
Faccio osservare alla commentatrice che:
«Non capisco se ti riferisci al NON, visto che l’hai evidenziato:
“La negazione espletiva (o fraseologica) è in linguistica la comparsa facoltativa di un elemento con valore di negazione (ad esempio, l’italiano non), senza che cambi il significato della frase. Si parla anche di negazione pleonastica, dato che la presenza della negazione è ritenuta superflua (pleonastica) o giustificata al più da considerazioni stilistiche.”. O trattasi di altro?».
Al che lei ribatte:
«Trattasi del fatto che, col non, il concetto assume proprio il significato opposto.
Avrebbero dovuto scrivere perde l’occasione di tacere o non perde l’occasione di fare un uso sconsiderato etc etc. I due concetti sono in antitesi. Il primo è considerato positivo e il secondo negativo, ma li hanno accorpati nella stessa frase usando lo stesso verbo. OK?». 
Per me ci sono due questioni. La prima è che quel NON può essere considerato una negazione pleonastica o espletiva, per cui …NON perde occasione per tacere… ha lo stesso valore di … perde l’occasione di tacere…; la seconda è che le frasi non sono affatto in antitesi, in quanto nella seconda …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sottesa la stessa condizione che ha definito la prima, ovvero e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network.
Infatti, di nuovo faccio osservare che:
«E infatti avevo intuito giusto. Quel NON non è una negazione vera e propria, ma un accorgimento stilistico che non cambia il senso della frase, come ho evidenziato nella citazione riportata. Frase che resta sempre del valore di perde l’occasione di tacere. Inoltre, se nel primo concetto, cioè perde occasione per tacere è stato specificato il NON, nel secondo …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sotteso, per cui diventa …(NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network. Insomma, il comun denominatore è NON perde occasione…, i concetti a cui si riferisce sono per tacere… e …  (di) fare uso…».
A giustificazione, porto gli esempi della Treccani:
“Non sono propriamente negative le frasi comparative, esclamative e temporali, nelle quali il non (soggetto a frequenti oscillazioni nell’uso) è solo espletivo, cioè riempitivo e opzionale:
a. è più furbo di quanto non pensassi
b. quante sciocchezze non ha detto!
c. l’ho aspettato finché non è arrivato”.
Ora, anche se la frase imputata, a mio avviso, potrebbe rientrare benissimo nella categoria del caso “b.” riportato da Treccani, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutrice, Le chiedo: abbiamo a che fare o no con una negazione espletiva?

 

RISPOSTA:

La commentatrice ha ragione: il non nella sua frase non è pleonastico, ma ha pieno valore sintattico. Lo dimostrano due rilievi: 1. se lo eliminiamo la frase passa a significare l’opposto (mentre se eliminiamo un non pleonastico la frase continua ad avere lo stesso significato); 2. come lei stesso argomenta, il non ha pieno valore in relazione al secondo verbo (non perde occasione per fare un uso sconsiderato…): ha, quindi, necessariamente lo stesso valore proprio nel primo caso (non perde occasione per tacere). Non è possibile, insomma, che il non abbia, all’interno della stessa costruzione duplicata (non perde occasione), prima un valore e poi un altro. La frase corretta potrebbe prendere due strade: negare due azioni valorialmente negative, per esempio così: “Ancora una volta XXX non perde l’occasione per parlare a sproposito e fare un uso sconsiderato e violento dei social network”; affermare due azioni valorialmente positive, per esempio così: “Ancora una volta XXX perde l’occasione per tacere e per fare un uso moderato e pacifico dei social network” (soluzione sicuramente meno incisiva).
Si noti che nella riscrittura ho sostituito l’espressione perdere occasione con perdere l’occasione, perché la variante senza articolo è adatta a descrivere comportamenti in modo generico (non perde mai occasione per fare una battuta), mentre qui si parla di un evento specifico, per quanto inserito nel quadro di un comportamento.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Coerenza, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei esporvi queste frasi :1) Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi 2) Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi. Sono corrette queste frasi? È possibile anche dire: (nella prima) fintanto che non sarebbe stato già tardi e (nella seconda ) fintanto che non sarebbe già tardi?
 

RISPOSTA:

La 1 è corretta: “Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi”. Funzionerebbe anche, sebbene meno, con “non fosse già tardi”. La 2 (“Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi”) va abbastanza bene, ma pare funzionare meglio nella versione con “sia”, in quanto “fosse” potrebbe lasciar supporre che tutta l’azione fosse al passato (come la 1). “Fintanto che non sarebbe stato già tardi” funziona (visto che tutto è proiettato nel futuro), anche se il giro sintattico è talmente involuto da risultare al limite dell’accettabilità. Anche “fintanto che non sarebbe già tardi” non può dirsi scorretta, dal momento che è sempre in gioco l’elemento della probabilità (espresso dal condizionale), ma vale l’osservazione appena fatta: per quale gusto perverso bisognerebbe comporre un enunciato così involuto e innaturale? Soltanto per mettere alla prova i limiti della consecutio temporum et modorum? La quantità di sfumature possibili in questi esempi è dovuta al fatto che si incrociano due diverse sfumature sintattiche e semantiche: quella espressa dalla temporale (fintanto che) e quella del periodo ipotetico sotteso all’espressione: “può anche attendere ma se attendesse sarebbe già tardi” e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale  ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?

 

RISPOSTA:

Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o compratauna casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.  

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle due costruzioni riportate, è preferibile il congiuntivo o l’indicativo, oppure, anche in questi casi, la scelta è libera?
– Le confermo che le cose sono/siano andate così.
– Lei davvero mi conferma che le cose sono/siano andate così?

 

RISPOSTA:

Ancorché tendenzialmente più formale, come al solito, la scelta del congiuntivo, in questi casi, è al limite dell’inaccettabile, dal momento che un verbo come confermo, soprattutto nella prima frase, preferisce di gran lunga l’indicativo (la seconda, essendo interrogativa, mette in dubbio la certezza della conferma): “Ti confermo che hanno vinto la partita”. Sarebbe davvero strano “Ti confermo che abbiano vinto la partita”, anche se non scorretto.

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Vorrei inoltrarvi due quesiti.
Il primo di questi riguarda la negazione “né”.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato negli uffici, né (che) abbia subito modifiche.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né (che) sia stata presentata ad altri uffici?
– Senza essere stato nominato né aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere?
Le tre costruzioni sono corrette dal punto di vista sintattico? I “che” indicati tra parentesi nelle prime due sono consigliati, errati o a discrezione dello scrivente?

 

RISPOSTA:

 significa letteralmente ‘e non’, quindi si può usare soltanto in frasi che richiederebbero, se non coordinate, un non inziale. Senza non equivale a non, sebbene esprima, ovviamente, l’idea negativa della privazione. Dunque se a senso, e nell’italiano informale, le alternative da lei proposte sono accettabili, non lo sono a rigore secondo l’italiano atteso in un testo formale. Eccone le possibili riscritture, che tengono conto anche della richiesta sull’uso di che e di altri fattori.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato prima negli uffici e senza che abbia subito modifiche. In questo caso andrebbe aggiunto un prima, forse: se la notizia può essere diffusa, come potrebbe non circolare? Inoltre, l’intera frase è davvero molto faticosa (anche a causa di quel sia circolato, che tra l’altro andrebbe preferibilmente cambiato in abbia circolato). Eccone una possibile variante più elegante, più chiara e meno burocratica: La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana; prima di allora, non potrà circolare negli uffici né essere modificata.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né [il che non si ripete quasi mai, in coordinazione a precedente proposizione con che] sia stata presentata ad altri uffici (oppure: e che non sia stata presentata ad altri uffici). Questa frase è davvero strana: perché mai una domanda non dovrebbe contenere richieste specifiche, dal momento che è, per l’appunto, una domanda, cioè una richiesta? Insomma, il primo requisito di un testo è che dica cosa sensate, non senza senso, di là dalla forma in cui è scritto.
– Senza essere stato nominato e senza aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere? Anche qui si può esprimere lo stesso concetto in modo più chiaro, elegante e meno faticoso: Un autore che non abbia presentato domande ad altre competizioni può presentare le sue opere?

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Desidero sottoporre alla vostra attenzione un altro testo dei miei. Volevo
sapere se questo testo fosse ben scritto (anche a livello della
punteggiatura) e se è necessario migliorare il riferimento
pronominale. Inoltre volevo sapere se nel testo si intuisce che la ragazza
si tiene il naso tappato dal momento in cui mi ci infila dentro fino a che
non raggiunge la sua abitazione. Per quanto riguarda l’ultima frase, volevo
sapere se questa fosse ben scritta, oppure se posso formularla ancora
meglio. In altre parole, ciò che voglio dire è che la ragazza fa le ultime
due azioni per tirarmi fuori dal suo naso.

*Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo
piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è
troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver
fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per
infilarmi nel tuo naso; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato
per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di
soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua:
che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua
e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per
tirarmi fuori dal tuo naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso
con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello, non fai
nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo letto.*

Vi ringrazio come sempre per i vostri preziosi suggerimenti. Ne sto facendo
tesoro, e posso dire che grazie ai vostri consigli sto evitando un sacco di
errori. Ancora grazie per il magnifico servizio che offrite.

 

RISPOSTA:

I riferimenti pronominali sono corretti e quanto vuole esprimere si capisce benissimo. Forse si potrebbero migliorare un paio di cose che segnalo sotto nel testo tra parentesi quadre. Ciò che contribuirebbe a rendere il testo un po’ meno faticoso, tra l’altro, è l’eliminazione dei continui aggettivi possessivi tuo: è ovvio che una parte del corpo (naso) sia della persona di cui si fa riferimento, non c’è alcun bisogno di sottolinearlo, di norma. Questa abitudine (sbagliata) di dire continuamente mio nasotue mani ecc. è invalsa dall’inglese (per es. del doppiaggio), in cui invece i possessivi sono sempre obbligatori: my nosemy fingermy house ecc.
Ecco qui il brano con alcune proposte di correzione:

Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per infilarmi nel tuo naso [qui tuo è corretto ed efficace, perché in effetti il contesto è davvero insolito: complimenti per la vivida fantasia!]; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua: [qui sarebbe meglio una virgola al posto dei due punti] che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per tirarmi fuori dal tuo [eliminare tuo: ormai è chiaro di chi sia il naso] naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello [da quello è inutile e pesante: eliminarlo!], non fai nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo [sta a casa sua, è ovvio che il letto sia il suo: eliminare suo] letto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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QUESITO:

Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..

 

RISPOSTA:

Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi capita spesso  di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?

 

RISPOSTA:

Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmimi sto preparandomi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Grazie. Questo uso dell’imperfetto nella lingua parlata per attenuare una cosa –
in quale parte della grammatica viene specificata?  Ho una ventina di libri i
grammatica e non l’avevo mai visto.  C’e’ una citazione da Serianni o
qualcun’altro?
Dice che e’ simile a una cosa che ho trovato anni fa quando un amico mi ha
scritto.
“Avrei gia’ preso un appuntamento a quell’ora  per attenuare l’atto di dirmi che
non e’ stato possibile parlarmi e soddisfare la mia richiesta?”   L’esempio non e’
lo stesso, ma l’uso qui dell condizionale composto viene usato per attenuare una
cosa di questo tipo (l’ho trovato nella grammatica di Serianni).
 

 

RISPOSTA:

Si tratta di valore modale (o più specificamente epistemico, o attenuativo) dell’imperfetto, studiato da decenni da numerosissimi linguisti quali Carla Bazzanella, Le facce del parlare (La Nuova Italia), oppure alle pp. 82-83 della Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi e Cardinaletti, volume secondo (il Mulino), oppure anche nei nostri volumi Rossi-Ruggiano, Scrivere in italiano, oppure L’italiano scritto (Carocci). E moltissimi altri autori che non sto qui a elencarle. Per usi del genere, le consiglio di rivolgersi a studi più specialistici piuttosto che alla pur ottima (ma tradizionale, scolastica e generale) Grammatica del mio maestro Luca Serianni.
Sì, ha ragione, gli usi modali ed epistemici, o semplicemente attenuativi (come definiti a p. 82 del secondo volume del Renzi-Salvi-Cardinaletti) dell’imperfetto sono simili a quelli del condizionale, in certi contesti.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Chiedo, cortesemente, se il seguente testo va bene: “Gent.mo Dirigente F,
sono con la presente per comunicarLe che nel mese di giugno mi ha contattato/sono
stata contattata il Dirigente S. e mi ha comunicato/ che mi ha comunicato  che il
prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato
anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga
conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “
 

 

RISPOSTA:

Diciamo che lo stile burocratico come al solito è sgradevolmente quanto inutilmente pomposo, e la sintassi delle alternative che propone non sempre è corretta. Ecco una possibile riscrittura, con le relative varianti.
“Gent.mo dirigente F.,

nel mese di giugno mi ha contattato il dirigente S. [oppure: sono stata contattata dal dirigente S.] e mi ha comunicato che [oppure: il quale mi ha comunicato che; oppure: comunicandomi che] il prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho scritto un paio di frasi della cui correttezza non sono certa:
“La strada era bagnata: la pioggia ne ricopriva il fondo”
(=la pioggia ricopriva il fondo della strada)
“La cucina era sporca: polvere e residui di cibo ne rivestivano la sommità del piano cottura”
(=polvere e residui di cibo rivestivano la sommità del piano cottura della cucina).
Il pronome “ne” nei due esempi – di cui, per chiarezza, ho riportato tra parentesi una sorta di parafrasi – è ben impiegato?
 

RISPOSTA:

Sì, è ben impiegato in entrambi i casi.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa costruzione:
“Il messaggio a cui hai allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Ho un dubbio su questa – passatemi l’espressione – “relativizzazione doppia”: si può inserire, all’interno del medesimo periodo, un rimando al soggetto (a cui) e uno al complemento (di cui)?
 

 

RISPOSTA:

Sì, si può, è un po’ pesante ma non c’è nessuna regola che lo vieti. Due pronomi relativi possono tranquillamente riferirsi a elementi diversi ed essere in casi diversi.
Per semplificare il testo si potrebbe scrivere così, trasformando una relativa in un complemento:
“Il messaggio con allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Oppure ancora (con un che al posto di a cui):
“Il messaggio che allegava il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Ho trovato quest’esempio nel libro <>, p271, casa di editrice  La nave
di Teseo, scritto da Sandro Veronesi:
– Dov’eri?
– Da uno che abita qui di fronte.
– Hai un amico che abita proprio qua? Che culo.
– No, l’ho conosciuto solo oggi. Tu, piuttosto: che ci fai qui?
– Niente, passavo ……
– OK, sono venuta per via della telefonata di prima. Vorrei sapere perché mi hai
chiesto quelle cose.
– Quelle sul disco?
– Te l’ho detto: era una sciocchezza, una curiosità  
La mia domanda è, come mai ha scelto l’imperfetto invece di “è stata una
sciocchezza”?  Qual è la sfumatura qui? Come cambia la semantica tra il passato
prossimo e l’imperfetto?  Il passato prossimo sarebbe sbagliato?  Secondo me
riferisce a un’azione completa nel passato, cioè la telefonata, non una cosa che
durava.
E’ possibile che Veronesi ha scelto l’imperfetto per indicare che la sciocchezza
dura ancora nel presente?   Pensavo che si può fare una cosa del genere soltanto
in una costruzione con una proposizione completiva, ad esempio <<Ho sentito che
eri a Roma>>  (dove eri potrebbe indicare  Ho sentito che sei (il presente) a Roma
in questo momento).

In Treccani e’ spiegato:
<<b. In senso concr., azione, parole da sciocco, cosa fatta o detta in modo
sciocco, senza adeguatamente riflettere: ho fatto la sc. di fidarmi di loro; è
stata una vera sc. aver rifiutato la sua offerta; non dire sciocchezze!
 

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla fine della sua richiesta. In questo caso sciocchezza non vale come “cosa da sciocchi”, bensì come “cosa da nulla”, cioè di nessuna importanza, uso comunissimo nell’italiano colloquiale.
Qui l’imperfetto non indica assolutamente l’aspetto dell’azione né tantomeno la sua durata, ma è uso modale tipico del parlato, con valore di attenuazione. E’ come se dicesse: “E’ solo una sciocchezza, è giusto una sciocchezza”. Quindi sarebbe andato bene anche il presente. Non va bene, invece, il passato prossimo, perché lascerebbe quasi intendere una collocazione al passato che invece non è appropriata al contesto, in cui non importa il quando (se una cosa è priva di importanza lo è sempre, non solo in relazione al tempo in cui è avvenuto l’evento che si definisce senza importanza).
Per capire bene la differenza, consideri questo esempio analogo:
Ti ho chiamato ieri ma tu non hai risposto. Comunque non preoccuparti, perché non è/era nulla di importante”. Sarebbe anomalo (e quindi sbagliato, nel senso di “non naturale in italiano”) dire “non è stato nulla di importante”, perché, come ripeto, l’essere poco importante è una constatazione generale svincolata dal tempo.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Dato che ci troviamo nel “periodo clou” dei matrimoni (e dato che non mi sembra il caso di correggere gli sposi nel momento più emozionante della loro vita), mi domandavo: è giusto rispondere “Sì, lo voglio” alla fatidica domanda posta dal prete (o da qualsiasi altra figura ufficiale che sta celebrando il matrimonio)?
Se non ricordo male, potrebbe trattarsi di un calco dall’inglese “I do”.
 

 

RISPOSTA:

Ha ragione, basterebbe il semplice (e fatidico) , in teoria e secondo la lingua italiana. Questa è la formula da sempre tipica del matrimoni italiani, almeno in passato (fu proprio il  a sancire il matrimonio dei miei genitori, per esempio). Oggi sono invalse altre formule di autodichiarazione (“Prendo te come mia/o legittima/o sposa/o” ecc. ecc.).
Credo che sul “lo voglio”  abbiano influito non poco i doppiaggi di film e serie televisive angloamericani, nei quali andava colmato il movimento labiale dell’inglese I do. Questa è la spiegazione data da molti anglisti che si sono occupati di lingua del doppiaggio, o doppiaggese. Anche se forse questa sarà stata una concausa, piuttosto che l’unica causa. Andrebbe infatti vista a ritroso tutta la storia della formula matrimoniale, per vedere che cosa vi fosse in passato, in latino e poi in italiano, se il solo , oppure il solo Lo voglio, oppure l’insieme di Sì, lo voglio, o magari altro ancora. Dico questo perché nell’italiano antico (sul retaggio del latino) sono frequenti risposte non secche (semplicemente sì o no, come oggi), bensì la ripetizione del verbo su cui è incardinata la domanda: Vuoi / Voglio, Lo voglio, non voglio, non lo voglio ecc.
Come che sia la questione, l’importante è usare una formula di risposta prevista dal diritto, altrimenti si rischia di invalidare il matrimonio (come pure è successo anche recentemente). La formula di domanda/risposta del rito matrimoniale, infatti (civile o religioso che sia) è un tipico caso di testo performativo, ovvero di testo vincolato alla forma al punto tale che proprio e soltanto la pronuncia di una determinata formula (e solo di quella!) produce un atto giuridico e un conseguente cambiamento di stato. Pertanto, attenzione: in questi casi non si scherza e non si va a gusto personale: si deve rispondere quello che prescrive la legge, altrimenti… addio matrimonio!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei esporvi queste frasi:
1)Roma,  che è capitale d’Italia, è una città vicina al mare.
2)Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali.
Sia il primo inciso (che è capitale d’Italia) che il secondo (se non salderà il suo debito), qualora vengano sottratti, permettono alla frase di avere un senso compiuto (Roma è una citta vicina al mare / le rendo noto che passerò a vie legali).
Nella prima frase, però, l’inciso dà informazioni irrilevanti rispetto al senso della frase, nella  seconda, invece, l’inciso fornisce informazioni sostanziali (io passerò a vie legali solo se si realizzerà una ben precisa condizione: il suo mancato pagamento).
Mentre il primo inciso va posto sicuramente fra le virgole, il secondo non lo porrei fra di esse, perché le virgole farebbero risultare l’affermazione ” se non salderà il suo debito” come marginale, anziché di centrale importanza.

 

RISPOSTA:

Va distinta la funzione di inciso da quella di parentetica. Una parentetica contiene di solito, come dice lei, un’informazione marginale (“che è la capitale d’Italia”). Per inciso, invece, si intende semplicemente la collocazione dell’informazione tra due pause, o virgole, ma non la sua marginalità. Le virgole che isolano la protasi del periodo ipotetico nell’esempio “Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali” sono necessarie (e dunque se le eliminasse commetterebbe un errore!), perché indicano la spezzatura del rapporto assai vincolante tra reggente e completiva (…rendo noto che passerò…) mediante l’intromissione della protasi del periodo ipotetico. La posizione di inciso, cioè la segnalazione di tale intromissione, non implica in alcun modo la minore importanza della protasi. Aggiungo che, qualora non vi fosse stata intromissione, e vi fosse dunque stato soltanto il periodo ipotetico, si sarebbe potuta usare la virgola oppure no (“se non salderà il suo debito[,]  passerò a vie legali”) senza alcun cambiamento di significato. La virgola, infatti, in questo caso è un semplice retaggio del passato, quando si soleva separare quasi sistematicamente la premessa dalla conseguenza.
In generale, faccia attenzione a non caricare la punteggiatura di valori logicistici che le sono estranei: la virgola non indica quasi mai una riduzione di importanza (tranne, e non sempre, nel caso delle parentetiche di cui sopra), bensì denota una frattura sintattica (in molti casi), una transizione di piano testuale o informativo (cioè il passaggio da un’informazione all’altra, in molti altri casi), la riproduzione di una piccola pausa o curva intonativa (più raramente e soltanto nei testi mimetici del parlato), la messa in evidenza di un’informazione (e dunque l’esatto contrario di quel che dice lei, cioè conferisce maggiore importanza a qualcosa: “Mario, ho incontrato, non Luca”, con focalizzazione di Mario), oppure uno stilema (stile di un certo autore, consuetudine scrittoria ecc.).

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Siamo studenti di italiano e ci stiamo imbattendo in una questione riguardante l’evoluzione dei dialetti italiani. Sappiamo che l’italiano standard evolve quotidianamente mentre ci chiediamo se anche i dialetti subiscano influenze. Dunque, vorremmo sapere se e come i diletti possono essere influenzati.
Inoltre ci stiamo chiedendo se nella frase sopra sia corretto usare o meno il congiuntivo: subiscono o subiscano.

 

RISPOSTA:

I dialetti sono lingue come l’italiano, il francese o il cinese. La differenza tra una lingua e un dialetto non è nel funzionamento, ma nell’ampiezza d’uso: i dialetti sono usati da comunità ristrette che hanno anche un’altra lingua, l’italiano, con la quale comunicano a un livello più ampio e in contesti ufficiali.
Anche i dialetti evolvono, quindi, e subiscono l’influenza dell’italiano e delle altre lingue (e in misura ridotta influenzano l’italiano e persino le altre lingue). 
I rapporti tra l’italiano e i dialetti sono molto complessi, tanto che vengono scritti diversi libri ogni anno su questo argomento: non è possibile, quindi, sintetizzare la questione in una breve risposta. In generale possiamo dire che l’italiano si è diffuso tra tutta la popolazione, anche come lingua del parlato informale, non solo per lo scritto ufficiale e letterario, a partire dalla seconda metà del Novecento. Da allora i dialetti hanno cominciato a perdere funzionalità, ovvero a essere usati sempre meno anche in famiglia e tra amici. Questo processo ha rallentato l’evoluzione dei dialetti, impoverendone il lessico e riducendo il numero dei parlanti nativi di queste lingue, ovvero delle persone che nascono in famiglie in cui queste lingue si parlano spontaneamente (anche se la situazione è diversa da regione a regione e tra le città e le zone rurali). Da qualche decennio si nota un nuovo interesse per i dialetti: sono nati movimenti e associazioni che vogliono salvare queste lingue dalla morte. Queste iniziative potrebbero portare, in futuro, a recuperare non solo la conoscenza dei dialetti, ma anche l’uso.
Per quanto riguarda la seconda domanda, nella vostra frase vanno bene sia subiscono sia subiscano. Il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ovvero più adatto a contesti ufficiali, specialmente scritti: in questo contesto, quindi, è preferibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito della frase

“La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA / DOVREBBE essere”,

qual è la forma più diffusa, debba o dovrebbe? Dipende dalla regione? C’è una differenza nella semantica tra l’una e l’altra? C’è una condizione non espressa quando si usa dovrebbe? Possiamo esplicitarla?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra congiuntivo e condizionale nella proposizione comparativa non dipende dalla regione di provenienza del parlante, ma dal registro e dalla semantica. Da una parte, infatti, il congiuntivo è la scelta più formale, dall’altra il condizionale veicola l’idea che il parlante si aspetterebbe una situazione diversa, quindi rimarca la sua posizione di contrarietà. Potremmo esplicitare la condizione sottintesa così: “La lingua italiana è più complessa di quanto dovrebbe essere (se le cose andassero come mi aspetto / in un mondo ideale)”. La capacità del condizionale di far risaltare l’atteggiamento emotivo del parlante favorisce ulteriormente l’uso di questo modo rispetto al congiuntivo in contesti colloquiali; è ragionevole, pertanto, supporre che il condizionale sia più comune del congiuntivo, almeno in contesti informali. Per esserne certi, però, si dovrebbe fare uno studio statistico sulla base di un grande corpus.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Volevo sapere se è corretto usare l’espressione un vestito da pipistrello al posto di un costume da pipistrello. Mi è venuto questo dubbio perché lo userei come sostantivo e non come verbo, come potrebbe essere in una frase del tipo un uomo vestito da pipistrello.

 

RISPOSTA:

I nomi vestito e costume possono essere usati con uguale efficacia in questo caso: vestito è un iperonimo di costume, cioè è un nome il cui significato comprende quello dell’altro, che è, a sua volta, iponimo del primo. Si badi che il nome vestito deriva direttamente dal latino vestitus ‘vestito’; non è, come lei ipotizza, il participio passato di vestire sostantivato (vestito nome e vestito participio di vestire sono forme coincidenti, ma con origini diverse, sebbene ovviamente legate). Se anche fosse un participio sostantivato, comunque, potrebbe certamente usarlo come nome: sono molti, infatti, i participi presenti e passati usati comunemente come nomi (comandantecantantegelatocandito ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Secondo diverse fonti l’uso del congiuntivo in una proposizione comparativa è normale. Volevo confermare come cambi la semantica nelle frasi:
(1a) La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare (congiuntivo presente).
(1b) La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare (indicativo presente).
(2a) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettassi.
(2b) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettavo.
Molte fonti non distinguono tra il congiuntivo e l’indicativo, ma secondo Treccani “è di regola il congiuntivo, che serve proprio a segnalare la frustrazione dell’attesa; l’indicativo è tuttavia attestato nei registri di media e bassa formalità; il condizionale può comparire occasionalmente con valore ipotetico”.
Per quel che sappia, un verbo al condizionale è anche ammesso per dare una sfumatura ipotetica alla frase. Volevo sapere se le mie interpretazioni sono corrette:
(3a) La metro funziona peggio di come avrei potuto immaginare.
Per me vuol dire che non ci ho pensato prima, cioè con la condizione se ci avessi pensato sottintesa.
(3b) La metro funziona peggio di come avessi potuto immaginare
funziona anche ma non è ipotetica. Stavo pensando a quello prima di averla presa.
Siamo arrivati al mio domandone:
Come mai gli italiani con cui parlo dicono che queste frasi siano sbagliate:
(4a) La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA essere.
(4b) La lingua italiana è più complessa di quanto POSSA essere.
Molti mi dicono che devo usare dovrebbe potrebbe. Non riesco a capire quali siano  la condizioni. Per me (4a e b) esprimono la mia opinione… ma ovviamente se DEBBA non è ammesso sbaglio io. Sono quasi sicuro che abbia a che fare con il verbo dovere (e anche con potere).

 

RISPOSTA:

Comincio dalla fine, confermando che le frasi 4a e 4b sono corrette nella forma da lei usata, e sarebbero corrette anche con il condizionale e con l’indicativo. Non so perché i suoi amici le abbiano definite sbagliate, ma è piuttosto comune che i parlanti confondano il proprio uso e il proprio stile con le regole della lingua. Allo stesso modo, sono corrette tutte le altre frasi che lei porta come esempi, come già confermato dalla citazione del sito Treccani. Rispetto a quest’ultima, sottolineo soltanto che il senso di frustrazione associato al congiuntivo è soggettivo: la frase “La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare” non comunica necessariamente maggiore frustrazione di “La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho avuto modo di leggere questo periodo: “Tu, all’epoca, eri un bambino: avresti dovuto avere cinque o sei anni”.
Ho attribuito al predicato avresti dovuto avere valore dubitativo, come se l’autore non fosse certo dell’età dell’interlocutore. Vi domando se la scelta di ricorrere al condizionale (composto) sia legittima; oppure, per tale finalità comunicativa, si sarebbe dovuto propendere per l’indicativo.
Mi si sono presentate alla mente due soluzioni che vorrei confrontare con quella sopra indicata: quale tra le tre vi sentireste di suggerire, sempreché tra esse ve ne sia almeno una rispondente all’interpretazione che ho dato alla frase d’origine?
1. Dovevi avere cinque o sei anni.
2. Avevi, se non sbaglio, cinque o sei anni.

 

RISPOSTA:

La sua interpretazione della frase è corretta: il verbo dovere è usato qui con valore epistemico (quello che lei definisce dubitativo), cioè per esprimere l’incertezza dell’emittente circa la verità di quello che sta dicendo. Dal momento che l’evento, o meglio lo stato, di cui l’emittente non è certo è passato, ci si aspetta che egli usi l’imperfetto, come nel suo esempio 1. La scelta del condizionale passato non è impossibile, ma in questo contesto sembra un po’ pleonastica, perché aggiunge alla sfumatura di incertezza già presente nel verbo servile dovere quella condizionale propria del modo. Il suo esempio 2, infine, è pure corretto e tutto sommato equivalente agli altri due: in questo caso l’espressione dell’incertezza è affidata non al verbo dovere ma alla proposizione incidentale se non sbaglio. In termini di registro, quest’ultimo esempio è il più formale, visto che l’uso epistemico del verbo dovere è proprio di un contesto colloquiale, anche se non trascurato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda sull’uso del periodo ipotetico nei discorsi indiretti.
Discorso Diretto:
(1a) La commessa mi ha detto: “Se prenderò altri quattro foglietti, riceverò uno sconto del 25%”.

Discorso Indiretto:
(1b) “La commessa mi ha detto che avrei ricevuto uno sconto del 25% se avessi preso altri quattro foglietti”.

(A) 1b è l’unico modo per riportare (1a)? È possibile scriverla anche così?
“La commessa mi ha detto che avrei ricevuto uno sconto del 25% se AVREI PRESO altri quattro foglietti” (qui volevo sapere se è possibile usare il condizionale composto per esprimere un futuro nel passato dopo se).

(B) La semantica della frase (1b) non indica una cosa irreale? In altre parole la frase 1b non ti dà nessuna indicazione se li ho presi o non li ho presi. È giusto?

 

RISPOSTA:

Innanzitutto una precisazione: nella frase 1a i verbi all’interno del discorso diretto devono andare alla terza persona, non alla prima (quindi prenderà e riceverà). Riguardo alla domanda A, secondo la consecutio temporum si potrebbe usare il condizionale passato nella proposizione ipotetica per esprimere il futuro nel passato; la proposizione ipotetica introdotta da se, però, rifiuta il condizionale, perché il condizionale è il modo degli eventi condizionati, non di quelli condizionanti. In conclusione, in questo caso bisogna usare comunque il congiuntivo.
Per quanto riguarda la semantica della frase, dal momento che l’evento del prendere è collocato nel passato, deve essere espresso con il tempo trapassato, anche se l’evento non è irreale, bensì potenziale. Il soggetto, infatti, potrebbe aver preso o no i foglietti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei cortesemente  un chiarimento sull’uso di nel caso in cui. L’espressione va fatta seguire da un congiuntivo o è ammesso anche  il condizionale?
Es. “Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero / sarebbero stati assenti”.
“Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci fossero / fossero stati assenti”.

 

RISPOSTA:

La locuzione congiuntiva nel caso in cui introduce una proposizione ipotetica; questo tipo di proposizione ammette l’indicativo e il congiuntivo, ma non il condizionale, perché quest’ultimo è il modo degli eventi condizionati da altri eventi, quindi non può essere usato per descrivere gli eventi condizionanti (cioè quelli ipotetici). La variante *”Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero assenti”, pertanto, è scorretta. Lo stesso non vale per la variante “Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero stati assenti”, che è ammissibile perché qui il condizionale passato serve a esprimere non un evento condizionato, ma un evento futuro rispetto a un altro passato (ho scritto); una funzione nota come futuro nel passato. Per quanto, però, il condizionale passato con funzione di futuro nel passato all’interno di proposizioni ipotetiche sia giustificabile sul piano logico, esso è comunque percepito come stridente, quindi in un contesto formale è preferibile sostituirlo con il congiuntivo imperfetto, che può avere la stessa funzione, indicando un evento contemporaneo a quello, passato, della reggente, ma proiettato nella posteriorità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho comprato il libro scritto da Professor Ruggiano, Uno sguardo sul verbo: forme, usi, varietà, e non trovo un esempio dell’uso dell’infinito come viene usato in esempio (a).
(a) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava – e io immaginavo il fiume là sotto RUGGIRE al buio, GONFIARSI fino a ESODARE dai tombini.  (Le Otto Montagne scritto da Paolo Cognetti)
(1) Posso trasformare la frase in modo esplicito cosi’ (almeno lo penso):
(a1) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava — e io immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
(2) L’uso dell’infinito nella prima frase (a) è “standard”?   (a1) e’ corretta?
Ho trovato in altri siti esempi dell’uso dell’infinito (non trovato nel libro di Prof Ruggiano)  con i pronomi relativi preceduti con una preposizione:  
(b) Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto.  
(2) Come posso trasformare la frase (b) in una frase esplicita.
 

 

RISPOSTA:

Il primo caso da lei sottoposto è quello, molto comune e del tutto corretto in ogni livello di italiano, dell’infinito retto da verbi di percezione, che può essere reso con due strutture equivalenti: 1) una relativa, 2) una completiva:
1)  immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
2) Immaginavo […] che il fiume là sotto ruggisse […].
Anche l’altro uso dell’infinito da lei segnalato è del tutto comune e corretto in ogni livello di italiano. Si tratta di un uso ellittico:
“Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto”
Sta per:
“Cerco una ragazza a cui possa regalare la mia vecchia moto”, che è ovviamente una subordinata relativa esplicita. Nel primo caso, il verbo servile è sottinteso, o ellittico.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedervi se nel testo che allego, al quartultimo verso è corretto usare il congiuntivo imperfetto “servissero” o bisogna usare il condizionale presente “servirebbero”?

Quanti desideri
sono caduti dal cielo
per vestirsi
di carne e pelle,
nel bene e nel male?
Forse tanti quanti
servissero
a farci credere
di essere
pezzi di Dio
 

 

RISPOSTA:

L’unica forma che ha senso nel contesto è servirebbero, che esprime il valore modale epistemico (potenziale) dell’eventuale utilità dei desideri caduti.
Il congiuntivo imperfetto andrebbe bene in altri contesti: o in protasi di periodo ipotetico: per es. “se servissero, cadrebbero dal cielo”. oppure in una relativa con valore ipotetico: per es.: “puoi prendere tutti i pezzi che ti servissero per fare il puzzle”.
A meno che lei non voglia intendere che i desideri caduti non servano più: allora andrebbe bene anche servissero, con valore di relativa ipotetica: “quanti servissero allora, ma che ora non servono più”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Le sarei molto grato se mi chiarisse un dubbio relativo a questa frase: “Era sempre solo. Amici non ne aveva”. Quel “ne”, che sento usare regolarmente in frasi di questo tipo, mi suona bene, però  mi lascia
perplesso perché dovrebbe stare per “di amici”, ma allora la frase diventerebbe: “amici non di amici aveva”. Una affermazione insensata. Gradirei sapere se quel “ne” è da considerarsi corretto.
 

 

RISPOSTA:

Il costrutto, tipico dell’italiano informale e colloquiale e dunque non scorretto in assoluto  ma sicuramente inadatto all’italiano formale, si chiama “tema sospeso” e consiste nel riportare il tema, o topic, dell’enunciato all’inizio per poi riprenderlo mediante un clitico, ovvero particella pronominale atona. Naturalmente il clitico è pleonastico e il tema qui non ha valore di soggetto bensì di complemento oggetto (duplicato da ne). Molto prossimo a questo costrutto è un altro, sempre di anticipazione del tema, o topicalizzazione, denominato “dislocazione a sinistra”: “di amici non ne aveva”.
Il corrispettivo formale, o quantomeno non informale, delle due espressioni è “non aveva amici”.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi permetto di proporLe questa frase:” Se sapessi che tu, intraprendendo quella attività, potresti essere felice, ti consiglierei di svolgerla”. Il mio dubbio si riferisce a quel “potresti essere” (le alternative
che mi sembrano degne di considerazione sono: possa essere e potrai essere).
 

 

RISPOSTA:

Considerando il valore modale epistemico (cioè di probabilità) del poter essere felice (espresso peraltro già dal verbo modale potere), vanno bene tutte e tre le soluzioni, anche se la migliore, in quanto meno pesante sintatticamente, è quella del congiuntivo presente, che si limita a segnalare il valore completivo della frase: “che tu possa essere felice”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Ho scritto un altro testo e volevo sapere se va migliorato il riferimento pronominale nella seconda frase, oppure se va meglio così. Se non erro, c’è un sintagma preposizionale, giusto? Quindi ho fatto bene a riprendere il sintagma in maniera piena?  Poi desideravo sapere se, secondo voi, l’espressione attorno a me richiede un incasso interpuntivo, oppure se è meglio non inserire alcuna virgola. 

Trascorso qualche minuto, smetti di sbavarmi attorno e ti avvicini a me scrutandomi con fare malizioso. Tutt’a un tratto cominci a metterti insistentemente le dita nel naso e a soffiarti molte volte il naso con la mano, e appiccichi intorno a me sia il tuo muco gelatinoso che le tue caccole giganti.

Nel caso in cui abbiate altri suggerimenti per migliorarlo, non esitate a correggermi. 
 

 

RISPOSTA:

Il testo non presenta alcun errore né alcuna improprietà o irregolarità né di ripresa né di interpunzione.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Vi scrivo riguardo un dubbio riguardo l’uso delle virgolette a inizio frase.
Nello specifico, mi riferisco all’uso delle virgolette per enfasi,  per esempio in uno scambio:
A) Non è una soluzione, è un disastro!
B) “Disastro” mi sembra un’esagerazione…
In questo caso, nella frase pronunciata da B “disastro” andrebbe scritto con la maiuscola?
 

 

RISPOSTA:

Certamente “Disastro” nel secondo turno dialogico va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dalle virgolette, visto che si tratta della parola inziale della frase.
Le virgolette, tuttavia, in questo caso, non hanno valore di enfasi bensì metalinguistico o di citazione, cioè sono identiche al corsivo e servono soltanto a segnalare che ci si sta riferendo a una parola citata da una frase precedente, cioè, per l’appunto, la parola “disastro”.
Sarebbero virgolette d’enfasi se per caso fossero state usate nel primo turno: Non è una soluzione, è un “disastro”! E sarebbero state da evitarsi, dal momento che non c’è alcun bisogno di sottolineare una parola che ha già di per sé, in quel contesto, un chiaro valore estensivo e iperbolico.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

sare il verbo “vedere” nel senso di “accorgersi di qualcosa” seguito da DI+infinito (anziché CHE+indicativo) è un errore? Es. “Ho visto di aver dimenticato il pane in macchina”.

 

RISPOSTA:

No, la frase è perfettamente corretta; sicuramente è più adatta a una situazione informale piuttosto che a una formale, ma in nessun caso la frase citata può essere considerata scorretta, dal momento che non viola alcuna regola grammaticale della lingua italiana.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Nella penultima strofa della poesia che riporto qui sotto, ho usato il futuro semplice andrò mentre il verbo precedente è al presente. Lo ritenete corretto o sarebbe meglio usare anche lì il presente? 

“…e domani, speriamo bene, / comincio: andrò a bottega / da un certo Verrocchio…”.

 

RISPOSTA:

L’alternanza comincio / andrò è possibile: può essere giustificata da una sfumatura semantica intesa dall’autore, da ragioni fonetiche o entrambe le cose insieme.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il c’è presentativo, come nella frase “c’è da fare”, si può ritenere proposizione principale?
 

 

RISPOSTA:

A rigore le proposizioni sono due, come due sono i verbi. Pendiamo una frase un po’ più credibile: non c’è niente da fare. Da analizzarsi come segue:
Non c’è niente: principale
da fare: subordinata soggettiva.
In altri termini, la struttura è del tutto omologa a: non bisogna fare niente. Non bisogna: principale; fare niente: soggettiva.
Da un punto di vista più elastico, però, essendo il costrutto col c’è presentativo del tutto cristallizzato in italiano, possiamo anche considerare l’intera espressione come un’unica proposizione.
Oltretutto, a favore di quest’ultima interpretazione, remano anche frasi con verbi modali che costituiscono un’unica proposizione: non è da fare (= non deve essere fatto), non va fatto (= non deve essere fatto), non ho da fare (non devo farlo) ecc., in cui il primo verbo funziona come modale o servile e dunque non costituisce proposizione autonoma bensì parte del predicato di un’unica proposizione.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta e perché l’altra non lo potrebbe essere? E se fossero entrambe corrette, che diverso significato acquisirebbero nel relativo contesto?

1) se fossi certo che (così facendo) tutto finirebbe allora approverei senza dubbio.
2) se fossi certo che tutto finisse allora approverei senza dubbio.

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva che tutto finirebbe / finisse ammette entrambe le costruzioni, senza una percepibile variazione di significato. L’unica differenza è di registro: la variante con il congiuntivo è più formale. Al limite della trascuratezza, sebbene possibile, sarebbe la costruzione se fossi certo che tutto finisce…
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho ricevuto un messaggio che continua a non convincermi:
“Mi sono messo a farmi la barba”. Io credo che sia errato, in quanto c’è un doppio pronome (mi e farMi).
Pensando alla stessa frase con un diverso complemento però la frase tornerebbe:
“mi sono messo a fargli la barba”.
Quindi nel primo caso cosa potrebbe essere a non convincermi?? Oltre che suonare male sono convinta che ci sia qualcosa che non torni grammaticalmente.
 

 

RISPOSTA:

Si è già data da sé la risposta giusta: visto che non altro pronome l’espressione funzionerebbe perfettamente, vuol dire che non c’è nulla di sbagliato. Il fatto che vi siano due pronomi personali (e tutti e due di prima persona) deriva dal fatto che si stanno usando due verbi pronominali, entrambi alla prima persona: il primo è il verbo aspettuale mettersi, il secondo il verbo riflessivo apparente (o meglio transitivo pronominale) farsi la barba. Nulla di strano, dunque. Non si lasci trasportare dall’idiosincrasia dell’orecchio che rifiuta la ripetizione del mi: le lingue non funzionano a orecchio e l’insofferenza per la ripetizione è un insano portato di una didattica distorta.
Del resto, per avere prove ulteriori, che cosa ci sarebbe di strano nella frase “mi è capitato di perdermi”?

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
 

 

RISPOSTA:

Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologicoMario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malatoMario ha questa malattia ecc.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

È normale che alcuni verbi come constatareverificareaccertareappurare reggano ora il congiuntivo ora l’indicativo in funzione dell’azione che veicolano?

a) Ho verificato che la casa fosse vuota.
(Qui il verbo starebbe a indicare un’azione che non ha ancora portato esito: non si sa se la casa sia effettivamente vuota, e determinate operazioni di controllo disposte all’interno sono finalizzate a questo obiettivo).

b) Ho verificato che la casa era vuota.
(Qui il verbo starebbe invece a indicare un’azione dall’esito definitivo: le operazioni di controllo si sono concluse, e la casa è certamente vuota).

Augurandomi di essere stata chiara nell’enunciazione del mio dubbio, vorrei sapere se la mia osservazione sia giusta, oppure se con i verbi summenzionati si possa impiegare o l’uno o l’altro modo a prescindere dalla semantica.

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è sostanzialmente corretta: i verbi da lei citati reggono una proposizione completiva (preferenzialmente) al congiuntivo se prendono il significato di ‘controllare che uno stato di cose corrisponda a quello atteso o previsto’; reggono, invece, l’indicativo se prendono il significato di ‘attestare che lo stato di cose corrisponde a quello atteso o previsto’. Si noti che nel primo caso la proposizione retta è una interrogativa indiretta (infatti la congiunzione che può essere sostituita da se); nel secondo è una oggettiva. Si noti anche che se l’interrogativa indiretta è introdotta da se può essere costruita anche all’indicativo: “Va accertato se la malattia di massa costituisce un reato” (da sanita24.ilsole24ore.com, 2015).
Preciso che tra i verbi da lei elencati, che possiamo considerare sinonimi, constatare è quello che più forzatamente ammette il significato di ‘controllare…’, e più forzatamente, quindi, regge l’interrogativa indiretta. Una frase come “Ho constatato che la casa fosse vuota” potrebbe essere facilmente interpretata come una variante più formale, ma del tutto equivalente in quanto al significato, di “Ho constatato che la casa era vuota”. Anche “Ho constatato se la casa fosse vuota”, del resto, mi sembra meno naturale di “Ho verificato / accertato / appurato se la casa fosse vuota”. La ricerca di constatato se in Internet, non a caso, restituisce soltanto esempi proiettati nel futuro, come “La problematica in discussione non può essere analizzata e risolta senza aver preliminarmente constatato se alla base del comportamento posto in essere dall’azienda ricorrente vi sia stato un comportamento…” (fiscooggi.it, 2007), in cui è proprio la proiezione nel futuro a giustificare il significato e la reggenza.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Riguardo alla frase: “le relazioni “esulano dal semplice incontro del 4.07.2016”, vorrei sapere cortesemente se l’aggiunta dell’aggettivo semplice faccia sì che il significato della frase anziché essere l’ammissione che le relazioni non contengano informazioni sull’incontro “tout court”, sia indicativo che su tale argomento, pur in un contesto più ampio, sia stato comunque adeguatamente riferito.

 

RISPOSTA:

È sempre difficile analizzare una parola in una breve frase estrapolata dal suo intero contesto, però in questo caso sia l’aggettivo semplice sia il verbo esulare lasciano intendere che le relazioni non contengano informazioni sull’incontro, bensì, al contrario, contengano informazioni che vanno al di là dell’incontro e che con esso non hanno nulla a che vedere (esulare vuol dire ”essere estraneo, non avere nulla a che fare con qualcosa”), ovvero vanno al di là dei temi all’ordine del giorno dell’incontro, o a quanto pattuito su quell’incontro ecc. Nulla lascia intendere (in base all’aggettivo semplice) che le suddette relazioni abbiano comunque riportato indicazioni esaurienti sull’incontro stesso. Se si fosse voluto esprimere quest’ultimo concetto, si sarebbe dovuta formulare un’altra frase, quale per esempio la seguente: “Le relazioni, pur avendo riferito a sufficienza sui temi dell’incontro, sono andate ben oltre i temi previsti dall’incontro stesso”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei sapere perché il plurale della parola assassinio risulta essere assassinii, mentre il plurale della parola guscio o della parola occhio risulta essere (almeno da quello che ho avuto modo di notare in alcuni scritti) gusci occhi, anziché guscii occhii. Vorrei sapere se c’è una regola in proposito.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano contemporaneo i nomi che al singolare finiscono in -io al plurale mantengono la i se essa è accentata (addio > addii), la perdono se non è accentata (occhio > occhi). Le forme occhiigusciibivii ecc., rispettose della forma della parola, ma non del suono, visto che la sequenza ii del plurale si pronuncia come un’unica i, sono attestate fino a metà Novecento, per poi divenire rare o essere completamente abbandonate.
La i non accentata del singolare si mantiene al plurale nella parola assassinio soltanto per distinguere nello scritto questo nome dall’omofono (nonché omografo) assassini, plurale di assassino. Si noti che questa motivazione è molto debole, infatti il plurale assassini per assassinio è anche possibile, così come il plurale omicidi per omicidio è più comune di omicidii, a dispetto dell’esistenza dell’omofono e omografo omicidi, plurale di omicida.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Quando si scrive una lettera o una mail (come questa ad esempio), dopo l’intestazione, andando a capo io sono abituato a scrivere la parola successiva con prima lettera in minuscolo.
Tuttavia vedo che molti nelle lettere altamente formali procedono mettendo la lettera maiuscola.
Es:   Gentile Rossi Mario,
        Con la presente sono ad informarLa…

Anche in Cordiali Saluti molti mettono entrambe le parole maiuscole…

 

RISPOSTA:

Poche sono le regole certe sull’iniziale maiuscola; il suo uso è legato soprattutto a convenzioni più o meno stabili e deduzioni ragionevoli. A proposito delle e-mail formali, che possiamo assimilare alle lettere cartacee, iniziare il corpo della lettera, subito sotto l’intestazione, con la lettera miniscola è coerente con la presenza, alla fine dell’intestazione, della virgola, che non è seguita di norma dalla lettera maiuscola. C’è da considerare, però, l’a capo che separa l’intestazione dal corpo della lettera, tipicamente seguito dalla maiuscola. Tra le due motivazioni direi che più forte è la virgola, che implica l’iniziale minuscola; non mi sentirei, però, di condannare come scorretta l’iniziale maiuscola. Per quanto riguarda la doppia maiuscola in Cordiali Saluti (senza considerare l’eventuale precedenza del punto fermo, che ovviamente richiederebbe la maiuscola per Cordiali), siamo di fronte a un uso enfatico di questo tratto grafico, del tutto soggettivo e legato allo stile personale; si tratta di una scelta non impossibile (proprio perché l’uso della maiuscola è poco regolato), ma difficilmente giustificabile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Quali delle seguenti varianti sono corrette?

“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.

“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.

 

RISPOSTA:

Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lolalile, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con miticivine, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atletaartistacolleganipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Ammetto che fino a pochi minuti fa non conoscevo il suo nome.”
Le due proposizioni hanno il solito soggetto; la regola generale, se non vado
errata, imporrebbe, o comunque consiglierebbe, l’impiego della costruzione
implicita.
In un caso come questo, in che modo si potrebbe procedere con la trasformazione
della subordinata esplicita?
 

 

RISPOSTA:

Vanno benissimo sia la frase esplicita sia quella implicita, non c’è alcuna imposizione al riguardo.
“Ammetto che fino a pochi minuti fa non conoscevo il suo nome” va addirittura meglio, in questo caso, rispetto a ““Ammetto di non aver conosciuto il suo nome / di non conoscere il suo nome fino a pochi minuti fa”, in quanto l’ancoramento temporale “fino a pochi minuti fa” rende l’infinito meno duttile dell’imperfetto nell’esprimere la sfumatura temporale/aspettuale: prima non lo conoscevo, ma ora, da pochi minuti, lo conosco.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti frasi ci sono proposizioni relative; in tutte e tre le frasi c’è la sfumatura di eventualità (e forse ipotetica nella prima):
“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
“Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
“Non mi piacerebbe un cagnolino che non mi venisse incontro quando rientro a casa”.
Le mie domande:
1. il pronome relativo che in tutte e tre le frasi è improprio?
2. Quando troviamo una proposizione relativa che con un verbo al congiuntivo, il relativo è sempre considerato improprio?
3. Se la risposta è sì, penso che ci siano soltanto due possibilità: valore finale o valore consecutivo. Giusto?
Ho delle difficoltà a individuare una che improrio con valore consecutivo: è più facile per me individuare un valore finale. Quindi mi domando:
1. quando c’è un congiuntivo nella proposizione relativa, non è possibile considerare il che un relativo proprio? 
2. Quando una proposizione con un che relativo ha il verbo al congiuntivo e sicuramente non ha valore finale, posso concludere che è una consecutiva?
3. Se la risposta è sì, possiamo concludere che le relative in queste due frasi hanno valore consecutivo?
“Non c’è niente che tu possa fare”.
“Marco è il ragazzo più simpatico che io conosca”.

 

RISPOSTA:

Innanzitutto bisogna ricordare che il pronome che non è mai detto improprio. In tutte le frasi da lei proposte (tranne l’ultima, come vedremo alla fine) ha sempre la funzione di pronome relativo, e tale funzione non può che essere propria. Sono, piuttosto, le proposizioni relative nel loro complesso a essere definite da alcuni improprie quando assumono un significato non esattamente relativo, ma assimilabile a quello di altre proposizioni. L’etichetta improprio, si noti, non è precisa, perché fa pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nella costruzione di queste proposizioni, che invece sono del tutto regolari. Le proposizioni relative con un significato vicino ad altre proposizioni possono essere:
consecutive (cerco un centro di gravità permanente che [= tale che] non mi faccia mai cambiare idea, cantava Franco Battiato nella canzone Centro di gravità permanente);
causali (ho prestato a Luca il libro che mi [= perché me loaveva richiesto con insistenza);
concessive (Luca, che [= anche se] non voleva venire, alla fine si è divertito.
Per quanto riguarda il significato finale, esso è di solito contemplato nelle grammatiche, ma, come dice lei, è quasi indistinguibile da quello consecutivo. Per semplicità, si può parlare di significato consecutivo-finale.
Come si può vedere, l’interpretazione speciale della proposizione relativa non è collegata al modo congiuntivo: le relative con significato causale e consecutivo, infatti, richiedono l’indicativo. Inoltre, l’uso del congiuntivo nella proposizione relativa non produce necessariamente un significato speciale, ma a volte serve soltanto a elevare il registro della frase. È il caso della prima delle sue ultime frasi, nella quale il significato non cambia se sostituiamo il congiuntivo con l’indicativo (“Non c’è niente che puoi fare”), anche se l’antecedente indefinito niente fa propendere senz’altro per il congiuntivo nella relativa. L’ultima frase, invece, contiene non una proposizione relativa, ma una comparativa, che serve a esprimere il secondo termine di un paragone ed è introdotta dalla congiunzione (non dal pronome) che. Per la precisione, anche nella proposizione comparativa il congiuntivo serve a elevare il registro; se lo sostituiamo con l’indicativo il significato non cambia: “Marco è il ragazzo più simpatico che conosco”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei porvi un interrogativo composito di natura prevalentemente sintattica.
Prima metà del periodo:
1A) Se un domani tornassi in Italia, sospetterei che…
1B) Se un domani tornerai / sarai tornato in Italia, sospetterò che…
Le due costruzioni, seppur con difformità semantiche, sono valide?
Seconda metà del periodo:
[…] sospetterò / sospetterei che…
2A) tu possa non esserti trovato bene all’estero.
2B) tu potresti non esserti trovato bene all’estero.
2C) tu non ti sia trovato bene all’estero.
A condizione che le tre soluzioni completive siano accettabili, quale suggerireste?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima parte del periodo le forme verbali di entrambe le varianti vanno bene; nella prima, però, bisogna esplicitare il soggetto di tornassi, altrimenti il ricevente penserà che sia io. Anche le tre varianti della seconda parte sono tutte legittime: la 2A e la 2C sono equivalenti dal punto di vista della forma verbale, visto che possa e sia sono entrambi congiuntivi presenti; potresti aggiunge una sfumatura di condizionalità, ovvero di incertezza. Tra le 3 oggettive la 2A esprime, con il verbo potere, una certa cautela da parte del parlante rispetto all’eventualità descritta; la 2C è più diretta; la 2B è estremamente cauta, perché unisce il verbo potere al condizionale di incertezza.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nelle seguenti frasi qual è la diversa funzione grammaticale di una?
“Vorrei una sola fettina di arrosto”;
“La zia abita in una bella casa”.

 

RISPOSTA:

Nella prima una è un aggettivo numerale cardinale; nella seconda è un articolo indeterminativo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se queste due frasi sono corrette: 1) Non sapevo che quella era l’ultima volta che l’avrei visto; 2) Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. “A orecchio” queste frasi mi suonano bene, però mi lascia perplesso quel sarebbe stata e quel l’avrei visto, che dovrebbero proiettare l’azione al futuro rispetto al sapevo, mentre non mi pare che sia cosi’.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: nella prima era situa l’ultima volta nel passato, quindi automaticamente nello stesso momento di sapevo; nella seconda sarebbe stata proietta l’ultima volta nel futuro rispetto a sapevo, sottolineando che la qualità di volta di essere l’ultima avrebbe continuato a valere in futuro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho trovato nel Corriere della Sera questa frase con il verbo nella principale all’indicativo e il congiuntivo imperfetto nella subordinata relativa: “Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
– Ho interpretato dovessero come un’azione che si svolge possibilmente nel futuro (un’eventualità) e non un’azione al passato (semanticamente simile alla frase “Vorrei che tu venissi con me”, in cui venissi non si riferisce al passato anche se il congiuntivo è imperfetto).  
Le mie domande:
1. Il meccanismo che funziona nelle frasi come “Guarderei volentieri un film che abbia come protagonista Al Pacino” non c’entra in questa frase dato che il verbo rischiano è all’indicativo? In altre parole, non c’è la possibilità che dovessero venga interpretato come dovevano (indicativo imperfetto)?
2. Mettiamo il verbo della principale al condizionale: “Si può dire che cosa rischierebbero i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione…”. Questa forma con il condizionale nella prima parte potrebbe indicare che dovessero vale sia come un’eventualità che un imperfetto (una cosa conclusa) come ha scritto nel blog?
3a. Come mai per molti amici italiani, la frase cambiata senza il verbo servile dovere (“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che portassero avanti la mobilitazione”) non sembra corretta al presente?
3b. Come mai per gli stessi amici italiani in questo esempio va bene il congiuntivo imperfetto senza il verbo servile? “Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
Mi domando se la ragione per cui la frase 3b va bene sia perché c’è la sfumatura di un valore limitativo insieme con un desiderio (un altro esempio: “Voglio comprare una camicia che sia blu”… “Non so se esista”). Questa sfumatura non esiste nella frase 3a: che ne dite?
4. Anche se ho una ventina di libri di grammatica italiana (scritti dal prof. Serianni e altri grandi professori) non riesco a trovare una spiegazione della consecutio nelle proposizioni relative. Per le completive tipo soggettiva, oggettiva, dichiarativa, interrogativa indiretta, in cui il che è una congiunzione, viene spiegata. La consecutio funziona anche nelle proposizioni relative?

 

RISPOSTA:

Bisogna chiarire innanzitutto che il verbo servile dovere nella frase indica non un obbligo, ma una incertezza dell’emittente o l’eventualità dell’evento (dovessero portare = ‘forse, eventualmente portassero’). Questo significato è sfruttato soprattutto al presente e all’imperfetto, non con i tempi perfettivi (quelli che rappresentano l’evento come concluso); anche al presente e all’imperfetto, però, in alcune frasi risulta impossibile usare dovere con il significato di incertezza, soprattutto se esso si trova in una proposizione subordinata. Per non confondere il problema dei tempi verbali con quello dell’uso del verbo dovere, quindi, eliminerò quest’ultimo nelle riformulazioni della frase che farò. 
Nella frase del Corriere della Sera dovessero portare si comporta come avesse nella frase “Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino” (su cui verte la risposta  “Il congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa”  dell’archivio di DICO). La costruzione non cambia se la reggente è all’indicativo presente (rischiano) o al condizionale presente (guarderei). La differenza tra le due frasi è, piuttosto, nel diverso comportamento di avesse e dovessero portare avanti: quest’ultimo verbo, infatti, si lascia interpretare con maggiore difficoltà come passato rispetto ad avesse, sebbene già in quel caso l’interpretazione passata della relativa fosse piuttosto forzata. L’interpretazione passata è più plausibile eliminando dovere… che cosa rischiano i lavoratori che portassero (= portavano) avanti la mobilitazione, ma la costruzione e il significato della frase richiederebbero, per riferirsi al passato, un tempo perfettivo: … che cosa rischiano i lavoratori che hanno / abbiano portato avanti la mobilitazione
Se, quindi, interpretiamo la frase così com’è come riferita al presente con una proiezione nel futuro il congiuntivo imperfetto ha la stessa funzione che avrebbe il presente: … che cosa rischiano i lavoratori che portino avanti la mobilitazione. Le due versioni della frase, con il congiuntivo presente e imperfetto (ovviamente senza dovere) sono equivalenti; molti parlanti preferiscono, però, la versione con l’imperfetto perché le relative al congiuntivo esprimono sfumature ipotetiche, normalmente associate al congiuntivo imperfetto, tipico della proposizione ipotetica (che portassero avanti = se portassero avanti). 
Questa risposta riguarda direttamente le domande 1 e 2. Per quanto riguarda le domande 3a e 3b si noti che la frase “Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che portino avanti la mobilitazione” è corretta, ma, come detto sopra, i parlanti preferiscono usare il congiuntivo imperfetto nelle proposizioni relative (non cercherei altre ragioni semantiche troppo sottili per spiegare questa preferenza).
Infine, le grammatiche descrivono la consecutio temporum soltanto per le proposizioni completive perché soltanto con queste proposizioni il sistema funziona in modo regolare; nelle altre proposizioni, invece, i modi e i tempi tendono a mantenere la loro funzione propria, indipendente dal rapporto con il verbo della proposizione reggente. Tra tutte, la proposizione relativa ha il comportamento più indipendente di tutte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Il giorno in cui un’altra civiltà mondiale dovesse sostituirsi con prepotenza a quella occidentale, ci faranno pagare anche i crimini di Scipione in Africa e di Alessandro in Persia…”.
Chiedo un parere professionale su quel futuro dopo il congiuntivo. È giusto ci faranno pagare per intendere un evento futuro che può accadere da quel momento, o sarebbe più corretto il condizionale: ci farebbero pagare? Sono entrambe accettabili?

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni sono possibili e corrette. Con il condizionale l’evento è rappresentato come direttamente condizionato dall’evento del sostituirsi, quindi dipendente da esso; con l’indicativo esso è sganciato dalla relazione di condizione-conseguenza, quindi è rappresentato come più concreto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della parola ore. In un elenco di attività quale forma è corretta?
• H 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• H 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
oppure
• 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
Ne approfitto per chiarire un altro dubbio: se in un testo si elencano i tempi scuola di un Istituto, il titolo dovrà essere al singolare o al plurale, precisamente:
Tempo scuola / Tempi scuola
– Scuola Carducci dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00
– Scuola Falcone dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle 16.30

 

RISPOSTA:

Per la verità nei suoi esempi la parola ore non appare, ma appare H, che sta per l’inglese hour ed è entrato stabilmente nell’uso. La presenza dell’intervallo di tempo rende non necessario specificare che si tratta, appunto, di un orario, ma niente vieta di specificarlo ugualmente, come fa lei oppure con ore 12:00-13:00 saggio di chitarra… Nella stringa 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ovviamente, sarebbe bene indicare anche l’orario di chiusura dell’attività. Aggiungo che negli orari in italiano si preferisce separare i minuti dalle ore non con il punto, come fa lei (uso che rimanda al mondo anglofono), ma con la virgola o i due punti.
L’espressione polirematica tempo scuola indica i limiti temporali massimi all’interno dei quali possono essere organizzati schemi orari diversi, a seconda delle attività offerte e selezionate dalle famiglie degli studenti. Ne consegue che la forma più calzante sia il singolare nel caso ci si riferisca a un istituto, plurale, ma anche singolare, se ci si riferisce a più istituti (o più plessi dello stesso istituto).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Scrivo per chiedere se, secondo voi, nel contesto della frase sotto riportata la congiunzione ebbene ha più valore avversativo o conclusivo. 
“Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha rifiutato”.
Io ritengo che abbia più un senso avversativo, è più facile sostituirla con maperòtuttavia rispetto che con quindi o pertanto, ma mi interessa capire anche il vostro punto di vista.
Ho consultato il dizionario Sabatini-Coletti in cui, a proposito di ebbene si legge che tale congiunzione può essere utilizzata “con valore anche avversativo, per segnalare una decisione o una circostanza contrarie all’aspettativa”. Vi è inoltre la seguente frase a mo’ di esempio: “la sua proposta è che io mi dimetta; ebbene, non ci sto”. Mi sembra molto simile a quella da me proposta: in entrambi i casi, infatti, vi sono sottese un’aspettativa (la proposta di una persona che io mi dimetta; la mia richiesta di farmi un favore) e una decisione o una circostanza contraria all’aspettativa (io non voglio dimettermi; una persona ha rifiutato la mia richiesta di favore). 

 

RISPOSTA:

La domanda è più insidiosa di quanto sembri a prima vista. Innanzitutto escludo che ebbene sia sostituibile con tuttavia o simili, perché tale sostituzione (per quanto grammaticalmente possibile) modificherebbe il significato della frase. La frase, infatti, non mette in contrapposizione due eventi, ma presenta prima un evento e poi un altro che ne rappresenta l’esito. Il significato che tale esito sia contrario alle speranze dell’emittente non è contenuto in ebbene, ma è inferito dal ricevente sulla base della sua conoscenza del mondo: la frase “Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha accettato” sarebbe ugualmente coerente nel contesto adeguato. Dal punto di vista testuale, ebbene ha la funzione di segnale discorsivo metatestuale che serve a introdurre la conclusione di un racconto; il valore che meglio lo descrive, anche se in termini non tecnici, è pertanto quello conclusivo (ebbene si avvicina qui a insomma: “Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, insomma ha rifiutato”).
Possiamo considerare l’esempio del Sabatini-Coletti analogo alla sua frase; non condivido, però, l’interpretazione data dal dizionario. Aggiungo che il valore avversativo per ebbene non è menzionato né dal Sabatini-Coletti on line, né dal GRADIT, né dallo Zanichelli, né dal Devoto-Oli, né dal Dizionario Garzanti. 
Sulla base dell’analisi condotta – si noti – la frase risulta formata da due enunciati giustapposti, tant’è che richiederebbe un segno di interpunzione forte prima di ebbene (… se poteva farmi un favore; ebbene, ha rifiutato o anche … se poteva farmi un favore. Ebbene, ha rifiutato), proprio come nell’esempio del Sabatini-Coletti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se email è da considerarsi di genere femminile o maschile

 

RISPOSTA:

Il nome e-mail (o email) è stabilmente usato come femminile, sulla base della vicinanza semantica con il nome italiano lettera (oppure posta). In astratto sarebbe possibile considerarlo maschile, visto che la regola del genere dei nomi stranieri stabilisce di usarli tutti come maschili (tranne quelli che nella lingua d’origine sono femminili), ma l’uso femminile è talmente radicato da essere difficilmente modificabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La mia domanda riguarda la traduzione del seguente testo in lingua inglese.

“Having worked with any number of students through the years, I feel that meditators should follow the breathing where it seems most vivid and comfortable to them, where it is most likely to hold their attention. None of these places will always, in every sitting, remain the most vivid. But it is important not to keep jumping from one to another, feeding an already restless mind”.

Nella frase None of this places will always, in every sitting, remain the most vivid l’avverbio always non significa ‘in tutte le sedute’, sta solo dicendo che sempre in ogni seduta accade questo? Per spiegarmi meglio, non sta spiegando tra le parentesi cosa intende per always.

 

RISPOSTA:

La parte tra virgole, in every sitting, contraddice il verbo remain, perché il fatto che i posti non rimarranno vividi nel ricordo riguarda certamente la vita futura oltre le sedute, non le sedute di meditazione future. La traduzione che mi sembra più plausibile è questa: “Nessuno di questi posti sperimentati nelle sedute rimane mai più vivido degli altri”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ciascuno bevve due litri d’acqua” che complementi ci sono?

 

RISPOSTA:

Ciascuno = soggetto
due litri = complemento oggetto + attributo
d’acqua = complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

vi scrivo per chiedervi aiuto per aggiungere qualche dettaglio ulteriore a un testo che ho scritto, senza che questo diventi troppo dispersivo. In più, volevo chiedervi gentilmente se si può eliminare qualche piccola sbavatura o ripetizione. 

Il testo è il seguente:

“Per un po’ mi tieni dentro la tua bocca; poi mi sputi fuori, facendomi finire tra le lenzuola del tuo letto. Poco dopo lasci cadere attorno al mio minuscolo corpicino diverse cascate della tua bianca e densa saliva: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano. 

Volevo scriverlo di nuovo aggiungendo che la ragazza alterna momenti in cui lascia colare la saliva mentre tiene le labbra socchiuse e altri mentre tira fuori ed estende la lingua lungo il mento, solo che non so come inserirlo: temo che spendendo 4/5 frasi in più si possa appesantire il periodo. Oltre a ciò, volevo sapere se attorno al mio corpicino fosse posizionato correttamente nella frase, così come conoscere dei sinonimi per dire attorno a me oppure attorno al mio corpicino
Avevo pensato a questa variante, però non so se possa risultare pesante da leggere: 

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri mentre estendi / allunghi [non so quale dei due termini sia più appropriato] la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.

 

RISPOSTA:

La seconda versione del testo è ben scritta e non pesante da leggere. Per quanto riguarda attorno al mio corpicino, è ben posizionato e può essere sostituito da varianti come intorno al mio piccolo / minuscolo corpo o simili. Espressioni sostitutive più sofisticate sono sempre possibili (il corpo può essere metaforizzato variamente, oppure al posto del corpo si possono nominare, metonimicamente, le braccia, le gambe, la testa), ma sono scelte che modificano lo stile e in parte anche il significato del testo, per cui sono di pertinenza dell’autore. Anche la scelta tra estendi e allunghi non è decidibile su base grammaticale, ma riguarda la semantica e lo stile: estendere è proprio di ambiti tecnico-specialistici e in questo contesto sembra un po’ forzato, ma potrebbe essere scelto proprio per questo valore lievemente straniante. Per la sintassi, suggerisco la seguente correzione, che elimina la difficoltà del collegamente tra altri e mentre:

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri in cui estendi / allunghi la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In un post di un’economista ho trovato questa frase che mi ha creato molti dubbi.
“Nonostante tutto quello che si scriva e che si dica, sono orgogliosa di come l’Italia e gli italiani abbiano reagito”.
Questa frase è corretta?
Si possono sostituire tutti i congiuntivi con l’indicativo? Per me è più naturale dire sono orgogliosa di come hai risolto la situazione o hai reagito, perché è un dato oggettivo. Avrei usato l’indicativo anche dopo nonostante tutto quello che, anche se so che dopo nonostante ci vuole il congiuntivo.

 

RISPOSTA:

Nella frase che lei ha letto i congiuntivi si scriva e si dica sono effettivamente al limite dell’accettabilità; sarebbe meglio sostituirli con le forme equivalenti dell’indicativo. Questi verbi non sono, infatti, inseriti in proposizioni concessive introdotte da nonostante (nonostante tutto quello è un sintagma nominale che fa parte della reggente), ma si trovano all’interno di proposizioni relative (che si scrive e (che) si dice), che qui, come nella maggioranza dei casi, richiedono l’indicativo. Al contrario, il congiuntivo abbiano reagito all’interno della proposizione interrogativa indiretta è del tutto corretto; l’indicativo hanno reagito sarebbe una variante ugualmente legittima, ma meno formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

vorrei farvi una domanda relativa al congiuntivo trapassato e al trapassato prossimo dell’indicativo.
Se non sbaglio, questi tempi necessitano di un altro passato al quale agganciarsi per essere giustificati (a meno di non essere usati in frasi autonome, nel caso esclusivo del congiuntivo).
La domanda è questa: annullando lo stacco temporale che stabilisce cosa è avvenuto prima di cosa, sarebbe possibile sostituire il congiuntivo trapassato con il passato e il trapassato prossimo con il passato prossimo, oppure queste sostituzioni confliggerebbero con la sintassi?

1) Sono convinta che lei
a) fosse uscita
b) sia uscita,
prima che lui arrivasse.

2) Penso che lei
a) avesse sbagliato
b) abbia sbagliato
a tacere, quando lui le chiese di parlare.

3) Prima di uscire,
a) aveva salutato
b) ha salutato
tutti gli amici.

 

RISPOSTA:

Innanzitutto bisogna ricordare che il trapassato si può usare anche se non c’è nella frase un altro tempo passato, perché quest’ultimo può essere sottinteso. Una frase come “Sono convinta che lei fosse uscita”, per esempio, sarebbe del tutto corretta. 
Fatta questa premessa, la risposta alla sua domanda è sì: il trapassato può essere sostituito con il passato senza provocare un errore sintattico. Il significato della frase in alcuni casi rimane sostanzialmente uguale con entrambi i tempi, in altri cambia. Nella sua frase 1, fosse uscita chiarisce che l’evento precede un altro evento passato, identificabile con arrivassesia uscita, dal canto suo, pone l’evento genericamente nel passato, non esplicitamente in un momento del passato che precede un altro evento. La proposizione temporale introdotta da prima che, però, è sufficiente a recuperare questa informazione: in questo caso, quindi, le due frasi hanno lo stesso significato, per quanto quella con il trapassato sia più precisa.
Nella sua frase 2 la situazione è completamente diversa: qui il rapporto nel passato è tra avesse / abbia sbagliato e chiese. Se volessimo sottolineare il rapporto temporale tra i due eventi dovremmo rappresentare il tacere, quindi lo sbagliare a tacere, non come precedente, ma come successivo al chiedere, quindi scriveremmo “Penso che lei avrebbe sbagliato a tacere, quando lui le chiese di parlare”. Possiamo, però, rappresentare i due eventi come contemporanei, collegati da un rapporto non temporale, ma consequenziale (e solo implicitamente anche temporale): per far questo useremo il passato: abbia sbagliato. In entrambi i casi il trapassato non è un’opzione corretta.
Nella frase 3 la scelta del tempo del verbo della reggente dipende da quale sia il momento di riferimento. Se esso è il momento dell’uscire allora l’evento del salutare può essere rappresentato come semplicemente passato, ma ovviamente precedente all’evento dell’uscire per via della congiunzione prima di, oppure come esplicitamente precedente a quello dell’uscire. La differenza sta nel grado di precisione. Se, però, viene introdotto un diverso momento di riferimento passato, ha salutato diviene impossibile (o almeno molto trascurato); per esempio: “Mi dissero che aveva salutato (non ha salutato) prima di uscire”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.

 

RISPOSTA:

Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosatu vedi di fare la stessa cosa con menon so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Trovandomi al supermercato, ho deciso di fare la spesa per tutta la settimana”. Quale delle affermazioni seguenti è corretta relativamente all’uso del gerundio in questo periodo?
– È corretta perché il gerundio è usato in modo impersonale
– È corretta perché esprime contemporaneità tra la proposizione reggente e la subordinata
– È corretta perché il soggetto della proposizione reggente coincide con quello della subordinata

 

RISPOSTA:

Prima di entrare nel merito della risposta sottolineo che le tre opzioni dovrebbero cominciare con è corretto, non con è corretta, visto che si riferiscono all’uso del gerundio, non all’affermazione.
Per quanto riguarda il gerundio, l’unica opzione sicuramente sbagliata è la prima, perché il gerundio non è impersonale. Tra la seconda e la terza preferisco la terza, perché la seconda afferma che il rapporto di contemporaneità rende il gerundio corretto, mentre il gerundio sarebbe corretto anche se il rapporto con la reggente fosse di anteriorità: essendomi trovato / trovata al supermercato, ho deciso…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Rileggendo un vecchio testo a mia disposizione, ho notato un periodo particolarmente complesso sotto il profilo sintattico. Mi piacerebbe apprendere la vostra visione circa gli intrecci temporali e i rapporti tra le proposizioni: «Avevo saputo che un mio caro amico d’infanzia lamentava molti dolori e una forte stanchezza. Temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse essersi ammalato».
Per prima cosa vi domando se l’autore ha ben impostato il periodo; mi permetto poi di chiedere che cosa cambierebbe a livello di contenuto se avesse scritto: «Avevo saputo che un mio caro amico d’infanzia lamentava molti dolori e una forte stanchezza. Temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che si fosse ammalato».

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata solo se la seconda frase intende riferire l’essersi ammalato alla situazione descritta nella prima frase, quindi se lo scrivente intenda dire che sospetta, ma non accettare, che l’amico si sia ammalato, e prevede, temendolo, che solo in futuro potrà accettare questa possibilità. Se lo scrivente, invece, nel momento in cui sta scrivendo pensa semplicemente che il suo amico si sia ammalato, la frase dovrà essere temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse essersi ammalato. Ancora, se lo scrivente pensa che i sintomi accusati dall’amico siano anticipatori di una possibile malattia futura, non rivelatori di una malattia presente, la frase dovrà essere temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse ammalarsi.
La sua riscrittura è equivalente alla frase originale, tranne che per la mancanza della sfumatura potenziale. In essa, quindi, l’annalarsi dell’amico è dato come un’eventualità più concreta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Due amici si incontrano dopo le ferie estive.
«Ti vedo in forma» afferma l’uno.
«Potrò essermi riposato in vacanza?!» risponde l’altro.
È corretto l’uso che viene fatto del futuro semplice, oppure sarebbe stato meglio scegliere il futuro anteriore «mi sarò potuto riposare in vacanza», «avrò potuto riposarmi in vacanza»?
Infine consentitemi di domandarvi se il futuro semplice della frase iniziale potrebbe essere sostituito dal presente indicativo «posso essermi riposato in vacanza».

 

RISPOSTA:

L’anteriorità dell’evento del riposarsi è espressa nella frase dall’infinito passato. In effetti è corretto marcare come passato l’evento del riposarsi, non la sfumatura della potenzialità. La frase con mi sarò potuto o avrò potuto, infatti, difficilmente viene interpretata come passata; i parlanti la considererebbero, al contrario, futura (ma anteriore rispetto a un altro evento ancora più in là nel tempo).
Si può certamente esprimere l’incertezza riguardo all’evento con il presente del verbo potere. Questo verbo, infatti, aggiunge al verbo con cui entra in composizione una sfumatura di potenzialità, quindi, appunto, di incertezza. Il futuro non fa altro che accentuare tale sfumatura, grazie alla sua funzione epistemica (chiaramente non temporale, visto che l’evento è avvenuto nel passato).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

n

RISPOSTA:

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Quali delle seguenti frasi, è corretta da un punto di vista grammaticale?
Non ci ho voglia
Non c’ho voglia
Non ciò voglia
 

 

RISPOSTA:

“Non ci ho voglia” e “Non c’ho voglia” sono entrambe corrette, sebbene entrambe informali (la seconda più della prima) e adatte più al parlato che allo scritto, per via della presenza del ci attualizzante, rispetto al più formale “Non ho voglia”. La seconda, inoltre, genere problemi di pronuncia, poiché, per la mancanza di una vocale palatale, indurrebbe l’erronea pronuncia “kò”.
“Non ciò voglia” è un grave errore, perché confonde “ci ho” con il pronome “ciò”, solo per via del fatto che la pronuncia delle due forme è identica. Naturalmente la forma “non ciò voglia” non ha alcun senso e dunque è annoverabile tra le forme di italiano popolare, oppure di interlingua, ovvero una forma tipica di chi non conosce bene o affatto la lingua italiana.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi relativi all’analisi del periodo.

1. “Ho bisogno di mangiare”  e “Bisogna mangiare”
È giusto dire che nel primo caso “di mangiare” è una proposizione dichiarativa e  che nel secondo caso “mangiare” è una proposizione soggettiva?
2. “Sa sempre cosa dire”
Non capisco se “sa” introduce una proposizione oggettiva o un’interrogativa indiretta.
Come faccio a distinguere le proposizioni in dipendenza dal verbo ‘sapere’?

 

RISPOSTA:

1. “Ho bisogno di mangiare”: proposizione oggettiva. Capisco che bisogno, essendo un sostantivo, possa indurre l’interpretazione come dichiarativa, però l’espressione avere bisogno di è davvero avvertita come unitaria, cioè come se fosse un verbo (necessitare di). Comunque son minuzie, tanto più che le dichiarative, le oggettive, le soggettive e le interrogative indirette possono essere analizzate in un’unica categoria, cioè quella delle completive, il che risponde anche alla domanda successiva.

2. Sapere introduce una interrogativa indiretta se il che successivo è interpretabile come che cosa: “Sa sempre che dire” = che cosa / cosa. Nel suo esempio, essendoci addirittura il solo cosa, l’interpretazione è inequivocabilmente quella di completiva interrogativa indiretta. In casi come, per esempio, “So che stai male”, l’interpretazione non può essere ‘so che cosa stai male” e quindi non si tratta di interrogativa bensì di completiva oggettiva.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Monica ha braccia più che robuste, spalle larghe, ecc.”,
robuste è aggettivo, invece “più che” è una locuzione oppure serve per formare il
superlativo assoluto?

 

RISPOSTA:

Più che robuste è superlativo assoluto, dunque più che in questo caso è una locuzione avverbiale che sta per ‘molto’.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Alla domanda Che lavoro fai? è possibile rispondere in tre modi:
1) Sono (una) maestra
2) Faccio la maestra
3) Lavoro come maestra
In 1 maestra è predicato nominale, ma in 2 e in 3?
In 2 e 3 si può parlare di predicativo del soggetto?
Inoltre: perché in 1 (quindi con il verbo essere) si usa l’articolo indeterminativo
mentre con il verbo fare devo usare l’art. determinativo? (*Faccio una maestra)

 

RISPOSTA:

Sì, 2 e 3 sono predicativi del soggetto.

La differenza tra articolo determinativo e indeterminativo, in genere chiara (determinativo per un oggetto noto o per una categoria, indeterminativo per un elemento singolo di una categoria, che spesso coincide con un oggetto ignoto o non ancora nominato), non è sempre chiarissima, perché dipende dalla storia delle collocazioni, cioè da come un gruppo di parole si stabilizza nella lingua.

In questo caso, è possibile sia “Sono maestra” (cioè appartengo alla categoria professionale delle maestre), sia “Sono una maestra” (cioè, sono un elemento della categoria delle maestre). Il determinativo “Sono la maestra” farebbe scattare l’interpretazione ‘sono una maestra già nota o nominata prima’, per esempio “Sono la maestra di Luca”.

Con fare, non conta l’essere un elemento di una categoria ma la funzione, cioè, in un certo senso, il rappresentare la categoria stessa, per questo l’indeterminativo è impossibile e si impone il determinativo.

 

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Articolo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La seguente concordanza fra aggettivo e sostantivi è corretta? Le sue grandissime esperienza e capacità.
Grandissime sarebbe rivolto a tutti e due i nomi.

 

RISPOSTA:

La concordanza è corretta, anche se la sequenza aggettivo plurale – nome singolare può risultare sgradevole, per la sua rarità. Tale sequenza si può evitare ripetendo l’aggettivo: la sua grandissima esperienza e la sua grandissima capacità, oppure riformulando la frase, per esempio: la sua esperienza e la sua capacità, entrambe grandissime.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase “Non avevo visto che STESSE piovendo” è corretta o si dovrebbe dire “Non avevo visto che STAVA piovendo”? Quale è la differenza?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette; in questo caso la differenza tra congiuntivo e indicativo non è semantica (il significato non cambia), ma solo di registro: l’indicativo è più adatto al parlato, ma anche allo scritto di bassa e media formalità; il congiuntivo è adatto allo scritto di media e alta formalità
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nella frase “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA desiderano…” è scorretto l’uso del verbo al plurale.

 

RISPOSTA:

Il soggetto della frase è L’istituto comprensivo, quindi il verbo va concordato al singolare. La concordanza al plurale è accettabile soltanto in un contesto informale (quale non sembra essere quello in questione). Attenzione: bisogna anche chiudere il complemento incidentale con una virgola, pertanto:  “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA, desidera…”
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei porvi due domande circa il seguente periodo:
“Ti girerò prossimamente tutte le informazioni che entro la mattinata di domani dovrei ricevere / aver ricevuto”.
Prima domanda: è corretto l’uso del verbo modale? (Nell’esempio è stato inserito dovere, ma si sarebbe potuto scegliere anche volere o potere: “…entro la mattinata di domani potrei ricevere / aver ricevuto”; “…entro la mattinata di domani vorrei ricevere / aver ricevuto”).
Seconda domanda: sono giustificabili sia l’infinito presente sia quello passato in funzione di dove il parlante decida di collocare il cosiddetto centro deittico? In altre parole, se si situa il punto di vista alla fine della mattinata del giorno successivo, l’azione del ricevere potrebbe essere espressa
con l’infinito passato?

 

RISPOSTA:

Il verbo modale è corretto: dovere assume qui valore epistemico, ovvero esprime l’incertezza dell’emittente circa l’effettivo verificarsi dell’evento del ricevere. L’unico verbo modale un po’ forzato è volere, ma soltanto per ragioni semantiche: difficilmente si troverebbe un contesto in cui la frase con il verbo volere sia coerente. Per quanto riguarda il tempo dell’infinito, le cose stanno come ipotizza lei: il presente presenta l’evento del ricevere come futuro, quindi assume come centro deittico il momento dell’enunciazione; il passato lo presenta come già avvenuto, quindi assume come centro deittico quello del girare, che funge da momento di riferimento.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Qual è la forma corretta tra insegna all’Università insegna nell’Università?

 

RISPOSTA:

L’espressione corretta è insegna all’università (l’iniziale maiuscola è opzionale). La preposizione a si usa in espressioni di questo tipo per indicare l’ambiente o l’esperienza tipica che un individuo sperimenta in un luogo; al contrario, la preposizione in indica il luogo, fisico o figurato. Per questo si direbbe, per esempio, “la presenza delle donne nell’università è in crescita”, ma “ho incontrato Luisa all’università”. 
Lo stesso rapporto con le preposizioni è intrattenuto dal nome scuola (“sono a scuola”, ma “bisogna investire nella scuola”). Anche i nomi casa e mare ammettono la doppia costruzione, ma preferiscono in senza preposizione (ad esempio sono a casarimango in casa). Richiedono la preposizione articolata se sono accompagnati da un aggettivo o un complemento di specificazione: “il coniuge superstite ha diritto di abitare nella casa familiare”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome, Preposizione
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QUESITO:

Ho bisogno di un chiarimento circa l’uso dei due punti e le congiunzioni. Ho letto che i due punti possono svolgere la funzione di connettivo e possono essere usati al posto di congiunzioni dichiarative (infatti, tant’è vero che) oppure al posto di quelle conclusive (perciò, quindi, dunque, pertanto) o quelle esplicative (cioè, vale a dire, in altre parole). È corretto ciò che ho letto?
Alcune fonti dicono che nulla esclude la possibilità di usare contemporaneamente i due punti e la congiunzione. Secondo questi ultimi usarli entrambi renderebbe più particolarmente evidente il nesso logico. Altre, invece, asseriscono che l’uso di entrambi non sia giusto dal punto di vista stilistico, poiché la congiunzione finisce per smorzare l’effetto di immediatezza perseguito con i due punti.
Volevo un vostro parere al riguardo. 
Oltre a ciò, volevo chiedere se i due punti possono precedere il ma. Su questo non ho trovato niente in rete, però nella scrittura giornalistica è abbastanza usato. Voi che ne pensate? In quali casi è possibile farlo? 

 

RISPOSTA:

I due punti possono fare le veci di un connettivo: è tardi, quindi sbrigati = è tardi: sbrigati. Si può dire, pertanto, che possono avere la funzione di un connettivo. L’uso dei due punti insieme a un connettivo è un fatto, come lei stesso scrive, di stile: in questo ambito ogni scelta è ammissibile e deve essere commisurata al gusto personale. I due punti inseriti prima di ma sono insoliti; questo segno, infatti, introduce una spiegazione, un’informazione aggiuntiva, una conseguenza, mentre ma stabilisce un’opposizione. Non si può escludere che ci siano contesti in cui l’accostamento sia sensato, ma in generale può essere considerato una forzatura.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale fra le due affermazioni è la più formale?
Quanto alto è Mario?
Quanto alto sarà Mario?
Inoltre ho visto che va molto di moda ultimamente mettere l’asterisco per rendere “neutri” i sostantivi (asterisco egualitario di genere) che se non ho capito male, sarebbe invece consigliato rivolgersi ad entrambi i sessi con il maschile plurale secondo canoni formali della lingua italiana.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette (anche se sarebbe meglio anteporre il verbo: Quanto è alto, Quanto sarà alto Mario?), soltanto che in questo caso il futuro ha un valore epistemico, cioè indica un certo grado di dubbio o probabilità: “mi chiedo quanto possa essere alto Mario” ecc. Dato che ogni domanda (che non sia retorica) contiene in sé un elemento dubitativo (altrimenti se si sapesse già la risposta non si farebbe la domanda), in questo caso il futuro è tutto sommato pleonastico, in quanto equivalente al presente.
Il problema dell’uso dell’asterisco, o dello schwa, a scopo inclusivo, ovvero per rendere sia il maschile, sia il femminile, sia per includere nel novero persone non binarie, è, soprattutto in questi giorni, più vivo che mai e non può essere riassunto in poche battute qui. Ognuno ha le sue idee, legittimamente. Ovviamente la soluzione dell’asterisco e dello schwa violano le attuali norme ortografiche e morfologiche dell’italiano, ma ogni lingua evolve anche a costo di infrazioni del sistema. Pertanto se tali istanze inclusive (di per sé nobilissime, ovviamente, in qualunque società civile) venissero sentite dalla maggioranza degli utenti come necessarie alla comunicazione, il sistema linguistico non potrà non esserne influenzato e dunque l’asterisco e/o lo schwa saranno inclusi nel nostro sistema ortografico e morfologico, con buona pace degli oppositori e delle petizioni. Del resto, non è questo l’unico caso, nella storia della lingua, di vistosi cambiamenti del sistema ortografico: quando io andavo alle scuole elementari era ancora ammessa la grafia ò, ài, à, in luogo di ho, hai ha.
Morale della favola: non parlerei di corretto/scorretto, nei casi di asterisco o di schwa, ma di sentito o no come urgente, usato o no da un congruo numero di utenti ecc. Peraltro, il fatto che oggi si utilizzi il maschile indistinto (eviterei l’uso della parola “neutro”, visto che l’italiano, differentemente da altre lingue, non ha il genere neutro) per rivolgersi sia agli uomini, sia alle donne, sia alle persone non binarie, non relega certo al rango di scorrettezza altri usi possibili, quali per esempio quello, perché no, di utilizzare il solo femminile sempre.
Accada quel che accada nella lingua italiana (che, come ripeto, è in continua evoluzione e non può non riflettere le istanze sociali di chi la usa, visto che ogni lingua umana è, in primo luogo, uno strumento sociale), di qui a qualche mese o anno o decennio, mi pare si debba comunque guardare con favore al fatto che molte persone ritengano importante ridurre il più possibile la discriminazione e l’esclusione, presenti purtroppo ancora largamente nelle nostre società e dunque, di riflesso, anche nelle nostre lingue.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi pare che, al di là di può darsi potrebbe darsi, siano numerosi i sintagmi che, pur introducendo una soggettiva, sono incompatibili con il condizionale. Mi vengono in mente è / sarebbe impossibile opportuno inaccettabile che ecc. Vorrei a questo punto formulare un paio di domande al riguardo.
Quando le soggettive ammettono il condizionale e quando invece questo modo originerebbe una costruzione scorretta? Se, ad esempio, la frase posta dall’utente fosse stata costruita diversamente, quale sarebbe stato il risultato a livello sintattico?
Se fosse organizzato uno sciopero, è / sarebbe impossibile che [rimanere] a casa.
Se fosse organizzato uno sciopero, è / sarebbe impensabile che [rimanere] a casa.
Un’ultima domanda, il tempo del congiuntivo in una soggettiva cambia o può cambiare in base a quello con cui è costruita la reggente. Come riportato sopra, la scelta tra è e sarebbe è condizionante?
È probabile che venga / Sarebbe probabile che venisse?

 

RISPOSTA:

Non ci sono restrizioni sintattiche all’uso del condizionale nella soggettiva; semplicemente è incoerente descrivere un evento come condizionato (quindi possibile, aleatorio) nella soggettiva quando nella reggente si dichiara che quell’evento è vietato oppure necessario. Di conseguenza, le espressioni che esprimono divieto o necessità e reggono una soggettiva rifiutano il condizionale. Al contrario, le espressioni che esprimono dubbio (con le mille sfumature possibili) lo ammettono; è il caso della seconda frase: è / sarebbe impensabile che rimarrei a casa.
Alle espressioni che esprimono divieto può essere assimilata anche è impossibile, che, però, esercita un rifiuto meno netto del condizionale (rispetto, per esempio, a è vietato). Il condizionale, per esempio, sarebbe accettabile nella prima delle due frasi: è / sarebbe impossibile che rimarrei a casa.
Per quanto riguarda la seconda domanda, lei confonde il tempo con il modo, se capisco bene: si chiede, infatti, se l’alternanza di è (indicativo presente) e sarebbe (condizionale presente) nella reggente provochi conseguenze nella scelta del tempo della subordinata soggettiva. La risposta è che in generale il presente nella reggente funziona allo stesso modo ai fini della consecutio a prescindere dal modo. C’è, però, un’eccezione, che riguarda i verbi che esprimono desiderio, necessità, opportunità: questi verbi al condizionale presente nella reggente si comportano come tempi del passato. Per questo motivo abbiamo:
È / Sarebbe probabile che venga.
Ma:
È meglio che venga / Sarebbe meglio che venisse.
Un approfondimento di questa particolarità della reggenza si può leggere nella risposta “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Stando alla consecutio, una subordinata anteriore a una reggente al condizionale presente può essere costruita con il trapassato prossimo, il passato remoto e l’imperfetto dell’indicativo. Vi chiederei se, in una frase come la seguente, siano possibili anche altri tempi verbali:

(Se Caio mi parlasse in presenza di Sempronio), non saprei mai se…
a. abbia detto la verità.
b. avrebbe detto la verità.

La soluzione b non dovrebbe essere intesa come futuro nel passato, ma come anteriorità rispetto al condizionale presente.
Trattandosi inoltre di una proposizione negativa, il passato prossimo previsto dalla consecutio può essere trasformato (soluzione a) in congiuntivo passato?

 

RISPOSTA:

La soluzione a è corretta. Nella frase è possibile usare anche il presente: non saprei mai se dica / dice la verità e l’imperfetto: non saprei mai se dicesse / diceva la verità. In alcuni contesti sarebbe possibile anche il trapassato: non saprei mai se avesse detto / aveva detto la verità (prima di essere accusato). Il passato remoto è, per la verità, l’unico tempo non coinvolto nella consecutio: per esprimere l’anteriorità rispetto al presente si usa il passato prossimo (o il congiuntivo passato), l’imperfetto o, se c’è un evento intermedio, il trapassato.
Per valutare la funzione del condizionale passato ci sarebbe bisogno di un contesto più ampio: sarebbe di condizionale in una frase come non saprei mai se avrebbe detto la verità (se fosse stato costretto); sarebbe, invece, di futuro nel passato in una frase come non saprei mai se avrebbe detto la verità (dopo quello che era successo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Distinzione precisazione possono essere considerati sinonimi?

 

RISPOSTA:

I due nomi indicano operazioni collegate ma non identiche: distinzione è l’atto di separare due oggetti rilevandone le rispettive caratteristiche distintive. In un contesto in cui ci siano due elementi simili, quindi, operare una distinzione comporta prima precisarne le caratteristiche, poi confrontarli e stabilirne le differenze. Nella frase seguente, per esempio, distinzione implica, appunto, la separazione tra due elementi, sulla base di caratteristiche simili ma non identiche: “I populisti fanno sempre una distinzione morale tra chi appartiene al popolo a giusto titolo e chi ne è escluso”.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Traducevo una frase di un libro in lingua inglese.
Questa è la frase originale: “Cheng tried to hide overt function. So one sees that inhaling on posture and exhaling on transition seems to preclude application: this conforms to Cheng’s concealing use so that one remained relaxed throughout the form”.
Io l’ho tradotta in questo modo: “Cheng ha cercato di nascondere la funzione palese. Quindi si vede che l’inalazione sulla postura e l’espirazione durante la transizione sembrano precludere l’applicazione: questo è conforme all’uso occultante di Cheng in modo che si rimanga rilassati per tutta la forma.
In base a quello che si potrà interpretare, le mie domande sono queste: funzione palese si riferisce alla respirazione? Il verbo use si riferisce all’uso del respiro? 
Mi rendo conto sempre più spesso che in tante occasioni per capire quello che una persona scrive si dovrebbe parlare direttamente con l’interessato. A volte tante frasi suonano molto ambigue.

 

RISPOSTA:

L’impossibilità di chiedere spiegazioni allo scrivente è uno dei “difetti” dello scritto. Da questo deriva la necessità di cercare la massima chiarezza nello scritto, per prevenire l’ambiguità.
Nel suo caso, l’espressione overt function sembra riferirsi al meccanismo della respirazione descritto, come da lei ipotizzato. Use, invece, non è un verbo, ma un nome (infatti lei l’ha tradotto l’uso) e va considerato insieme all’aggettivo concealingconcealing use sembra definire un sistema generale all’interno del quale si inserisce anche la tecnica di respirazione descritta (che infatti si conforma a quest’uso, o sistema).
Un piccolo avvertimento sulla traduzione: so that one remained sarebbe ‘così che si rimanesse’ (non rimanga).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Nome, Verbo
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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per chiedervi un parere circa la correttezza di questa frase letta su un sito dedicato al gioco del Fantacalcio: “se svincolandolo (il giocatore x) POTRESTE puntare a centrocampisti migliori, allora potreste pensare seriamente di svincolarlo”.
Ho dei dubbi sulla correttezza del primo potreste: è un errore dettato magari dal gerundio precedente?
Sciogliendo il gerundio, la frase si potrebbe trasformare in “(Mi chiedo) se, qualora lo svincolaste; potreste puntare a centrocampisti migliori: allora potreste seriamente…”?
A dire il vero mi sembra, quest’ultima, un’operazione un po’ farraginosa.
Cioè, quali sono le possibili forme corrette di questa frase? E’ possibile giustificare questo condizionale leggendovi una interrogativa? O si tratta semplicemente di un errore?

 

RISPOSTA:

Si tratta di un errore: la sua riformulazione in realtà  crea una frase diversa, che non si può confrontare con quella iniziale. Il verbo potreste si trova all’interno di una proposizione ipotetica (se potreste puntare a centrocampisti migliori), quindi non è corretto, perchè le ipotetiche non ammettono il condizionale. La frase deve essere modificata così: se poteste puntare a centrocampisti migliori.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Leggo e sento spesso frasi del tipo “Mi manca NON poterti abbracciare”, “Mi manca NON poterti sentire”…
A mio avviso il NON non è necessario perché il senso di queste frasi è “vorrei tanto poterti abbracciare/sentire, peccato che non sia possibile!”.
Perché allora c’è chi sbaglia? Come può essere spiegato questo errore?

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: a rigore, le frasi da lei riportate significano il contrario di quello che certamente intendono comunicare. Questa contraddizione, però, è quasi giustificabile, tanto che la considererei un errore veniale (almeno in contesti informali). Il verbo mancare, infatti, contiene due significati combinati: ‘non avere qualcosa’ e ‘soffrire (per la condizione del non avere qualcosa)’. Nelle frasi che lei riporta emerge chiaramente il tratto del soffrire, mentre quello del non avere si ricava per deduzione. L’emittente, evidentemente, sente l’esigenza di esplicitare questo tratto, cioè che allo stato attuale l’evento (dell’abbracciare, del sentire o altro) non si sta verificando attraverso l’avverbio non.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Volevo chiedervi se questo testo è ben scritto: 

“La ladra conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto da diverso tempo. Ha pianificato tutto nei minimi dettagli, con tanto di lunghi sopralluoghi volti a individuare il momento giusto per entrare in azione. In breve, lei è già pronta per entrare in azione”.

Volevo sapere se la seconda frase è scritta in maniera comprensibile o se ci fosse un altro per formularla, magari anche con altri termini. Ho usato il tempo presente e anche il passato. Volevo sapere se è corretta l’espressione “sopralluoghi volti a individuare” oppure se era meglio un altra locuzione, come “sopralluoghi per individuare”. Io ho omesso quest’ultima per evitare di ripetere la parola “per”, perché da quanto so le ripetizioni possono stonare o risultare sgradevoli al lettore. Un’altra cosa che volevo domandarvi è se l’ultima frase ci sta e si collega bene al resto del discorso.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista grammaticale, il testo non contiene errori; anche se due punti sono migliorabili. Si tratta della finta elencazione della prima frase (conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto) e del soggetto dell’ultima frase (lei).
Per quanto riguarda l’elencazione, le sue abitudini è un secondo complemento oggetto retto da conosce, mentre progetta… è una seconda proposizione giustapposta alla prima. I tre elementi, quindi, devono essere sistemati in modo da distinguere il diverso rapporto reciproco; per esempio così: conosce bene la vittima e le sue abitudini, e progetta di fare il furto.
Il soggetto pronominale dell’ultima frase dovrebbe essere omesso, perché coincide con quello della frase precedente (quindi In breve, è già pronta…). Se lo si esprime, sembra che rimandi a qualcun altro.
Per il resto, i sui dubbi riguardano scelte stilistiche che dipendono dal gusto personale e dal registro scelto. Per esempio, volti a è più formale di per, mentre l’espressione entrare in azione è un po’ trita.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo in merito all’analisi del seguente periodo:

“Jacopo aveva l’intenzione di confessare ai suoi genitori di essere uscito prima da scuola senza permesso, ma poi non l’ha fatto, perché temeva una possibile punizione”.

– Jacopo aveva l’intenzione = prop. principale;
– di confessare ai suoi genitori = sub. dichiarativa di 1° grado implicita;
– di essere uscito prima da scuola senza permesso = sub. oggettiva di 2° grado implicita;
– ma poi non l’ha fatto = coord. avversativa alla principale;
– perché temeva una possibile punizione = sub. causale alla coord. avvers. (1° gr.) espl.

Il mio dubbio riguarda la proposizione ma poi non l’ha fatto, che io considererei coordinata alla principale, anche se il pronome lo in funzione anaforica si riferisce alla subordinata di 1° grado.

 

RISPOSTA:

La proposizione è coordinata alla principale. Se fosse coordinata alla subordinata di primo grado sarebbe anche subordinata alla principale, ma la frase avrebbe questa forma: “Jacopo aveva l’intenzione di confessare ai suoi genitori […] ma poi (aveva l’intenzione) di non farlo. 
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Vorrei sapere se tra un discorso diretto e un successivo disse ci vuole o no la virgola, e, se è opzionale, che differenza c’è. Esempio: “Voglio andare al parco”, disse Andrea.

 

RISPOSTA:

La virgola è necessaria. 
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice come tu o come te
Esempio: “le persone che hanno fatto bene le attività, come tu / te, avranno un premio”.

 

RISPOSTA:

Si dice come te. Il pronome tu si usa solo quando funge da soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho incontrato difficoltà nell’esprimere due concetti evitando ripetizioni e, al tempo stesso, componendo una costruzione grammaticalmente corretta ed esaustiva.
Il primo concetto era questo:
“Lui non parla a lei e lei non parla a lui”.
Al di là dell’immediata “loro non si parlano”, si sono affacciate alla mia mente alcune soluzioni, sulle quali apprezzerei la vostra opinione.
1. Lui non parla a lei e viceversa.
2. Lui non parla a lei e lei altrettanto/lo stesso.
3. Lui non parla a lei e lei fa altrettanto/lo stesso.
4. Lui non parla a lei e lei fa lo stesso verso di lui / nei suoi confronti.
Quale consigliereste tra le quattro (indipendentemente dalla scelta tra altrettanto e lo stesso, che a mio avviso sono equivalenti)?
Il secondo concetto era fondato su un’azione comune a due soggetti (“mio fratello e io stiamo in silenzio per protesta”). Per effetti di enfasi, volevo costruire la frase così: 
“Io sto in silenzio per protesta e anche mio fratello fa lo stesso/altrettanto”.
Il sintagma fa lo stesso / fa altrettanto può sostituire la frase stare in silenzio?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda il primo dubbio, le opzioni sono tutte corrette e possibili, quindi la scelta è soggettiva. Personalmente preferisco la 3, perché è meno ellittica delle prime due, ma anche più sintetica della 4. Proprio la 4, per la verità, è la meno felice delle quattro, perché fare qualcosa verso qualcuno è un po’ insolito, e nei suoi confronti è ambiguo (nei confronti di lui o nei confronti di lei, riflessivamente?). Proporrei anche una quinta opzione: “… e lei fa lo stesso con lui”.
Il secondo dubbio mi pare riguardi la possibilità del verbo fare di sostituire stare, visto che il primo esprime un’azione e il secondo uno stato. In questo caso la sostituzione è legittima, perché fare prenderebbe non il significato di ‘operare, comporre, costruire’, ma quello di ‘comportarsi’, del tutto assimilabile a stare.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

È corretto il futuro andrò o bisogna usare il presente vado per esprimere il futuro, se nella frase tutti gli altri verbi sono al presente?

 

RISPOSTA:

Per descrivere un evento futuro si può sempre usare l’indicativo futuro; si può usare anche il presente, che è adatto a contesti informali e mimetici del parlato. Se in un testo si sceglie di usare il presente per esprimere il futuro, passare al futuro può risultare artificioso (e viceversa); è sempre possibile, però, passare dal presente al futuro e viceversa per modulare il registro, per esempio se ci sono due personaggi che parlano, oppure si vuole dare l’idea di un cambiamento (improvviso o graduale) nel modo di esprimersi di un personaggio. A maggior ragione, questa possibilità si può sfruttare in un testo che cura l’aspetto estetico, come una poesia, perché in questi casi bisogna valutare anche la forma e il suono delle parole.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Le forme “buona sera” e “buonasera” sono entrambe corrette, ma quale è maggiormente indicata nelle comunicazioni formali?

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che oggi le due forme sono del tutto equivalenti sul piano diafasico, ovvero entrambe sono perfettamente adatte sia al registro formale, sia a quello informale. E lo stesso valga per le analoghe coppie buon giorno / buongiornobuona notte / buonanotte.

Sicuramente, visto che le forme univerbate nascono da quelle staccate, cioè dalle locuzioni buona sera ecc., è chiaro che oggi le forme staccate siano meno frequenti e d’origine più antica, pertanto abbiano un sapore più ricercato (staserei per dire lezioso, in certi casi).

I dizionari di solito non prendono posizione: per es. né il Gradit di De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito del periodico Internazionale.it) né il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera) distinguono tra le due forme, riportate come del tutto equivalenti.

Il Treccani, invece (treccani.it), sostiene che le forme staccate (buona sera ecc.) siano più comuni di quelle univerbate, benché questa valutazione sia smentita dai corpora (come vedremo tra un attimo). Ho il sospetto che, come spesso accade, il tendenziale purismo del vocabolario Treccani dica “più com.” laddove vorrebbe invece dire “più elegante perché più antico e raro”.

E veniamo ai corpora. Grazie alla preziosa funzione di calcolo delle frequenze agganciata a Google libri, denominata N-Gram Viewer (liberamente accessibile in https://books.google.com/ngrams) possiamo appurare quanto segue:

– buonasera sorpassa le frequenze di buona sera nel 1973, e da lì in poi l’impennata della prima forma è progressiva rispetto alla caduta della seconda forma;

– analogamente per buonanotte e buona notte (il sorpasso della prima forma inizia nel 1992) e per buongiorno e buon giorno (il sorpasso della prima forma inizia nel 1961). I dati sono ricavati dall’immensa mole di testi presenti in tutto Google libri dal 1500 al 2019.

Insomma, le forme staccate buona serabuona notte e buon giorno sono destinate a scomparire, così come sono scomparse per cheper ciòsopra tutto ecc. Il suggerimento è di usare, in tutti i contesti, le forme univerbate, per evitare di esporci alla critica di essere troppo retrogradi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per avere un parere circa la correttezza della seguente frase: “Peccato quando troppi eventi positivi si accumulano tutti assieme, perché poi, quando servirebbe, il miracolo non arriva”. 
Specialmente, non sono del tutto sicuro che il condizionale semplice dopo il quando sia del tutto conforme alla norma.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata e il condizionale si giustifica per il valore potenziale, come vi fosse un’ipotesi sottintesa: (se arrivasse il miracolo) servirebbe.
Naturalmente, sarebbe corretto anche l’indicativo: quando serve, il miracolo non arriva.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sintattico che mi assilla da tempo. Ho provato a dare un’occhiata al vostro archivio, ma ammetto di non essere stata brava nel risolvere così il caso che
vorrei mostrarvi.
Tutto è nato rispolverando i vecchi schemi della consecutio temporum e di come
applicarli alle formulazioni per me più ostiche.
Mi sono imbattuta in un periodo del genere:

Nel gennaio del 2010 il Presidente disse che la popolazione avrebbe dovuto
attendere (suppongo che sarebbe stato corretto anche doveva, nda) fino alla fine
del 2012 per constatare se le sue promesse erano state/ fossero state mantenute.

Il mio dubbio riguarda l’interrogativa indiretta.
Qui abbiamo tre momenti storici, uno per ogni azione: il gennaio del 2010 e la
fine del 2012 sono passati se osservati dal momento dell’enunciazione; la fine del
2012 è futura soltanto, chiaramente, al gennaio del 2010. Poi c’è un momento
intermedio, imprecisato, che porta alla fine del 2012 e dove si colloca l’azione
se le sue promesse erano state/fossero state.  
Per prima cosa vi chiederei se sia la sintassi del periodo sia la mia disamina
sono giuste.
Per me i guai più grossi cominciano se lo stesso periodo slitta al nostro
tempo.

Nel novembre del 2021 il Presidente disse che la popolazione avrebbe dovuto
attendere fino alla fine del 2022 per constatare se le sue promesse erano state/
fossero state mantenute.

Così strutturato, il periodo ha i soliti tre momenti storici, ma a differenza
dell’omologo del 2012, soltanto uno è passato (novembre 2021), se lo si osserva
dal punto di vista dell’enunciazione. Tutto il resto è futuro. La fine del 2022 è
totalmente futura; il periodo intermedio, invece, è futuro rispetto a ora ma
passato rispetto alla fine del 2022.
Vi domanderei se, definiti questi aspetti, la consecutio impone delle variazioni,
oppure restano corretti i trapassati.
Vi chiedo scusa per la prolissità della mia esposizione, ma ho cercato di fornire
più dettagli possibile per focalizzare le vulnerabilità del mio pensiero.

 

RISPOSTA:

Entrambi i periodi sono ben costruiti, sia nell’uso dei modi sia in quello dei tempi (incluse le sue varianti), e la sua analisi dei tre momenti è sostanzialmente corretta. In entrambi i casi il trapassato si giustifica perché, futuro o no (rispetto al momento dell’enunciazione) l’ultimo tratto, le promesse da constatare non possono che essere state formulate prima del loro mantenimento. Nel secondo periodo, essendo futuro (non solo rispetto alla promessa ma anche rispetto al momento dell’enunciazione) il momento del mantenimento delle promesse, è parimenti corretto il condizionale passato: se le sue promesse sarebbero state mantenute. Non è però scorretto neppure il trapassato congiuntivo (o indicativo), che si giustifica per una sorta di attrazione temporale da parte del passato della reggente (disse), che si porta dietro tutto il resto del complicato periodo.

 Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Ho l’abitudine di inserire in molte delle mie costruzioni l’aggettivo “eventuale”. 

Dopo anni e anni di impiego largo e sistematico ho iniziato a domandarmi se esso sia stato, e sia, superfluo. Non vorrei che la semantica delle frasi, o la semplice logica, portasse allo stesso risultato finale per il mittente, anche se l’aggettivo fosse espunto.

Ecco un campionario di esempi:  

a) Bisogna controllare l’eventuale buona riuscita dell’esperimento.
b) È opportuno verificare l’eventuale assenza del delegato.
c) Il vincitore dovrà eventualmente partecipare alla premiazione?
d) Gli esaminatori valuteranno i progetti e ne giudicheranno l’eventuale approvazione.
e) Dati aspetti della circolare sono determinanti ai fini di un eventuale stato di agitazione.

 

RISPOSTA:

In effetti  in tutti gli esempi citati eventuale ed eventualmente sono pleonastici, perché l’eventualità del fatto è implicata dal contesto o dal significato del verbo:
a) se bisogna controllarla, vuol dire che che la buona riuscita non è assodata, ma va per l’appunto controllata;
b) idem per verificare;
c) l’eventualità è data dalla domanda stessa;
d) valutare e giudicare sono alla stregua di controllare e verificare;
e) forse è questo l’unico caso in cui eventuale possa agevolare la comprensione dell’enunciato, dal momento che lo stato di agitazione potrebbe essere dato per assodato, se non ci fosse eventuale; anche se dal senso generale dell’enunciato si capisce che essere determinante ai fini di qualcosa ha senso soltanto se questo qualcosa esiste, altrimenti il discorso non avrebbe senso; e dunque direi che eventuale è tranquillamente omissibile anche in questo caso.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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QUESITO:

Leggendo su internet i vari nomi dati alla morte, come Tristo Mietitore o Signora in Nero, mi chiedo se è così che ci si debba regolare nel caso se ne volessero coniare di nuovi. Mi riferisco alle maiuscole, che vengono messe anche alle parole seguenti, ma non alle preposizioni.

 

RISPOSTA:

Le convenzioni sull’uso della maiuscola sono poco vincolanti quando si tratta di usi non canonici. Nel suo caso possiamo considerare le espressioni da lei citate come nomi propri composti (in questo senso anche Morte può essere scritto maiuscolo, se è usato come nome proprio). I nomi propri formati da più di una parola sono piuttosto rari: esempi del genere sono quelli geografici, come Monte BiancoMar Nero e anche L’AquilaIl Cairo ecc. Per convenzione, tutte le parole che compongono questi nomi si scrivono maiuscole; questa convenzione, però, si scontra con quella, opposta, che sfavorisce la maiuscola per le parole vuote (articoli, preposizioni, congiunzioni). Nel caso di L’Aquila e simili questa eccezione è aggirata dal fatto che la parola vuota è iniziale, quindi la maiuscola si giustifica per quest’altra via; in casi come Mare dei Sargassi, invece, si propende senz’altro per la minuscola per le preposizioni. 
Il suo caso può essere ben assimilato a quello dei nomi geografici, per cui vanno bene Tristo Mietitore (come Mar Nero) e Signora in Nero (come Mare dei Sargassi). Non sono esclusi, però, tristo Mietitore, visto che tristo è decisamente distinguibile come attributo, mentre Nero di Mar Nero è più nettamente parte del nome, e Signora in nero, perché, similmente, in nero è una specificazione abbastanza autonoma, laddove dei Sargassi di Mare dei Sargassi è nettamente parte del nome.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Nome, Preposizione
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QUESITO:

Se scrivendo una frase come “Voleva la medaglia d’oro, ma fallì”, siccome si intende che fallì non nel volere la medaglia ma nell’ottenerla, quest’ultimo verbo è sottinteso?

 

RISPOSTA:

Nella frase, in teoria se non si specifica in che cosa il soggetto fallisca, il verbo fallire si riferisce al volere; la logica, però, consente di colmare questo vuoto e chiarisce che il fallimento non può che riguardare l’ottenimento della medaglia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coerenza
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QUESITO:

Vorrei sapere se parlando di una entità personificata, essa debba andare con la lettera maiuscola: per esempio, la Vita.

 

RISPOSTA:

Anche se la lettera maiuscola si usa per i nomi propri, non ha la capacità di segnalare l’animatezza di un referente, altrimenti dovremmo scrivere il Canela Pecora ecc. Piuttosto, la maiuscola segnala l’unicità del referente rispetto a una classe; quindi i nomi propri sono maiuscoli perché identificano persone uniche, la Terra è maiuscola perché identifica un oggetto specifico distinto dalla terra nome comune ecc. In considerazione di questo, la sua idea non funziona bene e rischia di ingenerare confusione nel lettore.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Su alcune schede allestiste per l’apprendimento dell’italiano come L2 tra i verbi fraseologici figura anche
decidere seguito dalla preposizione di. Nutro non poche riserve sulla correttezza di questa informazione, che peraltro non trova riscontro su altri testi di grammatica consultati.  Inoltre, considerando, a titolo di esempio, il seguente periodo: “Decise di comprare un libro”, Decise è la proposizione principale di comprare un libro è la proposizione subordinata oggettiva implicita.
Si dovrebbero dunque individuare due predicati distinti e altrettante proposizioni.

 

RISPOSTA:

Il verbo decidere non è un verbo fraseologico: funziona sintatticamente in modo autonomo, e anche dal punto di vista semantico non aggiunge una sfumatura aspettuale ma esprime un significato ben distinto da quello del verbo della subordinata che regge.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sui testi di grammatica italiana rivolti a studenti sia del primo sia del secondo ciclo spesso si legge che la coordinazione è possibile tra due o più proposizioni principali (“Io piango e tu ridi”) oppure tra proposizioni subordinate dello stesso grado e dello stesso tipo (“Andò da Marco per restituirgli il libro e ringraziarlo”).
Non è dunque mai ammessa una proposizione coordinata a un’altra coordinata?
A titolo di esempio, nel periodo: “Si avviò verso casa, ma fu bloccato in ufficio e fece tardi”, la proposizione e fece tardi non potrebbe essere una coordinata copulativa alla precedente coordinata avversativa ma fu bloccato in ufficio?

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: una proposizione può essere coordinata a un’altra coordinata. I manuali che non riportano questo dettaglio probabilmente lo fanno perché ritengono implicito che se una proposizione può essere coordinata a una principale o un’altra dello stesso grado di subordinazione, può esserlo anche a un’altra coordinata che si trova sullo stesso piano.
Aggiungo che la coordinazione tra subordinate è possibile anche se le proposizioni sono di tipo diverso:  (avversativa) “Andò da Luca per restituirgli il libro ma senza averlo avvertito”;
(copulativa) “Andò da Luca perché Luca lo aveva chiamato e nonostante Luca non gli stesse simpatico”;
(disgiuntiva) “Vado al bar per fare due chiacchiere o se non ho altro da fare”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste due frasi sono scritte correttamente, anche a livello di punteggiatura? In particolar modo, mi interessa sapere se la congiunzione causale perché è appropriata per la frase oppure se ci sono altri modi per formularla meglio. La stessa cosa per quanto riguarda la seconda, cioè se anche quest’ultima è scritta correttamente o se si può formulare meglio. Inoltre mi interessa sapere se la virgola prima di fino a quando sia corretta oppure facoltativa. Nel caso in cui fosse opzionale, vorrei sapere quale sia la differenza fra le due varianti. 

1a) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché è eccessivamente minuscolo; tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.
1b) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non riesce: è eccessivamente minuscolo. Tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.

2a) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.
2b) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia, fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono possibili e tutto sommato ben scritte, con qualche sbavatura nella prima frase. In questa, il perché è appropriato: alternative ugualmente valide sono in quantodal momento chepoichévisto chedato che. Aspetti migliorabili della frase sono altri: l’omissione del soggetto nella proposizione causale è inappropriata perché il soggetto della proposizione reggente è diverso; l’espressione eccessivamente minuscolo, inoltre, è ridondante, visto che minuscolo è semanticamente un superlativo (sarebbe come dire troppo minuscolo); l’espressione dopo diversi sforzi richiede un incassamento interpuntivo, perché è un’espansione, ovvero un dettaglio aggiuntivo, inserita in mezzo alla frase. L’espressione riesce ad afferrarlo, infine, è ripetitiva rispetto allo sviluppo precedente della frase: poco prima, infatti, è scritto tenta di afferrare… non ci riesce. Quest’ultima osservazione è di natura stilistica: la ripetizione è, in questo caso, sgradevole ma grammaticalmente legittima.
La prima versione della prima frase, pertanto, può essere migliorata così:

In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché esso / questo è minuscolo / troppo piccolo; tuttavia non si arrende, e finalmente, dopo diversi sforzi, lo prende / ha successo.

Per la seconda versione della prima frase valgono le stesse osservazioni fatte per la prima versione. Per quanto riguarda la punteggiatura alternativa, è una soluzione valida tanto quanto la prima. I due punti svolgono qui la funzione di anticipare una spiegazione di quanto è stato detto prima; in questa versione, pertanto, la proposizione è eccessivamente minuscolo è esplicativa, non causale (come se fosse infatti è eccessivamente minuscolo). Si noti che il collegamento giustappositivo (ovvero la coordinazione tramite punteggiatura) tra la proposizione precedente e quella seguente i due punti rende più accettabile l’omissione del soggetto di quest’ultima: non è, quindi, necessario inserire al suo interno un pronome con la funzione di soggetto.
Il punto prima di tuttavia separa più nettamente la prima parte dalla seconda, creando due frasi, quindi due informazioni, distinte, mentre nella prima versione il punto e virgola separava le due parti mantenendo un collegamento logico più stretto. Allo stesso modo, la virgola prima di e tuttavia crea una piccola frattura logica tra l’informazione non si arrende e quella che segue, per cui la frase andrà interpretata come una sequenza di due informazioni tra loro collegate, non come un’unica informazione. Alla luce dell’aggiunta delle virgole che racchiudono dopo diversi sforzi è sensato non inserire questa virgola, per evitare la sequenza , e finalmente, dopo diversi sforzi, (si tratta, comunque, di una scelta stilistica: in nessuno dei due casi si incorre in errore). 
La virgola prima di fino a quando nella seconda frase opera allo stesso modo della virgola prima di e finalmente: produce una piccola frattura logica tra la parte precedente e quella successiva, indicando che la frase contiene due informazioni tra loro strettamente collegate, non un’unica informazione complessa. Senza virgola l’azione del lasciar colare è vista nell’ottica dell’allagare la cantina: la ragazza lascia colare l’olio proprio con questo scopo; con la virgola, invece, l’azione del lasciar colare è autonoma e l’allagamento è rappresentato come una conseguenza collegata, ma non insita nell’azione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coerenza
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si dice un ragazzo e una ragazza biondi (perché con l’aggettivo, il genere maschile prevale sul femminile  quando il numero è plurale); però, per quanto riguarda il sostantivo, in specie quando si riferisce agli  aggettivi numerali ordinali, non è così:

Questi sono il primo e il secondo posto.
Terzo e quarto premio assegnato.

Scrivendo il primo e il secondo posti o terzo e quarto premi assegnati si incorrerebbe in forme grammaticalmente errate o soltanto insolite?

 

RISPOSTA:

L’accordo al plurale tra il nome e l’aggettivo è corretto: è percepito come inatteso per via del forte legame sintattico che si crea tra l’aggettivo preposto al nome e il nome stesso. Se il nome è accompagnato anche dall’articolo, per giunta, si crea un paradosso: l’articolo concorda non con il nome ma con l’aggettivo. Impossibile, del resto, sarebbe una frase come *i primo e secondo posti.
Il paradosso e, almeno in parte, la sensazione di stranezza spariscono se si anticipa il nome: i posti primo e secondopremi terzo e quarto assegnati. Per evitare la costruzione problematica con gli aggettivi preposti al nome è possibile, oltre che anticipare il nome, ripeterlo: il primo posto e il secondo postoterzo premio e quarto premio assegnati. Possibile, in fondo, è anche la costruzione con il nome posposto al singolare, che è grammaticalmente imperfetta, ma non ambigua e giustificabile (per il già ricordato legame stretto tra l’aggettivo preposto e il nome).
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

È corretto dire PENSAVI CHE ME LO RUBASSI ? O la forma corretta é solo TE LO RUBASSI?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette, ma hanno un significato leggeremente diverso e sono adatte a contesti diversi. Nella prima il verbo usato è rubarsi, un verbo pronominale che ha quasi lo stesso significato di rubare, a cui aggiunge, però, una rappresentazione accentuata dell’interesse del soggetto, del vantaggio che gli deriva dall’azione. Si noti che in questa frase manca l’indicazione della persona potenzialmente derubata, che quindi potrebbe essere chiunque, non per forza la seconda persona della seconda frase. L’esplicitazione sintetica della persona potenzialmente derubata con questo verbo è, del resto, impossibile: non è possibile *rubarsi qualcosa a qualcuno.
Nella seconda frase il verbo usato è rubare e te indica, appunto, la persona potenzialmente derubata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non so quale delle tre soluzioni sia da preferire e se ognuna di queste possa essere valutata corretta.
1) La promessa, da parte del direttore, che sarei stata ricontattata è stata disattesa.
2) La promessa, da parte del direttore, di essere stata ricontattata è stata disattesa.
3) La promessa che il direttore mi avrebbe ricontattata è stata disattesa.
Inoltre:
4) Il direttore mi ha assicurato di ricontattarmi
oppure
5) Il direttore mi ha assicurato che mi avrebbe ricontattato?

 

RISPOSTA:

Tra le prime tre opzioni la seconda è impossibile, perché non è sensato promettere di aver già fatto un’azione; la frase diverrebbe ben formata con l’infinito presente, che si proietta nel futuro: “La promessa, da parte del direttore, di essere ricontattata è stata disattesa”. In questa forma, la frase avrebbe lo stesso significato della 1.
Tra la prima e la terza c’è una differenza di significato: nella prima il direttore ha promesso che qualcuno (probabilmente il direttore stesso) avrebbe ricontattato il parlante; nella terza qualcuno ha promesso che il direttore avrebbe ricontattato il parlante.
Tra la 4 e la 5 c’è lo stesso rapporto che c’è tra la 1 e la 2 riformulata con l’infinito presente: stesso significato, ma la 5 ha la subordinata esplicita e la 4 ce l’ha implicita. In astratto la variante con la subordinata implicita è considerata più formale dell’altra, visto che il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente; anche l’altra, però, sarebbe accettabile in contesti di media formalità anche scritta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Bisognerebbe che domani il professore telefonasse al preside, a meno che quest’ultimo non si metta / sia messo / mettesse / fosse messo in contatto con lui prima”.
Il congiuntivo passato e il congiuntivo trapassato sono corretti se li si interpreta come precedenti esclusivamente rispetto a domani?
Nelle vostre risposte ai quesiti, spesso si parla di tempi anaforici e tempi deittici. In questo esempio, i due composti del congiuntivo possono proiettarsi nel futuro rispetto al momento in cui la frase viene formulata?

 

RISPOSTA:

Nella sua frase il passato si sia messo non verrà mai interpretato come precedente all’evento futuro, ma sarà sempre inteso come precedente al momento dell’enunciazione, cioè al presente. La restrizione dell’interpretazione dipende dalla presenza di un verbo principale al presente; se questo mancasse la sfumatura da lei intesa sarebbe possibile (ma rimarrebbe ambigua):

“domani il professore telefonerà al preside, a meno che quest’ultimo non si sia messo (prima di adesso o prima di domani?) in contatto con lui prima”. 

Il trapassato, invece, non è giustificabile in nessuna delle due varianti della frase, perché non è nominato nessun evento passato rispetto al quale l’evento del mettersi in contatto sia anteriore.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Leggendo la frase “L’autunno arrivò precocemente” mi è venuto un dubbio: precocemente è un avverbio di tempo o di modo?

 

RISPOSTA:

Per rispondere bisogna chiedersi se l’avverbio fornisca informazioni sul tempo o sul modo in cui è avvenuto l’evento dell’arrivare. A ben vedere, ci sono ragioni a favore dell’una e dell’altra opzione, ma concluderei che l’informazione temporale è in questo avverbio più forte di quella modale. Dobbiamo, insomma, considerare questo avverbio affine più a prima (avverbio di tempo) che a bene (avverbio di modo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Avverbio
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QUESITO:

Con la parola stivali si usa quelli o queglibelli o begli?
Ad esempio questa affermazione è corretta? “Ho visto dei begli stivali. Penso proprio che prenderò quegli”.

 

RISPOSTA:

Tutti i nomi che cominciano per s seguita da altra consonante (comunemente detta s impura) richiedono l’articolo determinativo lo / gli, quindi anche gli aggettivi quello / quegli e bello / begli. Il sintagma corretto, pertanto, è begli stivali. Il pronome quello non è toccato da questa regola: esso presenta soltanto le forme quello quella / quelli / quelle. Nella sua frase, quindi, dovrà scrivere prenderò quelli. Si badi che anche l’aggettivo bello torna alla sua forma base se non è seguito da un nome iniziante per impura; per esempio: “Belli quegli stivali!” (e non *”Begli quegli stivali!”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

sto aiutando la mia nipotina che frequenta l’ultimo anno della scuola secondaria di I grado a svolgere degli esercizi di grammatica. Riconosco di essere un po’ arrugginita, ma ritengo che le frasi proposte siano difficili. La professoressa ha proposto delle situazioni comunicative con frasi da completare con il modo e il tempo adatti. Ha anche spiegato teoricamente come scegliere i tempi in base alle regole della lingua italiana, ma le incertezze restano. Riporto solo alcune delle frasi e aggiunto le proposte mie e di mia nipote.

1. Un gruppo di amici decide di andare in vacanza: qualcuno sceglie di partire in treno, qualcuno in auto, qualcuno in aereo. A causa di uno sciopero, la compagnia aerea cancella il volo. Uno dei membri della comitiva dice: “Se qualcuno di voi… (prendere) l’aereo, pazienza! Verrà con me in auto”___ AVREBBE PRESO oppure AVESSE PRESO?

2. Carla si lamenta sempre con la mamma perché ogni pomeriggio deve svolgere una marea di compiti. Stanca di ciò dice: ” Mi piacerebbe una scuola in cui non ci … (essere) compiti”____ SIANO o FOSSERO?

3. Dopo un litigio, Rocco riceve un messaggio minatorio anonimo. Per giorni pensa a chi possa averglielo inviato, ma non riesce proprio a capire. Rocco afferma: “A distanza di un mese, sembra che io non … (avere) ancora compreso da chi… (venire) questo  terribile messaggio”. ____ ABBIA; VIENE/VENIVA/VENGA/VENISSE?

Potreste spiegarmi brevemente il perché delle risposte corrette, soprattutto per la frase 3, in cui mi sembrano possibili così tante risposte?

 

RISPOSTA:

L’esercizio è certamente creativo anche se impegnativo, perché punta l’attenzione sull’uso vivo della lingua, sulla sua variabilità in base alla situazione e sulle tante sfumature di significato rese possibili dalla scelta dei verbi.
La frase più problematica è la prima, nella quale troviamo una proposizione ipotetica, che non ammette il condizionale, ma che non può per logica accettare altra forma verbale che il condizionale passato (o l’indicativo imperfetto, che è funzionalmente equivalente, ma decisamente trascurato). Il dilemma si risolve rilevando che se avrebbe preso è una costruzione sintetica per se aveva pensato che avrebbe preso; essa, cioè, condensa una proposizione ipotetica (se aveva pensato) e una oggettiva (che avrebbe preso), legittimamente al condizionale passato, per esprimere il futuro nel passato. Una simile costruzione non è grammaticalmente impeccabile, ma ha il vantaggio di semplificare un giro di parole ben più lungo ed è, inoltre, non ambigua. Per questi motivi, la sconsiglierei nello scritto e nel parlato formale, ma la considererei adeguata a un contesto informale come quello descritto. Ribadisco, comunque, che nessun tempo del congiuntivo può sostituire il condizionale passato nella proposizione così costruita (se qualcuno avesse preso l’aereo, pazienza esprimerebbe il rammarico del parlante per la possibilità che qualcuno avesse preso l’aereo, che non avrebbe senso nella situazione descritta, nella quale è noto che nessuno ha preso l’aereo): l’alternativa senz’altro corretta è se qualcuno aveva pensato di prendere (preferibile anche a se qualcuno aveva pensato che avrebbe preso, visto che il soggetto della reggente e quello della oggettiva coincidono). Se qualcuno aveva pensato, infine, è preferibile anche a se qualcuno avesse pensato, perché pone l’accento sulla precedenza temporale dell’evento del pensare, non sulla sua scarsa probabilità, che in questo contesto è di secondaria importanza.
Nella seconda frase sono ammissibili entrambi i tempi del congiuntivo da lei suggeriti, per ragioni diverse. Il presente è il tempo richiesto dalla consecutio temporum, visto che lo stato dell’essere è contemporaneo nel presente allo stato del preferire; l’imperfetto, invece, è il tempo preferito nella subordinata completiva quando nella reggente c’è un verbo di desiderio (preferire equivale a ‘volere maggiormente’). Ovviamente, qui la subordinata non è oggettiva, ma relativa, ma la costruzione una scuola in cui non ci fossero è quasi inevitabilmente assimilata a che nella scuola non ci fossero
Nella terza frase non ci sono dubbi su abbia per il primo spazio da riempire. Nel secondo spazio sono ammissibili senz’altro i presenti, che presentano il venire come contemporaneo al momento dell’enunciazione, per sottolineare l’attualità della lettera (il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ma semanticamente non cambia niente tra i due modi). Gli imperfetti sono scelte meno felici, perché presentano il venire come precedente al momento dell’enunciazione in modo indeterminato, dando l’impressione che l’evento non abbia ripercussioni nel presente (mentre invece ne ha, visto che il soggetto si sta ancora sforzando di capire). Ammissibili al pari dei presenti sono il passato prossimo è venuto e il congiuntivo passato sia venuto, che sottolineano l’anteriorità del momento della ricezione della lettera rispetto al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?

 

RISPOSTA:

Il verbo bisognare (e analoghi: è necessariorichiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Sottopongo un quesito sulla legittimità della mia protesta in oggetto, esponendone i dettagli.  

Personalmente, osservo volentieri il troncamento nei casi in cui il vocabolo “quale” assume una  funzione qualificativa (una sofferenza grave, qual è la solitudine / un capomastro, qual è Tizio,  eccetera).
Lo pratico malvolentieri, invece, quando io voglia individuare, soprattutto interrogativamente, un elemento all’interno di un insieme (con un senso equiparabile a quello del quis vestrum latino). In tale occorrenza preferirei l’elisione con l’agognato apostrofo, giusto per il piacere di rimarcare formalmente la differente funzione del termine, da aggettivo a pronome. E’ una mia bizzarria, lo so.
Tuttavia, ove sia plausibile, perché non concedere la scelta di una mirata eccezione alla regola?
Perché mai fondare la norma esclusivamente sul fatto che già esista*, autonomo, il pronome in forma tronca? E’ la revoca della pari dignità della forma intera…
Perché non ammettere che in determinati casi uno scrivente possa voler “partire” dal pronome integro e quindi trattarlo con l’elisione? Pare un processo alle intenzioni…
In tal senso io sospetto (fra il serio e il faceto) che la generalizzazione della regola si debba ad un arbitrio tirannico.
Posso scendere in piazza a reclamare la libertà condizionata per l’apostrofo?

* Avrei da ridire anche su questo congiuntivo.
Nella fattispecie non ci si trova nel campo dell’ipotetico ma in quello del reale: si parla di un fatto certo, riconosciuto come tale anche nella frase. Perché mai inibire l’indicativo in casi come questo?
 

 

RISPOSTA:

Il tema che pone (qual è o qual’è, apocope o elisione) è assai dibattuto e la sua posizione è assunta da un illustre linguista (Salvatore Claudio Sgroi) e da alcuni seguaci (Luca Passani della Voce di New York, tra gli altri), con autorevoli e validissimi motivi. Dai quali tenderei a dissociarmi (ma senza scandali né clamori, che la lingua va dove vuol andare) perché mi pare strano vincolare il concetto di apocope o elisione alla percezione del parlante attuale (non tutti, peraltro). Sarebbe un po’ come dire, dal momento che non tutti ormai avertono più la differenza di pronuncia tra e aperta e chiusa (né la congiunzione può mai essere confusa con un verbo) io decido di scrivere senza accento la terza persona del presente del verbo essere: lui e. Oppure, visto che oggi non è più praticato, fuor di Toscana, il raddoppiamento fonosintattico dopo da, allora scriviamo dapertutto e non dappertutto. Analogamente, visto che nessuno usa più il troncamento di quale davanti a consonante, allora esso diventa ipso facto elisione e dunque scriviamolo con l’apostrofo: qual’è. Allora, per lo stesso motivo, dovremmo considerare ormai stantio qualsiasi e scriverlo qualesiasi, visto che quale non si tronca mai davanti a consonante, no? In altre parole, siamo proprio sicuri che ciò che costituisce il discrimine tra apocope e elisione sia la percezione del parlante odierno, e non piuttosto il fatto che quella parola abbia una sua esistenza autonoma anche senza la vocale finale? A me pare che qual rimanga una parola dell’italiano ancora oggi, come mostrano non soltanto l’espressione (d’accordo cristallizzata) qual buon vento ti porta (che sarà pure cristallizzata, ma è pur sempre un’espressione usatissima tuttora e quindi a pieno titolo dell’italiano d’oggi), non soltanto le parole composte con qual (qualsiasi), ma anche usi apocopati possibilissimi (magari al Nord, visto che il Sud comunemente recalcitra ai troncamenti, tant’è vero che io a Messina sono sempre il professore Rossi, laddove nel resto d’Italia divento il professor Rossi, perdendo una e) come: qual dei due? tal e qual (addirittura in finale di parola) ecc. (italiano regionale veneto? Forse, ma sempre italiano). Quindi, riassumendo:  qual è una parola dell’italiano? Sì. È possibile usarla soltanto davanti a vocale? No. Quindi qual è una forma apocopata (di quale) e non elisa. Quindi l’apostrofo non si usa, né sarebbe giustificato usarlo solo in certe funzioni e non in altre: per qual mai (sic!) motivo uno qual è Tizio sarebbe diverso da qual’è dei due? Non capisco. Oltretutto, in entrambi i casi da lei citati l’uso è pronominale e non aggettivale, ma comunque non è questo il problema: non ha senso cambiare grafia secondo il cambiamento funzionale di una stessa parola! E per qual ragione (sic! naturalissimo nel mio idioletto) deve rivendicare l’uso di quale apostrofato (cioè eliso) se già l’italiano possiede qual come forma autonoma (nata per apocope da quale)? Proprio non capisco. Non mi pare che la grammatica e l’ortografia siano un fatto ideologico di libera scelta di usare le forme che cogliamo anche se non esistono, no? (Su questo contemplo numerose eccezioni, naturalmente, ma sarebbe troppo lungo parlarne qui). Dopodiché: le lingue e le grafie possono cambiare (e di fatto cambiano), se c’è un amplissimo consenso dei parlanti e degli scriventi. Quando ciò accadrà (spontaneamente e non per indicazioni elitarie e dall’alto), stia ben sicuro (e non bene sicuro: per me è apocope e non elisione) che vocabolari e grammatiche lo registreranno. A me pare che oggi, con l’eccezione sua, di Passani, di Sgroi e di alcuni altri, vi sia uno sdegno diffuso contro qual’è, per cui direi che possiamo continuare a considerare qual è l’unica forma corretta, con buona pace dei numerosi qual’è della rete e del passato (è l’oggi, non lo ieri, che fa la norma dell’italiano attuale). Ma lei, come Passani e Sgroi e chiunque altro, ovviamente, è libero di usare qual’è e di fare tutte le crociate che vuole, assumendosi però l’onere di sentirsi dare (non da me), eventualmente, dell’ignorante (la lingua è di tutti e ciascuno può tacciare d’ignoranza chi vuole).

Infine, per quanto riguarda il congiuntivo, nella frase da lei usata avrebbe potuto senza alcun problema scrivere “che esiste” anziché “che esista”, e non c’entra nulla la certezza o incertezza del significato (è quest’ultima una fantaregola inventata dai maestri di scuola, più o meno, come dice Sgroi ripreso da Passani). La differenza tra congiuntivo e indicativo è il più delle volte un fatto meramente diafasico (formale/informale) che nulla ha a che vedere con la certezza/eventualità della frase, come potrà constatare dalle 100 risposte su questo date dal nostro archivio DICO, digitando congiuntivo nella mascherina di ricerca.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ieri mi sono trovata a formulare questo costrutto durante una conversazione telefonica in ambito professionale.
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei (in quell’occasione) mi aveva chiesto di interpellare…

La mia perplessità gravita attorno al salto dal passato prossimo al trapassato prossimo: le due azioni, infatti, sono contemporanee.
A mente fredda ho ipotizzato due soluzioni alternative, che però non mi convincono.
La prima consisterebbe nel passato remoto:
[…] la scorsa settimana parlammo a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi chiese di interpellare…
Per due eventi accaduti da pochi giorni e i cui effetti si prolungano nel presente, il passato remoto non mi parrebbe adatto.
La seconda soluzione consisterebbe nel passato prossimo per entrambi i predicati:
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi ha chiesto di interpellare…
Non so bene risalire alle motivazioni di carattere semantico, ma il secondo passato prossimo (mi ha chiesto), pur sintatticamente ineccepibile, nel caso non venisse accompagnato da una locuzione avverbiale o un avverbio (come, ad esempio, in quell’occasione, allora, eccetera).
Approfitto inoltre del tema introdotto per porvi un’ultima domanda.
Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore.
Questa composizione è corretta? Come se ne spiegherebbe la scelta da parte di un parlante?
 

 

RISPOSTA:

La differenza tra passato prossimo e remoto non risiede, nonostante gli aggettivi fuorvianti (prossimo e remoto) nella maggiore o minore vicinanza rispetto al momento dell’enunciazione, bensì rispetto alle maggiori (prossimo) o minori (o nulle: il passato remoto è un po’ come l’aoristo greco: un passato visto nella sua assolutezza, del tutto svincolato dal presente e dal futuro) conseguenze che l’azione ha sull’enunciatore (o altri partecipanti all’azione) e sul momento dell’enunciazione. In altre parole, il passato remoto (comunque in forte regresso in tutt’Italia, e ormai anche al Sud) non può essere usato (in italiano standard) in espressioni che implicano conseguenze sul momento presente, quali, per es., “hai capito?”, “mi hai sentito?” ecc. (possibili, naturalmente, in dialetto: “capisti?”, “sentisti?” ecc.). È proprio per questo motivo, come con estrema sensibilità linguistica coglie Lei, che spesso, se il verbo è accompagnato da elementi circostanziali quali alcuni complementi avverbiali, sembra più naturale del passato remoto e viceversa: “La settimana scorsa abbiamo parlato”; un aggettivo come scorso ancora inevitabilmente l’azione al presente.

Veniamo ora al trapassato prossimo, che ha sempre un valore anaforico, cioè di riferimento anteriore a un’altra azione. Non sempre, tuttavia, questo riferimento è esplicito. Spesso si tratta di un quadro di riferimento generico, sfumato e inferibile dal contesto. Nel caso della prima frase da Lei citata (e la cui prima versione, guarda caso proprio quella effettivamente pronunciata e non ricostruita a posteriori a tavolino, è la più corretta),  la richiesta di interpellare qualcuno (“mi aveva chiesto di interpellare”) è giustamente interpretata dal locutore come anteriore al passaggio di proprietà di cui si stava discutendo, dal momento che il passaggio di proprietà non è ancora avvenuto e, anzi, proprio dell’eventualità o meno di farlo si sta discutendo. Quindi, con eccesso di razionalità a posteriori (ma la lingua non funziona mai così…), possiamo certo dire che l’azione del discutere e la richiesta di interpellare sono contemporanee, ma nella coscienza dei parlanti una gerarchia cronologica c’è ed è chiarissima: prima si interpella qualcuno e poi si decide (almeno nel contesto enunciativo da Lei fornito).

Dunque non c’è alcun salto indebito tra le due frasi e l’uso del passato prossimo e del trapassato prossimo, nel caso specifico, sono le scelte migliori.

Non sarebbero scorretti peraltro né “mi ha chiesto di interpellare”, né “mi chiese di interpellare”, ma sarebbero comunque meno felici del trapassato prossimo (“mi aveva questo di interpellare”). Il passato remoto è il meno adatto, non soltanto perché non modula finemente (a differenza del trapassato prossimo) sul rapporto tra i due eventi, come già detto, ma perché in realtà l’azione dell’interpellare non è aoristica (cioè svincolata dal presente), bensì fortemente ancorata alle conseguenze presenti e future: presumo, infatti, che da quell’interpellazione discenderà la decisione su se, come e quando procedere al passaggio di proprietà in questione.
Veniamo infine all’ultimo esempio: “Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore”.

Aveva aperto non va bene, perché non ha alcun riferimento di anteriorità (addirittura in quel momento focalizza proprio la contemporaneità dei due eventi). Pertanto va mantenuto lo stesso tempo del contesto, cioè il passato remoto: “Fu in quel momento che aprì per la prima volta le porte del suo cuore”. Oppure, eliminando la frase scissa, qui in po’ ridondante: “Aprì allora per la prima volta…”.

Fabio Rossi 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Avendo io dimenticate le buone regole nonché avendone perso l’uso “ad orecchio”, mi trovo a non esser più capace di stabilire qual è l’ausiliare giusto in una frase di questo tipo:

[…] se si ha/è coltivato un campo e si ha/è attraversato un ponte [eccetera].

Inoltre: sarebbe corretto impiegare in quella stessa frase prima il verbo avere (ha coltivato) e subito dopo il verbo essere (è attraversato)?
 

 

RISPOSTA:

Con la particella pronominale si non è ammesso l’ausiliare avere, ma soltanto essere. Pertanto l’unica forma corretta della frase proposta è: “… se si è coltivato un campo e si è attraversato un ponte…”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dubbi su questa frase. Potreste aiutarmi?
Il contesto è il seguente: due amiche si incontrano qualche settimana prima di Natale e si scambiano i regali . Una dice: “ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci saremmo più viste”.
È corretta questa frase se riferita al futuro?

 

RISPOSTA:

L’unica forma inequivocabilmente corretta del periodo è la seguente: “ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci vedessimo più”. Si tratta di un periodo ipotetico che ha, come protasi, una relativa impropria con valore ipotetico. Cioè è come se fosse: “se non ci vedessimo più, di do il mio regalo ora”. Come si comprende dalla riscrittura, non si può usare il condizionale nella protasi del periodo ipotetico: “se non ci saremmo viste più, ti do il mio regalo ora”.

Il suo dubbio è però del tutto legittimo, come tutti i dubbi dei parlanti sugli usi reali, ed è motivato da due ragioni:

1) perché il condizionale passato si usa per esprimere il futuro nel passato;

2) perché la frase ha un valore di eventualità (non sono sicuro di rivederti oppure no).

La soluzione del primo dubbio è semplice: non si tratta di futuro nel passato, infatti l’ipotetica non deriva dal passato ho preferito, bensì dal presente darti ora (come ribadisce l’avverbio ora). Sarebbe un futuro nel passato se fosse: “pensai che non ci saremmo più viste”.

La soluzione del secondo dubbio è altrettanto semplice: nella protasi del periodo ipotetico l’eventualità è espressa dal congiuntivo e non dal condizionale (che invece si usa nella sola apodosi, se occorre).

Una terza possibilità, al trapassato congiuntivo (“ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci fossimo più viste”), sarebbe parimenti errata, perché in questo caso non si tratta di passato nel passato (non è dal passato “ho preferito” che dipende la protasi) ma di un eventuale futuro rispetto all’ora (cioè il presente) in cui ti do il mio regalo.

 

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Anton si fermò impietrito” impietrito è un aggettivo?

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista morfologico è il participio passato del verbo impietrire. Nella frase ha più la funzione di aggettivo che quella di verbo, sebbene la funzione verbale rimanga sempre in parte operante. Riconosciamo che il participio ha la funzione di aggettivo perché esso descrive una condizione, una qualità temporanea del soggetto, non un processo subito dal soggetto. La funzione di verbo emergerebbe con chiarezza se, per esempio, aggiungessimo un complemento di causa efficiente: “Anton si fermò impietrito dalla paura”. In questo caso, il participio descriverebbe l’azione dell’agente inanimato sul soggetto, non una condizione in cui si viene a trovare il soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

sto rispondendo a delle domande che ammettono una sola risposta esatta e, avendo dei dubbi, vorrei chiedere il vostro parere. Vi elenco le domande.
1) In quale delle seguenti frasi è presente una forma verbale che indica un’azione iterativa?
a) Il bambino ha cominciato a piangere non appena non ha più visto la sua mamma.
b) Finalmente ha smesso di piovere e possiamo fare la nostra consueta passeggiata.
c) Proseguiremo a lavorare con lo stesso impegno, anche se siamo un po’ sfiduciati.
d) Se foste stati al nostro fianco fino alla fine vi avremmo ricompensato a dovere.
e) Ho riletto con lo stesso interesse di quando ero ragazza il capolavoro di Manzoni.

2) Che tipo di proposizione contiene la frase “Sembra importante che la valigia spedita ieri giunga a Mario in tempo perché possa partire”?
a) Oggettiva
b) Causale
c) Consecutiva
d) Temporale
e) Relativa

3) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Sei stato scelto perché parli in un modo che tutti comprendono.
b) Mi sembra che il tuo consiglio sia più che buono.
c) Questo film è amato dai giovani che prediligono la fantascienza.
d) L’orso partorisce due o tre cuccioli che allatta con cura.
e) Il sentiero che la pioggia ha allagato è impraticabile.

4) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Ringrazierò personalmente gli amici che mi hai presentato.
b) Questi sono i locali che frequento negli ultimi tempi.
c) Ti assicuro che non sono stato a pescare.
d) Non so dirti che bella sorpresa sia stata la tua venuta.
e) La cometa che è stata avvistata scomparirà in pochi giorni.

5) Che tipo di proposizione contiene la frase “Avendo vissuto tanti anni all’estero, ho capito che molte cose sono migliori in Italia, a patto che tu sappia apprezzarle”?
a) Soggettiva
b) Modale
c) Temporale
d) Concessiva
e) Relativa

6) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione oggettiva?
a) Sembra che oggi tutti parlino a sproposito.
b) Spero in una tua risposta affermativa.
c) Sapendo che sei affamato, ti ho preparato un panino.
d) Fu chiaro a tutti che la partenza era rimandata.
e) Conosco tutte le peripezie che hai affrontato per venire qui.

7) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione soggettiva?
a) Se nevicherà ancora resteremo bloccati per qualche giorno.
b) Pur essendo molto piacevole stare in compagnia, talvolta preferisco la solitudine.
c) Sono sicuro che il viaggio sarà breve e sicuro.
d) Andrea ha capito subito che il suo contributo era importante per la comunità.
e) Il problema che mi sottoponi è difficile, ma lo risolverò.

8) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione relativa?
a) La notte è così buia che non mi avventurerò fuori.
b) Mi chiedo che idea strana ti sia venuta in mente.
c) Essendo i vostri disegni così ben fatti, non so quale scegliere.
d) Ritengo che tu sia poco propenso ad uscire stasera.
e) L’abito acquistato ieri mi è costato davvero tanto.

9) Il periodo “Dice di non sapere chi verrà alla riunione”, include:
a) Una proposizione relativa.
b) Una proposizione interrogativa.
c) Una proposizione modale.
d) Una proposizione esclusiva.
e) Una proposizione temporale.

10) Quando il martello gli colpì erroneamente la mano, Luca emise un forte …”. Quale termine, tra quelli elencati, NON completa sensatamente la precedente frase?
a) urlo.
b) rantolo.
c) pianto.
d) grido.
e) strillo.

 

RISPOSTA:

1e (iterativo = che si ripete); 2c (la proposizione consecutiva è perché possa partire; 3c; 4e; 5d (a patto che tu sappia apprezzarle; possibile anche interpretare come temporale la gerundiva avendo vissuto tanti anni all’estero, che, però, è più decisamente causale); 6c (che sei affamato); 7b (stare in compagnia); 8e (acquistato ieri); 9b (interrogativa indiretta: chi verrà alla riunione); 10b (il rantolo è per sua natura sommesso, non forte; anche emise un forte pianto sembra un po’ forzato, visto che il pianto è un’azione durativa).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1a) Se fossi certa che lui non mi risponda male, gli parlerei apertamente.
Sono stata corretta da una collega per aver pronunciato questa frase. Avrei dovuto dire, secondo lei, o “rispondesse” o “risponderebbe”.  Sul condizionale sono d’accordo. Ma non vedo perché il congiuntivo imperfetto sia da preferire al presente. La mia collega ha fatto riferimento al fenomeno dell’attrazione modale che, seppur attestata in letteratura, no so fino a che punto sia valida dal punto di vista della consecutio.
2a) Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piova/piovesse.
Entrambe le forme sono corrette?
 

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che nessuna delle frasi da lei riportate può dirsi del tutto scorretta, perché si tratta di sfumature comunque previste dal nostro sistema verbale.
Nella prima frase, non parlerei di attrazione modale (visto che sempre di modo congiuntivo si tratta), ma al limite di attrazione temporale. Il congiuntivo imperfetto è lievemente preferibile dal momento che le due azioni (essere certa / rispondere) sono, se non proprio contemporanee, trattate come parallele. E dunque, per uniformità: sono certa che mi risponda (al presente) / ero certa che mi rispondesse (al passato). Diciamo dunque che la proiezione nel passato della reggente (cioè in questo caso l’ipotetica) all’imperfetto (fossi certa) fa da traino all’imperfetto della completiva (che lui non mi rispondesse). Ancorché meno adeguato, anche il presente può andare, addirittura all’indicativo (ancora più informale): “se fossi certa che lui non mi risponde”. Questo perché la proiezione al passato (fossi) non indica tanto il passato dell’azione bensì l’eventualità del periodo ipotetico.
Nel secondo caso, mi paiono del tutto innaturali, e dunque parimenti da evitare, sia il congiuntivo presente, sia il congiuntivo imperfetto. Va usato l’indicativo: “Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piove”, o, ancora meglio (perché più semplice, lineare, chiaro, naturale, non artefatto) “in un giorno di pioggia”. Non c’è alcun bisogno di rendere l’eventualità della pioggia, già perfettamente inferibile dal contesto di per sé eventuale (Bisognerebbe ecc.).
Sugli usi del congiuntivo imperfetto rispetto al congiuntivo presente o passato può vedere anche altre FAQ di DICO   Trapassato nel futuro, Congiuntivo presente o imperfetto in dipendenza da vorrei, Modi e tempi richiesti da “vorrei”.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

vorrei segnalarvi il seguente periodo:

Tra un anno potresti credere che io abbia sbagliato / avessi sbagliato, se in precedenza ti avessi accusato.

Nel caso sia ben formato, domando:
a) quale forma sia preferibile tra abbia sbagliato e avessi sbagliato, considerando che l’azione è anteriore soltanto alla proposizione reggente (potresti credere) e non al momento dell’enunciazione;
b) come si può dedurre dagli avverbi e dalle locuzioni avverbiali, anche l’azione della subordinata se ti avessi accusato è, al pari della proposizione descritta nel punto precedente, posteriore al momento dell’enunciazione, ma precedente rispetto alla reggente. Dato che i verbi del congiuntivo, se non sbaglio, sono detti anaforici e si rapportano al momento di riferimento, la scelta del congiuntivo trapassato è giustificabile per un’azione non ancora avvenuta, oppure si sarebbe dovuto selezionare, ad esempio, il congiuntivo imperfetto?

 

RISPOSTA:

Una simile frase sembra più un’ipotesi di laboratorio che una costruzione effettivamente realizzabile da un parlante. In linea di principio, comunque, per esprimere l’anteriorità rispetto a un evento futuro è preferibile il trapassato avessi sbagliato; il passato, infatti, renderebbe il punto di riferimento ambiguo (che io abbia sbagliato potrebbe anche essere precedente al momento dell’enunciazione, quindi assolutamente passato). Il trapassato avessi accusato nella proposizione ipotetica è attratto da quello della reggente, quindi assume un valore a metà tra l’ipotetico dell’irrealtà e l’anaforico. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Sono una studentessa straniera di origine russa all’università per stranieri di
Perugia, sono 4 anni che sto in Italia e ho sempre avuto difficoltà a definire il
genere delle squadre di calcio. Inizialmente pensavo che tutte le squadre fossero
di genere femminile, visto che la parola sottintesa è  la squadra (come ad esempio
nel caso delle macchine: la Fiat,  la Mercedes ecc) e, giustamente, la mia
convinzione è stata subito sciolta appena ho cominciato a seguire il campionato.
Quindi, la mia domanda è perché si dice Lo Spezia, il Napoli ma la Roma e la
Lazio?
 

 

RISPOSTA:

Dipende, di solito, dal sintagma reggente: se il nome della squadra dipendeva (all’epoca della nascita della squadra) da “Football club” allora la squadra è al maschile (perché in italiano club vuole in genere maschile), se dipendeva invece da “Associazione calcistica” o simili (la Roma, la Lazio ecc.) allora è femminile.

Fabio Rossi 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio in merito all’uso della virgola, per quanto riguarda le congiunzioni correlative (sia, nè, neppure). 
Ho letto che normalmente  non si mette se la prima congiunzione (‘sia’ o ‘né’) lega la parte che la segue direttamente a ciò che precede ( es. La casa è confortevole sia d’inverno sia d’estate). Altrimenti dicono che si possa mettere (es. Lucia ha portato il nipote in riva al mare, sia per farlo giocare con la sabbia sia per fargli respirare un po’ d’aria pura). Io non riesco a capire come fare questa distinzione. Questi sono degli esempi che ho preso da qualche sito web, però, non avendo capito, ho preferito chiedere a voi, perché siete più preparati in fatto di punteggiatura e grammatica. 
Ad esempio, se scrivo la frase: “Mi piace guardare una ragazza sia quando fa l’azione A, sia mentre fa l’azione B. E’ giusto oppure dovrò scrivere: “Mi piace guardare una ragazza, sia quando fa l’azione A sia quando fa l’azione B. E come ci si comporta se ci fossero più membri ( es. Mi piace guardare una ragazza sia quando fa l’azione A, sia quando fa l’azione B, sia mentre fa l’azione B). In questo caso ho messo 3 virgole, ma secondo voi è giusto? Oppure ne basta una finale? 
Riconosco che potrebbero non esserci delle regole ferree, però volevo un vostro parere a riguardo. 
 

RISPOSTA:

Non ci sono regole ferree, in effetti. Quasi mai sono ferree le regole di punteggiatura.
Il suggerimento è di non appesantire troppo i periodi con coordinate correlative troppo lunghe. Dunque eviterei, in primo luogo, più di due sia, a favore di:
“Mi piace guardare una ragazza quando fa l’azione A, quando fa l’azione B e mentre fa l’azione C”.
Metterei la virgola tra i due sia quando il primo membro è troppo lungo: “mi piace andare al mare sia quando il tempo è bello e il sole rende insopportabile stare fuori dall’acqua, sia nelle cupe giornate invernali”.
Infine, la presenza o meno della virgola prima del primo sia dipende dal grado di indipendenza che si vuol attribuire a ciò che precede:
– “Mi piace guardare una ragazza, sia quando fa l’azione A sia quando fa l’azione B”, ciò che viene messo in rilievo, indipendentemente dal resto, è che a lei piaccia guardare una ragazza.
– Invece in “Mi piace guardare una ragazza sia quando fa l’azione A sia quando fa l’azione B” il suo piacere di guardarla è subordinato al fatto che faccia determinate azioni e, poniamo, potrebbe non essere interessato a guardarla se ne facesse delle altre.
Quindi, sì, è corretto quel che ha letto: dipende dal grado di coesione e di autonomia rispetto a quanto precede. Dipende, dunque, più che dal contesto, dal punto di vista di chi usa quella frase.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coesione
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QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alla frase:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente essendo stata estrapolata una frase da un contesto ben più ampio.”
La domanda è: la frase è espressa in modo corretto?
La contestazione dei ricorrenti è ritenuta apodittica e non autosufficiente perchè l’adempimento è stato compiuto o perchè è stata estrapolata una frase? Oppure vi è il concorso di entrambe le circostanze?

 

RISPOSTA:

In questa forma, la frase collega le qualità della contestazione soltanto all’estrapolazione della frase. Va detto che la scelta del gerundio passivo non aiuta la comprensione, perché rende ambiguo il riferimento tematico. Suggerisco, pertanto, di riformulare così: 
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente poiché basata sull’estrapolazione di una frase da un contesto ben più ampio.”
Rilevo, inoltre, una scelta lessicale non felice: apodittico significa ‘autoevidente, logico, che non necessita dimostrazioni’, mentre non autosufficiente significa, in questo contesto, ‘che necessita di ulteriori prove’ (sempre che io interpreti correttamente la frase): sembra, quindi, da una parte che i due aggettivi si contraddicano, dall’altra che soltanto il secondo sia coerente con il rigetto della contestazione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Credo sia corretto dire: “Sei tu che mi ispiri”, ma forse è preferibile il verbo in terza persona: “Sei tu che mi ispira”. Quale frase è consigliabile?

 

RISPOSTA:

La difficoltà nella scelta della persona della proposizione subordinata deriva dalla natura incerta di questa proposizione. Essa, infatti, non è propriamente una relativa, diversamente da quello che si può pensare. Se fosse una relativa, non avremmo dubbi nello scegliere la terza persona, perché il pronome relativo sarebbe senz’altro preceduto da un antecedente alla terza persona; per esempio: “Tu sei quello che mi ispira”. Nella sua frase, invece, la proposizione è di tipo pseudorelativo, simile a una relativa ma in realtà più prossima a una completiva. In questo tipo di proposizione che non è un pronome relativo, ma una congiunzione, come dimostra il fatto che è invariabile: “È a te *a cui ho dato la penna” (corretto: “È a te che ho dato la penna”). Come conseguenza, che non ha un vero e proprio antecedente nella reggente e anche quando sembra fungere da soggetto della proposizione subordinata, come nel suo caso, non può svolgere questa funzione. Il soggetto della subordinata, pertanto, sarà o espresso nella subordinata (per esempio “È lui che ho visto”) oppure sarà lo stesso della reggente, come nel suo caso: “Sei tu che mi ispiri”. A ulteriore dimostrazione della correttezza di questa scelta, si noti che la subordinata può anche essere costruita con l’infinito, proprio perché ha come soggetto lo stesso della reggente: “Sei tu a ispirarmi”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Stavolta il dubbio è emerso durante la lettura della FAQ  Ancora su… Condizionale o congiuntivo?.
L’utente cita l’interrogativa indiretta «Vorrei sapere se fosse possibile».
Vi chiedo questo: in un contesto presente non si dovrebbe usare il congiuntivo «sia»?
Dato che «fosse» non dipende direttamente da «vorrei» bensì da «sapere», non è interpretabile come passato? Forse è erronea, ma l’equivalenza che si è formata nella mia testa, a proposito del suddetto esempio, è questa: «fosse» = «era»; «sia» = «è». Tanto per chiarire il mio pensiero: chiamo un negozio di alimentari e domando: «Vorrei sapere se (oggi) sia/è possibile usare presso di voi un buono pasto». Non
mi verrebbe mai di formulare la stessa domanda impiegando l’imperfetto, sia esso congiuntivo o indicativo. Chiaramente la questione cambierebbe se al posto di «vorrei» avessimo il frequente «volevo», non con funzione di imperfetto di cortesia, ma con valore prettamente temporale: così il «fosse» giocherebbe un
ruolo ben diverso. «(Un anno fa) volevo sapere se presso il negozio XXX fosse possibile usare un
buono pasto.»

 

RISPOSTA:

Le ragioni per cui in dipendenza da vorrei è meglio usare il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente si trovano nella FAQ di DICO    Modi e tempi richiesti da “vorrei”. Ancor più diffusamente Luca Serianni spiega il problema a p. 63 del suo Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, che qui trascrivo:
“Il condizionale presente, qui oltretutto proiettato sul futuro, può ben indurre la tentazione di un congiuntivo presente nella completiva; invece il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio, un’aspirazione, una necessità richiede la reggenza tipica dei verbi al passato: se usa il condizionale, il parlante mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle”.

Fabio Rossi 
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Mi chiedo se una citazione possa avere o no la maiuscola a seconda di come è scritta. Per esempio: se scrivo: “Qualcuno ha detto: ‘La vita non è aspettare che passi la tempesta, è imparare a danzare sotto la pioggia’”, so che ci vuole la maiuscola, ma mi capita di leggere invece: “Qualcuno ha detto che ‘la vita non è aspettare che passi la tempesta, è imparare a danzare sotto la pioggia’”. È corretto? la seconda frase si scrive così perché è un discorso indiretto?

 

RISPOSTA:

Uno dei pochi punti fermi dell’ortografia nell’ambito della punteggiatura è che il discorso diretto deve cominciare con la lettera maiuscola. Si noti, a parte, che questa convenzione, in teoria utile per distinguere il discorso riportato dalla cornice che lo inquadra, va accolta senza dogmatismo: in pratica, infatti, non è affatto necessario segnalare con la maiuscola la alterità del discorso riportato rispetto alla cornice quando il discorso riportato ha già una sua precisa segnalazione introduttiva (: ” oppure : –) e conclusiva (” oppure –).
Tornando al tema centrale, le citazioni letterali di parole altrui possono essere assimilate a un discorso diretto oppure no; nel primo caso si ricade nell’obbligo della lettera maiuscola, nel secondo caso, invece, no. Che cosa distingue il primo caso dal secondo? La presenza, nel secondo caso, di un connettivo (come nella sua frase che) che integra la citazione all’interno della sintassi della cornice. Anche in questo caso, va ricordato, è bene mantenere le virgolette intorno alla citazione, per segnalare che quelle parole provengono da un’altra fonte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se dico che “per quanti pregi abbia, a Tizio non servono, se essi sono un dono prezioso ma / e nelle sue mani diventano come quel cibo tanto buono che viene gettato nella spazzatura”, a me sembra sia corretto ma nelle sue mani, però vorrei sapere se scrivere e nelle sue mani sia un errore o se possa essere un’opzione, anche per evitare la ripetizione di suoni che avverrebbe con ma nelle sue mani.

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le congiunzioni. Ma pone il segmento che segue in contrasto con se essi sono un dono prezioso, mentre e instaura una relazione di aggiunta, come se la frase fosse se essi sono un dono prezioso e se nelle sue mani diventano… 
Si noti, a margine, che in questa frase se non introduce una proposizione ipotetica, ma una causale (= visto che). Sul se causale si può vedere la FAQ  “Se” causale o ipotetico dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumasse” o “Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumava”?

 

RISPOSTA:

La scelta del modo verbale per le subordinate relative non è sempre scontata, perché può dipendere da diversi fattori, tra cui il significato del verbo contenuto nella relativa, la forma dell’antecedente del pronome relativo (cioè del nome a cui il pronome si riferisce), possibili sfumature che l’emittente vuole conferire all’enunciato.
Nella sua frase, la variante con l’indicativo da una parte è quella più naturale, in considerazione del fatto che il fumare è un’azione non opinabile: il ragazzo o fumava o non fumava. Diversamente, il congiuntivo sarebbe stato molto più adatto ad una frase come “Era da tanto tempo che non leggevo un libro che mi piacesse”, proprio perché l’azione, o meglio la sensazione, del piacere è del tutto opinabile.
D’altro canto, non si può dire neanche che il congiuntivo sia scorretto, perché l’indeterminatezza del referente un ragazzo conferisce all’azione del fumare un certo grado di opinabilità. Il congiuntivo sarebbe stato inaccettabile, al contrario, in una frase come: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che *fumasse” (forma corretta: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che fumava”), nella quale il referente quel ragazzo è, appunto, determinato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un grande dubbio. Quale frase è corretta?
– Il numero delle preferenze ottenute / Il numero delle preferenze ottenuto.
– Il numero dei voti ottenuti, conseguiti, raggiunti / Il numero dei voti ottenuto, conseguito, raggiunto.

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni sono corrette: i participi possono concordare sia con il sintagma nominale che fa da testa del sintagma complesso (il numero delle preferenze | ottenuto, ovvero il numero ottenuto | delle preferenze), sia con quello che lo determina (il numero delle preferenze ottenute). Diversamente, il verbo deve concordare con il sintagma che fa da testa, che rappresenta il soggetto della frase, quindi, per esempo:
– Il numero delle preferenze ottenute / ottenuto è stato 1000 (e non sono state 1000). 
Anche per il verbo, comunque, l’accordo con il sintagma che determina è oggi tollerato in molti casi (è un fenomeno noto come accordo a senso) e va evitato soltanto in contesti scritti formali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Potete dirmi per cortesia quale fra il condizionale e il congiuntivo è il tempo corretto nella frase che segue e perché?
“domandina: possedendo oggi un professionale Rolex (ovviamente sovrastimato dal mercato) del valore di 10/11.000 euro ….il proprietario che lo permuterebbe alla pari con un oggetto come questo, come lo definireste? Intenditore o folle?”

 

RISPOSTA:

Il modo condizionale è sbagliato, mentre è giusto il solo modo congiuntivo, in questo caso: “domandina: possedendo oggi un professionale Rolex (ovviamente sovrastimato dal mercato) del valore di 10/11.000 euro ….il proprietario che lo permutasse alla pari con un oggetto come questo, come lo definireste? Intenditore o folle?”.
Il motivo del congiuntivo è che esso esprime una eventualità, come se fosse nella protasi di un periodo ipotetico, che rifiuta il condizionale. Cioè è come se il periodo fosse: “se il proprietario lo permutasse, lo definireste intenditore o folle?”. Ovviamente, in questo caso, spicca l’impossibilità del condizionale in protasi: *”se il proprietario lo permuterebbe”. Invece è del tutto corretto il condizionale in apodosi: “lo definireste”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se in queste due frasi è d’obbligo l’uso delle virgolette e della maiuscola dopo i due punti:
1 – Ama la vita. Ma spesso sarebbe meglio dire: attento che non ti combini
qualcosa!
2 –  Vorrei dire a chi mi critica: potrei dir peggio io di voi!
 

 

RISPOSTA:

A rigore sì, trattandosi di normalissimi casi di discorso diretto introdotto dal verbo dire (ancorché attribuito alla voce pensiero dello/a stesso/a narratore/narratrice). Però in letteratura i casi di voce pensiero o voce riprodotta espressi senza virgolette e senza maiuscola sono numerosissimi, per cui sarei molto elastico al riguardo. Certo, con tutto il rispetto per l’estro creativo degli autori e delle autrici, la chiarezza e l’agevolazione della comprensione dei lettori e delle lettrici sono sempre da mettersi al primo posto, quando si scrive (letteratura o no), per cui io le suggerirei di utilizzare sia le virgolette sia l’inziale maiuscola.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Dovrei dire “Vorrei sapere se FOSSE possibile ricevere il tuo aiuto” o “Vorrei sapere se SAREBBE possibile ricevere il tuo aiuto”? E nel caso di “Volevo sapere se…”? Si deve dire “Volevo sapere se FOSSE o SAREBBE”? 
 

 

RISPOSTA:

Ciò che dipende da “volevo sapere se” o “vorrei sapere se” è un’interrogativa indiretta, e non un’ipotetica. In via teorica, pertanto, il condizionale sarebbe possibile, anche se spesso equivoco, specialmente se in dipendenza da un altro condizionale (“vorrei sapere se”). L’equivocità dipende sia dalla prossimità di questo costrutto con quello del periodo ipotetico (in cui il condizionale dopo se è errato), sia dalla possibile confusione con l’uso del condizionale passato per esprimere il futuro nel passato (“non sapevo se sarebbe venuto o no”), sia, ancora, dal fatto che l’eventualità può essere espressa anche dal congiuntivo, e non solo dal condizionale. Pertanto, di fatto, anche se una frase come “Vorrei/volevo sapere se sarebbe possibile ricevere il tuo aiuto” è possibile, sarebbe meglio sostituirla con: “Vorrei/volevo sapere se fosse possibile ricevere il tuo aiuto”.
Il condizionale diventa invece preferibile in espressioni negative quali: “non so se ti aiuterei”, “mi chiedevo se ti aiuterei”, o “non sapevo se ti avrei aiutato”, In quest’ultimo caso, tuttavia, l’interpretazione del condizionale passato sarebbe decisamente quella di futuro nel passato: all’epoca in cui me lo chiedevo (cioè non lo sapevo) non ti avevo ancora aiutato (o meno).
Sulla ricchissima casistica degli usi del condizionale e del congiuntivo può utilmente consultare il nostro archivio delle risposte di DICO, cercando le voci congiuntivo, condizionale, periodo ipotetico, interrogativa indiretta ecc.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire: “Le potenze decisero di intervenire qualora ci fossero nazioni che AVREBBERO rotto l’equilibrio”?
Io credo che si tratti di un errore, e che si debba usare AVESSERO.

 

RISPOSTA:

In via del tutto teorica una subordinata con il condizionale passato non è sbagliata, visto che quel condizionale non si trova in protasi (cioè non è un periodo del genere, del tutto errato: *”se saresti intervenuto io ti avrei ringraziato”), bensì in una dipendente dalla protasi del periodo ipotetico. Secondo la consecutio temporum, infatti, un futuro dipendente del passato si esprime con il condizionale passato: “io pensavo che le potenze avrebbero rotto l’equilibrio”, cioè non l’avevano ancora rotto all’epoca in cui lo pensavo.
Il punto è che l’azione di intervenire non può che avvenire DOPO, e non PRIMA, che l’equilibrio sia stato rotto, e pertanto, in questo caso specifico, non ha senso il condizionale passato, ha ragione lei. L’unica versione corretta è quella che indica lei, cioè “avessero rotto”. Il condizionale si motiva, erroneamente, con la carica di eventualità di questa rottura, che però è espressa adeguatamente, in questo caso, dal congiuntivo. Inoltre l’intero periodo è inutilmente faticoso per via della frase scissa (cioè una falsa subordinata introdotta dallo pseudorelativo che): “ci sono nazioni che…”. Pertanto, ancor meglio sarebbe eliminare la frase scissa e scrivere: “Le potenze decisero di intervenire qualora (o se) le nazioni avessero rotto l’equilibrio”. In questo caso, per giunta, spicca il vero ruolo del congiuntivo in protasi (se avessero rotto), che renderebbe del tutto erroneo il condizionale (*”se avrebbero rotto” è errato). Trattasi dunque di un periodo ipotetico al passato, espresso con il congiuntivo (trapassato) in protasi e l’indicativo (passato remoto) in apodosi. L’indicativo in apodosi si spiega, in questo caso, per via della perifrasi “decidere di intervenire”, che rende di per sé meno “oggettivo” l’intervento, o meglio scarica sul verbo intervenire una dose di “eventualità” data dal verbo reggente decidere. Infatti, se non ci fosse quel decidere ma soltanto il verbo intervenire, il periodo sarebbe dell’irrealtà, con un normale condizionale passato in apodosi (ma attenzione ancora una volta: non in protasi!): “Le potenze sarebbero intervenute qualora (o se) le nazioni avessero rotto l’equilibrio”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi sono imbattuto nella seguente frase: “Passione e dedizione di cui tutti dovremmo farne tesoro”. A me sembra che la formulazione corretta dovrebbe escludere la particella ne e si dovrebbe pertanto scrivere “passione e dedizione di cui tutti dovremmo fare tesoro”. Mi sbaglio?

 

RISPOSTA:

Non si sbaglia affatto. La duplicazione della particella pronominale, comune e tutto sommato accettabile in contesti parlati informali, nei quali assolve alla funzione di richiamare il tema rafforzando il poco trasparente pronome relativo di cui, non trova giustificazione nello scritto, specie formale o specialistico, e deve pertanto essere evitata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio che mi tormenta. Se i verbi intransitivi non hanno il passivo, non hanno neanche il participio
passato (che ha di per sé valore passivo)? Ad esempio, non posso dire: “Parlato, se ne andò”, ma dirò “dopo che ebbe parlato / avendo parlato se ne andò”. Come si spiega allora, dal punto di vista
grammaticale, la forma parlato?
Diversa mi sembra la situazione per un verbo come partire: “Partiti loro, andammo via anche noi”.
Come mai?

 

RISPOSTA:

Il participio passato è passivo soltanto per i verbi transitivi, mentre è attivo per quelli intransitivi. In una frase come “Stipulata la pace, gli ambasciatori partirono” (con il verbo transitivo stipulare), per esempio, stipulata la pace equivale alla forma passiva essendo stata stipulata la pace (lo si capisce dal fatto che stipulata è concordato con la pace). Bisogna sottolineare, però, che le proposizioni costruite con il participio passato di verbi transitivi possono essere facilmente trasformate in attive: stipulata la pace = avendo stipulato la pace. Nel caso di un verbo intransitivo, invece, è facile dimostrare che il participio passato è attivo, infatti nella sua ultima frase partiti equivale a essendo partiti, non a un impossibile *essendo stati partiti.
Il suo secondo dubbio ha a che fare con la differenza tra i verbi inergativi (come parlare), che hanno l’ausiliare avere ma non richiedono il complemento oggetto, e i verbi inaccusativi (come partire), che hanno l’ausiliare essere e, ugualmente, non richiedono il complemento oggetto. Abbiamo appena visto che il participio passato dei verbi inaccusativi (come partire) è senza dubbio attivo; anche per gli inergativi vale lo stesso, ma questi verbi ingenerano nel parlante il dubbio che siano transitivi (perché hanno l’ausiliare avere e perché il soggetto coincide con quello della reggente), per cui il participio passato sembra passivo, quindi impossibile (*essendo stato parlato). Per questo motivo, anche se la costruzione con il participio passato è corretta, con questi verbi si preferisce quella con il gerundio passato: “Avendo parlato / lavorato / concluso…, se ne andò” (oppure Parlato che ebbe…) oppure quella esplicita: Dopo che ebbe parlatoSiccome aveva finito di parlare e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei presentarvi tre frasi sulla cui sintassi del verbo sono in forse.
a) Qualunque decisione avesse preso / prendesse, sarebbe stato difficile centrare l’obiettivo.
b) Quel suo atteggiamento sarebbe parso incomprensibile e ingiustificato, per coloro che la conoscessero / l’avessero conosciuta.
c) Si apprestava a chiarire l’accaduto, quando ne avesse / avesse avuta l’opportunità.
Nel caso sia la soluzione con il congiuntivo imperfetto sia quella con il congiuntivo trapassato fossero sintatticamente ammissibili, vi domando se la scelta dell’una o dell’altra si basi sul grado di probabilità dell’evento indicato, oppure sul rapporto di contemporaneità o anteriorità delle subordinate rispetto alle reggenti.

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti di tutte le tre frasi sono corrette. Nella prima e nella terza la scelta ha effetto sul grado di probabilità dell’evento (l’imperfetto indica possibilità, il trapassato indica impossibilità o quasi); nella seconda il grado di probabilità si confonde con la relazione temporale, per cui l’imperfetto può indicare sia la possibilità sia la contemporaneità nel passato, e il trapassato sia la quasi impossibilità sia l’anteriorità rispetto al passato. L’interpretazione in questo caso sarà dettata dal contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporvi il luogo di un libro scritto da un notissimo autore del secolo scorso. Qui la narrazione è all’indicativo presente:

Nel cielo si addensano nuvole minacciose, come se stia per piovere.

La congiunzione come se può ammettere il congiuntivo presente? Mi sarebbe parso opportuno selezionare il congiuntivo imperfetto.

 

RISPOSTA:

La proposizione comparativa ipotetica (introdotta da come se) richiede quasi esclusivamente il congiuntivo imperfetto o trapassato. Il congiuntivo presente e passato, in dipendenza da una reggente al presente, non sono impossibili né si possono dire scorretti; sono, però, di gran lunga sfavoriti dai parlanti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi è capitato di riscontrare in talune narrazioni, sia orali che scritte, costruite prevalentemente al passato remoto o al passato prossimo, il ricorso al futuro semplice per anticipare dati fatti, come se non fossero ancora avvenuti (mentre in realtà non è così). Sono difatti successivi soltanto a quelli che il narratore ha già esposto con un tempo passato. Riporto un esempio per facilitare la comprensione:

Il mattino fu alquanto stancante per lo studente e il pomeriggio non fu da meno, con ore consumate sui libri e pochissimo spazio per il riposo. Ma la sera prenderà tutt’altra piega.

Vi chiedo se questo salto temporale, peraltro minimo, può essere espresso anche con il futuro semplice, come testimonia la scelta narrativa in esame, anziché con il canonico condizionale composto. Solo per ratifica, vi chiedo infine se si sarebbe potuto costruire l’intero periodo con il passato remoto, dato che al di là della scansione progressiva degli eventi, si tratta di un qualcosa interamente appartenente a un tempo ben definito, quindi compiuto, già trascorso.

 

RISPOSTA:

Non so a quale indirizzo lei abbia mandato le precedenti domande, ma le confermo che la compilazione del modulo è il procedimento corretto per ricevere una risposta. A questo proposito le chiedo di fare una domanda alla volta, per aiutarci ad archiviare ogni risposta.
L’uso del futuro da lei descritto si spiega immaginando uno spostamento del centro deittico, ovvero del punto da cui l’emittente guarda i fatti. Normalmente il centro deittico è qui e ora, quindi tutti i fatti riguardanti lo studente del racconto sono nel passato. Il sistema verbale italiano, però, consente anche di situare alcuni eventi in un momento successivo rispetto ad altri eventi passati (ma ancora nel passato rispetto al centro deittico dell’emittente, che in questo caso è il narratore). Questa costruzione si realizza soprattutto con il condizionale passato; infatti nel suo esempio la frase al futuro sarebbe solitamente costruita così: “Ma la sera avrebbe preso tutt’altra piega”.
Forzando un po’ la funzione standard dei tempi e dei modi verbali, l’emittente può giocare con il centro deittico, spostandolo avanti e indietro. In questo modo alcuni eventi risulteranno passati (rispetto al centro deittico normale) e altri futuri (rispetto al centro deittico “alternativo” passato). È quello che succede nel suo esempio, in cui all’inizio gli eventi sono passati, poi all’improvviso si passa al futuro (perché il centro deittico è stato spostato nel passato). Dal punto di vista della grammatica standard questa costruzione è un errore, e così dobbiamo considerarla se lo scrivente la adotta per distrazione o perché non è capace di organizzare i pianti temporali della narrazione. È anche possibile, però, che lo scrivente usi questa sequenza temporale insolita come scelta consapevole, per confondere e allettare il lettore, quindi come particolare che caratterizza il suo stile. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

È un errore scrivere che qualcuno è incapace a invece di incapace di?

 

RISPOSTA:

Nella lingua comune incapace regge la preposizione di (incapace a è in astratto possibile, ma raro e da evitare). L’espressione incapace a è tipica del linguaggio giuridico, nel quale indica la condizione di chi non può ottemperare a un compito per un impedimento esterno, non perché privo dell’abilità: incapace a testimoniareincapace a pagare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si può dire di dubitare su qualcosa (esempio: dubito sul mio coraggio) o bisogna scegliere la preposizione di?

 

RISPOSTA:

Il verbo dubitare regge la preposizione di (o la congiunzione che se l’elemento retto non è un sintagma ma una proposizione); ammissibili sono locuzioni preposizionali come riguardo a in riferimento a. La preposizione su non è esclusa, ma è senz’altro una opzione rarissima, che va evitata in contesti sorvegliati.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale tempo verbale scegliere quando si vuole citare qualcuno? Per esempio: “Pirandello disse che la vita ecc.”. Mi è capitato di osservare l’uso del passato prossimo, del passato remoto e del presente; quest’ultimo anche trattandosi di autori ormai defunti: da cosa è giustificata questa scelta?

 

RISPOSTA:

Per riferirsi a eventi passati, quindi anche a opinioni espresse nel passato, si possono usare tutti i tre tempi che lei nomina. La differenza tra i tre è la seguente: il passato remoto rappresenta l’evento come completato nel passato, senza conseguenze sul presente (Pirandello disse = ‘l’opinione di Pirandello era che…’); il passato prossimo rappresenta l’evento come ancora rilevante nel presente (Pirandello ha detto = ‘le parole di Pirandello sono ben note e ancora valide oggi’); il presente rappresenta l’evento come attuale, sottolineando la sua rilevanza in ogni tempo (Pirandello dice = ‘è come se Pirandello parlasse adesso’).
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È possibile accordare il pronome indefinito qualcosa a un aggettivo femminile?
“Cerco qualcosa bella” è completamente sbagliato?

 

RISPOSTA:

L’accordo al femminile è sbagliato, perché qualcosa è maschile sia come pronome, sia come nome (un qualcosa, non *una qualcosa). Bisogna dire che tale errore è molto comune, perché i parlanti riconoscono il nome femminile cosa all’interno di questa parola e sono tratti in inganno; rimane, però, sicuramente un errore. 
Fabio Ruggano

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QUESITO:

Volevo chiedervi alcune delucidazioni in merito alla punteggiatura, in particolar modo riguardo alla virgola prima delle preposizioni incon o per. Vi chiedo di controllare se queste frasi sono state scritte correttamente.
1) Salta la fila, con la nostra app.
2) Effettua il pagamento, in contanti o con carta.
3) Puoi pagare in contanti oppure direttamente sul nostro sito, con la tua carta di credito.
4) Oggi vado in montagna, per rilassarmi.
Io so perfettamente che, come regola, si mette la virgola prima di tali preposizioni, quando queste ultime non si riferiscono alla parola che precede (es. “Vado al mare, in vacanza”), oppure nel caso di un inciso alla fine della frase. Inoltre so che può essere messa la virgola anche per creare effetti stilistici particolari, ma non credo che ciò sia permesso al di fuori della scrittura creativa. 

 

RISPOSTA:

Nessuna preposizione richiede una certa punteggiatura. L’unica regola, piuttosto ovvia, che bisogna rispettare è che non si può separare la preposizione dal nome con cui essa costituisce un sintagma (*in, barca), o dalla proposizione che essa introduce, tranne nel caso di incisi (*per, fare pace, ma per, una volta per tutte, fare pace). Nei suoi esempi, la virgola è del tutto corretta, come corrette sarebbero le varianti senza virgola. In questi casi, infatti, l’inserimento della virgola è una scelta legittima, che modifica il senso della frase, separando due informazioni che altrimenti sarebbero lette unitariamente. Con la separazione, le informazioni assumono pari importanza, mentre senza virgola la seconda, quella alla destra della frase, sarebbe più pregnante di quella alla sinistra. Prendiamo il primo esempio:
1a. Salta la fila con la nostra app = ‘usa la nostra app per saltare la fila’.
1b. Salta la fila, con la nostra app = ‘salta la fila, ma fallo non in un modo qualsiasi bensì con la nostra app’.
Nel secondo esempio l’effetto è lo stesso, mutatis mutandis:
2a. Effettua il pagamento in contanti o con carta = ‘paga in un modo o nell’altro‘.
2b. Effettua il pagamento, in contanti o con carta = ‘paga, e inoltre scegli tu in che modo’.
E così via per gli altri.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Il verbo venire richiede l’ausiliare essere, ma il verbo volere l’ausiliare avere. E allora, quale di queste due frasi è corretta, o almeno la più corretta?
“Ieri avrei voluto venire da te” / “Ieri sarei voluto venire da te”.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette e sullo stesso piano di correttezza: la scelta tra le due, pertanto, è legata al gusto personale. Nel primo caso si considera volere come autonomo rispetto a venire, quindi la scelta dell’ausiliare è governata da volere; nel secondo caso si considera volere venire come un unico gruppo verbale, nel quale la testa (ovvero l’elemento dominante grammaticalmente e semanticamente) è venire, quindi l’ausiliare è governato da venire.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Quale affermazione è corretta?

Ci porterà molto fortuna.
Ci porterà molta fortuna.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda, nella quale molta è un aggettivo che accompagna fortuna, è di gran lunga più comune. Nella prima molto è un avverbio che si riferisce a tutta la frase. Per cogliere con più chiarezza il significato della prima frase si può sostituire molto con il sinonimo grandemente: “Ci porterà grandemente fortuna”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei un consiglio su quale grammatica italiana comprare.

 

RISPOSTA:

Tra le grammatiche della lingua italiana più autorevoli, rivolte a un pubblico di non specialisti e non di impianto scolastico, consigliamo Italiano, di Luca Serianni, Garzanti, e La nuova grammatica della lingua italiana, di Maurizio Dardano e Pietro Trifone, Zanichelli.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali verbi sono corretti tra le proposizioni seguenti? 
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si arrabbiava/sarebbe arrabbiato e distruggeva/avrebbe distrutto tutto”.

 

RISPOSTA:

Come al solito l’uso del congiuntivo/condizionale oppure dell’indicativo nel periodo ipotetico della possibilità e dell’irrealtà non attiene tanto alla correttezza, quanto alla formalità della frase. L’uso del congiuntivo/condizionale è più formale (e dunque sempre suggeribile), mentre quello dell’indicativo è limitato ai discorsi più informali. Nel suo caso, inoltre, si tratterebbe, con l’indicativo nella sola apodosi, di un periodo ipotetico misto, con la soluzione formale (congiuntivo) nella protasi e quella informale (indicativo) nell’apodosi. Tale mistura, ancorché attestata e possibile nei casi più informali, è decisamente da evitare. Pertanto, nel periodo ipotetico dell’irrealtà da lei proposto, è da preferire senza dubbio alcuno la soluzione seguente:
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si sarebbe arrabbiato e avrebbe distrutto tutto”.
Aggiungo che, essendo il soggetto riferito a qualcuno che nella proposizione è un complemento oggetto (lo), sarebbe meglio non lasciare sottinteso il soggetto, ma esprimerlo esplicitamente o con un pronome (lui) o con una forma piena (l’uomo ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

orrei chiedere se queste frasi con il pronome NE ma senza la quantità e con la  concordanza del participio sono giuste o no:

Hai comprato del vino?              Sì, ne ho comprato.
Hai comprato della pasta?         Sì, ne ho comprata.
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati.
Hai comprato delle mele?         Sì, ne ho comprate.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette e sono migliori e più formali rispetto alle rispettive forme non accordate (cioè: ne ho comprato, per tutte e cinque i casi).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?

 

RISPOSTA:

Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).

Fabio Rossi

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QUESITO:

E’ corretto proporre tra i sinonimi di “sovente” anche “solitamente”, oppure vuol dire solo “spesso”?
 

 

RISPOSTA:

No, il francesismo sovente ha soltanto il significato di “spesso”, oppure, nel raro e arcaico uso come aggettivo, di “frequente”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se devo chiedere ad una persona quanto bene vuole a loro, quale delle seguenti due domande è corretta?
Quanto li vuoi bene?
Quanto gli vuoi bene ?
Se è riferito a lui sono quasi sicuro che che vada bene la seconda domanda, ma se è riferito a loro forse va bene la prima domanda
 

 

RISPOSTA:

Gli = a lui
le = a lei
loro o a loro = a più persone (plurale), nella lingua formale
gli = a più persone (plurale), nella lingua informale
li = solo per il complemento oggetto. Es.: “li vedo” (cioè vedo loro, quelle persone là), o, al femminile, “le vedo”.
Quindi, dato che volere bene (a qualcuno) regge il complemento di termine e non il complemento oggetto, si può usare soltanto “loro” o “a loro”, nello stile formale, oppure “gli” nello stile informale.
In conclusione, sia per il plurale sia per il singolare:
“li vuoi bene” è errato
“gli vuoi bene” è corretto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il futuro anteriore nella sua funzione temporale (non quando è investito del valore epistemico), come insegna la consecutio, è strettamente collegato con il futuro semplice: “Una volta che sarò riuscito a parlargli, ti farò sapere”.
Quest’ultimo tempo, specie nell’italiano medio, è talvolta sostituito dal presente dell’indicativo: “Tra due ore ti chiamo”.
Vorrei quindi sapere se frasi del tipo:
“Se entro domani sera non ci saranno stati sviluppi, non ti aggiorno”;
“Ti aggiorno, dopo che / quando / una volta che mi saranno stati comunicati gli sviluppi del caso”
sono formalmente valide, anche in un registro non colloquiale, oppure ci si debba sempre attenere alla coniugazione al futuro semplice (aggiornerò).

 

RISPOSTA:

Le frasi sono corrette e del tutto accettabili. La scelta di usare il futuro anteriore nella stessa frase in cui il futuro semplice è sostituito dal presente è insolita ma possibile, specie in un contesto parlato, in cui il parlante può passare repentinamente da un registro a un altro sulla scorta di variabili circostanziali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Oggi ho tradotto una frase dall’inglese all’italiano: “Compare It with what you are learning” > “Mettilo a confronto con quello che stai imparando”.
Mi è stata posta la domanda perché ho usato due parole per tradurne una: what, mi sono resa conto che non so dare una spiegazione grammaticale. Esattamente perché usiamo quello che?

 

RISPOSTA:

Ovviamente non c’è niente di insolito nel fatto che due lingue esprimano in modo diverso lo stesso concetto. In questo caso specifico, in italiano si preferisce esprimere analiticamente, cioè con più di una parola, una funzione sintattica che in inglese è preferenzialmente sintetica, cioè espressa con una sola parola. La funzione in questione, in effetti, è duplice, ovvero sono due funzioni: la prima è quella di completamento del sintagma preposizionale introdotto da con, la seconda è quella di introduttore della proposizione relativa. Ecco spiegato perché in italiano troviamo la sequenza di due pronomi (quello che, o ciò che), oppure di un sintagma nominale e un pronome (la cosa / le cose che).
Visto che le funzioni sono due, quindi, la sorpresa non è che in italiano ci siano due parole, ma che in inglese ce ne sia una sola. Per la verità, comunque, neanche questa è una sorpresa, perché la possibilità di raggruppare il pronome che fa da antecedente del relativo e il relativo stesso è comune, tanto che esiste anche in italiano (ma è meno frequente); la traduzione da lei proposta, infatti, avrebbe potuto essere “Mettilo a confronto con quanto (= quello che) stai imparando”. Il pronome quanto è uno dei relativi doppi, o misti, e funziona proprio come what; accanto a questo esiste chi, riferito a persone, equivalente a who: “I don’t know who you are” > “Non so chi (= la persona che) sei”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto la sua voce e la sua postura” è ben costruita?
In particolare, sono corrette le ellissi della congiunzione tanto dopo colpito per stabilire la correlazione con quanto e quella del predicato verbale nella seconda metà della frase? Peraltro tale predicato, relativo a la sua voce e il suo portamento, dovrebbe essere al plurale; è comunque accettabile che il predicato non mi aveva colpito, singolare, regga tutta la frase?

 

RISPOSTA:

L’avverbio quanto è usato spesso in correlazione con tanto; l’assenza di quest’ultimo, però, è possibile e non può essere, pertanto, considerata un errore.
La concordanza tra il predicato singolare non mi aveva colpito e il soggetto plurale la sua voce e il suo comportamento è a rigor di grammatica scorretta, ma visto che la comprensione non è messa in discussione si può considerare accettabile, per quanto imprecisa. L’alternativa più precisa, si badi, non è non mi avevano colpito il suo sguardo, quanto…, che sarebbe ancora peggiore di quella iniziale, bensì non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto mi avevano colpito…
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se nel mezzo di un periodo scrivo, usando le virgolette, frasi tipo “il lavoro nobilita l’uomo”, devo preferire la maiuscola o la minuscola?

 

RISPOSTA:

Sia che si riferisca all’articolo il, sia che si riferisca a uomo, la variante da usare è la minuscola; non c’è, infatti, nessuna circostanza che giustifichi l’uso della maiuscola.
La maiuscola dopo le virgolette è convenzionalmente usata all’inizio di un discorso diretto (… disse: “Domani pioverà”). Sempre possibile è la maiuscola enfatica per uomo, per dare risalto all’universalità del riferimento. Una scelta del genere, si badi, sarebbe propria di uno stile ampolloso.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice non le riguarda o non la riguarda?

 

RISPOSTA:

Il verbo riguardare è oggi quasi esclusivamente transitivo, quindi una cosa riguarda qualcuno non a qualcuno. Per questa ragione si dice non la riguarda (ovvero non riguarda lei), non *non le riguarda (ovvero *non riguarda a lei).
Quando, però, la persona è anticipata rispetto al verbo, la costruzione diretta appare molto strana (perché la persona sembra essere il soggetto del verbo), tanto che può essere considerata addirittura scorretta; per esempio “Mia madre non riguarda quello che faccio”. In questi casi è giustificato usare il cosiddetto complemento oggetto preposizionale: “A mia madre non riguarda quello che faccio”. Se la persona è rappresentata da un pronome personale, si può anche legittimamente ricorrere alla ripresa pronominale: “A te non ti riguarda quello che faccio”, o soltanto “Non ti riguarda quello che faccio” (ma “Quello che faccio non ti riguarda / riguarda te”). Con il pronome relativo entrambe le costruzioni sembrano forzate (“La persona a cui / che riguarda quello che faccio non sei tu”), sebbene in astratto quella da usare è a cui riguarda. In questi casi questo verbo viene sempre sostituito con un sinonimo come interessare o importare, che richiedono il complemento indiretto introdotto da ala persona a cui interessa / importa…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il comparativo di maggioranza o minoranza con il verbo piacere si forma usando di oppure che?

 

RISPOSTA:

Gli avverbi più e meno che accompagnano il verbo piacere non formano un comparativo, perché non sono uniti a un aggettivo, ma sono comunque seguiti da un secondo termine di paragone: “Il cinema mi piace più della televisione”. In questi casi, quindi, tali avverbi sono autonomi e possono richiedere sia la preposizione di sia la congiunzione che. Se il secondo termine di paragone è un nome o un pronome si possono usare entrambe: “Il cinema mi piace più della televisione” / “Il cinema mi piace più che la televisione”. Il che è più comune se il secondo termine di paragone è anticipato: “Più che la televisione mi piace il cinema”, oppure se il primo termine di paragone è posto dopo il verbo: “Mi piace il cinema più che la / della televisione”. La differenza tra le due forme è che la preposizione costruisce il secondo termine di paragone come un sintagma (complemento di paragone): il cinema mi piace / più della televisione; la congiunzione, invece, lo costruisce come una proposizione (proposizione comparativa): più che (mi piace) la televisione / mi piace il cinema, oppure mi piace il cinema / più che (mi piace) la televisione.
Per questo motivo, se il secondo termine di paragone è una proposizione, o anche soltanto un infinito verbale, il secondo termine di paragone è senz’altro introdotto da che: “Mi piace andare al cinema più che guardare la televisione”, “Mi piace sciare più che nuotare”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei domandarvi se le frasi proposte nelle loro varianti verbali sono giudicabili corrette.
A) Se ci fosse stato un problema che…
… avesse messo / mettesse / avrebbe messo a dura prova la nostra pazienza, mi sarei dato da fare per individuare una soluzione tempestiva.
B) Se ci fosse un prolema che…
… mettesse / metta / metterebbe a dura prova la nostra pazienza, mi darei da fare per individuare una soluzione tempestiva.
Ho letto nel vostro archivio che la relativa è di norma aperta a molti modi, ma, spesso, quando questa è collegata a un’altra proposizione con il verbo al congiuntivo, il condizionale, sia presente sia passato, sopraggiunge il dubbio.

 

RISPOSTA:

Tutte le forme da lei ipotizzate sono corrette, con qualche differenza semantica e di accettabilità tra l’una e l’altra. Innanzitutto notiamo che in dipendenza da una proposizione al congiuntivo la proposizione relativa perde in parte la sua autonomia dalla consecutio temporum. Procediamo, quindi, a valutare le varianti nell’ottica della consecutio temporum.
Per quanto riguarda la frase A, nel caso in cui la prova sia contemporanea al problema si propenderà per l’imperfetto; se, invece, si immagina che la prova sia successiva si propenderà per il condizionale passato (per quanto sia a primo impatto strano trovare un condizionale in dipendenza da un congiuntivo). La variante con il trapassato è la meno giustificabile, perché implica che la prova sia precedente al problema, cosa impossibile. Non possiamo definirla del tutto scorretta, però, perché è ammissibile che il trapassato avesse messo sia attratto dal trapassato reggente (ci fosse stato) con la stessa funzione dell’imperfetto, cioè per indicare la contemporaneità dei due eventi.
Per la frase B la situazione è analoga: l’imperfetto mettesse è attratto dall’imperfetto ci fosse per indicare la contemporaneità nel presente. Bisogna ricordare, a questo proposito, che nella proposizione condizionale il congiuntivo imperfetto indica un evento presente, mentre nell’ambito della consecutio temporum la stessa forma esprime la contemporaneità nel passato. A loro volta, metta in dipendenza da ci fosse è simmetrico a mettesse in dipendenza da ci fosse statometterebbe in dipendenza da ci fosse non è simmetrico a avrebbe messo in dipendenza da ci fosse stato, perché il condizionale presente non è usato per esprimere il futuro (mentre il condizionale passato esprime il futuro rispetto a un evento passato). Anche così, però, il condizionale presente è giustificato in quanto rappresenta la prova come possibile, ma non certa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

È giusto dire: “Ho comprato una maglietta dal negozio Benetton” oppure al negozio Benetton?

 

RISPOSTA:

La preposizione a retta da un verbo di stato o un verbo che implica indirettamente la permanenza in un luogo indica non esattamente il luogo in cui ci si trova, ma la situazione di cui si è parte, che può essere tipica di un luogo. Per questo diciamo “Sono a scuola” (e non *nella scuola), “Rimango a casa”, “Ho molti amici al lavoro”. Diversamente, la preposizione da indica una provenienza, che può essere legata a un verbo di movimento o di origine, oppure a un verbo di ricezione (“Non me l’aspettavo da te”). Il verbo comprare può indicare ricezione, ma se lo associamo a un luogo (come negozio) questa parte del significato rimane in secondo piano ed emerge l’aspetto della situazione tipica del luogo, che richiede la preposizione a. La preposizione da, pertanto, non è adatta alla sua frase, che è, al contrario, ben costruita con a.
La scelta cambia se togliamo il nome negozio e lasciamo soltanto il nome proprio del marchio, perché il nome proprio accentua la personalità dell’elemento costruito con la preposizione, e fa passare in secondo piano la sua natura di luogo. Quindi si dice “Ho comprato una maglietta al negozio”, ma “Ho comprato una maglietta da Benetton” (come si direbbe “Ho comprato una maglietta dal mio amico Andrea”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Sto elaborando uno slogan aziendale per un drone che si può usare in agricoltura, ma mi sorge un dubbio. È più corretto dire:
– Un supporto moderno PER la tua agricoltura 
oppure
– Un supporto moderno ALLA tua agricoltura?

 

RISPOSTA:

Entrambe le preposizioni sono corrette e ampiamente attestate. C’è, tra le due, una differenza semantica: a indica che l’oggetto che fa da supporto è inteso in senso astratto, come un complesso di attività di cura e aiuto tipico di una situazione. Per questo si dice supporto al clientesupporto al pazientesupporto alla causasupporto al progettoPer, al contrario, indica che il supporto è un oggetto concreto: supporto per il monitorsupporto per il collosupporto per la bicicletta
Il confronto tra le seguenti frasi chiarirà meglio il concetto:
1. “Mi (= a me) hai dato un grande supporto” = ‘mi hai simbolicamente aiutato molto, con una frase di conforto, uno sguardo, un gesto (senza riguardo per gli effetti pratici di queste azioni)’. Si noti che sarebbe impossibile *”Hai dato un grande supporto per me”.
2. “Sei stato un grande supporto per me” = ‘la tua presenza, le tue azioni, le tue parole mi hanno concretamente aiutato molto’. Sarebbe impossibile *”Sei stato un grande supporto a me”; sarebbe possibile “Mi sei stato grandemente di supporto”, perché essere di supporto recupera il significato astratto del nome.
Nel suo caso la scelta non è obbligata, ma dipende da come vuole rappresentare il drone: come un oggetto che si inserisce nel processo produttivo con un’azione concreta, quindi un supporto per l’agricoltura, oppure come un oggetto che apporta un contributo di aiuto all’agricoltura intesa come situazione. Si noti che la prima scelta è quella più immediata e lineare, ma è anche la più banale, perché non lascia niente all’immaginazione: descrive l’oggetto esattamente per quello che è; la seconda, più sorprendente, lascia intendere che l’oggetto possa avere un impatto sistemico, che supera le operazioni concretamente svolte in una fase del processo e arriva a toccare tutto il processo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi ha detto: «Ti farò sapere quando mi aggiorneranno/avranno aggiornato».
Con il passaggio dal discorso diretto a quello indiretto – vi domando – sarebbero possibili tutte e tre le costruzioni?

1. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando sarebbe stato aggiornato.
2. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando fosse stato aggiornato.
3. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando sarà stato aggiornato.

Mi sia consentito pronunciarmi con una semplice analisi.
La costruzione numero 1 secondo me è corretta, nonostante il doppio condizionale composto, a livello sintattico, vada a innescare un futuro nel passato (mi avrebbe fatto sapere) del futuro nel passato (sarebbe stato aggiornato), nonostante a livello semantico la successione dell’azione non lasci adito a dubbi di sorta.
La costruzione numero 2 mi pare la più lineare – o comunque quella che sceglierei -, con tanto di sfumatura ipotetica conferita alla congiunzione (quando).
La soluzione numero 3 dovrebbe essere corretta, in quanto il passato prossimo stringe dei legami forti con la dimensione del presente, dove il futuro anteriore trova una collocazione coerente.
A proposito di quest’ultimo punto, ho notato – sempre secondo la mia umile prospettiva linguistica – che sostituendo il passato prossimo che introduce il discorso diretto con il passato remoto (o con un tempo trapassato), la costruzione numero 3 certamente perde la sua validità, mentre le prime due restano possibili.

 

RISPOSTA:

La sua analisi è sostanzialmente corretta, tranne che per la terza frase. Ma partiamo dalla prima: il secondo condizionale passato non produce una proiezione dal passato nel futuro rispetto a un futuro a sua volta proiettato rispetto a un passato: tale livello di complessità sarebbe ingestibile da un parlante. Quello che succede in una frase del genere, invece, è che il condizionale passato dipendente da un altro condizionale passato è interpretato come genericamente posteriore rispetto allo stesso passato da cui dipende il primo condizionale (in questa frase mi ha detto), quindi sullo stesso piano di quest’ultimo. Ne consegue che il rapporto temporale relativo tra gli eventi rappresentati da questi due condizionali (il primo è successivo rispetto al secondo) viene obliterato in favore del più rilevante rapporto temporale di entrambi gli eventi rispetto a quello principale della frase. Questo “sacrificio” non è grave, però, perché il rapporto relativo si recupera facilmente per logica confrontando i due eventi (è chiaro che l’essere aggiornato deve precede il fare sapere). Nella seconda frase il congiuntivo trapassato serve proprio a recuperare il rapporto relativo tra i due eventi dipendenti, sacrificando, questa volta, il rapporto tra il secondo evento dipendente e l’evento principale. In altre parole, fosse stato aggiornato è precedente rispetto ad avrebbe fatto sapere (si ricordi che il condizionale passato, per quanto esprima un evento posteriore a un altro, rimane un tempo passato, per cui un evento a esso precedente deve essere espresso con un congiuntivo trapassato). Nessun rapporto, invece, può esserci tra ha detto e fosse stato aggiornato, perché è chiaro che l’essere aggiornato non precede il dire, ma è a questo successivo. A questa considerazione temporale si aggiunge secondariamente la sfumatura di eventualità da lei notata, perché una proposizione temporale al congiuntivo è facilmente interpretata come condizionale. Tale interpretazione sempre possibile può indurre a preferire la soluzione 1, nel caso in cui il parlante voglia descrivere l’evento dell’essere aggiornato come certo. Si consideri, però, che quando si parla di eventi futuri, l’eventualità è sempre implicita, anche quando si rappresentano tali eventi come fattuali.
La frase 3 non è corretta. Il suo ragionamento parte bene: è vero che il passato prossimo (ma non il passato remoto) è affine al presente, quindi può richiedere la consecutio temporum del passato (come nelle prime due frasi) ma anche del presente; tale scelta, però, deve riguardare tutta la frase, non solo parte di essa. Il futuro anteriore, pertanto, va bene soltanto se la proposizione da cui dipende va al futuro semplice: “Mi ha detto che mi farà sapere, quando sarà stato aggiornato”. La sua versione della frase, invece, confonde i piani, passando indebitamente dal passato al presente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla seguente frase: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo accompagnava”. Secondo il mio dilettantistico parere, questa espressione è la più corretta per creare una contemporaneità fra il non essersi recato a Roma del soggetto in questione e la mancata presenza dell’amico come accompagnatore. Le persone con cui mi sono consultato, tra le quali c’erano anche degli specialisti, almeno stando alle qualifiche, sostenevano che la contemporaneità poteva essere ottenuta solo usando il trapassato prossimo e non l’imperfetto (“Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo aveva accompagnato”). Ciò mi pare errato, in quanto se usassi il trapassato prossimo per ottenere la contemporaneità fra i due eventi, cosa dovrei usare per ottenere l’anteriorità? In questo contesto l’anteriorità non avrebbe senso, ma, cambiando di poco la frase, potrebbe averlo. Per esempio: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non era venuto da lui il giorno prima della partenza, essendo rimasto bloccato nella sua città per problemi familiari”.

 

RISPOSTA:

La sua riflessione è corretta, ma arriva alla conclusione sbagliata: il trapassato prossimo esprime sempre anteriorità rispetto al passato; nella frase in questione tale anteriorità è neutralizzata dall’immediato riconoscimento del rapporto di causa-effetto tra non lo aveva accompagnato e non si era recato. A causa di questa relazione logica, il secondo trapassato viene interpretato come sullo stesso piano del primo, quindi come se fosse dipendente non dal primo, ma direttamente da disse. L’anteriorità del trapassato, però, emerge più chiaramente in una frase in cui il secondo evento sia meno direttamente collegato al primo (come nella sua seconda frase).
Detto questo, la scelta del trapassato prossimo aveva accompagnato è corretta, non perché il trapassato indichi contemporaneità, ma proprio perché indica anteriorità. L’evento che rappresenta la causa è, infatti, precedente a quello che ne rappresenta l’effetto. L’imperfetto, al contrario, è una scelta meno felice, proprio perché rappresenta il non accompagnare come contemporaneo al non essersi recato, quando è chiaro che il primo evento precede il secondo. L’imperfetto ritorna accettabile se si intende dare alla frase un significato leggermente diverso; questo tempo può, infatti, essere interpretato come un condizionale passato (non l’avrebbe accompagnato), quindi come una proiezione dal passato verso il futuro. Questa interpretazione regge se si immagina una proposizione al trapassato sottintesa: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico (gli aveva detto che) non lo accompagnava / avrebbe accompagnato” (oppure perché aveva saputo che il suo amico non lo accompagnava / avrebbe accompagnato). Ovviamente, la variante avrebbe accompagnato è più formale di accompagnava.
Diverso sarebbe il caso in cui il rapporto non sia tra due eventi, ma tra un evento e uno stato: “Mi disse che non era andato a Roma perché non c’era il suo amico”. In questo caso l’imperfetto assume effettivamente la funzione di esprimere la contemporaneità nel passato; descrive, infatti, uno stato di cose che si verificava nel momento in cui l’evento (non) era avvenuto. 
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei conoscere quali tra le quattro costruzioni – a condizione che siano tutte valide – è da preferire.
1. Prima che i miei nipoti arrivino al mare, noi torneremo a casa.
2. Prima che i miei nipoti siano arrivati al mare, noi torneremo a casa.
3. Prima che i miei nipoti arrivino al mare, noi saremo (già) tornati a casa.
4. Prima che i miei nipoti siano arrivati al mare, noi saremo (già) tornati a casa.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette. La 1 e la 3 non presentano difficoltà: nella 1 gli eventi futuri dell’arrivare e del tornare sono rappresentati con il congiuntivo presente, che in effetti può avere la funzione di presente proiettato nel futuro, e con il futuro semplice, quindi senza specificare il dettaglio dell’anteriorità nel futuro (opzione del tutto normale); nella 3 il dettaglio dell’anteriorità è specificato per mezzo del futuro anteriore. La 2 e la 4 presentano il problema del congiuntivo passato usato per descrivere un evento futuro successivo rispetto a un altro evento (tanto che nella 4 l’altro evento è espresso con il futuro anteriore). Si noti che il congiuntivo passato può descrivere regolarmente un evento futuro precedente rispetto a un altro, perché la sua funzione può essere soltanto anaforica, ovvero quella di indicare che l’evento è precedente a un altro, a prescindere di quando esso sia avvenuto (per esempio, in una frase come “Quando tornerò dal viaggio ti accorgerai che ti sono mancato” sono mancato è un evento futuro). Il problema qui è che l’evento espresso con il congiuntivo passato (siano arrivati) è successivo, non precedente all’altro con cui è in relazione (torneremo / saremo tornati).
La ragione di questa scelta apparentemente illogica è che la congiunzione prima che spinge a considerare l’evento descritto all’interno della proposizione come la conclusione di un processo. Nelle frasi, quindi, prima che i miei nipoti siano arrivati è interpretato come ‘prima che si concluda il processo dell’arrivo dei miei nipoti’. 
Per quanto riguarda la validità delle frasi, ognuna veicola sfumature semantiche diverse, quindi va scelta in base al significato che si vuole intendere. Quelle con il futuro anteriore sottolineano la relazione dell’informazione del tornare con quella dell’arrivare, mentre quelle con il futuro semplice indicano che l’informazione del tornare ha una sua autonomia rispetto a quella dell’arrivare. Quelle con il congiuntivo presente rappresentano l’arrivare come un evento momentaneo, cioè puntano l’attenzione sul momento dell’arrivo, quelle con il congiuntivo passato lo rappresentano come la fine di un processo, quindi puntano l’attenzione sul processo che ha portato all’evento.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qualche giorno ho pronunciato la frase:
“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi fossi addormentato da poco”.
Ho accreditato al congiuntivo trapassato valore anaforico, prendendo come riferimento temporale le ore 17. L’ipotesi dell’addormentamento è passata rispetto a tale riferimento, ma è pur sempre futura rispetto all’enunciazione. Domando dunque se sia giustificata la scelta del congiuntivo trapassato.
“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi addormentassi poco prima”:
Questo può essere considerato un esempio valido di costruzione che mantenga invece
l’enunciazione quale punto di riferimento temporale per la scelta della sintassi del verbo?
 

 

RISPOSTA:

La prima frase al trapassato (“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi fossi addormentato da poco”) è decisamente preferibile, perché, come dice lei, quel che conta è il riferimento anaforico all’addormentamento passato rispetto al momento dell’ipotetico risveglio alle 17.00. In casi come questo,  in cui l’azione è tutta proiettata in avanti (cioè al momento del risveglio, le 17.00, sancito dall’imperativo), il fatto che l’azione sia futura (cioè che lei non sia ancora andato a letto) è del tutto secondario. Infatti se non vi fosse la componente ipotetica (dell’ipotetico risveglio), l’azione sarebbe espressa o al passato prossimo (dipendente dal presente), o al futuro anteriore (dipendente dal futuro), o al trapassato prossimo (dipendente dal passato prossimo o remoto): 
1. Mi sveglio alle 17.00 anche se mi sono addormentato da poco;
2. Mi sveglierò alle 17.00 anche se mi sarò addormentato da poco;
3. Mi sono svegliato (o mi svegliai) alle 17.00 anche se mi ero addormentato da poco.
L’ipotesi all’imperfetto congiuntivo (addormentassi), ancorché comprensibile, non sarebbe corretta, a rigore, secondo le regole della consecutio temporum, dal momento che non renderebbe l’idea dell’essersi addormentato prima. Infatti risulterebbe appropriata a un altro contesto, cioè quello in cui l’azione del risveglio venisse espressa come più o meno contemporanea al ,momento del risveglio o comunque ininfluente ai fini di quest’ultimo:
– Svegliami (comunque anche se) se mi addormentassi, oppure
– Svegliami (comunque anche se) se mi addormento.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Cari professori, vorrei domandarvi se sia la prima sia la seconda soluzione –
equivalenti, immagino, dal punto di vista semantico – siano adatte anche a un
contesto di formalità media o medio-alta e quale tra le due sia suggerita.
Entrambe nascono dalla necessità di evitare la ripetizione del sostantivo
“settimana/e” nella frase originaria:

A partire della prossima settimana o dalle prossime settimane…

Prima soluzione: A partire dalla prossima o dalle prossime settimane…
Seconda soluzione: A partire dalla prossima settimana, o dalle prossime,…
 

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe.
Si potrebbero usare anche altre alternative quali:
1. … dalle prossime settimane (chiaramente nel concetto di prossime è inclusa anche la prossima, cioè quella imminente)
2. … dalla prossima settimana o dalle successive
3. … dalla settimana entrante o da quelle prossime (o successive)

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nel periodo “Tale materiale si trova anche in una cartellina che  prenderò io all’ingresso del
palazzo e che lascerò in ufficio”, nell’ultima frase è meglio scrivere “e che lascerò in ufficio” oppure “e lascerò
in ufficio”. Il secondo “che” ha funzione di pronome o congiunzione?

 

RISPOSTA:

Il secondo che è un pronome relativo esattamente come il precedente, e si riferisce a cartellina; può essere omesso. Ogni qual volta vi sono due pronomi relativi a breve distanza e riferiti al medesimo referente il secondo che può essere sottinteso. Le due alternative, con il secondo che espresso oppure sottinteso, sono identiche, senza alcuna differenza di registro.
Un trucchetto ingenuo ma utile per riconoscere la differenza tra che pronome e che congiunzione è provare a sostituire che con il quale: se la sostituzione funziona (cioè se dà luogo a una frase di senso compiuto), che è pronome; se non funziona, che è congiunzione.
“… Si trova in una cartellina la quale lascerò in ufficio”, ancorché faticosa (nessuno userebbe la quale con valore di oggetto, in questo caso), funziona e si comprende. Se fosse: “penso che la lascerò in ufficio”, la sostituzione “penso la quale lascerò in ufficio” non funziona, e infatti in quest’ultimo caso il che ha valore di congiunzione (o complementatore) completiva, cioè che introduce una subordinata oggettiva.

Fabio Rossi

 

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei esporre un dubbio sull’analisi del periodo di una coordinata introdotta dalla congiunzione “anzi” e che, a detta delle grammatiche correnti, dovrebbe inserirsi tra le coordinate avversative.
La frase è questa:
-Restituiscimi i miei soldi: proposizione principale
-O non ti darò più nulla, : coordinata alla principale (disgiuntiva)
– anzi non ti considererò più un amico: coordinata di tipo avversativo? In realtà, a me sembra avere un valore accrescitivo (non solo non ti darò più i soldi, in più non ti considererò come amico) o di tipo sostitutivo (in sostituzione della prima minaccia ne uso un’altra).
È lecito il mio ragionamento? Come si può definire in questo caso la congiunzione?
 

 

RISPOSTA:

In effetti qui non si tratta tanto di contrastare qualcosa (avversativa), quanto, semmai, di aggiungere una minaccia. Casi come questi, perfettamente comuni e corretti, mostrano quanto le categorie della grammatica (intesa come libri di grammatica) siano molto più strette, poco utili, poco funzionali e spesso incoerenti di quelle della Grammatica (intesa come funzionamento di una lingua).
Nei libri di grammatica, per comodità e per brevità, la relazione di sostituzione viene di solito trattata insieme a quella avversativa, e dunque in fondo l’analisi che lei ha trovato non è del tutto scorretta, ancorché migliorabile. Nella sua frase, tuttavia, il valore di anzi non è tanto quello di congiunzione, bensì quello di avverbio, o meglio di segnale discorsivo, col valore di ‘e per di più, addirittura’ o simili.
Come ben mostra questo esempio, il confine tra coordinate e subordinate è davvero molto debole, talvolta, ed è il classico confine posto dai libri di grammatica più che dalla Grammatica della lingua, che vede le due relazioni (di paratassi e ipotassi) pressoché sullo stesso piano.
In questo caso le strade per analizzare questo periodo sono almeno tre (oltre a quello di anzi… come avversativa), tutte e tre difendibili:
1) considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata di tipo aggiuntivo (sebbene i libri di grammatica di solito non annoverino questa categoria);
2) Considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata per asindeto, visto che anzi ha qui valore più avverbiale che di congiunzione (e sempre di valore aggiuntivo);
3) Concentrarsi soltanto sul valore semantico del periodo e analizzarlo, dunque, così:
– Restituiscimi i miei soldi = se non mi restituisci i miei soldi (ipotetica)
– o non ti darò più nulla = non ti darò più nulla (principale)
– anzi non ti considererò più un amico = coordinata per asindeto (oppure aggiuntiva) alla principale.
Il suo ragionamento è del tutto valido e mostra una notevole capacità di riflessione metalinguistica

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase: “sia i lacci che i nodi sono ENTRAMBI…”,
entrambi può essere ritenuto corretto, visto che si riferisce a due categorie e non “a tutti e due”? 
 

RISPOSTA:

Entrambi (= tutti e due) può essere riferito sia a due elementi omogenei, appartenenti alla medesima categoria (“azalee e ibiscus: amo entrambi i tipi di fiore”), sia a elementi eterogenei (“donne e motori: li amo entrambi”).
Forse, se fornisse un contesto più ampio (almeno una frase completa) si capirebbe meglio il senso del suo quesito. Forse lei intendeva dire che se entrambi qui si riferisce soltanto ai lacci (che sono due) e non al nodo tra i lacci (che è uno), allora non andrebbe bene. Giusto, in questo caso ha ragione lei, non andrebbe bene. Entrambi deve per forza riferirsi a due elementi insieme, non a uno soltanto o a tre. Pertanto una frase come “sia i lacci della scarpa sia il nodo (o i nodi) che hai fatto sono entrambi sfilacciati” sarebbe scorretta, sia se si riferisse soltanto ai due lacci (perché nella frase c’è anche uno o più nodi) sia se si riferisse ai lacci e al nodo o ai nodi, perché gli elementi sono più di due.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

è corretto dire “Se non ti ho stufato, vorrei chiederti un’altra cosa”?

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. Naturalmente, il verbo “stufare” è informale, ma è senza dubbio corretto, ancorché più indicato in un contesto familiare che in uno pubblico e formale.
L’uso dell’ipotetica per chiedere scusa (o simili) è tipico dell’italiano, e anche di altre lingue, quasi ad attenuare la “colpa” commessa. In altre parole, si sposta sul piano dell’ipotesi anche ciò che a volte può essere una certezza. Pensi a una frase, normalissima in italiano, come “scusa se ho fatto tardi”: il fatto che io abbia fatto tardi è una certezza, non certo un’ipotesi, ed è proprio per questo che ti chiedo scusa. Però esprimo il concetto, attenuandolo, come se fosse un’ipotesi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nonostante nel vostro archivio delle domande siano molteplici le occasioni di chiarimento riguardo al “si passivante” e al “si impersonale”, la recente lettura delle frasi seguenti ha risvegliato in me una certa esitazione.

a) Quando ti si elenca tutti i difetti che hai, ti irrigidisci.
b) Quando si vanno a toccare questi argomenti delicati, è normale che chi ne è chiamato in causa reagisca male.

Esempio “a”: avrei coniugato il verbo “elencare” alla terza persona plurale (elencano)  in funzione del si passivante.
Avrei scelto la soluzione migliore, oppure anche la frase che mi è capitato di leggere è accettabile? Quale preferire tra le due?
Esempio “b”: a rigor di grammatica (se ho ben interpretato le vostre indicazioni), non si sarebbe dovuto coniugare il verbo alla terza persona singolare (quando si va a toccare questi argomenti delicati)? Il verbo “andare” mi pare che regga tutta la frase, a partire dal sintagma “a toccare”, e che non si leghi direttamente all’oggetto plurale (gli argomenti delicati); allora perché trasformare l’oggetto in soggetto?

 

RISPOSTA:

Sia in a) sia in b) vanno bene entrambi i costrutti, con verbo sia al singolare sia al plurale. Entrambi, cioè, son prodotti “a rigor di grammatica”.
In a), la forma plurale lascerebbe classificare senza dubbio il “si” come passivante, mentre con il verbo al plurale si tratta di un costrutto, tipico del fiorentino ma anche dell’italiano, pressoché identico al “si” impersonale, ma in Toscana possibile anche per la prima persona plurale: “noi si va al cinema stasera”.
Di fatto, entrambi i costrutti (“si elenca” e “si elencano”) producono il medesimo significato e il medesimo livello di media formalità.
Il secondo esempio è più interessante. Nel caso di verbo fraseologici come “si va a + infinito” è possibile il “sollevamento” dell’oggetto in soggetto. In questo caso è un po’ come se la frase fosse al passivo: “si vanno a toccare”  = “vanno (o vengono) a essere toccati”. Donde il plurale del verbo e il passaggio dall’oggetto al soggetto. Peraltro, questo passaggio dall’oggetto al soggetto si verifica anche in altri casi di verbi fraseologici, come quelli di percezione: “ti vedo mangiare” = vedo te (oggetto) che (soggetto) mangi.
Anche in questi casi, come nel caso a), siamo di fronte a significato pressoché identico e a stesso livello di formalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se una proposizione completiva collegata a un’apodosi al condizionale presente può reggere, oltre ai modi congiuntivo e indicativo, anche il condizionale.
Se domani piovesse a dirotto, ci sarebbero scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
Costruendo il periodo con l’indicativo, le soluzioni a e b mi sembrerebbero comunque valide; mentre la c, no.
Se domani piove/pioverà a dirotto, ci sono/saranno scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
 

 

RISPOSTA:

La terza possibilità è da scartare in entrambi i casi. Il fatto dirimente non è tanto che la completiva dipenda da un’apodosi, quanto che il verbo che regge la completiva indichi di per sé stesso un dubbio. In casi del genere quindi la scelta migliore (e la più formale) è il congiuntivo, la più informale (ma comunque possibile) è l’indicativo, mentre il condizionale è, in questo caso, scorretto, perché pone una condizione (che semmai avrebbe senso, per l’appunto, nell’apodosi di un periodo ipotetico, non certo nella dipendente dall’apodosi) laddove, invece, si sta ponendo un dubbio.
La riprova è che anche in assenza di apodosi, l’erroneità del condizionale rimane invariata.
Possibile, invece, e addirittura da preferirsi, in dipendenza dal condizionale, il congiuntivo imperfetto in luogo del presente:
– è improbabile che domani si giochi / si giocherà
– (dico che) sarebbe/parrebbe improbabile che domani si giocasse / giochi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?

 

RISPOSTA:

La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non  sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttaviabenché,  acconsentiretollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è l’analisi logica della frase “Compro acqua in confezioni da sei”?

 

RISPOSTA:

(Io) = soggetto sottinteso
compro = predicato verbale;
acqua = complemento oggetto;
in confezioni = complemento di qualità;
da sei = complemento di misura.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Gradirei sapere se la frase “Non posso più osare di chiederglielo” è corretta. Mi riferisco a quel di dopo il verbo osare. Una frase di significato simile che escludesse il verbo potere non richiederebbe quel di. Per esempio: “Non oso più chiederglielo”, ma la presenza di quel potere mi sembra richieda la presenza del di.

 

RISPOSTA:

La presenza del verbo servile potere (o di altri verbi servili) non influisce minimamente sulla reggenza di osare. Piuttosto, questo verbo, che preferisce la reggenza diretta, senza preposizioni (osare chiedere), ammette anche la reggenza con la preposizione di (osare di chiedere), dovuta in parte al modello della maggioranza dei verbi che possono reggere la completiva implicita (pensare / sperare / immaginare… di chiedere), in parte all’influenza del significato latente di osare, ovvero ‘avere il coraggio’: avere il coraggio di chiedere.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretta la frase “Dire “bello” alle cose o persone o eventi“?

 

RISPOSTA:

Non ho abbastanza elementi per poter rispondere. Ovvero: quella che lei segnala non è una frase ma semmai una parte di frase. Manca il verbo principale (dire è infinito, non può reggere da solo una frase ma solo esserne parte). Poniamo che la frase fosse: “Si può dire ‘bello’ ecc.”, allora potrei rispondere che la frase è abbastanza corretta, anche se un po’ trascurata, per 2 motivi, uno lessicale e l’altro morfosintattico.
1) Lessico: si potrebbe scegliere un’espressione più precisa per esprimere il concetto di ‘attribuire un epiteto a’, quale per es.: “usare l’aggettivo ‘bello’ riferito a”.
2) Morfosintassi: sarebbe meglio creare un parallelismo nell’uso dell’articolo; nel suo caso, dato che manca davanti a persone e eventi, e dato che ci si sta riferendo e cose, persone o eventi in generale, sarebbe meglio eliminarlo anche davanti a “cose” e scrivere dunque: “a cose, persone o eventi”.
In conclusione, supponendo che il verbo reggente dell’infinito dire fosse si può“, una versione migliore della frase sarebbe la seguente:
“Si può usare ‘bello’ riferito a cose, persone o eventi?”.
E la risposta a quest’eventuale domanda sarebbe: certamente sì, anche se in uno stile formale sarebbe opportuno scegliere aggettivi più specifici e meno generici e banali di bello (basta consultare un buon dizionario dei sinonimi). Per le cose: gradevolepiacevole, gustoso (se si tratta di cibo o bevanda), confortevole (se si tratta di luogo) ecc.; per le persone: affascinantesensuale, attraente ecc.; per gli eventi: interessantepiacevole, rilassante, rinfrancante (a seconda del tipo di evento e del contesto) ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi trovo davanti a una frase di questo tipo: “Si continuarono a tenere le lezioni”. Dovrebbe essere piuttosto “Si continuò a tenere le lezioni”? E se sì, qual è la motivazione grammaticale?

 

RISPOSTA:

Il clitico, o particella pronominale atona, si può avere più usi:
1) passivante: in tal caso l’accordo col soggetto plurale è al plurale: “si tengono lezioni” = “le lezioni vengono tenute”; ovviamente con il verbo aspettuale o fraseologico continuare a vige comunque l’accordo: “si continuarono a tenere”.
2) Impersonale: verbo al singolare o al plurale a seconda del contesto. Nel suo caso, vanno bene entrambe le forme: si continuò a tenere / si continuarono a tenere. Il confine tra 1 e 2 è molto fluido ed è più una sfumatura semantica che altro: qualcuno continuò [impersonale] / le lezioni continuarono ad essere svolte da qualcuno (sia impersonale, sia passivo, ma con una maggiore attenzione all’agentività dell’azione, sia in presenza, sia in assenza di compl. d’agente o di causa efficiente).
3) Per esprimere la prima persona plurale: uso prettamente toscano e dell’italiano ricercato: “noi si andò tutti insieme al mare”; “noi si continuarono a tenere le lezioni”.
Insomma, “si continuarono a tenere” è frase perfettamente corretta e direi preferibile, se si vuole esprimere l’idea che le lezioni continuarono a essere svolte.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si può usare il passato del condizionale per riferirsi a eventi futuri, per esempio: “Sarei voluto venire domani al mare”?
 

 

RISPOSTA:

Sì, è un uso normalissimo, frequentissimo e, quindi, correttissimo.
Si tratta di proiettare il futuro in un futuro nel passato, cioè come se si dicesse: (in passato) avevo pensato che (in futuro) sarei venuto al mare. In questi casi, perlopiù, l’azione non si è poi verificata: ma poi ho avuto un contrattempo e ho dovuto cambiare idea e quindi al mare non vi vengo (o non ci sono venuto) più. Ma nulla vieta che la frase si usi anche se l’azione si verifica (o si è verificata o si verificherà): “Sarei [o avrei] voluto venire domani al mare: a che ora ci vediamo in spiaggia?”
Buon resto di vacanze e… buoni bagni al mare, da soli o in compagnia

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se voglio esprimere il concetto di “Prendo a loro dei biscotti”, qual è la frase corretta?
Gli prendo dei biscotti o li prendo dei biscotti?
Se uso gli la frase potrebbe essere ambigua.
Inoltre, per esprimere “Se prendo loro li arresto”, si dice
Se li prendo gli arresto o li arresto?
Se mi riferisco a “loro”, la seguente frase è corretta?
Li ho detto che va bene. (A loro)

 

RISPOSTA:

Li = loro (complemento oggetto);
gli = a loro (complemento di termine).
Quindi:
– Gli prendo dei biscotti = prendo dei (cioè alcuni) biscotti a (o per) lui (o loro);
– li prendo dei biscotti = prendo dei biscotti; è una dislocazione a destra, cioè un costrutto pleonastico normale nel parlato, un po’ troppo informale nello scritto, che duplica l’oggetto biscotti con il pronome li.
– Se prendo loro li arresto  = se li prendo li arresto: la prima frase è molto forzata, la seconda è perfetta e preferibile;
– Se li prendo gli arresto o li arresto? Come mostrato subito sopra, soltanto la seconda frase è corretta: li (cioè loro, compl. oggetto) e non gli (= a loro).
“Li ho detto che va bene” non va bene, perché li può sostituire soltanto un compl. oggetto e non un compl. di termine.
Quindi ho detto loro = ho detto a loro = gli ho detto (e non li).
Tenga però presente che, ancorché assai comune, la forma gli per loro/a loro è adatta più al parlato e allo scritto di media formalità che a quello molto formale, in cui è preferibile la forma loro o a loro.
Può usare li soltanto nei casi in cui abbia valore di complemento oggetto, come per esempio: li ho incontratili ho aiutati ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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QUESITO:

Quale affermazione è corretta? Ho indicato in grassetto i dubbi.
Penso che il meglio deve ancora avvenire/venire
Penso che il meglio deva ancora avvenire/venire
Penso che il meglio debba ancora avvenire/venire

 

RISPOSTA:

Cominciamo con il rapporto tra congiuntivo e indicativo: come al solito, in casi analoghi, la soluzione con l’indicativo è sempre corretta, anche se meno formale. Pertanto, in uno stile formale, è sempre meglio debba piuttosto che deve. L’alternativa tra il tema deb- e il tema dev- è pressoché  sempre possibile (nelle persone in cui è ammessa: nella 1a persona singolare e nella 3a persona plurale dell’indicativo e nella 1a, 2a e 3a singolari e nella 3a plurale del congiuntivo presente), anche se deb- è avvertito come più formale, e dunque più appropriato al congiuntivo. Infatti, da una banale ricerca di frequenza in Google, mentre all’indicativo devono è moto più frequente di debbono, al congiuntivo debba e debbano sono molto più frequenti di deva e devano.
Quanto alla scelta tra avvenire e venire, in teoria i due verbi nella frase in questione sono equivalenti, sul piano semantico. Tuttavia la frase è quasi una frase fatta, cioè pressoché immodificabile (quasi fosse una citazione o un proverbio), ormai cristallizzata nella forma venire (e non avvenire).
Quindi, riassumendo, delle sue molte alternative la migliore è: “Penso che il meglio debba ancora venire”

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Mi è capitato recentemente di sentir usare, da parte di una persona di indubbia cultura, il termine regime come sinonimo di dittatura. Per quanto ne so io, il termine regime definisce una struttura di potere di qualunque tipo, non soltanto di natura esplicitamente dittatoriale. Vorrei conoscere il vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il termine regime indica qualunque forma di governo, tanto che ci possono essere regimi democratici e regimi dittatoriali. Usato assolutamente, però, questo termine è divenuto sinonimo di dittatura. Non a caso, il Fascismo è spesso definito regime, senza aggettivi. Questa accezione del termine è stabile nell’uso, infatti si trova attestata in tutti i dizionari.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Ci vediamo quando starai bene”.
Non dovrebbe essere quando stai bene o “Ci vedremo quando starai bene”.

 

RISPOSTA:

È preferibile usare soltanto il presente (scelta meno formale) o soltanto il futuro (scelta più formale); entrambi gli eventi, infatti, sono futuri e, essendo nella stessa frase, non c’è motivo di cambiare registro. La sbavatura, comunque, non è grave. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se il sintagma quest’ultimo risale sempre fino al nome più vicino in assoluto.
Il dubbio nasce da questo esempio:
“Ho sempre avuto una grande stima per il nonno di Luca e quest’ultimo ha gradito il mio sentimento”.
Chi ha gradito: Luca o suo nonno? Mi domando se sia una questione prettamente logica che prescinde da regole rigide in ambito grammaticale.
Nell’esempio
“Ho sempre avuto una grande stima per il nonno di Alice e quest’ultima ha gradito il mio sentimento” è evidente che il parlante ha in mente Alice e non suo nonno; ma il dubbio rimane, per me. Ci sono regole che stabiliscono in che modo usare il sintagma, oppure ci si affida, come nel secondo esempio, alle declinazioni, quando presenti?

 

RISPOSTA:

Come suggerisce l’aggettivo ultimo, il sintagma quest’ultimo rimanda all’antecedente più vicino possibile. Il problema della sua prima frase è che l’antecedente più vicino possibile è un sintagma complesso, ovvero il nonno di Luca, che raggruppa due possibili antecedenti, il nonno e Luca. A rigore, l’antecedente dovrebbe essere la testa del sintagma complesso, cioè l’elemento che identifica il referente, quindi il nonno, ma di fatto il rimando rimane ambiguo. In casi come questo si può propendere per una proforma più esplicita per evitare l’ambiguità, per esempio … per il nonno di Luca e l’anziano ha gradito… Se, invece, si intende rimandare a Luca si dovrebbe senz’altro evitare quest’ultimo e usare, invece, una proforma come Luca, oppure il nipote.
Nella seconda frase l’ambiguità è disinnescata dalla differenza di genere tra la testa e l’altro componente del sintagma. In questo caso, sebbene si debba in teoria riservare quest’ultimo alla testa del sintagma antecedente, quindi a il nonno, usare quest’ultima per rimandare ad Alice risulta del tutto accettabile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si può usare l’imperfetto in una frase del tipo “Ho trovato quel lavoro perché conoscevo una persona che mi ha informato”? E perché non sarebbe meglio conosco una persona?

 

RISPOSTA:

Le due possibilità sono ugualmente corrette. La differenza tra l’imperfetto e il presente è che con il primo si sottolinea che la persona era nota al momento in cui il lavoro è stato trovato (e forse non lo è più nel momento in cui si sta parlando, perché il parlante non la frequenta più), con il secondo si sottolinea che la persona è nota nel momento in cui si sta parlando (e implicitamente era nota all’epoca in cui il lavoro è stato trovato). 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nel parlato si sente dire spesso a proposito che il nostro Andrea va in giro a dire di essere una persona onesta…: quell’a proposito può essere seguito dal che?

 

RISPOSTA:

Attualmente in italiano non esiste la locuzione congiuntiva a proposito che, ma esiste soltanto la locuzione preposizionale a proposito di, che introduce un complemento di argomento. A proposito che il nostro Andrea… dovrebbe essere costruito con una perifrasi relativa: a proposito del fatto che Andrea… 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla seguente frase:
“Ma se unicredit comprerebbe di mps solo le parti sane, e le parti in perdita deve accollarsele lo Stato, a che serve l’offerta di unicredit?”
Chi l’ha scritta adduce che intendeva dire ‘Se (la posta è che) unicredit comprerebbe…’; a parte che non è così scontato il sottinteso, è comunque corretto scrivere così?

 

RISPOSTA:

La congiunzione se può reggere il condizionale se ha significato causale. Quindi se unicredit comprerebbe = ‘visto che unicredit comprerebbe’; se unicredit comprasse = ‘nel caso in cui unicredit comprasse’. Sottolineo che la spiegazione data dallo scrivente non è accettabile, perché, come dice lei, non è possibile per il lettore inferire la parte considerata implicita.
Sul se causale può vedere anche la FAQ  L’insolito “se” causale dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In un testo che parla degli stereotipi sugli spagnoli ho trovato questa frase: “Un’altra delle nostre caratteristiche sarebbe che siamo religiosi.”
A me questa frase sembra corretta, ma vorrei una conferma.
Nello stesso testo ho trovato
“Se vieni dalla Catalogna, la tua etichetta sarà quella di “Taccagno”, avaro, radicato dal XVIII secolo, quando i catalani erano grandi commercianti, con un sacco di soldi, e diventano usurai”.
Io avrei scritto “radicata nel” e ho dei dubbi sul resto della frase. Io avrei scritto “da grandi commercianti diventano”. Secondo voi è accettabile la frase così come è scritta?

 

RISPOSTA:

La prima parte della frase è corretta. Il condizionale qui esprime una sfumatura di dubbio sulla veridicità di quanto affermato. La seconda parte della frase ha due punti deboli. Il primo è quello da lei individuato: l’etichetta è radicata, non radicato (ma forse si tratta di un semplice refuso). Il secondo punto infelice è il passaggio dal passato al presente nella stessa frase, che è sconsigliabile; la frase risulterebbe meglio costruita così: quando i catalani erano grandi commercianti, con un sacco di soldi, e diventarono usurai. Anche la riscrittura che lei propone sana questo problema, eliminando l’imperfetto: risulta, pertanto, corretta.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Per motivi di lavoro mi trovo spesso a dovermi rivolgere a enti, istituzioni, aziende e simili.
L’impostazione iniziale è quindi al singolare; puntualmente, durante la stesura della comunicazione formale, mi viene naturale volgere la concordanza al plurale. In parole povere, aggettivi e pronomi in particolare si ricollegano alle seconda o alla terza persona plurale. Sia che mi rivolga a un ente sia che mi rivolga a un’azienda, so infatti di avere a che fare con un gruppo di persone, non con un qualcosa di inanimato (e singolare).

«Spettabile associazione, […] mi permetto di suggerire una modifica della vostra iniziativa. […] vi ringrazio per la vostra attenzione»; «vi invito a porgere i miei ringraziamenti alla giuria per il loro lavoro».

Qual è la concordanza consigliata: singolare o plurale?

 

RISPOSTA:

La concordanza al singolare in questi casi risulterebbe grammaticamente corretta, ma comunicativamente inaccettabile. Ovviamente, infatti, non ci si rivolge all’ente, ma ai suoi membri: sarebbe ben strano suggerire una modifica o ringraziare un ente astratto. La concordanza al plurale, quindi, è un’infrazione formale inevitabile e del tutto giustificata. L’alternativa (un po’ innaturale) che consente di ristabilire la correttezza grammaticale è intestare la lettera non all’ente ma direttamente ai destinatari effettivi: Gentili rappresentanti / membri / responsabili…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Vorrei presentarvi quattro quesiti sul punto interrogativo.
1) Quando vi sia una sequenza di domande, in particolare se queste siano connesse tra di loro, è possibile usare la minuscola dopo il nostro segno, oppure è obbligatoria la maiuscola?
1a) «Hai mangiato? hai bevuto? ti sei riposato un po’?»
1b) «Hai mangiato? Hai bevuto? Ti sei riposato un po’?»

2) Quando in una frase vi siano più domande riconducibili, per così dire, a un’unica struttura logico-sintattica, il punto interrogativo può essere posto soltanto una volta a fine frase, o è possibile anche la scelta opposta?
2a) «Che cosa è successo di così importante, puoi dirmelo?»
2b) «Che cosa è successo di così importante? puoi dirmelo?»
2c) «Lui come sta adesso, si sa qualcosa?»
2d) «Lui come sta adesso? si sa qualcosa?»
2e) «Che cosa vuoi fare: parlargli o ignorarlo?»
2f) «Che cosa vuoi fare, parlargli o ignorarlo?»
2g) «Che cosa vuoi fare? parlargli o ignorarlo?»

3) Quando in una frase interrogativa si propongano più alternative, il nostro segno può essere collocato alla fine, o è meglio spezzare la frase?
3a) «Si può parlare apertamente? Oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»
3b) «Possiamo parlare, oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»  

4) Dal punto di vista della punteggiatura, qual è la forma migliore per sintagmi come «perché no», «che so io», «che ne so» e simili, quando questi si trovino in date frasi sotto forma di inciso?
4a) «Vorrei parlare e, perché no, anche scrivere»
4b) «Vorrei parlare e, perché no? anche scrivere»
4c) «Vorrei parlare e, perché no?, anche scrivere»
5a) «Si può, che so io, contattarlo?»
5b) «Si può, che so io? contattarlo?»
5c) «Si può, che so io?, contattarlo?».

 

RISPOSTA:

I casi da lei prospettati non sono codificati, ma ammettono in teoria tutte le varianti, perché ognuna è giustificabile sulla base di una certa finalità espressiva. Ci sono, però, delle tendenze d’uso. Nella frase 1 è senz’altro più comune la lettera maiuscola, perché il punto interrogativo è assimilato al punto fermo. La lettera minuscola può essere usata per sottolineare che il punto interrogativo serve soltanto a indicare un’inflessione della voce, ma sintatticamente la frase va avanti. Per esempio, la lettera minuscola potrebbe essere usata nelle frasi 4b e 5b. Rimanendo sulle frasi 4 e 5, va comunque detto che le forme più comuni sono la 4a e la 5a, perché l’intento interrogativo emerge chiaramente anche senza punto interrogativo, e per evitare proprio di inserire un punto interrogativo in mezzo alla frase. Le frasi del punto 2 sono tutte possibili: la preferenza per l’una o l’altra variante dipenderà dallo stile personale (per esempio, la sequenza ravvicinata di due o più punti interrogativi potrebbe essere giudicato inelegante). Lo stesso vale per le frasi del punto 3.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Queste due domande sono uguali come significato, nonostante in una ci sia il non?
Siamo sicuri di essere invece in ritardo?
Siamo sicuri di non essere invece in ritardo?

 

RISPOSTA:

Non sono uguali, sebbene siano molto simili. Nella prima si mette in dubbio la certezza di essere in ritardo; nella seconda si esprime un dubbio circa la possibilità di essere in ritardo. La prima si userebbe per obiettare a un’affermazione di certezza di ritardo (equivale a ‘non sono sicuro che siamo davvero in ritardo); la seconda si userebbe autonomamente (equivale a ‘forse siamo in ritardo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivo in merito alla risposta al quesito Condizionale o congiuntivo: questo è il problema .
Se non ho capito male, una frase come: “Disse che avrebbe telefonato quando fosse/sarebbe arrivato”
dovrebbe essere analizzata in questo modo:
disse: reggente;
che avrebbe telefonato: oggettiva dipendente da disse;
quando fosse/sarebbe arrivato: temporale a sua volta dipendente da disse.
Quest’ultima dipendenza spiegherebbe il perché del condizionale passato in base alle regole della consecutio.
Ciò che non capisco è questo: perché devo considerare la temporale come dipendente da Disse quando, a mio parere, essa dipende esclusivamente (anche a livello di successione logica degli eventi: prima si arriva, poi si telefona) dall’oggettiva? Non capisco il nesso tra il dire e l’evento dell’arrivare.
Comprendo bene il legame tra disse e che avrebbe telefonato ,dato che quest’ultima subordinata esprime un argomento del verbo dire; non riesco invece ad interpretare la temporale né come circostanziale del verbo dire né, tantomeno, come suo argomento. 
Dal momento, quindi, che nella mia analisi la temporale dipende dall’oggettiva e che, a livello di successione degli eventi, l’arrivare è precedente al telefonare, io opterei per fosse arrivato.

 

RISPOSTA:

Non c’è dubbio che la proposizione temporale sia subordinata alla completiva (come, del resto, è presupposto nella FAQ  Condizionale o congiuntivo: questo è il problema: “In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate”). Quello che spiego nella risposta è che il verbo della principale proietta la sua influenza anche sulla subordinata di secondo grado, entrando in rapporto temporale anche con quest’ultima. L’evento dell’arrivare, insomma, è sia precedente a quello della reggente (che avrebbe telefonato), sia successivo a quello della principale (disse): sta al parlante decidere quale dei due rapporti temporali evidenziare attraverso la scelta della forma verbale. La sfumatura ipotetica percepibile nella temporale al congiuntivo (quando fosse arrivato = se fosse arrivato) potrebbe giocare a favore o a sfavore del condizionale, a seconda che il parlante voglia scongiurare o suggerire una simile interpretazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggendo un testo narrativo ho evidenziato un uso molto largo da parte dell’autore del verbo dovere, talvolta, a mio avviso, coniugati in maniera un po’ trascurata.
Vi riporto quattro esempi che ne ho ricavato:
– Se i due fratelli non erano nella stanza, dovevano esserne usciti da poco.
– Se gli interrogati non avessero detto la verità, lui doveva saperlo.
– Pensò che doveva…
– Era il segno che doveva parlare.
Vorrei sapere se le frasi avrebbero potuto essere scritte diversamente, alzando il grado di formalità.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle occorrenze può dirsi trascurata, sebbene nelle ultime due frasi l’indicativo imperfetto possa essere sostituito dal condizionale passato, elevando la formalità della costruzione. La sostituzione non è possibile nella prima frase, perché produrrebbe un significato illogico; nella frase, infatti, l’imperfetto non è modale, ma ha valore temporale. In altre parole, erano non sta per fossero stati, ma indica proprio che l’evento è continuato nel passato; coerentemente, dovevano è l’unica forma possibile, anch’esso con valore di temporale, perché non c’è una condizione rispetto alla quale esprimere una conseguenza.
Nella seconda frase la sostituzione è possibile, ma cambierebbe il significato complessivo. L’indicativo imperfetto, infatti, indica che il soggetto imponeva a sé stesso di venire a sapere una circostanza; il condizionale passato, invece, sarebbe interpretato come conseguenza ipotetica della condizione descritta nella protasi (se gli interrogati non avessero detto la verità). Si noti che nella costruzione avrebbe dovuto saperlo il verbo dovere, a dispetto del suo significato di base, assume automaticamente la sfumatura di incertezza tipica di espressioni come devono essere le cinque (= ‘forse sono le cinque’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile sostituire di cui con delle qualidei quali. Es. “Ha due bambine di cui / delle quali la madre non si interessa”.

 

RISPOSTA:

Il pronome relativo cui predeceduto da preposizione vale tanto per il singolare quanto per il plurale, quindi può essere sostituito da quale preceduto da preposizione articolata singolare e plurale. La sua frase è, di conseguenza, corretta in entrambe le forme. Si consideri che anche che è tanto singolare quanto plurale: l’amico che non vedo da tanto / gli amici che non vedo da tanto.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

Ho un dubbio a proposito della divisione in sillabe di parole che presentano le vocali ui o iu.
Sui-no o su-i-noRe-sti-tui-re o re-sti-tu-i-re?
In particolar modo, se la vocale accentata è la seconda ho trovato pareri discordanti.
Quindi, dittongo o iato?

 

RISPOSTA:

In entrambi i casi da lei proposti si tratta di uno iato, perché la u primo elemento della coppia ui è una vocale, e non una semivocale (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla i). Per questa ragione la divisione in sillabe sarà su-i-no e re-sti-tu-i-re
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

La locuzione a quel tempo funziona anche riferita al futuro? Es. “A quel tempo accadrà questo”. Per in quel tempo le grammatiche dicono che può riferirsi sia al passato che al futuro, ma non trovo specifiche riguardo alla forma con a.

 

RISPOSTA:

L’espressione a quel tempo è usata esclusivamente in riferimento al passato, sebbene non ci siano ragioni semantiche o sintattiche a sostegno di questa restrizione. Si tratta di uno dei tanti usi che si impongono per convenzione. Diversamente, l’espressione in quel tempo e l’avverbio allora (si noti, dal latino ad illam horam) possono riferirsi al futuro, sebbene siano quasi sempre diretti al passato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Prendo spunto da una porzione di intervista ascoltata alla radio per articolare una domanda.
L’intervistato ha detto:
“Per me sarebbe un vero incubo, oggi, andare in vacanza. Mia moglie cambierebbe le lenzuola dell’albergo dopo che uscissero dalla camera le addette alle pulizie. E lo farebbe tutti i giorni fino alla fine della vacanza”. 
Dopo che uscissero è corretto?
A me sono venute in mente anche altre due soluzioni.
Dopo che fossero uscite.
Dopo che sarebbero uscite
La prima per rendere l’eventualità della situazione meno probabile di uscissero. La seconda per sottolineare con il condizionale composto una situazione appunto condizionata, come quella di cambierebbe, ma avvenuta (eventualmente) prima di essa. 

 

RISPOSTA:

La soluzione più in linea con la consecutio temporum è dopo che sono uscite, perché l’evento dell’uscire precede quello del cambiare, descritto nella proposizione reggente, che è presente. L’indicativo sono uscite può risultare un po’ stridente rispetto al congiuntivo siano uscite, ma si ricordi che la proposizione temporale introdotta da dopo che si costruisce preferibilmente proprio con l’indicativo: “abbiamo festeggiato dopo che loro sono partiti” (non *dopo che loro siano partiti). Il fatto che il verbo reggente sia al condizionale rende il congiuntivo meno improbabile e tutto sommato accettabile.
L’alternativa dopo che uscissero è in teoria possibile, perché modella perfettamente la frase sulla costruzione del periodo ipotetico del secondo tipo (cambierebbe dopo che uscissero = cambierebbe se uscissero). Tale modello, si badi, risulta in questo caso non calzante, perché l’evento dell’uscire non può essere la condizione di quello del cambiare; la moglie, infatti, non cambierebbe certo le lenzuola se le donne delle pulizie uscissero. Risulterebbe sensato, invece, nella frase usata prima come esempio: “Festeggeremmo dopo che loro partissero”, perché qui il partire è la condizione per il festeggiare
A maggior ragione, la variante dopo che fossero uscite non si giustifica né nel quadro della consecutio temporum (il trapassato presuppone un avvenimento passato intermedio, che qui non c’è) né nel quadro del periodo ipotetico. 
Neanche il condizionale passato, infine, può essere giustificato, perché l’evento dell’uscire non è condizionato da niente, né può configurarsi come futuro nel passato, visto che precede quello da cui dipende, che è presente (cambierebbe).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda sulla frase seguente:
“Lui crede che io e te siamo la stessa persona”.
Nel cercare di fare l’analisi logica sono incappato in una descrizione acconcia, nella quale si definiva il significato di COMPLEMENTO PREDICATIVO DELL’OGGETTO.
Alcuni esempi, simili alla frase iniziale, riportati nella descrizione:
“La maestra considerava Maria molto brava“.
“Gli studenti elessero Paolo rappresentante di classe“.
Nella descrizione così si analizzava tale complemento (il corsivo delle frasi):
“È il sostantivo o l’aggettivo che definisce una proprietà del complemento oggetto, quando il verbo sia appellativo (chiamaresoprannominareapostrofare…), estimativo (credereritenereconsiderare…), elettivo (nominareeleggereincoronare…).
Da tale spiegazione, dove molto brava e rappresentante di classe sono COMPLEMENTI PREDICATIVI DELL’OGGETTO, si è indotti a pensare che, rispettivamente Maria e Paolo siano i complementi oggetto delle frasi, nelle quali La maestra e Gli studenti sono il soggetto.
Allora, seguendo questo schema, nella frase iniziale (“Lui crede che io e te siamo la stessa persona”), LUI sarebbe il soggetto; IO E TE il complemento oggetto e LA STESSA PERSONA il complemento predicativo dell’oggetto.
È ovvio che nella frase “Io e te siamo la stessa persona” presa isolatamente io e te sarebbe il soggetto; siamo il predicato e la stessa persona il complemento oggetto, però la frase tutta intera risponde alla domanda “Lui crede che cosa?”, per cui sarebbe come scrivere, per ricalcare il primo esempio con la maestra e Maria: “Lui crede io e te la stessa persona”.
Cioè, sempre per restare al primo esempio, se io lo riscrivo così “La maestra considerava che Maria fosse molto brava”, cambia anche l’analisi logica e Maria diventa soggetto o rimane comunque complemento?

 

RISPOSTA:

Il verbo credere può reggere un complemento oggetto o una proposizione subordinata oggettiva. Nel primo caso abbiamo frasi come “Maria crede Luca un buon amico”, nella quale Luca è complemento oggetto e un buon amico complemento predicativo dell’oggetto. Nel secondo caso abbiamo frasi come “Maria crede che Luca sia un buon amico”, nella quale abbiamo due proposizioni, Maria crede (Maria = soggetto della proposizione) e che Luca sia un buon amico. Nella proposizione oggettiva Luca è il soggetto e un buon amico è nome del predicato (detto anche parte nominale). 
Aggiungo che il verbo credere preferisce la costruzione con la proposizione oggettiva a quella con il complemento oggetto; per questo motivo “Lui crede che io e te siamo la stessa persona” è più comune di “Lui crede io e te la stessa persona”. Anzi, quest’ultima formulazione risulta del tutto artificiosa e difficilmente sarebbe mai costruita da un parlante nativo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione a quanto mi è stato detto,  per significare ‘stando a quello che mi hanno detto’, può essere considerata corretta. A orecchio direi senz’altro di sì ma, ragionandoci sopra, quel quanto mi pare poco sensato in questo contesto. 

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono equivalenti. La prima frase da lei proposta è una proposizione limitativa esplicita introdotta dalla locuzione a quanto (qui quanto è un pronome relativo, corrispondente a quel che); la seconda è una proposizione limitativa implicita, introdotta da stando a quel che, a sua volta, introduce la relativa che mi è stato detto. In generale, le proposizioni limitative esplicite possono essere introdotte da aper da: “A / Per / Da quanto mi è stato detto [prop. limitativa], l’esame sarà giovedì [reggente]”; quelle implicite, invece, sono introdotte da costrutti come il gerundio del verbo stare + a quel che, equivalente alla locuzione per quel che
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei un ragguaglio circa il parallelo tra l’indicativo presente e il condizione presente.
Ai fini della consecutio, apprendo, i due tempi si comportano allo stesso modo (anche quando vanno a formare sintagmi e locuzioni).
Penso che = penserei che
Può darsi che = potrebbe darsi che
Sono sicura che = sarei sicura che
Mi domando se tutti i verbi che attuano le secondarie introdotte dall’indicativo potrebbero essere selezionati, a prescindere, anche per la forma omologa al condizionale:
a) Suppongo/Supporrei che ci voglia un bel po’ di coraggio
b) Immagino/Immaginerei che potrebbe essere dura
c) Ho paura che/Avrei paura che non ci riuscirebbe.
Inoltre, in questi esempi rappresentativi, il congiuntivo e il condizionale sono uguali (o comunque molto simili) sul versante semantico?
Il condizionale, nella secondaria, mi sembrerebbe a suo agio quando vi fosse una sorta di protasi sottintesa:
d) Immagino/Immaginerei che potrebbe (se se ne verificasse il caso) essere dura.
Se quest’ultimo appunto coglie nel segno, domando: con una protasi sottintesa sarebbe possibile adottare anche il congiuntivo presente, oppure si perderebbe l’accenno alla protasi?
e) Immagino/Immaginerei che possa (se se ne verificasse il caso) essere dura.

 

RISPOSTA:

La risposta alla prima domanda è sì: una completiva retta da un condizionale presente si comporta come quella retta da un indicativo presente. Per quanto riguarda il modo della completiva, il congiuntivo è tendenzialmente identico all’indicativo dal punto di vista semantico, ma è preferibile in contesti formali (quindi immagino/Immaginerei che possa… = immagino/Immaginerei che può…). Il condizionale aggiunge il senso della condizionalità, quindi è collegato per forza a una condizione, espressa o non espressa, come suggerisce lei nella frase d). Il congiuntivo non esclude che ci sia una condizione, come non lo esclude l’indicativo. Se la condizione non è espressa, però, difficilmente sarà ipotizzata; se, invece, è espressa, i parlanti tenderanno a costruirla con l’indicativo presente se il congiuntivo della completiva è presente, sul modello del periodo ipotetico del primo tipo: “Immagino/Immaginerei che possa essere dura se se ne verifica il caso”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella FAQ  “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, a proposito della frase “Vorrei un’auto che avesse/abbia il cambio automatico” è stato detto che il congiuntivo imperfetto in una proposizione relativa viene giudicato valido solo in riferimento a un’azione/condizione passata. Ma il congiuntivo imperfetto non potrebbe essere interpretato in chiave ipotetica, veicolando non tanto il passato quanto un grado di probabilità del verificarsi dell’evento inferiore a quello che sarebbe stato determinato dal congiuntivo presente?
Congiuntivo imperfetto = meno probabile; congiuntivo presente = più probabile.
Come avviene, grosso modo, nelle subordinate condizionali costruite con qualoranel caso che.
“Nel caso piovesse / piova, resto a casa”; “Qualora non potessi / possa uscire per la pioggia, resterei a casa”.
Onestamente, sovente ho scritto o detto “In Italia servirebbe un governo che aiutasse [nel presente e nel futuro, nda] i giovani”.
“Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino”.
“Si potrebbe studiare una soluzione che desse risalto a tutti i problemi finora discussi”.
Non ho mai collegato l’imperfetto al passato, ma, come spiegato, ho attribuito alla subordinata un taglio – mi verrebbe da dire – relativo-ipotetico.
Ho sempre sbagliato?

 

RISPOSTA:

Come scritto nella FAQ  “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, nella costruzione della relativa vorrei X che agisce il modello della completiva vorrei che X. La preferenza sempre più marcata per il congiuntivo imperfetto in quest’ultimo tipo di proposizione in dipendenza dal condizionale (anche di verbi non di desiderio, opportunità, necessità) si trasmette anche all’altro tipo (la relativa), senza, però, che ci sia una ragione sintattica per questo. Si noti che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella completiva è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico, nel quale il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto (vorrei che tu fossi < vorrei se tu fossimi aspetterei che tu venissi < mi aspetterei se tu venissi). Se consideriamo questi passaggi, è prevedibile che il senso ipotetico rimanga percepibile nella completiva e nella relativa dipendente da un condizionale. Dobbiamo, però, rilevare che nella completiva e nella relativa l’ipoteticità dipende non da ragioni sintattiche, ma di analogia: il congiuntivo imperfetto, infatti, non veicola in astratto una sfumatura semantica particolare, ma si carica di questa sfumatura quando è inserito nello schema del periodo ipotetico. La proposizione completiva e quella relativa, pertanto, dovrebbero essere estranee a questo significato.
Insomma “Guarderei volentieri un film che abbia come protagonista Al Pacino” è la forma attesa per la relativa al presente; “Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino” è una forma che ricalca il periodo ipotetico del secondo tipo, ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indica che la qualità del film (avere come protagonista Al Pacino) riguarda il passato (e, al pari della frase della risposta 2800836, è un po’ bizzarra, perché la qualità passata non può che permanere nel presente). A riprova di questa ricostruzione, osserviamo che cosa succede se sostituiamo l’indicativo al congiuntivo nella proposizione relativa: guarderei un film che abbia come protagonista… è del tutto equivalente (ma più formale) a guarderei un film che ha come protagonista…guarderei un film che avesse come protagonista… è equivalente a guarderei un film che aveva come protagonista…
Non mi spingerei fino a definire sbagliato il congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa retta da un condizionale: vero è, infatti, che il modello del periodo ipotetico è forte e che molti parlanti attribuiscono all’imperfetto, per via di questo modello, un maggiore grado di ipoteticità rispetto al presente. Dopo tutto, la lingua è fatta di percezione: non ci sono strutture obbligate per natura, ma soltanto strutture alle quali gruppi di parlanti assegnano concordemente gli stessi significati. Finché si potrà scegliere tra il presente e l’imperfetto (è possibile, infatti, che in futuro l’imperfetto diventi la forma dominante), però, propenderei ancora per il presente; oltre a essere la forma sintatticamente attesa, si noti, il presente evita l’ambiguità tra guarderei un film che avesse (= ‘eventualmente ha’) e guarderei un film che avesse (= ‘aveva’). 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Autoimporsiautoproclamarsi, solo per citare alcuni dei molti verbi costituiti dal prefisso auto- e costruiti con il clitico -si, non rappresentano un mero pleonasmo? Le forme intransitive pronominali o riflessive, a seconda dei casi, non sono sufficienti per esprimere un concetto che, con il prefisso auto-, si intensifica, senza, a mio giudizio, aggiungere niente dal punto di vista semantico?
1) Il politico esposto al pubblico ludibrio, si (auto)impose un esilio ad altre latitudini.
2) Pur avendo fallito nella sua ultima prestazione agonistica, l’ex campione si (auto)proclamò il migliore di tutti i tempi.
Seconda metà dell’interrogativo.
La funzione sostantivale di parole che abbiano come suffiso -ile o -ole, oppure -arsi-ersi ecc. è sempre possibile, anche quando non vi sia una chiara legittimazione d’uso da parte dei dizionari della lingua italiana?
Esempi:
“Siamo ai limiti dell’invivibile, dell’inconsapevole, dell’irragionevole”, “Ho pensato tutto il pensabile”, “Viviamo nella società del mutevole”; “Il disgregarsi delle coste è un fenomeno geologico”, “Il tuo affannarti non porterà a niente di buono”, e così via.

 

RISPOSTA:

Verbi come autoproclamarsi presentano un rafforzamento del concetto più che un pleonasmo interno. Dal punto di vista del punto di origine dell’azione proclamarsi = autoproclamarsi, ma il prefissoide (prefisso con un chiaro significato lessicale) auto- sottolinea che è il soggetto a prendere l’iniziativa di compiere l’azione. In autoproclamarsi, quindi, è più evidente l’autonomia del soggetto nel processo che porta a compiere l’azione, come se fosse ‘proclamarsi per propria iniziativa’. Non si può dire che in proclamarsi questa autonomia sia esclusa, ma semplicemente non è segnalata.
Tutte le parti del discorso possono essere sostantivate (a prescindere dalla loro forma) mediante l’inserimento dell’articolo; i dizionari riportano soltanto i casi più comuni.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Articolo, Nome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

«Se ci fosse stato qualcuno che:
1) mi avesse parlato
2) mi avrebbe parlato
3) mi parlasse
4) mi parlava
di te, avrei ascoltato ogni sua parola».
Vorrei sapere se le mia disamina sui quattro casi della relativa dipendente dalla protasi sia calzante:
a) tutte e quatto le soluzioni sono possibili;
b) la soluzione numero 2 indica posteriorità  rispetto alla protasi;
c) le soluzioni numero 3 e numero 4, invece, sono contemporanee all’azione della protasi; il congiuntivo risulta più formale dell’indicativo (differenza di tipo diafasico);
d) la soluzione numero 1 può indicare anteriorità rispetto alla protasi, ma anche un’eventualità  improbabile; da questo punto di vista, l’azione espressa con questo tempo verbale non è necessariamente anteriore alla protasi («Se ci fosse stato qualcuno che (l’indomani) mi avesse parlato di te, avrei ascoltato ogni sua parola»).

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa è di norma autonoma rispetto alla consecutio temporum; questa proposizione, quindi, può essere costruita con una varietà di modi e tempi non strettamente legati alla necessità di esprimere l’anteriorità , la contemporaneità, la posteriorità  rispetto all’evento della reggente (anche se spesso la forma verbale scelta coincide con quella che sarebbe stata scelta nel quadro della consecutio temporum). Nel caso specifico, inoltre, bisogna ricordare che la dipendenza da una proposizione ipotetica al congiuntivo attrae la relativa nell’orbita dell’ipotesi, e questo sfavorisce fortemente il condizionale passato. Tale forma, per la verità , è sconsigliata anche per ragioni di logica. La posteriorità  dell’evento della relativa rispetto a quello della reggente è altamente improbabile: se ieri ci fosse stato qualcuno che l’indomani mi avrebbe parlato di te…; risulta una formulazione cervellotica, difficilmente davvero realizzabile da un parlante.
Ancora, la proposizione reggente qui rappresenta una formulazione allargata, presentativa, di un unico concetto esprimibile con una sola proposizione: se ci fosse stato qualcuno che mi avesse parlato; se qualcuno mi avesse parlato. La forma verbale più attesa è quindi, il congiuntivo trapassato, che rispecchia quello della reggente ipotetica. Il congiuntivo imperfetto è possibile perchè indica un evento passato e viene a coincidere con il tempo della contemporaneità nel passato. L’indicativo imperfetto è anche possibile, come alternativa meno formale del congiuntivo imperfetto (parlava= parlasse), nel quale, però, è anche presente il senso modale (parlava=avesse parlato).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio relativamente al significato del termine ontologico. Potrebbe la ricerca ontologica essere l’analisi del necessario, di ciò che deve necessariamente essere affinché la cosa considerata sia, sul piano della concretezza? On, ontos dovrebbe significare ‘l’essere’ e, quindi, riferirsi a qualcosa di  tangibile. Oppure la ricerca ontologica mira a raggiungere l’essenza di qualunque entità, astratta o concreta che sia?

 

RISPOSTA:

In generale, ontologia è lo studio dell’essere in quanto essere, cioè delle sua qualità assolute che prescindono dai fenomeni particolari. In questo senso, ontologia viene a coincidere con metafisica. Questo senso originario è stato declinato in vari modi nei diversi quadri teorici nei quali il termine è stato usato; ognuno dei significati particolari, quindi, può essere colto soltanto all’interno del quadro in cui si inserisce.
Nel linguaggio comune, ontologico è usato nel senso di ‘di per sé, assoluto’; ecco un esempio: “Di questo passo, perfino la terribile Crudelia Demon, se si va indietro nella storia (andando avanti nella scrittura, ovvero inventandole da zero un passato), si capisce che non è una cattiva ‘ontologica’, piatta. Ma che anche lei può accampare le sue buone ragioni, vantare una storia che meriti di essere raccontata”. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non avendo trovato sui vari dizionari a mia disposizione una spiegazione che mi abbia convinto pienamente, chiedo aiuto per poter dominare i termini metafisica e metafisico in modo appropriato sia sul piano filosofico che su quello del parlare comune. L’idea che mi sono fatto per metafisica è questa: ‘ricerca di ciò che va all’essenza di un problema, di ciò che deve assolutamente essere presente affinché la cosa considerata sia, esista’. In definitiva metafisico sarebbe sinonimo di necessario. Es.: calciatore: atletico e non biondo. Quest’ultimo dovrebbe rappresentare un dato contingente. Questo per quanto riguarda l’aspetto filosofico. Per quanto riguarda il parlar comune: ‘discorso astratto, poco concreto. 

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda il significato comune la sua proposta è in linea con quello che scrivono i vocabolari. Il significato proprio, invece, è un po’ distante da quello che lei ipotizza, sebbene ‘necessario’ rientri tra le qualità proprie del metafisico. La metafisica è l’ambito del reale che non si può percepire con i sensi, quindi è immutabile, certo e, appunto, necessario. Se la realtà fisica è il regno della mutevolezza, dell’instabilità, della varietà, la realtà metafisica è lo sfondo assoluto che rende possibili le qualità della realtà fisica. Il suo esempio del calciatore, quindi, non ha niente di metafisico, perché sia l’essere atletico sia l’essere biondo sono qualità fisiche, fenomeni. Problemi metafisici sono la natura dell’essere, l’esistenza e la natura di Dio, lo scopo della vita, l’immortalità dell’anima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere quali di queste espressioni, miranti ad esprimere l’intenzione di valutare una situazione, sono corrette:
1) “Assumere (far propria) una angolatura, un angolo visuale, una prospettiva”.
2) “Porsi in una certa angolatura, angolo visuale o prospettiva”.
3) “Considerare la cosa da un certo angolo visuale, da una certa angolatura, da una certa prospettiva”.
In definitiva, un angolo visuale, una angolatura o prospettiva si assumono? In esse/o ci si pone? Da esse/o si osserva? (il che ovviamente presuppone che ci si ponga).

 

RISPOSTA:

Il problema non è semantico né sintattico, ma d’uso. Nella lingua, infatti, alcuni blocchi di parole si cristallizzano e, con il tempo, diventano persino quasi immodificabili (e prendono il nome di collocazioni). Si pensi a pioggia torrenzialescorrere l’indiceprofondamente ingiusto. Il nome angolatura con il significato di ‘punto di vista’ di solito è usato nell’espressione considerare / esaminare / guardare / osservare / valutare (qualcosa) da una (certa) angolatura; qualsiasi altra espressione suona insolita, a prescindere dalla legittimità semantica e dalla correttezza sintattica. Assumere un’angolatura e porsi in un’angolatura, per esempio, sono semanticamente possibili e sintatticamente corrette, ma mentre la prima è effettivamente usata, per quanto non frequentemente (la ricerca con Google restituisce circa 1.600 risultati, che è un numero piuttosto basso), la seconda è del tutto ignota all’uso. Per angolo visuale valgono le stesse restrizioni di angolatura. Anche prospettiva predilige da una (certa) prospettiva; rispetto alle altre parole qui considerate, però, è certamente quella più comune e quindi ammette più facilmente la composizione con parole diverse: assumere una prospettiva, infatti, restituisce circa 230.000 occorrenze nella ricerca con Google, porsi in una certa prospettiva circa 130.000.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se questa frase è corretta: “Non intendo insegnare a nessuno il suo mestiere”. Dal punto di vista grammaticale mi sembra una frase corretta perché uso l’aggettivo suo collegandolo a un complemento di termine. L’unico problema è che quel suo mi suona male: mi suonerebbe meglio proprio, che però credo sia errato.

 

RISPOSTA:

La scelta corretta è suo: come da lei suggerito, infatti, proprio si può riferire soltanto al soggetto, che deve, inoltre, essere di terza persona. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Il seme di un’amicizia devota o devoto”?
Si usa il maschile o il femminile? Si segue la parola seme (maschile) o la parola amicizia (femminile)?
Quale lezione di grammatica devo studiare per imparare a distinguerli?

 

RISPOSTA:

La lezione di grammatica da studiare è quella sull’accordo tra il nome e l’aggettivo, che lei dimostra di conoscere già bene. Per risolvere il suo dubbio dovrà soltanto chiedersi se a essere devoto sia il seme o l’amicizia. La risposta più semplice è che sia l’amicizia a essere devota, quindi l’aggettivo sarà femminile; non è, però, obbligatorio che sia così: c’è la possibilità che lei voglia esprimere un concetto meno scontato, ovvero che sia il seme a essere devoto. Se così fosse potrebbe anche decidere di anticipare l’aggettivo, in modo da evitare del tutto ambiguità: il seme devoto di un’amicizia
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione fissare la data per (per esempio: “La data della partenza è stata fissata per il 10/5 del 22”) è corretta.

 

RISPOSTA:

L’espressione non è ben formata. Si consideri, infatti, che il 10/5 (o qualsiasi altra data) è, per l’appunto, una data, quindi, dal punto di vista sintattico, data è un complemento predicativo di 10/5. Sarà il complemento predicativo, non il complemento oggetto a cui questo si riferisce, a essere preceduto dalla preposizione per, quindi fissare per data il 10/5 (o fissare il 10/5 per data). La preposizione per può anche essere sostituita dalla congiunzione comefissare come data il 10/5 (o fissare il 10/5 come data).
La situazione cambia diametralmente se al posto di data appare un evento che avviene in quella data, per esempio fissare un appuntamento per il 10/5. In questo caso, infatti, un appuntamento è il complemento oggetto del verbo, mentre per il 10/5 diviene un complemento interpretabile come di vantaggio (per il 10/5 = ‘in favore del 10/5’).
Il complemento predicativo rimane come data anche se si arricchisce la frase usando sia data sia, per esempio, partenza o appuntamento: “Come data per l’appuntamento è stato fissato il 10/5”. In questo caso per l’appuntamento è un’ulteriore espansione (complemento di fine), che non intacca gli altri ruoli sintattici.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Se nel contratto fosse stato scritto che lei, prima della firma, doveva aver già fatto una certa cosa, allora avrebbe dovuto farla, altrimenti non avrebbe potuto firmare”, quel doveva aver già fatto al posto di un avrebbe dovuto fare o di un aveva dovuto fare è corretto?

 

RISPOSTA:

L’imperfetto è corretto, in quanto questa forma può essere usata in tutti i contesti al posto del condizionale passato. Ovviamente, il condizionale passato sarebbe la variante più formale. Si noti, inoltre, che si potrebbe usare anche il congiuntivo trapassato (che lei avesse dovuto fare), visto che l’evento è precedente a un altro passato (fosse stato scritto). L’indicativo trapassato, invece, sarebbe una scelta piuttosto trascurata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) Il gerundio presente può indicare azioni contemporanee a quelle delle reggenti quando queste siano al passato o al futuro?
1a) Domani, impegnandomi a correre per un’ora, proverò a buttare giù la massa grassa.
1b) Ieri, cercando di spiegarti la lezione di storia, mi sono stancata.

2) Se è vero che il soggetto del gerundio deve coincidere con quello della reggente e muovendo dall’assunto che con il si passivante il complemento oggetto tramuta in soggetto, una frase come “Cantando a squarciagola, si immaginavano nuove emozioni da vivere” non sarebbe valida, sbaglio?
Mentre stare + gerundio equivale a mentre + indicativo presente / indicativo imperfetto?
“Mentre sto parlando, potresti usarmi la cortesia di non interrompermi?”
“Mentre stavo parlando, tu non hai usato la cortesia di non interrompermi”.

 

RISPOSTA:

Il gerundio, come tutti i modi indefiniti, non ha mai valore deittico, cioè non ha il potere di situare un evento in un momento del tempo; ha, invece, sempre valore anaforico, ovvero serve a situare l’evento in rapporto temporale (di contemporaneità, anteriorità o posteriorità) rispetto a un altro evento, a prescindere dal momento nel tempo in cui quest’ultimo si situa. La risposta alla sua prima domanda, pertanto, è sì. La risposa alla seconda domanda è più sfumata: in astratto è vero che il soggetto di cantando a squarciagola (= nessun soggetto) non coincide con quello di si immaginavano (= nuove emozioni), quindi il gerundio non dovrebbe essere usato e si dovrebbe, invece, usare la costruzione esplicita nella subordinata (quando si cantava / cantavamo a squarciagola…) oppure quella impersonale nella reggente (che, però, è sgradita ai parlanti con il complemento oggetto plurale: cantando a squarciagola si immaginava nuove emozioni). In pratica, però, la presenza del soggetto logico noi è talmente forte sia dietro cantando sia dietro si immaginavano che la deviazione dalla norma è appena percepibile e tutto sommato trascurabile. 
La perifrasi stare + gerundio (la congiunzione mentre non è significativa), infine, ha la funzione di sottolineare che l’evento avviene lungo un lasso di tempo all’interno del quale avviene un altro evento. La stessa funzione, ma in modo meno esplicito, può essere assolta dal presente (nel presente), dall’imperfetto (nel passato) e dal futuro (nel futuro): sto parlando = ‘parlo’; stavo parlando = ‘parlavo’; starò parlando = ‘parlerò’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se, quando il noi non è un soggetto logico, bensì un soggetto e vero e proprio, anche se sottinteso, il si impersonale è sempre possibile. 
Ad esempio:
a) (Le mie amiche ed io = noi) quando si era (= eravamo) giovani, si ballava (= ballavamo) tutte le canzoni dell’estate.
Suppongo che si potrebbe optare per il passivante, in quanto il verbo è transitivo e l’oggetto è espresso, ma
b) “Quando si era giovani si ballavano tutte le canzoni dell’estate” mi sembrerebbe una generalizzazione quasi spersonalizzante.
Oppure:
c) Chiamami al telefono, stasera, così si fa (noi due) due chiacchiere.
Sarebbe possibile, pure qui, se non vado errata, la costruzione passivante, ma non si verrebbe a creare la stessa situazione succitata?
d) Chiamami al telefono, stasera, così si fanno due chiacchiere.
e) (Noi ragazze) l’anno scorso si sarebbe potute andare (= saremmo potute andare) all’estero.
Benché presiedute da differenti contesti semantici, tutte le frasi sopra riportate sarebbero conformi alla grammatica?

 

RISPOSTA:

Tutte le costruzioni da lei proposte sono corrette (il tipo noi si è è oggi tipico del toscano, ma la sua presenza nella tradizione letteraria lo rende familiare a tutta l’Italia) e sintatticamente equivalenti. L’esplicitazione del soggetto mitiga l’effetto di spersonalizzazione della costruzione impersonale; ricordiamo, però, che la costruzione impersonale serve proprio a non esplicitare il soggetto: se, quindi, non è necessario nascondere il soggetto si può optare per la costruzione del tutto personale (ad esempio “Le mie amiche e io quando eravamo giovani ballavamo tutte le canzoni dell’estate”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi sarei grata se mi esponeste la vostra opinione circa la correttezza o meno di questa  frase: “Mi ha detto che mi avrebbe relazionato su ciò che Mario aveva fatto, ma non avrebbe dovuto fare”. È possibile anche dire semplicemente “su ciò che Mario, in passato, non avrebbe dovuto fare”?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Si noti che il primo condizionale passato (avrebbe relazionato) ha la funzione di futuro nel passato, cioè serve a posizionare l’evento in un momento successivo rispetto a un altro passato, che è quello della proposizione reggente (ha detto); il secondo condizionale passato, invece (avrebbe dovuto), invece, ha la funzione di esprimere una condizione passata, cioè una possibilità temporalmente sullo stesso piano dell’evento coordinato (aveva fatto). 
La costruzione alternativa da lei proposta è corretta, ma non ha lo stesso significato della prima versione; manca, infatti, l’esplicitazione che effettivamente Mario ha fatto in passato quello che non avrebbe dovuto.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa frase, ponendo che tutto il suo contenuto si sviluppi nel passato rispetto al momento in cui la frase viene espressa:
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avrebbero detto”.
Quel mi avrebbe riferito è un futuro nel passato rispetto al mi disse, essendo l’espressione resa con il condizionale passato. Quindi, fin qui, tutto bene. Però quel gli avrebbero detto dovrebbe, a sua volta, fungere da futuro nel passato rispetto alla frase da cui dipende (mi avrebbe riferito) ma non può essere così perché il dire è anteriore al riferire (prima gli dicono e poi lui riferisce). Mi è capitato, tempo addietro, di sentire alla TV un noto linguista, il quale, se ho capito bene, sosteneva che, in casi come questi, entrambi i condizionali passati dipendono dal mi disse iniziale. Se così fosse, si spiegherebbe ogni cosa, ma mi resta qualche dubbio su questa dipendenza. Si tratterebbe di una eccezione?

 

RISPOSTA:

In generale la proposizione relativa è quella più autonoma rispetto alla consecutio temporum, quindi tende a prendere il tempo del verbo non in base al rapporto temporale con quello della reggente, ma in base al momento in cui avviene l’evento descritto in essa: passato, presente o futuro. Nella frase in questione, però, la subordinazione rispetto a una subordinata attrae anche la relativa nella consecutio, senza, peraltro, vincolarla obbligatoriamente. La frase ammette, così, una costruzione assoluta e una coerente con la consecutio. Quest’ultima, inoltre, può prendere due forme, una più rigorosa e una meno rigorosa, ma più semplice.
La costruzione assoluta ammette diversi tempi dell’indicativo, ognuno dei quali posiziona l’evento del dire in un momento diverso del tempo: 
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avevano detto” = l’evento è anteriore rispetto a un altro evento passato, inevitabilmente identificato con disse;
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli diranno / avranno detto” = l’evento è futuro, eventualmente con la sfumatura della anteriorità rispetto al momento, implicito, in cui effettivamente avverrà il passaggio di informazioni al parlante;
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli dicevano” = l’evento è abituale nel passato.
Per quanto riguarda le forme coerenti con la consecutio, quella più rigorosa rappresenta l’evento del dire come anteriore a quello del riferire. Per fare questo, usa il tempo richiesto per esprimere l’anteriorità rispetto al passato (perché il condizionale passato è, ai fini sintattici, un tempo passato, per quanto semanticamente si proietti nel futuro), il congiuntivo trapassato: “Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avessero detto”. Il congiuntivo trapassato porta con sé una certa sfumatura di ipoteticità, coerente con l’incertezza necessariamente associata a un evento precedente rispetto a uno successivo rispetto a uno passato.
La forma meno rigorosa, ma più semplice, della frase è quella da lei proposta, con i due condizionali passati, che descrive gli eventi del riferire e del dire ugualmente come successivi rispetto a disse e lascia che sia la logica a determinare quale dei due avvenga prima dell’altro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Non si può allestire la mostra”: è corretto dire che il soggetto è la mostra?

 

RISPOSTA:

La frase può avere due interpretazioni, che comportano due ruoli sintattici diversi per la mostra. Se si può allestire è un’espressione impersonale la mostra ne è il complemento oggetto; se, invece, è una forma passivata di potere allestire, equivalente a può essere allestita, allora la mostra ne è il soggetto. Si noti che al plurale la frase verrebbe formata senz’altro come passivata: si possono allestire le mostre (ovvero le mostre possono essere allestite); la variante impersonale, pur possibile, è sgradita ai parlanti (perché sembra sbagliata): si può allestire le mostre.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “per la raucedine non è possibile parlare” è giusto dire che il soggetto è parlare, anche se è possibile è una forma impersonale?

 

RISPOSTA:

Parlare, essendo un verbo, costituisce di per sé una proposizione, quindi non può essere il soggetto di è possibile. Il soggetto deve, infatti, essere un sintagma nominale: Marioil gattole mie compagne
Non è un caso, però, che a lei questo verbo sembri il soggetto dell’espressione impersonale: esso, infatti, costituisce un tipo di proposizione subordinata detta soggettiva, perché di fatto funge da soggetto del verbo della proposizione reggente (ovvero di è).
Inoltre, è sempre possibile considerare parlare un verbo sostantivato, come se fosse il parlare. In questo modo ci troviamo con un sintagma nominale a tutti gli effetti, che è il soggetto di è. Si noti che è possibile è un’espressione impersonale proprio perché non ha il soggetto (ma regge una proposizione soggettiva); se, invece, consideriamo parlare un verbo sostantivato, quindi un sintagma nominale, l’espressione viene ad avere un soggetto, quindi non è più personale, ma è personale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Non ho potuto informarla, come promesso, sulla questione”.
Mi sono trovata a scrivere questa frase in occasione di una lettera formale.
Quel come promesso avrebbe dovuto (e voluto) conferire al messaggio, più o meno, questo significato: ‘A differenza di quanto le avevo promesso…’.
Subito dopo aver spedito la missiva, sono stata sopraffatta da un dubbio, prettamente grammaticale, dato che, a livello logico, non sono riuscita a scorgere altri significati possibili: può darsi che, a livello sintattico, abbia involontariamente detto il contrario: ‘Le avevo promesso che non l’avrei informata sulla questione, e infatti è così’.
Ripeto: questa seconda interpretazione è fuori di ogni logica, ma mi domando che cosa dice la sintassi al riguardo.
E se avessi scritto “Come promesso, non ho potuto informarla sulla questione”, sarebbe cambiato qualcosa?
È evidente che con una parziale modifica del sintagma si sarebbe semplificato tutto e ogni incertezza sarebbe stata fugata (contrariamente a quanto promesso…), ma tant’è.

 

RISPOSTA:

Il paragone dovrebbe in astratto valere in rapporto a ciò che è esplicitato, quindi il senso immediato della frase dovrebbe essere quello che lei non voleva esprimere. In una frase negativa, però, qualsiasi paragone risulta in pratica inevitabilmente ambiguo, perché il ricevente è facilmente indotto a interpretarlo in rapporto alla versione implicita dell’evento (quella positiva). Tanto più in un caso come questo, in cui il senso immediato è piuttosto bizzarro (difficilmente si promette di non poter fare una cosa). È il contesto, quindi, che consente di comprendere il messaggio senza problemi: come spesso avviene, cioè, la testualità, ovvero l’immersione degli enunciati in un contesto comunicativo autentico, consente di superare i limiti espressivi della sintassi. 
Con qualche attenzione, comunque, è possibile ridurre al minimo (ma mai a zero) il grado di ambiguità di uno scritto: le soluzioni che lei propone funzionano a questo scopo, ma in direzione opposta. Come promesso, non ho potuto informarla sfrutta lo spostamento del sintagma all’inizio della frase, che trasforma l’inciso, sintatticamente autonomo, in un’espansione frasale, che viene associata automaticamente a ciò che è esplicitato. La frase così composta significa senz’altro che lo scrivente aveva promesso che non avrebbe potuto informare la persona e così è avvenuto. Al contrario, contrariamente a quanto promesso esplicita il valore negativo del paragone, che quindi nega la negazione e chiarisce che il riferimento è alla versione positiva, implicita, dell’evento, cioè che lo scrivente aveva promesso che avrebbe potuto informare la persona ma questo non è avvenuto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vedendo un film, mi sono imbattuta in questa frase: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre suonavo il piano”.
Questa frase mi sembra sintatticamente scorretta, almeno per quanto riguarda quel suonavo. Io direi, a seconda che voglia marcare o meno il concetto di ipoteticità: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre (nel momento in cui) avrei suonato (oppure avessi suonato) il piano”. Queste due soluzioni da me proposte sono entrambe corrette?

 

RISPOSTA:

Le sue alternative sono corrette, così come la versione originaria della frase. L’indicativo imperfetto è una forma verbale molto versatile: può, per esempio, riferirsi al futuro sostituendo a tutti gli effetti il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato (ovvero di evento successivo a un altro evento passato). Si tratta di una scelta meno formale del condizionale passato, ma del tutto accettabile nel parlato non sorvegliato, come sembra essere quello della battuta del film.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Come hai lasciato il bambino?” “Piangendo”. L’uso del gerundio può essere qui grammaticalmente accettato (in riferimento al bambino) oppure crea ambiguità?

 

RISPOSTA:

L’uso è scorretto, perché il gerundio presuppone in questo caso che il soggetto della proposizione coincida con quello della reggente, quindi che la persona che ha pianto sia quella che ha lasciato il bambino, non il bambino. L’alternativa verbale grammaticalmente migliore sarebbe “Che piangeva”, che, però, ha il difetto di contenere un pronome (che) collegato a un nome inserito in una frase sintatticamente autonoma. Per aggirare anche questa forzatura si dove optare per una costruzione nominale, come “In lacrime”, che instaura un riferimento implicito con il referente più vicino (quindi il bambino), per quanto non si possa escludere (ma sarebbe una scelta forzata) che si riferisca alla persona che ha lasciato il bambino. Inoltre, in lacrime è un’espressione piuttosto formale, quasi letteraria, che potrebbe risultare inappropriata in un contesto familiare (ancora più straniante da questo punto di vista sarebbe un’altra alternativa, pure grammaticalmente corretta: piangente).
Insomma, piangendo, per quanto scorretta, è una soluzione economica, quindi difendibile in un contesto comunicativo poco sorvegliato. Essa, infatti, consente di veicolare il concetto evitando troppi giri di parole e senza troppi danni per la comprensione: un interlocutore al corrente della situazione, infatti, riuscirebbe facilmente a riferire piangendo al bambino invece che alla persona che ha lasciato il bambino, anche se la grammatica vuole il contrario.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Qual è il genere corretto per l’aggettivo sostantivato live, di ovvia origine anglosassone?

 

RISPOSTA:

Dobbiamo declinare la vostra proposta per mancanza di tempo e risorse. Per qualsiasi curiosità, scrivete pure a DICO e riceverete una risposta.
Per quanto riguarda live bisogna ricordare che in astratto il genere dei nomi (e degli aggettivi sostantivati) presi in prestito da lingue che non hanno a loro volta il genere (come l’inglese) è il maschile; in pratica, però, questi nomi prendono il genere del nome italiano corrispondente, oppure di un nome assonante. Così e-mail è femminile perché corrisponde a posta, e band è femminile perché è assonante con banda (che, però, ha un significato molto diverso). Può capitare che un prestito sia attratto da due o più nomi italiani di generi diversi, con il risultato che il genere di quel prestito in italiano è altalenante. Questo è il caso di ketchup, che è maschile per la regola generale del prestito senza genere di partenza, ma per alcuni è femminile perché è un tipo di salsa. Per live è forte l’assonanza con spettacolo e concerto, che comporta il genere maschile; qualcuno, però, potrebbe associare questo nome a trasmissione, che è femminile. La situazione, come si vede, è simile a quella di ketchup: per quanto non si possa bocciare una delle due forme, si può stabilire che quella più comune, quindi preferita dai parlanti, è quella maschile. In questo ambito, più comune e preferibile è la soluzione più vicina possibile a più corretta. A conforto di questa posizione ci sono anche i vocabolari: lo Zanichelli registra come maschile sia ketchup sia live come sostantivo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate, che recitano…” si capisce che il recitare riguarda le convinzioni limitanti e non le memorie emozionali?

 

RISPOSTA:

Al contrario: nella frase così composta il pronome che rimanda alle memorie emozionali, che, tra i possibili referenti, è il più vicino e nello stesso tempo il più esplicito. Se, invece, il pronome deve rimandare alle convinzioni limitanti la frase deve essere riformulata con un riferimento più esplicito, per esempio: “ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate; convinzioni limitanti che recitano…”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei una delucidazione riguardo alla scelta tra costruzione implicita ed esplicita.
Nella frase “Ho bisogno che lei comunichi i dati per essere identificato” la logica porta chiaramente a ricollegare il sintagma per essere identificato al lei cui si rivolge il soggetto; ma questa valutazione è valida anche dal punto di vista sintattico, oppure sarebbe meglio una formula quale “Ho bisogno che lei
comunichi i suoi dati affinché possa essere identificato (in questo caso, però, mi pare che ci sarebbe ugualmente un’ambiguità, dato che il predicato possa potrebbe ricollegarsi anche a un’altra persona non menzionata nella frase)? 
Nella frase “Non avrei mai immaginato che sarei stata sola” o “Non avrei mai immaginato che avrei potuto essere sola” i soggetti di subordinata e sovraordinata coincidono, ergo si dovrebbe preferire la costruzione implicita. Ma con “Non avrei mai immaginato di essere sola”, “Non avrei mai immaginato di poter essere sola” non si sfuma un po’ troppo l’enunciato sotto il profilo temporale, non distinguendo il passato dal presente o questo dal futuro? 
E infine, la frase “Mi faccia sapere se le informazioni così inoltrate le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema” è corretta sintatticamente per “Mi faccia sapere (lei) se le informazioni così inoltrate consentono a lei di (le informazioni) essere elaborate e inserite nel sistema”? D’impulso, assocerei
quel di che apre la costruzione implicita al complemento di termine (= ‘consentono a lei’); ma il soggetto della frase non sono proprio le informazioni? Se è così, la costruzione implicita, che mi lascia un po’ titubante, non dovrebbe essere corretta?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima frase, la soluzione iniziale è quella migliore. Il problema della concordanza tra il pronome personale di cortesia lei e il participio passato maschile (qui identificato) è insolubile, ma fortunatamente non troppo dannoso per la comprensione (rimando su questo punto alla FAQ  “… sentirla abbattuto” o “… sentirla abbattuta”? dell’archivio di DICO). La formulazione esplicita chiamerebbe in causa un terzo referente, come da lei immaginato, provocando confusione.
Anche per la seconda frase lei ha ragione: la versione implicita schiaccia tutto sul presente, perché i modi indefiniti non hanno il tempo futuro; per questo, proprio nel caso in cui la subordinata è al futuro la costruzione esplicita è legittima anche con identità di soggetti tra la stessa subordinata e la reggente.
Nella terza frase la sua ricostruzione non è corretta, perché il soggetto della proposizione oggettiva subordinata di secondo grado è lei, non le informazioni. Le completive dipendenti da verbi di comando, richiesta, consiglio, opportunità assumono come soggetto non il soggetto della reggente, ma il destinatario del comando, la richiesta, il consiglio, l’opportunità (è il caso di “Ti ordino di uscire” = ‘ordino a te che tu esca’). Nel suo caso, quindi, la costruzione della proposizione sarà (le consentono) di elaborarle e inserirle nel sistema, perché il destinatario dell’opportunità, lei, diviene il soggetto logico della proposizione oggettiva. Al contrario, le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema non è ben costruita.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

vorrei domandarvi se e quanto le proposizioni incidentali condizionano, a livello di accordo (e di scelta) dei modi verbali, le altre proposizioni alle quali si legano.
Presento alcuni esempi per chiarire:
1) Marco, credo, ha realizzato un buon lavoro.
2) Marco, e con lui tutti i tuoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
3) Marco, nonché i suoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
Per la frase 1 non riuscirei a immaginare un modo diverso; il congiuntivo mi parrebbe fuori luogo.
Per le frasi 2 e 3 l’accordo è al singolare, al plurale o sono permessi entrambi?
Limitatamente all’ultimo esempio, se eliminassimo le virgole e perdessimo dunque l’inciso (Marco nonché i suoi amici…) il plurale sarebbe d’obbligo (sono andati al mare)?

 

RISPOSTA:

Nelle sue frasi l’unica proposizione incidentale è quella inserita nella prima frase, perché contiene un verbo (anzi, in questo caso coincide con un verbo). Come detto da lei, l’unica forma possibile per il verbo della proposizione reggente è ha realizzato, perché è chiaro che la proposizione credo è sintatticamente autonoma (ha come soggetto io), sebbene si possa considerare subordinata a Marco ha realizzato…
Nella seconda e nella terza frase i sintagmi (non proposizioni) incidentali modificano il soggetto dell’unica proposizione presente nella frase, perché trasformano Marco in Marco e i suoi amici e in Marco nonché i suoi amici (assimilabile a Marco e i suoi amici). Con questi soggetti il verbo richiesto è alla terza plurale,
quindi Marco, e con lui tutti i suoi amici, sono andati… e Marco, nonché i suoi amici, sono andati… 
Al contrario, l’accordo sarebbe al singolare in una frase come Marco, con i suoi amici, è andato, perché con i suoi amici non rientrerebbe nel sintagma del soggetto.
La prova dell’accordo corretto si ottiene spostando l’inciso (anche costituito da una proposizione) dopo il verbo: 
1) Marco ha realizzato un buon lavoro, credo.
2) Marco è andato al mare, e con lui tutti i tuoi amici.
3) Marco è andato al mare, nonché i suoi amici.
Come si può vedere, nella prima frase la sintassi non ha sbavature; nella seconda il sintagma finale si giustifica soltanto ipotizzando un verbo sottinteso, ovvero trasformando il sintagma in una proposizione, a dimostrazione che tutti i suoi amici è soggetto: “Marco è andato al mare, e con lui sono andati tutti i tuoi amici”.
Nella terza, infine, il sintagma finale non si può proprio giustificare, quindi si deve per forza associare al soggetto Marco.
L’eliminazione delle virgole nell’ultima frase non cambierebbe niente nell’accordo con il verbo. Va detto, però, che la congiunzione nonché richiede preferibilmente la virgola; ma se inseriamo la virgola prima di nonché siamo giocoforza indotti a inserire anche la seconda, per non trovarci con uno strano soggetto diviso in due dalla virgola e da una congiunzione. La stranezza salta meglio agli occhi se sostituiamo nonché con eMarco, e tutti i suoi amici sono andati…
Ne consegue che o scriviamo Marco nonché tutti i suoi amici sono andati (variante sconsigliata perché nonché preferisce la virgola), oppure Marco, nonché tutti i suoi amici, sono andati… Difficile da giustificare, invece, Marco, nonché i suoi amici sono andati al mare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Leggo in articolo di Michele Serra pubblicato in “la Repubblica” il 2 giugno 2021: “O li si impiccano alle querce, quelli come loro, o li si lapidano, o li si fanno squartare dai cavalli; o li si tratta secondo il dettato dei codici, considerando ogni imputato, anche il più esecrabile, come se fosse una persona”.
Le forme li si + terza persona plurale mi paiono poco accettabili. Direi si lapidano quelli come loro, ma li si lapida. Tanto più che Serra stesso scrive in seguito li si tratta. Qual è la forma corretta? O sono accettabili entrambe le forme?
Ma perché, in forme come si impiccano i criminalii criminali, soggetto del si passivante, viene sostituito dal pronome diretto li e non da un pronome soggetto? 

 

RISPOSTA:

Lei ha perfettamente ragione a considerare errate le forme li si + terza persona plurale, che sono una sorta di sovrapposizione tra la versione passiva si lapidano (= vengono lapidati) e quella impersonale li si lapida. La forma impersonale richiede sempre la terza persona singolare del verbo ed è attiva, quindi l’elemento coinvolto nella costruzione ha la funzione di complemento oggetto: li si lapida = si lapida loro (loro è complemento oggetto di lapidare). Quando il complemento oggetto è plurale, come in questo caso, la costruzione impersonale è sfavorita rispetto a quella passiva, perché il parlante tende a confondere il complemento oggetto con il soggetto e giudica istintivamente “strano” associare un verbo singolare a un elemento (erroneamente ritenuto il soggetto) plurale. Per questo è più comune si lapidano rispetto a li si lapida. In ogni caso, li si lapidano è una forma non prevista dalla grammatica.
Questo risponde anche alla sua seconda domanda: in li si impicca il pronome rappresenta effettivamente il complemento oggetto, mentre in i criminali si impiccano il sintagma nominale i criminali è il soggetto del verbo passivato si impiccano (i criminali vengono impiccati). Nell’impossibile (i criminali) li si impiccano, quindi, il soggetto (i criminali) è contemporaneamente complemento oggetto (li).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“La strada è stata chiusa al traffico”. Al traffico è complemento di termine o di fine o scopo?

 

RISPOSTA:

Questo è un caso limite di complemento di termine, perché il traffico è il destinatario di un oggetto trasferito dal soggetto. Insomma, chiudere la strada al traffico funziona come dare la chiusura della strada al traffico, quindi, applicando la trasformazione alla sua frase, la chiusura della strada è stata data al traffico. Si noti che l’oggetto trasferito non è la strada, bensì la chiusura.
Questa analisi non è l’unica possibile: si potrebbe, infatti, arguire che al traffico sia complemento di svantaggio, visto che il traffico subisce un “danno” dalla chiusura. Escludo, invece, che sia complemento di fine, visto che il traffico rappresenta non il fine, bensì, come detto, il destinatario della chiusura.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Come faccio a capire quando usare la virgola prima di e congiunzione senza alterare il senso della frase? E per quanto riguarda la congiunzione disgiuntiva o?
La virgola va sempre utilizzata prima del se?
La virgola va utilizzata quando si usa il gerundio? O è facoltativa?
Quando si utilizzano quindiperciò, si utilizza una virgola o se ne utilizzano due?
Quando si utilizzano espressioni tipo vale a dire oppure anche congiunzioni come ovvero, la virgola viene usata quasi sempre?

 

RISPOSTA:

Innanzitutto le consiglio di consultare la sezione Lo sapevate che? del sito di DICO (http://www.dico.unime.it/category/lo-sapevate-che/), che contiene diversi interventi sull’uso della punteggiatura.
Le sue domande non possono essere risolte in poche parole, perché la punteggiatura è legata a ragioni diverse, grammaticali, testuali, convenzionali, stilistiche. Come conseguenza, i casi di uso obbligato sono pochissimi, e quasi ogni scelta produce un cambiamento di significato della frase. 
Per quanto riguarda la virgola prima della e, essa è fortemente richiesta quando i due pezzi di frase uniti dalla congiunzione non sono sullo stesso piano; quasi sempre, però, è proprio la virgola che permette di stabilire se i due pezzi sono o non sono sullo stesso piano: il suo inserimento, pertanto, è una scelta dello scrivente legata al significato che vuole dare alla frase, non un obbligo. Mettiamo a confronto le seguenti frasi: “Ho comprato le mele e sono tornato a casa” / “Ho comprato le mele, e sono tornato a casa”. Sono entrambe corrette, ma la virgola produce un cambiamento di significato: nella prima frase le due azioni sono sullo stesso piano, come se l’emittente dicesse ‘ho fatto l’azione 1 e l’azione 2’, senza gerarchizzazione tra le due; nella seconda frase la seconda azione è rappresentata come separata dalla prima, come se l’emittente dicesse ‘ho fatto l’azione 1, dopodiché (ma la relazione logica potrebbe anche essere di consecuzione: di conseguenza) ho fatto l’azione 2′. In una frase isolata come quella usata qui la differenza può sembrare trascurabile, ma se inseriamo la frase in un testo si noterà l’importanza del dettaglio:
“- Che cosa hai fatto ieri?
– Ho comprato le mele e sono tornato a casa (= ‘ho fatto due cose’)”.
“- Che cosa hai fatto ieri?
– Ho comprato le mele, e sono tornato a casa (= ‘ho fatto una cosa sola’)”.
La differenza è talmente importante che la prima risposta potrebbe essere addirittura considerata incoerente con la domanda. Se qualcuno mi chiede che cosa ho fatto, infatti, di certo non elencherò tra le cose fatte anche il tornare a casa; al contrario, se il tornare a casa serve a concludere l’elenco (come se dicessi e non ho fatto altro), allora ha senso che io lo inserisca nella risposta. 
La stessa spiegazione data per la e vale per la o.
Con se la virgola rappresenta la condizione e la conseguenza come in qualche modo autonome l’una dall’altra. Prendiamo una frase come esempio: “Vieni se vuoi” / “Vieni, se vuoi”. La prima frase mette tutto il peso informativo sulla condizione della volontà del ricevente, quindi subordina fortemente l’informazione relativa all’evento del venire a quella relativa alla volontà; nella seconda le due informazioni sono autonome, come se si dicesse ‘Vieni. Sempre che tu voglia’. Come si vede da quest’ultima parafrasi, non è escluso neanche il punto fermo tra la proposizione reggente e la condizionale, per sottolineare ulteriormente la separazione tra le due informazioni.
Quanto detto per la proposizione condizionale vale anche per le proposizioni con il gerundio.
Per la virgola (o il punto e virgola) con quindiperciòinfattituttavia ecc. rimando a questo articolo. Ovvero e vale a dire come segnali discorsivi si comportano come le parole elencate in precedenza (quindiperciò…), tranne per il fatto che possono apparire soltanto all’inizio della proposizione o della frase, e non in inciso (ovvero tra due virgole, trattini o parentesi).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Dieci anni fa io ero più giovane di quanto lo sia tu adesso”. In caso la frase sia corretta, quel lo dovrebbe stare per giovane?

 

RISPOSTA:

Certamente: i pronomi atoni possono riprendere parti nominali di predicati nominali al pari di complementi oggetto di predicati verbali.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

Vorrei sapere se, rivolgendosi ad un uomo, ci si può esprimere indifferentemente in uno dei due modi che andrò ad esporre oppure se uno solo dei due è corretto: “Mi dispiace molto di sentirla così abbattuto / abbattuta (nel senso di ‘giù di morale’)”. 

 

RISPOSTA:

Per la risposta a questa domanda rimando alle FAQ  “Lei”, “voi”, “loro”“La avrei chiamata” dell’archivio di DICO. L’accordo con il pronome di cortesia riferito a un uomo è chiaramente frutto di un compromesso tra la grammatica e la logica: la grammatica richiederebbe che gli aggettivi concordassero con il pronome, quindi fossero femminili, mentre la logica impedisce di riferire aggettivi femminili a referenti maschili. Su questo punto vince la logica (quindi sentirla abbattuto). Sull’accordo del participio passato di un verbo in una forma composta preceduto dal complemento oggetto pronominale, invece, vince la grammatica, quindi “Signor Bianchi, l‘ho vista al bar ieri”. La stessa cosa vale con la forma implicita: “Mi dispiace di averla disturbata“.
Questo compromesso può produrre frasi con un accordo altalenante, eppure da considerarsi corrette, come “Signor Bianchi, l’ho vista stanco ieri”.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non capisco se, in queste frasi, quello indicato in corsivo sia un complemento di modo o predicativo. C’è un “trucchetto” per imparare a distinguerlo senza avere dubbi?
1. “FRANCESCO CORRE VELOCE VERSO LA PALESTRA” (qui direi che si tratta di un COMPL. DI MODO perché posso trasformarlo nell’avverbio velocemente; ma sarebbe errato del tutto considerarlo compl. predicativo?).
2. SE NE ANDÒ ZITTO ZITTO A CASA.

 

RISPOSTA:

Per distinguere l’aggettivo con funzione predicativa da quello con funzione avverbiale bisogna considerare se esso descrive uno stato o una qualità del soggetto (predicativo) oppure un modo di realizzazione dell’azione (avverbiale). Spesso questa distinzione è abbastanza netta, ma ci possono essere casi dubbi. Nei suoi due esempi, veloce è decisamente un aggettivo avverbiale (quindi, dal punto di vista dell’analisi logica, un complemento di modo), perché la qualità della velocità si riferisce all’azione del correre, non al soggetto; zitto zitto è direttamente una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente, quindi è senz’altro un complemento di modo. Diversamente, in una frase come “Se ne andò zitto a casa” zitto sarebbe un aggettivo predicativo (quindi un complemento predicativo), perché descriverebbe non il modo di andare, ma una qualità temporanea del soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In un caso come il seguente, si può considerare l’ultimo elemento (né alcun’altra creatura) come riassuntivo, perciò dominante per la concordanza del verbo al singolare (potrà)?
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né  potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Lettera ai Romani 8:38, 39, CEI).

 

RISPOSTA:

L’aggettivo altra contenuto nel sintagma né alcun’altra creatura esclude che questo sintagma riassuma in sé tutti gli elementi precedenti, ma configura le possibili creature evocate come aggiuntive rispetto agli elementi elencati precedentemente. Del resto, il nome creatura non può essere usato correttamente come iperonimo di mortevitapresenteavvenirealtezzaprofondità, che identificano stati dell’essere o qualità, non certo creature.
Non bisogna, comunque, ritenere il verbo singolare potrà un errore (sebbene sia, in effetti, una forzatura grammaticale): quando il soggetto è rappresentato da più elementi collegati tra loro mediante la congiunzione o, come in questo caso, mediante , la concordanza al singolare è comune e ci sono buone ragioni per ammetterla al pari di quella al plurale. Con la congiunzione o, infatti, gli elementi dell’elenco sono l’uno in alternativa all’altro, quindi soltanto uno di essi realizza l’azione; con , invece, addirittura tutti gli elementi sono esclusi dall’azione: nessuno di essi, infatti, è il soggetto logico, Nella sua frase, per esempio, il soggetto logico, soggiacente a tutta la costruzione, è niente.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La forma corretta è: “Vuoi che ti chiami?” oppure “Vuoi che ti chiamo?”?

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva (come quella retta da vuoi nel suo esempio) può essere costruita sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Tra i due modi, l’indicativo è più informale e adatto al parlato, il congiuntivo più formale e adatto allo scritto. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se questa frase è corretta: “Mandali a farsi curare”. Io ritengo di sì, comunque tale frase mi è stata contestata e mi è stata consigliata al suo posto quest’altra: “Mandali dal medico affinché possano curarsi”. Ci terrei molto ad avere un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

La sua frase è ben costruita: il verbo mandare è usato qui come verbo di comando e può reggere, pertanto, una proposizione all’infinito il cui soggetto coincide con l’oggetto del comando. Mandare, insomma, si comporta come ordinareti mando a farti curare = ti ordino di farti curare. Per quanto riguarda la costruzione fattitiva (fare o lasciare + infinito), essa è usata correttamente: farsi curare = ‘fare in modo di essere curati’.
Si può forse obiettare che l’espressione sia un po’ scortese, al limite violenta, ma questa considerazione va rapportata alla situazione: tra persone che sono in confidenza la frase è appropriata; in una conversazione tra persone che non si conoscono risulterebbe straniante. Attenzione, però: la versione emendata risulterebbe inutilmente dettagliata e pomposa in un contesto informale, ma sarebbe comunque bizzarra in un contesto formale: la schiettezza di mandali, infatti, contrasta con la ricercatezza della finale esplicita, per giunta introdotta dal raro affinché. Una possibile riformulazione di questa versione formale della frase potrebbe essere “Consigliagli di andare dal medico”, o, volendo essere ancora più distaccati, “Consiglia loro di consultare un medico”.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi propongo questa frase che è stata estrapolata da un discorso: “È come, per es., se uno si gettasse dal terzo piano e restasse incolume 1) perché cade sopra un telone, 2) cadendo sopra un telone, 3) perché cadesse sopra telone (quest’ultima mi pare poco probabile, almeno ad orecchio); il fatto che non si faccia nulla non significa che abbia agito intelligentemente”.  
Vorrei sapere quale delle tre soluzioni da me proposte è quella corretta.
Io propenderei per la numero due: ho ragione? 

 

RISPOSTA:

La variante con il gerundio (la n. 2) è certamente corretta ed economica, perché consente di aggirare due problemi che si devono affrontare se si usa un modo finito: l’identificazione del tipo di subordinata; la scelta del modo e del tempo adatti. La variante con il gerundio, infatti, non esclude che si possa costruire la stessa subordinata in modo esplicito. 
Per quanto riguarda il tipo di subordinata, esso si può facilmente identificare come causale (come fa lei). La proposizione causale di norma non ammette il congiuntivo, ma si costruisce con l’indicativo o il condizionale. In questo caso, il condizionale può essere escluso, perché questa subordinata è attratta nell’orbita dell’ipotesi; il congiuntivo, invece, può essere accettato ancora per via dell’attrazione esercitata dalla reggente. La scelta migliore, comunque, rimane l’indicativo, che non può che essere presente (come nella sua proposta n. 1), visto che l’ipotesi è atemporale. Se si opta per il congiuntivo, invece, questo sarà imperfetto (come nella sua proposta n. 3). Insomma, le sue tre proposte sono tutte possibili, ma la n. 2 è la migliore, la n. 1 è accettabile ma più problematica, la n. 3 è quella meno felice.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Desidererei sapere se è corretta l’ espressione lesinare sul denaro o sul centesimo. Alcuni sostengono che è corretto dire lesinare il denaro o il centesimo.

 

RISPOSTA:

Il verbo lesinare può essere transitivo o intransitivo. In questo secondo caso richiede la preposizione su. Quando è transitivo significa ‘spendere con estrema parsimonia’; quando è intransitivo significa ‘risparmiare’. Sebbene i due usi siano vicini, pertanto, con un oggetto come denaro il verbo si costruisce transitivamente: lesinare il denaro = ‘spendere con parsimonia il denaro’; con un oggetto come spese, invece, si costruisce intransitivamente: lesinare sulle spese = ‘risparmiare sulle spese’.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio sul verbo da scegliere per la risposta n.14 del seguente esercizio. Nel modello di
risposta hanno scritto ho capito come l’unica risposta giusta, mentre per me potrebbe andare bene anche capisco‘. Secondo me cambia un po’ la sfumatura, ma non lo considererei un errore. 

Completa il testo con i verbi tra parentesi al tempo adatto (presente, passato prossimo, imperfetto e futuro semplice).
Ma adesso (14. capire)______________________: i nonni hanno sempre ragione.

 

RISPOSTA:

Il passato prossimo ho capito sottolinea che il processo mentale della comprensione è già avvenuto e adesso il soggetto si trova nella condizione di possedere la conoscenza risultante da quel processo. Il presente capisco, invece, rappresenta il processo come ancora in corso; indica, cioè, che il soggetto sta sviluppando la comprensione mentre ne parla. Entrambe le rappresentazioni sono possibili e adatte al contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Specie nel linguaggio parlato, ricorrono frasi come questo lo sodimmelo tu cos’è e simili.
Tali espressioni sono un esempio di costruzione enfatica, di pleonasmo o di ridondanza, dato che in esse, se non sbaglio, vi sono delle ripetizioni a livello pronominale?
Immagino che siano comunque accettate nella lingua anche di media formalità, ma in scritti maggiormente controllati si potrebbe scegliere forme come so quello/ciò che mi hai dettosono a conoscenza di questo/ciò e sim. per quanto riguarda il primo esempio; e dimmi tu cos’è/che cos’è. Ho ragione?

 

RISPOSTA:

Lei ha ragione: le costruzioni come quelle da lei presentate, note come dislocazioni a sinistra (questo lo so) e a destra (dimmelo tu cos’è), sono ricorrenti nel parlato e sono accettabili anche in contesti di media formalità. Nello scritto di media formalità, invece, sono meno appropriate, perché sono ridondanti, in quanto ribadiscono due volte lo stesso elemento (questo lo so = so questo questodimmelo tu cos’è = dimmi tu cos’è cos’è). Ovviamente, tale ripetizione non è vuota, come può sembrare a prima vista, ma ha una funzione comunicativa: nella dislocazione a sinistra serve a richiamare il tema, cioè l’argomento in questione, che potrebbe essere non immediatamente presente all’interlocutore; nella dislocazione a destra serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore lo abbia identificato. Nello scritto si può fare a meno di tali funzioni, oppure si possono usare altri costrutti più complessi per realizzarle: a proposito di questo, a tal riguardoper quanto riguarda questo
Per saperne di più sulle dislocazioni può consultare l’archivio di DICO usando le parole chiave dislocazione e dislocazioni.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

È corretto dire “Non capisco il perché Mario non mi abbia scritto”, oppure si dovrebbe eliminare il?
Dopo il condizionale presente vorrei nella forma negativa si usa il congiuntivo presente o imperfetto? Non vorrei che tu fossi o Non vorrei che tu sia?

 

RISPOSTA:

Il perché Mario… non è corretto, perché in questo caso perché è una congiunzione (secondo alcuni un avverbio) nel pieno delle sue funzioni e non c’è ragione di sostantivarlo. La forma corretta è, pertanto, non capisco perché Mario… Si può, però, costruire la frase così: “Non capisco il perché della mancata risposta di Mario”. In questo caso, come si vede, il perché non è una congiunzione (o un avverbio), ma è un nome, equivalente a motivo, infatti non capisco il perché della mancata risposta = non capisco il motivo della mancata risposta
I verbi di volontà, opportunità, obbligo al condizionale reggono preferibilmente il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva per esprimere la contemporaneità nel presente. Questo vale anche quando non sono preceduti da non, quindi vorrei che tu fossi e non vorrei che tu fossi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se un’espressione estrapolata da una frase può essere scritta in questo modo: “QUEL ‘avrebbe detto’ è corretto o meno”? Oppure è preferibile dire: “QUELL’ ‘avrebbe detto’ è corretto o meno”?

 

RISPOSTA:

Quando si sostantivizza una parte del discorso, essa deve essere considerata un nome a tutti gli effetti. Come diremmo quell’albero, quindi, diremo quell’avrebbe. Se possibile, inoltre, è preferibile evitare la successione dell’apostrofo e delle virgolette (o del singolo apice, nel caso in cui ci si trovi all’interno di virgolette), usando il corsivo: “quell’avrebbe detto…”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nel testo “Concluso il triennio, si parte per un nuovo viaggio per raggiungere nuove destinazioni. Spero che nella vostra valigia ci sia sempre spazio per…” la punteggiatura è corretta e se è possibile iniziare con una forma impersonale (Si parte) e poi continuare con Spero che.

 

RISPOSTA:

La punteggiatura è corretta. La costruzione, inoltre, può cambiare, visto che si tratta di due frasi separate da un punto fermo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Carlo è in pensione”, il verbo essere ha significato proprio (predicato verbale)? Se sì, la locuzione in pensione come va correttamente analizzata? Dopo un consulto tra colleghe non siamo arrivate a una soluzione univoca.

 

RISPOSTA:

L’espressione in pensione non indica un luogo nel quale si trova il soggetto, ma una situazione, una condizione, uno stato. Può, pertanto, essere considerata una parte nominale, che completa un predicato nominale. La parte nominale è comunemente rappresentata da un sintagma nominale o aggettivale, ma ci sono casi di parti nominali preposizionali, come in ritardoa rischioda intenditori. Tali sintagmi preposizionali, non a caso, a volte possono essere sostituiti da aggettivi, nomi, o locuzioni aggettivali, come in pensione = ‘pensionato’. A volte, inoltre, tali sintagmi fanno il paio con aggettivi, come in ritardo (e in anticipo), che fa il paio con puntuale. Si noti, infine, che in altre lingue ci possono essere soluzioni simili; si pensi agli aggettivi inglesi late, che significa ‘in ritardo’, e early ‘in anticipo’, che fanno il paio con on time ‘puntuale’. 
Questo argomento è stato affrontato anche nelle FAQ  parte nominale preposizionale e Analisi logica “per intenditori” dell’archivio di DICO, a cui la rimando per approfondimenti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“E non lasciamoci ingannare dal fatto che ‘pace fiscale’ e ‘pace sociale’ potrebbero sembrare anche nobili obiettivi; e lo sarebbero, se non fosse che a pagare questi strani tipi di pace populista siano / saranno sempre i cittadini onesti, a vantaggio dei furbetti”.
Qual è la forma giusta del verbo da usare?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. Il congiuntivo presente può avere la funzione di descrivere eventi futuri, oltre che presenti, sebbene possa risultare ambiguo in alcuni casi, ed è per questo sostituito preferenzialmente dall’indicativo futuro nella lingua d’uso. Questo non è un caso potenzialmente ambiguo, perché l’avverbio sempre chiarisce che l’evento non è realmente futuro, bensì è astorico e proiettato nel futuro. In questo contesto, quindi, il congiuntivo presente è perfettamente trasparente e più formale dell’indicativo. Se mancasse l’avverbio, però, la conclusione sarebbe diversa: siano, infatti, potrebbe essere interpretato come presente astorico (= ‘a pagare sono i cittadini onesti’) o come futuro (= ‘a pagare saranno in questo caso specifico i cittadini onesti’). L’indicativo futuro, che in astratto è la soluzione meno formale, sarebbe, allora, la soluzione preferibile se il senso inteso fosse di futuro; se, al contrario, il senso inteso fosse di presente astorico la soluzione preferibile sarebbe ancora il congiuntivo presente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei mettere sotto la lente questa frase:
“L’incidente è avvenuto ieri alle ore 9 in via Roma. Chiunque fosse sul luogo, è pregato di collaborare con le forze di polizia per fornire dettagli”.
Muovendo dal contesto, il parlante (un giornalista) ha chiaramente usato il congiuntivo imperfetto per riferirsi a un’azione passata (l’equivalente formale, credo, dell’indicativo imperfetto chiunque era).
Secondo me – ma chiedo conferma o smentita a voi – quel congiuntivo, in assoluto, si sarebbe potuto riferire anche ad azione contemporanea o futura, alla stregua di un periodo ipotetico: Chiunque volesse (oggi, domani, ecc.), può/potrebbe… o, per tornare al nostro esempio: Chiunque fosse sul luogo (adesso, non in passato), è pregato di… Mi pare che l’uso fatto del congiuntivo imperfetto dal giornalista sia fuorviante.
Se avessi potuto approntare la sintassi della frase, considerando il messaggio di fondo, avrei fatto questa scelta:
“L’incidente è avvenuto ieri alle ore 9 in via Roma. Chiunque sia stato / fosse stato sul luogo, è pregato di collaborare con le forze di polizia per fornire dettagli”.

 

RISPOSTA:

La sua analisi grammaticale è corretta, ma la sua conclusione no, perché considera soltanto il singolo sintagma e trascura il piano più importante: quello testuale (che comprende anche quello logico). È, infatti, vero in astratto che chiunque fosse sul luogo può riferirsi a qualunque momento, passato, presente o futuro; in questo contesto particolare, però, non può che riferirsi al momento dell’incidente, sia perché esso è stato appena evocato, sia perché è logico pensare che i presenti siano chiamati a testimoniare sull’incidente, non sui loro spostamenti abituali. Non a caso, lei non ha avuto dubbi nell’interpretare così la frase, e, immagino, sarebbe stata molto sorpresa se il giornalista avesse inteso riferirsi, con questa espressione, al presente o al futuro.
Le sue proposte di correzione non sono, quindi, necessarie e, per quanto non impossibili, peggiorano la frase. Il trapassato è incompatibile con la consecutio temporum (perché non avrebbe senso chiedere l’aiuto di persone che fossero state sul luogo dell’incidente prima che l’incidente avvenisse e non mentre avveniva), quindi può essere interpretato soltanto come forma dell’ipotesi improbabile. Con questo tempo, quindi, il giornalista descriverebbe come improbabile l’eventualità della presenza sul luogo dell’incidente delle persone mentre sta chiedendo a queste stesse persone di farsi avanti e aiutare la polizia. Il passato, infine, cancella la sfumatura continuata dell’imperfetto, risultando un po’ ambiguo. Con l’imperfetto, infatti, non c’è dubbio che la presenza vada interpretata come contemporanea all’incidente; con il passato, invece, la presenza potrebbe anche situarsi in un altro momento. In altre parole, con il passato il giornalista potrebbe intendere che è richiesto l’aiuto di persone che siano state sul luogo in qualunque momento del passato, prima dell’incidente, durante l’incidente, dopo l’incidente, come se l’importante sia non il fatto che abbiano assistito all’incidente, ma il fatto che conoscano il posto. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono essere improbabili, bensì quelli DIFFERITI”. È corretto usare il termine differito in questo contesto? So che significa ‘ritardato’ e, in questo senso, sembrerebbe quindi essere corretto, ma, Istintivamente, non mi convince del tutto.

 

RISPOSTA:

Il suo dubbio dipende probabilmente dalla presenza, nel verbo differire, quindi anche nel suo participio passato, del tratto [+volontario]. Un evento differito, infatti, è spostato in avanti nel tempo per volontà e per l’intervento attivo di qualcuno, non per semplice accidente. La frase, invece, sembra riguardare effetti futuri imprevedibili, quindi necessariamente accidentali. Se gli effetti sono effettivamente accidentali, come sembra dalla frase, potrebbe sostituire differiti con futuria venire o costrutti più complessi; se, al contrario, la frase riguarda effetti rimandati dall’intervento di qualcuno può lasciare anche differiti (probabilmente il dettaglio della volontarietà emergerà più chiaramente dal contesto della frase).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono ESSERE improbabili, bensì quelli differiti”. Volendo scegliere questa linea espressiva è corretto l’ uso di quel essere?

 

RISPOSTA:

La costruzione delle proposizioni oggettive e soggettive con l’infinito e senza alcuna preposizione introduttiva ricalca quella delle proposizioni infinitive latine, che avevano proprio la funzione delle completive italiane. Tale costruzione è ancora contemplata in italiano, sebbene fosse più diffusa nei secoli passati e sia oggi rara e adatta allo scritto tecnico-scientifico e burocratico. Più comunemente si direbbe che dicono siano improbabili (si noti che anche con questa costruzione il che introduttivo della oggettiva è preferibilmente sottinteso per evitare la ripetizione).
Normalmente, la completiva con l’infinito richiede l’espressione del soggetto (corrispondente al soggetto in accusativo delle infinitive latine): “Gli antichi greci pensavano il fulmine essere un attributo di Zeus”. Nel suo caso, però, il soggetto è assorbito dal pronome relativo precedente, divenendo superfluo. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sentito da una persona che si esprime sempre molto correttamente la forma io riappargo. Si tratta di un uso attestato, seppur raro, oppure è un lapsus?

 

RISPOSTA:

La forma è attestata soltanto nell’italiano popolare e in testi molto trascurati; non è, pertanto, considerabile una variante accettabile neanche nel parlato informale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Potreste indicarmi se nelle due espressioni sottostanti la data si riferisce all’inizio del pagamento del mantenimento o all’inizio della rivalutazione Istat?
1. In ordine all’entità di detto assegno, che la ricorrente ha chiesto determinarsi nella somma di euro XXX, si ritiene congruo, anche tenuto conto dell’attuale condizione lavorativa del marito, di determinarlo nella somma di euro YYY mensili, importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a decorrere dall’1.6.2022.
2. … determina il contributo al mantenimento dei minori da parte del padre, nella somma di euro YYY mensile, da versare alla moglie entro il giorno cinque di ogni mese importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a decorrere dall’1.6.2022.

 

RISPOSTA:

La data si riferisce all’inizio del pagamento. Non solo è più logico che sia così (sarebbe, infatti, stranamente pignolo richiedere che la rivalutazione parta da un momento intermedio dell’anno e non dall’inizio dell’anno, come, del resto, suggerisce l’aggettivo annualmente), ma è anche la punteggiatura che lo chiarisce. Nel primo stralcio, la parte che si trova tra due virgole (, importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat,) va considerata un inciso, quindi potrebbe anche essere estratta, lasciando determinarlo nella somma di euro YYY mensili a decorrere dall’1.6.2022. Vero è che la mancanza di un verbo che regga a decorrere dall’1.6.2022 rende un po’ forzata la costruzione e induce quindi a collegare la proposizione a rivalutare, ma tale collegamento sarebbe indebito. Il secondo stralcio ha una costruzione meno chiara, ma in compenso presenta il verbo versare, che regge a decorrere dall’1.6.2022. Quest’ultima proposizione, inoltre, è separata con la virgola da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a rafforzare la separazione tra le due informazioni. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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QUESITO:

Parlando con uno straniero mi è venuto un dubbio. È meglio dire ero interessato a questa cosa o me ne ero interessato? Gli ho detto che erano due espressioni equivalenti invece ora mi rendo conto che hanno un significato diverso. Lui intendeva dire che una cosa aveva destato interesse in lui per un po’, ma voleva sapere come dirlo senza indicare quella cosa specifica.
Il mio dubbio è questo: posso dire ero interessato a questa cosa senza un pronome indiretto o devo dire
mi interessava questa cosa? Mi ha chiesto se si può usare il ne al posto di questa cosa, ma così mi sembra che cambi il senso. Leggendo sulla Treccani sembra che sia giusto solo interessarsi a, ma a me le frasi ero interessato a lui e mi sono interessata a lui sembrano diverse.

 

RISPOSTA:

Nella sua domanda si sovrappongono due questioni diverse: da una parte la differenza tra il verbo interessarsi e l’espressione essere interessato; dall’altra la possibilità di pronominalizzare (ovvero sostituire con un pronome) il sintagma proposizionale a questa cosa con ne
Per quanto riguarda la prima questione, interessarsi è quasi un sinonimo di essere interessato; contiene, però, una sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto non riscontrabile in essere interessato. Con interessarsi, cioè, si descrive l’interesse come attivo, non statico; per questo motivo interessarsi significa anche ‘prendersi cura, occuparsi’, e persino ‘intervenire per la risoluzione di un problema’. 
Oltre alla differenza semantica, tra le due forme c’è una differenza sintattica, perché interessarsi richiede la preposizione a quando è sinonimo di essere interessato, la preposizione di quando significa ‘prendersi cura, occuparsi’ o ‘provvedere per la risoluzione di un problema’; essere interessato, invece, richiede sempre la preposizione a, mai di. Come conseguenza, essere interessato a una cosa è molto simile a interessarsi a una cosainteressarsi di una cosa, invece, significa tutt’altro, ovvero ‘occuparsi di una cosa’, oppure ‘provvedere’ (nel caso in cui la cosa sia una problema da risolvere). 
A rigore, un complemento di termine (come a una cosa) può essere pronominalizzato con gli o le; questi pronomi, però, hanno un chiaro riferimento umano e difficilmente li associamo a oggetti inanimati; in questo caso, inoltre, il complemento di termine non indica una persona a cui viene dato qualcosa, ma soltanto l’oggetto di un interesse (e può essere definito, infatti, complemento oggetto preposizionale), quindi rifiuta a maggior ragione la pronominalizzazione con i pronomi indiretti. Per questo motivo un parlante nativo non direbbe mai esserle interessato (o io le sono interessato), ma preferirà sempre essere interessato a una / quella cosa (e io sono interessato a una / quella cosa). Lo stesso vale per interessarsi: nessun parlante direbbe interessarlesi (o io le mi interesso), ma dirà sempre interessarsi a una / quella cosa (e mi interesso a una / quella cosa). 
Diversamente, un complemento di specificazione o partitivo può essere pronominalizzato quasi sempre con ne, per questo è possibile dire interessarsene. Si badi, però, che non è possibile dire *esserne interessato perché significherebbe *essere interessato di una cosa, che non è corretto. Inoltre, interessarsene non significa essere interessato a una cosa, ma ‘occuparsi di una cosa’ oppure ‘provvedere alla risoluzione di un problema’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

vorrei sapere se il testo che riporto di seguito è corretto.

Egregio Dirigente Scolastico C. V.,
sono  R. L. ;  docente che ha avuto un giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità. Comunico che mi sono sottoposta alla prima dose del vaccino anti-COVID e il 16 maggio farò la seconda dose. Chiedo la revisione del giudizio da parte del Medico Competente per tornare in servizio in presenza.
Distinti saluti.

 

RISPOSTA:

Nel testo non ci sono errori; suggerisco, però, alcuni aggiustamenti che lo renderebbero più appropriato. La maiuscola di Dirigente è comprensibile, sebbene non necessaria: ingiustificate e da eliminare, invece, sono quelle di ScolasticoMedico e Competente.
Insolito è l’inserimento del nome del destinatario (sempre che C. V. siano le iniziali del nome) dopo il titolo del ruolo; si può senz’altro eliminare il nome, anche perché in questo modo si segnala che ci si rivolge alla funzione, non alla persona. Sempre a proposito del destinatario, l’aggettivo egregio è pomposo e al limite dell’appropriatezza in una comunicazione formale ma tra due persone che, immagino, si conoscano personalmente. Più adatto alla situazione sarebbe Gentile
All’inizio del testo non è necessario presentarsi, come se si parlasse al telefono; è sufficiente a questo scopo inserire la firma in calce. Eliminato il riferimento personale, rimane in primo piano, come è giusto che sia, il motivo della comunicazione, che potrebbe essere formulato così: in relazione al giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità di cui sono stata oggetto, comunico…
Infine, l’aggettivo Distinti associato a saluti è distaccato e asettico; in questo contesto potrebbe essere sostituito da Cordiali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Non so quale frase – o quali, nel caso ce ne sia più di una – tra queste sia scorretta.
Il dubbio verte sulla declinazione del termine dritto.
1a) I ragazzi guardarono dritto negli occhi le ragazze.
1b) I ragazzi guardarono dritti negli occhi le ragazze.
1c) I ragazzi guardarono dritte negli occhi le ragazze.

 

RISPOSTA:

L’unica forma possibile è dritto, perché il termine qui è usato come avverbio di modo ed è, quindi, invariabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono ritrovata a comporre la frase: “Ho semplificato al massimo la questione”. Intendo, con al massimo, ‘il più possibile’. In un secondo momento ho però pensato che se avessi sostituito questa espressione con un’altra, apparentemente antitetica, avrei forse ottenuto lo stesso risultato logico: “Ho semplificato al minimo la questione”, intendendo, con al minimo ‘ai minimi termini’.
A questo punto in me si è creato un grande caos relativo al corretto uso di queste forme.

 

RISPOSTA:

Non c’è niente di caotico nella questione, che è soltanto in apparenza una contraddizione. La locuzione avverbiale al massimo modifica senza dubbio il verbo (la logica esclude che si possa semplificare una questione fino a renderla grandissima), rafforzandone il significato; la locuzione al minimo, invece, può modificare sia il verbo sia il sintagma nominale la questione. Nel primo caso la frase indica che la semplificazione è stata lieve, quindi la questione è rimasta probabilmente quasi invariata; nel secondo caso la questione è descritta come divenuta minima in seguito alla semplificazione. Volendo modificare il sintagma nominale con la locuzione al minimo, comunque, sarebbe preferibile riformulare la frase così: “Ho semplificato la questione al minimo”.  
Abbiamo, quindi, tre possibilità:
Ho semplificato al massimo la questione”;
Ho semplificato al minimo la questione”;
“Ho semplificato al minimo la questione” (ovvero “Ho semplificato la questione al minimo“).
Le prime due hanno significato opposto, la terza ha significato molto simile, anche se non identico, alla prima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è grammaticalmente corretto l’utilizzo dell’abbreviazione sigg.ri o se l’abbreviazione della parola signori sia solamente sigg.

 

RISPOSTA:

Sigg.ri è forma scorretta (attestata, ma da respingersi), poiché combina arbitrariamente due forme possibili:  la più comune sigg. (che, come tutte le abbreviazioni per il plurale, raddoppia la consonante: ess. ‘esempi’, pp. ‘pagine’, sgg. ‘seguenti’ ecc.) e la meno comune sig.ri (con una sola g, perché il plurale è rappresentato dalla i, in analogia a signore > signori).
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei porre una domanda circa l’uso del periodo ipotetico in relazione ad un verbo espresso al passato, per es.: “Disse che sarebbe andato al mare se il tempo fosse stato bello”. Ovviamente non so se l’azione espressa dal periodo ipotetico sia anteriore o posteriore al disse, quindi devo precisare questo rapporto aggiungendo delle espressioni del tipo seguente: in precedenza oppure in seguito.
Mi chiedevo se fosse possibile evitare l’aggiunta di queste espressioni gestendo adeguatamente il periodo ipotetico, per es.: “Disse che, se il tempo fosse stato bello, sarebbe andato al mare” qualora l’azione espressa dal periodo ipotetico sia collocata nel passato rispetto al disse e “Disse che sarebbe andato al mare, se il tempo fosse stato bello” qualora l’azione espressa dal periodo ipotetico sia posteriore rispetto al disse. Infatti esprimendo la protasi subito dopo il disse si è portati ad andare con la mente al passato (se il tempo fosse stato bello in passato); esprimendo invece l’apodosi subito dopo il disse, la mente va al futuro di quel disse (disse che sarebbe andato in futuro). 

 

RISPOSTA:

Di norma la sintassi prescinde da ragioni di rispecchiamento della realtà e segue una logica tutta interna. Esistono, però, costruzioni nelle quali ritroviamo una certa corrispondenza tra la realtà e la sintassi. La proposizione condizionale di un periodo ipotetico, per esempio, è preferibilmente anteposta alla reggente, che esprime la conseguenza, perché evidentemente nella realtà la condizione precede la conseguenza. Almeno nel parlato, inoltre, anche la proposizione causale precede preferibilmente la reggente (infatti nel parlato si fa largo uso della congiunzione siccome, che consente di anticipare la causale), perché il rapporto tra causa ed effetto è simile a quello tra condizione e conseguenza. 
Si pensi, inoltre, al cambiamento di significato di una frase formata da proposizioni coordinate con la congiunzione e corrispondente al cambiamento dell’ordine con cui sono sistemate le proposizioni: “Sono caduto e mi sono rotto una gamba” = ‘Sono caduto e, come conseguenza, mi sono rotto una gamba’ / “Mi sono rotto una gamba e sono caduto” = ‘Mi sono rotto una gamba e, come conseguenza, sono caduto’. 
Insomma, tendenzialmente quello che viene prima in una frase è interpretato come precedente, la causa o la condizione di ciò che viene dopo. Non è per forza così, si badi: la sintassi rimane fortemente svincolata dal rispecchiamento della realtà. Posso facilmente costruire, per esempio, frasi contrarie al rispecchiamento, come “Sono contento se vieni”, “Sono triste perché non sei venuto”, “Sono caduto dopo essermi rotto la gamba” ecc.
Come si vede dagli esempi, il rispecchiamento della realtà, o iconismo, nella lingua può cambiare i rapporti reciproci tra due elementi, ma non cambia il rapporto tra questi e il resto della frase, nel caso in cui la frase contenga altri elementi. Nel suo caso, lo spostamento della protasi del periodo ipotetico non cambia il rapporto tra il periodo ipotetico e la reggente, che rimane ambiguo tra l’anteriorità e la posteriorità. Va detto, comunque, che in assenza di specificazioni temporali i parlanti risolverebbero l’ambiguità favorendo l’interpretazione posteriore, perché la funzione di futuro nel passato del condizionale passato è oggi dominante rispetto a quella di esprimere la conseguenza irrealistica di un evento che non è avvenuto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Si dice lesionare una cosa o si dice ledere una cosa?

 

RISPOSTA:

Dipende dalla cosa e da quanto si vuole essere precisi. Lesionare significa ‘danneggiare procurando una lesione’ e può avere come complemento oggetto soltanto cose concrete che possono subire una lesione, ovvero una frattura, come muri, costruzioni, edifici, ma anche ossa e tessuti del corpo, se si intende sottolineare che si siano incrinati o fratturati. Anche ledere significa ‘danneggiare’, ma senza la specificazione della lesione; inoltre si usa raramente con complementi oggetto concreti, che sono perlopiù ossa o organi del corpo. Più frequentemente, invece, questo verbo si usa in riferimento a beni immateriali, come i diritti, la reputazione, la dignità, l’onore, l’interesse, il valore, il benessere, l’orgoglio…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In queste frasi sono giuste le forme che ho usato? Quando ho segnalato due forme qual è la forma giusta?
“Come sai, siamo partite con Carla domenica scorsa, per noi è stata la prima volta nel Sud Italia. Marta era felicissima ma anche preoccupata.
Tutto era perfetto: la citta antica, il mare della costiera. A pranzo mangiavamo sempre panini per non perdere tempo a cena invece sceglievamo ogni sera un ristorante diverso.
La cucina napoleta è saporita, ma a volte un po’ pesante: putroppo una volta Marta si sentiva male, così il giorno dopo ci siamo riposati in albergo. Lì abbiamo conosciuto due ragazzi inglesi. Anche a loro i dintorni e Napoli sono piaciuti molto e hanno detto che era molto emozionante.
La mamma verso mezzogiorno ha cominciato a cucinare e poi ci ha aspettato / aspettava per mangiare tutti insieme. Il pomeriggio era / è stata libera anche lei.
I miei fratellini per pranzo sono tornati a casa per mangiare tutti insieme ma a loro i cannelloni non piacevano / sono piaciuti”.

 

RISPOSTA:

Le forme sono corrette, tranne si sentiva, che è incoerente rispetto a una volta. Con un avverbio che indica un evento singolo, infatti, non si può usare l’imperfetto, ma bisogna usare il passato prossimo. Probabilmente, inoltre, sono piaciuti dovrebbe essere piacevano, anche se l’imperfetto non è scorretto.
Per quanto riguarda le forme dubbie, l’unica scelta sicuramente corretta è ci ha aspettato, perché si riferisce a un evento unico. In tutti gli altri casi, quelli dubbi e gli altri, si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo, a seconda di come si vuole rappresentare l’evento. Se, cioè, l’evento è visto come iniziato e finito in un momento o in un periodo definito, si userà il passato prossimo; se, invece l’evento è visto come un processo che ha avuto una certa durata indefinita, si userà l’imperfetto. Per esempio, per noi è stata la prima volta nel Sud Italia = la prima volta è vista come un’occasione con un inizio e una fine, che coincidono con l’inizio e la fine del viaggio; per noi era la prima volta nel Sud Italia = la prima volta ha avuto una certa durata, ma non è importante quanto lunga (non è importate, quindi, far coincidere la prima volta con il viaggio). A pranzo mangiavamo sempre = avevamo questa abitudine; A pranzo abbiamo mangiato sempre = dall’inizio alla fine del viaggio abbiamo fatto questa scelta. Anche a loro i dintorni e Napoli sono piaciuti molto = hanno maturato quell’idea in quell’occasione; Anche a loro i dintorni e Napoli piacevano molto = in quel momento avevano quell’idea. E così via.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

1) Pensieroso per il suo futuro, che gli appariva fumoso; in ansia per il suo presente il noto imprenditore ha preso la decisione di… (non sarebbe comunque consigliata una virgola prima di il noto imprenditore?)
2) Quando tua madre, sempre attenta all’educazione, avrà perso la pazienza; quando tuo padre, intento com’è a garantirti un futuro, avrà perso le speranze tu sarai chiamato a misurarti con i tuoi errori.
(Non sarebbe anche qui consigliata una virgola prima di sarai chiamato?)

 

RISPOSTA:

Effettivamente nelle frasi è preferibile inserire la virgola tra il complesso di proposizioni anteposto alla proposizione principale e la principale stessa. Quando la principale è preceduta da una o più proposizioni subordinate o da uno o più sintagmi che hanno una funzione simile (in ansia per il suo presente = essendo in ansia per il suo presente), è buona norma inserire la virgola prima della principale stessa. Tale virgola si omette di solito se le proposizioni sono logicamente strettamente collegate alla principale, come accade per le ipotetiche (“Se mi chiami non rispondo”) e le completive (“Che sia simpatico si sa”). Le causali (usate nella frase 1) e le temporali (usate nella frase 2) richiedono di solito la virgola se, per esempio, il loro soggetto non coincide con quello della principale (è il caso della frase 2), oppure se sono implicite (come nella frase 1). Negli altri casi, la virgola può essere omessa: “Quando sono arrivato ho visto tutti”; “Siccome sono generoso ti perdono”. Non è impossibile, però, omettere la virgola anche quando i soggetti sono diversi e le proposizioni sono implicite: “Quando sono arrivato tutti gli invitati mi hanno salutato”; “Essendo generoso ti perdono”. Non è impossibile, altresì, inserire la virgola nei casi che non lo richiedono espressamente: “Quando sono arrivato, ho visto tutti”; “Siccome sono generoso, ti perdono”; e inserirle persino con le ipotetiche e le completive: “Se mi chiami, non rispondo”, “Che sia simpatico, si sa”. Moltissimi casi, insomma, rimangono aperti a entrambe le possibilità; la virgola, allora, si inserirà se si intendono rappresentare le due proposizioni, la subordinata e la principale, come informativamente autonome, quindi dare all’informazione veicolata dalla subordinata un lieve risalto rispetto a quello che avrebbe senza la virgola.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Mi sembra che gran e grande siano quasi sempre interscambiabili, sia al maschile che al femminile. Esempi: un gran silenzio e un grande silenziouna gran donna e una grande donna. Ovviamente, davanti ad una vocale si dirà un grand’uomo, con la d prima dell’apostrofo e non un gran uomo. Idem al femminile: una grand’italiana. Ma con la z e la cosiddetta s impura come la mettiamo? Ho letto recentemente su un quotidiano: un gran spavento. Non si dovrebbe dire e scrivere un grande spavento? E con la z, non penso si possa dire una gran zuppa e un gran zio. Ma allora dovrebbe essere sbagliato anche un gran spavento

 

RISPOSTA:

La risposta “Grande / gran / grand’” dell’archivio di DICO risponde quasi pienamente a questa domanda. Aggiungo qui che nell’Italia settentrionale è del tutto comune l’uso di gran in tutti i contesti, anche davanti a consonanti implicate (come la s impura), non contemplato nell’italiano standard. Non mi sorprenderebbe, pertanto, che l’esempio da lei letto sia opera di uno scrivente di provenienza settentrionale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta?
“Domani chiameremo ognuno di noi questo numero”.
“Domani chiamerà ognuno di noi questo numero”.

 

RISPOSTA:

Il soggetto è ognuno, quindi la forma corretta è chiamerà.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Gradirei sapere quale fra queste due soluzioni è corretta: “Farò del mio meglio perché tu abbia meno problemi POSSIBILE” (con il significato di ‘che è possibile che tu abbia’) oppure POSSIBILI (con il significato di ‘fra quelli che sono possibili in questo caso’).

 

RISPOSTA:

Nella frase abbiamo un superlativo relativo a cui manca l’articolo determinativo, come è normale nel caso di superlativi di avverbi (“Mario parla meno / più velocemente di tutti”) o, appunto, di nomi. In casi come questi il complemento partitivo è spesso superfluo, perché il superlativo va inteso come universale; tale mancanza, però rende il superlativo formalmente identico a un comparativo: meno problemi, infatti, può ben essere un comparativo di minoranza (ad esempio in meno problemi dell’altra volta). Per ovviare a questo problema si preferisce sottolineare l’universalità del costrutto con l’avverbio possibile, che equivale a ‘in assoluto’. Essendo un avverbio, possibile è invariabile; non è raro, però, che i parlanti lo percepiscano come un aggettivo e quindi lo concordino con il nome, se questo è plurale. Il fraintendimento, per la verità, non provoca ambiguità né produce un significato impossibile, per cui non si può condannare completamente. La forma invariabile, comunque, rimane quella più corretta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

“Le convinzioni limitanti da cancellare sono le seguenti: io sono…, io ho…”. Se, invece, dico: “Vanno cancellate tutte le convinzioni limitanti” non sono obbligato ad elencarle. Giusto?

 

RISPOSTA:

La sua idea è corretta. Il participio presente seguenti significa letteralmente ‘che seguono’: ci si aspetta, quindi, che effettivamente le convinzioni seguano; l’aggettivo tutte, invece, può anticipare l’elencazione delle convinzioni, rimandare alle convinzioni limitanti che sono state introdotte precedentemente, o riferirsi a tutte le convinzioni in generale, senza richiedere che esse vengano elencate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporvi questa frase: “Secondo me il problema è male impostato da questo folcloristico personaggio (e dico folcloristico per usare un eufemismo)”.
Ritengo che ci sia qualcosa da ridire su quel dico folcloristico per usare un eufemismo, ovviamente non sul piano del significato pragmatico, bensì su quello della logica espressiva. Sembrerebbe infatti che lo scrivente, spinto dal desiderio, fine a sé stesso, di usare eufemismi, ricorra al termine folcloristico così come sarebbe potuto ricorrere anche ad altri termini, pur di raggiungere la sua finalità: usare eufemismi. Ciò  non avrebbe alcun senso, altera il significato della frase che, ovviamente, esprime l’intenzione di stemperare un insulto e non il piacere di usare eufemismi.
Quindi, per accordare il piano pragmatico con quello logico, sarebbe meglio, a mio avviso, dire e uso un eufemismo quando dico folcloristico

 

RISPOSTA:

La proposizione finale per usare un eufemismo lascia chiaramente intendere che l’uso dell’eufemismo non sia fine a sé stesso, come lei suggerisce, ma sia a sua volta il mezzo per ottenere uno scopo ulteriore, che è quello di non offendere esplicitamente la persona di cui si sta parlando (facendo, quindi, capire che si intende offenderla).Se così non fosse, non ci sarebbe alcuna ragione di precisare lo scopo dell’uso lessicale.
La sua osservazione si ferma al piano del significato superficiale e trascura il senso che l’espressione assume nel contesto in cui è usata; un senso allusivo, implicato. La sua variante della proposizione, si noti, non sposta di molto la questione; se, infatti, interpretassimo la sua proposizione soltanto dal punto di vista del significato otterremmo una descrizione metalinguistica dell’aggettivo folcloristico, del tutto ingiustificata nel contesto (al pari della proposizione finale). L’unico modo per giustificare la sua precisazione è supporre che essa abbia un secondo fine, che torna a essere quello implicato dalla proposizione finale. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi del periodo
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QUESITO:

Vorrei sapere se in italiano è più corretto dire:
“il kit si compone di una macchina e delle capsule”
oppure
“il kit è composto da una macchina e delle capsule”.
Mi è stata contestata la forma adducendo l’esistenza di un complemento oggetto implicito (?).

 

RISPOSTA:

Immagino che la forma contestata sia la prima. Il problema con questa costruzione è che la forma del verbo comporre con il si passivante richiede obbligatoriamenre la preposizione di, che viene a sommarsi all’articolo indeterminativo plurale delle. Si noti, infatti, che delle capsule è un complemento oggetto al pari di una macchina; in questo caso delle non serve da preposizione, ma assolve la funzione, appunto, di articolo intedeterminativo plurale. La frase dovrebbe pertanto risultare così costruita: “il kit si compone di una macchina e di delle capsule”; opzione da evitare per ovvi motivi. Sarebbe possibile sottintendere la seconda preposizione, come è fatto nel suo esempio, ma la costruzione risultante è straniante, perché non si capisce se delle funzioni da preposizione o da articolo.
Per inciso, definire delle capsule un complemento oggetto implicito è fantasioso: questo complemento oggetto è del tutto esplicito. Sottolineo, inoltre, che la costruzione con di sottinteso, per quanto poco chiara, non si può dire scorretta.
Sostituire si compone con è composta consente di aggirare il problema. Al passivo, il verbo comporre ammette tanto di quando da, quindi, scegliendo da, la seconda preposizione si può sottintendere senza cadere nell’ambiguità di delle
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

il punto e virgola è sempre stato il mio segno di punteggiatura preferito: tanto utile, a mio avviso, quanto marginalizzato negli ultimi anni.
Ho elencato una serie di esempi per sapere se il suo impiego sia corretto (tra parentesi, per chiarezza, ho aggiunto, talvolta, il motivo del relativo dubbio):
1) Disse: “Arrivo subito”; quindi, prese le sue cose, chiuse la porta e se ne andò.
(corretto dopo le virgolette di chiusura?)
2) Pensieroso per il suo futuro, che gli appariva fumoso; in ansia per il suo presente, privo di affetti sincero in cui rifugiarsi; il noto imprenditore ha preso la decisione di…
(Si può separare il soggetto dalle apposizioni che lo precedono?)
3) Parlerò ai ragazzi del doposcuola, alle loro mamme, ai loro insegnanti; a tutti coloro che hanno aderito, affinché nessuno ne resti escluso.
4) Mi guardava con occhi tristi, specie quando mi raccontava i miei trascorsi; o con occhi vitali, vispi, tutte le volte che…
5) La scena del martirio, perpetrato dai soldati inumani; la disperazione dei presenti, sconvolti dalla dignità dei martiri; il silenzio colpevole delle autorità colpirono l’opinione pubblica.
(Il predicato coinvolge tre soggetti “la scena”, “la disperazione” e “il silenzio”: è corretto che i primi due ne siano separati dal punto e virgola?)
6) Quando tua madre, sempre attenta all’educazione, avrà perso la pazienza; quando tuo padre, intento com’è a garantirti un futuro, avrà perso le speranze; tu sarai chiamato a misurarti con i tuoi errori.
7) Il suo gesto era freddo; anzi, era gelido.
Per quanto riguarda i casi numero 3, 4, 6 e 7, suppongo che il punto e virgola avrebbe potuto essere sostituito con una virgola; la mia scelta è legata all’intenzione di creare, per così dire, dei blocchi all’interno del periodo, per distinguere e separare sia a livello di ritmo sia a livello sintattico determinati sintagmi o proposizioni. 
In conclusione, nei sette esempi portati alla vostra attenzione, ci sono impieghi errati del segno?

 

RISPOSTA:

Nelle frasi 2, 3, 4, 5, 6 il punto e virgola assolve una delle sue funzioni più tipiche: separare membri di elenchi complessi, ovvero a loro volta internamente divisi in parti, sintagmatiche o proposizionali. In particolare, nella frase 2, a parte il refuso affetti sincero per affetti sinceri, è indebito l’ultimo punto e virgola, perché il noto imprenditore non è un membro dell’elenco, ma è il sintagma che regge tutto l’elenco. Al posto del punto e virgola qui è richiesta la virgola, che chiude la parte incidentale privo di affetti sinceri in cui rifugiarsi. Se non ci fosse l’incidentale non sarebbe richiesto nessun segno; questo è il caso della frase 5, nella quale correttamente si legge il silenzio colpevole delle autorità colpirono…, ed è anche il caso della frase 6, nella quale, però, si fa la scelta sbagliata: avrà perso le speranze; tu sarai chiamato per avrà perso le speranze tu sarai chiamato.
Nella frase 3 evidentemente si separa il membro tutti coloro che hanno aderito dagli altri, ma non si chiarisce, né è autoevidente, perché si operi tale separazione. Qui è preferibile o continuare con la virgola o chiarire qual è la ragione della distinzione. Per esempio, se la ragione della distinzione è che il membro tutti coloro che hanno aderito raccoglie in sé tutti i membri precedenti si può scrivere … ai ragazzi del doposcuola, alle loro mamme, ai loro insegnanti; a tutti coloro che hanno aderito, insomma, affinché… In questo modo il punto e virgola assume un’altra delle sue tipiche funzioni, quella di precedere un cambiamento di direzione del discorso, per esempio il passaggio da un elenco alla sua sintesi rappresentata dal segnale discorsivo insomma. La stessa funzione riconosciamo nella frase 7, nella quale invece che insomma c’è anzi, che segnala comunque un cambio di direzione del discorso. In questa frase la sostituzione del punto e virgola con la virgola ridurrebbe la forza oppositiva di anzi, facendo apparire la precisazione come meno convinta, quindi suggerendo che freddo non sia da dimenticare completamente come opzione per descrivere lo sguardo. Inoltre, se si usasse la virgola la seconda virgola risulterebbe fuori luogo, perché renderebbe incidentale il solo segnale discorsivo: dovrebbe, pertanto, essere eliminata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“I sovranisti, accortisi che manifestare senza mascherina, fare selfie a stretto contatto con la gente e urlare tutto il bene possibile nei confronti degli italiani con gli occhi fuori dalle orbite non avrebbero / avrebbe più pagato, hanno cavalcato il malcontento per alimentare lo scontro sociale”. 
Il correttore mi dice avrebbe, ma è giusto?

 

RISPOSTA:

Il soggetto del verbo in questione è rappresentato dalle tre proposizioni soggettive ruotanti intorno ai verbi manifestarefareurlare, quindi dovrebbe essere coniugato alla terza plurale. Quando il soggetto del verbo è rappresentato, come in questo caso, da più di una proposizione soggettiva, però, i parlanti tendono a preferire la terza singolare, probabilmente perché non associano le proposizioni facilmente come associano i sintagmi nominali. La terza plurale rimane comunque la scelta più corretta.
Va aggiunto che la terza singolare è anche possibile se si vogliono rappresentare le tre azioni come un tutt’uno, in quanto aspetti diversi dello stesso comportamento. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“…è autorizzato a portare armi del tipo che verrà stabilito dal prefetto”.
La locuzione “portare armi del tipo…” sta ad indicare un solo tipo di armi o più di uno?
Il prefetto deve stabilire un solo tipo di arma o più stando all’analisi linguistica della frase sopra citata?

 

RISPOSTA:

La frase è costruita in modo da non permettere una risposta univoca. Sebbene del tipo rimandi a un solo tipo, il plurale indeterminato armi contrasta la restrizione apportata dal singolare tipo, perché può riferirsi sia al numero delle armi, che così sarebbe inteso come indeterminato, ma vincolato allo stesso tipo, sia al numero e insieme al tipo delle armi. Ovviamente, armi di tipo diverso di un solo tipo non è un’interpretazione logica, ma questo non obbliga ad assumere come unica interpretazione possibile la prima (un numero indeterminato di armi dello stesso tipo). Le armi, infatti, hanno tipi e sottotipi (ad esempio un tipo di arma come la pistola ha il sottotipo semiautomatico), quindi armi può ben riferirsi ai tipi (pistole, fucili, mitragliatrici…) e del tipo essere usato nel senso di ‘del sottotipo’ (semiautomatico, automatico, a pompa…). Il nome tipo, infatti, è generico e non obbliga a una interpretazione univoca, ma può anche indicare un sottotipo.
Se propendiamo per la prima interpretazione, il prefetto dovrà indicare un solo tipo di arma; potrà, inoltre, scegliere se limitarsi a indicare il tipo senza specificare il sottotipo, oppure indicare sia il tipo che il sottotipo. Se propendiamo per la seconda interpretazione, il prefetto potrà indicare più tipi di armi e dovrà specificare un sottotipo all’interno di ogni tipo. La formulazione, insomma, lascia aperte le seguenti possibilità: un solo tipo e un solo sottotipo di arma; un solo tipo ma qualsiasi sottotipo; diversi tipi, ma ciascuno di un preciso sottotipo. In ogni caso, il numero delle armi autorizzate sarà indeterminato.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se molti di noi non sanno ancora con chi trascorreranno / trascorrerà le feste, altri cittadini, invece, sanno già molto bene con chi non le passeranno / passerà: sono i familiari delle persone decedute per Covid.

 

RISPOSTA:

Il soggetto di entrambe le proposizioni relative è loro, che rimanda nel primo caso a molti, nel secondo a altri cittadini. La persona del verbo all’interno delle proposizioni relative, pertanto, deve essere la terza plurale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se I due termini sollecito e solerte possono essere usati come sinonimi nel duplice senso di “eseguito senza indugi e, contemporaneamente, con cura, con precisione” oppure se, come suggerisce la radice etimologica, è preferibile operare una distinzione, cioè attribuire a solerte il solo significato di “eseguito con cura” (non valutando, in questo caso l’aspetto temporale, in accordo con l’etimologia composta, se non vado errato, da sollus ars) e a sollecito il solo significato di “concluso in breve tempo” ( in questo caso tralasciando l’aspetto qualitativo dello stesso, in accordo con l’etimologia, che dovrebbe essere riferita alle parole latine sollus citus).

 

RISPOSTA:

Innanzitutto va detto che i due aggettivi sono più frequentemente usati in riferimento alle persone che agiscono, non alle azioni eseguite. 
Detto questo, solerte e sollecito sono solo in parte sinonimi, perché è possibile individuare sfumature di significato che appartengono soltanto a uno dei due aggettivi e non all’altro. Sollecita è una persona che svolge un determinato compito o un’azione con cura e impegno; solerte, invece, è una persona che agisce con impegno in tutte le attività che sono proprie del suo ruolo. Ad esempio, uno studente solerte è uno studente che si impegna in tutte le attività proprie di uno studente; uno studente sollecito è uno studente che ha svolto un compito qualsiasi (non per forza legato al ruolo di studente) velocemente e con cura. Infatti ha perfettamente senso dire “Mario è uno studente solerte”, molto meno “Mario è uno studente sollecito”; allo stesso modo, ha senso dire “Mario è stato sollecito nell’aiutare il suo compagno” (cioè ‘è stato rapido e premuroso’), molto meno “Mario è stato solerte nell’autare il suo compagno”.
Si badi, in conclusione, che nell’aggettivo sollecito è contenuto sia il tratto [+ veloce] sia il tratto [+ con cura]; è, del resto, facile che i due tratti si fondano e si confondano (si pensi anche alla parola premura, che significa tanto ‘cura’ quanto ‘fretta’). Questa confusione è meno evidente, per quanto comunque percepibile, in solerte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se queste tre espressioni sono corrette ed eventualmente quale o quali sono errate: “In questo caso (agendo così) faresti la cosa peggiore che tu possa, che tu potessi o che tu potresti fare”.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo presente possa è perfettamente regolare ed è la forma più attesa in questo contesto. Il congiuntivo imperfetto potessi, invece, non è giustificabile, perché instaurerebbe un rapporto di contemporaneità nel passato rispetto a un verbo (faresti) che è presente. Ci aspetteremmo il congiuntivo imperfetto in dipendenza da un passato, per esempio avresti fatto la cosa peggiore che tu potessi. Il condizionale presente potresti, infine, è una scelta possibile, come alternativa a possa. Rispetto a quest’ultima forma, il condizionale aggiunge una sfumatura di condizionalità, cioè rappresenta l’azione come condizionata a un’altra. Comunque, dal momento che la condizionalità è già espressa da faresti, ribadirla anche con potresti risulterebbe ridondante.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Spesso, nelle vostre spiegazioni è stato citato il valore epistemico del futuro anteriore, per indicare un fatto di cui non si sia completamente certi. In proposizioni oggettive che siano incardinate su sintagmi quali essere sicurocertoconvinto ecc. è ammissibile scegliere il futuro anteriore, oppure si verrebbe a creare una contraddizione logica (se sono convinto di qualcosa, per quale motivo dovrei costruire la frase con un tempo che indica l’opposto?).
“Sono certo che Michele avrà capito ogni cosa”.
Per concludere, indipendentemente dall’adeguatezza del futuro anteriore in costruzioni del genere, vorrei domandarvi se, in questi casi, sia possibile usare tanto il congiuntivo quanto l’indicativo, con propensione verso il primo dei due quando si voglia aumentare il livello di formalità. Il tema è affrontato di frequente nelle vostre risposte; tuttavia, mi pare che in letteratura (e in essa includo anche autori blasonati) vi sia una netta prevalenza (per non dire una quasi esclusività) del modo indicativo. In altre parole, in anni di lettura difficilmente mi sono imbattuta in esempi quali “Sono sicuro che Tizio sia a casa”; “Ero certa che Caio non volesse parlarne”, ecc. Nelle frasi negative, invece, le occorrenze con il congiuntivo sono indubbiamente meno insolite, anche se, mi pare, inferiori rispetto a quelle con l’indicativo.
Personalmente, ho sempre preferito il congiuntivo e continuerò a preferirlo, nonostante, alle volte, abbia l’impressione che questa scelta sia percepita dagli altri come un errore.

 

RISPOSTA:

Una oggettiva con il futuro anteriore retta da essere sicuro o simili è sintatticamente possibile e semanticamente giustificabile se il parlante intende l’essere sicuro retoricamente, ovvero come equivalente a sperare. Ecco un esempio letterario:
“Vi renderete conto da voi stesso come il mio lavoro sia stato pressante, senza tregua, senza respiro, e m’abbia preso tutto. Sono sicuro che avrete capito e agito di conseguenza” (Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli, 1948).
Per quanto riguarda la scelta del modo in proposizioni rette da espressioni come essere sicuro e simili, la sua percezione della preferenza per l’indicativo, anche in letteratura, corrisponde probabilmente al vero, sebbene io non disponga di dati statistici a sostegno di tale opinione. Condivisibile è anche l’idea che la frequenza del congiuntivo aumenti se l’espressione reggente è negata. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

La punteggiatura del seguente periodo è corretta?
“L’estate aveva anche scatenato l’ansia di un’economia aggressiva e impaziente, intenzionata a riavviare incondizionatamente consumi e incassi, penalizzati dalle restrizioni governative messe in atto per arginare i contagi da covid”.

 

RISPOSTA:

Corretta. Come sempre con la punteggiatura ci sono delle alternative, che però modificherebbero il senso della frase. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sull’analisi delle seguenti frasi:
1. Il poeta nacque a Chiaravalle (compl. di origine o stato in luogo), una cittadina (apposizione) delle  Marche (c. denominazione).
2. Venite a pranzo (stato in luogo) da me (moto a luogo).
3. Dove (c. avverbiale moto a luogo) andate (p. verbale) addobbati (attributo) in quel modo (c. di modo).

 

RISPOSTA:

1. A Chiaravalle = c. di stato in luogo (sarebbe origine se fosse è originario di Chiaravalle viene da Chiaravalle); delle Marche = c. di specificazione, perché indica la relazione che intercorre tra la cittadina e le Marche. Il complemento di denominazione indica il nome di un luogo, ma è chiaro che la cittadina non si chiama le Marche. Sarebbe complemento di denominazione nacque nella cittadina di Chiaravalle.
2. A pranzo = c. di fine. 
3. In quel luogo = complemento di modo più attributo.
Il resto va bene
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto il periodo “Una preoccupazione che ha spinto vari governatori a schierare la guardia nazionale, temendo scontri se la sentenza non sarebbe stata considerata esemplare.”?

 

RISPOSTA:

Il periodo è corretto, Un dubbio può nascere dal collegamento tra la proposizione condizionale introdotta da se e la reggente. Normalmente le proposizioni subordinate dipendono dal verbo della reggente, tranne la proposizione relativa, che dipende da un sintagma nominale presente nella reggente. La condizionale se la sentenza…, però, dipende non dal verbo temendo, bensì dal sintagma nominale scontri, e questo la rende un po’ forzata, per quanto non scorretta. Questa lieve forzatura si può superare in due modi, o trasformando scontri in una proposizione oggettiva (temendo che ci sarebbero stati scontri se la sentenza…), in modo che la condizionale si colleghi al verbo ci sarebbero stati, oppure sostituendo se con nel caso in cui, così da avere una condizionale che sintatticamente è una relativa il cui pronome introduttivo, in cui, è collegato al sintagma nominale nel caso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei sapere il significato o la funzione di la nell’espressione: “Me la passo bene”. E perchè è femminile? S’intende la vita? Lo stesso discorso con “Me la cavo”. E ancora: “Se la canta e se la suona”,  “Non
prendertela”. Questo la compare spesso in tante frasi idiomatiche della nostra lingua. Da dove deriva? Sostituisce che cosa?

 

RISPOSTA:

Nei verbi da lei citati (passarselacavarselacantarselasuonarselaprendersela) il pronome la non ha un valore anaforico preciso; non rimanda, cioè, sostituendolo, a un altro nome già introdotto o che gli interlocutori conoscono in anticipo. Lo stesso vale per il pronome si, anch’esso coinvolto nella formazione di tali verbi come la (passarsela). Questi pronomi servono a modificare il significato del verbo base in modi molto diversi, difficili da ricostruire. I verbi costruiti con -sela-sene (intendersenefregarseneuscirsene), ma anche con -si (portarsi gli anni), -ci (vedercivolercistarci) e altri ancora, in cui i pronomi non svolgono la loro funzione propria ma modificano il significato del verbo stesso, sono detti procomplementari. In questi verbi i pronomi conferiscono al verbo base una sfumatura “situazionale” e aggiungono l’idea che il soggetto abbia un interesse speciale nel processo inteso dal verbo. Passarsela, per esempio, potrebbe essere spiegato come ‘trascorrere una certa situazione nella quale si è molto coinvolti’. Come detto, però, non è possibile stabilire un significato preciso valido per ogni complesso pronominale aggiunto a un verbo procomplementare. Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ne ho sentito parlare” è giusto dire che parlare è complemento oggetto?

 

RISPOSTA:

Non esattamente, ma ci è andata molto vicino. Alcuni verbi, infatti, possono reggere un complemento oggetto oppure una intera proposizione che ha la stessa funzione, e che prende il nome di proposizione oggettivaSentire è uno di questi verbi (insieme a direpensaresaperevedere e molti altri): può reggere un complemento oggetto (ho sentito un rumore) o una proposizione oggettiva (ne ho sentito parlareho sentito che ti sei sposato). Come si può vedere, la differenza tra un complemento oggetto e una proposizione oggettiva sta nella composizione: il complemento oggetto è un sintagma nominale, cioè un nome o un gruppo di parole che ruota intorno a un nome (ad esempio un rumore); la proposizione oggettiva è un verbo o un gruppo di parole che ruota intorno a un verbo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Nome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Ne trassi l’impressione che, se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche cella imperiale, Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo colto da morte accidentale e subitanea”
(Da Il nome della rosa). 
Nel brano riportato, qual è la funzione della proposizione se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche cella imperiale?
Si tratta di una proposizione oggettiva?

 

RISPOSTA:

Non si tratta di una oggettiva, anche se è subordinata a una oggettiva (che Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo). Si tratta, invece, di una proposizione comparativa; potremmo, infatti, sostituire se con così come o nel modo in cui o simili. La congiunzione se aggiunge al significato della proposizione una sfumatura epistemica di ipotesi, cioè lascia intendere che il parlante non sia del tutto certo dell’informazione contenuta nella proposizione. 
L’uso comparativo della congiunzione se è molto insolito, come anche quello causale, per il quale si veda la risposta n. 2800840 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Quale affermazione è corretta tra “Puoi scegliere cosa fare” e “Puoi scegliere che cosa fare”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono perfettamente corrette. Che cosa è più tradizionale e formale. Un’ulteriore alternativa accettabile è che fare, che sarebbe la variante più informale tra le tre. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Qual è la più corretta di queste opzioni? Propendo per gli (resto è maschile), ma anche le, riferito a umanità, puo’ essere foneticamente, ma non so quanto grammaticalmente, accettabile. Possibile siano corrette entrambe? Ecco la frase in oggetto: “Ampio mandato al resto dell’umanità di occuparsi di quello che gli / le pare”. 

 

RISPOSTA:

Entrambi i pronomi sono accettabili, in quanto il riferimento può essere tanto a resto quanto a umanità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

– Ripensai a ciò che avevo udito: se non era un sogno, ma la realtà, allora avevo sognato.
Sarà che a me, personalmente, l’indicativo imperfetto in costrutti ipotetici non convince e tendo a escluderlo (mi vengono sempre in mente, come un automatismo i se lo sapevo, te lo dicevo); ma, tornando all’esempio, vi chiedo se sarebbe stato possibile sostituire era con fosse stato.
– Se era veramente questa la situazione, non le restava che fare ammissione di colpa.
Come sopra: si potrebbe migliorare la frase sul piano della formalità, sostituendo l’imperfetto?

 

RISPOSTA:

Premetto che la prima frase sembra complessivamente incoerente (se non era un sogno allora avevo sognato). Non avendo a disposizione un contesto più ampio, però, sorvolerò su questo aspetto.
La sostituzione di era con fosse stato è possibile; oltre a innalzare la formalità, però, questa scelta cambierebbe leggermente il significato della frase. L’indicativo imperfetto, infatti, riesce a coprire le funzioni del congiuntivo trapassato pur rimanendo indicativo imperfetto, quindi continuando a svolgere anche quelle previste per questo tempo dalla grammatica standard. In questo modo se non era un sogno signfica contemporaneamente ‘se non fosse stato un sogno’ e ‘se non era un sogno’, ovvero ‘se in quel momento io non stavo sognando’. Questo secondo significato, inscindibile dal primo nella frase con era, viene ovviamente perso nella frase con fosse stato.
Nella seconda frase la sostituzione è possibile tecnicamente, ma costerebbe probabilmente il tradimento delle reali intenzioni comunicative dell’emittente. Se era veramente questa la situazione, infatti, non è una vera proposizione ipotetica, ma è una causale travestita da ipotetica (se era = visto che era). Di questo tipo di proposizioni si parla nella risposta n. 2800840. Se sostituiamo era con fosse stata la frase continua a essere corretta, ma il significato della proposizione cambia da causale a ipotetico, modificando sostanzialmente il senso di tutta la frase.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Tempo fa una persona di mia conoscenza mi ha detto:
– Se un giorno mio marito mi lasciasse, mi ricorderei dei momenti più belli, non di quelli che avrebbero causato la rottura.
Il condizionale composto, lì per lì, non mi ha suscitato alcuna stranezza, reputandolo subito come l’unica scelta adeguata: rappresentare l’anteriorità di un’azione espressa con il condizionale presente (ricorderei).
In un secondo momento, però, ho sospettato che quella coniugazione si sarebbe potuta interpretare anche come posteriore (una sorta di futuro nel passato che, ad ogni buon conto, non so se possa essere applicata anche al caso specifico).
Se fossi stata io a scrivere, o a pronunciare, la frase, avrei scelto il congiuntivo trapassato. 
Sono corrette tutte e due le scelte e quali sono le differenze a livello di messaggio?

 

RISPOSTA:

Il condizionale passato è senz’altro corretto, proprio perché descrive un evento precedente a quello della reggente, che è al condizionale presente. Possiamo confermare questa idea con un test: se sostituiamo l’indicativo futuro ricorderò a ricorderei, al posto di avrebbero causato useremo avranno causato, ovvero il futuro anteriore. Molto improbabile è l’interpretazione di avrebbero causato come futuro nel passato, perché manca il punto di riferimento passato rispetto al quale l’evento sarebbe futuro: tutto il contesto, infatti, è futuro.
La scelta del congiuntivo trapassato in sostituzione del condizionale passato è possibile, con un piccolo cambiamento di significato. Non possiamo usare il congiuntivo trapassato come alternativa all’indicativo e al condizionale, perché in questo caso esso avrebbe la funzione di descrivere un evento precedente a un altro evento passato e, come detto, non ci sono eventi passati nella frase. Possiamo, però, usarlo come modo della proposizione ipotetica irreale, perché con questa funzione esso indica soltanto che l’evento è o non è precedente a un altro, di cui è la condizione, sia questo passato, presente o futuro. In questo secondo caso, la frase sarebbe interpretata come … mi ricorderei dei momenti più belli, non di quegli altri, se quegli altri avessero causato la rottura. Come si può vedere, in questo modo si sottolinea il rapporto di condizione-conseguenza tra la responsabilità dei momenti nella rottura e il non ricordare i momenti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Quando si scrive una lettera formale Cordiali Saluti va scritto con le lettere iniziali maiuscole oppure no?
Ad esempio: 
“Le porgo cordiali saluti” oppure “Le porgo Cordiali Saluti” ?

 

RISPOSTA:

Non c’è una regola precisa sull’uso delle maiuscole in italiano. In generale è frequente che la maiuscola venga usata con nomi comuni come PresidenteDirettore / DirettriceSindaco / Sindaca e tutti gli altri che identificano cariche pubbliche e posizioni di potere. Sulla base di questo uso si potrebbe credere che la maiuscola renda un’espressione come Cordiali Saluti più ossequiosa, quindi più formale, ma ritengo che questo sia un eccesso e si possa tranquillamente evitare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase seguente è corretta?
“Essi vorrebbero sapere se avesse intenzione di…”
O la frase corretta è:
“Essi vorrebbero sapere se avrebbe intenzione di…”

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, ma hanno due significati diversi. Il congiuntivo imperfetto è uno dei tempi che esprimono l’anteriorità dell’evento rispetto a un altro evento presente; nella prima frase, quindi, i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno precedentemente avesse intenzione di… Il condizionale presente, invece, esprime contemporaneità rispetto al presente, quindi nella frase i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno nel momento stesso ha intenzione di… 
Un modo per far risaltare il diverso rapporto temporale tra la subordinata e la reggente nelle due frasi è sostituire il congiuntivo nella prima e il condizionale nella seconda con l’indicativo, che non modifica sostanzialmente il significato delle frasi e mantiene, appunto, lo stesso rapporto temporale:
“Essi vorrebbero sapere se aveva intenzione di…”
“Essi vorrebbero sapere se ha intenzione di…”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In questa frase chiamato è corretto o l’accordo va al femminile?
“Valanga di nuvole chiamato anche perfetto collasso delle nuvole”. 

 

RISPOSTA:

Il participio passato di un verbo con ausiliare essere dovrebbe concordare sempre con il soggetto. Non è raro l’accordo con il nome del predicato: “La lettura è stata / stato il mio passatempo preferito per molto tempo”. 
Nei casi in cui il participio passato fa parte di un tempo composto (come nell’esempio appena fatto da me) l’accordo con il nome del predicato è una forzatura ma non si può considerare un vero e proprio errore.
Nella sua frase, però, il participio passato è autonomo, e rappresenta una proposizione relativa implicita: chiamato = che è chiamato. In questo contesto, la concordanza con valanga è decisamente più raccomandabile (e, di conseguenza, la concordanza con il nome del predicato è sconsigliabile), perché la relativa si aggancia chiaramente al soggetto della reggente, appunto valanga, di cui rappresenta un ampliamento.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale tempo del congiuntivo bisogna adoperare quando siamo alle prese (direttamente o, soprattutto, indirettamente) con il condizionale presente di verbi di volontà, desiderio, eccetera?
In frasi indipendenti mi pare che il problema del tempo giusto non si ponga; è assodato che vorrei che fosse è corretta come vorrei che sia, nonostante quest’ultima forma sia insolita.
La mia incertezza si concentra sul tempo più opportuno in presenza di subordinate dipendenti da reggenti rette dal condizionale presente. Ho notato che il parlante medio tende a scegliere, o comunque a favorire, il congiuntivo imperfetto; mentre per me la questione non è di così immediata soluzione.
Non ho dubbi riguardo a questa costruzione:
1 – “Vorrei che aveste ricevuto l’informativa” (nonostante credo si possa dire anche abbiate ricevuto).
Le costruzioni sottostanti, invece, mi creano un po’ più di esitazione:
2 – “Volevo (intesa come variante semantica di vorrei) accertarmi che abbiate ricevuto / aveste ricevuto l’informativa”.
3 – “Volevo escludere che questi pettegolezzi siano filtrati / fossero filtrati”.
Se entrambe le soluzioni proposte negli esempi fossero valide, qual è la differenza d’uso tra le due?
Domando, per concludere, scostandomi un attimo dal focus, se in una frase come quella sotto indicata sia preferibile il congiuntivo o l’indicativo.
4 – “Gli studi dimostrano che il farmaco abbia / ha efficacia contro il virus”.

 

RISPOSTA:

Il condizionale presente si comporta, ai fini della consecutio temporum con le proposizioni completive, come l’indicativo presente, quindi penserei che = penso che. Ne consegue che per rappresentare un evento contemporaneo alla reggente la proposizione completiva vada costruita con il presente: “Penserei (= penso) che tu sia stupido”; per rappresentare un evento precedente, invece, la completiva richiede il passato: “Penserei (= penso) che tu sia stato stupido”, oppure l’imperfetto, se l’evento si è prolungato nel tempo: “Penserei (= penso) che tu fossi stupido”. Con verbi che esprimono volontà, necessità, opportunità, la consuetudine (talmente radicata da avere quasi la forza di una regola) è che per esprimere la contemporaneità si usi l’imperfetto: “Vorrei che tu fossi più cortese”, e per esprimere l’anteriorità si usi il trapassato: “Vorrei che tu fossi stato più cortese”. Se nella reggente al posto del condizionale presente si usa l’indicativo imperfetto con funzione di condizionale presente la consuetudine rimane valida: “Volevo (= vorrei) che tu fossi più cortese”. 
Per quanto riguarda la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo nell’oggettiva la rimando alle tante risposte sull’argomento presenti nell’archivio di DICO. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

È vero che la frase “a me non me ne frega niente” suona male, ma l’ho trovata in molti libri e volevo sapere se fosse totalmente errata.

 

RISPOSTA:

La frase è molto comune e non si può dire totalmente scorretta, sebbene al suo interno riconosciamo alcune forzature grammaticali. Innanzitutto notiamo la ridondanza pronominale a me… me, dovuta alla dislocazione a sinistra del sintagma preposizionale a me con conseguente enfatizzazione dello stesso. Il sintagma, cioè, risalta, è più “forte”, perché è sistemato all’inizio della frase (a sinistra) e può essere pronunciato con una intonazione particolare e una pausa che lo separa ulteriormente dal resto. Una seconda forzatura riguarda il verbo fregarsene. Questo verbo è formato sulla base di fregare, a cui si aggiungono i pronomi si (nella forma se) e ne. L’unione di queste parti produce un cambiamento non solo della forma, ma anche del significato del verbo base: fregarsene, infatti, ha un significato completamente diverso da fregare. I verbi come fregarsene (andarsenecavarselaintenderseneintenderselavederselamettercivolerci…), detti procomplementari, sono un po’ ai margini della grammatica ufficiale, perché i pronomi che ne fanno parte hanno una funzione non chiara, e perché hanno significati “espressionistici”, nel senso che veicolano forti sfumature emotive (si pensi alla forza espressiva di me ne vado rispetto a vado via o a quella di me la sono cavata rispetto a ho superato quella difficoltà).
Le forzature abbassano il livello di accettabilità della frase, quindi la rendono particolarmente adatta a contesti comunicativi privati, in cui è più importante manifestare le emozioni che seguire passo passo le regole grammaticali standard. Al contrario, in contesti pubblici, specie scritti, si può usare una variante come non sono affatto interessato / interessata o simili.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Ho letto in un libro questa frase: “Era mezzo morta di paura”. Io direi: “Era mezza morta di paura”, essendo mezza un aggettivo. Mi è stato detto che mezzo può essere usato anche come avverbio e di conseguenza l’espressione mezzo morta potrebbe essere considerata corretta. Lo conferma?

 

RISPOSTA:

Nell’espressione da lei citata mezzo è chiaramente un avverbio, quindi deve rimanere invariato a prescindere dal genere dell’aggettivo che accompagna. Funziona, cioè, come moltomolto buonamolto buone ecc. Che sia un avverbio e non un aggettivo è facilmente dimostrabile: mezza morta, infatti, non funziona né sintatticamente né semanticamente. Dal punto di vista sintattico, due aggettivi predicativi in sequenza non separati da una congiunzione o da una virgola sono molto strani: “- Com’era la macchina che hai visto? – Era rossa veloce”; dal punto di vista semantico, l’aggettivo mezzo significa ‘diviso a metà’, e non credo che la signora soggetto della frase fosse divisa a metà, oltre che morta di paura. Piuttosto, la signora era parzialmente morta di paura, ovvero mezzo = parzialmente
Nella lingua d’uso si possono incontrare espressioni come mezza mortamezza matta o simili perché l’avverbio mezzo è molto più raro dell’aggettivo mezzo, quindi il parlante è indotto a credere che mezzo sia sempre un aggettivo. Signora mezza morta, però, equivale, lo ripeto, a *bicicletta molta vecchia (al posto di molto vecchia).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Il gatto è spaventato” è spaventato è predicato verbale o nominale?

 

RISPOSTA:

In questa frase il predicato è nominale, perché esprime uno stato proprio del soggetto. Se aggiungessimo un complemento di agente o di causa efficiente (è spaventato da un rumore) il predicato diventerebbe verbale, perché la frase descriverebbe un evento subito dal soggetto. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Una collega mi contesta la correttezza della seguente frase: “Anche se Daniela riuscirebbe a vendersi bene al colloquio, non è così facile per lei trovare un nuovo lavoro”.
Quello che voglio dire è che il soggetto della prima frase è sicuramente in grado di vendersi bene al colloquio: è una certezza e non un’ipotesi. La collega mi dice di usare il congiuntivo (se riuscisse a vendersi), ma allora sarebbe un’ipotesi e non più qualcosa che io ritengo certamente vero. Chi ha ragione?

 

RISPOSTA:

La situazione è più complicata di come sembri. 
La proposizione concessiva sintatticamente integrata nella stessa frase della reggente non ammette il modo condizionale, al pari della proposizione ipotetica. Da questo punto di vista sembrerebbe aver ragione la sua collega, che, però, sbaglia nel proporre come soluzione la sostituzione del condizionale con il congiuntivo (riuscirebbe riuscisse); così facendo, infatti, si stravolgerebbe il senso della frase, trasformando un’affermazione incerta (anche se riuscirebbe) in una concessione (anche se riuscisse). La soluzione, invece, è la separazione della concessiva dal resto della frase attraverso il punto fermo (o al limite il punto e virgola): “Non è così facile per Daniela trovare un nuovo lavoro. Anche se riuscirebbe a vendersi bene al colloquio”. In questo modo la concessiva diviene una pseudo-subordinata, ovvero una proposizione indipendente che sembra una subordinata. In quanto indipendente, può prendere qualsiasi modo e tempo utile a esprimere quello che l’emittente intende, senza vincoli sintattici. 
L’espressione anche se, quindi, ha la funzione di locuzione congiuntiva all’interno della stessa frase, di connettivo (o segnale discorsivo) se introduce una frase autonoma.
Proprio qui sta il suo errore, nell’aver usato il connettivo come una congiunzione. Si tratta di un errore meno grave di quello che scaturirebbe dalla sostituzione del condizionale con il congiuntivo, perché nella forma usata da lei il senso della frase è ricostruibile dal ricevente con un po’ di sforzo, mentre nella forma proposta dalla sua collega il senso sarebbe irrimediabilmente falsato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vi sarei grata se mi chiariste un dubbio relativo all’impiego di due futuri anteriori all’interno dello stesso periodo.
1a) «Che cosa gli sarà passato per la testa – mi domando –, quando (se) avrà capito che non gli avrei dato una nuova opportunità».
A livello, per così dire, di messaggio, tenderei a confermare questa soluzione; non so tuttavia se sia ineccepibile dal punto di vista sintattico.
Un’alternativa potrebbe essere:
1b) «Che cosa gli sarà passato per la testa – mi domando –, quando (se) ha capito che non gli avrei dato…».
Questa mi pare più lineare, ma il passato prossimo tradisce a mio avviso il senso che si dovrebbe ascrivere alla proposizione (valore maggiormente ipotetico): «quando avrà capito (non è detto che abbia capito), chissà che cosa gli sarà passato per la testa (valore epistemico del futuro anteriore)».
Altro esempio, stesso dubbio:
2) «Che cosa avranno pensato le ragazze che lo avranno visto passare».

 

RISPOSTA:

Innanzitutto sottolineo che il futuro anteriore nelle sue frasi ha valore epistemico, non temporale; esso, cioè, esprime l’incertezza del parlante circa il contenuto della frase, non situa l’evento nel futuro; al contrario, l’evento è situato nel passato: sarà passato per la testa = ‘forse è passato per la testa’; avranno pensato = ‘forse hanno pensato’. Ora, se la prima parte sia della frase 1 sia della frase 2 esprime effettivamente incertezza, la seconda parte dovrebbe costituire l’evento fattuale rispetto al quale l’emittente eprime quell’incertezza; per questo motivo, questa parte va costruita in entrambe le frasi con l’indicativo passato prossimo, che dal punto di vista epistemico esprime la fattualità propria dell’indicativo e temporalmente colloca l’evento nel passato. 
In astratto non è vietato costruire tutta la frase al futuro anteriore, per manifestare incertezza sia sul primo sia sul secondo evento; in questo modo, però, la frase diviene molto densa informativamente, perché mette insieme un dubbio circa un altro dubbio (forse ha pensato qualcosa quando forse ha capitoforse hanno pensato qualcosa quando forse l’hanno visto passare).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice: “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andava” oppure “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andasse”?

 

RISPOSTA:

Si può dire in entrambi i modi: normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo, ma quando dipende da una proposizione al congiuntivo può essere “attratta” nell’orbita del congiuntivo. Non c’è nessuna differenza semantica tra le due varianti, ma quella con il congiuntivo è più formale dell’altra (come sempre avviene nei casi in cui sia possibile usare sia l’indicativo sia il congiuntivo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Registri
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QUESITO:

Da vocabolario Treccani: “Retrostante – Di luogo o ambiente, che sta dietro a un altro”. Gli esempi lasciano intendere che il luogo o ambiente si debba trovare dietro un altro, ma sullo stesso piano o livello (es. la stanza R.il prato R. la casa).
Vorrei sapere se si può considerare retrostante un luogo/ambiente che non si trova sullo stesso piano/livello dell’altro luogo/ambiente preso a riferimento (es. un balcone retrostante un altro, ma i due balconi sono su piani differenti).

 

RISPOSTA:

Il significato dell’aggettivo retrostante punta l’attenzione su una sola coordinata spaziale, avanti-dietro, e trascura le altre, quindi non esclude che l’elemento così qualificato si trovi su un piano diverso rispetto all’altro elemento che fa da riferimento. Ovviamente, se la posizione relativa dei due elementi non è ulteriormente chiarita, il ricevente potrebbe presumere che la rappresentazione di tale posizione non richieda altri dettagli, e quindi che questi si trovino sullo stesso piano.
Segnalo, a margine, che retrostante può essere usato assolutamente (la cucina retrostante); quando ha un elemento di riferimento, invece, può essere costruito direttamente (retrostante la casa), ma è più frequente con la preposizione a (retrostante alla casa).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La proposizione relativa, se non erro, è molto flessibile nella selezione dei tempi verbali.
Vorrei sapere se le costruzioni indicate di seguito – certamente diverse sul piano semantico – sono tutte valide dal punto di vista sintattico.
Se tu entrassi in una stanza alla quale io…
1. non avessi avuto accesso
2. non abbia avuto accesso
3. non abbia accesso
4. non avessi accesso
5. potrei non avere/aver avuto accesso
6. possa non avere/aver avuto accesso
7. potessi non avere/aver avuto accesso
che cosa faresti?
Avrei infine alcune domande aggiuntive:
quando usare non avessi avuto e quando non abbia avuto?
Per le varianti 6 e 7 sarebbe eventualmente consigliato la trasformazione del verbo potere da affermativo a negativo (non possa aver…; non potessi aver…)?

 

RISPOSTA:

Le varianti della frase sono tutte possibili.
Il trapassato (non avessi avuto accesso) indica che l’evento è avvenuto prima dell’entrarese tu entrassi… alla quale io non avessi avuto precedentemente accesso… Il passato (non abbia avuto accesso) indica soltanto che l’evento è passato (cioè precedente al momento dell’enunciazione, che è adesso), quindi potrebbe essere contemporaneo, precedente o successivo all’entrare. Proprio la genericità, comunque, oltre alla possibilità di usare il trapassato, indurrebbe a escludere l’interpretazione precedente, favorendo quella contemporanea o quella successiva.
Le espressioni possa / potessi non aver avuto non possa / potessi aver avuto sono tutte possibili, ma non sono equivalenti: trascurando il tempo, la prima coppia valorizza il significato eventuale del verbo potere (possa non aver avuto = ‘forse non ho avuto’); la seconda coppia valorizza il significato di possibilità (non possa aver avuto = ‘non mi è stato possibile avere, mi è stato impedito avere’).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporre questa frase: “Se fossi stato al telefono mentre qualcuno SUONAVA / AVESSE SUONATO alla porta, non avrei interrotto la comunicazione così bruscamente”.
Quale delle due soluzioni è quella corretta? Lo sono entrambe?

 

RISPOSTA:

La congiunzione mentre presuppone che tra l’evento della proposizione temporale e quello della reggente ci sia un rapporto di contemporaneità, quindi forza all’uso dell’imperfetto, che descrive tale rapporto. Il trapassato, al contrario, sarebbe difficilmente giustificabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale affermazione è corretta?
“Di cosa si tratti”.
“Di cosa si tratta”.
E in questo caso?
“Basta poco, massimo 2 minuti”.
“Basta pochi minuti”.
“Bastano pochi minuti”.
“Bastano poco minuti”.

 

RISPOSTA:

Riguardo alla prima richiesta, se la frase è autonoma, quindi è per forza una interrogativa diretta, il modo da usare è senz’altro l’indicativo: “Di cosa si tratta?”. Se, invece, è una interrogativa indiretta il congiuntivo è una scelta più formale dell’indicativo: “Vorrei sapere di cosa si tratti” (anche corretto, ma meno formale, “Vorrei sapere di cosa si tratta”). Tranne che tale proposizione sia introdotta dal verbo dire, che preferisce sempre l’indicativo: “Dimmi di cosa si tratta”. 
Per quanto riguarda la seconda richiesta, bisogna ricordare che bastare è un verbo, quindi concorda con il soggetto della frase. Nella prima frase il soggetto è il pronome poco, quindi la forma di bastare richiesta è proprio la terza singolare. Ciò che segue, massimo 2 minuti, è una apposizione del soggetto, costruita correttamente, con l’avverbio massimo (andrebbe bene anche al massimo) che accompagna l’aggettivo numerale 2, a sua volta unito al nome minuti. Si noti che se togliamo poco il soggetto diventa massimo 2 minuti, per cui il verbo deve andare al plurale: “Bastano massimo 2 minuti”.
La seconda frase è costruita male, perché il verbo non concorda con il soggetto. Il verbo, infatti, è singolare mentre il soggetto, pochi minuti, è plurale. L’errore è corretto nella terza frase: “Bastano pochi minuti”. Nell’ultima frase, infine, a essere scorretto è l’accordo tra l’aggettivo poco e il nome da questo accompagnato, minuti. Se poco è da solo, infatti (come nella prima frase), è un pronome ed è invariabile; se è accompagnato da un nome è un aggettivo e deve concordare con il nome accompagnato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È consentito dire “Il libro più bello che hai mai letto” al posto di “Il libro più bello che tu abbia mai letto”?

 

RISPOSTA:

È consentito: l’indicativo in questo caso è meno formale del congiuntivo ma del tutto corretto. Il significato delle due frasi, inoltre, è lo stesso. Può consultare l’archivio di DICO con le parole chiave congiuntivo relativa per trovare molte altre risposte su questo argomento.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice “mai visto una cosa del genere” oppure “mai vista una cosa del genere”?

 

RISPOSTA:

Entrambi i modi sono corretti. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto (vista una cosa) è una possibilità oggi abbandonata, quindi dal sapore antiquato, ma sempre corretta. La forma più comune è visto una cosa, con il participio passato invariabile. C’è da dire che se questo vale in generale, l’espressione mai vista una cosa… è cristallizzata, tanto che risulta perfettamente normale anche la variante con l’accordo. Per approfondire la questione dell’accordo del participio passato può leggere la risposta n. 2800277 dell’archvio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Coesione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sentito da più parti che il futuro anteriore non può essere usato nelle oggettive. Mi sembra una affermazione dogmatica. Se devo precisare che un evento si situa temporalmente fra il momento in cui parlo e il futuro estremo espresso nella frase, non ho altra scelta, a meno che non voglia ricorrere a circonlocuzioni assurde. Es. “Se saprò che mi avrai tradito, ti lascerò”. In questo caso a me interessa il tradimento che eventualmente si manifesti fra adesso e il momento in cui saprò. Se dicessi, come molti consigliano, hai tradito anziché  avrai tradito, il collocamento temporale dell’eventuale tradimento non sarebbe così puntuale. Ci terrei molto a conoscere la sua opinione a riguardo.

 

RISPOSTA:

Sono d’accordo con lei: nelle completive è possibile usare il futuro anteriore per descrivere un evento precendete a un altro futuro, sebbene molte grammatiche autorevoli prescrivano l’uso del passato prossimo in un tale contesto. Questa questione è al centro della risposta “Sono tempi difficili per il discorso indiretto” che può leggere nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei il vostro parere a proposito della classificazione del nome. In un manuale di grammatica ho trovato la seguente classificazione gerarchica a due livelli:

  • Proprio
  • Comune
    • concreto
    • astratto
    • individuale
    • collettivo

In un altro manuale ho trovato una classificazione differente (a tre livelli):

  • Proprio
  • Comune
    • Concreto
      • individuale
      • collettivo
    • Astratto

In un terzo, infine, si ha una classificazione in cui concreto, astratto, individuale, collettivo sono allo stesso livello di proprio e comune, anziché sottogruppi.
Quale classificazione è la migliore?

 

RISPOSTA:

Classificare un oggetto grammaticale è sempre un problema: si rischia sempre di lasciare fuori dalla classe un elemento, creando la cosiddetta eccezione. Nel caso specifico la classificazione meno problematica è quella meno gerarchizzata, ovvero la terza. I nomi propri, infatti, sono individuali, perché designano elementi singoli (singolari o plurali: PaoloItaliaAlpi), quindi non dovrebbero essere esclusi da questo tratto, come fanno le prime due classificazioni. Per non parlare del fatto che un nome come Dio è proprio, individuale e astratto (ma il concetto di astrattezza applicato ai nomi è sempre discutibile, quindi meglio non spaccare il capello su questo punto).
La seconda classificazione, inoltre, esclude indebitamente non solo i propri ma anche gli astratti dal tratto individuale / collettivo.
Come si può vedere, ogni gerarchizzazione semantica è una forzatura: i nomi propri possono essere concreti e astratti, individuali e persino collettivi (l’Appennino è una catena montuosa) al pari dei comuni. L’unica precisazione non problematica nella classificazione è diadica: i nomi propri sono opposti ai comuni; i concreti agli astratti; gli individuali ai collettivi. Questa è l’unica precisazione che manca nello schema della terza classificazione, che risulta, pertanto, comunque non ottimale.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Quale delle tre frasi è corretta?
1. “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco che mi confermato che posso prenotarmi”.
2 “Gent.le dottore, Le comunico che ieri ho chiamato in Regione per informazioni in merito al vaccino anti COVID, ho anche sentito il sindaco, ENTRAMBI (Regione e sindaco) mi hanno confermato che posso prenotarmi”, però la regione non è una persona!?
3. “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID, mi è stato detto (= persona con la quale ho parlato) che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.

 

RISPOSTA:

Le tre frasi differiscono in diversi punti e sono tutte migliorabili nella composizione, sebbene nessuna contenga errori grammaticali evidenti. 
Nella prima frase si attribuisce l’autorizzazione al solo sindaco (il verbo confermare non è sufficientemente esplicito circa il ruolo della Regione); se, però, la fonte dell’autorizzazione è anche la Regione è consigliabile chiarire questa informazione.
Nella seconda frase il pronome entrambi è effettivamente innaturale se riferito a un’istituzione.
L’espressione chiamare per informazioni, inoltre, è fortemente burocratica: più comune sarebbe chiamare per chiedere / avere / ricevere informazioni.
La terza frase risulta, in conclusione, la migliore; questa può essere, però, migliorata nella punteggiatura: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID: mi è stato detto che posso prenotarmi; ciò mi è stato confermato anche dal sindaco”.
Un’altra piccola limatura si potrebbe fare sul piano della coesione: “Gent.le dottore, ieri ho chiamato in Regione in merito al vaccino anti COVID e mi è stato detto che posso prenotarmi per la somministrazione. L’informazione mi è stata confermata anche dal sindaco”. In alternativa alla forma impersonale mi è stato detto (che comunque va bene), infine, si può esplicitare il riferimento: la persona con cui ho parlato / il responsabile del servizio mi ha detto o altro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase qual è il soggetto? “Là non c’è nulla da mangiare”. 

 

RISPOSTA:

Il soggetto è nulla da mangiarenon c’è è il predicato verbale e  è il complemento di stato in luogo.
Soltanto come inutile e scolastica pignoleria si potrebbe poi analizzare ulteriormente il soggetto nulla da mangiare come formato da un soggetto (nulla) + una subordinata relativa implicita passiva: che possa essere mangiato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

‘In questo letto si dormono sonni tranquilli’.
In questa frase è corretto dire che il “si” è passivante e non impersonale?
Il soggetto, infatti, è “sonni tranquilli” (= in questo letto vengono dormiti sonni tranquilli).

 

RISPOSTA:

Sì, il si in questo caso ha valore passivante. La forma attiva è il costrutto con oggetto interno: dormire sonno tranquilli, al passivo: sono dormiti sonno tranquilli, ovviamente del tutto innaturale e impossibile, in questa forma, in italiano. Come sempre, il confine tra il si passivante e il si impersonale è molto labile, dal momento che i costrutti passivi servono proprio, spesso, a mascherare il soggetto, cioè nel caso di espressioni impersonali, come in questo caso: chiunque (cioè un soggetto generico, impersonale) può dormire sogni tranquilli in questo letto.
In conclusione: è un si passivante con valore impersonale.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei gentilmente sapere come interpretare i seguenti predicati: se è corretto come sembrano a me.
– “Sara’ così…” (pv nel senso che significa esistere?)
– “Sono le venti ” (anche qui pv per lo stesso motivo di sopra)
– “è ora…” (nn saprei classificare…a metà tra pn e pv ma forse più pn..)
certe espressioni della lingua risultano molto ambigue….
-il negozio era aperto/chiuso (pv)
– erano bagnati (se è solo in quest’espressione, senza complementi credo pn….se ci sono altri complementi es. erano bagnati dalle onde è pv?)
questi dubbi mi tormentano….e vorrei riuscire a capire bene.
 

RISPOSTA:

– “Sara’ così…”: è predicato nominale, esattamente come è belloè tardiè giusto ecc.; in questo caso il valore non è ‘esistere’, bensì proprio il senso relazionale di essere come copula. Immagini una frase come: “Mario è sempre puntuale e sarà così anche stavolta”. Alcune grammaticale considererebbero “sarà così” predicato verbale perché ritengono che essere + avverbio non possa avere valore di copula, ma io personalmente non sono d’accordo, perché l’importante è stabilire se essere ha un valore relazionale oppure un valore autonomo (come ‘esistere, trovarsi’ ecc.). Comunque, come già detto in altre sedi, la differenza tra predicato verbale e predicato nominale è talora più sfumata di quanto le grammatiche vogliano far credere.
– “Sono le venti “: predicato verbale perché le venti è soggetto e non parte nominale. Sarebbe predicato nominale se fosse una frase del genere: “l’ora in cui verrò a prenderti sono le venti”.
– “è ora…”: ha ragione lei, è davvero in limine, ma opterei più per il predicato nominale, perché ora non può essere soggetto, bensì parte nominale di un verbo impersonale. Aggiungo però che in questo caso non ha molto senso considerare la locuzione è ora come costituita da verbo + parte nominale, bensì come locuzione verbale del tutto sinonimica di bisogna e dunque analizzabile come verbo modale nel suo complesso, in un caso come “è ora di andare”. Analogamente “è necessario andare”, analizzabile o come reggente (costituita da un predicato nominale) + subordinata completiva, oppure (come preferirei io) come una sola proposizione costituita dalla locuzione verbale modale è necessario + infinito (un po’ come se fosse “dobbiamo andare”).
– “Il negozio era aperto/chiuso”: questa è senza alcun dubbio predicato nominale a meno che non sia presente un complemento d’agente che indica la forma passiva del predicato verbale aprire o chiudere: “il negozio è aperto/chiuso da noi”.
– “Erano bagnati”: è giusto quello che dice lei, ovvero come sopra: predicato nominale se solo, predicato verbale passivo di bagnare solo se seguito da complemento d’agente o di causa efficiente: “erano bagnati dalle onde”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Recentemente ho pubblicato su facebook un post che diceva: ”Ho la sensazione che stiamo per precipitare in un precipizio”. Sono stata redarguita con la frase: “da un precipizio si puo’ solo cadere”. Effettivamente la mia frase suona davvero male, potevo scrivere: cadere in un precipizio o precipitare in un
baratro, ma non credo sia errata. Precipitare indica un moto a luogo e il precipizio è dove termina l’azione. O sbaglio? Ho 53 anni e i ricordi degli studi di grammatica sono offuscati, ma non mi sembra di aver sbagliato. A meno che il precipizio non si intenda come sinonimo di cornicione, sporgenza, da cui effettivamente il moto può solo partire.

 

RISPOSTA:

La sua frase è correttissima: infatti il precipizio è sia un luogo sporgente dal quale si può cadere o precipitare, sia un luogo profondissimo e scosceso nel quale si può cadere o precipitare. Se si vuole evitare l’effetto cacofonico della ripetizione della radice precipit/z che accomuna precipitare a precipizio, si può, ma non si deve, sostituire precipitare con cadere. Diffidi sempre dell’oltranzismo intollerante dei grammarnazi, ovvero coloro che son convinti che qualcosa nella lingua non si possa dire né scrivere. Raramente le lingue procedono per dogmi si può/non si può, giusto/sbagliato, mentre usualmente si tratta di forme più o meno appropriate a quel determinato contesto.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si dice “domani sarà una giornata importante” oppure “domani è una giornata importante”?
Domani vado o andrò a far la spesa?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: quella con il futuro è più formale e dunque più adatta alla lingua scritta; quella con il presente va bene per tutti gli usi, sebbene sia lievemente più informale e dunque adatta alla lingua parlata. Il presente ormai può tranquillamente sostituire il futuro, specialmente quando, come in questo caso, un avverbio di tempo elimina qualunque possibilità d’equivoco.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Non so se nella frase seguente il verbo va coniugato al singolare o plurale:
“La parte distale di tibia e fibula e di talo e calcagno devono / deve essere inclusi” oppure “Il condilo del femore e il condilo del ginocchio devono / deve essere inclusi”.

 

RISPOSTA:

Il verbo concorda con il soggetto della frase. Nella sua prima frase il soggetto è la parte distale, quindi il verbo sarà deve essere inclusa (a prescindere da quanti siano i complementi di specificazione legati al soggetto); nella seconda frase il soggetto è il condilo e il condilo, quindi il verbo sarà devono essere inclusi
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

C’è qualche differenza tra cuocere e far cuocere, verbi che si leggono nelle ricette?

 

RISPOSTA:

Il verbo cuocere può essere transitivo (ho cotto la pasta) e intransitivo (la pasta cuoce), ma nell’uso vivo attuale la costruzione transitiva è sfavorita, probabilmente perché l’evento del cuocere è percepito come intrinsecamente intransitivo: è, infatti, il cibo che cuoce come conseguenza della somministrazione di calore; del cuoco, al contrario, si preferisce dire che cucina, ovvero ‘prepara i cibi’, anche, ma non soltanto, cuocendoli. In sostituzione di cuocere transitivo si è, dunque, diffuso far(e) cuocere, per cui, per esempio, fate cuocere per mezz’ora è preferito a cuocete per mezz’ora
La costruzione fattitiva (quella con fare) ha anche il vantaggio di sottolineare la duratività dell’evento (spesso utile nelle ricette), visto che far cuocere è molto vicino a lasciare cuocere.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Voglio sapere che regalo era” il verbo essere risulta coniugato in modo corretto?

 

RISPOSTA:

Il verbo è corretto. Una scelta più formale dell’indicativo sarebbe il congiuntivo fosse. Sulla scelta tra indicativo e congiuntivo nella proposizioni oggettive si possono consultare diverse risposte nell’archivio di DICO, usando le parole chiave congiuntivodiafasiacompletiva.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

La parola colle va considerata come nome derivato da collo

 

RISPOSTA:

Dobbiamo distinguere tra i due omografi (cioè parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno origine e significato diversi) colle ‘elevazione del terreno, poggio, altura’ e colle ‘passo, valico montano’. Il primo colle non ha niente a che fare con collo, mentre il secondo sì; anzi, il valico montano era anticamente chiamato anche collo, ma poi, probabilmente per influenza di colle ‘altura’, collo e colle si sono confusi, dando vita a colle ‘valico montano’. La ragione per cui un valico montano sia definito collo / colle è riconducibile alla forma di questi luoghi, corrispondente a un passaggio, spesso stretto, tra due montagne, un po’ come il collo è un restringimento tra due punti più larghi.
Colle ‘valico montano’, quindi, è una variante di collo; tra le due parole non c’è un rapporto di derivazione morfologica: entrambe sono parole primitive. La derivazione, del resto, si realizza con l’aggiunta di affissi, che nella parola colle ovviamente non sono presenti; parole derivate morfologicamente da collo sono, per esempio, colletto e il verbo scollare (da cui, poi, scollatura).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Nella frase “Dopo aver visto il video ‘Il racconto di avventura e horror’, scrivi la differenza / le differenze tra i due generi” è meglio usare differenza o differenze e perché?

 

RISPOSTA:

La scelta dipende dal significato che si intende dare alla frase: se si ritiene che tra i due generi ci sia una sola differenza si userà il singolare; se, invece, si ritiene che le differenze siano più di una si userà il plurale. In questo caso specifico ritengo che differenze sia la scelta migliore, visto che tra il genere di avventura e quello horror sussistono molte differenze.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Vorrei sapere se queste protasi richiedono, nell’oggettiva che segue, il congiuntivo presente o passato o se, come ho sentito dire, entrambe le soluzioni sono accettabili:
1) Se volessi che tu fossi (o sia)…
2) Se credessi / ritenessi / immaginassi che tu fossi (o sia)…
3) Se temessi che tu fossi (o sia)…
4) Se mi meravigliassi che tu fossi (o sia)…

 

RISPOSTA:

Le sue quattro frasi iniziali sono del tutto equivalenti dal punto di vista sintattico. Il dubbio sulla scelta del tempo del congiuntivo deriva dal fatto che l’ipotesi presentata nella proposizione reggente è situata nel presente (= se oggi volessi / credessi / temessi / mi meravigliassi…) ma è espressa con un tempo passato, l’imperfetto, in accordo con le regole della proposizione ipotetica. Ricordiamo che secondo la consecutio temporum, particolarmente vincolante per le proposizioni completive, il presente indica contemporaneità nel presente, quindi è coerente con la situazione descritta, l’imperfetto esprime contemporaneità nel passato, quindi è coerente con il tempo che esprime il dubbio nella proposizione ipotetica reggente. L’imperfetto è, inoltre, attratto dalla costruzione sottostante che sovrappone l’ipotetica alla completiva: se temessi che tu fossi = se tu fossi
In conclusione, l’imperfetto è difendibile, ma la scelta più sensata è il presente, perché lo stato dell’essere è, come detto, contemporaneo rispetto a un evento presente, sebbene espresso con l’imperfetto per una regola sintattica (la costruzione della proposizione ipotetica).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi è stato contestato questo scritto, perché ritenuto inelegante: “X disse che era opportuno che Y non avesse fatto ciò”. Forse la vicinanza dei due che può disturbare?

 

RISPOSTA:

È certamente consigliabile, ove possibile, evitare la sequenza di più che con la stessa funzione (come in questo caso). Si tratta, però, di un peccato veniale; più discutibile, semmai, è la scelta delle forme verbali. La valutazione sulla opportunità di un’azione tipicamente precede o è contemporanea all’azione stessa; difficilmente la segue. Ci sono altre espressioni sinonimiche rispetto a essere opportuno che possono esprimere una valutazione successiva, per esempio essere una fortuna ed essere un bene. Queste espressioni possono esprimere una valutazione successiva dell’azione perché riguardano sia l’azione sia il suo risultato, mentre essere opportuno riguarda essenzialmente l’azione (un risultato si può definire un bene o una fortuna, mentre difficilmente si definirebbe opportuno).
Per questo motivo la frase che comincia con era opportuno difficilmente può continuare con una soggettiva al trapassato; ci si aspetta piuttosto un imperfetto, che instaura con era un rapporto di contemporaneità nel passato con proiezione nel futuro: era opportuno che X non facesse (in quel momento o in seguito). Se, però, è necessario descrivere l’azione con il trapassato, per evitare che la valutazione si trovi a essere successiva la si può anticipare descrivendo anch’essa al trapassato (era stato opportuno che X non avesse fatto). Certo, secondo la consecutio temporum, se descrivo l’azione con il trapassato, l’azione sarà sempre precedente alla valutazione, anche se descrivo la valutazione al trapassato; questo riporta al problema iniziale. Nella frase era stato opportuno che X non avesse fatto, cioè, il fare precede l’essere opportuno proprio come nella frase era opportuno che X non avesse fatto. In linea di principio questo è vero, ma bisogna considerare che quando due eventi (nel nostro caso un’azione e uno stato) sono entrambi al trapassato, il loro rapporto temporale reciproco sfuma e tendiamo a considerarli semplicemente passati. La sequenzialità in questi casi è affidata alla logica, quindi interpretiamo automaticamente l’essere opportuno come contemporaneo al fare: per questo motivo era stato opportuno che X non avesse fatto è più accettabile di era opportuno che X non avesse fatto.
la frase sarebbe corretta anche nella forma sarebbe stato opportuno che X non facesse, ma cambierebbe di significato, perché il condizionale sarebbe stato lascerebbe intendere che l’azione è stata effettivamente compiuta. Al contrario, l’indicativo era stato veicola l’idea che l’azione non sia stata compiuta. Inoltre, il condizionale passato ha lo svantaggio di rimanere sempre a metà strada tra l’anteriorità e la posteriorità nel passato e l’imperfetto nella subordinata non permetterebbe di disambiguare questo tratto: disse che sarebbe stato opportuno che X non facesse, infatti, può anche spostare la valutazione e l’azione nel futuro rispetto a disse.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Ci sono stati 10 decessi (mi riferisco al numero di deceduti registrati complessivamente) fra Germania e Svizzera”. Intendo dire, poniamo, 6 in Germania e 4 in Svizzera. Quel fra Germania e Svizzera è corretto?

 

RISPOSTA:

La preposizione fra nella frase è sintatticamente corretta, ma semanticamente imprecisa. Se nel contesto ci fosse bisogno di precisare sarebbe bene specificare la sproporzione, aggiungendo l’informazione.

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Dato che, in certi contesti espressivi, si preferisce il congiuntivo al condizionale qualora si intenda marcare l’idea di eventualità, mi chiedevo come valutare la certezza in negativo; come esasperazione dell’eventualità (e quindi, come tale, condizione che richiede il congiuntivo) o come certezza, con la stessa dignità della certezza in positivo (e quindi come condizione che respinge il congiuntivo e richiede il condizionale)?
Esempio preso da una frase di un film: “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando avrei suonato il piano” (se si dà per certo o altamente probabile che ciò accada), “quando avessi suonato il piano” (se si dà l’evento come incerto). E se si volesse presentare il fatto come certo in negativo (il fatto non avverà mai)? Si deve usare Il congiuntivo o il condizionale?

 

RISPOSTA:

Rimanendo al caso specifico della sua frase, si noti che il condizionale passato assume la funzione di futuro nel passato sia nella proposizione oggettiva (che avrei incontrato…) sia nella temporale (quando avrei suonato…). Con questa funzione, esso perde gran parte del significato condizionale e diviene a tutti gli effetti un futuro (rimane condizionale nella misura in cui qualsiasi evento futuro è incerto): mi dissero che avrei incontrato… quando avrei suonato, infatti, è la versione al passato di mi dicono che incontrerò… quando suonerò. Ora, se nella proposizione oggettiva (trascurando la seconda subordinata) sostituissimo il condizionale passato con il congiuntivo trapassato (gli altri tempi del congiuntivo sarebbero in questo contesto o impossibili o innaturali) il senso della frase cambierebbe, perché in quel caso l’evento dell’incontrare diventerebbe anteriore a quello del dire. Per la verità, le oggettive rette da dire preferiscono l’indicativo, quindi al posto di avessi incontrato useremmo avevo incontrato. La proposizione introdotta da quando, diversamente dalla oggettiva, ammette la sostituzione del condizionale passato con il congiuntivo trapassato senza spostamento temporale, ma con cambiamento di significato, perché ha un rapporto più libero con la consecutio temporum. Il cambiamento di significato consiste nel fatto che la proposizione è interpretata come temporale con il condizionale passato (quando avrei suonato = ‘nel tempo in cui avrei suonato’), come ipotetica con il congiuntivo (quando avessi suonato = ‘se avessi suonato’). 
Rispetto a questa analisi, che conferma la sua idea che il congiuntivo nella proposizione introdotta da quando esprima maggiore eventualità (cioè ipoteticità) del condizionale passato, la trasformazione della frase al negativo non cambia niente: “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando non avrei suonato il piano” (= ‘nel tempo in cui non avrei suonato’) / “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando non avessi suonato il piano” (= ‘se non avessi suonato’).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Domani chiamo” o “domani chiamerò”?

 

RISPOSTA:

La differenza è di registro: il presente è più colloquiale; il futuro più formale. Per un approfondimento può consultare la risposta “Presente o futuro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

a) “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un affermato paroliere”.
b) “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un paroliere è il solo Giovanni”.

Vi chiedo se le due costruzioni dell’aggettivo solo, prima in funzione di soggetto, poi in funzione di complemento, sono valide. Per ciò che concerne la seconda frase, gli avverbi solo e soltanto sarebbero certamente più usuali, ma vorrei sapere se sia comunque corretta la mia scelta.

 

RISPOSTA:

L’aggettivo solo preposto al nome e preceduto dall’articolo prende il siginificato di ‘unico, singolo’. Nelle sue due frasi è costruito correttamente (del resto il sintagma il solo Giovanni si ripete identico) e può essere sostituito dagli avverbi solosolamentesoltanto con praticamente nessuno scarto semantico. Va sottolineato che in entrambe le frasi il solo Giovannè soggetto, e in entrambi i casi del verbo è (nella seconda frase si noti è il solo Giovanni, ovvero il solo Giovanni è). La differenza tra la prima e la seconda frase è il diverso modo di focalizzare il sintagma il solo Giovanni, con il solo, che già di per sé concentra l’attenzione sul sintagma che lo contiene, o costruendo una frase scissa (o più precisamente scissa invertita: la scissa sarebbe è il solo Giovanni a essere…), che isola il sintagma all’interno di una proposizione presentativa, introdotta dal verbo essere, completata da una subordinata relativa (o più precisamente pseudorelativa) implicita che contiene l’informazione essere un paroliere. Come si può vedere, l’informazione contenuta nella proposizione pseudorelativa è rappresentata come nota (l’emittente, cioè, presume che il ricevente abbia già in mente tale concetto); il concetto, però, non è stato introdotto prima, quindi la presunzione potrebbe essere sbagliata e il ricevente potrebbe non essere in grado di collegare il concetto di essere un paroliere con quello di sono musicisti. La scelta comunque rimane accettabile perché il concetto di paroliere è in qualche modo estraibile da quello di musicisti, o almeno diventa estraibile da parte del ricevente quando viene introdotto come noto. Più difficile da interpretare, al limite dell’incoerenza, sarebbe stata una costruzione come “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un autista è il solo Giovanni”, laddove “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un autista” sarebbe rimasta del tutto coerente perché l’informazione essere un autista è presentata non come nota, ma come nuova (pur con la focalizzazione dell’attenzione su il solo Giovanni).
Per un approfondimento sulla frase scissa è possibile consultare l’archivio di DICO usando la parola chiave frase scissa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il congiuntivo si usa nelle domande indirette: “Non so dove siano i miei occhiali” (dove sono i miei occhiali?), ma perché non usiamo il congiuntivo nella seguente frase, anch’essa una domanda indiretta?
“So dove sono i miei occhiali”. 
Tutto sommato possiamo dire che dopo vorrei si usa il congiuntivo imperfetto ma se si tratta di una proposizione relativa si usa il congiuntivo presente?

 

RISPOSTA:

Il problema del congiuntivo è che quasi mai è obbligatorio in sostituzione dell’indicativo. Ci sono, inoltre, alcuni casi in cui è addirittura sfavorito rispetto all’indicativo, cioè nelle completive dipendenti dai verbi saperevederesentiredire (quindi anche nella sua frase “So dove sono i miei occhiali”). Anche in questi casi, però, il congiuntivo non è impossibile: “So dove siano i miei occhiali” è perfettamente corretta. 
Vorrei richiede il congiuntivo imperfetto nelle completive che descrivono un evento contemporaneo al desiderio: “Vorrei che tu venissi”; le proposizioni relative possono avere l’indicativo e il congiuntivo e, inoltre, seguono il valore deittico del verbo, cioè l’indicazione temporale assoluta (il presente indica il presente, il passato indica il passato, il futuro indica il futuro): “Vorrei un’auto che abbia superato tutti i test di sicurezza” / “Vorrei un’auto che faccia 200 km all’ora” / “Vorrei un’auto che tra dieci avrà ancora lo stesso valore” (possibile anche “Vorrei un’auto che tra dieci abbia ancora lo stesso valore” perché il congiuntivo presente proietta il significato del verbo nel futuro).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La seguente ipotesi è considerata del secondo tipo oppure del terzo tipo del periodo ipotetico?
“Se avessi le ali, volerei”.

 

RISPOSTA:

Quello da lei proposto è un periodo ipotetico del secondo tipo, anche detto della possibilità. Esso richiede il condizionale presente nell’apodosi, ovvero la proposizione reggente (volerei) e il congiuntivo imperfetto nella protasi, ovvero la proposizione ipotetica (se avessi le ali). Si noti che i tre tipi fissi del periodo ipotetico ammettono molte varianti (formali e di significato), e sono, quindi, da considerarsi convenzionali. Nel suo caso, per esempio, potremmo avere anche se avessi avuto le ali volerei (per sottolineare quanto sia irrealistico avere le ali), o se avessi le ali avrei volato (per sottolineare che il momento che avrebbe richiesto il volo è passato).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Come bisogna analizzare freddo nella frase “Oggi fa freddo”? È un soggetto oppure un complemento oggetto?
E la frase “Si vendono appartamenti” è impersonale o riflessiva?

 

RISPOSTA:

Le espressioni fa freddofa caldo, come anche fa giorno e fa notte, sono del tutto assimilabili ai verbi atmosferici (piovenevica…); vanno, quindi, analizzate complessivamente come forme verbali impersonali.
Nella frase “Si vendono appartamenti” il verbo non può essere impersonale perché è plurale. Per definizione, infatti, il verbo impersonale è sempre alla terza persona singolare. La frase, pertanto, equivale ad appartamenti sono venduti e il verbo è passivo. Attenzione, passivo, non riflessivo: gli appartamenti, infatti, non vendono sé stessi, ma sono venduti da qualcuno che non è esplicitato. La differenza tra si passivante e impersonalizzante è oggetto di diverse risposte consultabili nell’archivio di DICO usando la parola chiave impersonale. L’ultima risposta sull’argomento in ordine cronologico è la seguente “Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale“.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto “Non è vero che è bravo come dice!” oppure “Non è vero che sarebbe bravo come dice!”?

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le frasi. La prima rappresenta lo stato dell’essere bravo come fattuale, la seconda come condizionato a una possibilità non espressa, per esempio “Non è vero che sarebbe bravo come dice (se non lo aiutassero i suoi amici)!”. Equivalente alla prima frase, ma più formale, sarebbe anche “Non è vero che sia bravo come dice!”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

È più corretto dire una volta solo o una volta sola? So che comunque si dice spesso solo una volta.

 

RISPOSTA:

Solo una volta e una volta sola sono espressioni comuni, corrette e praticamente sinonimiche. Nella prima solo è un avverbio, equivalente a solamente, nella seconda sola è un aggettivo, concordato con voltaUna volta solo è possibile e corretta, al pari di una volta solamente, ma è sfavorita dai parlanti rispetto a una volta sola
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La seguente frase è del tutto errata?
“Vorrà scusarmi se POTREI non essere in grado di partecipare alla riunione”.
Quel se può avere valore di ‘in quanto’?

 

RISPOSTA:

a frase è possibile e corretta. In questo caso se ha proprio il valore di ‘in quanto’, come da lei immaginato, e richiede, nella proposizione che introduce, l’indicativo (“Se le cose stanno così me ne vado”) o, meno comunemente, il condizionale. Ci siamo occupati di casi simili nella risposta “Il se causale” dell’archivio di DICO, che può consultare per un approfondimento della questione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In questa frase, nella proposizione relativa si usa il congiuntivo presente o imperfetto a causa del condizionale?
“Per Natale vorrei regalare alla mia ragazza qualcosa di non impegnativo, che non _____________ (essere) troppo vistoso”.

 

RISPOSTA:

La scelta migliore è il congiuntivo presente, perché lo stato dell’essere è presente (con una proiezione nel futuro). La presenza del condizionale vorrei nella proposizione reggente non richiede l’uso del congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa dipendente: questa proposizione, infatti, è particolarmente svincolata dalla consecutio temporum. Un approfondimento sul tempo del congiuntivo da usare in una proposizione relativa dipendente da una reggente in cui c’è vorresi può leggere nella risposta  “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se queste due frasi sono corrette:
1) “Se avessi incontrato un leone, la fine che avrei fatto sarebbe dipesa dalla fame che l’animale avrebbe avuto nel momento in cui l’avrei (o l’avessi) incontrato”.
Userei avrei e avessi quasi indifferentemente, a seconda della maggiore o minore probabilità attribuita all’accadimento.
2) “Se incontrassi un leone, la fine che farei dipenderebbe dalla fame che l’animale avrebbe nel momento in cui lo incontrerei (o incontrassi)”.
Nella scelta fra incontrerei e incontrassi valgono le stesse considerazioni fatte prima con gli stessi modi ma tempi diversi. Secondo alcuni dovrei dire incontrerò, ma mi sembrerebbe di dare, in questo caso, un taglio di certezza pressoché assoluta ad un avvenimento che invece è solo possibile.

 

RISPOSTA:

La relativa della sua frase ha una forte sfumatura ipotetica (nel momento in cui l’avessi incontrato = se l’avessi incontrato / nel momento in cui lo incontrassi se lo incontrassi), che richiede il congiuntivo e rifiuta il condizionale; nella prima frase, pertanto, va usato avessi incontrato, nella seconda incontrassi.
L’indicativo futuro sarebbe ugualmente ingiustificato, perché, come sostiene lei, presenterebbe l’evento come fattuale, mentre esso è chiaramente potenziale.
Fabio Ruggiano
Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Mi piacerebbe portare alla vostra attenzione tre considerazioni relative alle proposizioni introdotte da vorrei che.

Prima considerazione.
Parto dal presupposto che siamo stati tutti (o quasi) abituati a usare il congiuntivo imperfetto, anche per azioni presenti o future, per i verbi indicanti opportunità, desiderio, volontà formati con il condizionale presente:
Vorrei che fosse estate.
Come suggerisce la Grammatica di Serianni, tuttavia, la “dipendente si costruisce col congiuntivo imperfetto più spesso che con il congiuntivo presente”. Da ciò ricavo che la frase “Vorrei che sia estate” 
abbia una sua validità. 
Curiosando in rete, mi sono imbattuto in teorie secondo le quali la scelta tra i due tempi possibili non derivi da preferenze stilistiche o di consuetudine d’uso, ma da ragioni semantiche ben precise. In sostanza, se il nostro vorrei è espressione di desiderio, via libera per il congiuntivo imperfetto; se, invece, è una forma edulcolorata di voglio, meglio il congiuntivo presente.

Seconda considerazione. 
Accantonando per il momento i temi finora affrontati, catalogare verbi come voleredesideraregradire è abbastanza semplice. Ma non per tutti i verbi – quantomeno per me – lo è. Prendiamo ad esempio le seguenti costruzioni:

1. Da una provocazione del genere, ci si aspetterebbe che domani la controparte reagisca / reagisse.  
2. Non accetterei che nei prossimi giorni Paola non si presenti / presentasse all’appuntamento. 

Forse è un mio deficit, ma i due imperfetti non mi paiono così stonati anche in un contesto di azione presente-futura. 

Terza e ultima considerazione.
Ho recentemente avuto un bonario contradditorio con un amico, appassionato, come me, di lingua italiana. Egli sostiene che una frase quale “Vorrei un’auto che avesse il cambio automatico” non ammetta varianti per la subordinata. Fermo restando che io stesso confermerei tale scelta sintattica, il focus, in questo caso, a mio avviso si sposta dai temi affrontati fin qui mettendo in evidenza la proposizione relativa. Riterrei corretta, benché inusuale, anche la costruzione “Vorrei un’auto che abbia il cambio automatico”.

 

RISPOSTA:

La spiegazione semantica della differenza tra congiuntivo presente e imperfetto nella completiva retta da vorrei è piuttosto debole: distinguere tra vorrei forma di cortesia di voglio e vorrei forma sinceramente desiderativa è una sofisticazione irrealistica. Stabilito che la ragione della preferenza per l’imperfetto nella completiva non è di natura semantica, non è comunque facile stabilire quale sia la ragione effettiva. Un fattore determinante è certamente il modello del periodo ipotetico, che induce il parlante ad associare meccanicamente il condizionale presente al congiuntivo imperfetto. A questo si aggiunge la funzione pragmatica del condizionale, spesso usato per ridurre la partecipazione psicologica del parlante all’evento (vorrei = ‘voglio se è possibile’) e quindi coerente con l’allontanamento dell’evento dal presente operato dall’imperfetto. Si potrebbe obiettare che simili ragioni dovrebbero operare su tutte le reggenze, non soltanto su quelle dei verbi di desiderio, opportunità, necessità; a tale obiezione, però, è facile rispondere: tali verbi sono di gran lunga i più usati al condizionale per reggere una completiva e, per la verità, l’imperfetto è considerato un’alternativa valida anche nei rari casi di verbi non rientranti in queste categorie. Un esempio di quest’ultima osservazione è rappresentato dalle sue due frasi con ci si aspetterebbe e non accetterei. La seconda, per la verità, non è utile perché accettare è molto vicino a volere, come non accettare è vicino a rifiutare, ovvero a non volere (questo a dimostrazione del fatto che è difficile costruire esempi di verbi al condizionale che reggono completive e non esprimono desiderio, opportunità, necessità). Aspettarsi è il tipico verbo che viene usato come controesempio per dimostrare che nella completiva dipendente da un condizionale presente si usa di norma il congiuntivo presente. Ebbene, anche in questo caso l’imperfetto “suona” accettabile, se non addirittura preferibile, a dispetto della norma della consecutio temporum secondo cui il condizionale presente funziona come l’indicativo presente, per cui ci si aspetterebbe che reagisca = ci si aspetta che reagisca. Visto che i parlanti sentono come più appropriato il congiuntivo imperfetto in quasi tutti i casi, compreso questo, il congiuntivo imperfetto si può considerare accettabile; la norma della consecutio, comunque, vige ancora, per cui in un contesto formale è meglio costruire la frase con il congiuntivo presente (ovviamente nei pochi casi di verbi non di desiderio, opportunità, necessità). Al contrario, sebbene non si possa definire errato il congiuntivo presente in dipendenza da verbi di desiderio, opportunità, necessità al condizionale, questa scelta è rischiosa perché verrebbe giudicata come errata dalla maggioranza dei parlanti.
La frase “Vorrei un’auto che avesse il cambio automatico” è sintatticamente non giustificata. La proposizione relativa è indipendente dalla consecutio temporum, per cui l’imperfetto al suo interno indica proprio un evento o uno stato passato. La frase così costruita, quindi, lascia intendere che il parlante voglia adesso un’auto che in passato aveva il cambio automatico. Una vera bizzarria. La costruzione più attesa, pertanto, è “Vorrei un’auto che abbia il cambio automatico” (o anche, in un contesto più colloquiale, che ha il cambio automatico, non certo *che aveva il cambio automatico). Ovviamente, su questa frase agisce l’influenza della costruzione discussa sopra vorrei che + congiuntivo imperfetto (vorrei che la mia auto avesse…), ma in questo caso il modello è fuorviante e va tenuto distinto da questa costruzione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se queste due espressioni sono equivalenti: “Ha commesso un errore ad andare in montagna” (nel senso che sarebbe stato preferibile, per es., se fosse andato al mare) e “Ha commesso un errore andando in montagna”.
Questa seconda formulazione, anche se il significato è facilmente intuibile, fa pensare al fatto che il soggetto abbia commesso un errore non ben precisato mentre si recava in montagna. In ogni caso è corretta anche la seconda espressione?
Desidererei poi sapere se per sinonimo si intende solo una parola che ha lo stesso significato di un’altra o anche, in senso  allargato, un’affermazione che corrisponde a un’altra, per esempio “dannarsi l’anima per ottenere un risultato”  e “fare i salti mortali per ottenere un risultato”.

 

RISPOSTA:

Il gerundio è un modo che può assumere diverse funzioni e per questo a volte necessita di informazioni aggiuntive per essere correttamente interpretato. Nella frase “Ha commesso un errore andando in montagna” il gerundio potrebbe essere causale (‘perché è andato / andata in montagna’) o temporale (‘mentre andava in montagna’). La prima interpretazione avvicina moltissimo la frase alla prima variante, nella quale la proposizione ad andare in montagna è proprio una causale implicita; la seconda, al contrario, presume un significato diverso. Va detto che la seconda interpretazione è piuttosto improbabile, visto che errore fa pensare decisamente a un’anticipazione valutativa dell’evento che sta per essere descritto (andare in montagna): per esprimere il significato di un errore non coincidente con l’andare in montagna qualsiasi parlante opterebbe per una costruzione che separi chiaramente i due eventi, per esempio mentre andava in montagna.
Il sinonimo è una parola, un’unità polirematica (per esempio, carro armato = panzer = tank) o una locuzione che abbia un significato riconducibile a una parola (per esempio dannarsi l’anima = sforzarsi). Nel caso di espressioni, a rigore è preferibile usare non il nome sinonimo, ma l’aggettivo sinonimico, quindi espressioni sinonimiche.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Il termine compagno deriva dal latino miedevale companio (“cum panis”) come è riportato nell’Etimologico Cortellazzo-Zolli della Zanichelli e in altri dizionari. Tuttavia mi piacerebbe sapere se è noto quando esattamente è stato introdotto nel Medioevo e le eventuali fonti più antiche conosciute dove compare la parola. 

 

RISPOSTA:

Le consiglio di fare lei stesso questa ricerca, usando lo straordinario TLIO, a cui può accedere a questo indirizzo: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Vedrà che la parola è ben attestata già dalla metà del XIII secolo, quindi dagli albori della scrittura in volgare, in testi di varia provenienza. 
Se, invece, a lei interessa non la prima attestazione in un volgare romanzo del territorio italiano della parola compagno, ma la prima attestazione in latino medievale della parola conpanio, il luogo da lei cercato è questo: 
 

Si quis in hoste de conpanio de conpagenses suos hominem occiderit, secundum quod in patria si ipso occidisset conponere debuisset in triplo conponat.

Si tratta di un articolo delle novellae della lex salica, di cui è difficile stabilire il periodo di redazione ma il cui terminus ante quem è l’inizio del IX secolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo tre frasi, nelle quali ci sono dei punti per me dubbi.

Le contraddizioni interne, l’incapacità di raggiungere onorevoli compromessi con gli alleati di governo e con i loro sostenitori più intransigenti (,) avevano generato un caos tale da spingere… (la virgola va messa?)

Sinistra Ecologia Libertà (SEL); Rifondazione Comunista; il Partito Comunista d’Italia; Azione Civile; Sinistra Critica; il Partito Comunista dei Lavoratori; gli arancioni di Luigi De Magistris; ”Possibile” il nuovo partito di Civati; i gruppi di Fassina “Futuro a Sinistra”; MDP (movimento democratico e progressista) di cui è coordinatore Roberto Speranza e Campo Progressista di Pisapia (,) costituiscono la zona paludosa creatasi a sinistra del Pd… (la virgola va messa?)

Abbiamo fatto di tutto affinché la scuola rimanga / rimanesse aperta.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la virgola, nella prima frase non è richiesta, visto che tutto il complesso Le contraddizioni interne, l’incapacità di raggiungere onorevoli compromessi con gli alleati di governo e con i loro sostenitori più intransigenti rappresenta il soggetto di avevano generato ed è buona norma non separare il soggetto dal predicato se non ci sono incisi in mezzo. Aggiungo che essendo il complesso formato da due membri, le contraddizioni interne e l’incapacità, è preferibile usare la congiunzione e (o una locuzione congiuntiva più complessa) per unirli, non la virgola; quindi Le contraddizioni interne e / nonché / come anche l’incapacità di raggiungere onorevoli compromessi con gli alleati di governo e con i loro sostenitori più intransigenti avevano generato. La virgola si usa per separare membri di un elenco quando questi sono almeno tre.
La seconda frase presenta lo stesso problema della prima, quindi la virgola non è necessaria neanche in questo caso. È, però, necessaria in altri punti del brano:
 

Sinistra Ecologia Libertà (SEL); Rifondazione Comunista; il Partito Comunista d’Italia; Azione Civile; Sinistra Critica; il Partito Comunista dei Lavoratori; gli arancioni di Luigi De Magistris; “Possibile”, il nuovo partito di Civati; i gruppi di Fassina “Futuro a Sinistra”; MDP (movimento democratico e progressista), di cui è coordinatore Roberto Speranza, e Campo Progressista di Pisapia costituiscono la zona paludosa creatasi a sinistra del Pd…

Nella terza frase sono corretti entrambi i tempi del congiuntivo; la scelta tra i due comporta una differenza di significato della frase. Il presente descrive il rimanere come attuale, l’imperfetto lo riporta al momento in cui abbiamo fatto. In altre parole, abbiamo fatto affinché rimanesse indica che l’impegno è stato mirato a far rimanere la scuola aperta in quel momento e non specifica (ma neanche lo esclude) se esso ha avuto effetti sul presente; abbiamo fatto affinché rimanga riguarda, invece, il presente, con una proiezione nel futuro.
Va anche detto, però, che il passato prossimo (abbiamo fatto) è un tempo sì passato, ma fortemente ancorato nel presente, per cui anche abbiamo fatto affinché rimanesse può essere interpretato come riguardante il presente. In considerazione di questo, la differenza semantica tra i due tempi del congiuntivo risulta molto sfumata in questa frase.
In sintesi, l’imperfetto risulta più ambiguo, perché si può interpretare come legato sia al passato sia al presente; il presente, invece, non provoca difficoltà interpretative. Ovviamente, se il rimanere è effettivamente situato nel passato, non nel presente, l’imperfetto è l’unica soluzione valida.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi indicate di seguito – tutte contenenti l’avverbio e congiunzione come – sono ben costruite?
1 – Come non avete capito la prima né la seconda volta, pensereste forse di capire adesso?
2 – Ha riso di gusto, come mai prima (= come mai prima d’ora).
3 – Rise di gusto, come mai prima (= come mai prima d’allora).
4 – Come promesso, ti invio queste foto.
5 – Come da lei indicatomi, le fornirei i dati richiesti.
6 – Come da bando, allego un mio documento di riconoscimento.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono corrette. La prima è un po’ forzata logicamente, ma comunque accettabile: paragona, infatti, un evento che non è avvenuto a una domanda sulla possibilità che un altro evento accada. Suggerirei, per questa frase, di sostituire come con se (se non avete capito…, pensereste di capire adesso?).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

Leggendo le risposte alle domande in archivio, ho letto questa vostra risposta:
“Nella frase (“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”), […] come studente è un complemento predicativo”. Perché la grammatica di R. Zordan analizza le espressioni introdotte da “come, in
qualità di…” apposizioni?
Ho poi un dubbio su questa espressione. Si deve dire “il mio percorso di studi universitariO” o “il mio percorso di studi universitarI”?
Infine, si deve dire (se parla un uomo) “Se fossi stato una persona…” o “Se fossi stata una persona…”?

 

RISPOSTA:

La classificazione delle espressioni nominali costruite con come è a metà strada tra l’apposizione e il complemento predicativo. Io preferisco distinguere tra casi come lo studente Giuseppe, in cui il sintagma lo studente è strettamente legato al nome che accompagna, al pari di un aggettivo, ed è apposizione, e Giuseppe, come studente, in cui il sintagma ha maggiore autonomia sintattica (potremmo spostarlo in molte posizioni: Giuseppe è bravo, come studente, diversamente dall’altro: *Giuseppe è bravo lo studente). Per comodità, molte grammatiche non fanno una simile distinzione e accomunano le due espressioni nella categoria delle apposizioni, associando il complemento predicativo esclusivamente alla presenza di un verbo copulativo (Giuseppe è diventato uno studente modello) o di un verbo predicativo con funzione copulativa: Giuseppe è stato premiato come studente.
La concordanza dell’aggettivo con espressioni internamente solidali ma non cristallizzate è libera: entrambe le soluzioni, percorso di studi universitario e percorso di studi universitari, sono accettabili e difendibili. Propenderei, comunque, per la concordanza con percorso, visto che è il costituente più simile alla testa di un composto. Nei composti e nelle unità polirematiche (per un approfondimento sul concetto di unità polirematica rimando all’archivio di DICO), infatti, è la testa, cioè il costituente dominante, che guida la concordanza: un capostazione rigoroso (non *un capostazione rigorosaun treno merci lunghissimo (non *un treno merci lunghissime), occhiali da sole nuovi (non *occhiali da sole nuovo).
Anche quando la parte nominale o il complemento predicativo contiene un nome di genere e/o numero diversi da quelli del soggetto (il suo terzo dubbio) si crea un problema di accordo, questa volta del participio passato o della persona del verbo. A rigore, il verbo (quindi anche il participio passato che ne fa parte, concorda con il soggetto (quindi se fossi stato una persona); l’attrazione della parte nominale, però, è molto forte, perché la parte nominale è il sintagma adiacente al verbo e perché, tutto sommato, con il verbo essere o un verbo copulativo la parte nominale identifica il soggetto al pari del soggetto stesso. Ne consegue che entrambe le soluzioni sono accettabili, con una preferenza, anche in questo caso, per l’accordo con il soggetto.
Un esempio di dubbio sull’accordo della persona del verbo potrebbe essere il seguente: “I miei amici sono la mia famiglia” / “la mia famiglia è i miei amici”. Si noterà dall’esempio che quando il soggetto è plurale e il nome del predicato è singolare il verbo difficilmente va al singolare: i miei amici è la mia famiglia è possibile al pari di se fossi stata una persona, ma sfavorito; al contrario, quando il soggetto è singolare e il nome del predicato plurale è l’accordo con il nome del predicato a essere preferito: la mia famiglia sono i miei amici. Difficile spiegare la ragione di questa differenza di trattamento dell’accordo, ma probabilmente essa dipende dalla maggiore salienza semantica del plurale rispetto al singolare: il plurale, cioè, attrae l’accordo del verbo più fortemente del singolare, a prescindere dalla funzione sintattica dei sintagmi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio circa la seguente costruzione:
“Michele ascoltò la storia della sua adolescenza vista dall’esterno: in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso”.
È corretto scrivere (o dire) lui stesso, o si sarebbe dovuto propendere per se stesso?

 

RISPOSTA:

Questa frase è senz’altro un caso limite: rappresenta una situazione in cui una persona sente parlare di sé da un’altra persona. Non è sorprendente che questo provochi una certa confusione nei riferimenti dei pronomi. A rigore,  rimanda al soggetto della frase, quindi nella frase in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso non si può usare, perché il soggetto della frase non è Michele, bensì tutto lui stesso. Ne consegue che lui stesso è il pronome corretto. Nello stesso tempo, però, è evidente che tutto lui stesso è proprio Michele, quindi sé stesso è giustificabile per logica.
Piccola notazione grafematica: nonostante l’inveterata abitudine a scrivere  senza accento quando è seguito da stesso, consiglio di mantenere sempre l’accento, perché la parola è sempre la stessa e non c’è ragione di modificarne la grafia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il pronome ne può alludere a due sintagmi distinti all’interno della stessa frase? In questi casi ci si affida alla logica, che ci permetterebbe di risalire al giusto riferimento, oppure esiste una regola grammaticale che inibisce tutto ciò?
Un esempio: “Abbiamo intervistato una ragazza di diciotto anni, ma dovremmo intervistarne anche una che ne avesse venti”.

 

RISPOSTA:

La costruzione è possibile e corretta: come ha supposto lei, in casi come questi la logica permette di ricondurre i due pronomi ognuno al suo antecedente. Piuttosto, nella sua frase la sbavatura è il tempo del congiuntivo nella proposizione relativa; visto che la qualità dell’età è presente, il congiuntivo deve essere presente (che ne abbia venti).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sempre saputo che il condizionale passato non può essere usato per proiettare un’azione al passato del passato. Poniamo però che io debba esprimere una condizione non realizzata nel passato del passato. Ciò diventerebbe difficile senza usare il condizionale passato; es.:”Mario mi disse che, se IN PRECEDENZA lo avessi ingannato, si sarebbe adirato”. Quell’IN PRECEDENZA non lascia dubbi sulla collocazione temporale del periodo ipotetico, ma l’espressione è sintatticamente corretta?

 

RISPOSTA:

L’espressione è sintatticamente corretta e non in contraddizione con l’assunto iniziale. Innanzitutto le forme verbali avessi ingannato e si sarebbe adirato sono in relazione tra loro nell’ambito del periodo ipotetico, che è solo in parte coincidente con il sistema della consecutio temporum. Anche così, comunque, l’evento descritto dal condizionale passato è senz’altro successivo (non precedente) rispetto al momento passato in cui avviene l’inganno.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Vorrei porvi un quesito di natura semantica. La parola chiave può essere usata correttamente in un contesto di questo tipo, nel quale si vogliono descrivere le penose sofferenze di un soggetto in preda ad una crisi di panico?
“Decodificava tutti gli aspetti della realtà, che cadevano sotto il dominio delle sue percezioni, IN CHIAVE di morte”. 
Intendo dire che tutto ciò che vedeva, sentiva, toccava gli evocava l’idea di morte. 

 

RISPOSTA:

Per la precisione, la sua domanda riguarda non la parola chiave, ma l’espressione idiomatica in chiave ‘dal punto di vista, secondo il criterio, in accordo con il quadro di riferimento’. Questa espressione, derivata dalla terminologia musicale (nel pentagramma la chiave indica come devono essere interpretate le note poste in una certa posizione), è quasi sempre seguita da un aggettivo (in chiave umoristicain chiave religiosa) e meno frequentemente da di + nome senza articolo, come nella sua frase. Si noti che proprio quest’ultima costruzione, meno frequente nella lingua comune, coincide con quella originaria musicale (in chiave di sol). I nomi che possono essere aggiunti all’espressione in chiave di (ma anche gli aggettivi che completano l’espressione in chiave) devono indicare un modo di vedere o di fare, un’ideologia, un insieme di principi, altrimenti l’espressione risulta innaturale; nel suo caso, la morte è un fenomeno, non un modo di vedere un fenomeno, quindi l’espressione non è ben formata. Le suggerisco un’alternativa più semplice, ma comunque elegante: come presagi di morte. Se volesse mantenere l’espressione in chiave, invece, potrebbe modificarla in in chiave mortifera. Si potrebbe pensare che mortifero equivalga a di morte, ma non è così; di morte equivale, infatti, a mortale e in chiave mortale sarebbe malformato al pari di in chiave di morteMortifero, invece, significa ‘che porta morte’ o, come in questo caso, ‘che fa pensare alla morte’ (quindi in chiave mortifera ha lo stesso significato di come presagi di morte). 
A margine, le suggerisco anche di eliminare le virgole che racchiudono la proposizione relativa; questa, infatti, è limitativa, non esplicativa (su questo concetto può vedere la risposta n. 2800599 dell’archivio di DICO).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”.
In analisi logica che cos’è l’avverbio moltoCome studente è un’apposizione oppure un complemento predicativo?

 

RISPOSTA:

In analisi logica gli avverbi che modificano gli aggettivi sono considerati parte dell’attributo, del complemento predicativo o della parte nominale rappresentati dall’aggettivo. Nella sua frase molto superficiale è parte nominale. Come studente è un complemento predicativo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se intendo manifestare l’intenzione di andarmene da un luogo chiedendo consenso in maniera indiretta con la frase “Se posso, andrei a letto” è scorretto?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta da ogni punto di vista.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Da sempre – spero a ragione – uso l’aggettivo suo (con le dovute declinazioni di genere e numero) in riferimento al soggetto della proposizione o del complemento, data la versatilità che lo contraddistingue; per contro, proprio nelle mie costruzioni ha avuto – e ha tuttora – un ruolo circoscritto al solo soggetto. Se la premessa è valida, mi sentirei di segnalarvi alcune criticità.
Prendiamo ad esempio la proposizione Paolo era insieme al suo amico e a sua moglie. 
Mettiamo, inoltre, che per ragioni a noi ignote non si possa modificare l’assetto della costruzione (che ci permetterebbe di agevolarne la comprensione). A rigore, la moglie in esame sarebbe quella dell’amico di Paolo. Se invece si fosse trattato della moglie di Paolo, si sarebbe optato per propria
Sviluppando però questa circostanza, per omogenità di stile e di messaggio, a mio avviso, dovremmo sostituire anche l’aggettivo suo in relazione all’amico del soggetto, vale a dire Paolo.
La frase, così rielaborata, avrebbe questo effetto (su cui vorrei interpellarvi): Paolo era insieme al proprio amico e alla propria moglie. 
Per tirare le somme, e aggiungendo una subordinata, vi chiederei se le seguenti chiose sono valide: Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con la propria moglie (in questo caso la moglie è dell’amico di Paolo). 
Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con sua moglie (in questo caso la moglie è di Paolo).

 

RISPOSTA:

La distinzione tra suo e proprio è nei termini da lei indicati: proprio si può usare soltanto in riferimento al soggetto della proposizione, mentre suo può riferire a qualsiasi sintagma della frase (immagino che lei intenda questo quando parla di soggetto del complemento). Detto questo, una frase come “Paolo era insieme al suo amico e alla propria moglie” è ineccepibile; la omogeneità di stile e di messaggio da lei evocata è un fattore del tutto soggettivo, non generalizzabile; al contrario, direi che la variante insieme al proprio amico e alla propria moglie risulterebbe inutilmente farraginosa, sebbene non scorretta. Lo stesso dicasi per la seconda frase: la variante Paolo parlò al suo amico è del tutto legittima, visto che non c’è nella frase un altro referente concorrente di Paolo. La terza frase presenta lo stesso problema della prima: a rigore tanto propria moglie quanto sua moglie possono rimandare alla moglie del soggetto della proposizione, il pronome che, a sua volta coreferente di il proprio amicosua moglie, però, potrebbe essere la moglie di Paolo, per cui, per escludere ogni ambiguità, è preferibile usare propria moglie se la moglie è dell’amico e usare una perifrasi (per esempio con la moglie di Paolo) nel caso in cui la moglie sia di Paolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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QUESITO:

Vorrei presentarvi alcune costruzioni per chiedere lumi circa il pronome.
“Poteva anche essere un semplice amico, visto il calore con cui lui / egli / questo l’aveva salutata”. A prescindere dalla scelta tra lui egli questo – che suppongo libera senza tema di incorrere in un errore -, il pronome è consigliato o facoltativo?
“Domandami se io sono/sia d’accordo”. Come sopra. L’inserimento del pronome può avere una funzione enfatica se si opta per l’indicativo presente? Nel caso invece si opti per il congiuntivo, immagino che esso sia obbligatorio per disambiguare il riferimento alla persona.
“Camminando da solo per il parco che lui amava, pensai ai ricordi più vivi di mio padre”. L’anticipazione del pronome è corretta?
Infine, mi piacerebbe conoscere quali sono i contesti sintattici in cui l’inserimento del pronome è non già facoltativo o sconsigliato, ma addirittura errato.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il pronome è superfluo perché il soggetto della proposizione relativa coincide con quello della proposizione reggente. Si può, comunque, inserire per enfatizzare il soggetto (per esempio per esprimere un contrasto: lui diversamente da un altro) o disambiguarne l’identità nel caso in cui ci siano più referenti possibili. La differenza tra lui e egli è diafasica: egli è più formale; questo accentua la distinzione con un quello eventualmente presente nel cotesto più ampio. Per ottenere una sfumatura distintiva si può optare anche per questi costui, pronomi dimostrativi soggetto singolari di sapore letterario.
Nella seconda frase è vero che il pronome è superfluo (ma comunque possibile per le stesse ragioni viste per la prima frase) se si usa l’indicativo; se si usa il congiuntivo, invece, esso non è obbligatorio, ma consigliabile. Per convenzione è obbligatorio soltanto quando il soggetto del congiuntivo presente o imperfetto è di seconda persona (se tu siase tu fossi).
Nella terza frase l’anticipazione, o catafora, è possibile, quindi corretta.
Un pronome può essere superfluo, come nei casi commentati sopra, ma difficilmente il suo inserimento può essere giudicato errato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto dire “avrei paura che tu possa ammalarti” o “che tu potessi ammalarti”. 

 

RISPOSTA:

Nella consecutio temporum il condizionale presente si comporta come l’indicativo presente, quindi avrei paura = ho paura. Pertanto, così come si dice ho paura che tu possa si dirà avrei paura che tu possa.
Bisogna dire che i verbi di volontà, desiderio, opportunità al condizionale presente reggono preferenzialmente il congiuntivo imperfetto, non presente (vorrei che tu potessisarebbe meglio che tu potessi ecc.); avere paura potrebbe essere attratto da questi verbi, visto che semanticamente equivale a ‘non desiderare’ (avrei paura = non desidererei), quindi la costruzione con il congiuntivo imperfetto è giustificabile e non può essere considerata scorretta.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Dire speriamo venghino è sbagliato?

 

RISPOSTA:

Venghino è una forma scorretta (si veda in proposito la risposta Il congiuntivo alla Fantozzi dell’archivio di DICO). La forma corretta è vengano.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Come posso spiegare (in modo semplice e non solo teorico) alla mia nipotina di V elementare la differenza tra un verbo riflessivo proprio e intransitivo pronominale? Ha avuto difficoltà (poi superate consultando il dizionario) nello svolgimento di un esercizio in cui occorreva individuare il gruppo di appartenenza di verbi come si diressesi addormentòsi sentiva… 
Inoltre, come spiegare che un verbo come addormentarsi è intransitivo ma addormentare è transitivo?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima domanda, la rimando alla risposta Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale  dell’archivio di DICO. Nell’archivio, inoltre, può trovare altre risposte che ruotano intorno allo stesso argomento inserendo nel motore di ricerca interno le parole pronominaliintransitiviriflessivo e riflessivi. Sintetizzo, comunque, la questione: i verbi riflessivi hanno un soggetto che è anche il complemento oggetto; gli altri verbi che si costruiscono con un pronome sono pronominali transitivi (anche detti riflessivi apparenti) o intransitivi. In altre parole, nella frase Luca si diresse a scuola possiamo dire che Luca diresse sé stesso, cioè diede a sé stesso le indicazioni per andare a scuola? Ovviamente no, quindi dirigersi non è un verbo riflessivo, ma è un verbo pronominale (perché contiene il pronome si). Questo verbo regge il complemento oggetto? No, quindi è un verbo pronominale intransitivo. Lo stesso vale per addormentarsi (il soggetto non addormenta sé stesso) e sentirsi (il soggetto non sente sé stesso). Come si può intuire, i verbi riflessivi non sono molti; molti di più sono i pronominali intransitivi. I pronominali transitivi, dal canto loro, non sono altro che verbi transitivi a cui aggiungiamo un pronome per enfatizzare la partecipazione del soggetto: mi lavo i capelli (= ‘lavo i miei capelli’), mi mangio un panino (= ‘mangio un panino con soddisfazione’) ecc. Alcuni verbi possono essere pronominali transitivi e intransitivi, a seconda della frase: mi sento male (sentirsi è intransitivo) / mi sento la febbre (sentirsi è transitivo).
Molti verbi da transitivi divengono intransitivi quando sono costruiti con un pronome. Possiamo individuare due tipi diversi di questi verbi: nel primo il pronome prende il posto del complemento oggetto, non perché l’azione descritta parta dal soggetto per tornare sul soggetto stesso, ma perché l’azione rimane sul soggetto e non coinvolge nessun altro partecipante. In questo tipo rientra addormentarsi, la cui azione rimane sul soggetto, non viene trasmessa ad altri, neanche al soggetto stesso. Nell’altro tipo il pronome prende sempre il posto del complemento oggetto, ma l’azione non rimane sul soggetto, bensì transita ad altri partecipanti indirettamente, come in rivolgersi a qualcunoscusarsi con qualcunoavvicinarsi a qualcuno ecc. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Che ruolo sintattico assume da te nella frase “Da te voglio una risposta”?

 

RISPOSTA:

Il sintagma da te dipendente da voglio è un complemento di provenienza. La frase, infatti, può essere parafrasata come voglio una risposta proveniente da te o voglio ricevere una risposta da te
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “speriamo vengono da noi”, oppure bisogna dire “speriamo vengano da noi”?

 

RISPOSTA:

Il verbo sperare preferisce sempre il congiuntivo nella proposizione completiva. A maggior ragione, se viene omesso il che il congiuntivo è ancora più atteso, perché questa scelta eleva il registro. Per quando non si possa dire che speriamo vengono sia sbagliato, è certamente una costruzione molto trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale tra i due verbi in maiuscolo è corretto?
TESTO FANTASTICO
… il pesce viveva in quel sasso perché non c’era nessuno, poteva stare solo e nascondere i suoi poteri. Dopo un po’ che Anna e il pesce si SONO GUARDATI / ERANO GUARDATI senza dire niente il pesce ha iniziato a parlare… 

 

RISPOSTA:

Tra le due forme verbali in questione è preferibile il trapassato prossimo, si erano guardati, perché la situazione è collocata in un passato non precisato, scollegato dal presente. Per la stessa ragione, ci si aspetterebbe che l’azione principale sia espressa al passato remoto, quindi il pesce iniziò a parlare.
Il passato prossimo sarebbe stato preferibile, al contrario, in una situazione vicina o collegata in qualche modo al presente, per esempio: “La festa di ieri si è movimentata parecchio dopo che è arrivato Luca” (ma “La festa si movimentò parecchio dopo che era arrivato Luca”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Se dico “E tu non la condividi?” oppure “E tu la condividi?” la domanda ha sempre lo stesso significato? Se rispondo si a queste due domande la risposta ha il medesimo significato?

 

RISPOSTA:

In una domanda che comincia con la negazione, quasi sempre essa ha soltanto funzione retorica, che punta a indirizzare l’interlocutore a rispondere positivamente (quindi a condividere). La risposta alla domanda con negazione, pertanto, sarà la stessa di quella data alla domanda senza negazione. In altre parole, una domanda come non la condividi? equivale quasi sempre a la condividi, no? A questa domanda, pertanto, si risponderà allo stesso modo in cui si risponderebbe alla semplice domanda la condividi?, ovvero  nel caso in cui la si condivida, no nel caso in cui non la si condivida.
La possibilità che la negazione sia effettiva, e non retorica, è remota (nel caso i parlanti cercheranno di formulare la domanda diversamente); per evitare ambiguità, comunque, si può espicitare il senso della risposta, per esempio “Sì, la condivido” o “No, non la condivido”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Considerando corretta la seguente frase: “Nei giorni feriali sono vietate le visite”, mi domando se lo siano anche: “I giorni feriali sono vietate le visite” oppure: “I giorni feriali sono vietati alle visite”.

 

RISPOSTA:

La variante i giorni feriali… è corretta, visto che le espressioni nel giorno e il giorno sono entrambe valide per esprimere il tempo determinato. 
Vietato a è usato tradizionalmente soltanto in relazione alla persona che non può compiere l’azione, non all’azione stessa. In altre parole, un’azione può essere vietata a qualcuno, ma non si può vietare qualcuno all’azione. Ancora meno è possibile vietare un luogo o un tempo a un’azione, come avviene nel suo esempio. 
Una ricerca in Internet rivela l’esistenza attuale della struttura da lei immaginata, ma con pochissimi esempi (quindi da considerare eccezioni) e comunque tutti legati al luogo, non al tempo: monastero / ospedale / stadio vietato alle visite e pochi altri casi. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla correttezza dei verbi in questa frase: “Già piangeva, prima di sapere se l’avrei interrogata”.

 

RISPOSTA:

Le forme verbali sono corrette: l’infinito sapere nella temporale è richiesto dall’identità di soggetto tra la temporale stessa e la reggente ed è in linea con la consecutio temporum, perché il sapere è successivo al piangere. Il condizionale passato avrei interrogata nella interrogativa indiretta è a sua volta in linea con la consecutio, perché l’evento è successivo rispetto a un altro evento passato, ovvero sapere (consideriamo l’evento del sapere passato perché esso è successivo rispetto a un tempo passato). Si intende, ovviamente, che il pronome eliso l’ stia per la, così da giustificare il participio femminile singolare interrogata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Quando si fa il comparativo con il verbo piacere si usa la preposizione di oppure il pronome che?

 

RISPOSTA:

La parola che introduce il secondo termine di paragone dipende dalla composizione del secondo termine stesso (non da quella del primo termine). Si usa che (che in questo caso è una congiunzione, non un pronome) quando il secondo termine è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio. In tutti gli altri casi si usa di. Gli aggettivi inferiore e superiore richiedono a (inferiore alla media).
Quindi, per esempio, si dirà piace ad Andrea più che a Luca (il secondo termine di paragone è costituito da un nome preceduto da una preposizione), mi piace più sciare che nuotare (il secondo termine di paragone è costituito da un verbo), quel modello mi piace più rosso che bianco (il secondo termine di paragone è costituito da un aggettivo) ecc. 
Non è escluso che la congiunzione che si usi anche quando il secondo termine di paragone è costituito da un nome senza preposizione: mi piacciono più i leoni dei / che i giaguari
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nella frase “Chiesi alla maestra che cosa avesse fatto studiare e che cosa avesse chiesto”, la proposizione e che cosa avesse chiesto è una subordinata oppure una coordinata.

 

RISPOSTA:

La proposizione è coordinata a una subordinata, quindi è anche subordinata. In particolare, è una interrogativa indiretta coordinata a un’altra interrogativa indiretta, che cosa avesse fatto studiare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quando è possibile non usare il trapassato prossimo? Nelle seguenti frasi, l’anteriorità non viene espressa con il trapassato ma con gli avverbi di tempo:
“Stamattina Franco mi ha detto che ieri è andato dal medico”.
“Marta ha detto che ieri è rimasta a casa tutto il giorno”.
Forse se l’avverbio di tempo esprime chiaramente la relazione dei due fatti passati non è necessario esprimerla con i tempi passati? Quindi sarebbe sbagliata la frase con il trapassato?
Nell due frasi seguenti al passato però bisogna esprimere l’anteriorità con il trapassato. Quindi non sarebbero giuste con il passato prossimo?
“A casa di Lucia ho rivisto una ragazza che avevo conosciuto qualche mese fa in discoteca”.
“Ieri Giulio mi ha reso i soldi che gli avevo prestato un mese fa”.
Nelle seguenti frasi al futuro bisogna usare il passato prossimo o il futuro anteriore? O tutto dipende dal fatto che l’azione sia già accaduta o no?
“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”.
Sono andate = già di sicuro sono accadute;
saranno andate = queste cose non sono ancora avvenute.
“Se Luisa non ci vedrà alle sei, penserà che ci siamo / ci saremo dimenticati dell’appuntamento. 
“Diremo ai nostri amici che siamo / saremo dovuti restare a casa fino a quando tornerà Carlo”.
“Sergio sarà sicuro che noi abbiamo / avremo sbagliato strada”.
“Quando vedranno che il figlio è / sarà rimasto a dormire fuori, si arrabbieranno certamente.

 

RISPOSTA:

La ragione della preferenza per il passato nelle proposizioni subordinate completive nelle prime due frasi è senz’altro la vicinanza dell’evento della reggente al presente e, in più, la presenza dell’avverbio ieri nella subordinata, che instaura una relazione diretta con il presente (ovvero con il momento dell’enunciazione), non con il momento di riferimento, rappresentato dal verbo della reggente. Se modifichiamo ieri con il giorno prima, vediamo che il trapassato diviene molto meno forzato (per poterlo fare, però, dobbiamo anche spostare la principale indietro nel tempo): “L’altro giorno Franco ha detto che il giorno prima è / era andato dal medico”; “Marta ha detto che il giorno prima è / era rimasta a casa tutto il giorno”. Il passato nella completiva rimane possibile anche spostando indietro nel tempo l’evento della reggente: questo avviene perché nella reggente c’è ancora il passato prossimo, che mantiene una relazione logica con il presente. Se sostituiamo il passato prossimo con il passato remoto o con l’imperfetto, il passato prossimo nella completiva diviene quasi impossibile: “Franco disse / diceva che il giorno prima era andato dal medico”; “Marta disse / diceva che il giorno prima era rimasta a casa tutto il giorno”. 
Nelle seconde due frasi le subordinate sono relative, non completive. Le relative sono del tutto svincolate dalla consecutio temporum e prendono il tempo che serve a indicare il momento in cui è avvenuto l’evento. Il tempo usato a volte coincide con quello della consecutio (come nei suoi esempi), ma può essere diverso; ce ne accorgiamo perché possiamo usare al suo interno il passato remoto, che nella consecutio temporum non è contemplato: “A casa di Lucia ho rivisto quella ragazza di cui ti parlai qualche mese fa in discoteca”.
Nell’ultimo gruppo di frasi, infine, si può usare il passato prossimo e il futuro anteriore. La differenza è nel punto di vista da cui si guarda l’evento della completiva. Prendiamo ad esempio la prima frase (“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”): se si considera il momento dell’evento della reggente (dirò) come futuro rispetto al momento dell’enunciazione (adesso) nella completiva si userà il futuro anteriore (saranno andate), se lo si considera come coincidente con il momento dell’enunciazione (dirò = adesso) si userà il passato prossimo (sono andate). In questo secondo caso, ovviamente, si fa una piccola forzatura logica, immaginando di spostarsi per un attimo nel futuro e di guardare l’evento della completiva da quel punto di vista come se fosse presente. I parlanti fanno spesso tale forzatura per semplificare la costruzione delle frasi eliminando il problema del momento di riferimento. Questa scelta comporta una conseguenza negativa: si crea ambiguità tra i punti di vista. Il passato prossimo, infatti, può riferirsi anche a un momento precedente all’evento della reggente. In “A voce ti dirò come sono andate le cose con Franco”, cioè, sono andate può essere successo prima di adesso (momento dell’enunciazione) o prima di dirò (momento di riferimento = momento dell’enunciazione). Il fatto che il passato prossimo sia più ambiguo del futuro anteriore lo rende più trascurato; spesso, però, nella comunicazione reale l’ambiguità si risolve in altri modi, per cui il passato prossimo è un’opzione valida. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coerenza
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto scrivere: “Se mi scrivi un messaggio lo leggerò come se fosse un romanzo”?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Al suo interno troviamo la proposizione principale all’indicativo lo leggerò che regge due subordinate di primo grado: la subordinata ipotetica se mi scrivi un messaggio, con la quale forma un periodo ipotetico del primo tipo, e la proposizione comparativa ipotetica come se fosse un romanzo. Si noti che la proposizione comparativa ipotetica richiede quasi esclusivamente il congiuntivo imperfetto o trapassato (rarissimi il presente e il passato) in relazione al grado di ipoteticità della comparazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Rivolgendosi ad una persona di sesso maschile con il pronome di cortesia lei è corretto dire l’avrei chiamato?

 

RISPOSTA:

La questione è stata affrontata nella risposta n. “Lei”, “voi”, “loro” , che si può leggere nell’archivio di DICO. La situazione è così esemplificata: “Signor Bianchi, la ho (l’ho) chiamata perché lei mi sta simpatico“. In altre parole, l’aggettivo concorda al maschile (simpatico), il participio passato del verbo composto con ausiliare avere e preceduto dal pronome (la) concorda al femminile (chiamata). Il participio passato del verbo composto con ausiliare essere, invece, concorda al maschile (si comporta, cioè, come un aggettivo): “Signor Bianchi, sono contento che lei sia arrivato“.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Parlando col diretto interessato si potrebbe dire “Spero che stai bene”? Oppure ci vuole sempre il congiuntivo?

 

RISPOSTA:

L’indicativo è corretto ma più trascurato: la scelta dipende dal registro che si vuole usare. Per approfondimenti sulla proposizione oggettiva retta dal verbo sperare può vedere anche le risposte “Spero che può, possa o potrebbe” e “Spero che i dati” dell’archivio di DICO.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali varianti sono corrette?
a) Ci siamo fatte / fatti / fatto un regalo.
b) Dal possibile vantaggio dei padroni di casa si è passati / passato al gol degli ospiti.
c) Hai recitato le preghiere ieri sera, o ne hai recitata / recitate / recitato più di una.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono corrette. Per quanto riguarda la prima frase, ci si aspetta che il participio passato di un verbo con l’ausiliare essere concordi con il soggetto, che nella frase in questione è noi. In quanto al genere (fatti o fatte) il pronome ci non è trasparente, per cui si userà fatte se il soggetto è femminile, fatti se è maschile. A favore di fatto, però, depone la presenza nella frase del complemento oggetto (un regalo), che quando il verbo ha l’ausiliare avere può concordare con il participio passato (ho fatta una torta). Questa situazione rende anche la costruzione ci siamo fatto un regalo possibile, per quanto più rara.
Nella seconda frase non c’è un soggetto, perché il verbo è impersonale; per questo motivo il participio rimarrà invariato: si è passato. L’italiano, però, ammette anche la struttura (noi) si è passati, diffusa soprattutto in Toscana e nella tradizione letteraria (si confronti questa costruzione con “oppure, quando si è arrivati a fondare un partito” estratto da L’orologio di Carlo Levi, 1951).
Nella terza, infine, il participio può rimanere invariato (recitato), visto che ne non richiede necessariamente l’accordo del participio di un verbo con ausiliare avere (al contrario di lolalile), oppure può concordare con il complemento oggetto (come nell’esempio visto sopra di ho fatta una torta), che è una (quindi recitata). Discutibile, ma ammissibile, è l’accordo con il nome a cui rimanda ne, ovvero preghiere (quindi recitate).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Questi sono i bambini che li ha salvati” per esprimere appunto che una persona ha salvato dei bambini?
Si dice arriva subito o arriverà subitoÈ fallita o era fallita?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase c’è un problema a monte della concordanza del participio passato. Il pronome che rimanda a i bambini e svolge, nella proposizione relativa che li ha salvati, la funzione di complemento oggetto (perché qualcun altro, il soggetto, ha salvato i bambini). La presenza di che con la funzione di complemento oggetto rende superflua la presenza di li, che svolge la stessa funzione. Se eliminiamo li, che è ridondante, cade il problema della concordanza del participio passato, perché il pronome che non richiede la concordanza (che, invece, è richiesta da li). La forma più corretta della frase, pertanto, è “Questi sono i bambini che ha salvato” (o, se vogliamo enfatizzare il soggetto, “Questi sono i bambini che lui ha salvato”). Non è esclusa “Questi sono i bambini che ha salvati”, che, però, suona artificiale e antiquata.
Entrambe le espressioni arriva subito e arriverà subito sono corrette; tra le due, quella con il futuro è più formale e quella con il presente, di conseguenza, di registro più colloquiale.
Tra è fallita e era fallita, infine, c’è una differenza semantica, legata ai due diversi tempi verbali usati: la scelta tra le due varianti può essere fatta non in astratto, ma soltanto all’interno di una frase.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questa frase è vero che vanno bene entrambe le forme verbali? 
Ho saputo che Nicola domenica prossima sarebbe partito / partirà con la macchina e non con l’aereo.

 

RISPOSTA:

L’indicativo futuro è preferibile per due ragioni: 1. quando il momento dell’enunciazione, cioè adesso, si inserisce tra il momento di riferimento (in questo caso quello in cui ho saputo) e il momento dell’evento (partirà), il momento dell’enunciazione attrae il tempo dell’evento, che quindi entra in relazione con il presente; 2. il passato prossimo (ho saputo) è proiettato sul presente, per cui spesso si comporta come il presente nella consecutio temporum. Il condizionale passato non si può dire scorretto, ma è forzato; sarebbe più adatto in dipendenza da un imperfetto o un passato remoto: sapevo / mi dissero che domenica prossima sarebbe partito. Per la ragione 1. spiegata sopra, comunque, anche in questo caso si può usare anche l’indicativo futuro: sapevo / mi dissero che domenica prossima partirà.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Verbo
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QUESITO:

Se scrivo “Penso che l’ossessione di Carla per Marco sia di gran lunga inferiore DELLA tua per lei (Carla)” è sbagliato?

 

RISPOSTA:

Il secondo termine di paragone è sempre introdotto da di (o che se è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio), tranne che con gli aggettivi inferiore e superiore, che richiedono a
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

n

RISPOSTA:

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Sto preparando un concorso e la banca dati è priva di risposte esatte. Ho qualche dubbio sulle seguenti 10 domande di grammatica.

1) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome indefinito?
a) Colui che parla è un buffone qualunque
b) Vado matto per certi tuoi dolci!
c) Riceveremo dei bei regali
d) Qualsiasi mezzo sarà buono per venire al mare
e) Quel tuo amico non mi ha detto niente

2) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Io e Giulia frequentiamo un corso di lingua tedesca
b) Credi a me, lo hai punito abbastanza
c) Luca ha preso in prestito tre libri dalla biblioteca
d) Quelle calze colorate potrebbero piacere molto a mia nipote
e) Egli non mi dà alcuna garanzia di riuscita

3) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Beati i miei cugini , che vanno tutti gli inverni per due settimane sulla neve!
b) Sono rimasta scioccata all’idea che pure lei, la mia vicina di casa, si è sposata!
c) Persino lui capì che dovevamo cambiare il nostro modo di fare!
d) Voi siete  colleghe dilavoro di mia sorella?
e) Potete contare sempre su di noi, anche se non ci facciamo vivi spesso

4) In quale delle seguenti frasi la particella pronominale “si” svolge la funzione di riflessivo apparente?
a) Prima di uscire Linda si accertò che tutto fosse in ordine come voleva lei
b) Si narrano molte leggende sull’origine di quel lago
c) All’uscita da scuola Nina e Piero si aspettano a vicenda
d) Il raffreddore si attacca molto facilmente
e) Marta si macchiò le mani con il toner della fotocopiatrice

5) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo intransitivo pronominale?
a) Mio figlio si agita sempre tanto e ciò succede ogni volta che incontra il tuo 
b) Giulia si impossessò della mia comoda poltrona e lì si addormentò
c) Non appena vi ha visti, lo zio vi ha salutati molto calorosamente
d) Per cucinare in casa mia si usano solo prodotti macrobiotici e di origine vegetale
e) Si inoltrerà la pratica inerente il tuo nuovo contratto di lavoro all’ufficio competente

6) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo alla forma passiva?
a) Un abile chirurgo di fama internazionale operò con successo mia zia
b) Durante quell’alluvione andarono perse numerose opere d’arte
c) Quel museo chiuderà per molto tempo al pubblico a causa di ingenti lavori di restauro
d) Studenti di una scuola francese attendono ancora di ricevere una lettera dagli alunni della II E
e) Se continuerà a non studiare non andrà in vacanza durante l’estate

7) In quale delle seguenti frasi è presente una preposizione impropria?
a) A colazione siamo soliti mangiare dei biscotti al cioccolato e bere del latte caldo
b) Potrà presentare le sue rimostranze presso l’ufficio reclami
c) Purtroppo mi si è già rotta la montatura degli occhiali
d) Tutti sono venuti a sapere del coraggio che hai dimostrato in quell’impresa
e) I tuoi genitori desiderano sopra ogni cosa la tua felicità

8) In quale delle seguenti frasi “che” ha funzione di complemento oggetto?
a) Ho appena finito di leggere il libro che mi è stato regalato per Natale
b) Pirro capì che aveva perso molti uomini in battaglia
c) Mio padre non ha compreso una sola parola di ciò che è stato detto
d) Cesare pensò di rendere onore ai nemici che aveva sconfitto
e) Dobbiamo continuare a camminare ora che siamo quasi arrivati

9) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome relativo?
a) Non so chi sia la persona alla tua destra
b) Da questo colle vedremo l’orso che esce dalla sua tana
c) Mi chiedo quale sia la data del prossimo colloquio
d) Mario crede che tu sia ancora all’estero
e) Penso che tu comprenda quale sensazione io stia provando

10) Che tipo di proposizione contiene la frase “Resta pure a casa fino all’ora di cena, perché non è importante che tu venga per la riunione”?
a) Consecutiva
b) Temporale
c) Concessiva
d) Finale
e) Soggettiva 

 

RISPOSTA:

Come spesso avviene con questo tipo di domande così puntuali, la risposta può essere non univoca. Alcune delle domande, infatti, ammettono una doppia risposta.
1) = e): il pronome indefinito è niente.
2) = b): il pronome personale complemento è lo, ma anche me si trova all’interno di un complemento.
3) = e): il pronome è noi.
4) = e).
5) = a) e b). Sono verbi intransitivi pronominali agitarsiimpossessarsiaddormentarsi.
6) = b): andarono perse (ovvero furono perse).
7) = b): presso, e e): sopra.
8) = d).
9) = b).
10) = e). La proposizione è che tu venga per la riunione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le locuzioni a meno che e a a meno di sono intercambiabili a prescindere dalla costruzione che vadano a comporre? Se e quando sarebbe eventualmente opportuno sceglierne una a discapito dell’altra?
Nel caso, ad esempio, di coincidenza dei soggetti di reggente e subordinata, è suggerito l’uso di a meno di, per evitare che si vengano a creare difficoltà interpretative? 
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno di non sbagliare l’esame finale
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno che non sbagliasse (avesse sbagliato?) l’esame finale
Chiedo, infine, se la scelta tra congiuntivo presente o congiuntivo imperfetto, oppure tra imperfetto e trapassato (come nell’esempio sopra), dipende dal grado di attuazione dell’evento che descrivono. 
Non vorrei farlo, a meno che lui non me lo chieda/chiedesse.

 

RISPOSTA:

Come mostrato dai suoi esempi, a meno che introduce una proposizione eccettuativa esplicita, al congiuntivo o all’indicativo, a meno di introduce la stessa proposizione implicita, cioè all’infinito. La domanda, pertanto, dovrebbe riguardare la differenza non tra le due locuzioni congiuntive, ma tra le due costruzioni della proposizione. Questa proposizione si costruisce quasi sempre in modo esplicito (quindi è introdotta da a meno che); il modo implicito (per il quale è richiesta a meno di) si può usare soltanto quando il soggetto coincide con quello della reggente, ma anche in questo caso la costruzione esplicita è comunissima, come si vede ancora dai suoi esempi.
Per quanto riguarda i tempi del congiuntivo all’interno di questa proposizione, essi dipendono dalla consecutio temporum: il presente indica contemporaneità o posteriorità rispetto al presente, l’imperfetto contemporaneità o posteriorità rispetto al passato, il passato anteriorità rispetto al presente, il trapassato anteriorità rispetto al passato. Il condizionale passato, infine, può essere usato in alternativa con il congiuntivo imperfetto per indicare la posteriorità rispetto al passato. Da questo quadro consegue che le due varianti della seconda frase sono corrette, ma diverse: a meno che non sbagliasse descrive l’evento come posteriore rispetto al momento di riferimento passato implicito nella frase, sullo stesso piano di sarebbe stato ammesso, anch’esso posteriore rispetto allo stesso momento di riferimento implicito; a meno che non avesse sbagliato, invece, descrive l’evento come precedente rispetto a sarebbe stato ammesso. Nella frase finale la situazione è leggermente diversa: a meno che non me lo chiedesse dovrebbe essere impossibile, perché il verbo reggente è al presente, ma il condizionale vorrei avvicina la frase a un periodo ipotetico del secondo tipo = lo farei se lui me lo chiedesse, che rende l’imperfetto accettabile (ma non preferibile). Non a caso, se al condizionale vorrei farlo sostituiamo l’indicativo, l’imperfetto diviene difficilmente giustificabile (*non lo faccio a meno che lui non me lo chiedesse), perché il modello del periodo ipotetico non è più attivato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coerenza
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QUESITO:

Nello studio della grammatica di nostra figlia ci siamo imbattuti un una discrepanza tra due libri di testo sull’argomento dei trigrammi che sono quindi a chiedervi di dirimere.
La prima domanda è quindi se i trigrammi siano da considerarsi due o quattro.
Inoltre:
1) in “Grammatica Pratica” di E. Sergio è scritto che ci e gi seguiti da ae, o, u sono digrammi. Quindi specieciecocielosocietàsuperficiebracierepancieragrattacieloigiene e derivati, effigie sono da considerarsi correttamente digrammi? 
2) Nella stessa grammatica viene illustrato il caso di sciatore fruscio e evidenziando che non si tratta di trigrammi. Sono quindi da considerarsi digrammi?
3) In “Datti una Regola” di E. Zordan c’è una nota sia per i digrammi che per i trigrammi: “nei gruppi cigi seguiti da vocali, la i serve solo da segno grafico per rendere dolci i suoni c e g“. Per segno grafico si intende segno diacritico? Ovvero nei digrammi e trigrammi i ed h sono sempre segni diacritici?

 

RISPOSTA:

I trigrammi in italiano sono 2, gli (come in aglio) e sci (come in sciocco). I digrammi, invece, sono sette: gl davanti a i (figli); gn davanti a vocale (compagno); ch davanti a e e i (chiedere); gh davanti a e e i (margherita); sc davanti a e e i (scena); ci davanti a aou (camicia); gi davanti a aou (valigia). Il caso dei gruppi ci e gi seguiti da e è oggetto di dibattito, perché qui la i non corrisponde a un fonema né ha funzione diacritica; continuiamo a scriverla soltanto per mantenere la somiglianza grafica delle parole con la loro base etimologica (ad esempio effigie effigiempanciera < pancia + -ieracamicie < camicia ecc.). Se eliminiamo questa i il suono della parola non cambia affatto (infatti alcune di queste parole si possono scrivere anche senza i, come pancera o effige). Effettivamente, però, anche in questo caso abbiamo due grafemi (i e g + i) che rappresentano un unico fonema, quindi possiamo considerarli digrammi.
Chi e ghi non sono trigrammi, ma l’unione di due digrammi, ch e gh, con la vocale (o la semivocale) i. Si noti, infatti, che in aglio e sciocco i gruppi di grafemi gli e sci rappresentano ognuno un unico suono, mentre in chiedere e ghiro i gruppi chi e ghi rappresentano due suoni, rispettivamente ch-i e gh-i
La i segno diacritico (o segno grafico, cioè senza valore fonetico) è quella che serve a indicare che il grafema precedente deve essere pronunciato come palatale (o dolce) e non come velare (o duro). Per esempio nella parola sciatto la i indica che il fonema corrispondente al digramma sc è palatale. Dal momento che il grafema i è funzionale alla pronuncia del digramma sc lo consideriamo un tutt’uno con esso, per cui otteniamo il trigramma sci. Se in questa parola togliamo il grafema i otteniamo una parola diversa, scatto, nella quale abbiamo due fonemi distinti, quello corrispondente al grafema s e quello corrispondente al grafema c velare (oltre agli altri che completano la parola). La i è un segno diacritico nei digrammi ci e gi e nei trigrammi; ha, invece, valore fonetico, cioè corrisponde a un fonema autonomo, quando è accentata (come in fruscio, in cui abbiamo il digramma sc seguito dal fonema corrispondente a i) oppure quando non è preceduta da sccg o gl (attivi). La parola sciare è un caso isolato, perché non si pronuncia sciàre, quindi con il trigramma sci, ma quasi scìàre, con la i autonoma. Per capire meglio questa particolarità basta confrontare la pronuncia di sciare con quella di sciara (‘la scia della lava depositata sui fianchi di un vulcano’), in cui sci è un trigramma.
Anche l’h è un segno diacritico, che indica il contrario della i, ovvero che il fonema precedente deve essere pronunciato come velare e non come palatale. In italiano l’h non ha mai valore fonetico (è “muta”), ma può servire 1. come segno diacritico; 2. a distinguere graficamente due parole omofone (ad esempio ha e a); a rappresentare una particolare emissione della voce nelle onomatopee ah!oh! e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quale alternativa tra avesse avrebbe completa correttamente le seguenti frasi:
“Credevo che… mangiato poco, invece era sazio.
“Credevo che… comprato qualcosa, invece ritornò a mani vuote”.

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette in entrambe le frasi, ma ne modificano il significato: credevo che avesse mangiato o comprato significa che gli eventi del mangiare e comprare sono avvenuti prima del momento in cui il parlante credevacredevo che avrebbe mangiato o comprato, al contrario, significa che il mangiare e il comprare potrebbero avvenire dopo il credere.
La prima frase con avrebbe, per quanto grammaticalmente possibile, è l’unica problematica, perché è prevedibile che una persona sazia mangi poco, quindi non si giustifica che la condizione di sazietà della persona sia presentata in opposizione (attraverso il connettivo invece) alla previsione che quella persona avrebbe mangiato poco.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali forme sono corrette?
Me ne hanno parlato bene di lui / mi hanno parlato bene di lui.
Io penso che il meglio DEBBA ancora avvenire / venire?
Io penso che il meglio DEVE ancora avvenire / venire ?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti di tutte le frasi sono corrette. Ci sono, tra l’una e l’altra, delle differenze semantiche e diafasiche, cioè di registro. Nella prima frase, la seconda variante è del tutto normale; la prima variante, invece, presenta il tema, cioè l’argomento, ripetuto due volte: la prima volta con il pronome ne, la seconda con il sintagma preposizionale di lui. Per un verso, questa ripetizione è un difetto sintattico (per questo motivo questa costruzione è da evitare nello scritto e nel parlato formale); per un altro, in certi contesti può essere utile ripetere due volte il tema, per sottolinearlo. Nella seconda e nella terza frase l’alternanza tra deve e debba è totalmente diafasica; la scelta tra l’una e l’altra forma va fatta in base al registro che si vuole tenere nel discorso: il congiuntivo è più formale, l’indicativo è meno formale. Tra venire e avvenire, invece, c’è una differenza di significato: venire significa ‘arrivare’, avvenire significa ‘succedere’. Entrambi i significati sono perfettamente coerenti con la frase e cambiano di poco il senso generale della frase stessa, quindi entrambi i verbi si possono usare. La frase, comunque, è piuttosto convenzionale ed è costruita quasi sempre con venire.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quando chiedo ad una persona quando ad esempio arriverà qualcuno che tempo verbale si usa?
Faccio subito un esempio… Si dice “a che ora arriva Marco?” oppure “a che ora arriverà Marco?”
Quale delle due affermazioni è corretta?

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambi i tempi: il futuro è la scelta più tradizionale, e dunque più formale, mentre il presente è la scelta più colloquiale ma adeguata a tutti gli usi.

Da decenni ormai il presente sta soppiantando il futuro in quasi tutti gli usi temporali, per cui non è da stupirsi né da gridare alla lesa maestà linguistica. Del resto, il fatto che l’azione si svolga al futuro è ricavabile praticamente sempre dal contesto. In “Il prossimo anno vado in America” non c’è certo bisogno del futuro per far capire che l’azione non si è ancora svolta, dal momento che basta il complemento di tempo “il prossimo anno”.

Il futuro regge invece ancora molto bene negli usi modali, tipici del parlato. Per es.: “Quanti anni avrà Marina?” – “Secondo me avrà sui trent’anni”. In questo caso (e in moltissimi altri simili: “Saranno state le 10 e un quarto” ecc.) il futuro non indica il tempo futuro dell’azione, bensì una possibilità, un’ipotesi. Quest’uso si chiama modale (perché il tempo è trattato alla stregua di un modo, per indicare l’atteggiamento del parlante), oppure epistemico, cioè ‘che ha a che fare con il grado di verità o certezza di quanto viene detto’.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le alternative al seguente esempio, segnalate con 1a, 1b e 1c, sono equivalenti e, soprattutto, anche in caso di differenze a livello di significato, si qualificano come accettabili dal punto di vista grammaticale?
1) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se fosse brutto tempo, starei a casa.
1a) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se non lo fosse, starei a casa.
1b) Se fosse bel tempo, andrei al lago. In caso contrario, starei a casa.
1c) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Diversamente, starei a casa.

 

RISPOSTA:

Si tratta di alternative tutte corrette e semanticamente praticamente equivalenti, tra le quali si può scegliere in base a criteri stilistici soggettivi. Una piccola sfumatura semantica distintiva si nota nelle ultime due, che aggiungono una locuzione avverbiale e un avverbio, quindi dicono qualcosa in più delle altre due. In caso contrario sottolinea l’opposizione delle due situazioni; diversamente non mette le due situazioni in contrapposizione, ma le qualifica, appunto, come diverse. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivo per chiedere qual è il grado di subordinazione di alcune proposizioni nel seguente periodo:
 

Poiché la punizione colpiva a caso e quindi tutti i membri della legione sotto accusa correvano il rischio di essere uccisi, i soldati erano spronati a comportarsi in battaglia in modo coraggioso.

Certamente i soldati erano spronati è la principale e a comportarsi in battaglia in modo coraggioso è subordinata di primo grado. Mi resta però il dubbio se poiché la punizione colpiva a caso sia subordinata di primo o secondo grado. 
Analogamente, nel periodo:
 

Dato che la decimazione riduceva in un sol colpo del dieci per cento la forza del reparto, è ovvio però che essa venisse comminata molto raramente,

è ovvio però è la principale e che essa venisse comminata molto raramente è subordinata di primo grado, ma come va intesa dato che la decimazione riduceva in un sol colpo del dieci per cento la forza del reparto? Come subordinata di primo o di secondo grado?

 

RISPOSTA:

Per stabilire se una proposizione sia collegata direttamente alla principale (quindi sia di primo grado) o a una subordinata (quindi sia di grado inferiore) bisogna riflettere sulla relazione tra l’evento in essa descritto e gli eventi descritti nelle altre proposizioni.
Nella prima frase, erano spronati a comportarsi è quasi una perifrasi modale, perché il soggetto di spronare potrebbero essere i soldati stessi (erano spronati a comportarsi = si spronavano a comportarsi). Per questo motivo è difficile separare logicamente comportarsi da spronare, quindi decidere se poiché la punizione… sia collegato a spronare o a comportarsi. Nonostante questo, possiamo concludere con sicurezza che la causale dipende dalla principale, perché la causa produce come conseguenza lo spronare, da cui dipende, per un altro verso, il comportarsi. A riprova di questo, vediamo che se escludiamo la proposizione oggettiva il collegamento tra la causale e la principale non viene reciso: Poiché la punizione colpiva a caso… , i soldati erano spronati. Diversamente, se avessimo davvero una subordinata di secondo grado non potremmo escludere l’oggettiva. Ad esempio, nella frase “I soldati erano spronati a comportarsi in modo coraggioso quando erano in battaglia“, se escludiamo l’oggettiva la frase rimane sensata (I soldati erano spronati quando erano in battaglia) ma il suo significato cambia, cioè diventa un’altra frase. 
Ancora più difficile è separare è ovvio dalla soggettiva che essa venisse comminata… nella seconda frase. La principale è percepita quasi come un avverbio (è ovvio che essa venisse comminata = essa veniva ovviamente comminata); in più essa, che rimanda a decimazione, è nella subordinata soggettiva, non nella principale, quindi c’è un collegamento referenziale diretto tra la subordinata soggettiva di primo grado e la subordinata causale. In questo caso la logica ci fa propendere decisamente per la dipendenza della causale dalla subordinata soggettiva; la sintassi, però, ci spinge alla soluzione opposta: anche qui la causale dipende dalla principale, da cui, per un altro verso, dipende anche la soggettiva.
Aggiungo che il però in quella posizione è senz’altro da rivedere, perché mette in contrapposizione due eventi che sono l’uno la conseguenza dell’altro. Probabilmente la contrapposizione è tra la causa e quello che era detto prima (che qui non è riportato), quindi: Dato che, però, la decimazione riduceva in un sol colpo del dieci per cento la forza del reparto, è ovvio che essa…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivo per sottoporle l’uso del verbo fossero all’interno della frase che segue:

Mamah cercò di immaginarsi un futuro in cui avrebbe spiegato ai figli […] ciò che lei stessa aveva appena compreso. Quando fossero stati adulti avrebbero certamente compreso che la scelta […] non era stata un atto di egoismo bensì una prova di amore per la vita.
Sebbene io riconosca la correttezza del congiuntivo, probabilmente avrei optato per il modo condizionale (sarebbero stati). Sarebbe stata un’alternativa corretta?
Approfitto per chiederle qualche riferimento bibliografico sul corretto uso del congiuntivo.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo trapassato fossero stati entra in relazione con il tempo della reggente, avrebbero compreso, che è condizionale passato (quindi un tempo passato, anche se proiettato nel futuro), rispetto a cui esprime l’anteriorità. L’alternativa sarebbero stati non stabilisce un rapporto di anteriorità con la reggente, ma entra in relazione, attraverso un collegamento non strettamente sintattico, con il verbo cercò, che governa logicamente tutto il passaggio. Sarebbero stati, quindi, indica un evento posteriore rispetto a un altro passato (per questo è detto anche futuro nel passato), alla pari di avrebbero compreso.
Indicazioni sull’uso del congiuntivo si trovano in tutte le grammatiche, per esempio Italiano di Luca Serianni, Garzanti, 1997 (riedita nel 2000 e ristampata decine di volte). Una illustrazione di casi problematici è contenuta anche in L’italiano scritto: usi, regole e dubbi, di Fabio Rossi e il sottoscritto, Carocci, 2019. Un libro agile tutto dedicato all’argomento è Viva il congiuntivo! di Giuseppe Patota e Valeria Della Valle, Sperling & Kupfer, 2014.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1. Mangia come se non ci fosse un domani.
2. Mangiava / Mangiò come se non ci fosse un domani.
3. Mangia come se ieri avesse digiunato.
4. Mangiava / Mangiò come se il giorno prima avesse digiunato.
Riporto questi esempi costruiti sul sintagma “come se” – per i quali mi rimetto al vostro giudizio – a supporto della tesi secondo cui il congiuntivo imperfetto indica contemporaneità con la reggente (a prescindere dal tempo che la caratterizza) e il congiuntivo trapassato indica anteriorità rispetto alla reggente (sempre prescindendo dal suo tempo).
Infine, vi chiederei anche un’altra cosa: il trapassato può talvolta indicare la contemporaneità della subordinata con una reggente al passato (come alternativa sintattica all’imperfetto, ma con una maggiore sfumatura di incertezza), oppure l’anteriorità è, come dire, implicita e ineludibile? Un esempio:
5. Mi sforzai di apparire impassibile, come se fossi / fossi stato un estraneo. 

 

RISPOSTA:

Nell’ambito della consecutio temporum l’imperfetto indica la contemporaneità e il trapassato l’anteriorità rispetto al passato (quindi non a prescindere dal tempo della reggente). Per esempio: 
a. Penso (presente) che lui cerchi (presente = contemporaneità) Luca / abbia cercato (passato = anteriorità) Luca.
b. Pensavo (imperfetto) che lui cercasse (imperfetto = contemporaneità) Luca / avesse cercato (trapassato = anteriorità).
Si noti che il congiuntivo imperfetto può esprimere anche l’anteriorità rispetto al presente, per sottolineare la continuità dell’azione nel passato:
c. “Penso che lui cercasse Luca”.
Inoltre, il trapassato può anche essere usato con una reggente al presente, ma presupponendo un evento intermedio al passato:
d. “Penso che lui avesse cercato Luca (prima che Luca chiamasse). Le consiglio una ricerca con la parola chiave prima che nell’archivio di DICO per un approfondimento sui tempi richiesti dalla congiunzione prima che.
La proposizione comparativa ipotetica richiede l’uso del congiuntivo non secondo la consecutio ma secondo il grado di ipoteticità, che spesso (ma non sempre) non coincide con la consecutio. Il grado di ipoteticità attribuisce all’imperfetto la funzione di esprimere la possibilità e al trapassato quella di esprimere l’improbabilità o l’impossibilità, per questo è possibile usare l’imperfetto per un evento contemporaneo nel presente (frase 1) e il trapassato in dipendenza dal presente senza la presupposizione di un evento passato intermedio (frase 3) e in dipendenza dal passato per esprimere un evento contemporaneo (frase 5). Sempre nella frase 5, mi sforzai… come se fossi è un caso di coincidenza tra uso secondo la consecutio e uso secondo il grado di ipoteticità.
Si noti ancora la differenza tra l’uso della consecutio e quello ipotetico:
“Mangia come se non ci fosse un domani” (uso ipotetico) / “Pensa che non ci fosse un domani” (uso secondo la consecutio). Nella seconda frase è evidente che l’imperfetto fosse si riferisce al passato come cercasse della frase c. 
“Mangia come se ieri avesse digiunato” / “Pensa che ieri avesse digiunato”. Nella seconda frase è evidente che c’è un evento intermedio implicito tra avesse digiunato e pensa, che fa da momento di riferimento per il trapassato, come nella frase d.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’uso del condizionale è corretto nella seguente relativa all’interno di periodo ipotetico: “non si aspettavano che, se avessero pubblicato il video, tutte le persone che lo avrebbero visto avrebbero riempito di insulti la vittima”; è forse preferibile il congiuntivo avessero visto?

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo è possibile, ma non necessariamente preferibile; da una parte eleva il registro, dall’altra rende possibile l’interpretazione ipotetica della relativa. Con il congiuntivo, cioè, che lo avessero visto rimane a metà tra la relativa e la ipotetica (se lo avessero visto); con il condizionale passato, invece, l’unica interpretazione possibile è relativa. Il congiuntivo trapassato, inoltre, rappresenta l’evento del vedere come precedente a quello del riempire (o come la condizione che determina quella conseguenza se interpretiamo la relativa come ipotetica); il condizionale passato, invece, rappresenta l’evento come successivo al pubblicare al pari del riempire. Le sfumature semantiche sono da valutare attentamente nello scritto formale; in contesti più immediati, invece, emerge soprattutto la differenza di registro tra le soluzioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coesione, Registri, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio in merito alla comprensione di questa frase:
“Anche se ora non sono in grado di identificare l’origine e di risalire alla causa di questo mio disagio,  scelgo di rilasciare ora con amore incondizionato tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate che lo hanno generato e che sono entrambe limitanti”.
In particolare, collegate deve indicare che le memorie emozionali sono collegate solamente alle convinzioni, ma la frase potrebbe avere significato ambiguo in quanto le convinzioni e le memorie emozionali potrebbero essere intese come collegate al disagio?

 

RISPOSTA:

In questa formulazione la frase è ambigua, ma l’interpretazione più probabile è che collegate sia concordato con il sintagma le convinzioni e memorie e rimandi al disagio. Per rimandare inequivocabilmente a convinzioni bisogna inserire l’articolo prima di memorie e aggiungere un pronome: tutte le convinzioni e le memorie emozionali a esse collegate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase seguente si possono usare entrambi i verbi?
“Lucia si stancò di parlare con l’amico Stefano quindi gli disse che doveva andare / sarebbe andata a fare la spesa”.

 

RISPOSTA:

I verbi sono corretti, ma ci sono delle differenze tra l’uno e l’altro. Il primo esprime l’idea di futuro nel passato, ovvero di un evento (andare) successivo a un altro passato (disse), con l’indicativo imperfetto; il secondo fa lo stesso con il condizionale passato. L’indicativo imperfetto è meno formale, più familiare e adatto al parlato rispetto al condizionale passato, che è comunque adatto a tutti i contesti. La scelta tra l’uno e l’altro verbo andrà fatta, quindi, sulla base del registro che si vuole tenere nel discorso. 
Il primo, inoltre, integra il servile dovere, che aggiunge una sfumatura di significato assente nel secondo. Con il primo verbo, infatti, l’azione dell’andare è rappresentata come obbligata, non come certa (il soggetto dice che deve andare, lasciando aperta la possibilità che scelga di non andare); con il secondo, invece, l’azione è rappresentata come già stabilita, anche se permane un minimo grado di incertezza necessariamente legato all’idea stessa di futuro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Titoli come avvocatoprofessore ecc., se non accompagnati dal cognome, vanno maiuscoli?  
Come si comportano i titoli con il sesso delle persone? Sindaco sindacaArchitetto architetta

 

RISPOSTA:

Non c’è alcuna ragione per scrivere con lettera maiuscola i titoli di professione, anche quando non siano seguiti dal nome della persona. Il maiuscolo può essere usato (ma non è obbligatorio neanche in questo caso) quando il titolo è usato per antonomasia per riferirsi a una persona specifica: l’Avvocato (Giovanni Agnelli), il Professore (Romano Prodi). I titoli di professioni comunemente ritenute prestigiose (Onorevole, ma anche PresidentePapaDirettore…) sono spesso scritti con la maiuscola, per sottolinearne il valore distintivo, anche se non è affatto necessario farlo. Quindi, se scrivere l’Avvocato fa pensare a una persona specifica, ovvero l’avvocato Giovanni Agnelli, scrivere l’Onorevole può rimandare a qualunque onorevole che sia stato nominato precedentemente.
I nomi di professione femminili sindaca e architetta sono ben formati e perfettamente legittimi; è preferibile, quindi, usarli quando ci si riferisce a professioniste. Sui nomi di professione femminili rimando a questo articolo pubblicato in DICO.
Nell’articolo è inserito anche il link alla guida Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, che spiega dettagliatamente tutti i casi dubbi (il link è questo: https://accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un quesito di analisi logica. Nella frase successiva a quale complemento corrisponde nel pericolo?
“Nel pericolo chiediamo l’aiuto degli amici”.

 

RISPOSTA:

Il complemento può essere interpretato in modi diversi, a seconda della sfumatura semantica che si ritiene più forte. Potrebbe essere un complemento di stato in luogo figurato, di tempo determinato, di causa (= a causa del pericolo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

vorrei porvi una domanda circa il condizionale composto nella sua funzione di futuro nel passato.
Qualora un verbo servile venga adottato per la sua formazione, verrebbe invalidata tale funzione di posteriorità (veicolando invece l’anteriorità), oppure, da questo punto di vista, sarebbe ininfluente?
Mi spiego con alcuni esempi.
a) Pensò che sarei andata da lui (posteriorità);
b) Pensò che sarei potuta andare da lui (anteriorità o posteriorità?).
c) Sospettò che non avrei aderito al progetto (posteriorità);
d) Sospettò che non avrei potuto aderire al progetto (anteriorità o posteriorità?).
e) Mi sono chiesta se sarebbe passata da me per pranzare insieme (posteriorità);
f) Mi sono chiesta se sarebbe potuta passare da me per pranzare insieme (anteriorità o posteriorità?).

 

RISPOSTA:

Per la verità, il condizionale passato può riferirsi a un evento precedente a un altro passato anche senza la presenza del verbo servile. Questa evenienza, però, è vincolata a un forte significato condizionale, ovvero alla presenza nella frase di una condizione che faccia assumere al condizionale il suo significato proprio di possibile conseguenza. Per esempio: “Pensò che il giorno prima sarei andata da lui se avessi potuto“. Si noti che anche in questo caso, con l’esplicitazione della condizione, se non è possibile stabilire il rapporto temporale tra il condizionale e il verbo al passato, il condizionale viene più facilmente interpretato come posteriore: “Pensò che sarei andata da lui se avessi potuto” = “Pensò che (il giorno dopo) sarei andata da lui se avessi potuto”. In assenza di una condizione esplicita o facilmente recuperabile dal contesto, invece, il condizionale passato viene automaticamente interpretato come posteriore.
La presenza del servile facilita l’interpretazione anteriore, anche se non esclude quella posteriore (come da lei intuito) perché in qualche modo il servile veicola un senso di condizionalità quindi lascia trasparire una condizione. In “Pensò che sarei potuta andare da lui”, per esempio, potuta viene interpretato come se avessi potuto o se fosse stato possibile, quindi è possibile sia “Pensò che (il giorno prima) sarei potuta andare da lui” sia “Pensò che (il giorno dopo) sarei potuta andare da lui”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vi interpello a proposito della posizione e della funzione che possano, di volta in volta, assumere nomi e pronomi all’interno di un periodo. Partiamo con le seguenti costruzioni:
1A) Se non potesse farti una visita, Marco potrebbe telefonarti?
1B) Se Marco non potesse farti una visita, potrebbe telefonarti?
2A) Quando lui le passò accanto, Donatella lo guardò con attenzione.
2B) Quando lui passò accanto a Donatella, lei lo guardò con attenzione.
Nonostante il significato sia il medesimo, quale costruzione consigliereste?
Procediamo con il secondo e ultimo caso:
3) Ognuno all’occorrenza presenterebbe la propria motivazione. Queste / Esse sarebbero quindi valutate da una commissione speciale.
Queste Esse si riferiscono alle motivazioni considerate nella loro totalità (e ciò mi pare che sia facilmente arguibile dalla semantica della frase). Ma a livello grammaticale è corretto usare un pronome plurale per riferirsi a un soggetto o a un complemento che, come nell’esempio sopraindicato, è al singolare?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda le frasi 1 e 2 la preferenza è legata al contesto in cui le frasi sono inserite, visto che sono tutte ugualmente corrette. La frase 1A ritarda la presentazione di un elemento (Marco) introducendolo la prima volta con una ellissi (se non potesse); la 2A fa quasi lo stesso, ma usa un pronome (le) che rimanda alla presentazione successiva (Donatella) dell’elemento anticipato, e vieve detto per questo cataforico. Nella frase 1B, al contrario, l’elemento viene presentato fin da subito in forma piena, e poi ripreso nella 1B con una ellissi (potrebbe); nella 2B, infine, l’elemento introdotto è ripreso con un pronome (lei) che rimanda all’indietro, e viene detto per questo anaforico.
La costruzione cataforica è più insolita e sorprendente; è adatta allo scritto più che al parlato, e in particolare a uno scritto in cui spicchi la funzione poetica, ovvero l’uso della lingua a scopo estetico, per suscitare emozioni nel lettore.
Nella frase 3 la concordanza tra il nome singolare (motivazione) e un pronome plurale (queste o esse) è al limite dell’accettabilità. Per quanto Ognuno… la propria motivazione sia logicamente assimilabile a tutti… le proprie motivazioni, grammaticalmente l’accordo è scorretto. Preferibile è, pertanto, Questa / Essa sarebbe quindi valutata…, oppure, appunto, Tutti… le proprie motivazioni. Queste / Esse sarebbero quindi valutate… Possibile anche una soluzione di compromesso: Ognuno… la propria motivazione. Tutte le motivazioni presentate sarebbero quindi valutate…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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QUESITO:

Ho notato che in alcune frasi vengono utilizzati i trattini (-), che se non erro sono simili alle virgolette. In questa frase: “Donare sangue – dice spesso – è facile” (riferito chiaramente ad una persona).
Per quale motivo servono i trattini?

 

RISPOSTA:

I trattini hanno una funzione simile a quella delle parentesi (non hanno, invece, niente a che fare con le virgolette). Possono essere usati per contenere un sintagma (ovvero un pezzo di una proposizione) aggiuntivo, che modifica leggermente il significato della frase in cui è inserito: “Sei arrivato – come sempre – in ritardo”. In questi casi possono essere sostituiti dalle parentesi: “Sei arrivato (come sempre) in ritardo”, o dalle virgole di apertura e chiusura: “Sei arrivato, come sempre, in ritardo”. Rispetto alle parentesi, le virgole e i trattini mettono meno in secondo piano l’informazione che racchiudono.
Più spesso, i trattini sono usati per contenere un’intera proposizione incidentale, dotata di un verbo (come nel suo esempio). In questi casi si possono comunque sostituire con le virgole, mentre difficilmente si useranno le parentesi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire portarsi in casa come nella frase “portarsi in casa un cane”?

 

RISPOSTA:

Portarsi in in cui in indichi l’ingresso in un luogo non è escluso, anzi in alcuni casi non ha alternative: “Che cosa bisogna portarsi in Danimarca?” (non si può entrare *a Danimarca o *alla Danimarca, mentre si può entrare a Milano); “Luca si è portato il figlio in chiesa” (non sarebbe possibile *a chiesa o *alla chiesa). Nel caso di portarsi a casa o in casa si può scegliere, ma, come sempre quando c’è una scelta, c’è una differenza tra le varianti: a casa significa ‘nell’ambiente familiare, nella propria sfera privata’; in casa significa ‘nel luogo in cui si vive’. Di conseguenza portarsi in casa un cane suggerisce, rispetto a portarsi a casa, un certo distacco emotivo, al limite un certo fastidio, per la situazione (che, ovviamente, potrebbe essere ironico, quindi, antifrastico). 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi “Io vengo a Milano” e “Io vado a Milano” hanno lo stesso significato e sono entrambe corrette?

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette ma hanno un significato leggermente diverso. Il verbo andare significa ‘spostarsi verso un posto nel quale non sono presenti né il parlante né la persona con cui si sta parlando’; venire, invece, significa ‘spostarsi verso un posto dove sono presenti o il parlante, o la persona con cui si sta parlando, o entrambi’. Quindi vado a Milano implica che la persona con cui si sta parlando non sia a Milano (e ovviamente neanche il parlante, visto che è lui che si sposta); vengo a Milano implica che la persona con cui si sta parlando sia a Milano (ma, ancora, non il parlante, visto che è lui che si sposta).
Se la persona che si sposta è quella a cui ci si rivolge (tu o voi) o una terza persona, è il luogo in cui si trova il parlante a determinare la scelta: tu vai a Milano / Mario va a Milano (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano (se il parlante è a Milano).
Si noti che la terza persona non è influente nella scelta tra i due verbi: contano soltanto il parlante e la persona a cui il parlante si rivolge. Vengo a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo è a Milano; vado a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo non è a Milano; tu vai a Milano / Mario va a Milano con Andrea (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano con Andrea (se il parlante è a Milano).
Nel caso in cui nessuno degli interlocutori sia nel luogo verso dove il soggetto di prima o seconda persona (io / noi o tu / voi) si sposta, ma uno dei due accompagni l’altro, si sceglie ancora venire, anche se di norma sarebbe richiesto andare; per questo si dice vengo a Milano con te e vieni a Milano con me (anche se è chiaro che nessuno di noi due si trova a Milano) e non vado a Milano con te, né vai a Milano con me. Un confronto tra italiano e inglese a proposito di quest’uso si può leggere nella risposta “Andare e venire tra italiano e inglese” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Coerenza
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QUESITO:

“Non passano né per la mente e nemmeno per il cervello” si può anche esprimere: “Non passano per la mente e nemmeno per il cervello”? Il  si può togliere?

 

RISPOSTA:

Sì, la congiunzione né (che si scrive sempre con l’accento, per distinguerla dal pronome ne) in questo caso rafforza la contrapposizione tra i due elementi correlati, ma non è necessaria.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Riconosco di incontrare talvolta un qualche problema nel risalire alla cosa o alla persona cui si riferisce il ne. Un esempio è questo:
1a) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché ne acquisisca il metodo”.
Ecco: chi deve acquisire il metodo di chi?
Supporrei che sia Giulia a dover imparare da Valentina. Nel caso la mia interpretazione sia giusta, se volessimo ribaltare i ruoli, dovremmo escogitare formule più precise (ma meno snelle) come
1b) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché questa acquisisca il metodo di quella” oppure basterebbe
1c) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché quest’ultima ne acquisisca il metodo”?
Mi chiedo inoltre se la grammatica ci dia regole ferree a tal proposito, oppure se ci si possa sempre affidare alla logica.
Porto un altro esempio che mi è capitato di formulare:
2a) “Bisogna associare l’autorimessa all’appartamento, affinché ne diventi pertinenza”.
Seguendo la sola logica, la frase è di immediata comprensione: l’unico immobile destinato a diventare pertinenza può essere l’autorimessa. Ma prescindendo dalla logica, la frase è corretta sotto il profilo sintattico?
Se essa fosse stata costruita diversamente, invertendo le posizioni dei complementi, per ottenere lo stesso messaggio, avremmo potuto scrivere
2b) “Bisogna associare l’appartamento all’autorimessa, affinché quest’ultima diventi la sua pertinenza”?

 

RISPOSTA:

Il collegamento tra i pronomi e i nomi (o gli altri pronomi) a cui questi si riferiscono è un punto in cui la grammatica incontra la testualità. Da una parte, infatti, abbiamo l’accordo morfologico, ovvero l’adattamento del pronome al nome a cui si riferisce (nel caso di ne questo adattamento non si vede, perché questo pronome è invariabile), dall’altra abbiamo la coreferenza, ovvero la capacità di più parole di rimandare allo stesso referente. Nella sua frase 1a, per esempio, Valentina ne rimandano allo stesso referente, che è la persona di Valentina. La coreferenza richiede sempre un minimo di sforzo interpretativo da parte del ricevente, perché non è di per sé evidente che, rimanendo al nostro esempio, Valentina ne rimandino alla stessa persona, visto che sono parole così diverse. Nella stessa proposizione finale in cui si trova ne c’è anche un’altra forma coreferenziale: l’ellissi del soggetto di acquisisca. L’ellissi è una forma coreferenziale perché rimanda a un referente presentato attraverso un nome da qualche parte nella stessa frase (come in questo caso), oppure in un’altra frase del testo. Risalire alla parola con cui l’ellissi è coreferente è in teoria molto difficile, proprio perché l’ellissi si realizza come la sottrazione di una parola o un gruppo di parole (o sintagma). 
Per favorire l’interpretazione coreferenziale da parte del ricevente, ovvero il corretto rimando da un pronome, o da un’ellissi, all’elemento coreferente, l’emittente deve rispettare alcune regole nella costruzione della frase. La coreferenza, quindi, coinvolge anche la sintassi. Nell’esempio, il dubbio sul collegamento tra ne Valentina potrebbe nascere a causa della presenza, nella proposizione reggente, di due nomi in astratto collegabili a neGiulia Valentina, e dall’ellissi del soggetto del verbo acquisire. In questa situazione, il ricevente potrebbe rimanere nel dubbio su chi sia che deve acquisire il metodo da chi. Tale dubbio è risolto immediatamente dalla regola secondo cui il soggetto ellittico di una subordinata deve coincidere con il soggetto della proposizione reggente. Ne consegue che il soggetto di acquisisca è lo stesso di studi, ovvero Giulia. Per esclusione, quindi, ne rimanda a Valentina. Lo stesso vale per la frase 2a: il soggetto di diventi deve essere l’autorimessa, quindi ne rimanda all’appartamento.
Il suo ragionamento sull’inversione dei ruoli sintattici nelle subordinate è corretto: per farlo bisogna esplicitare il soggetto delle subordinate, attraverso un pronome (come nelle frasi 1b e 2b) o anche attraverso un sintagma nominale, per esempio: “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché Valentina acquisisca…”. Una volta esplicitato il soggetto della subordinata, si può usare anche ne per rimandare all’altro possibile elemento coreferente, non più ambiguo, come nella frase 1c.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Nome, Pronome, Retorica
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QUESITO:

Andare in pallone è un errore? Soltanto andare nel pallone è corretto?

 

RISPOSTA:

Le espressioni idiomatiche (come andare nel pallone ‘confondersi, perdere l’orientamento’) hanno una forma rigida. Nel caso di andare nel pallone l’unico cambiamento che si può fare (che non è veramente un cambiamento) è coniugare il verbo: io sono andato nel pallonelui andrebbe nel pallonenon andare nel pallone ecc. La parte nel pallone, invece, non si può cambiare, altrimenti si perde il senso della frase idiomatica.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

n

RISPOSTA:

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QUESITO:

Desidererei avere alcune delucidazioni in merito al verbo entrarci: perché non si può scrivere “se l’avessi fatto, NON SAREBBE C’ENTRATO PER NULLA”? Cioè: come mai nella coniugazione del verbo entrarci in tutti i tempi che non comportano l’ausiliare (essere, in quanto il verbo è intransitivo) la particella ci può essere anteposta con elisione al verbo entrare (c’entrare), mentre in quelli che necessitano dell’ausiliare la particella deve essere messa per intero prima dello stesso?

 

RISPOSTA:

Entrarci si comporta esattamente come tutti gli altri verbi pronominali, cioè costruiti con un pronome (o particella pronominale): all’infinito, al gerundio, all’imperativo il pronome è enclitico, cioè si appoggia (e si scrive attaccato) all’infinito, al gerundio, all’imperativo (entrarcientrandocientraci), nelle forme semplici il pronome si sposta prima del verbo (ci entrai). Al participio passato il pronome si comporta in due modi: quando il participio è una forma autonoma, senza ausiliare, il pronome è enclitico: entratoci, scoprì chi vi si nascondeva); quando il participio fa parte di una forma composta, dal momento che l’unione con l’ausiliare è molto stretta il pronome non va a inserirsi in mezzo, ma “risale” fino a prima dell’ausiliare. Abbiamo così ci sarebbe entrato e simili. Venendosi a trovare prima di essere, il pronome si pronuncia e si scrive per forza per intero davanti alle forme del verbo che cominciano per consonante (ci sono entratoci sei entrato…), si può pronunciare attaccato e scrivere con o senza elisione davanti alle forme che cominciano per vocale (c’è / ci è entratoc’era / ci era entrato…).
Come dicevo, tutti i verbi pronominali si comportano allo stesso modo. Prendiamo andarseneandarsene (infinito); me ne andai (forma semplice), andatosene (participio passato senza ausiliare), me ne sono andato (forma composta con ausiliare e participio passato).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le frasi
– Non so se Tizio sia bello o sia brutto;
– Non so se Tizio sia bello o se sia brutto
sono corrette – nel caso si volessero raggiungere dati effetti stilistici – dal punto di vista sintattico quali varianti della più comune
– Non so se Tizio sia bello o brutto?
In generale, il se dopo la congiunzione disgiuntiva può essere omesso o ripetuto in base alle scelte dello scrivente, oppure vi è una regola grammaticale che ne condiziona l’uso?
– Non so se Tizio sia uscito di casa o (se) stia ancora dormendo.
– Chissà se Tizio ha deciso di continuare gli studiare, oppure (se) ha preferito introdursi nel mondo del lavoro.
Un’ultima curiosità: spesso con il se interrogativo si trovano costruzioni in cui le interrogative indirette presenti sono coniugate l’una all’indicativo e l’altra al congiuntivo. Questo uso è corretto o sarebbe meglio, per uniformare lo stile, scegliere uno dei due per entrambi i predicati (anche nell’esempio sotto indicato si riaffaccia, come vedete, il problema della ripetizione del se)?
– non ho capito se Tizio ha ricominciato a mangiare regolarmente o (se) abbia saltato i pasti anche oggi.

 

RISPOSTA:

È sempre possibile sottintendere in una proposizione gli elementi che appaiono identici in una proposizione coordinata subito precedente. Nella sua prima frase gli elementi identici sono la congiunzione se e il verbo sia, infatti è possibile sottintendere entrambi nella proposizione coordinata. Nella seconda frase l’elemento identico è la congiunzione se, mentre il verbo cambia, infatti si può sottintendere soltanto la congiunzione. L’omissione è una scelta libera, stilistica, non soggetta a regole (se non, appunto, che si può realizzare soltanto se l’elemento è già presente identico nella proposizione a cui la proposizione considerata è coordinata).
Per quanto riguarda l’alternanza tra indicativo e congiuntivo nelle interrogative indirette, visto che in questo caso non c’è alcuna variazione di significato tra l’uno e l’altro modo, ma la scelta dipende da ragioni di registro, è sensato applicare la stessa scelta a entrambe le proposizioni coordinate, per quanto non si possa dire che il passaggio dall’uno all’altro modo sia un errore. Nel parlato tale passaggio può essere dovuto al fatto che man mano che la frase procede dimentichiamo le parti precedenti, quindi è difficile mantenere la simmetria tra le coordinate, perché quando dobbiamo scegliere gli elementi della seconda proposizione abbiamo già dimenticato quelli scelti per la prima.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è errata la frase “Anche questo è un uomo e la sua vita”.

 

RISPOSTA:

La frase è del tutto corretta se si considera questo come pronome “neutro”, con il significato di ‘questa cosa’. In questo caso la frase diviene equivalente a “Anche questa cosa è un uomo e la sua vita’. 
Se, invece, si attribuisce a questo la funzione di aggettivo dimostrativo la frase non è perfettamente corretta, perché il sintagma concordato con questo è un uomo e la sua vita, che contiene due nomi, uno maschile e uno femminile, quindi richiede un accordo plurale maschile. La frase corretta è, pertanto, “anche questi sono un uomo e la sua vita”. Una terza alternativa, che evita questo accordo, corretto ma poco trasparente, è modificare leggermente la sintassi della frase, per esempio così: “Anche questo è un uomo, e anche questa è la sua vita”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Perché si dice maschera per la persona che lavora nel cinema? Le maschere hanno portato o messo delle maschere un tempo in passato? E se sì, perché?

 

RISPOSTA:

L’etimologia della parola maschera è discussa: l’ipotesi più accreditata è che la parola base sia il latino tardo MASCA ‘strega’. Il significato originario di ‘finto volto che nasconde i veri lineamenti della persona’  già nel Cinquecento si allarga per indicare anche la persona che porta una maschera. A questo significato risale quello di ‘inserviente di un teatro o di un cinema che svolge vari servizi di accompagnamento degli spettatori’. Nel Settecento, soprattutto a Venezia, infatti, tali inservienti portavano una maschera (quindi erano delle maschere) per nascondere la propria identità e potere quindi decidere con libertà a quale spettatore dare ragione in caso di dispute (in un periodo in cui i teatri erano ambienti meno regolati e formali di oggi).
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Si concentrava sui suoni di quel luogo, finché la testa non le si svuotava e non si sentiva altro che un oggetto inanimato, piante tra le piante, terra che si fondeva con la terra”.
Si concentrava è un verbo intransitivo pronominale, oppure riflessivo?
Si svuotava: riflessivo o forma passiva con si passivante?
Si sentiva: riflessivo o forma passiva con si passivante?
Si fondeva: riflessivo?

 

RISPOSTA:

La prova della riflessività di un verbo è data dalla identità tra il soggetto e il complemento oggetto. Nel caso del verbo concentrarsi possiamo dire che il soggetto, qui sottinteso, concentri sé stesso? No: il verbo, piuttosto, esprime un’azione nella quale il soggetto è intensamente coinvolto. Questo verbo, pertanto, è pronominale ma non riflessivo, ed è intransitivo perché non regge alcun complemento oggetto. Lo stesso vale per svuotarsi e fondersi, che quindi non sono né riflessivi né passivati, bensì ancora intransitivi pronominali. 
Diverso il discorso per si sentiva: l’espressione non si sentiva altro equivale a niente altro era sentito, quindi è una forma passivata tramite il pronome si (detto per questo passivante). Ricordo che al singolare non c’è modo di distinguere il si passivante dal si impersonalizzante: non si sentiva altro, infatti, può essere parafrasato anche come nessuno sentiva altro (impersonale). Al plurale, invece, l’espressione sarebbe senz’altro passivata: non si sentivano altri rumori (molto strana, anche se in teoria possibile, sarebbe la costruzione impersonale non si sentiva altri rumori).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Mi è capitato di scrivere questo messaggio: “Lei è un amore”. Pensando al soggetto della frase, femminile, mi è sorto un dubbio sull’uso dell’apostrofo. Quindi chiedo: amore è sempre maschile e quindi accompagnato da un? O nel caso ci si riferisca a persone può variare in base al genere?

 

RISPOSTA:

I nomi che si riferiscono a cose inanimate in italiano hanno un genere dato, che non può variare, e un numero variabile, perché possono essere singolari e plurali. Ne consegue che *una amore non è possibile, perché il nome amore è maschile, mentre è possibile gli amori (o semplicemente amori), perché il nome amore può essere singolare e plurale. Anche se amore nella sua frase è usato per definire una persona, il significato del nome rimanda comunque a una cosa (in senso lato), quindi rimane unicamente maschile.
Diversamente dai nomi di cosa, i nomi che si riferiscono a esseri viventi possono cambiare di genere in base al sesso dei referenti. Nel cambiare di genere quasi tutti cambiano in parte la loro forma (l’amico / l’amical’imprenditore l’imprenditrice), pochi rimangono uguali: l’artista (lo) / l’artista (la); pochi cambiano totalmente: l’uomo / la donna.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Speriamo che si muova” o “che si muovi qualcosa”? 

 

RISPOSTA:

Il soggetto della proposizione oggettiva, qualcosa, è di terza persona, quindi le alternative sono due, a seconda che si voglia usare l’indicativo (che si muove qualcosa) o il congiuntivo (che si muova qualcosa). Che si muovi non esiste nella coniugazione del verbo muovere e rappresenta un errore piuttosto comune, tra l’altro reso celebre dall’uso di molti personaggi dei film con protagonista il ragionier Fantozzi: mi dii, vadibatti lei (da cui il nome di congiuntivo fantozziano o alla Fantozzi). L’errore è causato dalla confusione tra le forme del congiuntivo presente della prima coniugazione, che finiscono in -i (io amitu amilui / lei ami), e quelle delle altre coniugazioni, che finiscono in -a (io muovatu muovalui / lei muova).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

È corretto dire che fotografia fotosintesi sono parole che contengono il prefissoide foto- derivato dal greco, mentre invece fotogenico fotomontaggio sono composti la cui prima parte foto- è una forma nominale abbreviata?

 

RISPOSTA:

È un modo corretto di descrivere la differenza tra i due tipi di parola, nei quali da una parte abbiamo foto- come componente morfologico isolato che entra in composizione con altri morfemi (si ricordi che anche le parole formate con affissoidi sono composte) e dall’altro abbiamo l’accorciamento di fotografia che entra in composizione con altre parole. Da questa descrizione, si badi, emerge che fotogenico deve essere associato a fotografia e fotosintesi, perché è il risultato della unione di due affissoidi, foto- e -genico
La stessa distinzione vige tra parole come automatico, in cui auto- è il prefissoide originario, e automunito, in cui auto- è l’accorciamento di automobile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Ho qualche dubbio in merito alla seguente affermazione. Il vogliate che spesso si usa all’interno di questa frase non mi convince:
“Nel caso in cui aveste ricevuto questo mail per errore, vogliate avvertire il mittente al più presto a mezzo posta elettronica e distruggere il…”

 

RISPOSTA:

La forma è pienamente legittima, sebbene adatta a contesti molto formali o burocratici. Si tratta del congiuntivo presente, seconda persona plurale, del verbo volere, qui con la funzione esortativa, ovvero finalizzato a indurre il ricevente a fare una certa azione. Il congiuntivo esortativo è la forma che sostituisce l’imperativo in contesti formali; l’alternativa a vogliate avvertire, infatti, è avvertite, decisamente più diretta e aggressiva.
L’accordo al maschile con il nome mail (ma in realtà dovrebbe essere e-mail, o email) è al limite dell’accettabilità. Il nome e-mail è comunemente femminile, per cui ci si aspetterebbe questa e-mail, non questo mail. Il maschile non si può definire un errore in assoluto, visto che il genere dei prestiti dall’inglese è soggetto a oscillazione, ma visto che questo nome è saldamente femminile, il maschile appare discutibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Nel brano seguente FURONO SALITI è concordato correttamente?
“Il treno finalmente arrivò: il padre prese la valigia, la madre la borsa, i bambini più grandi il necessario per il picnic. All’improvviso dopo che FURONO SALITI il treno si fermò”.

 

RISPOSTA:

La scelta del trapassato remoto è corretta, anche se oggi questo tempo è in disuso e gli si preferisce sempre il trapassato prossimo: dopo che erano saliti il treno si fermò. Suggerisco, a margine, di racchiudere la temporale tra due virgole, visto che è una incidentale che divide in due parti la proposizione reggente (all’improvviso il treno si fermò).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Perdonare una persona significa regarLe” oppure “regalarGLI”…?
E poi:
“Il puro potenziale è una energia con la quale è stato creato l’universo” oppure “con il quale è stato creato l’universo”?

 

RISPOSTA:

La persona è femminile, quindi il pronome che si riferisce a questo nome è le, non gli.
Nella seconda frase il pronome relativo deve riferirsi a una energia, quindi deve essere femminile (la quale): il pronome relativo, infatti, si riferisce sempre al nome più vicino. Se si volesse rimandare a il puro potenziale bisognerebbe cambiare la costruzione della frase, per esempio così: il puro potenziale è una energia; con esso è stato creato…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

All’interno del testo della vostra risposta “Proposizioni dipendenti da ipotetiche“, è riportata la seguente affermazione: Il congiuntivo trapassato non può riferirsi alla posterità.
A tutta prima, non ho potuto che ricevere conferma della validità delle mie conoscenze pregresse.
Subito dopo è però sopraggiunto un dubbio: la posterità è considerata in termini assoluti, cioè prescindendo dai punti di ancoraggio delle frasi, oppure è una semplice specificazione del fatto che – com’è ovvio – ogni causa (espressa appunto con il congiuntivo trapassato) è, anche di un secondo soltanto, precedente al suo effetto (espresso con il condizionale passato)?
“Avrebbe certamente consegnato i soldi, se qualcuno in futuro glieli avesse chiesti”. 
(Si consegnano i soldi se, un minuto prima, qualcuno li ha chiesti). Tuttavia, rispetto a un’eventuale costruzione come: “Disse che avrebbe consegnato i soldi, se qualcuno in futuro glieli avesse chiesti” anche l’azione con il congiuntivo trapassato è innestata in un tempo posteriore. Di qui, il fulcro del mio interrogativo.
“Si fermò un attimo a pensare. Ed era deciso a farlo di nuovo, nel caso anche nei giorni seguenti qualcuno gli avesse posto la stessa domanda”.
“Avrebbe reagito male a tutti quelli che, nei giorni successivi, avessero preteso un autografo”.
Nelle costruzioni sopra indicate, in cui ho volutamente specificato riferimenti al futuro, il congiuntivo trapassato è scorretto?
E infine, recuperando l’esempio ventilato nell’articolo di cui sopra:
“Se fossi stata un’insegnante, mi sarei prefissa l’impegno di valorizzare i ragazzi che in futuro avessero mostrato…”.
Se il congiuntivo trapassato è inadeguato per riferirsi alla posterità, quale modo e quale tempo si debbono adottare per rappresentare un evento ipotetico (poco probabile o molto improbabile) che sia legato da un rapporto di posteriorità rispetto a un’altra proposizione? Il condizionale passato, che è formalmente adatto allo scopo, può veicolare l’idea dell’ipoteticità?
Scrivendo i ragazzi che in futuro avrebbero mostrato avrei, secondo il mio modestissimo parere, conferito alla frase un carattere di certezza.

 

RISPOSTA:

La natura del trapassato pone dei limiti a questo tempo: esso deve avere o presuppore un altro evento rispetto al quale è precedente, se è usato in accordo alla consecutio temporum, oppure un evento del quale è la condizione, ovviamente precedente ma al limite anche quasi contemporanea, se è usato in accordo alla logica dell’ipoteticità. Nell’esempio della risposta “Proposizioni dipendenti da ipotetiche“, entrambe le possibilità sono valide, come spiegato in quella sede, perché il valorizzare può essere successivo o la conseguenza del mostrare. La sua riformulazione della frase con l’esplicitazione dell’avverbio in futuro non cambia i termini della questione: in futuro, infatti, viene automaticamente riferito tanto a valorizzare quanto ad avessero mostrato, perché, ancora, prima le qualità si mostrano e poi possono essere valorizzate. Entrambi gli eventi si svolgono in una dimensione posteriore rispetto a un momento di riferimento passato, ma questo non è rilevante, perché la relazione temporale o di ipoteticità di avessero mostrato è solo con valorizzare.
Lo stesso vale per i suoi altri esempi: l’evento del chiedere è in relazione con quello del consegnare, rispetto al quale è precedente o del quale rappresenta la condizione, anche se il consegnare è futuro; l’evento del fare è in relazione con quello del porre, quello del pretendere è in relazione con quello del reagire.
Può anche accadere, per la verità, che l’evento al congiuntivo trapassato sia rappresentato come posteriore al verbo da cui dipende: “Pensò che avrebbe istituito una borsa di studio per gli studenti che si fossero successivamente dimostrati meritevoli”. Il dimostrare è qui senz’altro successivo all’istituire. Questa costruzione è possibile perché presuppone la presenza di un evento implicito che instaura l’effettiva relazione con il congiuntivo trapassato. In questo caso specifico, l’evento implicito è enunciabile così: avrebbe istituito una borsa di studio per aiutare gli studenti che si fossero successivamente dimostrati meritevoli. Il dimostrare, ovviamente, precede o è la condizione dell’aiutare.
Venendo all’ultima parte della sua domanda, effettivamente i ragazzi che in futuro avrebbero mostrato escluderebbe il significato ipotetico e lascerebbe valido soltanto quello temporale; ricordiamo, però, che il congiuntivo trapassato non deve essere interpretato per forza come ipotetico, ma può benissimo rappresentare la precedenza rispetto a un evento passato, che nel nostro caso è avrei valorizzato. In altre parole avrei valorizzato i ragazzi che avessero mostrato pone il mostrare come precedente rispetto al passato avrei valorizzato (si noti che avrei valorizzato è futuro rispetto al momento di riferimento passato implicito, ma passato rispetto al momento dell’enunciazione, che è adesso); avrei valorizzato i ragazzi che avrebbero mostrato pone il mostrare come successivo al momento di riferimento passato implicito al pari del valorizzare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le proposizioni relative sono, in linea generale, compatibili con i modi indicativo, congiuntivo e condizionale. Per prima cosa gradirei sapere se il modo e il tempo della sovraordinata possano incidere su questo. Mi rimetto al vostro giudizio riguardo alla validità delle seguente costruzioni:
a) Potrai raccontarmi tutto quello che tu voglia / vuoi / vorrai / vorresti.
b) Potresti raccontarmi tutto quello che tu voglia / vuoi / vorrai / vorresti.
c) Servirebbe una panchina dove ci si possa / potesse / può / potrebbe sedere.

 

RISPOSTA:

La funzione dell’indicativo e del condizionale è sempre chiara; è facile cogliere il cambiamento di significato tra, per esempio, che tu vuoi e che tu vorresti. La variante all’indicativo è oggettiva, reale, fattuale; quella al condizionale è potenziale, o meglio condizionata (presuppone, cioè, un evento che renda possibile l’avverarsi dell’evento al condizionale: che tu vorresti se ne avessi la possibilità). Più difficile è stabilire la funzione del congiuntivo, che figura spesso (non sempre) come un’alternativa più formale all’indicativo e non aggiunge nessun significato specifico alla frase. 
Il congiuntivo ha appunto una funzione di innalzamento del registro nelle sue tre frasi; non si apprezza, infatti, alcuna differenza di significato tra che tu vuoi e che tu voglia nelle prime due, né tra dove ci si può dove ci si possa nella terza.
Per quanto riguarda il tempo da usare, la proposizione relativa è particolarmente slegata dalla consecutio temporum; al suo interno i tempi segnalano il momento in cui avviene l’evento, nel presente, nel passato o nel futuro, non quale rapporto temporale ci sia tra questo evento e l’evento della reggente. La relativa che tu vuoi, pertanto, riguarda il presente, la relativa che tu vorrai, invece, riguarda il futuro. Servirebbe… dove si potesse, infine, è incoerente, perché il verbo della reggente (servirebbe) implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale affermazione è corretta? 
– Voglio che stai bene.
– Voglio che tu stia bene.

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette: la prima è di registro informale e adatta a un contesto in cui gli interlocutori sono in confidenza; la seconda è più formale. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Negli esempi seguenti gli imperfetti nelle proposizioni introdotte da se sono per così dire insostituibili, o sarebbe possibile sostituirli migliorando la qualità generale dei periodi?
1) L’orizzonte era limpido: se si guardava bene in profondità, si poteva scorgere l’approdo dell’isola.
2) Se sapeva la verità – ma ha preferito non parlare -, sarebbe stata disonesta.
3) Se c’era qualcuno in grado di tenerle testa, quel qualcuno era lui.
4) Sentì suonare il campanello. Se era Laura, doveva essere uscita prima del previsto.

 

RISPOSTA:

Gli imperfetti nei suoi esempi non sono tutti equivalenti. Si guardava si può senz’altro sostituire con il congiuntivo trapassato, rendendo la frase più formale: se si fosse guardato bene… La sostituzione è possibile anche per poteva nella stessa frase, ma in questo caso la forma equivalente è il condizionale passato: si sarebbe potuto scorgere…
Anche nella frase 4 la sostituzione non crea problemi: se era Laura equivale a se fosse stata Laura.
La seconda frase presenta la difficoltà dell’ambiguità della funzione dell’imperfetto: non è chiaro se sapeva ha una funzione temporale (se, cioè, indica che il sapere riguarda il passato) all’interno di una ipotesi della realtà, o se ha una funzione modale (se, cioè, indica che il sapere è impossibile o molto improbabile) all’interno di una ipotesi dell’irrealtà. Nel primo caso, sapeva non può essere sostituito con il congiuntivo, nel secondo, invece, può diventare avesse saputo. L’ambiguità è causata dagli altri verbi della frase: ha preferito è coerente con l’interpretazione reale dell’ipotesi; sarebbe stata, al contrario, fa propendere per l’interpretazione irreale. Tutte le interpretazioni sono possibili e legittime.
Nella frase 3, infine, era non è sostituibile con il congiuntivo trapassato perché la proposizione ipotetica è certamente della realtà e l’imperfetto indica un evento reale passato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei sapere gentilmente se la particella ci talvolta sia superflua e dunque trascurabile.
1) (Ci) tengo a precisare che…
2) La notizia (ci) ha commosso / commossi tutti.
3) Dentro la casa, (c’)è uno splendido affresco.
Infine, permettetemi una domanda collaterale: ci con valore pronominale, riferito a terza persona sia singolare che plurale, è corretto?
4) Sono diversi anni che non ci parlo (vale a dire che non parlo a lui / lei oppure a loro).

 

RISPOSTA:

Il pronome atono ci risulta a volte non chiaramente decifrabile, eppure necessario per completare il senso della frase. Sebbene tenere a possa significare ‘avere a cuore’, tenerci a veicola una maggiore partecipazione emotiva del soggetto (un po’ come mangiarsi un panino rispetto al neutrale mangiare un panino). Addirittura, nel verbo esserci ‘trovarsi, stare in un luogo’, la particella è del tutto desemantizzata, tanto che spesso ne ribadiamo il senso con un complemento di luogo. Succede nella sua terza frase, in cui troviamo sia dentro la casa sia ci. Sebbene la particella non abbia un significato specifico, però, non possiamo eliminarla, perché esserci è del tutto cristallizzato e i suoi componenti non possono essere più separati: la variante dentro la casa è un affresco è al limite dell’accettabilità (pochi parlanti nativi la considererebbero corretta). 
Il suo secondo esempio si distingue dagli altri, perché in esso ci è un pronome personale, la cui presenza modifica chiaramente la frase: 
ha commosso tutti = ‘ha commosso tutte le persone’;
ci ha commosso tutti = ‘ha commosso tutti noi’.
Ci in parlarci, infine, pronominalizza con lui / lei / loro, quindi “Non voglio parlarci” = ‘non voglio parlare con lui / lei / loro’. A lui / loro è pronominalizzato da parlarglia lei da parlarle.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il verbo tra parentesi si può omettere, andrebbe esplicitato, oppure la scelta è facoltativa indipendentemente dalla formalità del discorso?
1) Non riesco a dirle tutto ciò che vorrei (dirle).
2) Ho detto ciò che dovevo (dire).

 

RISPOSTA:

La ripetizione del verbo è ridondante ma non scorretta. La scelta dipenderà dal gusto del parlante.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Qual è la forma corretta, gli successe al trono o gli succedette al trono?

 

RISPOSTA:

Le forme successe e succedette sono varianti, ugualmente corrette, morfologiche (cioè relativamente alla forma), del tutto equivalenti nel significato. Nell’italiano contemporaneo è decisamente preferita la forma successe, sia nel senso di ‘accadde’ sia in quello di ‘prese il posto di’. Visto che la forma succedette è più rara, a essa è stato associato il significato meno comune del verbo, ovvero ‘prese il posto di’. Tale associazione non ha un vero fondamento; si osservino i due esempi seguenti:
“la fissò […] facendo una faccia stranissima, […] a cui succedette [= ‘di cui prese il posto’] una pallidezza di coleroso” (E. De Amicis, Amore e ginnastica,1892).
“Un silenzio profondo, che la impaurì, succedette [= ‘accadde’] nella classe” (E. De Amicis, La maestrina degli operai, 1891).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Quale tra le due espressioni è la più formale?
– Dottore mi dispiace disturbarla;
– Dottore mi dispiace disturbarlo.

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a una persona, i pronomi vanno concordati con lei, mentre gli aggettivi si concordano con la persona a cui ci si rivolge; quindi “Dottore, mi dispiace disturbarla, perché so che lei è occupato“. La variante dottore, … disturbarlo è scorretta, a meno che non ci si riferisca a un’altra persona: “Dottore, mi dispiace disturbarlo ma potrebbe passarmi suo figlio?”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

Il termine bustrofedico, data l’etimologia, può riferirsi alla lingua ebraica? Ho trovato a proposito il termine sinistroverso, che è anni luce più povero del precedente.

 

RISPOSTA:

Come è noto, la scrittura bustrofedica procede a righi alternati da sinistra a destra e da destra a sinistra. Le lingue semitiche, come l’arabo e l’ebraico, non hanno questa caratteristica, ma procedono sempre nello stesso verso, da destra a sinistra. Il termine bustrofedico, pertanto, non descrive con precisione queste lingue. Il termine sinistroverso, non registrato dai vocabolari, sembra più adatto a descrivere segni che possono presentarsi rivolti in un verso o nell’altro, infatti è usato in contesti specialistici soprattutto per descrivere figure dipinte su ceramica rivolte verso sinistra. Anche questo termine, pertanto, non sembra adatto, visto che la scrittura delle lingue semitiche può presentarsi rivolta soltanto in un verso. Il termine più adatto (nonché quello più usato) per descrivere l’andamento della scrittura dell’ebraico è sinistrorso.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta?
– Intanto il fiume scava l’alveo dove scorre finché non si DISPERDE oltre la foce.
– Intanto il fiume scava l’alveo dove scorre finché non si DISPERDA oltre la foce.

 

RISPOSTA:

La proposizione temporale introdotta da finché (non) ha un comportamento peculiare. Quando descrive un evento al presente ammette sia l’indicativo sia il congiuntivo, anche se il congiuntivo risulta un po’ forzato. Quando descrive un evento futuro, ammette soltanto l’indicativo (futuro) se descrive un evento che continua fino a un punto; ammette sia l’indicativo (futuro), sia il congiuntivo (presente) se descrive un evento che avviene a un certo punto.
Di conseguenza, se la frase rappresenta l’evento come attuale, continuamente presente, è preferibile finché non si disperde; se, invece, la frase rappresenta l’evento come futuro, perché l’emittente sta immaginando che il fiume alla fine, quando non sarà più visibile, si disperderà nel mare, è possibile usare il congiuntivo si disperda o l’indicativo futuro si disperderà.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sottoporvi la seguente frase:
“Preferirei che gli regalassero qualcosa che usa / userebbe / usasse volentieri”.
In questa frase possono essere utilizzati tutti e tre i modi verbali in parentesi? Oppure qual è quello giusto da adottare?

 

RISPOSTA:

Tutte e tre le forme sono corrette; ognuna produce un significato diverso, adatto a situazioni diverse.
Normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo se descrive un fatto o il condizionale se descrive un evento condizionato. Nella sua frase, pertanto, usa indica che il qualcosa regalato è effettivamente usato dal destinatario del regalo. Si tratta di una situazione a rigore illogica, perché il destinatario non può usare un oggetto prima che gli sia regalato; a meno che chi parla non si stia augurando (ma non sembra che sia così) che al destinatario sia regalato qualcosa che già possiede. La frase può comunque essere interpretata con meno rigore, attribuendo a qualcosa il significato di ‘qualcosa di un certo genere’: in questo modo l’illogicità sparisce, perché l’emittente si sta augurando che il destinatario riceva un oggetto di un genere che usa volentieri. Ovviamente, l’imprecisione abbassa il livello di formalità della frase, che risulta leggermente trascurata.
Il condizionale userebbe indica che l’uso del qualcosa è, appunto, condizionato dalla ricezione del regalo: … qualcosa che userebbe (se gli venisse regalato). Questa opzione non presenta difficoltà.
Il congiuntivo usasse ricalca il senso dell’indicativo, a cui aggiunge una sfumatura consecutivo-finale che fa sparire automaticamente l’illogicità: … che usasse = ‘che comportasse come conseguenza che il destinatario lo usi’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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QUESITO:

Si dice “Professore volevo dirLE una cosa” o “… volevo dirGLI”?
E poi è corretto “Mi scuso per il ritardo” oppure “Mi scusi per il ritardo”.

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a qualcuno, si mantiene il lei anche nei complementi indiretti. Quindi è corretto professore, volevo dirle. La variante professore, volevo dirgli significa ‘volevo dire a lui’, quindi rimanda a una ulteriore persona di sesso maschile.
Mi scuso e mi scusi sono entrambe corrette: la prima è all’indicativo, quindi descrive un’azione del soggetto (il soggetto dichiara di scusarsi); la seconda è al congiuntivo, detto esortativo, quindi descrive una richiesta del soggetto all’interlocutore (il soggetto chiede all’interlocutore di scusarlo).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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QUESITO:

“Lo mandò in quel luogo affinché non potesse più uscire”.
“Lo mandò in quel luogo cosicché non potesse più uscire”.
La prima frase contiene una subordinata finale, la seconda una consecutiva. Basta solamente una congiunzione diversa per cambiare la natura di una subordinata?

 

RISPOSTA:

Sì, basta cambiare la congiunzione per ottenere una proposizione diversa; per esempio: “Non so se arrivo” / “Non so quando arrivo”. Nel suo caso, però, la proposizione rimane finale.
Non c’è sempre una corrispondenza univoca tra una congiunzione e una proposizione (si pensi a quante proposizioni diverse può introdurre che) e cosicché, in particolare, può introdurre sia una finale sia una consecutiva. Per distinguere le due proposizioni è sufficiente provare a sostituire cosicché con affinché: se è possibile, come nel suo esempio, la proposizione è una finale; altrimenti è una consecutiva. Si può distinguere la finale dalla consecutiva anche considerando il significato della proposizione. La proposizione finale descrive il fine che il soggetto della reggente aveva in mente quando ha fatto o fa quello che è descritto nella reggente. Entrambe le sue frasi fanno questo: descrivono il fine per cui il soggetto sottinteso della reggente (lui o leimandò il complemento oggetto (loin quel luogo.
Una consecutiva, invece, descrive una conseguenza dell’evento descritto nella reggente. Una proposizione consecutiva adatta alla reggente delle sue frasi potrebbe essere cosicché lui non poté più uscire. Come si vede, questa proposizione ci comunica che cosa successe in conseguenza dell’evento del mandare, non qual era stato il fine del mandare. Si noti anche che la proposizione consecutiva non ammette il congiuntivo, al contrario della finale, che, quando è esplicita, lo pretende.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Verbo
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QUESITO:

Si dice “Questo verbo regge il dativo della persona che si comanda” oppure bisogna dire “Questo verbo regge il dativo della persona a cui si comanda”?

 

RISPOSTA:

Molti verbi italiani (e anche latini) hanno diverse reggenze. Comandare, In particolare può reggere in italiano:
1. il complemento oggetto della cosa e il complemento di termine della persona (comandare qualcosa a qualcuno); 
2. il complemento oggetto della persona e un complemento che indica una destinazione (comandare qualcuno a un luogo o una mansione);
3. solo il complemento oggetto della persona.
Nel primo caso il verbo prende il significato di ‘dare un ordine’ e la cosa che viene comandata è quasi esclusivamente rappresentata da una proposizione oggettiva all’infinito introdotta da di: “Ho comandato a Luca di star fermo”. 
Nel secondo caso il verbo significa ‘inviare, destinare, spostare’: “Luca è stato comandato a un nuovo ufficio”. Come si vede, questo uso è prettamente burocratico.
Nel terzo caso il verbo significa ‘dirigere, governare’: “Luca comanda suo figlio a bacchetta”; “Il generale comanda l’esercito con fermezza” (ma, per esempio, comanda all’esercito di avanzare).
In conclusione, la risposta alla sua domanda è che si comanda se il verbo significa ‘dirigere, governare, avere il comando di’ (o, ma è meno probabile, se significa ‘inviare’), oppure a cui si comanda se significa ‘dare un ordine’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La mamma, che insieme al papà ha fatto… o hanno fatto?

 

RISPOSTA:

Il soggetto della proposizione relativa è che, che rimanda a la mamma. Il verbo, pertanto, deve andare alla terza singolare: ha fatto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi sono imbattuto in una conversazione e da questa è scaturito un dubbio inerente al corretto utilizzo del congiuntivo: “Come hai fatto a capire che lui sia mio amico” o “Come hai fatto a capire che lui è mio amico”?
Spero di risolvere questo dubbio e capire perché una forma sia più corretta dell’altra.

 

RISPOSTA:

Quasi sempre, con le proposizioni oggettive (quale è quella introdotta da che nel suo esempio) la variante con l’indicativo e quella con il congiuntivo sono ugualmente corrette, ma quella con il congiuntivo è più formale, quindi più adatta allo scritto e al parlato sostenuto. Il verbo capire, in realtà, propende di norma per l’indicativo (come dire e sapere) ma bisogna valutare caso per caso: qui la costruzione interrogativa della reggente rende il congiuntivo pienamente accettabile, quindi anche in questo caso la variante al congiuntivo è più formale di quella all’indicativo (che è comunque più comune).
Può trovare molte altre risposte su questo argomento nell’archivio di DICO cercando la parola chiave diafasia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi domando se l’aggettivo dimostrativo questo possa essere usato anche in costruzioni al passato per creare, per così dire, un effetto di vicinanza, non tanto fisica, quanto ideale.
Sarebbe meglio propendere per quello, oppure, a seconda degli intenti semantici del parlante, entrambi sono ammessi?

1. Marco si mise la mani nei capelli e iniziò a piangere: questo (quel) suo disperarsi non mancò di turbarmi.

2. Quella mattina di maggio, Marco ricominciò a parlare della sua infanzia: questa volta si soffermò sul rapporto conflittuale con la propria madre.

In quest’ultimo esempio, mi sentirei di giustificare questa volta in opposizione a un’ipotetica quella volta, così da marcare uno stacco temporale tra due momenti storici distinti (ed entrambi situabili nel passato).

 

RISPOSTA:

L’uso di parole deittiche (cioè ‘che indicano’) di vicinanza, questoquiora e simili, è consentito anche nel discorso indiretto al passato per rendere più vivido il racconto, proprio “avvicinando” la situazione. Questa scelta è alla base del cosiddetto discorso indiretto libero (rimando alla risposta  “Apposizioni modali-associative e dintorni” dell’archivio di DICO per un approfondimento su ora).
Nella frase 2 non si può evocare la sua giustificazione per la scelta di questa, visto che la volta coincide con quella mattina, quindi ci si aspetterebbe quella voltaQuesta rimane comunque una scelta possibile per la ragione illustrata sopra.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Sintassi marcata
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QUESITO:

In un elenco in cui gli elementi sono separati dal punto e virgola, è ammisibile che tale segno di punteggiatura preceda la congiunzione e che introduce l’ultimo della serie?
1) La ragazza aveva begli occhi, scuri, profondi; una bocca carnosa, armoniosa; e una cascata fluente di capelli d’ebano.
Posto che la congiunzione in questo esempio si potrebbe omettere, l’accostamento con il punto e virgola è scorretto?
La virgola, inoltre, prima della proposizione relativa è obbligatoria, facoltativa o errata?
2) Ha salutato i suoi amici, i cui figli sono in vacanza.
3) Ha salutato i suoi amici, i figli dei quali sono in vacanza.
E un’ultima cosa.
Ho la tendenza a inserire la virgola all’interno di frasi in cui credo che essa potrebbe essere tralasciata. Due esempi:
4) Lei osservava il suo riflesso sul lago, e l’autunno accendeva di colori il parco deserto.
5) Mi piacerebbe conoscere la sintassi italiana, e, inoltre, studiare l’etimologia delle parole più diffuse.
La virgola, a differenza della sola congiunzione, mi sembra che segnali meglio lo stacco tra le due proposizioni. È un uso sconsigliato?

 

RISPOSTA:

In astratto l’inserimento di un segno di punteggiatura prima della congiunzione e è legittimo, quando la costruzione e il senso della frase lo richieda; quando, cioè, la e introduca una parte della frase costruita in modo diverso rispetto alla parte precedente e l’informazione veicolata da questa parte sia solo indirettamente legata a quelle precedenti. Ad esempio: “L’ho invitato per farti un favore; e ti ricordo che non mi sta simpatico”; e anche “L’ho invitato per farti un favore. E ti ricordo che non mi sta simpatico”.
Con la e questo succede non frequentemente (perché questa congiunzione solitamente unisce sintagmi o proposizioni molto solidali): per questo si è generalizzata la falsa regola che non sia possibile far precedere la e da un segno di punteggiatura.
Nella sua frase 1 il caso è diverso: la e conclude un elenco omogeneo, con membri nominali, ma che al loro interno sono articolati in segmenti più piccoli separati da virgole. Questa situazione giustifica sintatticamente la separazione dell’ultimo membro dell’elenco con il punto e virgola; la solidarietà tra i membri dell’elenco, però, potrebbe suggerire di evitare non la punteggiatura, ma proprio la e: “La ragazza aveva begli occhi, scuri, profondi; una bocca carnosa, armoniosa; una cascata fluente di capelli d’ebano”. Si tratta, comunque, di una scelta libera.
La virgola che precede la proposizione relativa è stata più volte trattata nelle risposte di DICO: la rimando alla risposta “Quel ragazzo che parlava a vanvera” o “Quel ragazzo, che parlava a vanvera”?” , ma potrà trovarne altre cercando le parole chiave esplicativa e limitativa nell’archivio.
Per le frasi 4 e 5 vale quanto detto per la 1: la virgola è possibile, ma bisogna valutare quanto si vogliono rappresentare come autonome semanticamente le proposizioni coordinate. Il cambiamento sintattico (del soggetto della proposizione, del tipo di sintagma preposizionale…) è un segnale di autonomia: è il caso della frase 4, nella quale la proposizione coordinata ha un soggetto diverso da quella precedente. Anche se la sintassi non cambia, però, è sempre possibile lasciare intendere che la parte introdotta dalla e sia da considerarsi semanticamente non solidale con quella precedente. La frase 5, quindi, può ammettere la virgola prima della e, per rappresentare i due eventi come non strettamente collegati (come a dire vorrei fare la prima cosa, e poi vorrei fare anche l’altra cosa).
Bisogna, comunque, chiedersi sempre che cosa si vuole rappresentare, e selezionare gli strumenti adatti di volta in volta allo scopo (si noti in questa stessa frase la virgola prima della e). 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Congiunzione
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quale delle tre costruzioni indicate di seguito è quella più rispondente alle regole grammaticali, e, inoltre, se la congiunzione o tra parentesi sia consigliata o sconsigliata e se sia preferibile far precedere la suddetta congiunzione, a prescindere dagli esempi, dalla virgola, dal punto e virgola oppure no.
1) È richiesta una quota d’adesione(,) o l’acquisto di un numero minimo di copie?
2) È richiesta una quota d’adesione(,) o è richiesto l’acquisto di un numero minimo di copie?
3) Sono richiesti (o) una quota d’adesione(,) o l’acquisto di un numero minimo di copie?

 

RISPOSTA:

Le tre varianti sono tutto sommato corrette; dovendo metterle in una scala di corrispondenza alle regole, però, direi che la 1 è al terzo posto, cioè è la meno corretta, la 2 è al secondo e la 3 è al primo.
La congiunzione o configura un’alternativa tra due elementi, che possono essere considerati autonomi oppure uniti. Nel primo caso, se i due elementi sono soggetti della frase richiedono ciascuno un verbo (è la costruzione della variante 2); nel secondo concordano con un unico verbo al plurale (è la costruzione della variante 3). Nel primo caso, inoltre, è possibile sottintendere il secondo verbo, se coincide con il primo (è la costruzione della variante 1). Il problema della variante 1 è che i due soggetti, una quota e l’acquisto, sono di genere diverso, quindi il primo e il secondo verbo non coincidono esattamente (lo si vede nella variante 2). Si tratta di un difetto veniale, che in un contesto di media formalità anche scritto passerebbe inosservato.
La 2 e la 3 non presentano problemi, ma la 3 è preferibile in astratto perché la ripetizione del verbo appesantisce la sintassi. La ripetizione della congiunzione nella 3 è una possibilità lasciata allo stile dello scrivente. 
Per quanto riguarda la virgola, la variante 3 la esclude, perché i due soggetti sono considerati molto solidali, tanto da concordare con un unico verbo. Più plausibile, ma comunque non necessario, è il suo inserimento nella variante 2, che presenta un’alternativa più marcata.
Più marcata è l’alternativa, sintatticamente e semanticamente, più la virgola diviene necessaria: “Paga quello che devi, o sarò costretto a denunciarti”. Il punto e virgola diviene necessario quando i due elementi sono sintatticamente diversi e semanticamente opposti: “Ho visto Maria in quel negozio; o forse me lo sono sognato”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Congiunzione
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QUESITO:

Qual è la differenza di significato tra queste due affermazioni?
Senza la necessità di pretendere nulla.
Con la necessità di pretendere nulla.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette e identiche dal punto di vista del significato. 
La prima contiene una doppia negazione (senza e nulla) che rinforza il concetto; la seconda presenta come affermativa una circostanza negativa. Quest’ultima costruzione è normale in altre lingue (come l’inglese), mentre in italiano risulta sgradita ai parlanti, che, invece, preferiscono la doppia negazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

A proposito delle preposizioni che servono a caratterizzare una persona, perché le seguenti espressioni si formano con preposizioni differenti? Mi sembrano avere la stessa struttura. O potrebbero essere intercambiabili?
con una grande umanità;
di bassa statura;
dal cuore d’oro;
dall’intelligenza non comune.
Inoltre, molte volte le preposizioni di / da + articolo segnano il motivo: piangere di gioiadalla gioia. Ma posso usare anche perpiangere dalla / di / per la commozione.
E infine: andare da una stanza all’altra. Perché si dice cosi? Perché non si dice andare da una stanza nell’altra?

 

RISPOSTA:

Le qualità delle persone o delle cose possono essere espresse in modi diversi. Prima di tutto c’è la possibilità di usare un aggettivo qualificativo (una donna di bassa statura una donna bassa). Se si vuole usare un sintagma preposizionale si può scegliere soprattutto tra di e da. La differenza tra le due preposizioni è vaga e la scelta tra l’una e l’altra dipende soprattutto dalla preferenza dei parlanti. Volendo essere precisi, di è piuttosto rara, è seguita preferibilmente da un aggettivo e non vuole l’articolo: di bassa statura (non *della bassa statura), di poco conto (non *del poco conto). Dal punto di vista del significato, di rappresenta la qualità come inseparabile dal possessore: questa preposizione, infatti, indica una relazione stretta tra due elementi (è usata, non a caso, nel complemento di specificazione); da, invece, rappresenta la qualità come caratterizzante, posseduta in modo parziale o temporaneo. Con, infine, introduce una qualità che accompagna una persona o una cosa rimanendo ben distinta dalla persona o la cosa. Introduce anche il modo in cui un’azione è compiuta. Si osservino i seguenti esempi:
Luca è una persona di grande umanità;
Luca è una persona dalla grande umanità;
Luca è una persona con una grande umanità.
Il primo indica che l’umanità è connaturata in Luca, tanto che l’uno e l’altra non sono separabili.
Il secondo indica che Luca è caratterizzato dall’umanità, ma quest’ultima non lo identifica.
Il terzo è un po’ forzato; nell’uso sarebbe costruito con una proposizione relativa (Luca è una persona che ha una grande umanità) oppure con dalla grande umanità. Rispetto a dacon indica che la qualità è associabile a Luca, ma in modo non stabile. Questa preposizione è più comunemente legata a un verbo, per introdurre il modo in cui l’evento descritto dal verbo avviene: “Luca si è comportato con grande umanità” (meno comune con una grande umanità). 
Dida + articolo e per + articolo possono esprimere anche la causa di un evento. Anche in questo caso di è raro e indica una relazione stretta tra i due elementi collegati (in questo caso il verbo e la causa). Piangere di gioia, quindi, è la descrizione di un tipo speciale di pianto, diverso da tutti gli altri. Piangere dalla gioia instaura una relazione meno stretta tra i due elementi, ma ancora speciale, tipica. Piangere per la gioia, infine, indica semplicemente la causa del pianto in una determinata situazione. Si noti che di e da non si possono usare sempre per esprimere la causa, ma descrivono soltato situazioni uniche o tipiche: si può, per esempio, piangere di dolore, ma piangere dal dolore è forzato; si può, invece, piangere dal gran dolore (e, al contrario, non è possibile *piangere di gran dolore). Non si può *piangere di fidanzato, né *piangere dal fidanzato, ma si può piangere per il fidanzato
Infine, andare da un luogo a un altro è preferito ad andare da un luogo in un altro perché il verbo andare non esprime l’ingresso, ma soltanto l’avvicinamento a un luogo. Andare in una stanza, infatti, è un po’ forzato (molto meglio è entrare in una stanza), anche se in un contesto poco sorvegliato è accettabile. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La preposizione su che esprime quantità approssimativa è corretta in questa frase?
“Rimaniamo a Aosta su 10 giorni”.
Questa frase con quale preposizione è giusta?
“I turisti ritornano nei / con i primi giorni caldi”.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase la preposizione è corretta, ma bisogna aggiungere l’articolo: sui 10 giorni = ‘all’incirca 10 giorni’.
Nella seconda frase la preposizione sicuramente corretta è con, che in questo caso indica la concomitanza, la coincidenza, tra il ritorno dei turisti e quello dei giorni caldi. La preposizione in non va bene perché indica il tempo determinato (“I turisti ritornano in aprile”), mentre i primi giorni caldi descrive una situazione più che un momento. In andrebbe bene in una frase come “I turisti ritornano nei primi giorni caldi di aprile”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla corretta forma scritta di un aggettivo (es. agitato) con i suffissi super-ultra- ecc.
Quali di queste forme sono considerate corrette: superagitatosuper-agitato o super agitato?

 

RISPOSTA:

Super-ultra-extra-mega- e simili non sono suffissi, ma prefissi, perché si aggiungono sempre prima della parola (mentre i suffissi si aggiungono dopo). I prefissi e i suffissi, che raggruppiamo nell’unica categoria degli affissi, non possono essere usati da soli, perché non sono parole, ma solo parti di parole; non a caso, quando li scriviamo isolati li facciamo seguire o precedere da un trattino (super--o), a segnalare che manca una parte di parola. 
Alcuni affissi (detti affissoidi; categoria nella quale possiamo annoverare super- e gli altri dal significato simile) sono speciali, perché hanno un significato più complesso rispetto agli altri, come se fossero parole a tutti gli effetti. La scelta su come scrivere le parole che contengono questi affissoidi dipende da diverse considerazioni: se la parola è acclimata nella sua forma univerbata (extrafondentesupermercatoiperspazio…) non c’è motivo di scriverla diversamente; se, invece, non c’è una tendenza nell’uso comune, è consigliabile usare il trattino. La grafia separata è sicuramente possibile con alcuni affissoidi di questo gruppo, visto che si possono usare anche come aggettivi: una spesa extraun vino super. Per gli altri è discutibile: un concerto mega (?), una cena ultra (?) ecc., ma la vicinanza con gli altri rende giustificabile anche questi casi. 
Su questo stesso argomento si può vedere anche la risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”? dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Quale fra le due affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
“Gentile cliente desidero informarti DI AVERE a disposizione”, oppure “CHE HO a disposizione”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette. La prima è più formale perché rispetta la norma, che non è obbligatoria in questo caso, di usare l’infinito nella subordinata oggettiva quando il suo soggetto coincide con quello della reggente (come in questo caso); la seconda è accettabile, ma meno appropriata, perché, come detto, l’uso dell’infinito non è obbligatorio (anzi nella comunicazione parlata e nello scritto poco sorvegliato si preferisce l’indicativo) e perché la forma della reggente è simile a quella tipica dei verbi di comando (richiedereordinareimporre…), con i quali vige l’obbligo di usare l’infinito nella subordinata, ma quando il soggetto di quest’ultima coincide con il destinatario dell’ordine (quindi non in questo caso). In altre parole, desidero informarti di avere a disposizione si confonde con desidero richiederti di avere pazienza, nella quale l’inifinito è richiesto perché il soggetto è tu, non io.
Nella frase c’è un altro problema: la formula allocutiva gentile cliente stride con il pronome tu; ci si aspetterebbe, invece, il lei (informarla). Dopo il complemento di vocazione iniziale, inoltre, è richiesta la virgola. Le forme più coerenti, in conclusione, sono “Gentile cliente, desidero informarla di avere a disposizione” (più formale), oppure “Caro cliente, desidero informarti che ho a disposizione” (amichevole).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ad un amico straniero ho chiesto un giudizio su due insegnanti di lingua italiana.
La sua risposta è stata: “Mi sembrano che parlino troppo velocemente”.
Non mi sono permesso di correggerlo, però avrei voluto spiegargli che in questo caso il verbo sembrare regge una proposizione subordinata soggettiva esplicita e va usato in forma impersonale e quindi alla terza persona singolare, anche se le insegnanti in questione sono due.
In effetti le due insegnanti non sono il soggetto del verbo sembrare. Se proprio si vuole trovare un soggetto per il verbo sembrare, questo è costituito dalla intera proposizione subordinata che lo segue.
Non ho corretto il mio amico, ma, subito dopo, mi ha preso un dubbio terribile!
Perché se io volgo la subordinata da esplicita in implicita allora le due insegnanti tornano ad essere il soggetto della proposizione principale, il verbo sembrare smette di essere impersonale e andrà coniugato alla terza plurale? La frase diventa, infatti: “Le due insegnanti mi sembrano parlare troppo velocemente”. Il significato è identico ma cambiano i ruoli degli attori in commedia.

 

RISPOSTA:

La sua prima osservazione è corretta: mi sembra che regge una proposizione soggettiva, che ne costituisce il soggetto grammaticale. Per questo motivo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dal soggetto della proposizione soggettiva.
Questa analisi si scontra con la logica (come spesso avviene), che individua nel soggetto della soggettiva, non nell’intera proposizione, il soggetto anche del verbo reggente. Da qui l’errore, comune anche nei nativi, di concordare il verbo reggente con il soggetto della soggettiva. 
Il verbo sembrare seguito da una proposizione soggettiva ammette anche la costruzione personale (le due insegnanti sembrano parlare). Questa costruzione, meno frequente di quella impersonale, richiede che il verbo concordi con il suo soggetto; la logica della frase rimane la stessa, ma la grammatica cambia. 
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Può controllare la correttezza delle seguenti frasi:
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo invio volentieri.
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo invierò volentieri.
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo potrei inviare volentieri.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette; si distinguono per una sfumatura nel significato del verbo inviare. L’indicativo presente sottolinea l’immediatezza dell’azione (sebbene non sia escluso l’uso del presente con funzione di futuro) e la sua fattualità (l’emittente, cioè, sottolinea che l’inviare è valido in assoluto, anche a prescindere dall’ipotesi che il materiale possa servire). L’indicativo futuro sposta l’evento nel futuro. Il condizionale (anche invierei) trascura il dettaglio del tempo, perché il condizionale è valido per il presente e per il futuro, e sottolinea che l’azione dell’inviare è la conseguenza diretta della condizione del servire
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

È sbagliato scrivere cinquant’otto?

 

RISPOSTA:

Le unità si uniscono di norma alle decine formando un’unica parola, quindi la forma certamente corretta è cinquantotto. La variante con l’elisione, cinquant’otto, non rappresenta un errore grave, ma presuppone la forma cinquanta otto, quindi anche cinquanta unocinquanta duecinquanta tre ecc., che non possono dirsi scorrette, ma sono sfavorite nell’uso, probabilmente perché la parola unica rispecchia la forma dei numeri (515253… 58), nella quale le cifre nono son separate dallo spazio.
Fabio Ruggiano

 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale delle due affermazioni è corretta?
1. Non accessibile alle persone.
2. Non accessibile dalle persone. 

 

RISPOSTA:

L’aggettivo accessibile regge la preposizione a. Non è escluso, comunque, l’uso assoluto, cioè senza altro complemento, e il completamento con il generico complemento di agente, che si costruisce con la preposizione da. Questa preposizione, però, si usa anche per indicare il percorso attraverso cui un luogo è accessibile: accessibile da computerdalla stradadal mare, per cui accessibile alle persone è più preciso e immediato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Coesione
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QUESITO:

Le mie domande sono connesse, più o meno direttamente, con il periodo ipotetico. Le prime due riguardano i tempi possibili nelle subordinate dipendenti dall’apodosi.
1) Se avessi programmato le ferie, avresti avuto a disposizione tutto il tempo che avresti voluto / volevi / volessi / vuoi (tutti i tempi sono validi?).
2) Se fossi stata un’insegnante, mi sarei premurata di valorizzare gli studenti che avrebbero mostrato / avessero mostrato / mostrassero delle qualità (a proposito dell’ultimo esempio. Ammettiamo che tutte le scelte siano giustificabili, quella con il congiuntivo trapassato sarebbe inevitabilmente ancorata al rapporto di anteriorità della subordinata con la reggente, oppure potrebbe proiettarsi al futuro – come il condizionale passato – ma con maggiore rilievo al carattere eventuale dell’evento?).
3) Se fossi obbligata a sporgere denuncia perché qualcuno mi ha offesa, mi affiderei poi a un buon avvocato (è valido l’indicativo nella subordinata dipendente dalla protasi del periodo ipotetico? Per aumentare il livello di formalità, si potrebbe optare per il congiuntivo passato o trapassato?).

 

RISPOSTA:

1) Sono valide tutte le forme tranne l’indicativo presente. Quest’ultimo, infatti, non si accorda logicamente con avresti avuto, che è un tempo del passato. Si noti che la proposizione relativa è libera dalla consecutio temporum, ma non dalla logica, per cui non è un problema che l’indicativo presente all’interno della consecutio indichi la contemporaneità rispetto al presente (mentre avresti avuto è passato), ma che la costruzione avresti avuto (nel passato) il tempo che vuoi (adesso) è contraddittoria.
2) Ancora per incoerenza è al limite dell’accettabilità avrebbero mostrato, perché mi sarei premurata àncora l’evento al momento stesso in cui avviene, mentre avrebbero mostrato rimanda al tempo successivo. Diventerebbe pienamente logico se al posto di mi sarei premurata ci fosse, per esempio, mi sarei prefissa l’impegno… Le altre due opzioni vanno bene. Il congiuntivo trapassato non può riferirsi alla posterità; può, bensì, indicare un evento molto improbabile contemporaneo a mi sarei premurata (assumendo la funzione ipotetica), oppure indicare un evento precedente a mi sarei premurata (assumento la funzione temporale). Se attribuiamo al congiuntivo trapassato (o anche all’imperfetto) la funzione ipotetica, la proposizione relativa diviene una relativa impropria ipotetica. Se, invece, intendiamo il trapassato e l’imperfetto come tempi che indicano rispettivamente l’anteriorità rispetto al passato e il passato continuato, la relativa rimane non ipotetica. Si noti che anche così non possiamo dire che la relativa rispetti la consecutio temporum (in contraddizione con quanto affermato sopra), perché i tempi sono usati con il loro significato proprio (l’anteriorità rispetto al passato per il trapassato, il passato continuato per l’imperfetto), che, in questo caso, viene a coincidere con le regole della consecutio.
3) L’indicativo va benissimo nella causale in qualsiasi contesto, anche se dipendente da una ipotetica. Questa proposizione, infatti, non ammette di norma il congiuntivo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se le frasi che seguono sono corrette in contesti formali:
– Da quando era piccola adoravo l’ospedale.
– Come credo già sai / Come credo che tu già sappia.
– Credo che lo stai facendo anche tu  / Credo che lo stia facendo anche tu.
– Da quello che mi ha raccontato mio fratello è una scuola molto bella, dice (oppure mi
dice) che i professori sono molto bravi.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase, visto che il soggetto della subordinata è diverso da quello della reggente è bene esplicitarlo: “Da quando lei era piccola adoravo l’ospedale”.
Nella seconda e nella terza la variante più formale è quella con il congiuntivo.
Nella quarta c’è un problema di punteggiatura: la virgola deve essere sostituita dai due punti o dal punto e virgola (al limite anche da un punto fermo). Inoltre è preferibile sostituire sono con siano (per la stessa ragione della seconda e della terza frase), anche se il verbo dire è costruito più spesso con l’indicativo che con il congiuntivo. Dice o mi dice, invece, non influiscono sul livello di formalità. Quindi: “Da quello che mi ha raccontato mio fratello è una scuola molto bella; dice / mi dice che i professori siano molto bravi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta?
1. L’esercito Romano è stata l’entità militare più potente di tutti i tempi.
2. L’esercito Romano è stato l’entità militare più potente di tutti i tempi. 

 

RISPOSTA:

La regola generale è che l’accordo sia tra il soggetto e il verbo, quindi la frase corretta è la 2. L’accordo con il nome del predicato nel caso in cui quest’ultimo abbia un genere o un numero diverso dal soggetto (come nella frase 1.) non è esattamente un errore, ma è piuttosto un’imprecisione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Queste frasi sono corrette? Posso omettere che?
“Aggiunse che le loro risorse economiche erano ridotte al lumicino, e che le spese per il doppio matrimonio le avrebbero azzerate del tutto”.
“Marco le disse che il mattino seguente l’avrebbe seguita al lavoro con la sua macchina; che avrebbe atteso nel parcheggio dell’ospedale l’invadente donnaiolo e che lo avrebbe affrontato”. 

 

RISPOSTA:

Nella prima frase sconsiglio di omettere il secondo che, perché le due proposizioni oggettive sono del tutto autonome l’una dall’altra, visto che hanno due soggetti diversi.
Nel secondo caso, al contrario, si possono omettere i due che successivi perché le oggettive successive mantengono lo stesso soggetto della prima, quindi si possono configurare come ampliamenti di quest’ultima. Rimane, comunque, possibile esplicitare sempre il che, con l’effetto di sottolineare l’autonomia dei tre eventi descritti dalle rispettive proposizioni.
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Dopo cento e uno è possibile dire cento e duecento e trecento e tredici eccetera?
Si dice centouno favole / libri (plurale) però cento e una favola / cento e uno libro (singolare)?
E con mille vale la stessa regola? Mille e duemille e tredicimille e trecentodue, e poi milleuno favole, mille e una favola?
Lo stesso vale per un milione e novantunmiladue milioni e centocinquemilaquattrocentoottantottomila e novecentocinquantuno. Dopo milionemiliardomila si mette la e?
Ancora, si scrive anni ’80 o anni 80nel 45 o nel ’45?
E quando si scrivono insieme e attaccati i numeri grandi?

 

RISPOSTA:

I composti con centomille e -mila si possono scrivere attaccati, senza e o staccati, con la congiunzione; sono, quindi, corretti, sia centotredici sia cento e tredici, sia milletredici sia mille e tredici, sia duemila e novantanove sia duemilanovantanove. Molto più comune oggi, comunque, è la forma unita. Si noti che la decina ottanta perde l’iniziale in composizione con centocentottantacentottantuno (oppure cento e ottantacento e ottantuno) ecc. Quindi non quattrocentoottantottomila ma quattrocentottantottomila.
Centouno centouna sono per forza plurali, visto che indicano un gruppo numeroso di elementi. Quando si scrivono separati può sembrare strano concordare uno e una con un nome plurale, ma è ancora possibile: mille e una casecento e un libri. Diviene possibile, però, anche concordarli al singolare: mille e una casacento e un libro.
Milione e miliardo si scrivono sempre separati dalle altre cifre, con la congiunzione eun milione e novantunmila (non un milionenovantunmila), due milioni e centocinquemila (non due milionicentocinquemila).
I decenni e gli anni si scrivono sempre con l’apostrofo quando viene omesso il migliaio corrispondente al secolo: gli anni ’80 (= gli anni 1980), il ’45 (= il 1945). Possibile anche riferirsi a decenni di altri secoli, specificando il secolo: gli anni ’80 dell’Ottocento.
Queste regole coprono tutti i casi possibili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sto continuando a scorrere con sommo interesse il vostro archivio.
Mi sono recentemente soffermata su uno degli ultimi articoli inseriti e ammetto di essere entrata un po’ in difficoltà davanti alla spiegazione in esso contenuta.
Temo, ahimè, di non aver afferrato bene date regole.
È l’articolo 2800723.
Il fatto che nelle subordinate ipotetiche il grado di ipoteticità degli eventi sia escluso a favore della consecutio è un regola generale, oppure è limitato all’esempio posto dall’utente?
Mi è capitato, e mi capita ancora adesso, di scrivere frasi come
“Scrivimi, nel caso ti avessi/abbia bisogno di sfogarti”, “Esco con l’ombrello, nel caso piovesse”.
Sceglierei il tempo del congiuntivo non sulla scorta della consecutio, ma su quella del grado di ipoteticità: imperfetto meno probabile del presente.
Ricollegandomi a uno degli esempi dell’articolo, mi sarebbe venuto spontaneo scrivere
“Rimango fermo nel caso arrivasse qualcuno”.
A proposito di consecutio, perdonatemi l’ultima preghiera di delucidazione.
Le locuzioni e le congiunzioni usate nelle proposizioni ipotetiche ammettono di norma solo il congiuntivo; suppongo dunque che sia il congiuntivo trapassato a fare ufficio del condizionale composto nella proiezione nel futuro.
Cerco di spiegarmi con una frase:
“Servì il dolce nel caso qualcuno avesse voluto gustarlo” = “Servì il dolce nel caso qualcuno (dopo che fosse stato servito) avesse voluto gustarlo”.
Qui, mi pare che il congiuntivo trapassato tratteggi un’azione che, per quanto ipotetica, si rivela posteriore a quella della reggente.
Chiedo venia per la verbosa esposizione delle mie riflessioni e per essere tornata su un argomento esposto; ma la vostra sezione “archivio delle domande” è molto stimolante e formativa, oltreché ben organizzata.

 

RISPOSTA:

è praticamente condivisibile tutto quello che ha scritto, il che esclude che Lei abbia le idee confuse su quelle che, più che regole ferree, sono tendenze della lingua. Anzi, mi sembra che Lei abbia le idee più chiare di molti linguisti, complimenti! In particolare:
il fatto che nelle subordinate ipotetiche il grado di ipoteticità degli eventi sia escluso a favore della consecutio temporum è un tendenza abbastanza generalizzata, non limitata all’esempio posto dall’utente, sebbene non si escludano sfumature. In “Scrivimi, nel caso tu avessi/abbia bisogno di sfogarti” e in “Esco con l’ombrello, nel caso piovesse” le frasi sono ben formate sia con il presente sia con l’imperfetto congiuntivo, che non veicolano gradi di ipoteticità (o almeno non in modo evidente ed esclusivo) bensì indicano alternative possibili per motivi semantici: aver avuto bisogno implica l’averlo ancora, di solito. Nel caso della frase sulla pioggia direi che a incidere è anche il fatto che ogni parlante associa al congiuntivo imperfetto un grado di ipoteticità maggiore, dovuto al fatto che si trova preferibilmente nel periodo ipotetico del secondo tipo, cioè dell’eventualità. 
In “Rimango fermo nel caso arrivasse qualcuno” agisce lo stesso meccanismo: il parlante italiano associa l’eventualità soprattutto al congiuntivo imperfetto. Non credo che questo dimostri esattamente un maggior grado di ipoteticità, bensì è legato a un fatto di mera frequenza d’uso: è semplicemente più frequente del congiuntivo presente, tutto qui, donde l’attesa e le scelte dei parlanti.
Le locuzioni e le congiunzioni usate nelle proposizioni ipotetiche ammettono perlopiù il congiuntivo nell’italiano formale, anche se non mancano casi di periodo ipotetico della realtà all’indicativo anche nello stile formale: “se qualcuno lo vuole c’è altro gelato”. Sì, è vero, è di solito il congiuntivo trapassato a fare l’ufficio del condizionale composto nella proiezione nel futuro: “Servì il dolce nel caso qualcuno avesse voluto gustarlo” = “Servì il dolce nel caso qualcuno (dopo che fosse stato servito) avesse voluto gustarlo”. In questo caso l’ipoteticità prende il sopravvento sulla consecutio temporum, ha perfettamente ragione Lei, tanto che l’alternativa con il condizionale passato (cioè il modo e il tempo del futuro nel passato), ancorché possibile, in questo caso suona ai limiti dell’inaccettabile (a causa del connettivo “nel caso” che regge di norma il congiuntivo): *”Servì il dolce nel caso qualcuno avrebbe voluto gustarlo”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se è corretto dire: “Ci sono dei familiari seduti intorno ad un tavolo. Dentro la  stanza, altri carcerati ed i loro cari”.

 

RISPOSTA:

In mancanza di ulteriori indicazioni contestuali, la frase è indubbiamente corretta. È peraltro migliorabile, per esempio eliminando le d eufoniche: “Ci sono dei familiari seduti intorno a un tavolo. Dentro la  stanza, altri carcerati e i loro cari”.  Oppure usando un verbo meno trito di esserci: “Alcuni familiari sedevano a un tavolo. Nella stanza, altri carcerati e i loro cari”. Infine, se comunque l’ambiente è lo stesso, non si vede la necessità di duplicare l’informazione sui familiari = cari: “I carcerati con alcuni familiari sedevano a un tavolo” sarebbe meno ridondante.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Finalmente ci siamo liberati da tutti quei curiosi” l’espressione “da tutti quei curiosi” svolge la funzione logica di:
A) complemento di separazione
B) complemento di allontanamento
Mi è capitata questa domanda in un concorso ma ho il dubbio che sia errata. Ho sempre studiato il complemento di allontanamento o separazione come un unico complemento, è possibile invece farne una distinzione come indicato nella domanda?

 

RISPOSTA:

La risposta più corretta è complemento di separazione, visto che l’allontanamento in questo caso è figurato (è una liberazione, per l’appunto), anziché letterale. Ma Lei ha ragione da vendere quando osserva che i due complementi andrebbero studiati insieme, dal momento che la funzione sintattica e il connettivo (da) che ne sono alla base sono i medesimi (anche se nella frase in questione si potrebbe usare anche di, che anzi sarebbe preferibile: “liberarsi di qualcuno”) sia per esprimere l’allontanamento sia per esprimere la separazione. Allontanamento e separazione sono concetti meramente semantici che nulla hanno a che vedere né con la sintassi né con la analisi “logica” (in questo caso molto poco logica). Quindi chi ha costruito quel test mostra competenze linguistiche limitate o eccessivamente (quanto inutilmente) rigide.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

E’ giusta questa frase? “Gli uomini si sposano 3-4 anni più tardi che/delle donne”.

 

RISPOSTA:

“Più tardi delle donne”.
Il secondo termine di paragone è introdotto, in casi come questi, da di + sostantivo o pronome.
Se il secondo termine di paragone è espresso da un verbo, cioè da una proposizione, allora si usano altri costrutti; per esempio: “più tardi di quanto (non) si sposino le donne”.
Certe volte, sempre nel caso in cui il secondo termine di paragone sia costituito da una proposizione, si può usare che, ma non con più tardi. Per esempio: “è meglio stare all’aria aperta che rimanere tre ore in una stanza chiusa”.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” o “credo che avesse dovuto valorizzarti di più”? Perché?

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette, ma hanno un significato diverso. Il condizionale passato in questo caso non funge da futuro nel passato, ma rappresenta una variante più cortese del congiuntivo imperfetto. In altre parole “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” equivale dal punto di vista del significato a “credo che dovesse valorizzarti di più”, ma è pragmaticamente meno diretto. Dal punto di vista temporale, il congiuntivo imperfetto (quindi anche il condizionale passato che corrisponde al congiuntivo imperfetto) indica in questo caso che l’evento del trattare è anteriore rispetto all’evento reggente, ovvero rispetto a credo. Il congiuntivo trapassato indica, invece, che l’evento è anteriore rispetto a un altro evento lasciato sottinteso, per esempio: “credo che avesse dovuto valorizzarti di più prima che fosse troppo tardi”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto scrivere “Mi hanno chiesto se avessi voluto partecipare questa sera al loro show”?

 

RISPOSTA:

La forma più attesa di questa frase è quella con il condizionale passato: mi hanno chiesto se avrei voluto partecipare. Possibile, e più formale, anche il congiuntivo imperfetto: mi hanno chiesto se volessi partecipare. In un contesto informale, al contrario, sarebbe accettato anche l’indicativo imperfetto: mi hanno chiesto se volevo partecipare.
In accordo con la consecutio temporum, il condizionale passato e l’indicativo imperfetto sottolineano la posteriorità dell’evento rispetto all’evento della reggente (hanno chiesto); il congiuntivo imperfetto, invece, indica la contemporaneità nel passato. 
Il congiuntivo trapassato (avessi voluto), invece, esprime l’anteriorità rispetto a un evento passato, rappresentato nella frase ancora da hanno chiesto. Con il congiuntivo trapassato, quindi, la frase non è scorretta, ma indica che la domanda riguardava la volontà manifestata prima della domanda stessa, come se fosse ieri mi hanno chiesto se il giorno prima avessi voluto partecipare.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In questa frase si usano questi e quegli. Non si puo usare questo e quello?

Marco e Gabriele sono molto diversi, questi è più timido e quegli è più espansivo. Inoltre a quello piace lo sport e a questo la musica.

 

RISPOSTA:

Questi e quegli sono pronomi rari nell’uso, che possono sostiture i pronomi questo e quello quando hanno la funzione di soggetto (anche se non è escluso l’uso con funzione di complemento oggetto o altri complementi). L’uso di questi pronomi aumenta il grado di formalità del discorso, ma non è obbligatorio.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coesione, Pronome, Registri
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QUESITO:

Un insegnante, rivolgendosi agli studenti, dice:’ “Per malattia domani non sarò presente per la lezione di scienze”. La frase è corretta oppure avrebbe dovuto dire presente alla lezione di scienze? C’è una qualche differenza?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Presente a sottolinea il luogo, la situazione in cui si è (o non si è) presenti; presente per sottolinea la funzione, lo scopo per cui si è (o non si è) presenti.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Mi chiedo da sempre come mai si dice la fine (femminile), la settimana (femminile), ma il fine settimana (maschile). In italiano, il genere delle parole composte non è collegato ai generi delle parole singole che contengono?

 

RISPOSTA:

La questione è effettivamente aperta. Di norma il genere dei composti corrisponde al genere della loro testa, ovvero del costituente che detta le caratteristiche morfologiche e semantiche. Per esempio, un pescecane è maschile e definisce un tipo di pesce perché la testa del composto è pesce.
Nel caso di fine settimana ci si aspetterebbe che il genere fosse femminile, perché fine, che è la testa del composto, è femminile (ma può essere anche maschile, con il significato di ‘obiettivo, scopo’). La ragione della scelta del genere maschile per questo composto è probabilmente che esso è un calco traduzione dell’inglese week end, e quindi è trattato come una parola straniera. Le parole straniere che entrano in italiano provenendo da lingue prive del genere (come è l’inglese) sono di solito maschili, ma possono essere anche femminili se richiamano alla memoria dei parlanti altre parole femminili già esistenti in italiano (per esempio, e-mail è femminile perché richiama posta o lettera). Nel caso di fine settimana i parlanti non hanno sentito l’eco di la fine, ma hanno, invece, assimilato questa parola ai giorni della settimana, che sono tutti maschili tranne uno.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Con il congiuntivo imperfetto si possono costruire le subordinate sia quando il verbo della principale è coniugato al presente sia quando questo è coniugato al passato?
“Rimango / rimasi fermo davanti alla porta nel caso arrivasse qualcuno”.
Quando abbiamo un tempo del passato nella principale, sono ammessi sia il congiuntivo imperfetto sia il congiuntivo trapassato in questo genere di subordinata, oppure l’imperfetto è sconsigliato? In questo caso, qual è la differenza tra i due tempi?
“Sono rimasto / Rimasi fermo davanti alla porta nel caso arrivasse / fosse arrivato qualcuno”.

 

RISPOSTA:

Il tempo del congiuntivo nella subordinata ipotetica (introdotta in questo caso da nel caso) della sua frase dipende dalla consecutio temporum, non dal grado di ipoteticità che si vuole attribuire alla proposizione.
Se, pertanto, la subordinata instaura con una reggente un rapporto di contemporaneità, al presente nella reggente corrisponderà il presente nella subordinata: rimango… nel caso arrivi qualcuno. A qualunque passato nella reggente corrisponderà, invece, l’imperfetto: rimasi / sono rimasto / rimanevo / ero rimasto… nel caso arrivasse qualcuno.
Se la subordinata instaura un rapporto di anteriorità con la reggente, al presente corrisponderà il passato: rimango… nel caso sia arrivato qualcuno; al passato corrisponderà il trapassato: rimasi… nel caso fosse arrivato qualcuno
La semantica del verbo arrivare permette anche la variante rimango… nel caso fosse arrivato qualcuno, perché fosse arrivato = ci sia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vorrei porvi una serie di interrogativi circa il che relativo. Partiamo con il primo dei due esempi:
1. Parlai alla moglie di Marco che dormiva.
a) Suppongo che il pronome relativo si colleghi alla moglie di Marco anziché a quest’ultimo. L’inserimento di una virgola o di un altro segno di punteggiatura potrebbe invece produrre l’effetto opposto?
b) La grammatica è arbitraria nell’individuazione del referente, oppure il lettore può risalire a esso mediante gli elementi della frase (alludo in special mondo alle parti variabili). Mi spiego meglio: se l’esempio fosse più dettagliato: “Parlai alla moglie di Marco, che dormiva, beato, sul divano”, sarebbe lecito ricondurre il pronome a Marco, unico elemento maschile della frase.
Secondo esempio:
2. Fece una carezza al proprio figlio. Che si scansò bruscamente.
L’esempio è di mia creazione; costruzioni del genere, con il che a inizio frase, sono tuttavia abbastanza frequenti in letteratura.
c) Una sola domanda: questo genere di costruzione – se valido – deve collegarsi esclusivamente all’ultimo complemento della frase precedente? “Fece una carezza al proprio figlio. Che non fu gradita”. In questo caso il che “risale” fino al complemento oggetto, anziché “fermarsi” al complemento di termine.

 

RISPOSTA:

Riguardo alla prima frase, sottolineo che un nome proprio non può essere seguito da una relativa limitativa, perché è perfettamente identificativo di un individuo, senza che debba essere aggiunto altro. Se sostituiamo Marco con un sintagma nominale comune, però, la relativa limitativa diviene senz’altro riferita a quest’ultimo: “Parlai alla moglie del vicino di posto che dormiva”. Il pronome relativo, infatti, rimanda all’antecedente più vicino tra quelli possibili (Marco, pur essendo più vicino a che rispetto a la moglie, non è un antecedente possibile; il vicino di posto è un antecedente possibile). 
La virgola rimette in gioco anche Marco come antecedente, perché la relativa esplicativa aggiunge informazioni sull’antecedente, non lo identifica. Per la regola della vicinanza dell’antecedente, anzi, dobbiamo propendere senz’altro per l’interpretazione che fosse Marco a dormire, non la moglie (per quanto un minimo di dubbio potrebbe permanere). Ovviamente l’ambiguità sarebbe risolta (come lei stesso suppone) dalla presenza nella proposizione relativa di un’informazione riferibile soltanto a uno dei due possibili antecedenti: “Parlai alla moglie di Marco, che è bionda”, o, al contrario, “Parlai alla moglie di Marco, che è un mio carissimo amico”.
Nella seconda frase il punto fermo è legittimo: un punto che interrompe una sequenza sintattica in modo insolito, separando, per esempio, una subordinata da una reggente, oppure un complemento dal verbo che lo richiede, o altri componenti sintattici in teoria non separabili, è detto punto anomalo ed è una caratteristica sfruttata da alcuni scrittori e giornalisti per focalizzare l’attenzione su singole parole o singoli sintagmi isolandoli. Dal punto di vista della coerenza, comunque, non c’è differenza tra “Fece una carezza al proprio figlio. Che non fu gradita” e “Fece una carezza al proprio figlio, che non fu gradita”. Il riferimento di che una carezza è possibile non perché ci sia il punto fermo, ma perché una carezza è il più vicino degli antecedenti possibili di fu gradita.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Coesione, Verbo
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QUESITO:

Molto spesso nelle grammatiche si parla di condizionale o congiuntivo in maniera troppo semplicistica limitandosi ad indicarne la preferenza nel solo periodo ipotetico senza però specificare le casistiche particolari che si possono verificare per esempio dopo quandofinchécome se o anche se. Nella fattispecie qui sotto riportata, mi sapete gentilmente confermare quali siano le frasi corrette e quali no con relativa argomentazione?
1) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare.
2) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.
3) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare
4) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.

 

RISPOSTA:

Nelle sue frasi ci sono due ordini di problemi: bisogna decidere da una parte il modo della proposizione relativa che poi arriverebbero / arrivassero; dall’altra il modo della proposizione comparativa ipotetica come se quelli sarebbero / fossero
La soluzione al primo problema è che sono corretti tutti e due i modi: la proposizione relativa è la più svincolata da regole sulla scelta dei modi e dei tempi verbali, perché funziona da ampliamento di un nome o un pronome (in questo caso quelli). Può, quindi, esprimere la condizionalità con il condizionale, la non fattualità con il congiuntivo (e ricordiamo che la non fattualità espressa dal congiuntivo è molto vaga) e anche la fattualità con l’indicativo: quelli che poi arrivano / arriveranno.
Il modo della comparativa ipotetica è, di norma, il congiuntivo: il condizionale non è previsto. L’indicativo è accettabile come variante trascurata (si comporta come se non gliene frega niente). L’attrazione verso il condizionale nel suo esempio è dovuta al fatto che la comparativa, pur essendo un’ipotesi (per cui richiede il congiuntivo), esprime il risultato di una condizione (idea che si esprime con il condizionale o con l’indicativo). Sarebbero / fossero in grado, infatti, è, dal punto di vista logico, il risultato o della condizione espressa dalla relativa che poi arrivassero (interpretata come ‘se poi arrivassero’), o, se costruiamo la relativa con il condizionale, di una condizione implicita (per esempio come se quelli che poi arriverebbero, arrivando sarebbero in grado di farci migliorare).
Dal punto di vista grammaticale, in conclusione, la variante al condizionale è scorretta (anche se può essere difesa con ragioni logiche). Sebbene sia il congiuntivo il modo corretto, però, suggerisco di sostituire il tempo imperfetto con il presente del verbo modale poterecome se quelli che poi arrivassero / arriverebbero / arriveranno possano essere in grado… In questo modo si mantiene la sfumatura potenziale dell’imperfetto ma si guadagna una più marcata proiezione nel futuro che recupera in parte, in modo grammaticalmente ineccepibile, l’idea della conseguenza.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’uso dei due punti e anche dell’iniziale maiuscola di alcune parole nel seguente testo vanno bene.
“Come deliberato dal Collegio Docenti (Collegio docenti) in data 12 settembre 2020, la macrounità interdisciplinare “Diritti e Costituzione” sarà sviluppata dai docenti del Consiglio di Classe (Consiglio di classe) tenendo conto dei seguenti argomenti:
• Lettere (lettere): Orientamento formativo
• Inglese (inglese): Diritti umani e minoranze
• Scienze (scienze): Dipendenze
• Tecnologia (tecnologia): Infrastrutture e innovazione”.

 

RISPOSTA:

L’uso delle maiuscole è scarsamente codificato e, di là da alcune funzioni cristallizzate, molto variabile a seconda del gusto. In generale può essere sensato seguire il principio che le istituzioni e le organizzazioni assimilabili funzionalmente a istituzioni vanno maiuscole, mentre i ruoli no; quindi Consiglio ma consigliereComune ma sindacoPresidenza ma presidenteParlamento ma onorevole ecc. Secondo questo principio si dovrebbe scrivere Collegio docenti, ma non si può dire che Collegio Docenti sia sbagliato. Sempre secondo lo stesso principio Consiglio di classe è meglio di Consiglio di Classe, perché la classe non è assimilabile a un’istituzione, ma è piuttosto un insieme di persone.
Il titolo della macrounità, Diritti e Costituzione, può andar bene, proprio perché è un titolo. La maiuscola di Costituzione si giustifica perché il termine rappresenta il titolo della costituzione italiana (anche se si può scrivere anche minuscolo). Non è, invece, necessario scrivere con la maiuscola tutti i nomi dei titoli, e infatti i titoli degli argomenti conclusivi vanno bene così come sono.
Il nome delle materie può andare maiuscolo, perché in questo modo si distingue, ad esempio, la materia scolastica Tecnologia dalla tecnologia in senso lato.
L’uso dei due punti è corretto. Può essere giudicato poco elegante l’inserimento di un elenco introdotto dai due punti all’interno di un elenco introdotto dai due punti (seguenti argomenti: • Lettere: Orientamento formativo…); in questo caso, però, non vedo alternative a questa soluzione, che comunque, lo ripeto, è corretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Prima delle virgolette per citare un nome va messo de? Non si può mettere il di? “Le vicende de “La coscienza di Zeno” o “le vicende di…”? 

 

RISPOSTA:

Il problema nasce quando un titolo, oppure il nome di una città, che iniziano con un articolo sono preceduti da una preposizione che in italiano subisce la fusione con l’articolo (diadainsu).
Non esiste una regola codificata su questo aspetto dell’ortografia, ma alcuni ritengono sia necessario mantenere la preposizione separata dal titolo o il nome, perché la fusione dell’articolo con la preposizione farebbe perdere l’integrità del titolo o del nome. Propongono allora di lasciare la preposizione staccata dall’articolo: le vicende di La coscienza di Zenoun documentario su Il Cairo ecc. Questa soluzione ha il problema che nell’italiano moderno la separazione tra le preposizioni e l’articolo nei casi in cui è prevista la fusione è ingiustificata. Un problema ancora più grave per l’italiano moderno è la soluzione di modificare le preposizioni di e in creando le forme, altrimenti inesistenti, de e ne (de I Promessi sposine La Coscienza di Zeno). 
Mi pare, infine, che la soluzione più logica sia quella di costituire la preposizione articolata e usare la maiuscola per il nome successivo all’articolo; quindi, nel suo caso, le vicende della Coscienza di Zeno, o, per fare altri esempi, Manzoni lavorò ai Promessi sposi per più di venti anniho visto un documentario sul Cairo ecc. Le virgolette non rappresentano una difficoltà: le vicende della “Coscienza di Zeno” ecc.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Si dice: “Ti chiamano quando li fa comodo” o “quando gli fa comodo”?
 

RISPOSTA:

Il pronome li, corrispondente alla terza persona plurale, può essere usato soltanto nella funzione di complemento oggetto (ad esempio: li chiamo = ‘chiamo loro’). Non può, invece, svolgere la funzione di complemento di termine. Per questa funzione si può usare loro (ti chiamano quando fa loro comodo), oppure a loro (ti chiamano quando fa comodo a loro) o anche gli (ti chiamano quando gli fa comodo), che vale anche per la terza persona singolare maschile. Rispetto a loro e a lorogli è più informale, ma è oggi pienamente accettato anche in contesti di media formalità. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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QUESITO:

Mi sono imbattuto in un problema particolare: 1. le due frasi la decomposizione dà esito alla vita e la decomposizione dà come esito la vita sono entrambe sensate anche se con qualche differenza; 2. le due frasi il calciatore dà esito alla partita e il calciatore dà come esito la partita non sono ugualmente sensate, ma la seconda delle due appare insensata. Mi chiedevo se il groviglio si possa spiegare così: 
– nel caso “x dà esito a y” x è causa efficiente di y; 
– nel caso “x dà come esito y” x è causa materiale di y. 
Se il ragionamento è corretto allora si spiega perché nei primi esempi funzionano entrambe le frasi e perché nei secondi no. Questa spiegazione è corretta?
Mi sorge un ulteriore dubbio, stavolta incontrato in università: dal punto di vista formale e grammaticale è più corretto affermare che le labiovelari indoeuropee danno esito alle velari o che le labiovelari indoeuropee danno come esito le velari? O ancora entrambe le frasi sono ugualmente accettabili?

 

RISPOSTA:

La sua spiegazione della differenza tra dare esito a e dare come esito è troppo sofisticata rispetto alla questione reale.
L’espressione dare esito a significa letteralmente ‘dare sbocco a’, quindi la decomposizione dà esito alla vita = ‘la decomposizione dà sbocco alla vita’, ovvero dà alla vita la possibilità di fuoriuscire, di venire alla luce, di nascere. Il significato ‘dare sbocco a’ passa per facile metafora a ‘produrre, causare, comportare, avere come conseguenza, come effetto’.
L’espressione dare come esito è del tutto simile nel significato a dare esito a, anche se arriva allo stesso significato facendo un percorso diverso; il complemento oggetto di dare è, qui, non esito, ma il sintagma a cui il complemento predicativo come esito si riferisce. Rimanendo al suo esempio abbiamo, dunque, la decomposizione che dà la vita (non che dà esito). La vita è poi qualificata con come esito ‘come conclusione, come effetto’, che definisce meglio che cosa rappresenta la vita per la decomposizione (ne rappresenta l’esito, appunto).
Vista la spiegazione delle due espressioni diviene chiaro che esse sono semanticamente equivalenti, e che, quindi, la frase il calciatore dà esito alla partita è insensata quanto il calciatore dà come esito la partita.
Allo stesso modo, sono sensate ed equivalenti le due frasi finali: danno esito alle velari = ‘producono le velari’; danno come esito le velari = ‘danno come effetto le velari’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se il verbo esitare possa essere utilizzato transitivamente col significato di ‘dare esito aì  nella terminologia della linguistica e delle materie affini. Esempio: “Le palatali indoeuropee esitano velari o palatali”, col significato di ‘danno esito a velari o palatali’.

 

RISPOSTA:

Il verbo esitare 2 (derivato da esito), diverso da esitare 1 (trasfornazione dal latino haesitare), significa ‘smerciare, vendere al dettaglio’, ‘recapitare’ o ‘risolversi in un certo modo’. Nel primo caso si usa soltano in riferimento a merci, nel secondo in riferimento a posta o simili, ed è un burocratismo, nel terzo riferito a malattie in espressioni come esitare in guarigioneesitare in demenzaesitare in una forma di nanismo (tutti esempi autentici tratti da Internet). Si noti che in quest’ultimo caso il verbo non è transitivo, ma richiede sempre la preposizione in.
Escludo, quindi, che un’espressione come esitare velari o simili sia oggi accettabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si dice “Voglio che tu la smetta” o “Voglio che tu la smetti”?
Ad esempio: “Marco, voglio che la smetti” è corretto?

 

RISPOSTA:

Si dice in entrambi i modi ed entrambi sono corretti; la variante con il congiuntivo, però, è più formale di quella con l’indicativo.
Per approfondimenti sull’alternanza tra indicativo e congiuntivo nelle proposizioni completive (come quella retta da voglio nel suo esempio) può vedere le molte risposte in tema nell’archivio di DICO usando la parola chiave congiuntivo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase il muro è dipinto c’è un predicato nominale; nella frase il muro è dipinto dal pittore c’è un predicato verbale. La differenza sta nel fatto che viene specificato da chi è compiuta l’azione?

 

RISPOSTA:

La presenza di un agente è chiaramente un segno che il predicato sia verbale, ovvero che il verbo esprima un’azione. Il muro è dipinto dal pittore, infatti, equivale a il pittore dipinge il muro.
Se l’agente non è esplicitato, è probabile che il predicato sia nominale, quindi indichi uno stato o una qualità, ma c’è ancora la possibilità che l’agente sia sottinteso e, pertanto, il predicato sia verbale. Nel nostro caso, per esempio, potremmo immaginare una frase del genere: “Oggi il muro è dipinto una seconda volta, dopo l’atto vandalico di ieri”, nella quale è dipinto è un predicato verbale anche se non c’è un agente espresso.
Per evitare questa ambiguità, i parlanti preferiscono costruire il passivo con l’ausiliare venire se non c’è l’agente espresso: il muro viene dipinto una seconda volta. Per questo motivo possiamo dire che è dipinto senza l’agente esplicitato è probabilmente un predicato nominale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

In analisi grammaticale la parola museo è un nome collettivo o individuale?

 

RISPOSTA:

Il nome museo è collettivo se è usato nel senso di ‘raccolta di opere d’arte’; se, invece, è usato (come è comunemente) nel senso di ‘luogo nel quale è conservata una raccolta di opere d’arte’ è individuale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

Navigando su internet mi sono imbattuto quasi per caso nel concetto di “vocali sonore aspirate” (alla voce wikipedia di “sonorizzazione aspirata”). Potrei chiederle gentilmente se si tratta di un errore (si sa il grado di attendibilità di wikipedia…) oppure se è qualcosa che riguarda lingue particolari. 

Alla voce predetta ci si limita a dire che “le vocali sonore aspirate sono scritte. Secondo me si intendeva dire vocali sonore mute (in francese esistono).

Vorrei inoltre chiederle alcune conferme in tema di parole con le doppie: è esatto dire che le doppie sono allungamenti delle consonanti o delle vocali di durata variabile (non quindi necessariamente con raddoppio della sonorità), anche a seconda del grado di intensità che si vuole dare di volta in volta alla parola utilizzata? La finalità delle doppie qual è, quella di creare nuove combinazione per nuove parole? 

Infine, esistono dati (anche per approssimazione ovviamente) circa il numero di parole  italiano con le doppie?

 

RISPOSTA:

La voce di Wikipedia sembra, in questo caso, un mezzo disastro (altre voci sono ben fatte, ma questa no), perché usa il termine tecnico sonorizzazione in due accezioni differenti: da un lato, nel senso noto in fonologia (è sonoro ciò che mette in vibrazione le corde vocali, sordo ciò che non le fa vibrare); dall’altro, come termine (impreciso) della versione vulgata della fonetica articolatoria che indica più o meno ‘ciò che è udibile’, cioè udibile anche se sussurrato e con notevole passaggio di aria. Lo stesso dicasi per aspirato, usato in modo contraddittorio. È chiaro che tra i due significati ci sia un ampio margine di sovrapposizione: ciò che è udibile deve, in certo qual modo, produrre vibrazione delle corde. Ma non necessariamente, in realtà: anche un soffio è udibile, ma non per questo è sonoro (cioè non provoca vibrazione delle corde vocali): da qui l’uso incoerente o oscillante dei termini sonoro e aspirato in questo articolo di Wikipedia.

Il disastro diventa massimo quando l’articolo invoca un’inconsistente “vocale sonora aspirata”. Se è vocale, è per forza sonora (in fonetica, ma non in ortografia, come dirò tra un secondo) e se è aspirata non è solo vocale, ma ha almeno una testa o una coda consonantica, per es. un fonema glottidale (come nelle numerose lingue che contengono consonanti aspirate) o di altra natura. Come se pronunciassi “ha” con una forte aspirazione iniziale: è chiaro che ad essere aspirata non sarebbe la vocale, ma la consonante che la precede (non certo in italiano, dove la h è sempre muta, cioè si scrive ma non si pronuncia).

Nulla di tutto questo ha a che vedere con le mute, che è un concetto che – per es. nel francese la e non accentata, o nella h italiana – ha a che vedere con la grafia e con la pronuncia: cioè alcuni segni di scrivono (per retaggio grafico del passato) ma NON si pronunciano (o si neutralizzano nella pronuncia come schwa, nel caso della e in certe parole e in certe pronunce del francese odierno e del passato, ma con modalità differenti nelle diverse epoche).

Insomma: un conto è l’aspirazione (che non ha a che vedere con le vocali ma con le consonanti), un conto l’essere muto (problema grafico e fonetico insieme), un conto la sonorità (che riguarda la vibrazione, rispetto alla non vibrazione, delle corde vocali), e un altro conto ancora è la pronuncia sussurrata o sfiatata o altro, che riguarda unicamente una modalità di articolazione pertinente alla fonetica e non (salvo eccezioni di certe lingue) alla fonologia. Per un esempio di pronuncia sibilata (o aspirata, come erroneamente definita nell’articolo) immagini quando lei sussurra una frase per non essere sentito da tutti.

Inoltre, quando Wikipedia scrive “le vocali ecc. sono scritte ecc.” intende dire: ‘si scrivono in alfabetico fonetico come [a] [e] ecc.’, ma, ancora una volta, sbaglia, perché se sono veramente aspirate si scrivono (sempre in alfabeto fonetico) diversamente e presuppongono prima (o più raramente dopo) della vocale stessa un elemento consonantico (se trattasi di un fonema, nelle lingue che posseggono fonemi aspirati: quali le glottidali o anche le fricative), oppure un fono (se trattasi di mera articolazione priva di ricaduta semantica) comunque di natura aspirata (glottidale ecc.).

Per quanto riguarda le doppie: consonante doppia = consonante lunga (o meglio intensa) e conseguentemente vocale breve della medesima sillaba; prendiamo papa / pappa: in pappa non è soltanto la p a essere più lunga, ma anche la prima a a essere più breve. Viceversa per le cosiddette scempie (che in fonetica si definiscono tenui).

Non tiriamo in ballo la sonorità, che riguarda la vibrazione delle corde vocali: esistono doppie sia nelle sorde (tt) sia nelle sonore (dd). Forse lei intende dire  ‘allungamento del suono’: questo è vero talora. Ma nelle sorde si ha allungamento di un non suono: provi a pronunciare tatto e daddo: scoprirà che in tatto tra la a e la o le sue corde vocali non vibrano (basta toccarsi il pomo d’Adamo con un dito) e dunque c’è una pausa (più lunga che in tato), mentre in daddo vibrano (meno a lungo che in dado) e infatti sentirà un pizzicorino sul dito che sta toccando il pomo d’Adamo. Non confonda sonoro con suono (come faceva Wikipedia!).

Sì, infine, la finalità delle doppie è creare nuove parole: pala / palla ecc.

Sicuramente esistono strumenti elettronici in grado di rilevare la statistica delle parole con doppie in italiano: non ho un riferimento preciso, ma provi a cercare online. Ormai la statistica applicata alla linguistica è una disciplina assai consolidata, da decenni. Basterebbe anche, con un dizionario elettronico che consenta una ricerca nel solo campo lemma, chiedere quanti lemmi contengono bb, quanti ccdd ecc. per tutte le consonanti doppie. Facendo la somma, si otterrebbe il numero dei lemmi con doppie in italiano, presumibilmente assai elevato, almeno un quarto del totale dei lemmi in italiano, che, secondo i dizionari più ricchi, sono almeno 250 mila, sebbene i più frequenti non siano più di diecimila.

Naturalmente possono esistere anche parole con doppie vocali, o vocali lunghe, ma occorre distinguere tra quelle che si pronunciano lunghe pur non essendo scritte due volte, quelle che invece sono scritte due volte (come certe interiezioni: aah), quelle che sono scritte due volte per motivi lessicali, morfologici, retaggi etimologici ecc. (zoostudiimaree ecc.).

Né nelle consonanti né nelle vocali, infine, il piano grafico va confuso con quello fonetico, né quello fonetico (tutti i suoni) con quello fonologico (solo i suoni pertinenti, cioè quelli che, se tolti o aggiunti, determinano un nuovo significato: papa / pappa). Non tutto ciò che si scrive raddoppiato si pronuncia due volte e inoltre, in modo pressoché sistematico (tranne che nei casi delle due vocali morfologiche: marea / maree e simili), un grafema doppio non corrisponde a un suono doppio, ma, semmai (laddove la lingua lo preveda) a un fonema più lungo (rispetto a quello scritto come non doppio, o scempio). E viceversa: taluni segni si scrivono come scempi ma si pronunciano come lunghi: da Firenze (inclusa) in giù grazie si pronuncia indubitabilmente come grazzie (o grazzzzzie!), sebbene la scrizione con due o più zeta sia un gravissimo errore di ortografia.

Insomma la fonetica, l’etimologia, i rapporti tra grafia e pronuncia di vocali e consonanti semplici o doppie ci porta lontanissimo e non possiamo esaurirlo qui. Inoltre, bisognerebbe tener conto delle differenze tra le varie lingue: in talune, come l’italiano, la lunghezza consonantica è fonologicamente più pertinente di quella vocalica, in altre, come l’inglese, accade l’opposto, in francese le doppie consonanti esistono solo graficamente ma non hanno alcuna pertinenza fonologica ecc. ecc.

 

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulle frasi di seguito riportate. 

il verbo scritto in stampato maiuscolo  nelle seguenti frasi è coniugato correttamente ?

1) Credo che tu non (capire)  ABBIA CAPITO ciò che volevo dirti. 

2) Non capisco perché il papà non mi (credere) ABBIA CREDUTO

I verbi tra parentesi delle  seguenti frasi  coniugati al futuro (semplice e anteriore) sono corrette?

1) Lucia (tornare) TORNERA’ dalla crociera, quando Monica (partire) SARA’ PARTITA da poche ore.

2) Appena (cominciare) AVRA’ COMINCIATO  a nevicare, le strade (bloccarsi) SI BLOCCHERANNO.   

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono corrette, con i verbi tutti perfettamente coniugati.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

 

Vorrei chiedere il significato di un modismo: smezziamoci una pizza. Significa che siamo amici?
 

RISPOSTA:

L’espressione “smezzarsi una pizza”, tipicamente romana, è usata abitualmente nel senso letterale, e non idiomatico, di ‘prendere una pizza in due, mangiandone metà per uno’.
Nulla vieta di usare l’espressione in accezione metaforica, e dunque idiomatica, con il significato di ‘siamo amici e quindi condividiamo tutto’.
Quella che invece si usa – sempre perlopiù a Roma e nell’Italia centrale ma per influenza dei media anche nel resto d’Italia – come frase idiomatica è “smezzarsi la torta”, nel senso di ‘fare a metà degli utili di qualcosa’, usata perlopiù in accezione negativa per proventi loschi: “Destra e Sinistra si sono smezzati la torta: se ora il governo cominciasse a far piazza pulita di questo sistema, dovrebbe dare addosso a tantissimi “amici e raccomandati” vicini a QUESTO governo!” (esempio del 2008 colto in Google).

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Se mi rivolgo ad un uomo con la forma di cortesia, dirò: ” La terrò informato” oppure ” la terrò informata”?

 

RISPOSTA:

Lo stile più formale, e anche il rispetto più rigoroso della regola dell’accordo grammaticale, imporrebbero il femminile, dal momento che Lei, anche come allocutivo di cortesia, è femminile e non maschile.
Per taluni, tuttavia, l’affiancamento di un pronome rivolto a un uomo e parole (participi passati o aggettivi) con desinenze femminili pare assai stridente, per cui optano per (o inconsapevolmente adottano) l’accordo al maschile.
A questi ultimi “risentiti”, tuttavia, ricordiamo che una cosa è il genere in natura (o anche nella personale immagine di sé), un’altra cosa è il genere grammaticale. Il pronome Lei rimane femminile (nel genere grammaticale) indipendentemente dal genere (fisico o psicologico) della persona cui si riferisce, 

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Spesso sento dire:  “Ho condiviso il documento sul tuo Drive”.  Mi chiedo quale sia la forma  corretta tra “condiviso sul Drive, con Drive, in Drive”.

 

RISPOSTA:

La forma meno comune è quella con concolcon il. Le altre con in/nel, su/sul vanno tutte ugualmente bene. Come tutti gli anglicismi correnti nel linguaggio telematico, non necessariamente compresi da chi non fa parte della comunità degli “smanettoni”, è bene attenersi all’uso più frequente. L’ideale sarebbe trovare un sostituto per drive, che però al momento non sembra essersi stabilizzato in italiano (anche perché è quasi un nome di marchio: Google drive). Anche condividere è un calco semantico dall’inglese to share, ormai talmente diffuso che cambiarlo sembrerebbe davvero impossibile. Proprio in quanto calco semantico, è bene non creare fraintendimenti con l’altro significato italiano di condividere, cioè ‘avere le stesse idee ecc.’. Quindi è da evitare “condividere con il drive”, o simili, che sembrerebbe umanizzare troppo il drive!
Nella scelta tra le preposizioni su e in, entrambe possibili, ormai da vent’anni la telematica opta per su, di solito, perché rende ancora più “fisici” i luoghi virtuali dell’archiviazione e dello scambio dei dati. Stranamente, però, da una ricerca in Google sui due costrutti, prevalgono in questo caso decisamente quelli con in/nel, forse perché in questo caso l’idea del contenitore, piuttosto che del supporto digitale, fa scattare l’idea dell’inserimento espressa meglio da in. Come ripeto, però, sia in/nel sia su/sul vanno benissimo entrambe.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Non mi resta tanto da vivere”, “da vivere” è una proposizione consecutiva?

 

RISPOSTA:

No. Sono possibili almeno due risposte: completiva e finale.
Attenzione a non sovrapporre troppo i piani sintattico e semantico, nell’analisi delle subordinate, e a non estendere l’uso dei connettivi da un contesto all’altro.
Sarebbe consecutiva se fosse: Ha fatto tanto da vivere a lungo (tanto… da; conseguenza di “ha fatto tanto”).
Sarebbe eccettuativa se fosse: Non mi resta altro che vivere.
Invece, nell’esempio da lei proposto, “tanto da vivere” funge da complemento oggetto della reggente “non mi resta”; per questo la risposta “completiva” a me pare la più convincente.
Si potrebbe eccepire che tanto sia complemento oggetto mentre da vivere stia per ‘affinché io viva, continui a vivere’ e dunque sia una finale. Ma a me pare l’ipotesi meno convincente, perché perde di vista il fatto che da vivere serve a saturare comunque il significato della reggente, o almeno di una sua parte (tanto), e dunque ha valore argomentale, cioè di completiva

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.

 

RISPOSTA:

La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimomeno acerrimoil più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con piùpiù/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Avrei voluto che mia figlia si sposasse prima che mio padre ci lasciasse”. 
Modificando i tempi e incastrandoli nelle varie soluzioni disponibili, si otterrebbero periodi ugualmente corretti?
1. Avrei voluto che mia figlia si fosse sposata prima che mio padre ci lasciasse.
2. Avrei voluto che mia figlia si sposasse prima che mio padre ci avesse lasciato.
3. Avrei voluto che mia figlia si fosse sposata prima che mio padre ci avesse lasciato.

Sostituendo prima che con quando / finché e modificando parzialmente la costruzione, quali tempi e modi consigliereste?
4. Avrei voluto che mia figlia si sposasse quando mio padre fosse / fosse stato / era ancora in vita.
5. Avrei voluto che mia figlia si sposasse finché mio padre fosse / fosse stato in vita.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti del primo gruppo sono corrette, ma il cambiamento dei tempi verbali produce delle differenze di significato, alcune sfumate, alcune evidenti.
In base alla consecutio temporum, la frase iniziale rappresenta l’evento dello sposarsi come contemporaneo o successivo nel passato rispetto al volere; sono la costruzione sintattica e la logica a chiarire che lo sposarsi è successivo al volere. Il lasciare, a sua volta, è in relazione allo sposarsi, rispetto al quale è contemporaneo o successivo nel passato. Anche in questo caso, la logica e la sintassi chiariscono che il lasciare è successivo allo sposarsi
La variante 1 specifica, con il trapassato, che lo sposarsi è precedente al volere. L’imperfetto lasciasse, invece, mantiene il rapporto di posteriorità rispetto allo sposarsi.
La variante 2 è controintuitiva, perché rappresenta il lasciare come precedente allo sposarsi, quando è ovvio il contrario, cioè che l’emittente immagini lo sposarsi come precedente il lasciare
Questa particolarità è tipica della locuzione congiuntiva prima che, ed è stata descritta nella FAQ  “Prima che” e “prima di” dell’archivio di DICO.
Lo stesso vale per la variante 3, nella quale il trapassato avesse sposato specifica l’anteriorità rispetto ad avrei voluto.
Nella frase 4 l’indicativo è senz’altro corretto e mantiene il significato temporale di quando. Il congiuntivo trasforma la proposizione temporale in una condizionale, per cui quando diviene equivalente a se. Di conseguenza le varianti con il congiuntivo sono svincolate dalla temporalità è possono riferirsi a oggi come al passato e persino al futuro. I tempi verbali esprimono, infatti, in questo caso, il grado di possibilità degli eventi (e solo in subordine le relazioni temporali reciproche), non il tempo assoluto degli eventi.
Per ragioni logiche, la variante quando / se mio padre fosse ancora in vita è possibile soltanto se la si colloca nel presente (quando / se mio padre oggi fosse ancora in vita): sarebbe molto strano, infatti, rappresentare come possibile la presenza in vita di una persona nel passato contemporaneamente a un altro evento.
La variante quando mio padre fosse stato in vita è corretta nel passato e nel presente e rappresenta l’essere ancora in vita come irreale, quindi suggerisce che il padre non sia più in vita, oppure non era più in vita, nel momento dello sposarsi. La frase è accettabile anche se la collochiamo nel futuro, con la precisazione che il padre deve essere non più in vita già nel presente (non si può, infatti, rappresentare la presenza in vita di una persona nel futuro come irreale, a meno che la persona non sia già morta oggi): tra un anno avrei voluto che mia figlia si sposasse quando mio padre oggi fosse stato ancora in vita.
Per quanto riguarda la frase 5, la congiunzione finché ammette il congiuntivo come variante più formale dell’indicativo, rimanendo comunque una congiunzione temporale. Dal punto di vista semantico, quindi, fosse = era e fosse stato = era stato. Sia l’imperfetto sia il trapassato sono possibili. L’imperfetto rappresenta l’essere in vita come contemporaneo nel passato allo sposarsi; il trapassato lo rappresenta come precedente, quindi suggerisce che non lo fosse più al momento dello sposarsi.
Si noti che la combinazione di finché con il trapassato congiuntivo o indicativo implica che lo sposarsi sia effettivamente avvenuto; nessuna delle altre varianti della frase chiarisce se lo sposarsi sia avvenuto o no nel momento dell’enunciazione, cioè nel momento in cui le frasi sono state prodotte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Si dice i migliori vini d’Italia o dell’Italia?
I jeans robusti sono quelli larghi, non stretti?

 

RISPOSTA:

L’espressione comune è i migliori vini d’Italia. Si userebbe dell’Italia soltanto se l’Italia fosse il secondo termine di un paragone: la Francia ha più vini dell’Italia.
L’aggettivo robusto significa anche ‘adatto a persone robuste’, quindi ‘largo’. Non può significare mai ‘stretto’. Con il significato di ‘largo’, però, non si usa riferito ai capi di abbigliamento, ma soltanto alle taglie; si dice jeans di taglia robusta, non jeans robusti. Ovviamente si può dire jeans robusti, ma solo se si intende ‘jeans forti, resistenti, che non si rompono facilmente’.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Se devo chiedere ad una persona se lei, la citata persona, è in possesso di una determinata cosa, un oggetto ad esempio, è corretto dire: “Le chiedo di comunicare il possesso, da parte sua, della documentazione ecc.” oppure basta dire: “Le chiedo di comunicare il possesso della documentazione ecc.”
Si può omettere da parte sua?
Tale omissione potrebbe non chiarire a quale soggetto debba riferirsi il possesso di quella cosa?

 

RISPOSTA:

L’espressione da parte sua può essere omessa senza che si crei ambiguità su questo aspetto della frase: è logico supporre, infatti, che si chieda alla persona di comunicare informazioni che la riguardano, non che riguardano altri. Se fosse quest’ultimo il caso, piuttosto, sarebbe necessario specificare chi sarebbe l’eventuale possessore.
Il problema maggiore della frase, comunque, non è quello da lei prospettato, bensì la soppressione della sfumatura potenziale causata dalla nominalizzazione. Il possesso, infatti, è soltanto possibile, ma questo non si evince dalla frase, che sembra riferirsi al possesso come a un fatto.
In altre parole, comunicare il possesso potrebbe significare tanto comunicare di essere in possesso (fatto), quanto comunicare se lei sia in possesso (possibilità), ed è proprio il primo significato, quello fattuale, a essere preminente. Questo problema si può superare o optando per la forma verbale della frase: le chiedo di comunicare se lei sia in possesso, oppure inserendo un avverbio che esprima la potenzialità: le chiedo di comunicare l’eventuale possesso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qual è il connettivo giusto? 
“Non mi trovi piu bella che / di prima?”
Come posso scegliere la forma giusta davanti agli avverbi?

 

RISPOSTA:

Quando si mettono a confronto due avverbi, il secondo è introdotto sempre da chemeglio prima che dopomeglio dopo che primameglio bene che velocemente
Anche in questo caso si userebbe che se l’avverbio che rappresenta il primo termine di paragone fosse esplicitato: più bella ora che prima. Senza l’avverbio ora si può ancora usare che (più bella che prima), ma la frase suona strana, perché sembra che si stia facendo un confronto, impossibile, tra l’aggettivo bella e l’avverbio prima. La forma più bella di prima permette di evitare questa ambiguità (la preposizione di, infatti, indica una relazione più ampia rispetto a che). Più bella di prima è, quindi, preferibile a più bella che prima
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Posso utilizzare la seguente coniugazione dei verbi: “Se gli inquirenti ravviseranno responsabilità da
attribuire alla dirigenza…”?

 

RISPOSTA:

La costruzione è corretta: la protasi del periodo ipotetico (la proposizione che inizia con se) può contenere l’indicativo futuro per esprimere una condizione futura che l’emittente ritiene fattuale. Diversamente, la condizione sarebbe rappresentata come possibile (non fattuale) con il congiuntivo imperfetto: se gli inquirenti ravvisassero responsabilità…
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Quali sono le soluzioni corrette?
1. Vostra figlia è molto più comprensiva e buona di quello che credete / crediate.
2. Marco Bormolini Doyle, nome completo del giovanotto, è / era un veterinario trentaduenne di Livigno (Inizio a descrivere un personaggio della storia; che tempo devo usare?).

 

RISPOSTA:

Le proposizioni comparative (come di quello che credete / crediate) possono avere il congiuntivo, l’indicativo e anche il condizionale (di quello che credereste). La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo, in queste proposizioni, dipende dal grado di formalità che si vuole attribuire alla frase: il congiuntivo è più formale, l’indicativo meno formale e più comune. Sull’alternanza diafasica (cioè relativa alla formalità) tra indicativo e congiuntivo può trovare decine di altre risposte nell’archivio di DICO usando le parole chiave congiuntivo o diafasia.
La scelta tra è e era nella seconda frase dipende dalla sussistenza della qualità del soggetto nell’oggi del narratore (a prescindere dalla sua coincidenza con l’oggi dell’autore). Se la qualità sussiste si userà il presente; se, invece, è legata al passato, si userà l’imperfetto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché il superlativo simpaticissimo si forma cosi? Se largo  >  larghissimo, perché non si forma simpatichissimo?

 

RISPOSTA:

Le consonanti velari (la c di casa e la g di gatto) a volte vengono a trovarsi davanti a o a i a causa della flessione o della derivazione. Quando questo succede ci sono due possibilità: che si mantenga il suono, modificando la grafia (inserendo una h tra la consonante e la vocale), o che si mantenga la grafia, modificando il suono (le consonanti velari diventano palatali). Un esempio del primo tipo è il plurale dei nomi e degli aggettivi che al singolare finiscono in -co-ca-go-gateca techebongo > bonghilargo > larghi (e quindi anche largo > larghissimo). Un esempio del secondo tipo è l’alternanza vinco / vinci nel verbo vincere (ma anche simpatico > simpaticissimo).
Il criterio secondo cui si mantiene il suono o la grafia non è preciso; quasi sempre, se la parola di base è piana (cioè ha l’accento sulla penultima sillaba) nella flessione o nella derivazione si mantiene il suono (larghi e larghissimotecheantichi), se, invece, la parola è sdrucciola (cioè ha l’accento sulla terzultima sillaba) si mantiene la grafia (simpatico > simpatici e simpaticissmo). Un’eccezione a questa regola è amico > amici (non amichi). Tra i verbi, se l’infinito è piano si mantiene il suono (legare > io legotu leghi), se l’infinito è sdrucciolo si mantiene la grafia (oltre a vincere ricordiamo spingere io spingotu spingi). 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo frasi sulle quali vorrei dei suggerimenti circa la punteggiatura. Tra parentesi ho inserito le alternative per sottoporle al vostro giudizio.
1. Non vorrei essere invadente: (;) spero che il tuo problema si sia risolto.
2. Ho saputo della tua malattia: (;) (.) come stai adesso?
3. Il ricordo di lei, bellissimo; le passeggiate di primavera; il sapore dei gelati, gustosi; (,) e l’amore dei nonni.
4. Scusa se ti disturbo di nuovo; (:) vorrei chiederti un favore.
5. Ti ho lasciato un messaggio in casa. Non so se lo leggerai. Comunque: (,) per cena, scongela il pane e riscalda la minestra.
6. Tutto avveniva secondo la scaletta preorganizzata: (,) (;) non serviva a niente affrettarsi.

 

RISPOSTA:

La scelta della punteggiatura raramente è esclusiva; quasi sempre ci sono almeno due possibilità di punteggiare i testi, che producono sfumature semantiche ora sottili, ora evidenti. Tra le opzioni che lei propone le uniche discutibili sono le seguenti:
3. … il sapore dei gelati, gustosi; e l’amore dei nonni. Sebbene il punto e virgola sia correlato con gli altri precedenti, sembra superfluo prima della congiunzione copulativa, mentre la virgola è richiesta per chiudere l’inciso , gustosi,. Un’alternativa che salverebbe tutte le esigenze sarebbe … gelati, gustosi; l’amore dei nonni.
6. … scaletta preorganizzata, non serviva… La virgola non è adatta a separare due unità totalmente autonome dal punto di vista sintattico, tanto da poter essere identificate come due enunciati diversi (potremmo, infatti, separarle con il punto fermo).
Per il resto, i segni sono pienamente legittimi, ognuno con la sua specifica funzione: i due punti introducono una spiegazione (anche in forma di elenco) o la conseguenza di quanto detto prima; il punto e virgola separa due unità informative logicamente e sintatticamente autonome, o due enunciati; il punto fermo separa due enunciati o due unità testuali più ampie.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei cercare di capire bene quando si deve usare il congiuntivo o l’indicativo, in particolare in situazioni simili alla frase che segue: “Solo dopo aver avuto queste informazioni è facile comprendere come solo i gelatai qualificati e formati, che conoscono bene i segreti del mestiere, possano far cambiare i comportamenti dei giovani apprendisti…”.
In questo caso è corretto usare il congiuntivo possano far cambiare oppure è corretto usare l’indicativo possono?

 

RISPOSTA:

Si possono usare sia il congiuntivo sia l’indicativo. In generale il congiuntivo è più formale dell’indicativo e dà alla frase maggiore eleganza; in particolare, le proposizioni introdotte da come preferiscono decisamente il congiuntivo.
Può trovare moltissimi esempi e informazioni sull’uso del congiuntivo nell’archivio di DICO, inserendo la parola chiave congiuntivo nel motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Una ragazza di fronte a due ragazzi e con le mani dietro la schiena con in mano qualcosa, lei si gira di spalle ed in mano ha un orologio. Uno dei ragazzi esclama all’altro: – Pensavi avrebbe avuto un telefono al posto dell’orologio? 
In questo caso sarebbe stato meglio avesse avuto o no?

 

RISPOSTA:

La costruzione con il condizionale passato va bene; quella con il congiuntivo trapassato no. Il condizionale passato esprime il futuro nel passato; la sua frase con il condizionale passato, pertanto, equivale a pensavi che in seguito, quando si sarebbe girata, avrebbe avuto un telefono? 
Il congiuntivo trapassato, invece, esprime l’anteriorità rispetto al passato; la sua frase con il congiuntivo trapassato, pertanto, equivale a pensavi che prima di adesso lei avesse avuto un telefono? Chiaramente, non è questo che il parlante intende. 
Un’altra possibilità è pensavi avesse un telefono…, nella quale il congiuntivo imperfetto esprime la contemporaneità nel passato, quindi si riferisce al fatto che il telefono era già nella mano della ragazza mentre l’altro ragazzo ci stava pensando.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Se io dico “Arrendersi al lavoro o arrendersi alla felicità” si intende una resa positiva o un abbandono? L’arrendersi viene visto come una sconfitta o come una accettazione? Arrendersi al lavoro significa accettarlo o rifiutarlo? La frase potrebbe avere significato ambiguo?

 

RISPOSTA:

Il significato del verbo arrendersi implica l’accettazione di una condizione, ma in seguito a una forzatura della volontà del soggetto; non ci si arrende se non spinti da un’esigenza o da una pressione esterna, quindi senza piena convinzione.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coerenza
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QUESITO:

Se Dio è un nome proprio, non è sbagliato se io lo uso senza riferirmi al dio del paradiso e dell’inferno, ma riferendomi a un dio qualunque? Se dico: “Non so se Dio esiste” non mi sto riferendo a UN DIO in particolare. O no?

 

RISPOSTA:

Il nome dio può adattarsi a qualunque divinità. Senza articolo e con lettera maiuscola è usato come nome proprio, riferito al dio di una religione monoteistica, mentre per gli dei che hanno nomi si usa come nome comune, quasi sempre in funzione di apposizione (il dio Apolloil dio Ganesh). In questi casi, quando non accompagna il nome proprio può essere sostituito da la divinità.
Di solito, con Dio senza ulteriori attributi o modificatori si intende il dio cristiano; sebbene questa identificazione non sia giustificata sul piano linguistico, ma dipenda da ragioni sociali e culturali, non si può fingere che non sia attiva. Una frase come quella da lei proposta, pertanto, sarà facilmente interpretata come ‘non so se il dio cristiano esista’, piuttosto che ‘non so se esista alcun dio’. Servirà, quindi, una ulteriore specificazione se con Dio si intende ‘qualsiasi dio’ (a meno che non si ricerchi volutamente l’ambiguità).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale affermazione è corretta grammaticalmente: “Sembra che le cose peggiorino” o “Sembra che le cose peggiorano”?

 

RISPOSTA:

In italiano la proposizione soggettiva (nel nostro caso che le cose peggiorano / peggiorino) può avere l’indicativo o il congiuntivo. La scelta tra i due modi è di natura diafasica; l’indicativo è più comune e meno formale, il congiuntivo è più ricercato e più formale. Potrà trovare molte risposte riguardanti casi simili nell’archivio di DICO; una di queste che contiene molte informazioni è la FAQ  La soggettività del congiuntivo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Un tizio mi scrive: “Ultimamente il tuo linguaggio non è certo molto dissimile da quelli che tu chiami
calunniatori sottili anzi sta assumendo una connotazione sempre più grossolana”.
E io gli rispondo: “Se il mio linguaggio non sarebbe dissimile da quello che io chiamo dei calunniatori sottili, come potrebbe assumere anche una connotazione sempre più “grossolana”?”.
Perché, ben consapevole che il condizionale (sarebbe) non si può usare nella protasi del periodo ipotetico, in questo caso non mi suona affatto stonato?
Se avessi usato siccome al posto di se (siccome il mio linguaggio non sarebbe dissimile da…) la frase sarebbe stata più corretta?

 

RISPOSTA:

Il condizionale può non essere stonato nella sua frase, ma si tratta di una scelta al limite dell’accettabilità. Sarebbe si può accettare non come sostituto di fosse (errore senza appello), ma come sostituto di è, all’interno della protasi di un periodo ipotetico del primo tipo. In questo caso, quindi, il condizionale non ha la funzione propria di modo dell’evento condizionato (cosa che confligge con la funzione semantica della protasi del periodo ipotetico), ma ha quella pragmatica di modulatore della fattualità. In altre parole, con se il mio linguaggio non sarebbe dissimile lo scrivente intende se il mio linguaggio non è – come tu sostieni – dissimile. Nella comunicazione comune il condizionale svolge spesso questa funzione, anche se non all’interno di periodi ipotetici; serve a separare il punto di vista del parlante da quello della persona che ha dichiarato qualcosa nel momento in cui il parlante riporta quella dichiarazione: “Il recovery fund risolverebbe la grave situazione economica italiana” = “(Secondo alcuni, non secondo chi parla) il recovery fund risolverà la grave situazione economica italiana”.
Nella sua frase la protasi può essere anche costruita con il congiuntivo imperfetto, ottenendo un periodo ipotetico del secondo tipo: “Se il mio linguaggio non fosse dissimile da quello che io chiamo dei calunniatori sottili, come potrebbe assumere anche una connotazione…”. Il risultato comunicativo di questa costruzione è molto simile a quello ottenuto con la protasi al condizionale (se sarebbe = ‘se – come tu sostieni – è’; se fosse = ‘nell’eventualità non confermata che fosse’) e con il congiuntivo si elimina il sospetto di errore; ci sono tutte le ragioni, quindi, per optare per questa soluzione. 
In difesa della protasi al condizionale, però, aggiungo che essa contiene una punta di ironia in più, proprio per via della svalorizzazione del punto di vista dell’interlocutore veicolata da sarebbe.
Per quanto riguarda la sostituzione di se con siccome, la proposizione che da ipotetica diviene causale funziona certamente bene con il condizionale; d’altro canto, però, questa proposizione rappresenta meno efficacemente della proposizione ipotetica il collegamento logico qui ricercato con la reggente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Le frasi “Quando puoi, chiamami, così da poterti spiegare la situazione” e “Quando puoi, chiamami, così posso / potrò, spiegarti la questione” sono equivalenti dal punto di vista del messaggio e sono tutte e due corrette?
Inoltre, la frase “Quando puoi, chiamami, così da essere informato sulla questione” può essere intesa, grosso modo, come “Quando puoi, chiamami, così potrai (affinché tu possa) essere informato sulla questione”?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono simili; ognuna, però, presenta qualche sfumatura di differenza, nella forma o nel significato. La prima ha un difetto sintattico, perché contiene una subordinata finale implicita il cui soggetto (tu) non coincide con quello della reggente (io). Per questo motivo, la seconda frase, con la subordinata esplicita, è preferibile. In questa seconda frase, la scelta tra posso e potrò dipende dalla formalità del contesto: il futuro è più preciso, quindi più formale, del presente. Ancora più formale sarebbe il congiuntivo presente (così che io possa spiegarti…). Un difetto in questa frase, da eliminare senz’altro, è la virgola tra il verbo servile e l’infinito da questo retto. Infine si noti che nella prima frase si parla di situazione, nella seconda (e nelle successive) di questione, che sono ovviamente oggetti diversi.
La differenza maggiore tra la terza e la quarta frase è la presenza, nella quarta, del servile, che sottolinea la potenzialità dell’evento dell’essere informato, laddove la terza lo descrive come fattuale. In altre parole, nella terza si dice se chiami sarai informato, nella quarta se chiami potrai essere informato. Le due frasi possono essere accorpate per sfruttare la costruzione implicita della terza (preferibile vista l’identità di soggetto tra la finale e la reggente) e la sfumatura potenziale: così da poter essere informato. In questo modo si costruisce una finale implicita passiva, particolarmente complessa, quindi adatta a un contesto molto formale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Secondo me il seguente periodo non è ben scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle prossime ore”.
Verbo al passato e aggettivo prossime? Sinceramente, non mi convince. Avrei scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle ore successive / nelle ore a venire / nelle ore che sarebbero seguite”.

 

RISPOSTA:

Ha ragione: il centro deittico (cioè il punto di vista della rappresentazione verbalizzata nella frase) implicato dal verbo stabilì è diverso da quello del qui e ora del parlante. Per questo motivo non è possibile usare l’aggettivo prossimo, che rimanda proprio al qui e ora del parlante, ma bisogna sostituirlo con forme che rimandino a lì e allora. Le sue soluzioni sono tutte valide in tal senso.
Va detto che l’imprecisione non è grave, perché la coerenza è salva, visto che non abbiamo difficoltà a capire il senso della frase. Simili difetti vanno evitati nello scritto di media e alta formalità, ma sono perdonabili nel parlato e nello scritto trascurato.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Registri
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QUESITO:

Ho letto in un testo due periodi che a mio parere non sono propriamente corretti. Riporto il primo: “C’erano diverse persone, uno solo era uomo”. Non mi convincono né la sintassi né la punteggiatura. Avrei scritto: “C’erano diverse persone: tra queste c’era solo un uomo”, oppure “C’erano diverse persone: tra di esse c’era solo un uomo”.

 

RISPOSTA:

La sua critica è fondata: la coesione della frase che ha letto è imprecisa, visto che uno solo rimanda a persona, quindi dovrebbe essere femminile. Dobbiamo sottolineare che si tratta di una imprecisione non grave, perché non intacca la coerenza (non si crea ambiguità ed è facile capire il senso della frase). L’imprecisione, inoltre, non è immotivata, ma è indotta dall’accordo “logico” di uno solo con uomo, referente profondo del pronome.
Neanche la scelta della virgola al posto di un segno di interpunzione più forte, che sarebbe più adatto, impedisce la comprensione della frase.
In conclusione, la frase che lei ha letto è costruita in modo trascurato e sarebbe adatta a un contesto informale, specie se parlato.
Le sue due riscritture sanano l’imprecisione e rendono la frase più formale.
A margine faccio notare che sarebbe possibile anche sostituire i due punti con un punto e virgola, per sottolineare il passaggio a una nuova unità informativa senza implicare che essa sia da considerarsi la conseguenza logica della prima. La separazione tra le due unità potrebbe essere anche più netta, con un punto fermo, che creerebbe due enunciati distinti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire che nella frase “Quali caramelle vuoi?” quali caramelle è complemento oggetto?
Quale sarebbe, invece, l’analisi logica di una frase che inizia con un aggettivo esclamativo come “Che bella ragazza sei!” o come “Quante bugie hai raccontato!”? 

 

RISPOSTA:

La sua analisi della prima frase è corretta, e si applica allo stesso modo alle altre frasi. Nella seconda che bella ragazza è il soggetto di sei, accompagnato da due attributi, che e bella; nella terza quante bugie è complemento oggetto con attributo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso delle negazioni no e non nelle seguenti frasi: “È una risposta sincera non / no ironica”, “L’informazione mi è arrivata tramite la mia mail personale, no / non su quella istituzionale”.

 

RISPOSTA:

No (come anche ) si usa sempre da solo: è una parola olofrastica, cioè che da sola sostituisce una frase: “- Vieni al cinema? – No (= ‘non vengo al cinema’)”. Al contrario, non non può essere usato da solo, ma serve, invece, a negare un sintagma verbale (non vengo), nominale (ho visto Piero, non Arturo), aggettivale, come nel suo primo esempio (non ironica), preposizionale, come nel suo secondo esempio (non su quella istituzionale).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

se scrivo a proposito di Mario : “Quella persona (Mario) è un ipocrita”. Dovrei scrivere un’ ipocrita con l’apostrofo (persona è femminile) oppure, essendo Mario un uomo, senza l’apostrofo? Propendo per il femminile, quindi con l’apostrofo. Del resto, se dicessi, sempre a proposito di Mario, che un falso, dovrei dire “Quella persona è falsa” (al femminile) e non “Quella persona è falso”. 

 

RISPOSTA:

I suoi due esempi (“Quella persona è un ipocrita” e “Quella persona è falsa”) non si equivalgono, perché nel primo la parte nominale è rappresentata da un nome (un ipocrita), nel secondo è rappresentata da un aggettivo (falsa). Questa differenza è determinante: l’aggettivo, infatti, concorda con il nome a cui si riferisce in numero e genere (quindi Mario è falso ma la persona è falsa); il nome concorda soltanto in numero. 
In questo caso specifico c’è una difficoltà: ipocrita è un nome di genere comune, che può essere sia maschile che femminile, rimanendo invariabile. In teoria i nomi che hanno sia il maschile che il femminile possono essere concordati anche nel genere con l’altro nome a cui si riferiscono, come propone lei. In pratica, però, questo non avviene, perché il soggetto logico (nel suo caso Mario) è più strettamente collegato al nome che funge da parte nominale di quanto non sia collegato all’aggettivo. La frase, pertanto, viene di norma costruita con un ipocrita. Questo è un caso in cui la logica vince sulla grammatica.
Il caso di ipocrita le sembra particolarmente dubbio perché questo nome può essere usato come aggettivo; ma se proviamo a confrontarlo con ci sono altri nomi di genere mobile che non lasciano dubbi: “Quella persona (Mario) è un giornalista” (e non *”Quella persona (Mario) è una giornalista”).
Lo stesso dubbio relativo a ipocrita potrebbe valere per alcuni nomi mobili (quelli che cambiano la desinenza a seconda del genere): “Quella persona (Mario) è un amico” o “Quella persona (Mario) è un’amica”? Inevitabilmente, se si scegliesse la seconda soluzione si darebbe l’impressione che la persona sia una donna. Al contrario: “Mario è una persona amica”, perché qui amica è usato come aggettivo. Nessun dubbio con un nome mobile come maestro / maestra: “Quella persona (Mario) è un maestro”, e non *”Quella persona (Mario) è una maestra”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivendo “Il procuratore disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita” senza l’ausilio del cosiddetto co-testo, potrei, dal punto di vista sintattico, collegarmi tanto al futuro quanto al passato?
1. avrebbe dovuto essere demolita = ‘dovrà essere demolita’.
2. avrebbe dovuto essere demolita = ‘doveva essere stata già demolita’.
In che modo si può disambiguare il periodo, usando soltanto le forme verbali?

 

RISPOSTA:

La frase è effettivamente ambigua: il condizionale passato dei verbi servili serve normalmente per esprimere un evento controfattuale nel passato (avrebbe dovuto / potuto / voluto essere presente ma non ce l’ha fatta), ma, quando è retto da un verbo di dire o pensare al passato, viene a coincidere con il costrutto del futuro nel passato (arricchito dalla sfumatura modale apportata dal verbo servile), senza perdere, però, l’altra funzione.
Eliminando il verbo servile il condizionale passato assume soltanto la funzione di futuro nel passato: disse che la costruzione sarebbe stata demolita. Proprio questo è un modo per evitare l’ambiguità nel caso in cui il costrutto sia da intendere come futuro; la sfumatura deontica (quella fornita dal verbo dovere) può essere recuperata con un avverbio di giudizio: disse che la costruzione sarebbe stata sicuramente demolita. Un altro modo per ovviare al problema è aggiungere un avverbio di tempo o un’espressione temporale. In questo modo si può usare il costrutto per il passato o per il futuro: disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita tempo prima / disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita di lì a un anno
Fabio Ruggiano
 

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

È corretto usare i due punti all’interno di un discorso diretto articolato, dove si racconta qualcosa, come da esempio?
: «… Se esilio doveva essere, meglio per scelta volontaria. Non è stata una passeggiata: ho lavorato per pagarmi studi e libri; …».

 

RISPOSTA:

Certamente: all’interno del discorso diretto valgono tutte le regole della cornice (con gli accorgimenti dovuti al cambiamento di prospettiva tra il primo e la seconda).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ricordo bene che in italiano non si dice è il giorno quando…, ma è il giorno in cui…?
Inoltre, che differenza c’è tra le proposizioni relative? Quando che può essere sostituito da il quale (la quale ecc.) e quando no?

 

RISPOSTA:

Ricorda bene: è il giorno quando… non è corretto, mentre si può dire è il giorno in cui (ci siamo visti per la prima volta) e anche è il giorno che (ci siamo visti per la prima volta).
Nelle proposizioni relative che può essere sostituito da il quale quando la relativa è esplicativa. Sulla differenza tra relativa esplicativa e limitativa può vedere la FAQ      “Quel ragazzo che parlava a vanvera” o “Quel ragazzo, che parlava a vanvera”? dell’archivio di DICO; può, inoltre, inserire nel motore di ricerca interno dell’archivio il termine esplicativa per trovare altre risposte sull’argomento. In ogni caso, il relativo il quale oggi è usato soltanto nello scritto formale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Lo studente che ha la febbre e non sa di averla oppure e che non sa di averla: qual è corretta? Si può omettere il doppio che

 

RISPOSTA:

Le due costruzioni sono corrette e quasi del tutto equivalenti. La prima riunisce le due caratteristiche (il fatto che abbia la febbre e il fatto che non lo sappia) in un’unica proposizione relativa, rappresentandole come strettamente collegate l’una all’altra (perché ai fini della comunicazione non importa tenerle separate). La seconda le divide in due proposizioni coordinate, sottolineando che possono essere considerate indipendenti l’una dall’altra.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggo quanto scrive un politico di un contesto provinciale: “Sono stato bravo nel scegliere le persone …”. Credo che sia uno strafalcione. La regola della cosiddetta s impura vale anche davanti ai verbi. Quindi: nello scegliere. Concorda?

 

RISPOSTA:

Certamente: la regola ha un’origine fonetica, quindi si applica a prescindere dalle categorie lessicali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Che cosa significano e quando si usano le seguenti espressioni?
1. Dammi un numero, presto!
2. Hai una domanda di riserva?
3. Non ti passa un giorno. 
4. Sono aperti i negozi oggi? 
5. Quando la bagniamo? 
6. Ben gli sta. 
7. Che taglio, complimenti. 
8. Bentrovato!  

 

RISPOSTA:

Le espressioni 1, 3 e 4 non hanno un significato figurato codificato. 
La 2 è un modo ironico per ammettere di non conoscere la risposta a una domanda, oppure di preferire non rispondere a una domanda.
Nella 5 il verbo bagnare è usato probabilmente nel senso di ‘inaugurare’ oppure ‘festeggiare un successo’ (dipende dal referente di la). Il verbo bagnare assume questo significato perché un elemento tipico dei festeggiamenti e delle inaugurazioni è il bere convivialmente.
La 6 si dice per criticare qualcuno che ha fatto un danno a sé stesso per non aver prestato ascolto a un consiglio o per aver fatto un’azione irresponsabile o cattiva. Per esempio quando uno scherzo di cattivo gusto si ritorce contro la persona che lo ha tentato.
La 7 è probabilmente un complimento per una persona che si è appena tagliata i capelli. Ricordo anche che a Roma si dice “Che taglio!” con il significato di ‘che bello!, fantastico!’. Questo, però, è un uso gergale.
Infine, bentrovato è del tutto analogo a bentornato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) “L’azienda imboccò quasi subito un declino irreversibile, dovuto alle scarse capacità della nonna e alle sue manie di grandezza: aveva buttato alle ortiche un sacco di denaro nel tentativo di comprarsi un titolo nobiliare. Fallito questo obiettivo, (ometto il soggetto?) convinse il figlio a intraprendere la carriera militare, pensando che un ufficiale in famiglia avrebbe dato / potesse dare prestigio al nome”.
2) “La nonna, distante dall’arrendersi, iniziò a organizzare festicciole ogniqualvolta mio padre tornava a casa in licenza: invitava quella che lei considerava la nobiltà contadina, ossia i proprietari terrieri delle tenute confinanti; non per generosità, ma con il recondito desiderio di trovare una fidanzata per mio padre che fosse anche un buon partito”.
3) “«Ti credo sulla parola, ma questo genere di opere non fanno per me» commento, «vedo l’ospedale come metafora della precarietà della vita e mi trasmette sensazioni negative”.
4) “«Vedremo, proseguendo nella lettura, se questi miei timori saranno confermati o se, in caso di bisogno, abbia trovato comunque la forza e il coraggio di rivolgersi a qualcuno in grado di aiutarlo»”.

 

RISPOSTA:

Nella frase 1) il soggetto va senz’altro omesso, visto che coincide con quello della proposizione precedente.
Nella frase 2) vanno bene entrambe le forme verbali. Il condizionale passato (avrebbe dato) rappresenta l’evento come futuro rispetto al passato, cioè rispetto a pensando, a sua volta contemporaneo rispetto a convinse; il congiuntivo passato (desse) lo rappresenta, invece, come contemporaneo nel passato. Aggiungendo il servile potere si accentua la sfumatura potenziale. Tale sfumatura può accompagnare sia il condizionale passato (avrebbe potuto dare) sia il congiuntivo imperfetto (potesse dare).
La frase 3) non presenta grandi difficoltà. L’unico problema è la mancata esplicitazione del soggetto nella coordinata il cui soggetto (l’ospedale) cambia rispetto alla proposizione precedente (io). In questo caso, però, è talmente facile risalire al nuovo soggetto per logica e per via della costruzione sintattica della frase che questa sbavatura può essere trascurata, in quanto non provoca alcuna ambiguità.
Nella frase 4) la proposizione interrogativa indiretta (se, in caso di bisogno, abbia trovato comunque la forza e il coraggio) è retta dal verbo vedere. Questo verbo non richiede il congiuntivo nella completiva (si pensi a un’oggettiva come vedo che sei arrivato presto, che nessuno costruirebbe come vedo che tu sia arrivato presto), quindi è meglio sostituire abbia trovato con avrà trovato, simmetrico rispetto a saranno confermati, con il quale è coordinato. Per quanto riguarda la necessità di esplicitare il soggetto diverso rispetto a quello della reggente, qui non si applica, perché il sottinteso non provoca ambiguità.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’anteriorità e la contemporaneità. In questa frase per forza devo usare il passato dell’infinito per esprimere anteriorità, perché l’atto di trovare lavoro forse è successo prima?
“È stata una vera fortuna aver trovato lavoro”.

 

RISPOSTA:

Nella frase si possono usare sia l’infinito presente sia il passato. Con il presente si sottolinea che la fortuna si è verificata nel momento in cui è stato trovato il lavoro; con il passato, invece, la fortuna è rappresentata come successiva (quindi probabilmente anche conseguente) all’aver trovato il lavoro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Credo che la tua tesi di rara completezza e profondità”.
Questa frase può apparire ambigua? La collocazione di rara prima o dopo completezza e profondità altererebbe il senso della frase?

 

RISPOSTA:

La posizione dell’aggettivo qualificativo rispetto al nome altera sempre il valore dell’aggettivo. Di norma, gli aggettivi preposti al nome (quindi nella posizione più insolita) servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome. Così rara completezza comunica una certa enfasi emotiva, assente in completezza rara. Non si apprezza, invece, alcun cambiamento nel significato dell’aggettivo raro in ragione della sua posizione rispetto al nome. Questo avviene per altri aggettivi, per esempio grandeun grande artista (‘molto capace’) / un artista grande (‘corpulento’, oppure ‘anziano’).
Per un approfondimento di questo tema rimando alla FAQ  Usi enfatici di aggettivi come “determinato” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) “Quando fosse stato interpellato, avrebbe dovuto dire quanta voglia a) ha / abbia b) avesse di visitare di nuovo la sua città”.
2) “Mi sono domandato spesso per quale ragione io a) scrivo / scriva b) scrivessi” (La selezione del presente, indicativo o congiuntivo, può essere giustificata dall’attualità del fatto, a prescindere dal passato prossimo della reggente? Scegliere, per contro, l’imperfetto, fa decadere il collegamento con l’attualità del fatto: scrivessi = ‘ma adesso non scrivo più’).
3) “Aveva lasciato detto di essere chiamato nel caso a) pervenissero b) fossero pervenuti i documenti che stava cercando da tempo”.
4) “Vorrei che tu partissi all’alba, mentre (usato con valore temporale) il sole a) sorge / sorgerà b) sorga”.

 

RISPOSTA:

Nella frase 1) il presente non è possibile, visto che la proposizione interrogativa indiretta (quanta voglia avesse) descrive un evento contemporaneo nel passato rispetto a quello descritto nella reggente (avrebbe dovuto dire).
Nella frase 2) sono possibili sia il presente sia l’imperfetto. La distinzione tra indicativo e congiuntivo (presente, ma anche imperfetto) è di tipo diafasico, cioè relativa alla formalità: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. La scelta dei tempi, invece, influenza il rapporto temporale con la reggente. Il presente instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con l’evento descritto dalla reggente. Questo è possibile quando la reggente ha il passato prossimo perché questo tempo, pur essendo passato, proietta l’evento nel presente.
L’imperfetto, rispetto al presente, veicola un senso vicino a quello da lei stessa inteso. Come nella prima frase, infatti, l’imperfetto instaura un rapporto di contemporaneità nel passato con la reggente, quindi descrive l’atto di scrivere come avvenuto nel passato, ma non per forza concluso nel presente.
Nella frase 3) sono possibili entrambi i tempi del congiuntivo. La scelta dipenderà dal grado di probabilità che il parlante attribuisce all’evento del pervenire: l’imperfetto rappresenta l’evento come possibile; il trapassato come improbabile.
Nella 4) deve essere usato l’indicativo, presente o futuro. Il congiuntivo, infatti, non è di norma usato nella temporale introdotta da mentre. La scelta tra indicativo presente e futuro dipenderà da quanto il parlante vuole essere preciso sulla collocazione temporale dell’evento del sorgere (che, comunque, è facilmente collocabile nel futuro per logica, anche senza usare il futuro).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’espressione La vedo stanco è corretta? La prima lettera dentro le virgolette va maiuscola? E quella dopo le virgolette? Comunque stanco può essere usato al maschile dando del lei? 

 

RISPOSTA:

Per l’iniziale della prima parola all’interno delle virgolette c’è una convenzione molto radicata che la vuole maiuscola sempre se le virgolette contengono un discorso diretto (disse: “Vieni”.). Se le virgolette non contengono un discorso diretto non richiedono la lettera maiuscola (il tuo “mal di testa” è molto sospetto). All’esterno delle virgolette (quindi anche dopo) vigono le regole comuni: la maiuscola è, quindi, regolata dalla punteggiatura (disse: “Vieni” e le fece un cenno / disse: “Vieni”. E le fece un segno).
Per la concordanza del pronome di cortesia rimando alla FAQ “Lei”, “voi”, “loro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

PRIMA CHE NEL DISCORSO INDIRETTO
Nella trasformazione sintattica da discorso diretto a indiretto, il congiuntivo presente diventa imperfetto e il congiuntivo passato diventa trapassato?
1) Giovanni ha detto a Lara: “Dovrai rincasare prima che vada a letto” diventa “Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”
e
2) Giovanni disse a Lara: “Dovrai rincasare prima che sia andato a letto” diventa “Giovanni disse a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”?
Vi domando inoltre se il congiuntivo presente vada può restare invariato nel discorso indiretto – quale alternativa all’imperfetto. Sono possibili entrambi?
Relativamente alla seconda frase, penso che fosse andato possa essere anche sostituito da andasse. Nel caso fosse così, quale tempo consigliate, al di là della trasformazione del discorso diretto, tra i due?

 

RISPOSTA:

Nell’analizzare i suoi esempi bisogna considerare innanzitutto il tempo del verbo della reggente della proposizione oggettiva che rappresenta il discorso indiretto. Se il tempo è passato allora il presente del discorso diretto diviene, nella oggettiva, imperfetto (salve sfumature semantiche particolari che richiedano altri tempi).
Il suo dubbio circa la possibilità di lasciare invariato vada nella prima frase dipende dal fatto che in essa il verbo della reggente sia al passato prossimo. Il passato prossimo (nel nostro caso ha detto) si può comportare come il presente o come il passato, perché, pur essendo passato, proietta gli eventi nel presente. La sua trasformazione, con vada che diventa andasse, funziona se la situazione è collocata nel passato, per esempio: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”; se, invece, è collocata nel presente, vada rimane uguale: “Giovanni ha appena detto a Lara di rincasare prima che lui vada a letto”. Per la verità, anche in questo secondo caso si potrebbe usare l’imperfetto (andasse), valorizzando il fatto che l’atto del dire sia comunque avvenuto nel passato; sarebbe, però, una scelta marcata, insolita.
Con il passato remoto non ci sono dubbi sulla collocazione della situazione, quindi il presente diviene imperfetto e il passato (sia andato) diviene trapassato (fosse andato).
Anche il suo ultimo dubbio sulla possibilità di sostituire fosse andato con andasse è legittimo e anche per esso la risposta è affermativa. Il dubbio, però, dipende dalla costruzione della temporale introdotta da prima che, e non ha a che fare con la struttura del discorso indiretto. Lo dimostra il fatto che anche nella prima frase andasse si può sostituire con fosse andato: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”. La possibilità di usare il passato nella proposizione introdotta da prima che in relazione al presente nella reggente (quindi di usare il trapassato in relazione al passato nella reggente) è discussa nella FAQ  “Prima che” e “prima di” dell’archivio di DICO. Altre risposte sull’argomento si possono trovare usando il motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se in una sovraordinata compare il passato prossimo, la subordinata può essere costruita con il trapassato prossimo – come nel caso del passato remoto, che però preferisce il trapassato remoto – o è obbligatorio mantenere lo stesso tempo?
“L’ho buttato fuori di casa, dopo che mi aveva offeso”.
Le frasi qui indicate sono corrette?
Frase 1.
“(Ti ho mai raccontato di quando, a scuola, vinsi un premio?) Sì, me lo avevi raccontato”.
La scelta del trapassato può essere giustificata dal collegamento (sottinteso) a un’azione rispetto alla quale sarebbe anteriore, oppure è sempre opportuno esplicitare questa eventuale scansione temporale (ad esempio, “Me lo avevi raccontato un anno fa, prima che fossimo entrati / entrassimo nell’argomento scuola”).
Frase 2.
“Ho conosciuto uomini e donne che nel corso della propria vita avevano sofferto / soffrirono / hanno sofferto molto.
Tutte e tre i tempi verbali sono legittimi?

 

RISPOSTA:

La subordinata di una proposizione al passato prossimo o remoto può avere il trapassato prossimo (o il trapassato remoto, che è più raro). Il suo primo esempio (“L’ho buttato fuori di casa, dopo che mi aveva offeso”) lo dimostra bene: l’evento dell’offendere è trapassato perché è precedente all’altro evento, quello del buttare fuori, pure passato.
La sua frase 1 è insolita, ma è giustificabile, come arguisce lei, facendo ricorso al contesto o al co-testo, ovvero a informazioni presenti nella memoria degli interlocutori o in altri punti del discorso. Si consideri, però, che anche in presenza di un altro evento passato successivo al raccontare, l’interlocutore preferirà il passato prossimo; preferirà, cioè, me lo hai raccontato un anno fa prima che cominciassimo a parlare di scuola a me lo avevi raccontato un anno fa prima che cominciassimo a parlare di scuola. La preferenza è dovuta in parte alla tendenza a semplificare i rapporti temporali, usando il passato anche in punti nei quali potrebbe essere usato il trapassato, in parte all’attrazione da parte del passato nella domanda.
Nella frase 2 si possono usare senz’altro il trapassato e il passato prossimo. Il passaggio dal passato prossimo al remoto, invece, in questo caso è forzato, sebbene non si possa dire del tutto scorretto. Se si usa il trapassato si enfatizza il fatto che il soffrire sia avvenuto prima del conoscere. Con il passato prossimo, invece, si situano entrambi gli eventi nel passato, senza indicare alcun rapporto temporale relativo. In questo modo, non si esclude che il soffrire sia iniziato dopo il conoscere o che sia iniziato prima e poi sia continuato anche dopo il conoscere. Il passato remoto è pienamente giustificato nel caso di un evento storico: “Al museo ho visto un dinosauro che visse 100 milioni di anni fa”; in questo caso, invece, sia il soffrire sia il conoscere sono eventi che si proiettano nel presente (il fatto stesso che il parlante abbia conosciuto le persone che hanno sofferto le rende presenti nella sua coscienza), quindi il passato remoto non è adatto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La seguente affermazione: “La stessa persona che ritiene la terra sia sovrappopolata”, sarebbe più corretta così: “La stessa persona che ritiene CHE la terra sia sovrappopolata”? 

 

RISPOSTA:

Le frasi sono ugualmente corrette. L’omissione del che introduttivo della proposizione completiva è una opzione sempre valida, che, in virtù della basa frequenza, conferisce allo scritto un’aura di letterarietà. In questo caso l’omissione è preferibile per ragioni formali: evitare la ripetizione di che a distanza di poche parole (che ritiene che).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire “La citta di… ha i piu abitanti / è la citta con i piu abitanti rispetto ad altre citta (cioè con il numero piu alto di abitanti)?

 

RISPOSTA:

Più può essere avverbio o aggettivo. Quando è avverbio è seguito da un aggettivo (più bello) e può essere preceduto dall’articolo determinativo per fare il superlativo relativo (il più bello del mondo); quando è avverbio è seguito da un nome (più abitanti) e non può essere preceduto da un articolo determinativo (*i più abitanti). Per fare il comparativo di maggioranza con un nome, quindi, basta dire “La città di XXX ha più abitanti di XXX”; per fare il superlativo relativo, invece, bisogna sostituire più con una espressione equivalente, per esempio “La città di XXX ha il maggior numero di abitanti della regione”.
Attenzione: nel caso di “La città di XXX ha più abitanti rispetto ad altre città vicine” siamo sempre di fronte a un comparativo di maggioranza (non a un superlativo relativo), perché si confronta un dato con un altro dato, anche se quest’ultimo è composto da più dati. Per questo motivo, come si vede, in questo caso si può dire più abitanti rispetto a… (ovviamente senza l’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio
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QUESITO:

Potreste dirmi quale delle due frasi è corretta? Nella prima è presente potrebbe, nella seconda possa.
1. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai?
2. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte possa non accoglierli mai?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Nella proposizione oggettiva (nel nostro caso che il sistema dell’arte potrebbe / possa non accoglierli mai) possiamo trovare sia il congiuntivo, sia il condizionale. Possiamo anche trovare l’indicativo (che il sistema dell’arte può non accoglierli mai), che è equivalente al congiuntivo, ma meno formale.
La scelta tra il congiuntivo e il condizionale è dettata da ragioni semantiche: il congiuntivo rappresente la soluzione più lineare, senza sfumature particolari; il condizionale aggiunge la sfumatura che gli è propria, introducendo una condizione implicita. Nel nostro caso, con il condizionale si può alludere a una condizione, o una concessione, come che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai (anche se riuscissero a diventare dei professionisti).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La mia domanda riguarda la congiunzione mentre, in relazione alla scelta del verbo all’interno della proposizione che essa può introdurre.
“Ti guarderei riposare mentre io leggerei / leggerò / leggo un libro”.
Le soluzioni sono tutte ammissibili, o, di norma, è consigliato, per ragioni prettamente sintattiche o di attrazione, che i due predicati delle proposizioni, riferendosi ad azioni contestuali, abbiamo lo stesso tempo (guarderei / leggerei, in questo caso specifico)?
Dubbio analogo al precedente: “Se ti guardassi riposare mentre io leggessi / legga / leggo / leggerò un libro, i nostri genitori sarebbero tranquilli”.

 

RISPOSTA:

La congiunzione mentre introduce una proposizione temporale che descrive un evento contemporaneo a un altro. Nella prima frase, se l’evento di riferimento è guarderei, nella proposizione temporale possono essere usate tutte le forme da lei ipotizzate, ma non in modo intercambiabile, visto che ognuna ha una specifica funzione. Il condizionale leggerei descrive l’azione come condizionata al pari di guardereise fossimo in vacanza ti guarderei mentre leggerei. L’indicativo presente descrive l’azione come fattuale al presente: in questo momento ti guarderei mentre leggo; il futuro la descrive come fattuale al futuro: domani alla conferenza ti guarderei (se potessi) mentre leggerò
Nella seconda frase sono possibili tutte le forme tranne legga, visto che la proposizione temporale non richiede di norma il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto leggessi si giustifica soltanto per via dell’attrazione da parte di guardassi nell’orbita della protasi del periodo ipotetico, che fa assumere alla proposizione temporale una sfumatura ipotetica (se ti guardassi mentre / se io leggessi…). Gli indicativi presente e futuro, a loro volta, descrivono l’azione come fattuale al presente e al futuro.
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Recentemente sono stata corretta dopo aver pronunciato la seguente frase: “Vorrei che tu fossi già a casa per quando sarò tornata dal lavoro”.
L’interlocutore sosteneva che avrei dovuto dire per quando tornerò dal lavoro. La mia scelta, secondo lui, era ingiustificata.
Avevo scelto di proposito il futuro anteriore per una ragione che vorrei fosse valutata da voi: indicare la conclusione dell’evento, spostando il mio punto di vista, per così dire, un attimo dopo la conclusione stessa.
Domando: il futuro anteriore può assolvere a questa funzione, anche autonomamente, o ha sempre bisogno, perché sia giustificato, di un’azione futura alla quale sia anteriore (di qui la sua denominazione).
È possibile che questo momento di riferimento sia implicito nel senso generale della frase?
Ho letto su una rivista una costruzione come questa: “Alla fine del 2020 saranno state vendute non meno di 10.000 bottiglie di vino rosato”.
In questo caso non ci sono azioni al futuro semplice, eppure il futuro anteriore mi pare che sia corretto, se si sposta il punto di vista alla fine dell’anno in corso.

 

RISPOSTA:

Il suo ragionamento è corretto, ma è applicato all’esempio sbagliato. Il futuro anteriore esprime sempre un evento precedente rispetto a un altro evento futuro; questo evento futuro, però, può essere ricavato contestualmente, senza che ci siano verbi coniugati al futuro. Nella frase “Alla fine del 2020 saranno state vendute non meno di 10.000 bottiglie di vino rosato”, per esempio, l’evento futuro è alla fine del 2020, equivalente a quando il 2020 sarà finito. Il futuro anteriore saranno state vendute precede, quindi, la fine del 2020.
Nella sua prima frase c’è un evento futuro (che tu fossi già a casa), rispetto al quale, però, l’evento del tornare è successivo, non precedente. L’avverbio già, infatti, non lascia dubbi sul fatto che la condizione di essere a casa del soggetto 2 preceda l’azione del tornare del soggetto 1 (non a caso già accompagna spesso, al contrario, il verbo al futuro anteriore). In questo caso, il tempo atteso per tornare non può che essere tornerò (o, in un contesto informale, torno).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono alle prese con un periodo per me ostico: 
“Sarà / Sarebbe opportuno calcolare quanto tempo sarà passato dall’ultima volta che tu lo avrai visto”.
Mi è venuto spontaneo comporlo così. Tuttavia, in un secondo momento si è fatta largo in me anche quest’altra soluzione”:
“Sarà / Sarebbe opportuno calcolare quanto tempo sia passato dall’ultima volta che tu lo avessi visto”.
Consapevole che in quest’ultimo modo il messaggio del periodo cambierebbe completamente, vi chiedo per cortesia se le due soluzioni sono giuste e se la sintassi italiana ne offra altre migliori.

 

RISPOSTA:

La prima variante è corretta; nella seconda il congiuntivo trapassato non è giustificato, ma deve essere sostituito dal futuro anteriore, come nella prima, o dal congiuntivo passato.
Per quanto riguarda sarà passato / sia passato, entrambe le soluzioni sono corrette: la prima instaura un rapporto di anteriorità nel futuro rispetto a sarà / sarebbe, mettendo l’accento sul momento di inizio del tempo intercorso dall’ultimo incontro; la seconda instaura un rapporto di anteriorità nel presente, che per il congiuntivo equivale all’anteriorità nel futuro, visto che il congiuntivo non ha il futuro. Tra sarà passato sia passato, quindi, la differenza è di tipo diafasico: il congiuntivo, cioè, è più formale dell’indicativo. Il terzo evento introduce una complicazione, perché prende come momento di riferimento un passato nel futuro (sarà passato / sia passato), rispetto al quale è precedente. Il parlante, quindi, deve scegliere se rappresentarlo come precedente rispetto al passato (avessi visto) o rispetto al futuro, quindi al presente (avrai visto / abbia visto). La soluzione più logica è la seconda, perché è chiaro che il piano temporale di fondo (definito dal verbo della proposizione principale) è futuro.  
Una soluzione ancora più informale (perché più vaga) del futuro anteriore, ma probabilmente quella che un parlante sarebbe portato a scegliere in un contesto parlato anche di media formalità, è l’indicativo passato prossimo (hai visto), che collocherebbe l’evento nel passato, quindi automaticamente in un momento precedente a sarà passato (ignorando che il piano temporale di fondo è futuro).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La mia prima domanda si riferisce al modo obbligatorio del congiuntivo quando il soggetto delle proporzioni e uguale “Non penso che io possa aiutarti”; va bene questa frase?
La seconda domanda: i siti dove possiamo studiare una lingua possono essere siti linguistici?

 

RISPOSTA:

Quando il soggetto della subordinata completiva coincide con quello della reggente, il modo fortemente richiesto non è il congiuntivo, ma l’infinito. La sua frase, pertanto, dovrebbe essere “Non penso di poterti aiutare”. Sono possibili, comunque, anche il congiuntivo e l’indicativo (ma è la variante più trascurata): “Non penso che ti posso aiutare / che posso aiutarti”. L’infinito è impossibile quando i soggetti non coincidono; in quel caso si può usare il congiuntivo (“Non penso che tu mi possa aiutare / possa aiutarmi”) o l’indicativo (“Non penso che mi puoi aiutare / puoi aiutarmi”). L’indicativo rimane la soluzione più informale.
Non è chiaro che cosa intenda con connettere le due frasi: in ogni caso, con l’infinito o un modo finito (congiuntivo o indicativo) le proposizioni sono connesse.
L’espressione siti linguistici è abbastanza chiara. Per essere più precisi si può usare anche siti per l’apprendimento linguistico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questo caso qual è la forma corretta?
“Quando mi chiederanno quali sono i miei autori preferiti gli risponderò” oppure “Quando mi chiederanno quali siano i miei autori preferiti gli risponderò”.

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette. Il congiuntivo è più formale e adatto allo scritto; l’indicativo è più comune e adatto al parlato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

È corretta l’espressione “Non dimenticherò quello che mi hai detto: mi scrivo tutto”?

 

RISPOSTA:

Sì: scriversi (tutto)mangiarsi (una pizza)farsi (una passeggiata) sono verbi che non avrebbero bisogno del pronome di appoggio, ma lo aggiungono per esprimere una forte partecipazione emotiva all’azione. Rispetto a scrivere, insomma, scriversi significa qualcosa come ‘scrivere con attenzione’.
Chiaramente, in contesti formali scriversi e simili vanno sostituiti con espressioni più precise, come, appunto, scrivere con attenzionemangiare con soddisfazionefare volentieri ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In una chat ho detto “non si capisce quello che vorresti dire” riferita ad una frase di qualche secondo prima. La forma al passato del condizionale, avresti voluto, sarebbe stata più corretta da usare?

 

RISPOSTA:

Non sarebbe stata più corretta, ma semanticamente diversa: vorresti dire rappresenta l’atto del dire come ancora attuale, mentre avresti voluto dire lo riporta al momento in cui è stato detto qualcosa. Nel primo caso, quindi, si considera la cosa detta come rilevante per il prosieguo della conversazione; nel secondo caso la si mantiene nel passato, suggerendo che sia poco rilevante. 
Al posto del condizionale, si può usare il congiuntivo, più adatto a contesti formali: “Non si capisce quello che tu voglia / abbia voluto dire”. Al contrario, l’indicativo è più diretto del condizionale, quindi è adatto a contesti molto informali, perché è privo della cortesia veicolata dal condizionale: “Non si capisce quello che vuoi / hai voluto dire”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Una frase come “È da due giorni che non vedo le mie amiche: non vorrei che si siano ammalate” sia giusta mentre “È da due giorni che non vedo le mie amiche: non vorrei che si fossero ammalate” è sbagliata, o comunque meno formale? Mi pare comunque che siano frequente le formulazioni vorrei che + congiuntivo trapassato per indicare l’anteriorità dell’azione.
In relazione alla frase “Vorrei eventualmente rivolgermi al professore, a patto che sia propenso a ricevermi”, è possibile che quando vorrei rappresenta la forma attenuata e cordiale di voglio sia ammesso, come nell’esempio in evidenza, nella secondaria introdotta da congiunzioni condizionali o locuzioni condizionali, il congiuntivo presente, mentre se vorrei ricopre il suo ruolo proprio, sulla falsariga del periodo ipotetico, nella subordinata sia ammesso il congiuntivo imperfetto?
Alcuni esempi con a patto che, ma avrei potuto inserire anche purchéa condizione chesempre che e così via:
“Vorrei vedere un film, a patto che la mia amica mi faccia compagnia” (vorrei = ‘voglio’);
“Vorrei vedere un film, a patto che la mia amica mi facesse compagnia” (a patto che = ‘solo se’, ‘nel caso che’).

 

RISPOSTA:

Non vorrei che + congiuntivo trapassato è possibile, anzi preferibile, rispetto non vorrei che + congiuntivo passato, per esprimere un desiderio rispetto a un evento ormai avvenuto. Nella risposta a cui lei fa riferimento il problema era la contrapposizione con il congiuntivo presente, per questo il trapassato non è stato contemplato. 
La preferenza per i tempi del passato nella completiva retta da verbi di desiderio, aspirazione, necessità al condizionale presente non intacca la costruzione di altre subordinate, che continuano a rispettare le proprie regole anche se nella reggente c’è un verbo di questo tipo. Né hanno alcun peso nella costruzione sintattica le sfumature semantiche di vorrei o simili. Le proposizioni introdotte da a patto che sono condizionali e richiedono il modo congiuntivo; il tempo dipende dal grado di possibilità dell’evento espresso. Il suo primo esempio (vorrei vedere… a patto che mi faccia) è equivalente alla frase vorrei vedere un film, ma lo farei a patto che mi faccia compagnia, che non presenta difficoltà. Il secondo esempio (vorrei vedere… a patto che mi facesse) è equivalente a vorrei vedere un film, ma lo farei a patto che mi facesse compagnia, ugualmente corretta, con una sfumatura di possibilità più marcata veicolata da facesse rispetto a faccia. L’evento, cioè, è rappresentato da facesse come possibile, mentre con faccia si allude soltanto al rapporto di condizione e conseguenza. Impossibile sarebbe, invece, una costruzione come *vorrei vedere un film, a patto che mi avesse fatto compagnia, perché l’impossibilità espressa da avesse fatto contrasta con il desiderio ancora attuale. In relazione a avesse fatto sarebbe richiesto avrei voluto vedere.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale forma è corretta?
Credevo che dovessimo / avremmo dovuto fare una settimana al mare. 

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le varianti. Quella con il congiuntivo imperfetto è più formale.
L’alternanza tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato nelle proposizioni completive è oggetto di molte risposte, con diversi esempi, che si possono leggere nell’archivio di DICO usando il motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

in un costrutto in cui il passato remoto sostiene le azioni certe è corretto adottare il congiuntivo passato per indicare un’azione a sua volta conclusa ma di cui il parlante non è pienamente sicuro?
“Lui parlò, mangiò e credo che abbia visto un film”.
Se anche il vedere un film fosse stato un fatto certo, oltreché concluso, si sarebbe detto vide un film.
Ecco: se esiste, qual è l’equivalente al congiuntivo del passato remoto?

Mi capita talvolta di adottare, istintivamente, il congiuntivo passato per subordinate di periodi in cui la reggente sia introdotta da non vorrei che:
“Non vorrei che i tuoi genitori, poc’anzi, si siano offesi per ciò che ho detto”.
Si tratta di un errore?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra indicativo e congiuntivo nelle proposizioni completive non è dovuta alla certezza dell’emittente su ciò che sta dicendo, ma al grado di formalità che vuole adottare. In particolare, in dipendenza da verbi di opinione (che, come capisce bene, esprimono già da sé l’idea dell’incertezza) il congiuntivo è fortemente consigliato, mentre l’indicativo (passato remoto o prossimo) suona un po’ trascurato.
L’uso dei tempi del congiuntivo è regolato dalla consecutio temporum, che attribuisce a ogni tempo il suo ambito.
Il condizionale presente del verbo volere e di tutti i verbi che indicano desiderio, aspirazione, necessità regge di norma i tempi del passato del congiuntivo, quindi imperfetto e trapassato. Le ragioni di questa reggenza passata per un tempo presente sono spiegate nella risposta n. 2800136 dell’archivio.
Il congiuntivo presente in dipendenza dal condizionale presente di questi verbi è considerato errato, ma è comune, e accettabile, in contesti informali. Una frase come “Non vorrei che tu abbia sonno”, insomma, è accettabile tra amici, sebbene più formale sia “Non vorrei che tu avessi sonno”. Allo stesso modo, a “Non vorrei che tu abbia pensato di andare a dormire” si preferisce, in contesti formali, “Non vorrei che tu avessi pensato di andare a dormire”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Prima che finiscano le ferie, farò / avrò fatto un bagno”;
“Prima che siano finite le ferie, farò / avrò fatto un bagno”. 
Tra le quattro combinazioni ce ne sono alcune errate?

“Non autorizzerò il permesso, prima di appurare / aver appurato le motivazioni”;
“Finisco lo stipendio, prima di riscuoterlo / averlo riscosso”. 
Sono giuste entrambe le scelte? La differenza consiste, anche qui, nel rapporto tra le proposizioni, con l’infinito presente che segnala la contemporaneità e il passato l’anteriorità?
 
 

 

RISPOSTA:

Le combinazioni del primo blocco di frasi sono tutte corrette, con qualche minima sfumatura nel rapporto temporale tra il momento della fine delle ferie e quello del bagno. Il congiuntivo passato siano finite, apparentemente illogico, visto che descrive un evento futuro, per giunta successivo all’evento descritto da avrò fatto, rappresenta il momento della fine delle ferie come conclusivo di un processo, all’interno del quale si situa avrò fatto. Il parlante, cioè, osserva la fine delle ferie da un punto di vista appena successivo, rispetto al quale la fine stessa è già avvenuta. Subito dopo, però, torna al punto di vista presente, rispetto al quale si giustifica il futuro anteriore (ma si potrebbe usare anche il futuro semplice, farò). Lo scambio di punti di vista è provocato dal connettivo prima che, che confonde i reali rapporti temporali, facendo apparire precedente l’evento che è in realtà successivo. 
Anche nel secondo blocco di frasi tutte le varianti sono corrette. L’infinito presente rappresenta l’evento come contemporaneo a quello della reggente, qualsiasi sia il tempo di quest’ultimo. La contemporaneità può essere anche sfumata, proiettandosi nel passato (come nella prima frase) o nel futuro (come nella seconda).
Si noti la differenza tra la costruzione con non prima di della prima frase e quella con prima di della seconda, nel caso in cui scegliamo di usare l’infinito passato in entrambe. La seconda costruzione è analoga a quella delle frasi del blocco precedente con prima che e il congiuntivo passato; nella frase, infatti, l’evento precedente (finisco) è espresso con il presente (ma potremmo usare anche il futuro, finirò, e il futuro anteriore, avrò finito), quello successivo con il passato (aver riscosso).
La prima costruzione, invece, mette gli eventi nell’ordine più atteso: quello successivo è espresso con il futuro (autorizzerò), quello precedente con il passato (aver appurato). 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sempre saputo che il futuro anteriore, nel discorso diretto, diventa condizionale passato nell’indiretto; è possibile che, talvolta, quest’ultimo sia sostituito dal congiuntivo trapassato? Ad esempio, “Marco disse: “Dopo che sarò tornato a casa, tu potrai uscire” può trasformarsi in “Marco disse che dopo che sarebbe tornato / fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire”? È proprio formulando questo esempio che mi rendo conto di quanto sia, per me, stridente il condizionale passato ripetuto, che peraltro annulla le distinzioni temporali marcate dal discorso diretto. Insomma, in questo caso userei il congiuntivo.
Nella frase “Se fossi stato al posto tuo, avrei fatto ciò che mi avrebbero detto” sarebbero giuste anche le varianti avessero detto e dicessero in base al rapporto temporale tra le proposizioni?

 

RISPOSTA:

La premessa non è precisa: il condizionale passato del discorso indiretto esprime il cosiddetto futuro nel passato, ovvero indica un evento successivo rispetto a un altro che è, a sua volta, passato. Per questo motivo, il condizionale passato sostituisce, nel discorso indiretto, non soltanto il futuro anteriore, ma anche il futuro anteriore del discorso diretto.
Venendo allo specifico del suo caso, premetto che la variante con il discorso indiretto è meglio costruita con l’infinito, vista l’identità di soggetto tra la reggente e l’oggettiva (Marco disse che dopo essere tornato a casa…). Volendo, invece, mantenere la forma esplicita, nella sua frase sia sarò tornato sia potrai divengono condizionali passati (sarebbe tornato e saresti potuto) perché entrambi questi eventi sono futuri rispetto a un passato che è rappresentato dal verbo disse. Effettivamente, come lei ha notato, la successione temporale in questo modo si annulla; bisogna, però, rilevare che questo non comporta nessuna ambiguità, perché alla precisione morfosintattica supplisce la logica (nessun parlante avrebbe dubbio sulla corretta ricostruzione della sequenza delle azioni anche di fronte ai due condizionali passati). Non a caso, anche nel discorso diretto si fa spesso a meno del futuro anteriore, confidando nella possibilità di ricostruire la sequenza delle azioni future per logica: “Marco disse: ‘Quando tornerò, tu potrai uscire'” non presenta difficoltà interpretative di sorta.
La sostituzione del condizionale passato con il congiuntivo trapassato è possibile perchè nella consecutio temporum quest’ultima forma esprime anteriorità rispetto a un tempo passato. In questo caso il tempo passato sarebbe saresti potuto (che rimane passato pur essendo futuro nel passato). In questo modo, la prospettiva cambia leggermente, e da due eventi ugualmente futuri rispetto a uno passato si passa a due eventi dei quali uno è futuro rispetto al passato (saresti potuto) e l’altro è anteriore rispetto a quest’ultimo (fosse tornato). 
La struttura con il congiuntivo trapassato e il condizionale passato ricalca quella del periodo ipotetico del terzo tipo (= se fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire); sarebbe possibile, ma non necessario, pertanto, attribuire alla frase così formata una sfumatura ipotetica (la proposizione temporale, quindi, sarebbe temporale-condizionale).
Per quanto riguarda l’esempio finale, le varianti sono possibili. Avessero detto, anzi, è quella più formale. Dicessero si può giustificare nell’ottica della consecutio temporum, in quanto evento contemporaneo nel passato rispetto ad avrei fatto; contrasta, però, con il tempo del congiuntivo della protasi (fossi stato), dal quale è fortemente attratto. 

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le virgolette richiedono uno spazio di solito?

 

RISPOSTA:

Le virgolette si separano dalla cornice, mentre si uniscono al discorso in esse contenuto; per esempio disse: “Lo sapevo” e se ne andò. Si noti che lo spazio prima è richiesto anche se le virgolette iniziali sono precedute da un segno di punteggiatura; l’eventuale segno di punteggiatura successivo alle virgolette di chiusura, invece, non vuole lo spazio: disse: “Lo sapevo“. 
Fabio Ruggiano 

 

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QUESITO:

Vorrei sapere se nello scritto va bene utilizzare il presente al posto del futuro indicativo; es. “La classe viene / verrà divisa in sei gruppi, ognuno dei quali legge / leggerà un libro. I membri di ciascun gruppo condividono / condivideranno la lettura dello stesso libro e poi…”.

 

RISPOSTA:

Prima che la formalità bisogna valutare la chiarezza espressiva: nel suo esempio è impossibile attribuire al presente il valore di futuro, perché mancano avverbi o altre indicazioni temporali che surroghino appunto l’idea del futuro. Il lettore, pertanto, è indotto a interpretare il presente come atemporale, come se quella da lei presentata fosse la descrizione astratta, decontestualizzata, di un’attività. Diversamente, con un’indicazione temporale il presente può assumere la funzione di futuro: “Nella lezione di domani la classe viene divisa in sei gruppi…”. 
Il presente si presta bene a sostituire il futuro nel parlato e anche nello scritto di media formalità; nel suo caso consiglierei di usare il futuro anche dopo aver inserito l’indicazione temporale, perché il contesto sembra richiedere un tasso di formalità superiore alla media (un docente sta descrivendo per iscritto un’attività ad alcuni studenti). La scelta del presente, comunque, è sempre possibile, se il docente vuole ridurre la distanza sociale tra sé e gli studenti.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Verrò a prenderti, quando (una volta che) fossi uscita dal lavoro”: la subordinata fossi uscita dal lavoro, sempre che sia valida, ha valore meramente ipotetico (irrealtà) oppure, rispetto a uscissi dal lavoro, indica che l’azione viene considerata, nella sua eventualità, già conclusa?
La frase “Verrò a prenderti, quando / una volta che uscissi dal lavoro” è ugualmente valida?

“Mi sarei arrabbiato più di quanto ti aspettassi / ti fossi aspettato / ti saresti aspettato”:
ti aspettassi = contemporaneità; 
ti fossi aspettato = anteriorità; 
ti saresti aspettato = posteriorità. La mia interpretazione è giusta? 

 

RISPOSTA:

Le due sfumature convergono in una: il congiuntivo trapassato all’interno della proposizione temporale-ipotetica esprime sia un’ipotesi improbabile, sia un evento che avviene prima di un altro (verrò). La costruzione della frase è certamente insolita e un po’ forzata, ma possibile. La variante con il congiuntivo imperfetto (uscissi) è più facile da giustificare, perché l’imperfetto stride meno del trapassato in rapporto al futuro. Volendo rappresentare l’improbabilità dell’evento si potrebbe usare la strategia lessicale: “Verrò a prenderti nella remota eventualità che uscissi dal lavoro”. Si ricordi che uscissi e fossi uscita valgono per la prima persona; se il soggetto è tu bisogna esplicitarlo, per evitare ambiguità.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’analisi è giusta; si tratta, ovviamente, di rapporti temporali rispetto al passato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

In tempi relativamente recenti, mi pare che sia invalso l’uso (o l’abuso?) della congiunzione anche in contesti forse impropri (mi riferisco in special modo al primo dei due esempi sotto riportati).
“Ti va di studiare? Anche no”,
“Hai scritto tanto, talmente tanto che anche la metà bastava”.
Fermo restando che in quest’ultima costruzione si sarebbe potuta migliorare la sintassi del verbo (ho scelto di presentare le frasi come le avevo sentite pronunciare); la congiunzione anche in entrambi gli esempi è ben impiegata?

 

RISPOSTA:

Non si può dire che nelle frasi da lei proposte ci siano degli errori. Si tratta certamente di frasi adatte a contesti informali, in cui non si bada molto alla precisione, ma, al contrario, si cerca di caricare la lingua di espressività emotiva. La congiunzione anche si presta a questo scopo perché permette di presentare come alternativa, quindi meno perentoria, una soluzione in realtà contraria a quella proposta dall’interlocutore. In questo modo la soluzione contraria risulta più cortese, quindi più socialmente accettabile, e si può arricchire anche di una sfumatura ironica. 
Nel suo primo esempio la congiunzione presenta la negazione decisamente netta no come un’alternativa possibile tra altre: si tratta certamente di un modo per rendere più cortese il rifiuto, ma si intravede, oltre a questo, un intento ironico nel contrasto tra la nettezza della negazione e l’apertura alla possibilità garantita dalla congiunzione anche.
Nel secondo esempio l’ironia è meno percepibile (probabilmente è assente), mentre rimane chiaro l’intento di moderare la perentorietà della proposta alternativa. Senza anche il giudizio sulla quantità della scrittura prodotta risulta automaticamente critico; con anche, invece, la soluzione di scrivere la metà è presentata come alternativa possibile che non esclude l’altra.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Retorica
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QUESITO:

Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?

 

RISPOSTA:

Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardentedormiente). 
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta?
“Il protagonista ritiene che l’unico modo per ottenere il successo sia quello del ricatto…” oppure “Il protagonista ritiene che l’unico modo per ottenere il successo è quello del ricatto…”

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva dipendente da verbi come ritenere può essere costruita correttamente con l’indicativo e il congiuntivo senza differenza di signficato tra le due scelte. Il congiuntivo è la forma richiesta dalla grammatica standard, quindi è più adatto allo scritto di media e alta formalità; in tutti gli altri contesti si può scegliere anche l’indicativo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivo per chiedere conferma della correttezza della frase che segue, tratta da un verbale:
“Come già detto, la situazione è stata espressamente rappresentata ai componenti dell’assemblea, a cui è stato chiesto, espressamente, se avrebbero firmato l’attestazione con i relativi allegati altrimenti non avremmo mandato avanti la pratica”.
Posto che la forma, nel suo complesso, è poco gradevole, l’elemento critico – oggetto di una discussione tra amici – è l’avrebbero firmato; secondo alcuni, infatti, l’uso del condizionale sarebbe scorretto.

 

RISPOSTA:

Come ha giustamente notato lei, la forma è poco gradevole, o meglio a tratti poco adatta a un verbale, per la ripetizione dell’avverbio espressamente, per il passaggio dalla forma passiva, impersonale, a quella personale (altrimenti non avremmo mandato avanti), per la mancanza della virgola, o del punto e virgola,  prima di altrimenti.
Il condizionale passato non è scorretto, ma, al contrario, serve a esprimere il futuro nel passato (su questo concetto rimando alle tante risposte sul tema nell’archivio di DICO) in una proposizione interrogativa indiretta (non ipotetica, si badi).
Più formale del condizionale passato è il congiuntivo imperfetto (a cui è stato chiesto se firmassero l’attestazione), che, però, appiattisce il futuro sul presente, visto che instaura, con il verbo reggente, una relazione di contemporaneità nel passato proiettata al futuro. Il congiuntivo imperfetto, cioè, indica sia che l’azione sta avvenendo mentre si fa la domanda: a cui è stato chiesto se firmassero (= ‘stessero firmando’) l’attestazione, sia che potrebbe avvenire in seguito; il condizionale passato, invece, restringe l’interpretazione alla posteriorità rispetto al momento della domanda (che deve essere, comunque, nel passato).
Il congiuntivo trapassato, altresì, sposterebbe l’evento della firma a prima della domanda, modificando il senso della frase.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?

 

RISPOSTA:

La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria
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QUESITO:

Spesso, anche nei vostri articoli, si parla dello stretto collegamento tra il passato prossimo e l’attualità dei fatti cui si riferisce.
Così da stabilire, nei limiti del possibile, una regola generale, vi pongo una domanda doppia: quando la principale è appunto al passato prossimo, nella secondaria (finale, interrogativa indiretta, in specie) si può optare per il tempo presente (indicativo, congiuntivo e talvolta condizionale)?
Scegliendo invece un tempo della sfera del passato (nel rispetto della consecutio), il fatto della proposizione secondaria perde attinenza con il momento dell’enunciazione?

 

RISPOSTA:

Partiamo da un esempio con una interrogativa indiretta: “Mi sono chiesto se tu fossi stato / fossi / sia stato / sia / sarai al corrente della situazione “. Come si vede, tutti i tempi sono possibili, ognuno esprimente un diverso rapporto con il verbo della principale. Ovviamente, sono anche possibili restrizioni su base semantica, con la interrogativa indiretta e con tutte le altre completive (oggettiva, soggettiva, dichiarativa); possiamo, per esempio, avere “Ho sognato che tu fossi morto”, ma non *Ho sognato che tu sia morto”, non per ragioni sintattiche, ma perché la frase non avrebbe senso.
La finale sfugge alla consecutio temporum perché la semantica implicita in questa proposizione impedisce che l’evento in essa espresso preceda quello della reggente. Non possiamo, pertanto, avere *”Ti ho chiamato perché tu fossi venuto”, né *”Ti ho chiamato perché tu sia venuto”. Possiamo, invece, avere “Ti ho chiamato perché tu venissi”, nella quale l’imperfetto (venissi) seleziona la funzione di passato del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel passato (il venire è contemporaneo al chiamare nella mente di chi chiama, ma è successivo nella realtà). Possiamo anche avere “Ti ho chiamato perché tu venga”, con il presente (venga) che enfatizza la sfumatura di quasi-presente del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel presente (anche in questo caso, il venire non può che essere successivo, nella realtà, al chiamare). Proprio la proiezione del congiuntivo presente nel futuro rende impropria *”Ti ho chiamato perché tu verrai”, anche perché la congiunzione perché seguita dall’indicativo viene interpretata come causale, non finale. Infatti la frase potrebbe anche essere possibile con una interpretazione causale: ‘ti ho chiamato a causa del fatto che so già che tu verrai (perché sei costretto o simili)”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quale soluzione consigliate tra le due segnalate:
“Può darsi che il medico, quando ti sottopose all’ecografia, non abbia visto / avesse visto la ciste”.

 

RISPOSTA:

Dipende dal significato ricercato: non abbia visto… quando ti sottopose mette i due eventi sullo stesso piano; non avesse visto… quando ti sottopose antepone l’evento del vedere a quello del sottoporre. Nel primo caso, quindi, si suppone, dal punto di vista semantico, che il non vedere sia stato il risultato (involontario) del sottoporre; nel secondo caso, al contrario, il non vedere deve essere non collegato al sottoporre (si dà, cioè, l’idea che il medico abbia sottoposto la persona all’ecografia senza aver prima visto la ciste, quindi per altre ragioni).
Si badi che in questo caso il tempo della proposizione temporale è dettato non dalla consecutio temporum, ma dal senso espresso autonomamente dai tempi verbali coinvolti: un passato in dipendenza da un passato = contemporaneità del passato; un passato in dipendenza da un trapassato = un evento successivo a un altro nel passato (ovvero uno precedente a un altro nel passato). Il tempo verbale nella proposizione temporale, infatti, risponde a ragioni semantiche, non sintattiche. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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QUESITO:

La costruzione “non mi esprimerei in termini (tanto) emotivi quanto professionali” equivale a “non mi esprimerei tanto in termini emotivi quanto in termini professionali”?
È una soluzione ragionevole per evitare la ripetizione della locuzione in termini?
Sia nel primo sia nel secondo esempio – dunque, in generale – la congiunzione tanto è omissibile?

 

RISPOSTA:

La costruzione tanto in termini… quanto in termini non è equivalente a in termini tanto… quanto.
Nel primo caso abbiamo una correlazione negativa, che contrappone due possibilità contrastanti: ‘non mi esprimerei in termini emotivi; mi esprimerei, piuttosto, in termini professionali’. Nel secondo caso, invece, abbiamo una correlazione positiva, che mette le due possibilità dalla stessa parte: ‘non mi esprimerei in termini né emotivi né professionali’.
L’omissione di tanto in entrambi i casi rende improbabile l’interpretazione positiva. Sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto professionali”, sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto in termini professionali” rappresentano la contrapposizione tra due possibilità contrastanti.
Di conseguenza, se, invece, si vuole presentare una correlazione positiva, è necessario mantenere tanto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Coerenza, Congiunzione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per sapere se l’analisi del seguente periodo è corretta:
“La storia che mi hai riferito ieri e che riguardava quel signore che abbiamo incontrato al ristorante non mi sembra sia veritiera, poiché devi avere frainteso di chi io ti stessi chiedendo informazioni per conoscere effettivamente la situazione”.
La storia non mi sembra = proposizione principale;
sia veritiera = subordinata oggettiva esplicita (1° grado);
che mi hai riferito ieri = subordinata relativa esplicita (1° grado);
e che riguardava quel signore = coordinata copulativa alla subordinata relativa di 1° grado;
che abbiamo incontrato al ristorante = subordinata relativa esplicita (2° grado) alla coordinata;
poiché devi avere frainteso = subordinata causale esplicita (2° grado);
di chi io ti stessi chiedendo informazioni = subordinata interrogativa indiretta esplicita (3° grado);
per conoscere effettivamente la situazione = subordinata finale implicita (4° grado).

 

RISPOSTA:

Va detto che la frase è arzigogolata e poco credibile. Considerando soltanto la forma, e non il senso, però, rilevo un paio di difficoltà. Il rapporto tra la principale e la completiva è più complesso di quello che sembri, perché è chiaro che la storia sia il soggetto della subordinata, non della principale. Se lo consideriamo soggetto della principale, infatti, la subordinata rimane monca, né sarebbe possibile reduplicare il sintagma: *La storia non mi sembra la storia sia veritiera. Pertanto, rimettendo in ordine gli elementi, riconosciamo che la costruzione sintattica soggiacente è non mi sembra (che) la storia sia veritiera. In essa, la principale è non mi sembra e (che) la storia sia veritiera è una soggettiva.
Un altro problema, solo nominale, riguarda e che riguardava quel signore, che va definita relativa coordinata; ne consegue che che abbiamo incontrato ieri sia subordinata alla relativa coordinata.
Il resto è corretto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi della seguente frase: “Non credevo che saresti arrivato in tempo, ma evidentemente c’era poco traffico e così non hai avuto problemi”.
Non credevo = principale.
che saresti arrivato in tempo = subordinata oggettiva (1° grado);
ma evidentemente c’era meno traffico = coordinata avversativa alla subordinata oggettiva;
e così non hai avuto problemi = coordinata conclusiva alla coordinata.
È corretto considerare la proposizione e così non hai avuto problemi come coordinata alla precedente coordinata avversativa?

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. Se, infatti, proviamo a escludere la prima coordinata (ma evidentemente c’era meno traffico), notiamo che la seconda non può collegarsi direttamente alla subordinata (*che saresti arrivato in tempo e così non hai avuto problemi) né alla principale (*non credevo e così non hai avuto problemi). Ne consegue che la seconda coordinata sia direttamente collegata alla prima coordinata e, attraverso questa, alle altre proposizioni.
Sottolineo che, per la precisione, la proposizione e così non hai avuto problemi non è conclusiva ma copulativa: la congiunzione, infatti, è e. Sarebbe conclusiva se mancasse la ecosì non hai avuto problemi. In quel caso, però, dovrebbe essere preceduta da una virgola, un punto e virgola o i due punti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per avere una delucidazione in merito all’analisi del seguente periodo:
“Non credevo che Marco e Francesco avrebbero preso seriamente in considerazione quanto era stato detto loro”.
Non credevo = principale.
che Marco e Francesco avrebbero preso in considerazione = subordinata oggettiva di 1° grado.
quanto era stato detto loro = subordinata dichiarativa di 2° grado.
È corretto considerare la proposizione quanto era stato detto loro come dichiarativa e non come oggettiva? Se in luogo dell’espressione prendere in considerazione vi fosse stato un verbo semplice (valutare o considerare), nell’analisi avrei classificato la subordinata come oggettiva.

 

RISPOSTA:

La proposizione quanto era stato detto loro è relativa. In questo caso, infatti, quanto equivale a ciò che. La proposizione rimane relativa anche cambiando il verbo reggente. Quanto può introdurre anche una interrogativa indiretta: non so quanto rimarrò; non può, invece, introdurre una oggettiva o una dichiarativa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è il preciso significato della locuzione in epoca storica, presente ad es. nella seguente frase: “Le lingue indoeuropee, diffuse in epoca storica in una vasta area geografica fra l’Irlanda e l’India, comprendono quasi tutte le lingue parlate oggi in Europa”?
Ho fatto varie ricerche sui dizionari, ma quest’espressione non è nemmeno citata. Ho fatto allora questo ragionamento: la Storia vera e propria inizia nel 3000 a.C. ca., quando termina la Preistoria; dunque, in epoca storica potrebbe significare ‘dal 3000 a.C. fino ad oggi’?
 

 

RISPOSTA:

Il suo ragionamento è corretto: in epoca storica si oppone a in epoca preistorica. Nella frase da lei portata ad esempio, si vuole sottolineare che la descrizione data della diffusione delle lingue indoeuropee vale per il periodo storico, mentre per il periodo preistorico la situazione potrebbe essere diversa.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi chiedo per cortesia di segnalarmi quali frasi delle seguenti coppie sono corrette, spiegandomi possibilmente perché.
1
– Dovresti pensare che sia finito.
– Dovresti pensare che fosse finito.

2
– Non riuscirei a trovare un’altra persona che sia così paziente.
– Non riuscirei a trovare un’altra persona che fosse così paziente.

 

RISPOSTA:

Stando alla consecutio temporum, il condizionale presente si comporta come l’indicativo presente, quindi regge il congiuntivo presente per l’espressione della contemporaneità, il congiuntivo passato o imperfetto per l’espressione dell’anteriorità, il congiuntivo presente o l’indicativo futuro per l’espressione della posteriorità. Le prime frasi di entrambe le coppie sono senz’altro corrette: nella prima il congiuntivo passato esprime l’anteriorità rispetto al presente dovresti, nella seconda il presente esprime contemporaneità rispetto a riuscirei. Il condizionale presente potrebbe reggere anche il congiuntivo trapassato: dovresti essere grato che io fossi arrivato prima che fosse troppo tardi. Come si vede, il trapassato si giustifica perché esprime un evento precedente a un altro evento passato. In teoria, anche la sua seconda frase della prima coppia potrebbe rientrare in questo modello, ma non trovo esempi credibili. Arduo anche trovare un contesto plausibile per la seconda frase della seconda coppia.
La reggenza del condizionale presente ha un’eccezione: nel caso di verbi che esprimono desiderio, aspirazione o necessità, il condizionale presente regge il congiuntivo imperfetto per l’espressione della contemporaneità. Per quest’uso rimando alla FAQ  Vorrei che tu.. dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Leggo stamane quanto scrive un quotato giornalista italiano in un articolo pubblicato su un giornale a diffusione nazionale: “La sinistra è insorta indignata e non so dargli torto”. Ora, sinistra è femminile, quindi il giornalista avrebbe dovuto scrivere non so darle torto. A meno che il giornalsta non intendesse non so dare torto a quelli di sinistra. Non saprei altrimenti come giustificare questo strafalcione di un giornalista da tutti considerato un vero intellettuale.

 

RISPOSTA:

La distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ è un caposaldo della norma grammaticale italiana contemporanea, sebbene sia molto comune, in contesti informali, usare gli per entrambi i generi. Non c’è dubbio che, in astratto, la sinistra vada pronominalizzato con le, ma, a difesa del giornalista, faccio notare che i pronomi personali luileiglile suonano un po’ male quando sono riferiti a entità non animate. Tra questi pronomi, poi, quelli più stridenti sono proprio quelli femminili, che ci si aspetta rimandino a referenti animati (ci si aspetta, cioè, che il genere coincida con il sesso). Pensi a quanto sia strana una frase come questa: “Non ho visto la porta e le ho dato una testata”. Di solito, il parlante tenta di evitare questa situazione, usando altri pronomi o modificando la frase. Nel mio esempio, potremmo risolvere il problema così: “Non ho visto la porta e ci ho dato una testata”, trattando la porta come un luogo. Con la sinistra non si può usare ci; si potrebbe usare non so dare torto a essa, che, però, suonerebbe artificioso. Ecco, allora, che il giornalista ha optato per quello che gli sembrava il male minore, ovvero gli, che è più accettabile (sebbene non ineccepibile) in riferimento a entità inanimate.
Così facendo, però, ha prodotto un errore per evitare una sbavatura. Per giunta, il referente la sinistra non è del tutto inanimato, quindi non so darle torto non stride troppo.
La sua interpretazione (gli = ‘a loro) è ingegnosa, ma, se anche il giornalista avesse inteso questo, la frase risulterebbe infelice, perché ambigua. Si potrebbe, però, cogliere il suo spunto e superare qualsiasi difficoltà così: “La sinistra è insorta indignata e non so dare torto ai suoi militanti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se dico la grande attenzione e passione con l’intento di rivolgere grande sia ad attenzione che a passione la frase è corretta?

 

RISPOSTA:

In un contesto informale la costruzione andrebbe bene; formalmente, però, l’aggettivo al singolare non può riferirsi a due nomi. Si dovrebbe, allora, riformulare l’espressione con le grandi attenzione e passione, oppure la grande attenzione e la grande passionela grande attenzione e l’altrettanto grande passione o simili.
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?

 

RISPOSTA:

L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare fortetenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunistamangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Spesso, specie durante la compilazione di richieste di chiarimenti e simili, ci si imbatte in costruzioni del tipo se sì in luogo di in caso di risposta affermativa. La scelta è corretta? E poi, per enunciare la condizione opposta, si può scrivere se no?
Ad esempio: “Sarebbe possibile parlare con la direzione? Se sì, la pregherei di indicarmi un referente. Se no, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.

 

RISPOSTA:

Le parole  e no sono definite profrasi, perché possono da sole sostituire intere frasi (come i pronomi sostituiscono i nomi):
– Vieni al cinema?
– Sì (= “Vengo al cinema”).
Le profrasi possono essere precedute da una congiunzione, ma con molte limitazioni: 
– le uniche congiunzioni ammesse sono se e perché (ricordo la canzone di Enzo Jannacci “Vengo anch’io / no, tu no / ma perché? / perché no”);
– se no è più comune di se sì (tanto che esiste la variante univerbata sennò, mentre non esiste *sessì).
Quando sono usate con una congiunzione, le profrasi, in quanto singole parole che sostituiscono intere frasi, diminuiscono la precisione espressiva e aumentano il rischio di ambiguità, quindi sono più adatte a contesti informali (come anche quando sono usate da sole). Nello stesso tempo, però, permettono di velocizzare la comunicazione, quindi sono apprezzate in contesti burocratici poco curati, come per esempio i contratti standard, i moduli di richiesta di informazioni da lei descritti e simili. Non si può dire, insomma, che sia scorretto usare se sì e se no in contesti come questi, ma è senz’altro una scelta trascurata. Nella frase da lei proposta, per esempio, espliciterei il primo caso, eliminando la domanda iniziale, e sostituirei se no con un’alternativa anche in questo caso più esplicita: “Se fosse possibile parlare con la direzione, la pregherei di indicarmi un referente. Se non fosse possibile, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

In un libro sulla tecnica di meditazione ho letto: “Non appena vi accorgete che state pensando, dovete dire tra voi pensiero“.
La domanda è questa: in questo contesto dire tra voi significa ‘nella vostra mente’ o ‘in silenzio’? Cioè per dire a sé stessi una parola, non è necessario dirlo esternamente quindi facendo sentire la parola ad altri?

 

RISPOSTA:

Il verbo dire può ben indicare l’atto del pensiero esplicito, nel quale la persona formula pensieri ben definiti, ma senza esternarli né vocalmente né per iscritto. Questo atto avviene sia nella propria mente, sia in silenzio.
Nell’espressione dite tra voi c’è un’altra possibile ambiguità. I pronomi personali sono tutti anche riflessivi, tranne lui / lei e loro, che diventano  nella forma riflessiva. Per questa ragione, i sintagmi tra noi e tra voi possono essere interpretati come reciproci o come riflessivi. Nel primo caso, una frase come dite tra voi “pensiero” significa ‘dite pensiero l’uno all’altro’ (evidentemente ad alta voce); nel secondo caso, la stessa frase significa ‘dite pensiero ognuno nella propria mente’ (evidentemente in silenzio).
In presenza di più di una persona, tra voi risulterebbe ambiguo tra queste due interpretazioni, ma nel caso specifico, relativo alla meditazione, l’interpretazione riflessiva è senz’altro quella corretta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Chiedo la cancellazione della seguente convinzione limitante che recita… e di tutte le memorie emozionali collegate”, e di tutte le memorie emozionali collegate è inserito dopo la recita della convinzione: la frase può essere comunque accettata?
 

 

RISPOSTA:

La costruzione è sintatticamente non ambigua: la proposizione relativa (che recita…) frapposta tra i due complementi di specificazione non impedisce di riconoscere che di tutte le memorie sia dipendente da la cancellazione.
Sebbene la sintassi sia chiara, però, va detto che non è facile per il lettore accettare il senso generale della frase; in assenza di contesto, direi che c’è qualcosa che non va nella sua stessa concezione.
Fabio Ruggiano 
 

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?

 

RISPOSTA:

Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo teneturbeati monoculi in terra caecorumcarpe diemest modus in rebusrisus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto dire “Non manca la professionalità e l’attenzione”? Forse va usato non mancano.

 

RISPOSTA:

Il soggetto della frase è la professionalità e l’attenzione, che è equivalente alla terza persona plurale; il verbo, pertanto, deve essere mancano.
L’accordo al singolare è ammissibile in un contesto di parlato informale; nello scritto, invece, è bene rispettare la regola.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Ho trovato questi suggerimenti in Internet; sono corretti?

Se devi scrivere un periodo composto dal solo discorso diretto, la punteggiatura va all’interno del dialogo. 
«Vado a fare la spesa.» 
«Vado a fare la spesa?»         
«Vado a fare la spesa!»
Vado a fare la spesa…»

Se il dialogo è introdotto da una frase, la punteggiatura a quel punto riguarderà la frase e non dovrà essere inserita all’interno del dialogo.                           
Mi disse: «Vado a fare la spesa».

In presenza di punto esclamativo, interrogativo o puntini di sospensione, all’interno del dialogo non bisogna mai aggiungere il punto esterno.               
Mi disse: «Vado a fare la spesa…»
Mi disse: «Vado a fare la spesa!»  
Mi disse: «Vado a fare la spesa?» 

Se il dialogo è inserito in un periodo più complesso, devi valutare se usare la virgola o no.
Mi disse: «Vado a fare la spesa», e prese la borsa.          
In questo caso, visto che all’interno delle caporali non c’è nessun segno di punteggiatura è necessario inserire una virgola prima della fine del periodo. In questi altri casi, invece, poiché all’interno del dialogo c’è un segno di punteggiatura non bisogna inserire una virgola all’esterno della caporale di chiusura.
Mi disse: «Vado a fare la spesa?» e prese la borsa.
Mi disse: «Vado a fare la spesa!» e prese la borsa. 
Mi disse: «Vado a fare la spesa…» e prese la borsa.

Se il dialogo è spezzato da un inciso bisogna seguire altre regole.
«Vado», disse, «a fare la spesa.»                     
In questo caso ciò che riguarda il dialogo vero e proprio, il punto, va messo all’interno delle caporali. Le virgole dell’inciso, poiché riguardano l’inciso stesso, restano fuori.
Se la virgola riguarda il dialogo vero e proprio rimane dentro alle caporali:
«Vado,» disse, «a fare la spesa.»
Nello stesso preciso modo si ragiona per quanto riguarda gli altri segni di punteggiatura:
«Vado?» disse. «A fare la spesa?» 
«Vado!» disse. «A fare la spesa.» 
«Vado…» disse. «A fare la spesa…»
In questi tre casi l’unica cosa che devi cambiare è la punteggiatura dell’inciso. Al posto della virgola va messo il punto.

 

RISPOSTA:

I suggerimenti sono ragionevoli, ma più rigidi del dovuto. In questo campo diverse scelte sono ugualmente giustificabili e non si può separare nettamente il corretto dallo scorretto.
Una questione discutibile è l’interazione tra i segni interni alle virgolette e quelli esterni. Da una parte è legittimo evitare la ripetizione, ma dall’altra la ripetizione può essere utile. Un caso in cui la ripetizione è giustificata è il seguente: “Mi disse: «Vado a fare la spesa!», e prese la borsa”. La virgola fuori dalle virgolette segnala che e prese la borsa è un’unità informativa diversa rispetto a quella che contiene il discorso diretto. In particolare, le interazioni più utili sono quelle tra ?! (che chiamo punti intonativi) all’interno delle virgolette e qualsiasi altro segno fuori dalle virgolette: i punti emotivi, infatti, servono a veicolare una particolare modulazione del discorso diretto, mentre gli altri segni servono a segmentare il testo nel quale è inserito anche il discorso diretto, quindi riguardano un piano diverso. Se, invece, il discorso diretto termina con una virgola o un punto fermo, questi si possono tranquillamente inserire all’esterno delle virgolette e quindi riferire a tutto il testo, evitando la ripetizione.
Un caso possibile, ma raro, è il seguente: “«Vado a fare la spesa.», e prese la borsa”, nel quale il punto fermo serve a segnalare la perentorietà dell’affermazione, non a chiudere l’enunciato; in questo caso, quindi, il punto fermo è usato come se fosse un punto intonativo, quindi vige la riflessione fatta sopra su questo tipo di punteggiatura.
Un’altra questione discutibile è quella degli incisi, che possono essere separati dal discorso diretto in molti modi diversi ma ugualmente validi. Faccio notare che nei suoi esempi non ci sono incisi, perché la frase termina con il punto fermo. Si parla di inciso quando la proposizione o il sintagma divide in due una proposizione o un sintagma, ovviamente all’interno di un sola frase; per questo motivo l’inciso non può essere preceduto o seguito dal punto fermo, ma viene, invece, racchiuso tra due virgole, due trattini lunghi, due parentesi (raramente due punti e virgola).
Nei seguenti esempi osserviamo alcune delle possibilità per segnalare l’inciso che fa da cornice di un discorso diretto:
«Vado» disse «a fare la spesa?».
«Vado», disse, «a fare la spesa». 
«Vado… – disse – a fare la spesa…».
– Vado – disse – a fare la spesa.
Possibili anche:
«Vado,» – disse – «perché sono stanco».
«Vado, – disse – perché sono stanco».
«Vado,» disse «perché sono stanco». 
In questi casi la virgola va riferita al solo discorso diretto e non al testo in generale. Questi sono gli unici casi in cui può essere utile inserire un segno di punteggiatura intermedio (il trattino) fuori dalle virgolette dopo un segno di punteggiatura non intonativo all’interno delle virgolette. In ogni caso, comunque. eviterei una sequenza del genere, pure in astratto lecita: «Vado,», disse, «perché sono stanco». 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Tema e rema
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QUESITO:

Ho un dubbio in merito alla frase che segue: “A meno di necessità specifiche da parte tua che potrai fare presenti…”; è corretto declinare al plurale presenti?

 

RISPOSTA:

Certo: presenti concorda con necessità (come specifiche), che è femminile plurale. Essendo un aggettivo a due uscite, una (presente) per il singolare, una (presenti) per il plurale, il genere del nome con cui concorda non conta: necessità presenti / alunni presenti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nei numeri composti con uno è possibile o obbligatorio il troncamento: ventun ventuno libriventunventuno o ventuna ragazzeventun ventuno aulecentunocentouno o cento uno ragazze?
Il numero ordinale, inoltre, come si forma? centounesimo o centunesimocentoduesimo o centoundicesimo,
millesimo primo o milleunesimo?

 

RISPOSTA:

I composti di uno sono invariabili: ventuniventuna ventune non esistono. Il troncamento, o apocope, con questi composti è possibile, ma non obbligatorio: ventuno libri ma anche ventun libriventuno ragazze ma anche ventun ragazzeventuno aule ma anche ventun aule. La forma non apocopata è la più frequente nell’italiano contemporaneo, soprattutto davanti a parole femminili inizianti per aventuno aule è molto più comune di ventun aule.
Diversamente dall’apocope, l’elisione con questi numerali è impossibile: *ventun’amici o *ventun’amiche sono forme scorrette. 
Quando nei numerali composti oltre il cento si incontrano due vocali, queste si mantengono: centounomilleuno ecc., persino se sono uguali: centootto. Al contrario, al di sotto di cento la prima vocale cade: ottantunoottantotto ecc. Per il numerali cardinali oltre il mille, inoltre, è possibile la forma mille e uno (mille e due…), accanto a milleuno (milledue…). Al di sopra di un milione, la forma separata diviene l’unica possibile: un milione e uno. Nelle forme in cui è separato dal resto, uno si accorda anche al femminile: mille e una stella (o milleuno stelle), un milione e una stella.

Anche per gli ordinali, le vocali si mantengono al di sopra di centocentounesimo (e ovviamente centoduesimo), centoundicesimo ecc. Al di sopra di millesimo gli ordinali divengono rarissimi; le forme ufficiali, comunque, sono milleunesimomilleduesimo ecc.
La forma alternativa degli ordinali, composta dall’ordinale che indica la decina, il centinaio  o il migliaio seguito da quello che indica le unità, è possibile per tutti i numeri oltre il diecidecimoprimodecimosecondocentesimoprimomillesimoprimo ecc. Si può scrivere sempre anche staccata: decimo primo ecc. 
Queste forme, che corrispondono alla traduzione delle cifre romane (MI = millesimoprimo), sono usate in contesti molto formali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questa frase dobbiamo inerire il pronome diretto, o siccome si tratta di una costruzione passiva non ci vuole? “In questa citta ci sono dei programmi la visita dei quali non (la) si può perdere”.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nella prima frase è equivalente a la visita dei quali non può essere persa; il sintagma la visita, pertanto, è il soggetto della relativa, e non può essere ripreso con un pronome diretto (che serve a riprendere il complemento oggetto). La ripresa del sintagma con il pronome diretto si può fare se interpretiamo la relativa come impersonale, non passiva. In questo caso il sintagma nominale ha la funzione di complemento oggetto: la visita dei quali non si può perdere, o, con la ripresa pronominale, la visita dei quali non la si può perdere
La doppia interpretazione, impersonale e passiva, della forma del verbo costruita con il pronome si è possibile quando il sintagma nominale che funge da soggetto o da complemento oggetto è singolare; quando è plurale, invece, si propende sempre per il passivo (quindi senza la possibilità di riprendere il soggetto con un pronome): le visite dei quali non si possono perdere = le visite dei quali non possono essere perse.
La costruzione impersonale, anche se rara, è possibile anche al plurale: le visite dei quali non si può perdere. In questo caso, la ripresa è molto favorita: le visite dei quali non le si può perdere.
Si consideri che la ripresa pronominale è una possibilità sintattica marcata, adatta al parlato o allo scritto informale, ma non a contesti formali; la forma standard rimane la visita dei quali non si può perdere
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Se una donna fa un regalo ad un uomo, si dice “lei le ha regalato” oppure “lei gli ha regalato”?

 

RISPOSTA:

La forma oggi corrente e considerata corretta è lei (soggetto) gli (‘a lui’) ha regalato qualcosa. Il pronome atono (o particella pronominale) le, invece, sta per ‘a lei’. 
Fino a qualche decennio fa, inoltre, si sarebbe detto ella gli ha regalato qualcosa, ma il pronome soggetto di terza persona ella è ormai disusato e adatto soltanto a contesti estremamente formali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è la forma giusta di queste frasi?
1. Necessita / necessiti cambiare il parabrezza della tua auto (forma impersonale).
2. La si è fatta / si è fatto la composizione (forma passiva al passato).
3. Lo si sono fatti…
Bisogna, insomma, concordare il participio con il soggetto? 
4. Quando (non avere) ________________ la febbre alta e il mal di gola, è meglio non prendere antibiotici.
In questa frase bisogna usare non si ha o non si hanno?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase si deve scegliere necessita, perché la forma impersonale è sempre la terza singolare. L’altra forma, necessiti, non sarebbe sbagliata, ma non è impersonale: assume come soggetto tu. Va detto che il verbo necessitare è raro e usato quasi esclusivamente con il complemento oggetto (“Quel palazzo necessita una ristrutturazione”, ma anche “Quel palazzo necessita di una ristrutturazione”); quando il complemento diretto è rappresentato da una proposizione (di tipo soggettivo) si preferisce c’è bisogno di o è necessario.
Nella seconda frase l’accordo del participio con il complemento oggetto, la composizione, è obbligatorio se interpretiamo il verbo come passivo. In questo caso, però, la composizione è il soggetto e non può essere ripreso con un pronome diretto. Il pronome si può usare se interpretiamo il verbo come impersonale, e quindi la composizione ne è il complemento oggetto. Si noti che, senza il pronome, il verbo impersonale diviene invariabile, quindi si è fatto la composizione.
In conclusione, la frase può prendere queste forme: 1. la si è fatta la composizione (il verbo non è passivo, bensì impersonale e la composizione è complemento oggetto); 2. si è fatto la composizione (il verbo è impersonale, senza pronome di anticipazione); 3. si è fatta la composizione (il verbo è passivo e la composizione ne è il soggetto).
Lo stesso vale per la terza frase. Lo si sono fatti è impossibile (come anche li si sono fatti); possibili forme sono li si è fatti e si è fatto (con il verbo impersonale) e si sono fatti (con il verbo passivo, equivalente a sono stati fatti).
Nella quarta frase, la forma verbale più comune è non si hanno, perché la febbre alta e il mal di gola sono il soggetto della frase equivalente (molto improbabile nell’uso): “Quando la febbre alta e il mal di gola non sono avuti”. Possibile, ma raro, anche non si ha, con il verbo impersonale, quindi invariabile.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Riporto parte del testo di una canzone famosa: “Se solo avessi le parole, te lo direi, anche se mi farebbe male”. È corretto dire “farebbe male” nel contesto della frase?
 

 

RISPOSTA:

È corretto se la proposizione in cui il verbo è inserito è interpretata non come una subordinata concessiva, ma come una giustapposta a te lo direi. In altre parole, qui anche se è non una congiunzione subordinativa, ma un segnale discorsivo che introduce un enunciato sintatticamente coordinato al precedente, o anche del tutto autonomo. La frase, quindi, dovrebbe essere scritta così: te lo direi; anche se mi farebbe male, o anche te lo direi. Anche se mi farebbe male
Se, invece, la proposizione fosse una subordinata concessiva, la frase dovrebbe essere te lo direi anche se mi facesse male (oppure te lo direi, anche se mi facesse male). Si noti, però, che la frase così costruita presenterebbe una situazione poco credibile: difficilmente, infatti, qualcuno potrebbe rappresentare come possibile (anche se mi facesse male), invece che concreta (anche se mi farebbe male) una reazione del tutto prevedibile come il proprio dolore. La frase avrebbe pienamente senso, invece, se la concessione possibile riguardasse la reazione di un’altra persona, per esempio te lo direi anche se tu non provassi gli stessi sentimenti per me.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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QUESITO:

 

Chiedo il vostro contributo per definire i criteri da adottare per creare il giusto rapporto tra i termini quest’ultimostesso (e relative declinazioni in genere e numero) e i rispettivi antecedenti.
Nel brano “Valentina aveva guardato la TV, Sara aveva studiato e Martina aveva deciso di riposarsi, dato che si sentiva stanca. Io, durante il turno di lavoro, avevo dovuto affrontare diversi problemi e, tra l’uno e l’altro, avevo chiamato quest’ultima”, il termine quest’ultima può essere fatto risalire a Martina, nonostante il soggetto in questione sia, per così dire, lontano nel testo?
Secondo esempio: “L’impaginazione consiste nella definizione di due margini laterali, uno superiore e uno inferiore, nell’impostazione di un’interlinea di 1.5 pt e di una finestra centrale recante la denominazione. Il salvataggio della stessa dovrà essere eseguita nel rispetto delle suddette disposizioni”. Qui stessa si riferisce a finestraimpaginazione o denominazione? Il termine stessa, affinché ne sia comprensibile l’antecedente, ha l’obbligo di riferirsi all’ultimo soggetto o complemento?
In generale, quali sono le regole da seguire – se esistono – per non incorrere nel rischio di essere fraintesi da eventuali lettori?

 

RISPOSTA:

Nel primo caso, la distanza dell’antecedente dal punto in cui deve essere inserita la forma anaforica rende consigliabile la ripresa piena; bisogna, quindi, riprendere il sintagma nominale pieno Martina. Eventualmente, se Martina fosse identificabile in altri modi, specificati altrove nel co-testo, potrebbe essere usata la perifrasi corrispondente. Ad esempio, se Valentina e Sara fossero adolescenti e Martina una bambina, al posto di Martina potrebbe essere usato il sintagma la piccola (non la bambina, che potrebbe far pensare a un ulteriore referente, diverso da quelli nominati prima).
A sconsigliare quest’ultima non è l’ambiguità di questa forma pronominale, che è, invece, molto precisa, anche perché mancano altri potenziali referenti, essendo Martina effettivamente l’ultimo oggetto femminile singolare nominato prima dell’anafora. Quest’ultima è straniante perché questa rimanda a un referente molto vicino, mentre Martina si trova ben distante. Potremmo eliminare questa, lasciando soltanto l’ultima, ottenendo una coesione soddisfacente; l’aggettivo ultimo, però, raramente è usato con funzione referenziale senza il pronome questo e il lettore rischia di credere che chiamare l’ultima possa essere un qualche genere di espressione idiomatica. 
Il secondo caso è un po’ diverso: di certo non si può usare la stessa, che è adatto a riprendere l’ultimo referente nominato (quindi, qui, denominazione). Per riprendere l’impaginazione in questo contesto, però, la forma migliore è non la ripetizione del sintagma, ma l’espressione il suo salvataggio; l’aggettivo possessivo, infatti, è perfetto per riprendere un soggetto divenuto, nella proposizione o nel periodo successivi, un complemento di specificazione. Lo stesso si potrebbe fare, per la verità, anche cataforicamente: “Il suo profumo era già percepibile; la primavera stava per arrivare”.
Si noti, a margine, che eseguita deve diventare eseguito, perché concorda con il salvataggio.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sviluppare l’argomento della coesistenza di diversi tempi verbali all’interno di costruzioni le cui frasi sono indipendenti dal punto di vista sintattico, benché sussistano dei legami logici tra l’una e l’altra. I tre periodi seguenti sono corretti?
1. “Già nel 2001 egli aveva avuto un grosso problema di salute, che aveva risolto in tempi ragionevoli. Poi, due anni fa, si è sentito di nuovo male. Adesso sta cercando di contattare alcuni specialisti che possano aiutarlo a rimettersi in sesto”.
2. “Mi convinsi a concedergli facoltà di replica. In un secondo momento, ripensadoci, ho cambiato idea”.
3. (In questo caso, a differenza dei precedenti, c’è un rapporto di subordinazione tra le proposizioni). “Ti chiamerò al numero di telefono che mi avevi dato l’ultima volta che ci siamo incontrati”.
Inoltre, per determinare le azioni anteriori, è preferibile il passato remoto (esempio 2) o uno dei trapassati (esempio 1)?

 

RISPOSTA:

I brani sono corretti. I passati, l’imperfetto, il presente, il futuro semplice sono tempi deittici, che indicano se l’evento è avvenuto nel passato, nel presente, nel futuro. Questi tempi, quindi, sono autonomi  
l’uno dall’altro, ovviamente in periodi distinti, ma anche in un contesto coordinativo o subordinativo, se descrivono eventi situati in momenti diversi del tempo: “Anche se ieri ho studiato tanto, ora ho paura per l’interrogazione perché da questa dipenderà la mia media finale”. 
Difficilmente giustificabile è l’uso del passato remoto e del passato prossimo nella stessa frase, perché i due tempi rappresentano gli eventi in modi diversi, quasi del tutto incompatibili. In due periodi diversi, per quanto consecutivi, l’alternanza può essere possibile; nel suo secondo brano, per esempio, mi convinsi può ben rimanere ancorato al passato, mentre ho cambiato si proietta verso il presente.
Per chiamerò e ci siamo incontrati del terzo brano valgono le osservazioni fatte sopra. Per quanto riguarda avevi dato, ricordo che i trapassati e il futuro anteriore sono tempi anaforici: indicano che l’evento è avvenuto prima di un altro evento, a sua volta passato, nel caso dei trapassati, o futuro, nel caso del futuro anteriore. Per usare il trapassato, quindi, serve un altro evento passato che faccia da riferimento. Nella sua frase tale evento non è esplicitato, infatti la frase potrebbe essere costruita anche con hai dato al posto di avevi dato. L’uso del trapassato non è automaticamente sbagliato, però, ma può dipendere dalla presenza, nel co-testo (nella parte di testo precedente a quella qui riportata) o nella memoria dei due interlocutori, di un evento che fa da riferimento; per esempio: “Ti chiamerò al numero di telefono che mi avevi dato l’ultima volta che ci siamo incontrati, prima che ci perdessimo di vista“.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Le espressioni anche se e come se possono, in taluni casi, accettare il condizionale passato? Se la risposta è affermativa, potrei sapere quando?
Porto alcuni esempi alla vostra attenzione.
1) Ero sicura di farcela, anche se mi avrebbero osteggiato.
2) Era vestita di tutto punto, come se il giorno dopo si sarebbe dovuta mostrare al suo pretendente
(Scrivendo dovesse o fosse dovuta presentare, potrei comunque indicare posteriorità?).
Da una parte, il condizionale nella mia mente suona infatti compatibile con la posteriorità dell’azione espressa, dall’altra sarei propensa a impiegare il congiuntivo (trapassato o imperfetto), specie nel secondo esempio in cui non si potrebbe sospettare l’anteriorità dell’azione grazie alla preposizione dopo, pur se si usasse il trapassato.

 

RISPOSTA:

Il condizionale, presente e passato, è compatibile con anche se soltanto se la proposizione da esso introdotta non è subordinata, bensì giustapposta, e quindi anche se non è un connettivo ma un segnale discorsivo.
Nella sua frase 1, per esempio, anche se mi avrebbero osteggiato è sullo stesso piano di ero sicura, un po’ come se dicesse ero sicura, ma mi avrebbero osteggiato. Si noti che, in questo caso, alla virgola si preferisce il punto e virgola (o anche il punto): ero sicura di farcela; ma mi avrebbero osteggiato.
Se, invece, la proposizione è una subordinata concessiva, allora non ammette il condizionale, ma soltanto il congiuntivo o, al presente, anche l’indicativo: “Ero sicura di farcela, anche se mi avessero osteggiato”, “Sono sicura di farcela, anche se mi osteggiano / osteggeranno / osteggiassero “.
Il connettivo come se non ammette il condizionale in nessun caso, perché la proposizione comparativa ipotetica è più strettamente ipotetica, quindi subordinata, della concessiva. Per questo la sua frase 2 non è mai corretta, ma richiede sempre il congiuntivo. Il tempo del congiuntivo da usare dipende dal grado di probabilità dell’evento del mostrarsi: l’imperfetto implica che esso sia probabile; il trapassato che esso sia improbabile, se non impossibile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Qualche giorno fa ho sentito durante un servizio televisivo, questa frase: “Le nostre abitudini devono continuare come se niente fosse, anche se in un momento come questo ci fanno stare PIÙ MALE del solito”.
Vorrei sapere se l’espressione in lettere maiuscole è corretta; io avrei utilizzato PEGGIO del solito, ma vorrei capire se e perché è corretta la forma utilizzata dalla giornalista.

 

RISPOSTA:

Troviamo esempi letterari di più male almeno dal Cinquecento: “E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n’erano contrari, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto più male diremmo quando fossimo fuor di quella” (Giovan Battista Ramusio, Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez, ca. 1557). Si noti che, comunque, qui più male si giustifica perché riprende anaforicamente male appena precedente.
Quasi tutti gli esempi di più male fino a oggi figurano all’interno delle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male. Queste espressioni sono parzialmente cristallizzate, come delle unità polirematiche (sentirsi male = soffrire), per cui è innaturale, ma non per questo sbagliato, modificarle sostituendone una parte, male, con un’altra del tutto diversa, peggio. Nel caso di sentire male ‘provare dolore’, invece, male è un sostantivo, quindi non può essere graduato (non si può dire *sento peggio).
Di là da queste espressioni, non ho trovato esempi diastraticamente alti di più male. Non si può escludere che ce ne siano, ma si tratta comunque di un uso marginale.
Parzialmente significativi sono gli esempi, pure rari (per esempio in Pasolini), di stare sempre più male, perché qui più si confonde tra i sintagmi sempre più e più male. Il solo stare più male, senza sempre, del resto, appare spesso in espressioni come non voglio stare più male, nelle quali più è certamente unito a stare, non a male. Esiste ovviamente anche stare più male con il significato di ‘stare peggio’, ma si tratta di un uso informale.
In conclusione, nelle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male la forma più male è accettabile anche in contesti di media formalità. In stare più male va considerata poco formale; in altri casi, va considerata trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Storia della lingua
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QUESITO:

Gradirei sapere come sia corretto scrivere la frase: “Eravate tutti paesani miei e non l’ho sapevate”.

 

RISPOSTA:

L’ortografia della frase è non lo sapevateL’ho è uguale a lo ho, ma il verbo avere in questa frase non può essere inserito, visto che c’è già il verbo sapevate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il correttore mi ha mandato nel pallone: mi suggerisce di sostituire stavano con stava. Chi ha ragione?
È meglio assopendo facendo assopire nella seguente frase?

Il leggero movimento del vagone, il rumore ritmato e lo scorrere del paesaggio fuori dai finestrini stavano  facendo assopire (assopendo) i viaggiatori e, dopo pochi minuti di viaggio, anche Marco cedette al dolce arrivo della sonnolenza.

 

RISPOSTA:

Vista la presenza di più soggetti singolari (il leggero movimentoil rumore ritmatolo scorrere del paesaggio), il verbo richiesto è di sesta persona, perciò stavano. Il correttore digitale ha spesso difficoltà a riconoscere i soggetti multipli.
Sulla scelta del gerundio deve pesare il genere (transitivo o intransitivo) del verbo assopire. Dal momento che il verbo è transitivo, esso non necessita della perifrasi fattitiva (fare + infinito) per essere completato dal complemento oggetto; può, al contrario, reggere direttamente il complemento oggetto: stavano assopendo i viaggiatori
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le proposizioni principale e secondaria collegate da finché debbono essere costruite con lo stesso tempo verbale, oppure, per sottolineare lo stacco tra le due azioni, se ne possano selezionare due distinti?
Elenco il primo gruppo di esempi in cui ho incrociato i tempi del passato remoto e del trapassato prossimo (tra parentesi ho inserito anche la variante del trapassato remoto che, in teoria, non dovrebbe differire dal precedente sul piano dei rapporti temporali in oggetto).
1. Avevamo camminato (Avemmo camminato) finché non raggiungemmo la meta. 
2. Camminammo finché non raggiungemmo la meta.
3. Camminammo finché non avevamo raggiunto (avemmo raggiunto) la meta.

Ecco il secondo gruppo:
4. Cammino finché non ho raggiunto la meta.
5. Cammino finché non raggiungerò la meta.
6. Cammino finché non avrò raggiunto la meta.
7. Cammino finché non raggiungo la meta.

 

 

RISPOSTA:

Il modo e il tempo richiesti da finché sono stati oggetto di diverse risposte consultabili nell’archivio di DICO: in particolare rimando alla FAQ  “Avrei aspettato finché…” e alla FAQ  “Fino a che” con il condizionale?.
Nelle sue frasi, inoltre, il soggetto della subordinata è lo stesso della reggente, e questo induce a preferire la costruzione implicita: avevamo camminato camminammo fino a raggiungere la meta (ma anche fino ad aver raggiunto la meta); cammino fino a raggiungere la meta (o cammino fino ad aver raggiunto la meta). 
Immaginando, comunque, due modelli di frasi con i soggetti delle subordinate diverse da quelli delle reggenti, e considerando soltanto il modo indicativo (per l’alternanza con il congiuntivo rimando alle risposte sopra citate), le varianti di frasi da lei proposte sono tutte corrette, con qualche precisazione.
Finché consente di rappresentare l’evento descritto come contemporaneo a quello della reggente (“camminerò finché le gambe mi reggono / reggeranno”). L’anticipazione dell’evento rispetto alla principale risulta meno felice, ma non impossibile: “camminerò finché le gambe mi avranno abbandonato”; “camminammo finché la metà era stata raggiunta”. 
L’anticipazione dell’evento rispetto a quello della principale è molto più plausibile con il connettivo finché non (quello da lei usato): “camminerò finché le gambe non mi avranno abbandonato”; “camminammo finché la metà non era stata raggiunta”. Anche in questi casi, comunque, la contemporaneità rimane una scelta corretta: “camminerò finché le gambe non mi abbandonano / abbandoneranno”; “camminammo finché la metà non fu raggiunta”. 
L’aggiunta di non rende più legittima l’anticipazione perché rafforza la seguente equivalenza: camminammo finché non = smettemmo di camminare dopo che, quindi camminammo finché la metà non era stata raggiunta = smettemmo di camminare dopo che la metà era stata raggiunta.
Si noti che l’evento della subordinata introdotta da finché non può essere contemporaneo o anteriore a quello della reggente, non posteriore. Non dovrebbe essere possibile, pertanto, costruire la frase come nell’esempio 1, che contiene tempi coordinati in modo opposto. L’esempio si può giustificare soltanto sul piano testuale, se le due proposizioni sono enunciati separati: “Avevamo camminato tanto. Finché non raggiungemmo la meta”. Con questa costruzione, ovviamente, l’identità dei soggetti non crea nessun problema; in questo caso, però, finché non è non una congiunzione sintattica, ma un segnale discorsivo, o connettivo testuale, o connettore. 
Nel secondo blocco di esempi, infine, si noti che il presente non può che avere sempre funzione di futuro (cammino = camminerò). La congiunzione finché (non), infatti, proietta automaticamente l’azione della reggente nel futuro, anche quando il verbo al suo interno è al passato: camminammo finché =  passammo un certo tempo a camminare finché
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vi scrivo a proposito dell’aggettivo grande: quando è obbligatorio e quando è facoltativo il troncamento di questo aggettivo? 

 

RISPOSTA:

L’apocope, o troncamento, di grande è uno dei due casi di apocope sillabica esistenti nell’italiano moderno (l’altro è san(to) Tommaso). Si può realizzare, ma non è obbligatoria, davanti alle parole che cominciano per consonante semplice: gran / grande velocitàgran grande signore, anche plurali e femminili: gran / grandi lettorigran / grandi lettrici.
La forma gran è obbligatoria soltanto in alcune espressioni cristallizzate, come a gran vocedi gran lungaun gran cheuna gran cosagran partegran premio e qualche altra. Per questo motivo, quando viene usata può far assumere al sintagma un significato figurato; per esempio: grande signore = ‘persona dalle doti eccezionali’ / gran signore ‘persona che vive spendendo molto’. 
Davanti a parole che cominciano per consonante complicata (sc-st-ps-gn-) e z- si usa grandegrande scempiogrande strategagrande psicologogrande zaino.
Davanti a parole che cominciano per vocale si usa ancora grande oppure la forma elisa grand’grand’uomo, grand’affare, grand’effetto. La forma elisa può essere usata soltanto al singolare; al plurale è obbligatoria la forma piena grandigrandi affarigrandi effetti. Soltanto grand’uomo ammette il plurale grand’uomini (comunque raro), perché questa espressione è cristallizzata, tanto che si può scrivere anche granduomini
Fabio Ruggiano
Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Retorica
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QUESITO:

Vorrei chiedere dove e come potrei attingere informazioni per capire quando è possibile usare l’espressione e non, come nella frase “Si è servito di strumenti tecnologici e non”.

 

RISPOSTA:

L’avverbio non si usa davanti al sintagma o la frase negata dall’avverbio stesso. In alternativa, può essere usato davanti a un inciso, seguito dal sintagma o la frase negata: “Mario ha 40 anni e non, come lui sostiene, 36”.
Quando, invece, la negazione riguarda il sintagma precedente si usa no
L’espressione e non è usata comunemente, nel parlato e nello scritto, anche al posto di e no. La ragione di questo uso è che il parlante suppone che non sia comunque seguito dal sintagma precedente sottinteso; per esempio: tecnologici e non (tecnologici). Si tratta di una possibilità non necessaria, vista la presenza di e no, ma, visto che è di uso comune, può essere accettata in contesti informali; in contesti formali e ufficiali, invece, è preferibile la forma normale.
Si consideri che la sostituzione di e no con e non è impossibile quando a essere negata è una frase o un verbo: “Vieni o no al cinema?” (*”Vieni o non al cinema?”); “Quello lo conosco, quell’altro no” (*”Quello lo conosco, quell’altro non”).
Una breve illustrazione dell’alternanza tra no e non è nel volume Italiano di Luca Serianni, Milano, Garzanti, 1997, p. 352.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Quale versione della seguente frase è preferibile? 
1. “Il ragazzo si è servito di strumenti tecnologici e non in modo corretto”;
2. “Il ragazzo si è servito di / degli strumenti, tecnologici e non, in modo corretto”.

 

RISPOSTA:

Ci sono diversi modi per rendere non ambigua questa frase. Innanzitutto bisogna fare una piccola correzione: l’espressione e non non è corretta; si dice e no, perché non richiede l’esplicitazione del sintagma o della frase negati (per esempio tecnologici e non tecnologici). Con questa correzione, entrambe le versioni della frase (nella seconda degli strumenti va preferito a di strumenti) risultano chiare. La 2, con l’inciso, mette in secondo piano il tipo di strumenti, facendo risaltare l’uso corretto che è stato fatto degli strumenti. Nella 1, invece, si definisce corretto l’uso proprio degli strumenti tecnologici e no.
Ancora meglio, comunque, sarebbe chiarire quali siano questi strumenti non tecnologici, per esempio: tecnologici e cartacei (ma non posso essere preciso perché non so di quali altri strumenti si è servito il ragazzo). Un’ulteriore alternativa sarebbe si è servito delle TIC e degli strumenti analogici (ma, anche qui, dovrei sapere di quali strumenti si sta parlando).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale
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QUESITO:

La forma nulla ha che vedere è scorretta giusto? Si dice nulla a che vedere?

 

RISPOSTA:

L’espressione comune è nulla a che vedere, che, tra l’altro, richiede il verbo avere, per esempio: non ha nulla a che vedere con me
In caso di dubbi sulla distinzione tra la preposizione a e il verbo ha, un trucco risolutivo è cambiare il tempo del verbo, per esempio: nulla aveva che vedere. In questo modo si capisce se l’espressione ha senso con il verbo oppure no (come in questo caso) e quindi la parola da inserire è la preposizione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In quali casi possono coesistere in una frase imperfetto e passato remoto? In questo caso va bene?

Là, viveva Suor Teresa, una religiosa conosciuta in parrocchia, che da anni lavorava (lavora) in una struttura religiosa per ragazze madri, della quale lei era la Superiora. Carmela aveva instaurato un buon rapporto con la suora e avendo conservato il suo numero di telefono la contattò.

 

RISPOSTA:

Nel suo brano ci sono due frasi, e in nessuna di esse ci sono sia l’imperfetto sia il passato remoto. La prima frase è tutta all’imperfetto, la seconda contiene un trapassato prossimo e un passato remoto.
In ogni caso, l’alternanza tra imperfetto e passato remoto, o anche passato prossimo, è una risorsa non soltanto lecita, ma addirittura fondante della narrazione. Tale alternanza può avvenire al livello del testo, come nel suo brano, che è corretto, o anche nella stessa frase: “Quando l’ho incontrata nevicava”.
In un racconto si usa tipicamente l’imperfetto per descrivere lo scenario nel quale hanno luogo le azioni dei personaggi, descritte con i passati momentanei, remoto o prossimo.
Per quanto riguarda la sostituzione di lavorava con lavora, è possibile, se la suora lavora ancora nella struttura religiosa al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) Ho il dubbio che possa essere scappato / sia scappato.
2) Sospetto che Tizio possa averci ingannato / ci abbia ingannato.

In tutti questi esempi (e immagino che se, al posto di dubbio e sospetto ci fossero stati timorepaura oppure verbi della sfera soggettiva quali, ad esempio, supporreipotizzare ecc., la questione non sarebbe stata differente) il verbo servile potere è facoltativo, ridondante o preferibile? Ho l’abitudine di usarlo in frasi che ricalcano lo schema descritto; tuttavia, non sono certa di essere nel giusto.
Indipendentemente dal servile, le frasi completive costruite con i sopraccitati sostantivi ammettono anche il condizionale in luogo del congiuntivo? Mi è capitato di trovare in un romanzo un periodo del tipo.

3) […] Ora avresti il dubbio che potrebbe aver sofferto.

Non sarebbe stato più indicato possa?

 

RISPOSTA:

Il verbo potere seguito da infinito aggiunge una sfumatura semantica, ovviamente di potenzialità, al verbo retto. Non si può, pertanto, giudicare necessario se non in relazione alle intenzioni comunicative dell’emittente. Certo, in alcuni casi la sfumatura sembra ridondante, perché è già contenuta in altre forme della frase; i suoi esempi 1 e 2 sono casi di questo genere, in cui la potenzialità è già espressa sufficientemente da dubbiosospetto o simili. La ridondanza, però, non è sempre un difetto nella comunicazione umana: girare intorno al concetto, modulare le espressioni, usare più di un congegno di distanziamento sono strategie della cortesia, cioè del meccanismo di protezione sociale che i parlanti applicano per mantenere buoni rapporti reciproci. In altre parole, è possibile (ma bisogna valutare caso per caso) che la ridondanza, semanticamente inutile, serva, comunicativamente, a rafforzare la posizione di incredulità dell’emittente rispetto all’evento.
Per quanto riguarda la frase 3, entrambe le forme, potrebbe e possa, sono possibili. Se non c’è una ragione specifica per l’uso del condizionale, il congiuntivo è la soluzione più formale. Nel parlato (e nella simulazione scritta del parlato), però, non capita spesso di ricercare la formalità, e ci si adatta alle forme più immediate, anche se possono essere un po’ imprecise.
In questo caso, il condizionale è facilitato dalla reggenza condizionale, che attrae nello stesso modo il verbo retto. C’è, inoltre, da considerare che il condizionale configura la proposizione retta come in parte autonoma rispetto alla reggente; se togliessimo ora avresti il dubbio, infatti, potrebbe aver sofferto potrebbe sostenersi da sola; al contrario, il congiuntivo è il modo della subordinazione, che vincola senza alternative la subordinata alla reggente (possa aver sofferto non può reggersi da sola): per questo motivo è preferito nello scritto, che consente di costruire sintassi complesse, ed evitato nel parlato, nel quale la sintassi tende alla semplicità e alla frammentarietà.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quante e quali forme sono valide?
Le donne rammendavano la biancheria fino a che
1a) arrivassero
1b) fossero arrivate
1c) sarebbero arrivate alla quantità desiderata.

 

RISPOSTA:

La forma migliore non è tra quelle elencate: “Le donne rammendavano la biancheria fino ad arrivare alla quantità desiderata“. L’identità di soggetto tra la subordinata e la reggente induce a preferire decisamente la forma implicita della subordinata. Scarterei tutte le altre. Possibile anche la nominalizzazione: “Le donne rammendavano la biancheria fino al raggiungimento della quantità desiderata“.
Nel caso in cui non ci fosse identità di soggetto (per esempio “Le donne rammendavano la biancheria fino a che la quantità…”), le opzioni valide sono le prime due: 
a. fino a che la quantità (non) fosse raggiunta
b. fino a che la quantità (non) fosse stata raggiunta.
Ho sostituito il verbo arrivare con raggiungere perché arrivare non si può volgere al passivo.
L’imperfetto rappresenta il raggiungimento come un processo in corso mentre le donne rammendavano; il trapassato lo rappresenta come avvenuto, osservando la scena dal punto di vista del processo già concluso.
Il condizionale passato (fino a che la quantità sarebbe stata raggiunta) è impedito dalla congiunzione fino a che (o finché) perché proietta il punto di vista verso il futuro rispetto a un momento nel passato, mentre la congiunzione è fortemente ancorata allo svolgimento del processo. L’unico caso in cui fino a che può essere seguito dal condizionale passato è se è retto da una proposizione con il condizionale passato: “Disse che avrebbe continuato fino a che la guerra (non) sarebbe stata vinta”. Anche in questo caso, comunque, è preferibile fino a che la guerra (non) fosse stata vinta (o fosse vinta). 
In un contesto informale, infine, il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo: fino a che la quantità (non) era raggiuntafino a che la quantità (non) era stata raggiunta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Ci sono un tavolo e una sedia”, oppure “C’è un tavolo e una sedia”?
“Ci sono una camera, un bagno e un salotto” oppure “C’è una camera, un bagno e un salotto”.

RISPOSTA:

In entrambe le frasi il soggetto è rappresentato da più di un elemento (nella prima un tavolo e una sedia), nella seconda una camera, un bagno e un salotto). Il verbo, pertanto, deve andare al plurale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?

 

RISPOSTA:

Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Ti avrei scritto solo una volta che avessi letto tutto”?

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista sintattico non ci sono errori nella costruzione. Una volta che si comporta come se, quindi tutta la frase segue il modello del periodo ipotetico della irrealtà. 
L’unica debolezza della frase è nella coreferenza: il soggetto di avessi letto è ambiguo, perché potrebbe essere sia io sia tu. Per convenzione, nel caso del congiuntivo presente o imperfetto è obbligatorio esplicitare il soggetto pronominale di seconda persona: “Ti avrei scritto solo una volta che tu avessi letto tutto”, mentre si può lasciare implicito se si tratta della prima persona: “Ti avrei scritto solo una volta che (io) avessi letto tutto”. Se si vogliono evitare equivoci, però, è consigliabile esplicitare il soggetto anche se si tratta della prima persona.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

nelle frasi riportate di seguito la specificazione del soggetto, oltre che indispensabile per la determinazione della persona singolare, è corretta in italiano o è sconsigliabile se non in contesti informali?
Non ho avuto paura, ma non perché io sia un eroe.
Non è che io voglia criticarla.
Non so che cosa io possa aver fatto.

 

RISPOSTA:

Rilevo intanto che se la specificazione fosse indispensabile, come lei presuppone, non potrebbe essere anche sconsigliabile: sarebbe una contraddizione. In ogni caso, tale specificazione non è né indispensabile né sconsigliabile. Nel caso del congiuntivo presente, l’identità delle tre forme del singolare (io siatu sialui sia) rende necessario specificare il soggetto, ma per convenzione l’obbligo riguarda soltanto la seconda persona, mentre la prima e la terza si possono esplicitare se necessario per la chiarezza. Per l’imperfetto, nel quale la confusione può avvenire tra la prima e la seconda persona (io fossitu fossilui fosse), l’obbligo vale, ugualmente, soltanto per la seconda persona.
Pur non essendo indispensabile, comunque, la specificazione del soggetto pronominale di prima persona nelle sue frasi non è affatto sconsigliabile, né marcata come informale. Il soggetto può sempre essere espresso, anche quando non sia strettamente necessario, per esprimere un’opposizione rispetto ad altri possibili soggetti. Nella sua prima frase, per esempio: non perché io sia un eroe sottolinea che altri potrebbero essere eroi; non perché sia un eroe mancherebbe di questa sfumatura contrastiva. Lo stesso vale per le altre frasi: io voglia criticarla lascia intendere che l’emittente sappia che altri la criticano, o potrebbero criticarla (non esclude, cioè, che una critica le possa essere mossa); io possa aver fatto, ugualmente, suggerisce che altri possano aver fatto qualcosa.
L’unico caso in cui è sconsigliabile ribadire il soggetto pronominale, anche se si vuole dare una sfumatura contrastiva (che, quindi, deve essere espressa in altro modo), è quello in cui nel co-testo o nel contesto siano presenti due o più referenti potenzialmente forici del pronome (quindi per forza di terza persona). Ad esempio, nella frase “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi lui tornò a casa” lui non può essere Luca, ma può essere Andrea oppure un altro referente nominato prima (ma in quest’ultimo caso la costruzione sarebbe ambigua e dovrebbe essere riformulata). Se, invece, si intende dire che Luca sia tornato a casa bisogna lasciare il soggetto della coordinata implicito: “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi tornò a casa”. Se, infine, si vuole sottolineare l’opposizione tra l’azione di Luca e quella di Andrea si può scrivere: “Luca accompagnò Andrea alla macchina quindi tornò a casa, mentre Andrea no” (o simili).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Penso che non ce la faccia”;
“Penso che non ce la farebbe”.

Vorrei fare una riflessione sull’alternanza congiuntivo-condizionale nelle completive. Se non vado errato, tali subordinate possono ammettere, in generale, entrambi i modi (con l’aggiunta dell’indicativo, che però non intenderei contemplare in questa sede). Il congiuntivo, in scritti di formalità alta o medio-alta, è da preferire.
Dal mio punto di vista, il condizionale ha però il vantaggio di porre in rilievo una condizione sottintesa che il congiuntivo di norma tenderebbe a trascurare.
In altre parole, il condizionale, in dati contesti, mi pare che consenta di tratteggiare una semantica più precisa, con una correlazione tra causa ed effetto; a differenza del congiuntivo, più propenso invece verso contenuti assoluti.
Recuperando l’esempio di partenza:
“Penso che non ce la faccia” può apparire come un’affermazione senza riferimenti esclusivi a una situazione implicita specifica.
“Penso che non ce la farebbe (anche se dovesse provare a disputare la gara)”.
Gradirei conoscere il vostro parere su questa mia riflessione, che non vuole avere pretese di carattere linguistico. Mi permetto infine di domandarvi se, anche quando vi sia una condizione sottintesa (come quella indicata sopra tra parentesi) possa essere adottato il congiuntivo nella completiva, oppure sia suggerito il condizionale.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda l’alternanza tra congiuntivo e indicativo fa bene a preferire il congiuntivo in questa costruzione, ma non escluderei, in un contesto trascurato, “Penso che non ce la fa”.
Per quanto riguarda il condizionale, invece, questo modo, proprio come arguisce lei, data la sua funzione di modo della condizionalità, implica la presenza di una condizione. In altre parole, usando il condizionale si lascia intendere (sempre che non lo si esprima esplicitamente) che l’evento descritto possa avvenire a patto che ne avvenga un altro, che ne rappresenta la condizione, appunto. Questa condizione è espressa di norma con il congiuntivo e può prendere la forma di una proposizione concessiva (come nel suo esempio), oppure di un complemento concessivo, oltre che di una proposizione condizionale.
Ingiustificata sarebbe una frase come “Penso che non ce la faccia anche se provasse”, perché la concessiva non sarebbe ben collegata con la reggente, di cui dovrebbe rappresentare la condizione. Si potrebbe giustificare soltanto nel parlato come costruzione fatta di due enunciati, il secondo dei quali fosse ellittico: “Penso che non ce la faccia // Anche se provasse (non ce la farebbe)”.
Non mi spingerei a giudicare il condizionale più preciso del congiuntivo perché implica una condizione: direi, piuttosto, che questo modo assolve a una specifica esigenza espressiva, diversa da quella del congiuntivo. Del resto, il fatto che il condizionale richieda un completamento mentre il congiuntivo veicoli un contenuto autosufficiente potrebbe indurre a ritenere quest’ultimo più preciso del primo. Ma, ripeto, etichette come preciso o impreciso sono ambigue quando sono applicate a forme linguistiche e non ci aiutano a usarle correttamente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Nella frase “Ha seguito un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana (,) conseguendo buoni risultati” è necessario inserire la virgola prima del gerundio?

 

RISPOSTA:

La virgola è facoltativa e influisce sul senso generale della frase. Senza la virgola, la frase risulta un’unità informativa unica, con il focus sul conseguimento di buoni risultati; con la virgola, l’unità informativa viene separata in due focus, la frequenza del corso, con una sua importanza autonoma, e il conseguimento di buoni risultati, ugualmente rilevante.
Sottolineo che il sintagma alfabetizzazione della lingua italiana non è ben formato, sebbene sia piuttosto diffuso nello “scolastichese”. La diffusione di questa espressione è dovuta al suo depotenziamento semantico, che la assimila a insegnamento della lingua italiana o, in modo ancora più approssimativo, a apprendimento della lingua italiana.
Ovviamente, c’è una sostanziale differenza tra insegnamento e alfabetizzazione, mentre davvero impossibile è confondere l’alfabetizzazione, che procede dall’insegnante verso l’apprendente, con l’apprendimento, che procede al contrario.
Soprattutto, però, il nome alfabetizzazione ha un comportamento sintattico particolare. Come il verbo alfabetizzare non può reggere il complemento oggetto dell’ambito del processo (nessuno direbbe mai *alfabetizzare la lingua italiana), ma può reggere il complemento oggetto del destinatario del processo (alfabetizzare gli stranieri), così il nome derivato dal verbo, alfabetizzazione, non ammette il complemento di specificazione dell’ambito, della lingua italiana, mentre ammette il complemento di specificazione del destinatario: “La scuola deve farsi carico dell’alfabetizzazione degli stranieri”.
Questa restrizione riguarda tutti i verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base nominale:
– sponsorizzare una squadra (non *sponsorizzare un contributo per le magliette) e sponsorizzazione di una squadra (non *sponsorizzazione di un contributo per le magliette); 
– parcellizzare gli sforzi (non *parcellizzare le piccole quantità) e parcellizzazione degli sforzi (non *parcellizzazione delle piccole quantità); 
– categorizzare i propri amici ‘dividere in categorie’ (non *categorizzare le classificazioni) e categorizzazione dei propri amici (non *categorizzazione delle classificazioni);
ecc.
Come si vede, questi verbi indicano la realizzazione della propria base: alfabetizzare ‘insegnare l’alfabeto’, sponsorizzare ‘attribuire un finanziamento’ ecc.; non possono, quindi, ammettere un complemento oggetto che ribadisca la base: *alfabetizzare la lingua italiana ‘insegnare l’alfabeto la lingua italiana’. I nomi derivati da questi verbi, come appunto alfabetizzazione, trasferiscono al complemento di specificazione questa restrizione relativa al complemento oggetto.
I verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base aggettivale si comportano esattamente al contrario, perché indicano la qualità che apportano al complemento oggetto: estremizzare la tensione ‘far diventare la tensione estrema’ (estremizzazione della tensione), realizzare un progetto ‘far diventare un progetto reale’ (realizzazione di un progetto), concretizzare le idee ‘far diventare le idee concrete’ (concretizzazione delle idee), ufficializzare una decisione ‘far diventare una decisione ufficiale’ (ufficializzazione di una decisione) ecc.
Alfabetizzazione della lingua italiana deve essere, quindi, evitato. Alfabetizzazione si può tranquillamente lasciare senza specificazione, oppure accompagnare con l’aggettivo linguistica (alfabetizzazione linguistica) o, al limite, con un complemento di limitazione: alfabetizzazione in lingua italiana
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome, Tema e rema, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice la telefono o le telefono?

 

RISPOSTA:

Bisogna ricordare che il verbo telefonare è intransitivo: io telefono a qualcuno (non *io telefono qualcuno). Il pronome, pertanto, deve essere le ‘a lei’ (e, ugualmente, mitiglicivigli o loro o a loro).
La confusione è dovuta senz’altro alla sovrapposizione di chiamare, che, invece, è transitivo e infatti regge laio la chiamo, ma io le telefono.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

«Non voglio tormentarti,» si scusò Marco, «però, mi sono chiesto spesso se fosse corretto sostenere, come qualcuno fa, che i figli dei genitori single, dei separati o divorziati crescono meglio e più responsabilmente di quelli che vivono in una famiglia tradizionale. Tu cosa pensi?»

 

RISPOSTA:

Sul versante della punteggiatura, la virgola dopo tormentarti vale sia per il discorso diretto (non voglio tormentarti, però…) sia per la cornice («Non voglio tormentarti», si scusò Marco, «però,…). Sarebbe antieconomico e razionalistico inserire una doppia virgola («Non voglio tormentarti,», si scusò Marco, «però,…), ma consiglio di far prevalere il segno relativo alla cornice, quindi: «Non voglio tormentarti», si scusò Marco, «però,…
Diverso il caso del punto interrogativo, che va per forza inserito dentro le virgolette e può essere seguito da altri segni relativi alla cornice. Alla fine, quindi, scriverei Tu cosa pensi?». (con il punto fermo fuori dalle virgolette).
La domanda finale, per la verità, sarebbe espressa meglio se fosse completata con un complemento di argomento: tu cosa ne pensi?, oppure tu cosa pensi di questo argomento / tema / del mio dubbio? o simili, per sottolineare che si sta chiedendo il parere su un argomento specifico, quello introdotto subito prima della domanda. Senza il pronome la domanda perde di coesione, perché non è collegata all’argomento introdotto. Ovviamente qualunque interlocutore sarebbe in grado di riferire la domanda a quanto detto prima, quindi la coerenza non è a rischio, ma la mancanza dell’elemento coesivo rende meno felice il passaggio.
Aggiusterei anche l’elenco dei genitori single, dei separati o divorziati inserendo la preposizione anche davanti all’ultimo membro, per simmetria: dei genitori single, dei separati o dei divorziati. Ancora meglio sarebbe togliere la preposizione articolata dal secondo membro: dei genitori single, separati o divorziati. In questo modo separati e divorziati non sono sostantivati e rimangono correlati con single, tutti concordati con il primo genitori.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Mi trovo a combattere con la seguente struttura: “La informiamo come beneficiare dei vantaggi” senza la preposizione su.
Vorrei sapere se posso considerarla una struttura errata e quindi correggerla. Sospetto variante regionale del Ticino e purtroppo non ho trovato nulla finora su grammatiche e dizionari.

 

RISPOSTA:

Alcuni verbi di dire o pensare non reggono il complemento oggetto della cosa, eppure reggono comunque la proposizione oggettiva con che. Per esempio, ti informo dell’arrivo di Maria = ti informo che è arrivata Mariapenso all’esame di domani = penso che domani dovrò sostenere l’esame. Questa possibilità è garantita dalla congiunzione che, per sua natura capace di svolgere funzioni diverse, anche contemporaneamente, tanto da rendere difficile definirla (si pensi al che pseudorelativo di una frase scissa, come è di lui che ti parlavo, o al che a metà tra congiunzione e pronome di una frase come devo fare la revisione, che mi è scaduta).
Sulla scorta della reggenza diretta della completiva introdotta da che, anche l’interrogativa indiretta tende a essere costruita senza preposizione. Se, però, la congiunzione che ammette senz’altro la reggenza diretta (e non prevede alternative), le congiunzioni, gli avverbi, i pronomi e gli aggettivi interrogativi la tollerano meno, rendendo costruzioni come ti informo come devi fareti informo quando devi venireti informo perché non va bene ecc. ancora oggi adatte soltanto al parlato e allo scritto informale. 
La tendenza alla semplificazione della costruzione sintattica su questo versante non è legata a una regione, ma è panitaliana. Vero è, però, che il modello del tedesco potebbe favorirla; in tedesco, infatti, il verbo informieren, che regge la preposizione über, equivalente all’italiano su, davanti a un sintagma nominale, ammette la reggenza senza preposizione dell’interrogativa indiretta. Si vedano i seguenti esempi, tratti da contesti scritti (on line) di media formalità: “Wir informieren Sie wann Sie es in der Apotheke abholen können” (letteralmente ‘Vi informeremo quando potete ritirarlo in farmacia”); “Wir informieren Sie wie und in welchem Umgang Daten gespeichert werden” (letteralmente ‘Vi informeremo come e in che modo vengono archiviati i dati’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto e leggibile questo brano?

Già! Il famoso sesto senso delle madri. Carmela a volte vi faceva ricorso, in altre circostanze ne era vittima e questo la rendeva un’anima sempre in pena, tormentata dalla sua stessa sensibilità; frutto anche del forte vincolo naturale che la univa ai suoi grandi amori, che nemmeno il taglio del cordone ombelicale era riuscito a spezzare. Acuta osservatrice di ogni variazione nell’umore, nello sguardo, nell’espressione del volto e nel linguaggio del corpo delle figlie, Carmela viveva con ansia anche il più piccolo segnale d’allarme. Quando le attività extrasensoriali e il dialogo non le bastavano a calmare ansia, sensazioni negative e stato di massima allerta, si lasciava tentare da metodi che, in altro contesto, sarebbero stati giudicati deprecabili: come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio. Metodi da considerare pericolosi se scoperti; non certo ortodossi e consigliabili ma classificabili fra le cose sbagliate messe in atto a fin di bene. Così Carmela viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni e ne aveva ben donde; a breve avrebbe capito il perché.

 

RISPOSTA:

Il brano è certamente leggibile e corretto. Un punto debole potrebbe essere il contrasto tra il condizionale passato sarebbero stati giudicati e la scelta del presente nella porzione successiva: “come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio”. Il condizionale passato lascia credere che i metodi siano stati effettivamente messi in pratica dal personaggio, quindi ci si aspetta che costei origliasse quando i figli parlavano e cercasse risposte che avrebbero potuto dissipare i dubbi. Il passaggio al presente, invece, descrive i metodi in generale. Consiglio di sostituire sarebbero stati giudicati con sarebbero giudicati se il personaggio non mette in pratica i metodi, oppure i presenti evidenziati con i passati indicati sopra se, invece, i metodi sono stati messi in pratica.
Un’altra sbavatura riguarda alcune scelte lessicali: l’aggettivo pericoloso non va bene se collegato alla condizionale se scoperti. Il pericolo, infatti, coincide con la possibilità di essere scoperti e cessa di esistere se si viene scoperti. I metodi potrebbero essere dannosidalle conseguenze terribilicontroproducenti (o simili) se scoperti. Eviterei anche l’uso della parola generica cose in un contesto linguisticamente formale come questo. 
Nell’ultima frase, infine, bisogna inserire una virgola prima di e ne aveva ben donde, che introduce una informazione sullo stesso piano di viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni. Senza la virgola, invece, sembra che e ne aveva ben donde si unisca al sintagma strane sensazioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è la forma migliore per la seguente frase? “Sei la miglior persona che mi è / sia capitata”.

 

RISPOSTA:

La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo coinvolge il registro comunicativo: l’indicativo è più comune e meno formale; il congiuntivo più formale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Qualche anno fa, ho dovuto smettere di giocare a calcio perché sono rimasto coinvolto in un lieve incidente” è corretto l’uso del passato prossimo sono rimasto coinvolto o è necessario un altro tempo verbale, dal momento che credo si tratti di una subordinata.

 

RISPOSTA:

Il verbo sono rimasto coinvolto (considero coinvolto parte del verbo, sebbene sia a metà strada tra la funzione di verbo e quella di aggettivo predicativo) si trova senz’altro all’interno di una subordinata, per la precisione causale; questo, però, non determina alcun obbligo riguardo al tempo da usare. La proposizione causale richiede il modo indicativo, ma dell’indicativo si possono usare tutti i tempi, a seconda del rapporto che l’evento all’interno della proposizione ha con l’evento descritto nella reggente. In questo caso, l’evento della reggente (ho dovuto smettere di giocare) è passato ed è successivo rispetto a sono rimasto coinvolto (prima sono rimasto coinvolto, poi ho dovuto smettere): questo rapporto richiederebbe l’uso di un trapassato prossimo nella causale, quindi perché ero rimasto coinvolto in un lieve incidente.
Il trapassato è la scelta più precisa, ma il rapporto reciproco tra gli eventi può anche essere trascurato, “appiattendo” entrambi su un unico piano del passato. Questa scelta, meno precisa, ma più semplice da realizzare, e comunque corretta, dà come risultato la costruzione da lei proposta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente affermazione quale pronome si usa? “Ho visto Lisa a pranzo e gli / le ho detto di venire stasera”.

 

RISPOSTA:

Dal momento che il complemento di termine è femminile (= a Lisa), si usa le. Il pronome gli si riferisce, invece, a nomi maschili.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per esporvi la confusione generatami dalla voce Proposizioni temporali dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani curata da Federica Da Milano. Qui ( http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi-temporali_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/) l’ autrice scrive la seguente frase “Per quanto riguarda l’espressione della posteriorità (l’azione espressa dalla subordinata è posteriore a quella della reggente), nelle temporali esplicite si utilizza la locuzione congiuntiva prima che“; viceversa per l’anteriorità la subordinata è introdotta da dopo che, sempre secondo l’autrice della voce. In pratica è il capovolgimento di quello che mi è sempre sembrato di leggere dalle grammatiche – e che sulla stessa Treccani si trova a un’altra voce dedicata alle temporali (qui http://www.treccani.it/enciclopedia/proposizioni-temporali_%28La-grammatica-italiana%29/).

 

RISPOSTA:

Per quanto possa sembrare controintuitivo al primo sguardo, la voce dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani è corretta. Si noti il seguente esempio: “Prima che Luca arrivasse ci stavamo divertendo”; è chiaro che il divertimento era in corso prima rispetto all’arrivo di Luca, quindi la subordinata introdotta da prima che contiene un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Lo stesso, ma al contrario, vale per la temporale introdotta da dopo che. In altre parole, nella locuzione prima che (e, specularmente, in dopo che), l’avverbio prima fa parte della reggente e il che introduce la temporale (ci stavamo divertendo prima / che tu arrivassi). 
Scorretta, invece, è la spiegazione della seconda fonte da lei citata, che lascia intendere il contrario.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È sbagliato dire una persona che vogliamo bene? Inoltre, si dice a cui vogliamo bene o cui vogliamo bene?

 

RISPOSTA:

Per essere sicuri di quale funzione sia svolta dal relativo basta fare la prova della reggenza sostituendolo con un pronome personale: nel nostro caso che vogliamo bene diventa le vogliamo bene (non la vogliamo bene), oppure vogliamo bene a lei (non vogliamo bene lei).
Nell’italiano contemporaneo si sta diffondendo il cosiddetto che relativo non flesso, che sostituisce tutte le altre forme del relativo (ovvero cui preceduto da preposizione). Si tratta di un uso trascurato, accettabile soltanto in contesti molto informali e parlati. Per un approfondimento sulla questione si può leggere anche la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO.
Intercambiabili, invece, sono cui e a cui; la variante senza preposizione risulta più ricercata e quindi più formale, quella con preposizione è più comune e comunque valida in tutti i contesti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Questa frase è giusta? “Delle ragazze ci sono in classe”.

 

RISPOSTA:

La frase delle ragazze ci sono in classe è costruita male: con c’è e ci sono il soggetto va messo dopo il verbo, quindi ci sono delle ragazze in classe (o anche in classe ci sono delle ragazze).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Come distinguere le relative limitative dalle esplicative? 
Per me nella seguente frase la relativa può essere di tutti e due i tipi:
“Ho parlato con il meccanico che / il quale mi ha detto che non riuscirà a riparare l’auto per giovedì”. Le seguenti, invece, mi sembrano tutte limitative: 
“La macchina….. è arrivata e una Ferrari”.
“Questo è il libro….. ho comprato ieri”.
“Abbiamo conosciuto delle ragazze….. sono simpatiche”.
“La ragazza….. ha telefonato poco fa è mia cugina”.

 

RISPOSTA:

Nel caso della frase del meccanico, l’interpretazione più ovvia della relativa è esplicativa. Nella frase, infatti, l’emittente racconta di aver parlato con il meccanico e aggiunge che cosa il meccanico gli ha detto.  La costruzione attesa, infatti, sarebbe “Ho parlato con il meccanico, che / il quale mi ha detto…” (con la virgola prima del pronome relativo).
L’interpretazione della relativa come limitativa è possibile, ma molto strana. Se la relativa fosse limitativa, infatti, l’emittente racconterebbe di aver parlato proprio con il meccanico che gli ha dato quell’informazione. In altre parole, la frase ha senso se la dividiamo in due parti: 1. ho parlato con quella persona; 2. quella persona mi ha detto... Ha meno senso se la interpretiamo come ho parlato con quella persona che mi detto…
Per quanto riguarda le altre frasi elencate, in tutte le relative sono sicuramente limitative.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se negli esempi sotto riportati sia preferibile adottare il congiuntivo passato o il congiuntivo imperfetto.
“Quando nacque suo figlio, pare che Alberto smettesse / abbia smesso di fumare”;
“Dopo che era nato suo figlio, pare che Alberto smettesse / abbia smesso di fumare”.
Tenderei a scartare l’imperfetto in quanto esso – se non vado errata – indica per così dire un’azione in svolgimento o ricorrente; tuttavia, relativamente al primo esempio, mi lascia un po’ perplessa l’accostamento passato remoto (nacque) e il congiuntivo passato (abbia smesso) per due azioni che dovrebbero essere contemporanee.
Perplessità che, personalmente, scompare nella seconda costruzione.

 

RISPOSTA:

I tempi del congiuntivo vanno considerati non in modo assoluto, ma in relazione ai tempi dei verbi da cui dipendono. In questo caso il verbo reggente (pare) è presente e l’evento dello smettere è anteriore a esso; stando alla consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al presente si esprime con il congiuntivo imperfetto o con il passato. La scelta tra i due tempi va fatta in base al tipo di azione: un’azione continuata sarà espressa all’imperfetto (ad esempio pare che Alberto fumasse); una momentanea (come quella di entrambe le sue frasi) sarà espressa al passato.
Va anche ricordato, comunque, che un’azione momentanea può essere espressa anche con l’imperfetto, per “rallentarla” nel tempo; ad esempio “Pare che il colera toccasse il suo culmine il 17 maggio 1850”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il congiuntivo passato può indicare anteriorità rispetto a un evento futuro e posteriorità rispetto all’enunciazione, rappresentando un’azione come se fosse certa e a suo modo definita, benché non ancora avvenuta? In altre parole, se il punto di vista dell’emittente è proiettato nel futuro, il congiuntivo passato – al pari del passato prossimo – è sintatticamente valido?
“Tra sei mesi mi accerterò se / che abbiano potuto sfrattarmi”.
(L’emittente saprebbe già che dal momento dell’enunciazione alla fine dei prossimi sei mesi sarà sfrattato).
L’emittente potrebbe inoltre disporre di alternative verbali in grado di sostituire il congiuntivo passato?

 

RISPOSTA:

Nella determinazione del tempo verbale da usare bisogna considerare il momento dell’enunciazione, che è sempre adesso, e il momento in cui avviene l’evento che dobbiamo esprimere. In alcuni casi, come quello da lei prospettato, a questi due momenti si aggiunge un terzo punto nel tempo, che chiamiamo momento di riferimento. In questi casi, il tempo verbale andrà armonizzato con quel momento, nel rispetto della consecutio temporum. Nella sua frase il momento di riferimento è quello in cui avviene l’accertamento: il tempo del verbo retto da mi accerterò, quindi, deve rispecchiare la relazione temporale con questo evento. Dal momento che l’evento dello sfratto (che sia effettivamente avvenuto o no) precede quello dell’accertamento, bisogna usare il tempo che esprime l’anteriorità rispetto al futuro, che è il futuro anteriore, quindi mi accerterò se / che avranno potuto sfrattarmi. In alternativa, è possibile assimilare il futuro al presente (cosa peraltro molto comune), selezionando il passato prossimo dell’indicativo (mi accerterò se / che hanno potuto sfrattarmi) o il passato del congiuntivo (la soluzione da lei proposta). Come si vede, nella scelta del tempo verbale il fatto che lo sfratto avvenga (o non avvenga) nel futuro è rilevante soltanto se scegliamo il futuro anteriore; se scegliamo il passato, invece, ciò che conta è soltanto la relazione di anteriorità tra il momento dello sfratto e quello dell’accertamento. 
Per quanto riguarda la scelta del modo, come di norma l’indicativo è meno formale del congiuntivo. Tra i due tempi dell’indicativo, inoltre, è il passato prossimo a essere meno formale, perché meno preciso del futuro anteriore.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:
Vorrei sapere se le frasi che elencherò qua sotto sono tutte corrette:
1. i miei amici devono venirmi a prendere.
2. I miei amici devono venire a prendermi.
3. I miei amici mi vengono a prendere.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette. La terza si discosta decisamente per la mancanza del verbo servile, mentre le prime due sono del tutto equivalenti.
Quando il verbo è accompagnato da un verbo servile e richiede un proonome clitico (in questo caso mi), quest’ultimo può essere inserito tanto in coda al verbo quanto in testa al gruppo formato da verbo servile più verbo. Quindi possiamo avere devono prendermi e mi devono prendere. Lo stesso avviene quando il verbo fa parte di una perifrasi aspettuale o un’espressione molto comune che si comporta come una perifrasi aspettuale (come venire a + infinito): vengono a prendermi / mi vengono a prendere. Nei suoi esempi, troviamo sia il servile dovere sia l’espressione venire a + infinito, per cui il pronome può trovarsi in tre posizioni diverse, formando le due versioni della frase da lei proposte e la seguente: mi devono venire a prendere
Tra le tre, la variante più formale è quella con il pronome unito al verbo. Suggerisco di leggere, in proposito, anche questa risposta  dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nell’analisi grammaticale un nome falso alterato può essere definito anche come primitivo? E un nome semplicemente alterato? I nomi in questione sono salvietta e musetto.

 

RISPOSTA:

I falsi alterati possono essere primitivi, come il suo salvietta (adattamento del francese serviette) o derivati con suffissi polifunzionali, come, per esempio, ciabattino, che non è una piccola ciabatta ma un artigiano che ripara le scarpe. Qualche problema di classificazione pongono i nomi formati per alterazione che oggi sono percepiti come primitivi, come bambino (da bambo + -ino) o cucciolo. Molti di questi sono nati con significati specifici, o li hanno assunti nel tempo, anche molto distanti da quelli dei nomi base: pinolopoltronalibrettocannonelunotto… 
A questi nomi possono applicarsi entrambe le etichette, a seconda che li si guardi in prospettiva storica o sincronica. Dal punto di vista morfologico, però, sono innegabilmente derivati. 
I nomi alterati, come musetto ‘piccolo muso’, sono, in quanto alterati, non primitivi. Ricordo che i suffissi alterativi non sono diversi dagli altri suffissi dal punto di vista morfologico: i nomi (ma anche gli aggettivi, gli avverbi e i verbi) alterati sono, pertanto, una sottocategoria dei derivati.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su questa frase: “La mia mamma è la più bella del mondo”. La più bella è superlativo relativo o assoluto?

 

RISPOSTA:

Superlativo relativo: lo si riconosce dalla forma (articolo + più + grado positivo dell’aggettivo) e dalla presenza del complemento partitivo (del mondo = ‘tra tutte quelle del mondo’). Proprio il complemento partitivo, che può essere esplicito o implicito, rende relativa (rispetto a un insieme) la qualità superlativa. Il superlativo assoluto ha forma diversa (bellissima oppure molto bella) e non è seguito dal complemento partitivo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Benché fosse sicuro che non ci sarebbe stato più nulla da fare, Luca aveva…”; è corretta questa frase?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il condizionale passato ci sarebbe stato rientra nella proposizione oggettiva dipendente dalla concessiva benché (lui / lei) fosse sicuro (ed è, quindi, subordinata di secondo grado).  In questa proposizione oggettiva, il condizionale passato esprime un evento futuro rispetto a un momento nel passato, ovvero, in questo caso, rispetto al momento in cui il soggetto era sicuro (espresso nella proposizione reggente). Sarebbe possibile sostituire ci sarebbe stato con ci fosse, perché il congiuntivo imperfetto esprime la contemporaneità nel passato rispetto all’evento della proposizione reggente. Con il congiuntivo imperfetto, quindi il fatto che non ci sia nulla da fare è rappresentato come contemporaneo (con una chiara proiezione nel futuro) alla sicurezza del soggetto, mentre con il condizionale passato questo fatto è decisamente futuro rispetto alla sicurezza.
L’evento dell’essere sicuro, a sua volta, è costruito con il congiuntivo perché questo modo è richiesto dalla congiunzione benché, all’imperfetto perché, come detto sopra, questo tempo del congiuntivo esprime la contemporaneità con un altro evento nel passato (qui l’altro evento è aveva della principale, da cui dipende sintatticamente fosse).
La proposizione principale della frase (Luca aveva…) è inserita alla fine. L’anticipazione della subordinata rispetto alla principale è piuttosto comune quando la subordinata è concessiva o condizionale, perché queste proposizioni contengono un’informazione (una condizione o una mancata condizione) da cui dipende l’informazione contenuta nella principale. In questo caso, quindi, l’ordine logico delle informazioni forza l’ordine sintattico standard del periodo (“Luca aveva… benché fosse sicuro che non ci sarebbe stato più nulla da fare”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo due costruzioni che mi è capitato di leggere:
1. Che futuro offriresti a tuo figlio, se, già prima che nasca, nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici?
2. Se domani non ti telefonassi, vorrebbe dire che avrei avuto un contrattempo.
Sono valide? Vi pongo, inoltre, un paio di interrogativi collaterali.
Esempio 1.
a) È possibile che la proposizione se nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici sottintenda sai giàsei certo che (se, già prima che nasca, sai già / sei certo che ci sarebbero problemi economici), trasformando di fatto la seconda metà della frase in una completiva?
b) Sarebbe possibile sostituire sarebbe con saranno?
Esempio 2.
c) Pur consapevole che cambierebbe la semantica della frase, avrei avuto potrebbe essere sostituito con avrò avuto o ho avuto?
d) Le tre soluzioni sarebbero applicabili anche se al posto di vorrebbe dire ci fosse vorrà dire?

RISPOSTA:

La frase 1 presenta il più classico degli errori di sintassi in italiano, la costruzione della protasi del periodo ipotetico della possibilità con il condizionale presente al posto del congiuntivo imperfetto. La frase corretta è che futuro offriresti… se nella tua famiglia ci fossero… Non è possibile supporre che ci sia una protasi sottintesa (sai giàsei certo o simili) da cui dipenda il condizionale: il ricevente non avrebbe alcun indizio circa l’esistenza di tale elemento implicito.
La frase 2 è possibile: il condizionale passato qui è attratto dal condizionale che lo regge (vorrebbe dire), ma indica semplicemente un passato. Può, quindi, essere sostituito da avrò avuto, nella sua funzione propria di futuro anteriore (perché il contrattempo è futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora, ma passato rispetto al momento in cui non ti risponderò), e anche dal passato prossimo ho avuto, che trascura il tratto del futuro e codifica soltanto il tratto del passato rispetto al momento in cui non ti rispondo. La minore precisione del passato prossimo rispetto al futuro anteriore rende quest’ultimo preferibile in una comunicazione formale. Sostituendo vorrebbe dire con vorrà dire, il condizionale diviene ingiustificato, mentre le altre due forme rimangono valide, con la stessa funzione e valenza diafasica.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio relativamente alla parola gelato. È un nome primitivo o derivato da gelo? In quest’ultimo caso come vanno considerati i nomi gelataiogelateriagelatiera ecc.: derivati anch’essi da gelo o da gelato?

 

RISPOSTA:

Gelato è il participio passato del verbo gelare ed è usato comunemente come aggettivo. È usato anche come nome, soltanto con il significato di ‘cono gelato’.
Etimologicamente, si potrebbe pensare che gelare derivi da gelo per suffissazione, ma il dizionario GRADIT ci ricorda che il verbo è stato accolto in italiano già formato, direttamente dal latino GELARE, indipendentemente da gelo, che continua il latino GELUM (o GELU). Esso è, pertanto, una parola primitiva. Una volta entrato in italiano, però, i parlanti lo hanno interpretato come derivato di gelo, tanto che ne hanno costruito la coniugazione sul modello dei verbi regolari della prima classe a partire dalla base (o tema) gel(o)-. Definirlo derivato di gelo, pertanto, non sarebbe un errore. Più precisamente si potrebbe definire pseudoderivato.
Per quanto riguarda gelataiogelatiera e gelatieregelateria, essi sono derivati di gelato, che infatti si riconosce alla base di tutte questa parole (gelat(o)-aio ecc.). Dalla base gelat(a)-, invece (femminile di gelato nel senso di ‘formazione di ghiaccio’), deriva gelatina. Da quest’ultima parola abbiamo avuto gelatinaregelatinizzaregelatinoso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È nata una diatriba in relazione alla seguente frase: “Abele fu vittima di una delle più comuni cause di odio: la gelosia”. Così com’è strutturata la frase, a quale conclusione si giunge, che l’odio è causato dalla gelosia, o la gelosia è causata dall’odio?

RISPOSTA:

Dalla frase si ricava che la gelosia causa l’odio.
Il termine causa rappresenta la ragione che produce una conseguenza, quindi il complemento di specificazione collegato a questo nome ne rappresenta la conseguenza. L’interpretazione di causa come conseguenza (la causa dell’odio = ‘la conseguenza prodotta dall’odio’) è piuttosto improbabile. La mancanza dell’articolo nel sintagma di odio non fa che rafforzare l’interpretazione più comune, perché costruisce l’espressione come cristallizzata (sulla relazione tra la perdita dell’articolo e la cristallizzazione di un’espressione si veda ad esempio la risposta 2800124 dell’archivio di DICO).
Potrebbe indurre in confusione l’esistenza della locuzione preposizionale a causa di, che, in effetti, apparentemente nega questa ricostruzione. Da una parte, infatti, abbiamo la causa dell’odio = ‘la ragione che produce l’odio’, dall’altro a causa dell’odio = ‘come conseguenza dell’odio’. La contraddizione, però, è apparente, perché anche all’interno della locuzione causa = ‘ragione che produce’: a causa dell’odio, infatti, significa ‘essendo l’odio la ragione scatenante’. Se volessimo adattare fedelmente la frase alla locuzione, quindi, dovremmo dire che a causa della gelosia nasce l’odio, non che a causa dell’odio nasce la gelosia.
L’ambiguita tra complemento di specificazione soggettivo e oggettivo si può manifestare in dipendenza da altri nomi, come paura (la paura dei soldati = ‘la paura provata dai soldati’, ma anche ‘la paura incussa dai soldati’); più spesso, però, essa è prevenuta dal significato del nome da cui dipende il complemento di specificazione (come nel caso di causa) o dal significato del nome all’interno del complemento di specificazione, come nel caso di preparazione dila preparazione della torta = ‘la preparazione che ha come conseguenza la torta’; la preparazione di Maria = ‘la preparazione svolta da Maria’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere se la frase con l’imperfetto va bene o sarebbe meglio con il trapassato: “Ieri alla radio ho sentito la canzone che ascoltavo / avevo ascoltato spesso tanti anni fa”.

 

RISPOSTA:

Sono possibili entrambi i tempi. L’imperfetto segnala che l’azione dell’ascoltare è avvenuta durante un certo periodo di tempo, di cui non si conosce la durata; il trapassato mette in evidenza che il periodo durante il quale era avvenuta l’azione era già concluso prima di ieri. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho dei dubbi su alcuni esercizi sui pronomi proposti da un sussidiario di scuola primaria, secondo me un po’ confusi…
Nella frase “Molte volte veniamo disturbati per nulla”, nulla ha valore di pronome indefinito o di avverbio?
Nella frase “Mia sorella ha quattordici anni, ma vorrebbe averne diciannove per andare all’università”, diciannove è pronome numerale pur essendoci la particella ne che già sostituisce il nome?
Nella frase “Siamo due fratelli: Gianni ha quattro anni, io ne ho il doppio”, doppio ha funzione di pronome numerale?

RISPOSTA:

Il problema della prima frase è dovuto forse all’ambiguità dell’espressione per nulla. Questa, infatti, può significare tanto ‘per motivi futili, senza una vera ragione’, quanto ‘affatto, assolutamente no’. Il significato inteso nella frase è certaemente il primo (visto che il secondo si usa quasi esclusivamente in frasi negative): in questo caso nulla è pronome indefinito, sostituibile con nessuna cosa. Nel secondo caso nulla sarebbe, per la verità, sempre un pronome indefinito, che, però, insieme alla preposizione per forma una perifrasi o locuzione avverbiale. In una frase come “Dimmi pure, non mi disturbi per nulla”, per esempio, per nulla significa letteralmente ‘per nessuna cosa, per nessuna ragione, in nessun modo’; partendo da questo significato, la perifrasi si è cristallizzata dinenendo a tutti gli effetti un avverbio. 
Nulla si può usare come avverbio anche senza per: “Non me ne importa nulla”; anche qui è chiara la funzione di partenza di pronome (= ‘non me ne importa nessun aspetto’), che si è cristallizzata trasformando la parola in un avverbio.
Per quanto riguarda i numerali, nella prima frase diciannove è un pronome, e la presenza di ne non cambia la sua natura. Si noti che lo stesso avviene con nulla (“Non me ne importa nulla“) e avverrebbe con qualsiasi altro aggettivo/pronome indefinito: ne vorrebbe avere alcuni
Nell’ultima frase, il doppio è ancora pronome numerale. In questo caso, il dubbio potrebbe essere se doppio non sia da considerarsi nome (non può essere, invece, aggettivo, visto che è preceduto dall’articolo e ha chiaramente la funzione di rimandare a un altro referente). La natura quasi nominale degli aggettivi che non accompagnano nomi è già stata discussa nella risposta n. 2800253 dell’archivio di DICO (ma si può vedere anche la 2800269).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho letto che per definizione gli aggettivi indefiniti indicano una qualità o una quantità imprecisata. Non riesco però a immaginare un esempio in cui un aggettivo indefinito possa esprimere una qualità. Ancor meno dopo aver letto l’esempio riportato dal sito che ho consultato: era alquanto difficile. Non si tratta di avverbio?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: gli aggettivi indefiniti non esprimono qualità, bensì caratteristiche legate alla quantità di un oggetto. Tale differenza si vede bene se confrontiamo l’aggettivo qualificativo diverso con l’aggettivo indefinito diverso (o, se vogliamo, l’uso qualificativo dall’uso indefinito dell’aggettivo diverso): 1. “I tuoi amici sono diversi dai miei” (= i miei amici hanno una certa qualità); 2. “Ho diversi amici a Genova” (= ho un numero imprecisato di amici). Ancora più chiara è la differenza nell’aggettivo certo: 1. “Sono certo della mia affermazione”; 2. “Ho una certa idea che tu mi stia mentendo”. Quando è usato come indefinito, certo significa ‘imprecisato’, che è per certi versi il contrario del significato assunto dall’aggettivo qualificativo.
Un’altra caratteristica degli aggettivi indefiniti è che alcuni possono essere usati come avverbi. Uno degli aggettivi con questa capacità è proprio certo: “Non è certo (= certamente) lui che stavo cercando”. Un altro è alquanto, che è, appunto, avverbio nella frase da lei riportata. Proprio alquanto, tra l’altro, al singolare è usato raramente, e soltanto con nomi non numerabili: alquanto zuccheroalquanto traffico; più spesso è usato al plurale (alquante personealquanti invitati). Ancora più spesso, invece, è usato come avverbio, per modificare un aggettivo, come nella sua frase, o un altro avverbio (alquanto velocementealquanto presto). 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Ognuno ha le sue idee, ma bisogna rispettare quelle altrui”, ognuno è un pronome; invece altrui che funzione ha? 

RISPOSTA:

Ha la funzione che gli è propria sempre nell’italiano moderno, ovvero quella di aggettivo possessivo. Anticamente era possibile usarlo anche come pronome, con il singificato di ‘qualcun altro’ o ‘a qualcun altro’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Recentemente mi è sorto un dubbio per quanto riguarda i punti e le virgole alla fine dei dialoghi. I casi sono i seguenti (alla fine di ogni frase vi è un capoverso):
1. «Sono curiosa, di cosa si tratta?», chiesi.
2. «Non sembro la moglie di un miliardario?».
3. «Interessante argomentazione» disse con tono solenne «Sono sicuro che farà faville durante la presentazione».
Nel primo caso il mio dubbio riguarda la virgola dopo le prime virgolette, la ritengo superflua, ma vorrei sapere se si tratta di un vero e proprio errore o se può essere usata a discrezione dell’autore.
Il secondo caso è una citazione da un romanzo edizione Newton, il mio dubbio riguarda il punto alla fine, vista la presenza del punto interrogativo: è corretto o no?
Terzo e ultimo caso, il punto alla fine fuori dalle virgolette e non dentro. È accettato?
La posizione del punto è a discrezione dell’autore o vi è una regola?

 

RISPOSTA:

La punteggiatura in prossimità delle virgolette del discorso diretto è del tutto convenzionale; non ha quasi mai, cioè, una funzione testuale che la motivi. Questo comporta che in questo campo ci siano forti oscillazioni, dovute al gusto dello scrivente e alle convenzioni invalse nel periodo storico. Per questo bisogna essere molto cauti nell’individuare obblighi.
Facendoci guidare dal criterio dell’equilibrio tra chiarezza ed economia di segni, possiamo suggerire i seguenti usi.
1. Nel caso in cui il discorso diretto finisca con un punto esclamativo o interrogativo è bene segnalarlo prima delle virgolette. In questo modo si evita di riferire la domanda alla cornice (come, ad esempio, in: Non sei stanco di dire “Sono stanco”?). Se la frase continua dopo le virgolette, ferma restando la necessità di segnalare il punto emotivo all’interno delle virgolette, è necessario anche inserire la punteggiatura richiesta dopo. Se il discorso diretto non finisce con un punto emotivo e la frase continua dopo le virgolette, qualsiasi segno di punteggiatura può essere messo soltanto una volta dopo le virgolette.
2. Nel caso in cui il discorso diretto finisca con un punto esclamativo o interrogativo e la frase si interrompa dopo le virgolette, è bene segnalare entrambe le funzioni, come nel suo esempio.
3. Se la frase si chiude con la fine del discorso diretto (che non finisce con un punto emotivo), il punto fermo può essere messo una sola volta dopo le virgolette. Non c’è ragione di inserirlo sia dentro che fuori le virgolette, mentre inserirlo soltanto dentro le virgolette non chiarirebbe che esso va riferito a tutta la frase e non soltanto al discorso diretto. Certo, se la frase coincide con il discorso diretto, si può anche scegliere di mettere il punto fermo soltanto dentro le virgolette, ma per omogeneità consiglierei di metterlo sempre soltanto fuori.
Un caso problematico è quello in cui sia il discorso diretto sia la cornice necessitino di un punto emotivo: non sei stanco di chiedere “Mi ami?”?. Per quanto curiosa, questa forma è consigliabile perché chiarisce tutte le funzioni salienti. Si può evitare trasformando il discorso diretto in indiretto: Non sei stanco di chiedermi se ti amo?.
Nel suo esempio 3 si presenta un ulteriore problema: l’interpunzione dell’inciso. In presenza di un inciso ci sono diverse soluzioni possibili; vediamone alcune: 
3a. «Interessante argomentazione», disse con tono solenne. «Sono sicuro…»;
3b. «Interessante argomentazione – disse con tono solenne -. Sono sicuro…»;
3c. «Interessante argomentazione – disse con tono solenne. – Sono sicuro…».
Si noti che la soluzione del suo esempio non è tra quelle che ho suggerito: ha, infatti, il difetto di non segnalare l’interruzione del periodo tra il primo pezzo di discorso diretto e il secondo. Che il periodo si interrompa è, del resto, evidente per via della sintassi. Nelle soluzioni proposte, non a caso, è sempre presente un punto fermo prima del secondo pezzo del discorso diretto.
Una precisazione: i trattini delle proposte 3b e 3c sono da considerarsi lunghi, equivalenti alla sequenza di due trattini corti (–). 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

vorrei chiedervi se, in determinati casi, le soluzioni con ci (e non solo) e si, a seconda del messaggio implicito che veicolano, possano coesistere.  
Ecco gli esempi elaborati:  
1. Ho chiamato il consulente per sapere come muoverci.
2. Ho chiamato il consulente per sapere come muoversi.
3. Dico una cosa, tanto per capirci.
4. Dico una cosa, tanto per capirsi.
5. So quand’è il momento di fermarci.
6. So quand’è il momento di fermarsi.
7. Il nostro obiettivo è rialzarci.
8. Il nostro obiettivo è rialzarsi.
9. Il concetto, per intenderci, è “parlare meno e pensare di più”.
10. Il concetto, per intendersi, è “parlare meno e pensare di più”.
11. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarmi e rimettermi a sedere.
12. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarsi e rimettersi a sedere.
Le costruzioni con ci e mi sopra elencate possono essere validate sottintendendo la componente, per così dire, particolare dell’azione, con ricadute specifiche sul soggetto? Per sapere come muoverci = ‘come ci dobbiamo muovere’; per capirci = ‘affinché noi ci capiamo’; di fermarci = ‘in cui noi ci dobbiamo fermare’; alzarmi e rimettermi a sedere = ‘io mi alzo e mi rimetto a sedere’, non qualcun altro.
Al contrario, le costruzioni con si possono essere validate per la funzione generica che potrebbero rivestire, come se fossero espressioni cristallizzate? Per sapere come muoversi = ‘come è opportuno muoversi in questi casi’; per capirsi = ‘affinché si possa capire’; di fermarsi = ‘in cui, in generale, ci si debba fermare’; alzarsi e rimettersi a sedere = ‘ci si può alzare e rimettersi a sedere, e quando ci sono le partite sono io a farlo’.

 

RISPOSTA:

La sua riflessione è in generale corretta: la possibilità di costruire le frasi nei due modi rispecchia le funzioni standard dei pronomi: ci riferisce le azioni a noi (l’emittente e un’altra persona o altre persone), si le riferisce a una generalità impersonale di cui, in modo molto sfumato, fa parte anche l’emittente. La sua analisi delle singole frasi, però, non è sempre corretta: dalla stessa riflessione, infatti, deriva che alcune delle frasi da lei proposte non ammettano entrambi i pronomi, perché sono in partenza riferite senz’altro a un gruppo che contiene l’emittente. In particolare non sono ben formate la 4 e la 8, mentre la 10 è al limite dell’accettabilità (grazie al fatto che manca il verbo alla prima persona, che, invece, è nella 4). La 12 è accettabile, ma ha un significato del tutto diverso dalla 11: in quest’ultima alzarmi e rimettermi a sedere descrivono il comportamento dell’emittente e spiegano, quindi, in che senso egli sia agitato; nella 12, alzarsi e rimettersi a sedere descrivono il comportamento di tutte le persone presenti nella situazione, compreso (ma non per forza) l’emittente, e quindi non sembrano avere la stessa funzione logica di alzarmi e rimettermi a sedere. L’interpretazione più probabile per questa frase è, piuttosto, che il comportamento delle persone rappresenti il motivo per cui l’emittente si agita.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

All’interno di un periodo è ammesso il passaggio dal futuro al presente del modo indicativo per indicare azioni che non hanno evidenti differenze sul piano temporale?
“Quando ti farò l’occhiolino, capirai che è il momento di agire”.
“Quando vedrai la luna piena, sappi che è il segno di Cupido per rivelarle i tuoi sentimenti”.
“Se noterai la mia auto, significa che dovrai uscire allo scoperto”.
È comunque praticabile la scelta di flettere i verbi, che in questi esempi sono al presente, al futuro, o, così facendo, paradossalmente, il rapporto tra reggente e subordinata rischierebbe di essere giudicato di posteriorità (anziché di contemporaneità nel futuro)?
“Quando ti farò l’occhiolino, capirai che sarà il momento di agire”.
“Quando vedrai la luna piena, sappi che sarà il segno di Cupido per rivelarle i tuoi sentimenti”.
“Se noterai la mia auto, significherà che dovrai uscire allo scoperto”.

 

RISPOSTA:

Nelle prime due frasi, il dubbio sul tempo riguarda una proposizione oggettiva, che riporta il pensiero della persona a cui ci si sta rivolgendo. In questo contesto, il futuro mantiene inalterato il punto di vista dell’emittente, rispetto al quale tutti gli eventi e gli stati sono futuri; il presente, invece, sposta per un attimo la prospettiva da quella dell’emittente a quella del ricevente, per il quale gli stati dell’essere in entrambe le frasi sono attuali. Con il presente, quindi, si forma un discorso indiretto libero: la costruzione delle due frasi diviene simile a capirai: “È il momento di agire” sappi: “È il segno di Cupido”.
Nella terza frase, il dubbio riguarda la principale, per cui il passaggio al presente risulta meno giustificabile; in questo caso il presente rappresenta una scelta semplificatrice, che abbassa la formalità della frase. In un tipo di frase del genere, il presente potrebbe anche indicare (ma non è questo il caso) un evento valido in assoluto, a prescindere dal momento; per esempio: “Se vedrai le foglie della pianta ingiallite, significa che la pianta sta morendo”; oppure, per rimanere vicini alla sua frase: “Se noterai la mia auto, significa che sei un ficcanaso”. Si noti che se si usa il presente nella principale, il ritorno al futuro nella oggettiva risulta molto artificioso.
Un futuro dipendente da un futuro può indicare un momento ancora più lontano nel futuro, ma questo dettaglio non è codificato nella coniugazione verbale, bensì si ricava dalla logica e dalla sintassi. Due futuri semplici, infatti, non precisano il loro rapporto relativo: quest’ultimo emerge dal contesto. Per esempio, nella prima frase, capirai che sarà il momento di agire può indicare tanto che il momento di agire segua immediatamente il momento del capire (quindi sia praticamente contemporaneo), quanto che lo segua in un futuro più lontano. Senza ulteriori specificazioni temporali, comunque (per esempio capirai che l’indomani sarà il momento di agire), l’interpretazione più immediata è quella quasi-contemporanea.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per cercare di ricevere dei chiarimenti riguardo a questo mio dubbio: 

“La fruizione dei servizi dovrebbe continuare ad essere garantita ancora a distanza a quelle persone che si trovassero fuori città o che presentassero delle problematiche di salute tali che non gli permetterebbero / permettessero di poter rischiare”.

Si può usare il condizionale? Magari supponendo un’ellissi di una proposizione del tipo “… permetterebbero anche nel caso in cui potessero recarsi fisicamente allo sportello”.
Oppure va usato il congiuntivo permettessero?
A livello di analisi del periodo, come di definisce una tale proposizione?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione, che è di tipo consecutivo, vanno bene sia il condizionale (che sottintenderebbe una protasi) sia il congiuntivo. Non sarebbe impossibile neanche l’infinito (tali da non permettergli / permettere loro…), normalmente utilizzabile soltanto quando il soggetto della proposizione coincide con quello della reggente. In questo caso, sebbene il soggetto della reggente sia che (che rimanda a quelle persone) e quello della subordinata problematiche (sottinteso), la preminenza logica assunta da problematiche nella reggente e la sua vicinanza al connettivo che rendono questo nome selezionabile come soggetto della subordinata implicita. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Ho dei dubbi sui tempi verbali da scegliere nelle seguenti frasi:
1. Verso mezzogiorno la mamma ha cominciato a cucinare e poi ci aspettava / ha aspettato per mangiare tutti insieme.
2. Il pomeriggio è stata / era libera anche lei per riposarsi.
3. Alle 11 sono usciti con la nonna per andare a messa, sono andati / andavano a piedi e la nonna li teneva / ha tenuti per mano.
4. Per pranzo sono tornati a casa per mangiare tutti insieme ma a loro i cannelloni non sono piaciuti / piacevano e hanno preferito / preferivano il secondo.
5. Hanno mangiato anche il mascarpone con il cacao che è stato / era davvero buono.
6. Nel pomeriggio mentre Eugenio giocava con i figli, Nicoletta preferiva / ha preferito restare a casa.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi 1-4 e 6 è possibile usare entrambi i tempi, con la distinzione che è stata illustrata nella risposta 2800577.
In particolare, nella frase 1 la mamma ci aspettava non fa riferimento al momento finale dell’attesa, lasciando intendere che tale attesa non sia mai terminata (ovvero i figli non sono andati a mangiare con la madre); la mamma ci ha aspettato, al contrario, indica che a un certo punto l’attesa sia finita.
Nella 2 la soluzione più attesa è è stata liberaera libera andrebbe bene se si riferisse alla ripetizione dell’evento nel passato (per esempio: “Quando lavorarava come fioraia, il pomeriggio era libera anche lei…”).
Nella 3 sono andati e ha tenuti fa riferimento al fatto che alla fine tutti sono arrivati in chiesa; andavano e teneva, invece, fa pensare che sia successo qualcosa durante il processo, che potrebbe anche aver impedito la conclusione del processo (per esempio: “La nonna li teneva per mano, ma uno dei due è inciampato e si è sbucciato un ginocchio”).
Nella 4 ci sono due intrecci possibili: a loro i cannelloni non sono piaciuti e hanno preferito il secondo = ‘hanno provato sia i cannelloni sia il secondo, e tra i due piatti hanno preferito il secondo’; a loro i cannelloni non piacevano e hanno preferito il secondo = ‘normalmente a loro non piacevano i cannelloni, per cui non li hanno provati e hanno preferito provare soltanto il secondo’.
La frase 5 richiede l’imperfetto (e la virgola prima della proposizione relativa): il cacao, che era davvero buono. Un soggetto inanimato come il cacao non può essere costruito con il passato prossimo se il nome del predicato è un aggettivo come buonoIl cacao è stato buono significherebbe ‘si è comportato bene’. Al contrario, si può avere Luigi è stato buono = ‘Luigi si è comportato bene’.
Per la 6 vale la stessa spiegazione della 2.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La lettera w fa parte dell’alfabeto italiano oppure è una lettera a parte di origine straniera? 

 

RISPOSTA:

Precisiamo innanzitutto che w è un grafema, cioè un simbolo che corrisponde a un suono o fonema. Questa precisazione serve perché alcuni grafemi, tra cui anche questo, corrispondono a più di un fonema. Il termine lettera, invece, confonde il valore grafico con quello fonetico.
Il grafema w non fa parte dell’alfabeto italiano, che comprende solo 21 grafemi, ma rientra nell’alfabeto latino moderno. Fu inventato dagli scrittori anglosassoni del Medioevo per distinguere la u vocale dalla u semiconsonante (quella dell’inglese whisky) o consonante (quella del tedesco wafer).  
Nell’alfabeto latino classico, infatti, il grafema u (maiuscolo V) aveva allo stesso tempo il valore consonantico della v, quello vocalico della u e quello semiconsonantico della u di whisky; quindi si potevano avere parole come uult (= vult ‘lui / lei vuole’).
In italiano, a partire dal XVI secolo il grafema u si stabilizzò con il valore vocalico (luce) e semivocalico / semiconsonantico (uomo); il grafema v con quello di consonante (vino). La w, invece, non fu accolta, ma rimase appannaggio delle lingue germaniche, che pure usano lo stesso alfabeto neolatino di base dell’italiano. 
Il grafema w fu introdotto molto tempo dopo per poter scrivere alcuni nomi e parole inglesi o tedeschi (Washingtonweltanschauung) e si pronuncia, di solito, come nella lingua di origine del termine, quindi u semiconsonante per parole di origine inglese e v per parole di origine tedesca.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Improvvisamente si ricordò di ciò che era accaduto e guardò la donna: poteva essere lei ad aver commesso il delitto”.
Sarebbe possibile sostituire la parte in grassetto con le seguenti soluzioni?
1. poteva essere stata lei a commettere;
2. poteva essere stata lei ad aver commesso;
3. avrebbe potuto essere lei a commettere;
4. avrebbe potuto essere lei ad aver commesso.
Considerando anche la scelta dell’autore, tra le cinque soluzioni quale vi sembra più consona al contesto?
In che modo si declina la differenza tra l’infinito passato, se è giustificato in questo contesto, e l’infinito presente? L’infinito passato indica ad esempio che l’azione è avvenuta prima di quella della proposizione reggente?

 

RISPOSTA:

L’infinito passato esprime proprio l’anteriorità dell’evento rispetto a quello della proposizione reggente. Allo stesso modo, l’infinito presente esprime la contemporaneità e, a certe condizioni, la posteriorità (per esempio: “Mi ha chiesto di andare domani al mare”). 
Questa funzione verbale si intreccia, nella frase in questione, con la stretta relazione tra il verbo servile e l’infinito da esso retto. Si deve considerare, infatti, che dal punto di vista semantico e sintattico poteva essere equivale a forse era e poteva essere stata a forse era stata. Ne consegue che poteva essere lei ad aver commesso equivalga a forse era lei ad aver commesso, che è perfettamente rispondente alla consecutio temporum, visto che poteva è in linea con si ricordò e aver commesso indica un evento anteriore a poteva. Nel caso di poteva essere stata lei a commettere avremmo una situazione diversa, ma ugualmente accettabile, nella quale il verbo reggente (poteva essere stata = forse era stata) è già anteriore a si ricordò, quindi può ben essere contemporaneo a commettere. Si noterà che poteva essere stata proietta il dubbio nel passato, allontanandolo dalla situazione di riferimento, laddove poteva essere lo rappresenta come attuale (relativamente alla situazione).
La terza ipotesi (la seconda variante) presenta una situazione ancora diversa, nella quale il verbo reggente è anteriore a si ricordò e l’evento del commettere è ulteriormente anteriore. Questa costruzione, sebbene non si possa dire sbagliata, è leggermente meno precisa, perché l’anteriorità di aver commesso non rispetta la richiesta della consecutio temporum, ma è attratta per analogia dal passato del verbo reggente.
Per quanto riguarda la diversa costruzione del verbo reggente, avrebbe potuto essere, si tratta dell’alternativa più formale di poteva essere (l’indicativo imperfetto, infatti, svolge comunemente le funzioni del condizionale passato). Si noti che per riprodurre poteva essere stata avremmo bisogno di avrebbe potuto essere stata, una costruzione talmente complessa, per quanto corretta, da essere sconsigliabile in contesti non altamente formali.
Dal punto di vista sintattico, quindi, per avrebbe potuto essere valgono le stesse considerazioni fatte per poteva essere. La variante avrebbe potuto essere lei a commettere, in particolare, è la meno felice, perché corrisponde a forse poteva essere lei a commettere, che veicola un dubbio sul futuro, non sul passato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Avrei dei problemi per quanto riguarda i due passati. 
“Ieri era / è stata una bella giornata ma oggi piove”: per me quata frase va bene con entrambi i passati.
“Quando guardavo la TV non (capire) ……………….. il significato di molte parole”: anche in questa frase vanno bene entrambi i tempi?

 

RISPOSTA:

La scelta tra passato prossimo e imperfetto può essere difficile nelle frasi in cui vanno bene entrambi. Questo succede quando l’evento espresso dal verbo può essere tanto perfettivo (cioè visto nella sua intera durata, che comprende il momento in cui è finito) quanto imperfettivo (cioè visto come durato un tempo indeterminato). Nella prima frase, è stata una bella giornata indica che si sta parlando della giornata complessivamente, dall’inizio alla fine; era una bella giornata indica, invece, che la qualità si è manifestata durante la giornata, senza riferimento ai limiti temporali della giornata stessa. Per capire meglio questa differenza, si consideri un’espressione simile a quella da lei proposta: è stata una buona giornata. Non c’è dubbio che l’espressione in questa forma si riferisca all’esito della giornata (perché il passato prossimo considera anche il momento finale dell’evento), quindi al fatto che la giornata di ieri ha portato qualche vantaggio (per esempio: “Ieri è stata una buona giornata: ho guadagnato molto con le mance”). Al contrario, l’espressione era una buona giornata non può riferirsi all’esito della giornata, quindi risulta semplicemente “strana”, perché non si capisce in che senso la giornata fosse buona lungo un tempo non determinato.
Per quanto riguarda la seconda frase, l’evento del capire deve essere imperfetto come quello del guardare, perché il processo del capire si svolge nello stesso tempo di quello del guardare (come indica la congiunzione quando, qui equivalente a mentre). Per la stessa ragione, se avessimo avuto quando ho guardato la TV, il tempo di capire avrebbe dovuto essere passato prossimo (quando ho guardato… ho capito).
La situazione sarebbe diversa se mentre guardavo la televisione fosse successo qualcosa: in quel caso l’evento sarebbe perfettivo; per esempio: “Mentre guardavo la TV hanno bussato alla porta”. Si noti che in questo caso la congiunzione quando sarebbe inadatta (anche se non impossibile), perché la funzione di sfondo del verbo guardare sarebbe molto più evidente, tanto da richiedere quasi obbligatoriamente mentre.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Nella seguente frase, come faccio a riferire che lo hanno generato sia alle memorie sia alle convinzioni?
“Cancellazione di tutte le memorie e convinzioni che lo hanno generato”.

RISPOSTA:

Con questa costruzione, che rimanda a entrambi gli antecedenti, come da lei desiderato. Ciò è dovuto alla mancanza dell’articolo davanti a convinzioni, che induce a collegare senz’altro anche questo nome all’articolo le di memorie, creando un unico sintagma. Per la verità, anche se inserissimo l’articolo prima di convinzioni (cosa che sarebbe obbligatoria se al posto di convinzioni avessimo un nome di genere o numero diversi da memorie), il pronome relativo rimanderebbe comunque a entrambi gli antecedenti, per via del legame della congiunzione e, che mette i sintagmi sullo stesso piano.
Sarebbe, semmai, il contrario, la volontà di riferire che al solo convinzioni, a dover essere segnalato. Questa precisazione si potrebbe realizzare sfruttando la punteggiatura, per esempio così: le memorie, e le convinzioni che; oppure le memorie, nonché le convinzioni che; o anche: le memorie, ma anche le convinzioni che. Ancora più esplicita sarebbe la costruzione separata: le memorie. A cui si aggiungerebbero le convinzioni che (o simili).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi rivolgo a voi per un dubbio di analisi logica.
L’uomo = sogg.;
che = pronome relativo sogg. della subordinata;
è vissuto = pred. verb. della subordinata;
in modo onesto = compl. predicativo del sogg. della subordinata;
morì = pred. verb.;
sereno = compl. predicativo del sogg.
In modo onesto viene considerato da qualcuno complemento di modo, qual è la vostra opinione in merito?

 

RISPOSTA:

È senz’altro un complemento di modo, perché esprime in che modo si è svolta l’azione del vivere (tanto che si può anche sostituire con l’avverbio di modo onestamente). Sarebbe stato un complemento predicativo se avessimo avuto morì onesto, cioè ‘morì da uomo onesto’. Lo stesso, ma al contrario, vale per morì sereno, nella principale: sereno è un predicativo del soggetto, ma se al suo posto avessimo avuto morì serenamente (o morì in modo sereno) avremmo avuto un complemento di modo.
Aggiungo che il passaggio dal passato remoto (morì) della proposizione principale al passato prossimo (è vissuto) della relativa non è una buona scelta: è preferibile usare, nella subordinata, il passato remoto, l’imperfetto o anche il trapassato prossimo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali sono gli unici sistemi (o l’unico sistema) che ha corrispondenza biunivoca tra foni e grafemi?

 

RISPOSTA:

Le lingue sono tendenzialmente più o meno trasparenti dal punto di vista fonologico (tra quelle più trasparenti ci sono l’italiano, lo spagnolo e il tedesco) e nessuna lingua naturale è totalmente trasparente. Totalmente trasparente è l’esperanto, la lingua artificiale creata nell’Ottocento da Ludwik Lejzer Zamenhof.
Esiste, inoltre, l’IPA (International Phonetic Alphabet), un sistema di simboli che rappresentano in modo univoco tutti i foni potenzialmente producibili dal sistema fonatorio umano. In questo senso, l’IPA può essere considerato l’unico sistema che presenta un rapporto uno a uno tra simbolo grafico e fono. I simboli dell’IPA possono essere definiti grafemi, in quanto ognuno rappresenta in modo grafico un fono, che a sua volta è codificato come fonema in una o più lingue.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Avrei bisogno di capire se il soggetto è un argomento che fa parte del sintagma verbale o no.

 

RISPOSTA:

L’argomento del soggetto (insieme ai suoi circostanti, attributi, apposizioni e complementi direttamente collegati a esso) è l’unico sintagma che non fa parte del predicato. Quest’ultimo contiene il sintagma verbale del predicato in senso stretto più quelli di tutti gli altri argomenti che ruotano intorno al verbo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Chiedo il vostro aiuto per sapere qual è la preposizione giusta da mettere davanti al nome di un’associazione che si chiama Lortobio, volutamente scritto tutto attaccato.
Quale delle seguenti forme é corretta? venite a Lortobio o venite al Lortobio?

RISPOSTA:

Se consideriamo l’articolo come parte del nome, dobbiamo smettere di considerarlo articolo, per cui il nome Lortobio diviene a tutti gli effetti assimilabile a, per esempio, locale. Ne consegue che si dirà venite al Lortobio (come si direbbe venite al locale).
L’altra soluzione non è impossibile, ma è molto improbabile: sarebbe valida soltanto se si considerasse Lortobio alla stregua di un nome di città, come Londra. In quel caso, ovviamente, avremmo venite a Lortobio (come venite a Londra). Osservando come si comportano i nomi propri di aziende (la Fiat), istituzioni (l’INPS), associazioni di vario genere (la CGILil CONI), la soluzione con l’articolo è senz’altro la migliore.
Non è, invece, possibile considerare l’articolo separato dal nome, se lo si scrive univerbato con il nome, perché graficamente Ortobio richiederebbe l’articolo apostrofato, quindi venite all’Ortobio
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) (Nel caso in futuro tutto ciò avvenga), la buona riuscita dell’operazione dipenderebbe da quanto tempo sarebbe passato dall’ultima volta che ci sarà stato un nuovo contatto con un soggetto a rischio.
Mi sono trovato nella condizione di comporre tale periodo complesso e, lo riconosco, davanti a quel sarebbe passato ho provato una certa titubanza. Come si evince dal contesto, il condizionale composto non ha valore di futuro nel passato; dovrebbe anzi rappresentare l’anteriorità nei confronti della reggente.
Vi domando se la scelta sarebbe dovuta invece cadere sul congiuntivo (fosse passato / sia passato) e, infine, quali sono il tempo e il modo migliori per costruire la subordinata di secondo grado che dipende dalla proposizione presa in esame.
Rimanendo in tema di rapporti condizionale-congiuntivo, vorrei sapere se il periodo riportato sotto sia valido:
2) Se, alla scadenza, non ti rinnovassero il contratto, puoi star certo che il direttore avrebbe fatto il possibile per scongiurare tale eventualità.

 

RISPOSTA:

Sarebbe passato ha proprio la funzione di esprimere il futuro nel passato. Bisogna capire, però, quale sia il momento passato rispetto al quale il passare è successivo. Nella sua frase questo momento è quello in cui ci sarà stato un nuovo contatto, che è passato dalla prospettiva della buona riuscita dell’operazione. A sua volta, anche il passare è precedente alla buona riuscita. Nella linea temporale, quindi, abbiamo prima l’avvenimento del nuovo contatto, poi il passare del tempo e infine la possibile buona riuscita dell’operazione. In questo modo si giustifica anche il futuro anteriore ci sarà stato, futuro rispetto al momento dell’enunciazione, ma anteriore rispetto alla possibile buona riuscita dell’operazione. La sostituzione di sarebbe passato con sia passato è possibile, perché il congiuntivo passato può assumere come riferimento direttamente il momento della possibile buona riuscita, senza considerare il rapporto di posteriorità rispetto al momento in cui ci sarà stato un nuovo contatto. Ingiustificato, invece, sarebbe fosse passato: il trapassato richiederebbe un altro tempo passato, assente nella frase, rispetto al quale esprimere l’anteriorità. Preferibile a sia passato, inoltre, sarebbe passi, che espremerebbe un rapporto di contemporaneità con proiezione al futuro rispetto a ci sarà stato, presupponendo logicamente il rapporto di anteriorità rispetto a dipenderebbe. Tutto sommato, passi è vantaggioso anche rispetto a sarebbe stato, perché il rapporto di anteriorità rispetto a dipenderebbe si ricava comunque per logica e la sua codificazione attraverso il condizionale passato appesantisce la sintassi.
La frase 2 è ben costruita soltanto se si considera il condizionale passato nella sua funzione condizionale, non in quella di futuro nel passato. In questo secondo caso, infatti, esso non ha un momento chiaro nel passato a cui agganciarsi. Possibile, invece, sarebbe avrà fatto, che si pone come futuro intermedio tra il momento dell’enunciazione e quello della scadenza.
Se si considera il condizionale nella sua funzione primaria, è possibile ricavare facilmente una condizione sottintesa che lo giustifica, per esempio puoi star certo che il direttore avrebbe fatto il possibile (se avesse potuto)… Si noti che, in questo caso, il rapporto temporale di avrebbe fatto è automaticamente di anteriorità rispetto al momento della scadenza
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

L’analisi logica è corretta?
Gli antichi greci consideravano come dio supremo Giove.
Gli antichi greci = soggetto + attributo
consideravano = predicato verbale
come dio = complemento predicativo dell’oggetto
supremo = attributo
Giove = complemento oggetto.

 

RISPOSTA:

Sì. Aggiungerei soltanto che l’attributo del complemento predicativo dell’oggetto può essere integrato con il complemento stesso, facendone parte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo le congiunzioni all’inizio delle frasi sono corrette. Inoltre, è preferibile scrivere che quando ARRIVI il momento dei saluti?

Mi piacerebbe scrivere che è tutta la vita che dico addio alle persone, perché amo le frasi ad effetto, ma sarebbe un po’ esagerato. E fa un po’ ridere ma è allo stesso tempo un po’ triste che quando arriva il momento dei saluti io me ne esca con un semplice “ciao”, come se fosse un giorno qualunque, come se fosse tutto a posto. Ma a volte non ci si saluta nemmeno. Nemmeno con un semplice ciao. E allora lo scrivo qui, per quelli a cui capiterà di leggerlo: ciao.

 

RISPOSTA:

Le congiunzioni a inizio frase sono legittime: hanno la funzione di collegare logicamente il pezzo di testo successivo al precedente, in un’ottica transfrastica, cioè che guarda non alle singole frasi come se fossero isolate, ma alla loro cooperazione nell’architettura del testo. In particolare, la e di e fa un po’ ridere… indica che l’enunciato successivo aggiunge una nuova considerazione a quella dell’enunciato precedente. La congiunzione ma di ma a volte capita, a sua volta, ha un significato concessivo; significa, cioè, ‘anche se è vero quanto ho detto finora, è anche vero quello che sto per dire adesso’. Nemmeno è considerato da molte grammatiche una congiunzione, ma è, piuttosto, un avverbio. Il collegamento tra l’enunciato nemmeno con un semplice ciao e il precedente è implicito, ed è di tipo esemplificativo: il nuovo enunciato, cioè, fornisce un esempio di come non ci si saluta. Infine, il significato della e di e allora lo scrivo qui… è chiarito dall’avverbio allora: la relazione tra i due enunciati è di consecuzione.
Per quanto riguarda il congiuntivo nella temporale quando arriva il momento, è un’alternativa possibile. Avrebbe come conseguenza l’innalzamento del livello di formalità (forse in modo eccessivo rispetto allo scopo del testo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Registri
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

“Monica, l’amica di Gabriella, è stata / era una ragazza dolce e simpatica”.
Qual e la forma giusta? Sono giuste tutt’e due? E qual e la differenza?

 

RISPOSTA:

Sulla differenza tra imperfetto e passato prossimo si può consultare la risposta n. 2800541 dell’archivio di DICO e le altre recuperabili con le parole chiave passato prossimo e imperfetto.
In questo caso, si noti che è stata una ragazza farebbe pensare senz’altro che la ragazza, Monica, sia morta, perché il suo essere una ragazza (dolce e simpatica) si è interrotto. Questa interpretazione è possibile anche con era, ma l’imperfetto permette anche di intendere la frase come ‘in passato era una ragazza dolce e simpatica, adesso è cambiata’. 
Se togliamo una ragazza, la frase con il passato prossimo cambia di senso: è stata dolce e simpatica si riferisce a un evento in particolare (per esempio, ‘ieri alla festa è stata dolce e simpatica’); la frase con l’imperfetto, invece, mantiene lo stesso senso, a metà tra ‘Monica adesso è cambiata’ e ‘Monica adesso non c’è più’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se le costruzioni di partenza possano essere semplificate, quindi snellite, con le soluzioni alternative che ho composto.
1) L’assortimento non è dei migliori, sia in termini di qualità, sia in termini di quantità.
1a) L’assortimento non è dei migliori in termini sia di qualità sia di quantità.
2) Se avesse necessità di un intervento, (o) si rivolgerebbe a me o si rivolgerebbe a te.
2a) Se avesse necessità di un intervento, si rivolgerebbe (o) a me o a te. 

 

RISPOSTA:

Sì, le alternative si equivalgono. Nella 1 e nella 1a è possibile anche sostituire sia… sia con né… né, visto che il contesto è negativo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

È preferibile usare ugualmente o parimenti?

 

RISPOSTA:

Sono parole quasi equivalenti dal punto di vista linguistico: dal punto di vista semantico, ugualmente è indicato in riferimento tanto a qualità (come la forma di un oggetto) quanto a quantità, cioè a dimensioni graduabili (ugualmente alto), mentre parimenti fa riferimento soprattutto a quantità ed è meno indicato per le qualità. Si tratta, però, di una differenza sfumata, che può essere anche trascurata. 
Da rilevare è anche la percezione diastratica dei due avverbi: ugualmente è più comune, parimenti (anche perché ha un significato leggermente più specializzato) più ricercato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito dell’alternanza tra futuro anteriore e futuro semplice e di come questo sia quasi sempre sostituibile a quello in registri di media formalità, è possibile fare questa sostituzione nell’esempio sotto indicato?
1) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato trascorreranno al massimo venti minuti.
2) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato saranno trascorsi al massimo venti minuti.

 

RISPOSTA:

Nella sua frase, prima di tutto scambierei la posizione degli eventi del cominciare e del terminare: “Vedrai che domani, da quando lei avrà cominciato l’esame a quando lo terminerà,…”.
In secondo luogo, confermo che il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice trascorreranno. Con il futuro anteriore si mette in evidenza l’anteriorità del trascorrere del tempo rispetto al termine dell’esame; con quello semplice si rappresenta soltano l’evento come futuro. Non solo il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice, ma anche avrà cominciato (da quando lei comincerà l’esame a quando lo terminerà).
​​​​​​​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Dopo le espressioni si dicedicono quale modo verbale si usa? 
Riguardo al condizionale passato, secondo le grammatiche lo si usa se nel presente o nel futuro un’intenzione non puo avverarsi. Ma pare che non sia obbligatorio. Cioè posso usarlo ma l’italiano permette in questi casi anche il condizionale semplice: “Verrei / sarei venuta con te al cinema ma ho molto da fare”.
Riguardo ai relativi che e il quale, quando sono alternative e quando si usa esclusivamente che?
1. Ci sono molte agenzie che / le quali organizzano viaggi economici per i giovani.
2. Ho parlato con il meccanico che / il quale mi ha detto che non riuscirà a riparare l’auto per giovedì.
3. Com’era lo spettacolo che avete visto ieri?  
4. Le informazioni che ci ha dato il vigile non erano corrette. 
Mi pare che quando si tratta di una proposizione soggettiva entrambi sono giusti, mentre se la subordinata è oggettiva si usa solo che. Ho ragione?

 

RISPOSTA:

Il verbo dire preferisce l’indicativo nella proposizione completiva: “Il giornale dice che ieri c’è stato un terremoto in Turchia”. Le espressioni si dice e dicono, però, ammettono facilmente il congiuntivo, perché sono impersonali: “Si dice / dicono che ci sia stato un terremoto in Turchia”. Quando dicono ha il soggetto, si comporta come dire in generale, e preferisce l’indicativo: “I miei amici dicono che sono simpatico”.
Il condizionale presente indica un evento possibile, che può ancora avverarsi; quello passato indica un evento molto improbabile o impossibile.
Il pronome relativo non ha niente a che fare con le proposizioni soggettive e oggettive. Queste ultime sono introdotte da che con funzione di congiunzione, non di pronome (infatti nelle oggettive e nelle soggettive che rimane sempre fisso: penso che…si dice che…).
Il quale non può sostituire che nelle relative limitative, cioè quelle che contribuiscono a identificare l’antecedente. Relative limitative sono quelle presenti nelle sue frasi 1, 3 e 4 (quindi nella 1 la sostituzione non va bene). In realtà la sostituzione non è vietata, ma non avviene mai. 
Il quale può sostituire che nelle relative esplicative, che aggiungono informazioni secondarie all’antecedente. Nella sua frase 2, per esempio, la relativa che mi ha detto non serve a chiarire chi sia il meccanico, ma aggiunge un’informazione riguardante ciò che il meccanico ha fatto. Nella 1, invece, la relativa chiarisce quali siano le molte agenzie appena nominate.
Per un approfondimento sulle relative limitative ed esplicative può consultare l’archivio di DICO con le parole chiave esplicativa ed esplicative.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

C’è un libro di testo che propone di analizzare i complementi presenti all’interno di alcune frasi.
1. Avvisaci appena sarai arrivato a casa.
2. Tutti gli insegnanti erano entusiasti della scelta perché la trama era avvincente.
Può andar bene analizzare appena sarai arrivato e perché la trama era avvincente rispettivamente come complementi di tempo determinato e causa?

 

RISPOSTA:

Le parti da lei estratte dalle frasi non sono complementi, bensì proposizioni, perché contengono verbi. I complementi, invece, sono sintagmi nominali. Appena sarai arrivato a casa è una proposizione temporale; perché la trama era avvincente è una proposizione causale.
I complementi presenti nelle due frasi sono i seguenti:
ci: oggetto; a casa: moto a luogo; della scelta: causa. Oltre a questi abbiamo i soggetti, tu (sottinteso) nella prima frase; gli insegnanti nella seconda frase. Quest’ultimo soggetto è accompagnato dall’attributo tutti. Infine abbiamo entusiasti, che è la parte nominale legata alla copula erano
Un approfondimento merita della scelta, che ho definito complemento di causa per comodità, ma che, in realtà, è un sintagma richiesto come completamento dall’aggettivo entusiasta; nell’ottica della grammatica valenziale, che in questo è più utile dell’analisi logica, va considerato complemento oggetto preposizionale. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Come si può migliorare la seguente frase?
“Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate entrambe limitanti”, nel senso che sono limitanti sia le convinzioni che le emozioni. 

 

RISPOSTA:

Innanzitutto le consiglio di mettere una virgola dopo collegate, perché la relativa implicita che segue è di tipo esplicativo (assimilabile a una causale: ‘perché sono limitanti’). Sulla relativa esplicativa si possono consultare le molte risposte nell’archivio di DICO usando la parola chiave esplicativa.
Inoltre, è meglio sostituire entrambe, perché questo aggettivo e pronome si riferisce a due oggetti singoli (significa ‘tutte e due’), mentre qui il riferimento è a due insiemi di oggetti. Per fare questo le soluzioni sono diverse. Si può usare un avverbio o una locuzione avverbiale: ugualmente limitantiparimenti limitantilimitanti allo stesso modo. Si può anche riformulare la frase: “Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate: sia le une che le altre, infatti, sono limitanti”, o ancora “Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate: sono limitanti sia le une che le altre”. E altro ancora.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei approfondire il capitolo della particella si, già analizzata di recente da voi linguisti in uno degli esempi contenuti nell’articolo numero 2800208. L’utente ha espresso dubbi molto simili ai miei, che non mi sono mai stancato di consultare le varie grammatiche disponibili sul mercato per provare a comporre un quadro organico di regole.
Ho letto che “con un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha valore passivante ma impersonale”; su un’altra grammatica, a proposito del passivante, si legge “la regola vale anche quando il verbo, all’infinito, è preceduto da verbi servili o fraseologici. Se però la frase si complica, è naturale considerare quel si come un soggetto impersonale, equivalente a noi”; infine “con il si passivo il
soggetto logico è sempre umano e plurale, mentre nella costruzione passiva non ci sono restrizioni sul tipo di soggetto logico”.
Sono un appassionato di lingua italiana ma non un professore di lettere; ho quindi raccolto le idee e sono arrivato a formulare questi costrutti, su cui vi sarei grato se interveniste:
“Non si mangiano le mele” (corretto, passivante)
“Non si mangia le mele” (corretto, impersonale)
“Sono soldi che non si riescono a spendere” (corretto, passivante)
“Sono soldi che non si riesce a spendere” (corretto, impersonale)
“Si devono a controllare i bambini” (corretto?)
“Non si potevano più guardare i film” (corretto?)
“Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte” (stando alle regole, il si impersonale è doveroso, perché gli effetti sono formalmente distanti dal verbo; ma adottare il passivante sarebbe comunque possibile?).
Mi aggancio in parte all’utente che mi ha preceduto nella presentazione del quesito e vi chiedo se l’uso impersonale è sempre attuabile oppure ci sono determinati casi che lo inibiscono. Non per scegliere la strada comoda, ma con l’uso impersonale saremmo certi di non sbagliare mai? Potrei ad esempio scegliere di scrivere o dire “Non si spende più soldi” anziché “Non si spendono più soldi”, “Sono libri che non si legge più” anziché “Sono libri che non si leggono più”?
Cosa significa, all’atto pratico, che il “soggetto logico è sempre umano e plurale”? Se fosse inanimato e singolare, la costruzione con il si passivante non potrebbe essere ottenuta?

 

RISPOSTA:

Come sintetizzato da una delle grammatiche da lei citata, il si ha funzione impersonale solamente con i verbi intransitivi e con i transitivi senza oggetto espresso (che, quindi, si comportano come gli intransitivi): “Di solito il giorno di Natale si va a pranzo dai parenti”; “Non si parcheggia in seconda fila” (si noti, a margine, che il costrutto impersonale assume quasi sempre una sfumatura di obbligo, o deontica). Negli altri casi, cioè con i verbi transitivi con l’oggetto espresso, il si assume funzione passivante, trasformando l’oggetto grammaticale in soggetto logico: “Si mangia la mela” = “La mela è mangiata”; “Si mangiano le mele” = “Le mele sono mangiate”.
Le frasi “Si mangia le mele” e “Sono libri che non si legge più” sono ammissibili soltanto se si sottintende il soggetto noi: “Noi si mangia le mele” e “Sono libri che noi non si legge più”. Questa costruzione è ben nota alla tradizione letteraria italiana e oggi è ancora vitale nel parlato toscano; fuori dalla Toscana, però, è poco comune. Inoltre, se non esplicitiamo il soggetto noi, frasi come “Si mangia le mele” e “Non si legge più libri” possono ingenerare confusione, perché coincidono con le forme colloquiali del verbo transitivo con il pronome che indica un particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione, come in “Mi sono bevuto una bella birra” (= ‘Mi sono bevuto una bella birra con piena soddisfazione’).
Quando il verbo costruito con si è seguito da una intera proposizione, detta soggettiva, il si è considerato impersonale (come se il verbo fosse transitivo senza oggetto). In realtà, si noterà che il costrutto equivale a quello passivante: “Si mangia la mela” (ovvero “La mela è mangiata”) equivale a “Si dice che tu sia un ritardatario” (ovvero “Che tu sia un ritardatario è detto”). Classificazioni a parte, però, il dettaglio a cui prestare attenzione è che, in questo caso, il verbo reggente la soggettiva è sempre singolare, anche quando il soggetto della proposizione soggettiva è plurale: “Si spera che cadranno molte stelle a Ferragosto”, non *”Si sperano che cadranno molte stelle a Ferragosto”; “Si dice che ieri siano arrivati molti ospiti”, non *”Si dicono che ieri siano arrivati molti ospiti”. Questa regola equivale a quella correttamente intuita da lei a proposito della frase “Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte”; dal momento che gli effetti è il soggetto della proposizione soggettiva, non dovrebbe influire sulla concordanza del verbo reggente l’intera proposizione, si riuscirebbe, che rimane singolare: la costruzione *”Si riuscirebbero a vedere… gli effetti…” è, pertanto, scorretta.
Tale scorrettezza, però, è riscontrabile nel discorso poco sorvegliato e, in alcuni casi, passa decisamente inosservata. Tra le due frasi seguenti, ad esempio, si fa fatica a considerare scorretta la prima: “Sono soldi che non si riescono a spendere” / “Sono soldi che non si riesce a spendere”. Pur trovandoci nella medesima situazione della frase precedente (“Si riuscirebbe a vedere…gli effetti”), qui riuscire e spendere i soldi sono talmente solidali da poter quasi essere considerati un unico verbo e indurre a trascurare la regola grammaticale. Come se ciò non bastasse, la costruzione con la proposizione relativa complica ulteriormente la situazione. In questi casi, in astratto la scelta più formale rimane quella di considerare a spendere una proposizione soggettiva retta da si riesce, ma in pratica si può considerare valida anche l’eventuale infrazione (non si riescono a spendere). Allo stesso modo si comportano tutti i verbi detti modali, che aggiungono una sfumatura al verbo semanticamente più rilevante e sintatticamente lo reggono; in un caso come il seguente, qualunque parlante propenderebbe per la seconda soluzione, in astratto scorretta, e scarterebbe, al contrario, la prima, in astratto corretta: “I punti dell’ordine del giorno si comincia a trattare dopo le comunicazioni preliminari”; “I punti dell’ordine del giorno si cominciano a trattare dopo le comunicazioni preliminari”.
Ci sono casi, poi, in cui il verbo che tecnicamente regge il complemento oggetto ha un legame ancora più stretto con il verbo che lo regge: i costrutti con i verbi servili (doverepoterevolere). Uno di questi esempi è “Si devono controllare i bambini” (non “a controllare”, come ha scritto lei, forse per distrazione). Come si nota, il verbo che regge il complemento oggetto è controllare, mentre è dovere che concorda con esso; un altro esempio è “Non si potevano più guardare i film”. È il caso limite di solidarietà tra verbo reggente e proposizione soggettiva, che impedisce di considerare corrette le costruzioni “Si deve controllare i bambini”, “Non si poteva più guardare i film”.
Queste ultime ridiventano accettabili se consideriamo sottinteso (ma è molto meglio esplicitarlo) il soggetto noi, secondo la costruzione tradizionalmente letteraria e oggi toscana: “Noi si deve controllare i bambini”, “Noi non si poteva più guardare i film”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire:
“Non so se la segreteria le abbia già comunicato che in data… rientrerò in servizio”, 
oppure
“Non so se sia a conoscenza che in data… rientrerò in servizio”

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. La scelta dipenderà, quindi, dalle circostanze. In generale, la seconda versione è più distaccata, tanto che potrebbe essere percepita come fredda (ma potrebbe anche essere preferita in un contesto effettivamente molto formale), perché usa un’espressione astratta come essere a conoscenza, mentre nella prima versione viene chiamata in causa la fonte dell’informazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Se Marco volesse inviarci una lettera, lo farebbe senza esitare”, inviarci è un verbo riflessivo?

 

RISPOSTA:

No: inviarci è composto da inviare + ci, quindi inviare a noi. Il soggetto del verbo e il complemento oggetto, quindi, corrispondono a due persone diverse; nei verbi riflessivi, invece, coincidono: io mi lavo ‘= ‘io lavo me stesso’.
Per un approfondimento sui verbi riflessivi potete consultare la risposta n. 2800558 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Ogni giorno i corpi celesti si scontrano formando delle nuvole pronte a schiantarsi sulla terra. I meteoriti si incendiano”.
Le forme riflessive si scontrano, schiantarsi e si incendiano sono proprie, reciproche o pronominali? Perché? 

 

RISPOSTA:

I verbi pronominali, cioè quelli che hanno un pronome integrato nella loro forma, comprendono i verbi riflessivi, i reciproci, i transitivi pronominali, gli intransitivi pronominali e i procomplementari. Non è possibile fare qui una disamina dei verbi procomplementari, ma le suggerisco di consultare l’archivio di DICO con le parole chiave procomplementare e procomplementari
Per il resto, si noti che i verbi davvero riflessivi sono pochissimi: vestirsilavarsipettinarsischiaffeggiarsi e qualche altro. Per essere riflessivo, infatti, il verbo deve descrivere un’azione che parte del soggetto e arriva al soggetto stesso. I reciproci, o riflessivi reciproci, sono di più: salutarsiabbracciarsibaciarsiaffrontarsiguardarsi… In pratica, qualsiasi verbo transitivo può diventare reciproco tramite l’aggiunta di un pronome atono, se descrive un’azione che parte da un soggetto A e arriva a un soggetto B e nello stesso tempo parte dal soggetto B e arriva al soggetto A. 
Il grosso dei verbi comunemente costruiti con un pronome, però, rientra nelle categorie dei pronominali intransitivi. In questi verbi, il pronome non indica una particolare destinazione dell’azione, ma fa soltanto parte della forma della parola. Prendiamo il verbo scontrarsi: in una frase come “La macchina si è scontrata con l’autobus” l’azione non parte dal soggetto per arrivare allo stesso soggetto, né ha le caratteristiche della reciprocità. Schiantarsi è, pertanto, un verbo pronominale, né riflessivo, né reciproco (né procomplementare). Esso è, inoltre, intransitivo, come si vede dalla frase (con l’autobus). Si distingue, quindi, anche dai pronominali transitivi, come lavarsi seguito da un complemento oggetto (“Mi lavo le mani”). I pronominali transitivi sono chiamati da alcuni riflessivi apparenti o riflessivi indiretti, perché alcuni coincidono con i verbi riflessivi con in più il complemento oggetto. Altri, invece, non diventano riflessivi se sono privati del complemento oggetto, ma rimangono semplicemente incompleti; per esempio strapparsi i capelli non potrebbe mai essere riflessivo.
Si noti che neanche tagliarsi i capelli senza il complemento oggetto diviene riflessivo: mi sono tagliato, infatti, può essere riflessivo soltanto nel caso in cui io abbia inflitto il taglio a me stesso. Quasi sempre, invece, mi sono tagliato significa ‘qualcosa mi ha tagliato’ (“Mi sono tagliato con il coltello” = ‘il coltello mi ha tagliato’). Non a caso, in inglese mi sono tagliato non si dice I cut myself ma I got cut, cioè ‘ho ricevuto un taglio’.
Nella sua frase, il verbo schiantarsi potrebbe sembrare reciproco, ma a ben vedere descrive un evento che coinvolge due (o più) soggetti, non un’azione reciproca. Per capire meglio questa differenza sfumata si confronti “I corpi celesti si scontrano” con “Le squadre si affrontano”. Nel primo caso si scontrano descrive quello che succede quando si verificano certe condizioni; nel secondo caso si affrontano descrive il processo che parte da entrambi i soggetti coinvolti e arriva specularmente agli stessi soggetti. A conferma di questa differenza, nel primo esempio sarebbe necessario aggiungere la locuzione pronominale l’uno con l’altro, oppure l’avverbio reciprocamente, o simili (perché la reciprocità non è contenuta nel verbo): “I corpi celesti si scontrano l’uno con l’altro”; nel secondo esempio, al contrario, il pronome sarebbe superfluo e persino scorretto (perché il verbo è reciproco): *”Le squadre si affrontano l’una con l’altra”. 
A maggior ragione, schiantarsi e incendiarsi non possono dirsi né riflessivi né reciproci (né procomplementari): l’azione dello schiantarsi, infatti, arriva a una persona o un oggetto diversi dal soggetto, mentre incendiarsi non parte dal soggetto. 
Incendiarsi potrebbe essere riflessivo soltanto in una frase come “Lo sconosciuto si è cosparso di benzina e si è incendiato” (come si è visto per tagliarsi), ma in italiano quest’uso sarebbe molto strano, perché per un’azione come questa si usa il costrutto darsi fuoco.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

vorrei sapere se questo pensierino è scritto correttamente:

la vita è un viaggio (che originalità) alla fine del quale, invece di fare le valigie per tornare a casa, lasciamo tutto dov’è e ci spogliamo di ogni cosa: ricordi, desideri, averi. Ma va bene così. Se è questo il prezzo del biglietto, e anche se il viaggio non è in prima classe e non è emozionante e piacevole come
vorremmo che fosse, va bene così. Come potremmo rifiutare – un viaggio nel mondo?

In modo particolare vorrei sapere se è giusto l’uso della lineetta.

 

RISPOSTA:

La costruzione è corretta anche dal punto di vista della punteggiatura. Soltanto il trattino è fuori luogo, perché non se ne coglie la funzione. Il trattino dovrebbe servire a delimitare un inciso (va usato, quindi, in coppia, per precedere e concludere l’inciso) o a introdurre un discorso diretto al posto delle virgolette. Il trattino corto serve anche – ma non è il suo caso – a unire due parole per formarne una: franco-tedescofine-settimanacarro-armato ecc., o a indicare un intervallo: 9:00-13:00 ‘dalle 9:00 alle 13:00’. 
Quello che lei cerca di fare con il trattino, probabilmente, è separare l’unità informativa come potremmo rifiutare da un viaggio nel mondo. Tale separazione non è prevista dal punto di vista della sintassi, perché un viaggio nel mondo è il complemento oggetto di rifiutare e non si può separare il complemento oggetto dal predicato con un segno di interpunzione.
Dal punto di vista testuale, però, la separazione può essere motivata, se si vogliono separare nettamente le due unità informative attribuendo a entrambe un uguale peso semantico. Nell’italiano contemporaneo, questo risultato si può ottenere legittimamente soltanto con il punto fermo, detto in questo caso punto anomaloCome potremmo rifiutare. Un viaggio nel mondo? Il punto anomalo va usato con cautela, per non trasformarlo in un vezzo senza valore espressivo. Nel suo brano, per esempio, non sembrerebbe una scelta stilisticamente coerente. All’opposto, ci sono autori, come il politologo Ilvo Diamanti, che ne hanno fatto uno stilema distintivo, ben integrato in uno stile tendente alla lapidarietà.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Quando si dà del lei a una persona di sesso maschile si dice ad esempio: la vedo stanco, o la vedo stanca? L’accordo va fatto al maschile o al femminile? 
Se ad esempio dico: tavoli e specchi quadrati, l’aggettivo quadrati riguarda solo gli specchi? Mi verrebbe da dire tavoli e specchi entrambi quadrati.
Se fosse pennelli e scarpe rossi si intenderebbe entrambi perché rossi è accordato al plurale. Ma è corretto dire rossi per comprendere entrambi?

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a qualcuno l’accordo con il pronome va fatto alla terza persona e secondo il genere della persona. Quindi, ad esempio: signora Verdi, la vedo stanca, ma signor Verdi, la vedo stanco (e inoltre, ovviamente non signor Verdi, lo vedo stanco). Quest’uso, oggi praticamente obbligatorio, non è l’unico possibile in teoria (e si noti che si tratta di una infrazione della regola grammaticale dell’accordo); se fosse ancora vitale l’espressione sua signoria, sottintesa dal lei, l’accordo sarebbe sempre al femminile: vedo la sua signoria stanca (signor Verdi)
L’aggettivo che si riferisce a più nomi dello stesso genere si accorda al plurale nel genere dei nomi. Questo può ingenerare ambiguità; nella frase tavoli e specchi quadrati, ad esempio, l’aggettivo quadrati può riferirsi tanto a specchi quanto a tavoli e specchi. Non può, invece, riferirsi al solo tavoli, perché altrimenti dovrebbe essere posto accanto a questo nome (tavoli quadrati e specchi). Per evitare questa ambiguità si può costruire la frase come fa lei, aggiungendo l’aggettivo entrambi. L’aggettivo entrambi, però, suona un po’ strano riferito a due gruppi di elementi, perché per la precisazione significa ‘tutti e due’, non ‘tutti’. Al suo posto si potrebbe usare tutti (in questo caso non è possibile intendere tutti quadrati come ‘completamente quadrati’, perché completamente quadrati non ha senso). Un’altra soluzione ineccepibile potrebbe essere ugualmente quadrati
Ancora, se quadrati fosse riferito soltanto a specchi, si potrebbe dire specchi quadrati e tavoli, o tavoli e, inoltre, specchi quadrati o in altri modi (bisognerebbe considerare l’intera frase).
Quando l’aggettivo si riferisce a più nomi di generi diversi, come nel suo terzo esempio, l’accordo va fatto al plurale maschile: pennelli e scarpe rossi, quindi, significa ‘pennelli rossi e scarpe rosse’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qual è l’analisi di questo periodo?
E se la vita non fosse una cosa seria, alla fine ce la saremo guastata prendendo tutto maledettamente sul serio.
È corretto l’uso di maledettamente?

 

RISPOSTA:

Il periodo è formato da una proposizione condizionale (E se la vita non fosse una cosa seria,), subordinata di primo grado alla principale (alla fine ce la saremo guastata), che regge un’altra subordinata di primo grado, strumentale implicita (prendendo tutto maledettamente sul serio), intrepretabile anche come una causale.
La proposizione condizionale ha una evidente sfumatura concessiva, che potrebbe essere sottolineata o così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo guastata…”, o, in modo ancora più netto, così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo comunque guastata…”
Maledettamente è corretto, ma si deve ricordare che, per il suo significato, abbassa il registro del discorso: deve essere usato, quindi, nel contesto appropriato.
Nella costruzione del periodo vanno sottolineate due particolarità: la prima è la congiunzione e all’inizio del periodo, che collega il periodo stesso al testo precedente, oppure, in assenza di un testo precedente, all’universo del discorso (come se implicasse: oltre a tutto quello che già sappiamo aggiungo cio…).
La seconda è il futuro anteriore ce la saremo guastata, che instaura un rapporto complesso con il congiuntivo imperfetto fosse. Il congiuntivo, infatti, rappresenta la condizione come possibile, mentre l’indicativo rappresenta la conseguenza come un fatto, e in più, per via del tempo futuro anteriore, osserva l’evento dalla prospettiva futura, rispetto alla quale l’evento è già compiuto.
Un’alternativa possibile per la costruzione della principale è il condizionale passato (ce la saremmo guastata). Con esso, la prospettiva sarebbe dal passato verso il presente, con una fattualità sfumata; senza la certezza, cioè, che l’evento si sia davvero realizzato così come descritto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Com’è noto, il codice di procedura penale stabilisce, che il perito solo dopo aver prestato giuramento può…” la virgola tra stabilisce e che a me suona male. Vorrei sapere se è un errore.

 

RISPOSTA:

Sì, è un errore. Così come non bisogna mai separare con una virgola il soggetto dal predicato, non bisogna separare con una virgola il predicato dal complemento oggetto, se non per inserire un sintagma o una proposizione incidentale (ma in quei casi le virgole devono essere due, una all’inizio, una alla fine dell’incidentale).
Nella sua frase il complemento oggetto è rappresentato non da un sintagma ma da una proposizione oggettiva (che il perito può…), ma la regola vale ugualmente.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Avremmo dovuto vederci o ci saremmo dovuti vedere… Quale la forma corretta?

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette. La prima è più formale, la seconda più comune. La cosiddetta risalita del clitico, ovvero lo spostamento del pronome atono (in questo caso ci) da destra (vederci) a sinistra (ci saremmo), è un tratto tipico dell’italiano dell’uso medio, ovvero della lingua parlata oggi comunemente dalla maggioranza degli italiani.
Si noti che soltanto quando la risalita riguarda il pronome ci i verbi che richiedono l’ausiliare avere prendono essere (avresti dovuto vedermi > mi avresti dovuto vedere), come nella costruzione reciproca: ci saremmo visti = ci saremmo dovuti vedere.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase “Se mio figlio non fosse padrone del proprio tempo, come potrei pensare di avergli donato la vita” è corretta se io non ho un figlio? O dovrei dire se mio figlio non sarà padrone del proprio tempo, oppure se mio figlio non dovesse essere padrone del proprio tempo?

 

RISPOSTA:

La prima e la terza variante sono ugualmente valide tanto se il figlio esiste veramente quanto se non esiste. Fosse e dovesse essere, infatti, rappresentano l’evento ugualmente come possibile, non certo. 
Neanche l’infinito passato avergli donato assicura che il figlio esista veramente, perché il momento di riferimento rispetto a cui l’atto del donare è passato potrebbe essere futuro: come potrei pensare tra vent’anni di avergli donato la vita dieci anni prima.
Il futuro sarà, invece, presuppone che il figlio esista o che sta per esistere, cioè che sta per nascere. L’indicativo, infatti, rappresenta l’evento come reale (nel passato, nel presente o, come in questo caso, nel futuro).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Si dice appassionarsi a o appassionarsi di?
È corretto dire: “Ci può portare a trascurare noi stessi e ad appassionarci di cose che non ci riguardano”?  
Non si può usare la preposizione a?

 

RISPOSTA:

La preposizione a è molto più comune, ma di non è esclusa; per esempio: “Studiò al Liceo classico di Formia e cominciò ad appassionarsi di letteratura” (dalla scheda Pietro Ingrao del Dizionario biografico degli italiani Treccani, 2017). Possibile, ma uscito dall’uso, anche appassionarsi per; per esempio: “Un grande desiderio della cultura […] lo portò ad appassionarsi per le questioni religiose del suo tempo” (dalla scheda Fanino Fanini, sempre dal Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1932).
La scelta tra le tre opzioni dipenderà dallo stile personale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La locuzione prima di allora può essere riferita a un momento futuro? Ad esempio: “Il primo appuntamento libero è per il prossimo mese. Non ho trovato niente prima di allora”.

 

RISPOSTA:

Sì, l’avverbio allora può indicare un momento nel passato o nel futuro. Basti pensare alla sua etimologia: ad illam horam ‘in quel momento’, che non specifica se nel passato o nel futuro. Conseguentemente, prima di allora può ben indicare un momento che precede un altro momento futuro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Etimologia
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nella subordinata dipendente dalla protasi del periodo ipotetico sottoindicato siano ammessi tanto l’indicativo quanto il congiuntivo:
Se qualcuno venisse a conoscenza (o venisse a sapere) che nei prossimi giorni sia / sarà trasmesso il mio film preferito, potrebbe farmelo sapere?
La scelta della forma passiva, inoltre, è da scartare a favore di quella attiva?

 

RISPOSTA:

Sì, sono ammessi entrambi i modi; il congiuntivo in un registro più alto, l’indicativo in uno di media formalità. In un registro leggermente più basso si potrebbe anche dire che nei prossimi giorni viene trasmesso il mio film preferito e, scendendo di un altro gradino, anche che nei prossimi giorni trasmettono il mio film preferito.
La scelta tra attivo e passivo è anch’essa, quindi, legata alla formalità: il passivo è più formale; tanto più che la forma attiva comporta un’ellissi un po’ marcata di un soggetto alla terza plurale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire: “Se è vero che, come disse qualcuno, ‘Divinità potente è la presenza’, allora, ecc.”?

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata da tutti i punti di vista.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

È corretta questa frase: “Non penso che Marco lo abbia fatto per farti del male, e mi pare evidente che non ti stia facendo nessun dispetto; ma ancora più assurda mi sembra l’idea che lui ti odi”?
Che ne dice riguardo all’uso del punto e virgola?

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata da tutti i punti di vista. In particolare, il punto e virgola segmenta opportunamente il testo separando la prima parte, fortemente solidale al suo interno per il contenuto, dalla seconda parte, che aggiunge una considerazione riguardante tutta la prima parte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In italiano esiste la dicitura affermazione negativa? O si chiama negazione? Perché ad esempio se dico un sì si chiama risposta affermativa e quindi affermazione negativa sembra un po’ un paradosso.

 

RISPOSTA:

Nella lingua comune, affermareaffermazioneaffermativo e il resto della famiglia sono collegati al polo positivo, tanto che affermativo può essere usato come sinonimo di . In teoria, però, il significato radicale di questa famiglia lessicale non propende verso una polarità, ma indica soltanto la decisione con cui un’opinione è dichiarata (infatti affermare è legato a fermo). Non è, pertanto, impossibile affermare negativamente, o fare un’affermazione negativa. Vista la comune deriva del significato di questa famiglia di parole verso il polo positivo, comunque, l’opportunità di associare uno dei suoi componenti al polo negativo è da valutare caso per caso in relazione al contesto, per non ingenerare confusione. Ovviamente, tale associazione è tanto più accettabile quanto più ci si sposta verso i registri alti, come in questo esempio, tratto da un libro di filosofia: “Se stiamo sostenendo la legittimità morale di certe procedure, ad esempio della libertà e dello scambio, perché il fatto di godere di questi diritti non costituisce un’affermazione positiva, così come il fatto che altri non possano impedirci di godere di tali diritti costituisce un’affermazione negativa?”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nel seguente brano vicino è un aggettivo o un avverbio?
Bello di persona, gentile di modi, venne chiamato a Roma, dove il Papa lo volle sempre vicino e gli affidò i lavori più delicati.
Forse si tratta di un predicativo dell’oggetto?

 

RISPOSTA:

Quando vicino (ma anche lontano) è singolare maschile non si distingue nella forma dall’avverbio, ed è, pertanto, difficile stabilire se abbia funzione di aggettivo o di avverbio. Ovviamente, se l’aggettivo si riferisce a un nome femminile e/o plurale il problema si risolve automaticamente: in il papa la volle vicina il papa li volle vicini la parola è un aggettivo; in il papa la volle vicino o il papa li volle vicino è un avverbio di luogo. La coincidenza morfologica rende difficile stabilire la funzione della parola perché, a monte, è difficile stabilire la differenza di funzione, quindi di significato, tra vicino aggettivo e vicino avverbio di luogo. Un modo per rilevare questa differenza è considerare che l’aggettivo rappresenta una qualità del nome a cui si riferisce, mentre l’avverbio indica una posizione relativa nello spazio. Per questo quando vogliamo comunicare la nostra partecipazione al dolore di una persona diciamo ti siamo vicini, non ti siamo vicino, perché vogliamo esprimere un sentimento, una caratteristica che in quel momento ci qualifica, non una posizione nello spazio. Con il verbo essere costruiamo comunemente espressioni che contrastano con questo principio: “- Dove sono i cani? – Sono vicini” (più insolito, sebbene più logico, sono vicino). Questo, però, si spiega con l’ambiguità semantica propria del verbo essere, che è prima di tutto la copula, quindi seleziona preferibilmente l’aggettivo, e solo secondariamente è un verbo spaziale, equivalente a trovarsi. L’ambiguità tocca comunque quasi tutti i verbi, perché è insita nella parola stessa vicino (così come in lontano): la posizione nello spazio, infatti, è affine a una qualità. Per questo, anche se sostituiamo si trovano a sono nell’esempio precedente, la costruzione non cambia di molto: “- Dove si trovano i cani? – Si trovano vicini”. Va detto, però, che con trovarsi l’avverbio diviene molto più accettabile (si trovano vicino), perché il verbo seleziona più decisamente l’informazione relativa al luogo.
In definitiva, quindi, nel suo esempio vicino può essere tanto un aggettivo quanto un avverbio. Se è aggettivo, l’espressione è parafrasabile come il papa volle che lui gli fosse vicino; se è avverbio, propende per il papa volle che lui gli stesse vicino. Difficilmente, comunque, il parlante medio coglierebbe tale distinzione; sarebbe portato, invece, a considerare le due versioni della frase assolutamente equivalenti.
Dal punto di vista dell’analisi logica, l’aggettivo può essere considerato un attributo o un complemento predicativo dell’oggetto (a seconda dell’impostazione seguita); l’avverbio è, invece, un complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “indagammo sul vicino”, sul vicino è complemento di argomento?

 

RISPOSTA:

Sì: equivale a “Indagammo riguardo al vicino”.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “È un bell’uomo dalle spalle larghe, dagli occhi nocciola, dai modi affascinanti”, è possibile omettere la ripetizione delle preposizioni articolate? “È un bell’uomo dalle spalle larghe, gli occhi nocciola, i modi affascinanti”.
Quale soluzione è da preferire?
Sempre relativamente alle ellissi:
nella frase “Mi piacerebbe rivederti nella città dove ti ho conosciuto; in una spiaggia che sia frattanto tornata alla sua normalità: ombrelloni, secchielli, vitalità”, si potrebbe omettere che sia? Ne risentirebbe il senso generale della costruzione? “Mi piacerebbe rivederti nella città dove ti ho conosciuto; in una spiaggia tornata frattanto alla sua normalità: ombrelloni, secchielli, vitalità”.

 

RISPOSTA:

In entrambe le frasi le ellissi da lei proposte sono possibili e non producono conseguenze sul senso generale. Si tratta di scelte stilistiche, che lo scrivente può fare liberamente in base al proprio gusto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, desideravo sapere quale frase è corretta:
– Mario mi ha telefonato e ha detto che avrebbe richiamato quando avesse avuto nuove notizie.
– Mario mi ha telefonato e ha detto che avrebbe richiamato quando avrebbe avuto nuove notizie

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette. La seconda rappresenta l’evento dell’avere notizie come futuro (rispetto a un punto di riferimento passato); la prima lo rappresenta come ipotetico: il congiuntivo, infatti, configura la proposizione temporale introdotta da quando come temporale-ipotetica.
L’alternanza tra congiuntivo e condizionale è al centro di molte risposte contenute nell’archivio di DICO, che può consultare usando, per esempio, la parola chiave condizionale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “È impossibile che le abbia studiate”, si potrebbe usare il presente indicativo al posto del congiuntivo, non essendoci incertezza in ciò che dico?
Si può usare il congiuntivo anche quando sono convinto di ciò che dico? Per esempio: “Sono sicuro che Marco sia a casa in questo momento”.

 

RISPOSTA:

L’idea che il congiuntivo sia il modo dell’incertezza deriva dal fatto che questo modo è usato nella proposizione condizionale, quella introdotta da se. Dobbiamo, però, ricordare che tale proposizione ammette anche l’indicativo (“se vuoi possiamo andare al cinema”) e che anche altre proposizioni subordinate ammettono l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, senza una apprezzabile differenza di significato. Un esempio di come l’uso di uno o dell’altro modo non produca differenze di senso è la oggettiva retta da un verbo che indica certezza, come nella sua seconda frase. Una frase come sono sicuro che Marca sia a casa è corretta e dimostra che il congiuntivo non indichi affatto incertezza. Di converso, una frase, ugualmente corretta, come non so se Marco è a casa dimostra che l’indicativo può ben figurare in una proposizione dipendente da un verbo che esprime incertezza. Anche nella sua prima frase, quindi, abbia studiate può essere sostituito da ha studiate (che, però, non è presente, come lo definisce lei, ma passato prossimo).
Qual è la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo, allora? Il grado di formalità: ogni volta che sia possibile usare l’uno o l’altro modo, il congiuntivo rappresenta la scelta più formale, l’indicativo quella più veloce e distratta. Accanto a questa considerazione di massima, inoltre, bisogna ricordare che alcuni verbi rifiutano il congiuntivo nella completiva, come diresapere e i verbi di percezione (vederesentire). 
Per saperne di puù dell’alternanza tra indicativo e congiuntivo, può consultare le tante risposte sull’argomento dell’archivio di DICO, usando le parole chiave indicativo e congiuntivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nelle seguenti frasi quali sono le forme del passato corrette?
1. Faceva bel tempo. 
Questo non era / è stato un problema; la cosa che mi pesava di più era / è stato il pensiero della sera: loro che andavano in discoteca, ballavano, bevevano e io, invece, sono dovuto rimanere in città per colpa di uno stupido esame!!!
2. Maria Callas era / è stata una famosa cantante.

 

RISPOSTA:

La scelta tra il passato prossimo e l’imperfetto dipende da come si vuole rappresentare l’evento passato. Con l’imperfetto l’evento è rappresentato come continuato, con il passato prossimo è rappresentato come iniziato e finito. Va ricordato, inoltre, che il passato prossimo rispetto al passato remoto indica che l’evento è ancora presente nella considerazione dell’emittente o che le sue conseguenze sono ancora valide nel presente (o entrambe le cose).
Nella prima frase, in entrambi i casi bisogna usare l’imperfetto perché gli eventi sono per forza continuati, infatti sono in relazione con altri imperfetti: era un problema è in relazione con faceva bel tempo e era il pensiero è in relazione con pesava. In realtà, pesava influenza tutti i verbi seguenti, perché tutti servono a descrivere la situazione; anche sono dovuto rimanere, quindi, andrebbe cambiato in dovevo rimanere. Per essere ancora più precisi, per simmetria con loro che andavano, la frase dovrebbe essere cambiata in io che, invece, dovevo rimanere.
Nella seconda frase vanno bene entrambe le soluzioni: con l’imperfetto si rappresenta l’essere famosa come continuato nel passato, senza rilevare la sua durata; con il passato prossimo lo si rappresenta sempre passato (ma ancora valido, importante nel presente), ma dotato di un certo inizio e di una certa fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Se devo raccontare qualcosa in maniera diretta e informale – ad esempio un sogno – posso fare dei passaggi dall’imperfetto al presente senza rompere l’omogeneità del testo? Mi spiego con un esempio, riporterò una frase di cui vi chiedo il grado di correttezza: “Comunque, nel sogno avevo un quaderno di fronte sul mio tavolino e all’improvviso mi appare una faccia tumida e rosea ecc…”.

 

RISPOSTA:

Sebbene nella lingua comune l’imperfetto faccia da sfondo a un evento descritto al passato prossimo o remoto, il presente nel suo caso può essere usato per descrivere eventi puntuali. In un genere come il racconto, che può avere una connotazione poetica, è possibile derogare da alcune costrizioni non rigide della lingua. Non a caso, lei nomina una categoria come la omogeneità, che non ha a che fare con la correttezza linguistica, ma riguarda lo stile, categoria molto più sfumata e soggettiva.
Tale deroga stilistica si fonda sulla possibilità linguistica del presente di rappresentare eventi passati, nella sua funzione di presente storico (“Giulio Cesare conquista la Gallia in poco tempo”), ma anche sul valore speciale dell’imperfetto onirico, che non è esattamente passato, ma serve a proiettare gli eventi in uno spazio e in un tempo indeterminati.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Nelle seguenti frasi quale tempo verbale si può considerare corretto?
1. Caro diario, in questo periodo di quarantena, come ben saprai / sai, si può uscire solo in caso di necessità.
2. In particolare qualche giorno fa in una la lettera aperta, dal titolo “i bambini dimenticati”, un gruppo di psicologi, educatori, pediatri e genitori chiese / ha chiesto di tener conto dei diritti dei bambini. Il giornalista Polito pubblicando la lettera sul suo giornale aggiunse / ha aggiunto che se i cani hanno il diritto di uscire, anche i bambini lo devono poter fare.

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme verbali della frase 1 sono corrette. Il futuro saprai aggiunge, rispetto al presente sai, una sfumatura epistemica al verbo; il futuro, cioè, serve qui a rappresentare l’affermazione come incerta, da interpretare come forse sai
Nella frase 2 il passato prossimo è la scelta migliore in entrambi i punti (ha chiestoha aggiunto). Il passato prossimo, infatti, nell’italiano contemporaneo è quasi sempre preferito al passato remoto, in particolare per esprimere eventi, come quelli descritti nella frase, che si proiettano nel presente, cioè che sono ancora ben presenti nella considerazione dell’emittente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho cercato di raccogliere i miei dubbi, che vertono tutti sui tempi del modo congiuntivo da selezionare di volta in volta.
1a) Quando lei abbia la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.   
1b) Quando lei avesse la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.
La soluzione 1a è comunque valida?

2a) Se in precedenza fosse firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2b) Se in precedenza fosse stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2c) Se in precedenza sia stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2d) Se in precedenza sia firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
Il dubbio, come già spiegato, verte sulla scelta del tempo del congiuntivo. Tutte le soluzioni sono valide?
Il modo della principale, indicativo o condizionale, potrebbe incidere al riguardo?

3a) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprima il desiderio. 
3b) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprimesse il desiderio.
Stesso dubbio del caso precedente.

4a) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenessi l’incarico.
4b) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenga l’incarico.  
4c) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu abbia ottenuto l’incarico.  
4d) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu avessi ottenuto l’incarico.  
Anche qui domando se cambierebbe qualcosa, qualora al posto di vorrei avessimo voglio o vorrò.

5a) Nel caso tu non abbia ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.    
5b) Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”. 
5c) Nel caso tu non ottenessi l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.    
5d) Nel caso tu non ottenga l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
Questo caso, a livello sintattico, fa il paio con il numero 4?

 

RISPOSTA:

Visti i molti esempi, e visto che il periodo ipotetico è uno degli argomenti più trattati nelle domande degli utenti, la rimando all’archivio di DICO per ulteriori approfondimenti.

1. Entrambe le frasi sono legittime. Nella 1a la proposizione temporale rappresenta il fatto come certo (dal punto di vista dell’emittente). Il congiuntivo presente è la variante formale dell’indicativo futuro (quando lei avrà la possibilità di pronunciarsi) o presente (quando lei ha la possibilità…), che è quella più trascurata. Il congiuntivo imperfetto di 1b (avesse) fa assumere alla temporale una sfumatura ipotetica, assimilando quando a se: la temporale, in questo modo, indica una condizione incerta, ma realizzabile (non so ancora se parlerà o no).
2. La protasi del periodo ipotetico introdotta da se può contenere l’indicativo presente, futuro, imperfetto e passato prossimo (e trapassato prossimo in un registro molto basso), o il congiuntivo imperfetto e trapassato. Il congiuntivo presente e passato non sono di norma usati in questa proposizione. Le versioni 2c e 2d della frase, pertanto, sono da evitare. Divengono perfettamente regolari sostituendo i tempi del congiuntivo con gli equivalenti tempi dell’indicativo: se in precedenza è firmato è stato firmato l’accordo. Il presente è firmato, comunque, contrasta logicamente con l’avverbio in precedenza; il tempo passato è decisamente da preferire.
La scelta tra indicativo futuro potrà e condizionale presente potrebbe nell’apodosi modifica leggermente il senso della frase: l’indicativo futuro, infatti, sottolinea la certezza che il console parlerà con l’ambasciatore; il condizionale, invece, lascia una sfumatura ipotetica.

3. Nella frase 3a, consideriamo che prima che richiede necessariamente il congiuntivo e si comporta, dal punto di vista della selezione dei tempi, come quando. Con il presente esprima, si costruisce la contemporaneità nel presente, ovvero con il tempo dell’evento della reggente. Non è giustificato, invece, il congiuntivo imperfetto esprimesse, che indica contemporaneità nel passato. L’imperfetto andrebbe bene se nella reggente ci fosse avrei dovuto / voluto regalargilelo.
 
4. Le varianti da preferire sono la 4a e la 4d perché, come detto a proposito delle frasi 2, la proposizione condizionale (la protasi del periodo ipotetico) introdotta da se preferisce il congiuntivo imperfetto ottenessi e quello trapassato avessi ottenuto. La scelta tra questi due tempi dipenderà dal grado di probabilità con cui l’evento avverrà dal punto di vista dell’emittente.
È possibile usare voglio nell’apodosi, per essere molto diretti (rivolgendosi a una persona con cui si ha confidenza); mentre il futuro vorrò sarebbe a metà strada tra il valore temporale (ovvero in futuro vorrò) e quello epistemico (che lo avvicina a forse voglio).

5. Si noti innanzitutto che la protasi introdotta da nel caso chenel caso in cuinel caso richiede sempre il congiuntivo, anche presente e passato. Nel caso tu non abbia ottenuto, quindi, equivale a se tu non hai ottenuto e nel caso tu non ottenga equivale a se tu non ottieni
Le versioni della frase sono tutte corrette, anche se esprimono sfumature diverse dello stesso concetto.
La 5a e la 5d presentano, come visto sopra, lo stesso tipo di protasi, della realtà, e si differenziano per la relazione temporale con l’apodosi: il presente (ottenga) indica contemporaneità con il presente, il passato (abbia ottenuto) indica anteriorità con il presente. L’alternanza tra sarò contretto e sarei contretto è indifferente ai fini della consecutio temporum, perché entrambe le forme valgono come presenti. Su questo si veda quanto detto sulle frasi 4.
La 5b e la 5d presentano una protasi dell’irrealtà (avessi ottenuto) e della possibilità (ottenessi).
Si noti che il congiuntivo trapassato di 5b ammette l’apodosi così costruita soltanto se l’evento dell’ottenere il lavoro è ancora ignoto all’emittente. Se, invece, l’emittente sa già che la condizione non si è verificata, la frase richiede un’apodosi al condizionale passato (sarei stato costretto). Per esemplificare la differenza: “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma ancora non so se l’hai ottenuto), sarei costretto ad approntare il piano b”. Ma “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma io so già che l’hai ottenuto), sarei stato costretto ad approntare il piano b”. In altre parole, nel caso in cui l’emittente non sapesse se l’incarico sia stato ottenuto, starebbe facendo un’ipotesi possibile (sarei costretto), pur ammettendo che la condizione sia improbabile (non avessi ottenuto); nel caso in cui, invece, l’emittente sapesse che l’esito della condizione è stato contrario a quello che avrebbe fatto scattare la conseguenza, l’ipotesi diviene del tutto irrealizzabile (sarei stato costretto). Ovviamente, se l’emittente sapesse che l’incarico non è stato ottenuto, non costruirebbe mai la frase così, ma direbbe “Nel caso tu avessi ottenuto l’incarico, sarei stato costretto…”.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Sono uno psicologo e ho un dubbio su una risposta di un paziente in merito ad un test di wais r sul vocabolario. il test in questione è composto da 35 domande, e noi dobbiamo attribuire un punteggio di 2, 1 o 0 a seconda della pertinenza della risposta. Alla domanda riparare si considera giusta la riposta ‘fare sì che ritorni come nuovo’. Alla domanda sproloquiare il paziente ha dato la risposta: ‘sparlare (parlare a sproposito) senza malizia’. La risposta è pertinente?

 

RISPOSTA:

La risposta si colloca più o meno nel mezzo, a mio giudizio, tra una risposta del tutto pertinente e una del tutto sbagliata.
Nel concetto di sproloquiare rientra sicuramente il parlare a sproposito e sconclusionatamente e, in effetti, questo raramente si concilia con la malizia che, all’opposto, implica una buona dose di oculatezza, di programmazione (che è il contrario dell’essere sconclusionati). Diciamo, però, che non si può escludere a priori che uno sproloquio sia anche malizioso. Quel che è un po’ strano (poco appropriato secondo il lessico e la semantica italiani) è l’uso del termine sparlare, il quale, invece, implica esattamente e necessariamente la malizia, la maldicenza, il malanimo.
Morale della favola: o il suo informatore presenta qualche lacuna nell’uso dell’italiano (ignorando, cioè, il significato esatto del termine sparlare, piuttosto che di sproloquiare), oppure sembrerebbe questo un classico caso interessante di lapsus freudiano (ma non vorrei certo rubarle il mestiere…), poiché, nel momento stesso in cui il paziente nega esplicitamente la malizia, cacciandola dalla porta, ecco che questa rientra dalla finestra (inconscia) del significato di sparlare.
Fabio Rossi

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QUESITO:

Sono uno psicologo e ho svolto il test wais r ad un mio paziente. il test è formato anche da una parte di comprensione lessicale, a cui bisogna attribuire un punteggio.
Alla parola sproloquio il paziente ha risposto così: “Chi parla in modo prolisso e inconcludente”; poi ha detto: “Parlare a lungo senza arrivare al dunque”, aggiungendo che loqui vuol dire ‘parlare’.
Secondo lei entrambe le risposte sono giuste?

 

RISPOSTA:

Dipende da quanto bisogna essere fini nella valutazione. In entrambe le risposte c’è un difetto di fondo, che, però, forse potrebbe essere trascurato: di fronte alla domanda su un nomen rei actae (l’atto dello sproloquio), la prima descrive un nomen agentis (colui che produce uno sproloquio), la seconda un verbo (sproloquiare). Un errore di questo genere è comunissimo, tanto negli studenti quanto negli adulti, e dipende quasi sempre dalla scarsa abitudine a fare riflessione metalinguistica, cioè a riflettere analiticamente sulla lingua. Non saprei, quindi, quanto sia utile tenerne conto per i suoi fini.
Per quanto riguarda il contenuto delle risposte, mi sembra che siano entrambe equivalenti e sostanzialmente corrette.
Le consiglio anche di rileggere le risposte già date sull’argomento pubblicate nell’archivio di DICO. Le troverà facilmente usando la parola chiave sproloquio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Dopo il termine compresenza si deve usare la preposizione con o di?
Per esempio, quale delle due alternative è corretta?
1. Lezioni svolte in compresenza con il docente di cattedra.
2. Lezioni svolte in compresenza del docente di cattedra.

 

RISPOSTA:

La locuzione in compresenza, che può essere tanto aggettivale (la lezione in compresenza è stata interessante) quanto avverbiale (la lezione si svolgerà in compresenza), preferisce non essere completata sintatticamente. Il completamento è, però, spesso necessario semanticamente, perché bisogna specificare quali soggetti o elementi siano compresenti.
Una soluzione possibile è realizzare il completamento testualmente, per esempio: la lezione si svolgerà in compresenza. Sarà guidata dai docenti di italiano e di storia; oppure la lezione si svolgerà in compresenza, con i docenti di italiano e di storia (la virgola separa le due unità informative).
Il completamento sintattico, comunque, è ben attestato, sia con di, sia con con; la distribuzione delle due preposizioni, inoltre, non sembra avere una regola precisa. Qualche esempio ricavato da Google Books: 
diventa metafora del vivere e del produrre da parte di più persone in compresenza di interessi diversi.
Un lavoro interdisciplinare e multidisciplinare in compresenza di più docenti.
La varietà che si esprime in compresenza di generi e sottogeneri poetici diversi.
La maggiore diffusione dei VS rispetto ai VM sinonimi parrebbe dunque limitata […] al numero di occorrenze dei tipi di forme impiegati in alternativa e non in compresenza con i corrispondenti monorematici.
Non scompare, ma si mantiene vitale, seppure in compresenza con l’italiano e con le altre lingue
.
Riferiscono di non insegnare mai in compresenza con altri colleghi.
La locuzione, del resto, è attratta tanto da in presenza di (e da la compresenza di) quanto da in concomitanza con: non è possibile, quindi, individuare una forma unica. Bisognerà aspettare che emerga con nettezza nell’uso vivo.
Una ulteriore possibiltà, limitata ai casi in cui la frase lo consenta, è sostituire in compresenza con con la compresenza, che è sicuramente seguita da dila lezione sarà realizzata con la compresenza dei docenti di italiano e di storia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vi propongo due questioni riguardanti la scelta tra i modi indicativo e condizionale.
Prima questione.

1a. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non vengo / verrò alla festa.
1b. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non verrei alla festa.

Le frasi sono entrambe ben costruite?
Ci sono casi in generale in cui sia debba usare obbligatoriamente soltanto uno dei due modi (indicativo o condizionale) in frasi introdotte dalla congiunzione altrimenti?
Seconda questione.

2. Non ho intenzione di vendere la mia casa al mare. Se lo facessi, l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrei ristrutturato da poco.

Il condizionale passato (avrei ristrutturato) potrebbe essere interpretato meramente come azione precedente a quella dell’entrare in possesso da parte dell’acquirente, oppure, sulla scorta del classico periodo ipotetico, porta con sé soltanto l’irrealizzabilità dell’evento?
Provo a snebbiare un po’ la domanda esplicando la base logica della frase: in questo contesto mi sentirei di adottare il condizionale passato per creare un rapporto temporale tra le due azioni (entrerebbe in possesso e avrei ristrutturato) distinguendole appunto sul piano della successione cronologica e non su quello semantico. L’azione eventuale del ristrutturare sarebbe difatti precedente a quella dell’entrare in possesso. Con un altro condizionale presente (ristrutturerei) tale stacco per me non sarebbe evidenziabile.
Avevo valutato anche due tempi dell’indicativo (passato prossimo e futuro anteriore), che però non mi sembrano adeguati al messaggio da trasferire all’interlocutore. Scegliendo tali forme verbali, a patto che siano valide, in che modo cambierebbe la semantica?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono legittime. Nella 1, la proposizione disgiuntiva introdotta da altrimenti può essere costruita con il presente indicativo (vengo), il futuro semplice (verrò) e il condizionale presente (verrei). La scelta fra le tre opzioni è determinata da fattori semantici e diafasici: l’indicativo presente e il futuro rappresentano l’alternativa come un fatto certo nel futuro immediato o lontano. Il presente è, a questo scopo, meno formale del futuro. Il condizionale rappresenta la stessa alternativa come una conseguenza condizionata da un altro evento. In assenza di altre indicazioni, tale evento sarebbe automaticamente fatto coincidere dal ricevente con l’indisposizione di lei: “Spero che lei sia indisposta, altrimenti (se lei non fosse indisposta) non verrei alla festa.
Nella frase 2, come ha giustamente notato lei, il valore del condizionale passato è relativo alla consecutio temporum, non al grado di possibilità della conseguenza di un evento. Il condizionale passato, cioè, indica che l’evento del ristrutturare è passato rispetto a quello di riferimento, cioè la vendita, ma futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora. Non va dimenticato, però, che il condizionale veicola sempre una sfumatura di potenzialità; dalla frase, infatti, traspare, per via del condizionale, che la ristrutturazione non sia stata ancora decisa. 
Si noterà che il momento dell’enunciazione è considerato passato nella frase, perché è osservato dalla prospettiva futura del momento di riferimento; per questo si giustifica l’uso del condizionale passato, che, come è noto, esprime il futuro nel passato, cioè un evento futuro rispetto a un altro evento passato (qui coincidente, per l’appunto, con il presente). Non è necessario spostare il centro deittico, cioè il punto di vista, al futuro per costruire correttamente la frase: è possibile anche mantenere quello del momento dell’enunciazione. In questo modo, il momento in cui avviene la ristrutturazione è futuro rispetto al presente, ma passato rispetto alla vendita, ovvero è futuro anteriore: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrò ristrutturato da poco. Con l’indicativo, però, si perderebbe la sfumatura potenziale veicolata dal condizionale e la ristrutturazione apparirebbe concreta, già decisa.
Il condizionale presente (ristrutturerei) al posto del passato cambia il senso della frase perché la funzione temporale preminente nel condizionale passato sarebbe in questo caso esclusa ed emergerebbe soltanto quella potenziale: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che ristrutturerei (se potessi). Il condizionale presente, inoltre, impedisce l’uso della locuzione da poco, visto che indica un’azione ancora da venire (forse).
Con il passato prossimo (ho ristrutturato) la frase sarebbe ancora corretta, ma la ristrutturazione sarebbe rappresentata come già avvenuta al momento in cui l’emittente sta parlando.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Vi chiedo lumi riguardo alle seguenti frasi:
1. In questi giorni mi sto dedicando di più alla cucina preparando dolci, gnocchi e anche semplici pasti quotidiani, ma le mie preferite sono le torte…
In questo periodo è giusto l’uso della congiunzione ma?
2. È più corretto dire la mia mamma o mia mamma?
3. Dato che non si può uscire, il mio corpo vuole anche muoversi, devo smaltire il cibo che cuciniamo, insieme a mia sorella, sto facendo un po’ di ginnastica quotidiana. Ho provato a fare attività fisica anche con i miei genitori, ma non ha avuto molto successo questo allenamento. Almeno mia mamma è un po’ agile, ma mio papà ha avuto molte difficoltà, infatti ha svolto solo 2/3 degli esercizi; è stato comunque molto divertente e pieno di risate.
In questo periodo ho i seguenti dubbi: l’uso del verbo sto facendo e della congiunzione ma. Inoltre vorrei sapere se è costruito bene.

 

RISPOSTA:

1. L’uso di ma è corretto. In questo caso la congiunzione ha una funzione testuale, non sintattica: serve, cioè, a collegare concettualmente due unità informative chiarendo che la seconda è in contrapposizione con la prima. Per questo motivo, sarebbe meglio farla precedere da un punto e virgola. Sarebbe anche possibile interrompere il periodo prima di ma; in questo modo, il nuovo periodo iniziante con ma rappresenterebbe una affermazione autonoma contrapposta all’affermazione precedente.
Più discutibile, nella frase, è la concordanza tra le mie preferite e le torte, perché con questa costruzione le torte diviene contemporaneamente soggetto e parte nominale del predicato (come se la frase dicesse le mie torte preferite sono le torte). Quello che lei voleva dire, invece, è che le torte sono i suoi piatti (non direi pasti, perché un pasto contiene diversi piatti) preferiti, quindi avrebbe dovuto scrivere ma i miei piatti preferiti sono le torte, oppure ma le mie ricette preferite sono quelle delle torte.
2. Mamma e papà sono parole che appartengono alla famiglia dei nomi di parentela, ma hanno anche una sfumatura affettiva che le rende speciali, come se fossero dei diminutivi. Per questo motivo possono comportarsi sia come gli altri nomi di parentela, che non vogliono l’articolo quando sono accompagnati dall’aggettivo possessivo, sia come gli stessi nomi di parentela alterati, che vogliono l’articolo anche con l’aggettivo possessivo. Mia mamma, quindi, si comporta come mia sorella (impossibile *la mia sorella); la mia mamma si comporta come la mia sorellina (impossibile *mia sorellina). Va da sé che con l’articolo insieme all’aggettivo possessivo si mette in evidenza la sfumatura affettiva; questa scelta, quindi, è adatta a contesti familiari e informali.
3. Il presente continuato è adatto alla frase in cui è usato, nella quale viene descritta una situazione attualmente in corso. Nel brano ci sono 3 periodi, e la congiunzione ma è usata in 2 di questi. In entrambi i casi, comunque, è usata correttamente. Nel primo caso ha una funzione testuale (e sarebbe preferibile farla precedere da un punto e virgola); nel secondo ha funzione sintattica. 
Ci sono diversi punti problematici nel brano, relativi al piano sintattico e a quello testuale. Gliene faccio notare soltanto alcuni. Dato che non si può uscire, il mio corpo vuole anche muoversi instaura un rapporto di causa-effetto in realtà inesistente, perché il corpo vuole muoversi non perché non si può uscire: più corrispondente alla realtà sarebbe una costruzione concessiva come anche se non si può uscire, il mio corpo vuole muoversi lo stesso. Questa costruzione avrebbe anche il vantaggio di collegarsi logicamente meglio con l’unità informativa successiva, che sarebbe bene introdurre con un connettivo esplicito: anche se non si può uscire, il mio corpo vuole muoversi lo stesso, perché devo smaltire il cibo che cuciniamo. A questo punto sarebbe richiesto un punto fermo, seguito dal periodo successivo.
Nel periodo ancora successivo, la sistemazione della seconda parte è infelice, perché mette in posizione saliente un’informazione (questo allenamento) già nota; preferibile è questa sistemazione: ho provato a fare attività fisica anche con i miei genitori, ma questo allenamento non ha avuto molto successo.
Infine, non è chiaro chi sia il soggetto di è stato comunque molto divertente e pieno di risate. Immagino che sia l’allenamento, ma siccome questo tema è stato nominato molto prima, è bene ripeterlo, quindi l’allenamento è stato comunque molto divertente e pieno di risate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

“Caro amico, hai ragione che sono trascorse tante settimane da quando ci siamo visti”.
Il che quale funzione ha (credo nessuna)? Andrebbe eliminato e magari sostituito con una virgola?

 

RISPOSTA:

Il che ha una funzione completiva: sintetizza riguardo al fatto che o simili. Si può certamente sostituire con una virgola, o ancora meglio con due punti. Così facendo, però, si trasforma una subordinata in una coordinata per asindeto, rendendola sintatticamente più autonoma. Sul piano semantico, la diversa organizzazione sintattica produce qualche effetto: la subordinata si pone come completamento della reggente, che rimarrebbe sospesa se ne fosse privata, come a dire che la ragione è legata al fatto specifico descritto nella subordinata. La coordinata, invece, si pone come aggiunta: con la virgola mette il secondo fatto sullo stesso piano del primo, in una relazione di difficile interpretazione; con i due punti configura il secondo fatto come una spiegazione del primo (i due punti si interpretano come ciò che segue spiega il motivo per cui è stato detto ciò che precede).
Il che che sintetizza o sostituisce altri connettivi, come perchécosicchéil fatto che ecc., prende il nome di che polivalente ed è una scelta da limitare a contesti poco formali. Per un approfondimento di questo argomento rimandiamo alla risposta 2800522 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Nella frase  “Le sera, mi lavo, ceno e mi guardo un bel film”, il mi guardo è un falso riflessivo? È corretto o è preferibile dire guardo un bel film?

RISPOSTA:

Espressioni come mi guardo un film segnalano un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione. Si tratta di casi particolari in cui nell’uso del pronome prevale non il piano logico ma la funzione affettivo-intensiva: queste costruzioni intensive sono affini al dativo etico propriamente detto (sul dativo etico la rimando alla risposta 280012 dell’archivio di DICO). L’uso dei pronomi atoni intensivi (per esempio in espressioni come mi ascolto una canzonemi mangio una mela) fa parte di un registro colloquiale e familiare ed è generalmente ammesso nel parlato ma non negli scritti formali, in cui ci si aspetterebbe la variante guardo un film.
Per ulteriori approfondimenti su alcuni usi dei pronomi atoni può leggere anche questa risposta dell’archivio di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

È corretto definire le intenzioni egoistiche?

 

RISPOSTA:

Sì: l’espressione è corretta e se ne trovano diverse attestazioni nell’uso. Ne ho trovata una nel Corriere della sera del 30 gennaio 2017 (“Le intenzioni sono egoistiche, è chiaro”) e qualche decina in Google Books con restrizione al Novecento. 
Non si tratta, come rivela la quantità di attestazioni, di un’espressione molto comune. Più comuni, stando alle stesse risorse usate per intenzioni, sono le combinazioni fini egoistici e scopi egoistici.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Penso di conoscere le regole del discorso indiretto, ma ci sono delle eccezioni quando non si fa la concordanza secondo quelle regole. Così sono inciampata in alcune frasi dove tutto rimane uguale al discorso diretto. Vorrei chiedere come mai avvenga questo.
Nora si è fatta un piercing. > Avete detto che Nora si è fatta un piercing.
Ci troviamo bene al mare. > Mi diranno che si trovano bene al mare.

 

RISPOSTA:

Nelle sue frasi non ci sono eccezioni, ma la trasformazione da discorso diretto a indiretto segue le regole previste. 
Nel primo caso la cornice aggiunta (ovvero la proposizione che regge il discorso diretto divenuto indiretto) è al passato prossimo e ha un soggetto diverso da quello del discorso diretto / indiretto. Bisogna considerare che il passato prossimo si comporta, rispetto al discorso indiretto, come il presente, ovvero non richiede di norma alcun cambiamento di tempo verbale nel discorso indiretto. Il presente nella cornice, infatti, che rappresenta il momento di riferimento rispetto al quale scegliamo il tempo del verbo del discorso indiretto, viene a coincidere con il momento dell’enunciazione, quindi, in questo caso presente = contemporaneità, passato = anteriorità, futuro = posteriorità. Potremmo sostituire il modo indicativo con l’infinito se il soggetto della cornice coincidesse con quello del discorso indiretto: “Nora ha detto che si è fatta un piercing” o “Nora ha detto di essersi fatta un piercing”.
La cornice al futuro, che troviamo nella seconda frase, si comporta di solito come il presente, quindi non richiede nessun cambiamento, per eventi passati (“Si sono trovati bene” > “Diranno che si sono trovati bene” oppure “Diranno di essersi trovati bene”). Quando l’evento del discorso diretto / indiretto è al presente bisogna considerare se il presente è acronico, cioè vale sempre, o è riferito a un preciso momento. Nel primo caso, rimane tale; nel secondo caso diventa passato. Per esempio: “Sei una brava persona” (presente acronico) > “Domani dirò a tutti che sei una brava persona”; “Sono a casa” (evento riferito a un momento preciso) > “Domani Luca dirà a tutti che ero a casa”.
Nella sua seconda frase, bisogna capire se “Ci troviamo bene al mare” sia una affermazione generale (cioè ‘di solito ci troviamo bene al mare’), oppure si riferisca a un momento preciso (cioè ‘ci troviamo bene adesso al mare’). Nel primo caso la frase rimarrà intatta nel discorso indiretto; nel secondo diventerà “Mi diranno che si sono trovati bene al mare”, oppure “Mi diranno di essersi trovati bene al mare”.
Se l’evento del discorso diretto / indiretto fosse futuro, bisognerebbe valutare il suo rapporto temporale con il futuro della cornice: “Tra tre giorni ce la metterò tutta per vincere” > “Domani dirò che due giorni dopo ce la metterò tutta per vincere”, ma “Tra quattro giorni dirò che ce l’avrò messa tutta per vincere”, o “Tra quattro giorni dirò che ce l’ho messa tutta per vincere”, o anche “Tra quattro giorni dirò di avercela messa tutta per vincere”.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Volevo sapere se è giusto dire “La vita non è qualcosa che merita di essere PRESO sul serio”.
Preso si riferisce a qualcosa e quindi va al maschile?

 

RISPOSTA:

Per essere precisi, il soggetto di essere preso è lo stesso della proposizione reggente, quindi che, a sua volta collegato all’antecedente qualcosa. Sebbene attraverso passaggi intermedi, quindi, preso va concordato con qualcosa, ovvero al maschile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I seguenti esempi contengono ripetizioni o pleonasmi e sono pertanto da evitare?
1) Il suo commento è di per sé già eloquente.
2) Te l’ho già detto prima.
3) Risolvere definitivamente il problema.
4) L’uomo è un assiduo avventore del locale.
5) Bazzico abitualmente quel circolo.
6) Non so se lei ne sia capace. Ma il fatto che/se lo sia o non lo sia non è rivelante.

 

RISPOSTA:

Le frasi 1, 2, 3 e 5 presentano avverbi o locuzioni avverbiali che non apportano un significato determinante alla frase e servono soprattutto ad arricchirla sintatticamente. Possono, pertanto, essere definiti pleonastici e in uno stile che voglia essere asciutto andranno evitati (sebbene non si tratti di errori da nessun punto di vista). Si noti che, se nello scritto gli avverbi superflui non hanno ragione di apparire, nel parlato possono servire da appendici informative del verbo. Questo si nota soprattutto nella frase 5: se eliminiamo l’avverbio, l’informazione saliente diviene quel circolo (infatti l’accento della frase viene a cadere tutto su questo sintagma), ma l’emittente potrebbe voler puntare l’attenzione sull’azione del bazzicare, non sul luogo. Per questo scopo avrebbe due possibilità: una dislocazione (quel circolo lo bazzico, così come il problema l’ho risolto) oppure, appunto, l’inserimento dell’avverbio semanticamente quasi neutrale che gli consenta di appoggiare la voce non sul sintagma nominale (bazzico ABITUALMENTE quel circolo). Non ugualmente efficace sarebbe, invece, BAZZICO quel circolo, perché la posizione iniziale non marcata del verbo lo configura come tema, ovvero come informazione poco saliente. Per approfondire i concetti di temaremadislocazione e simili può consultare l’archivio di DICO, a partire dalla risposta n. 28009, che rimanda a sua volta ad altre risorse della pagina.
Decisamente non superfluo è l’aggettivo assiduo della frase 4: un avventore, infatti, può non essere assiduo, ma occasionale, oppure essere accompagnato da una proposizione relativa che lo qualifica diversamente. Il secondo periodo della frase 6 deve essere scompartito, perché le due possibili costruzioni sintattiche accorpate non sono equivalenti, ma una esprime un dubbio, l’altra esprime un fatto:
6a. Ma se lo sia o non lo sia non è rivelante.
6b. Ma il fatto che lo sia non è rivelante. / Ma il fatto che non lo sia non è rivelante.
Le varianti b risultano in contrasto logico con il contenuto del primo periodo, che presenta un dubbio. La variante a potrebbe essere semplificata (Ma se lo sia non è rivelante oppure Ma se non lo sia non è rivelante), ma la semplificazione comporterebbe un lieve cambiamento nel senso della frase, perché farebbe propendere il dubbio verso una delle due possibilità, come se l’emittente sospettasse che il ricevente fosse oppure non fosse capace. Neanche qui, insomma, si riscontra un pleonasmo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Potete verificare se l’analisi dei seguenti periodi è corretta?
1. Il problema dell’inquinamento atmosferico è concentrato soprattutto nelle aree metropolitane (principale) / dove il riscaldamento degli edifici, il traffico e gli impianti industriali hanno effetti dannosi sulla qualità dell’aria (subordinata) / e causano danni alla salute dei cittadini, (coordinata) / ragione per cui spesso si ricorre a misure di emergenza come il blocco del traffico dei veicoli più inquinanti (subordinata alla coordinata).
2. Il presidente della Repubblica ha accolto con gioia la delegazione degli sportivi (principale) / che hanno partecipato alle olimpiadi (subordinata) / e che hanno dato prestigio al nome dell’Italia (coordinata).
3. Tutti coloro che parteciperanno al viaggio di istruzione (principale) sono invitati ad alzare la mano, (subordinata 1° grado) / perché il numero esatto dei ragazzi venga comunicato in segreteria (subordinata 2° grado).
4. Una volta saliti sul treno ci accorgemmo (principale) che il biglietto non era stato obliterato (subordinata).
5. Ho pensato (principale) che la soluzione migliore sia (subordinata 1° grado) quella indicatami da Luigi (subordinata 2° grado).
6. Senza che lui lo sapesse, (subordinata 1° grado) / gli amici di Marco hanno organizzato una festa, (principale) / perché è tornato da un soggiorno all’estero che è durato più di un anno (subordinata 1° grado).

 

RISPOSTA:

 1. L’analisi è sostanzialmente corretta, ma incompleta: la subordinata introdotta da dove è un relativa; la coordinata è coordinata alla subordinata relativa; la subordinata alla coordinata è anch’essa relativa. Quest’ultima è introdotta da un nesso relativo (ragione per cui), nel quale il nome tecnicamente fa parte della proposizione reggente, visto che è l’antecedente del pronome per cui. Può, però, essere considerato un tutt’uno con il relativo (si evita, così, di tagliare la proposizione reggente dopo ragione, lasciandola un po’ sospesa: e causano danni alla salute dei cittadini, ragione).
Esulando dall’analisi, rilevo che la virgola prima di ragione non va bene; l’uso di un incapsulatore (ovvero una parola che racchiude un intero enunciato) come ragione è uno dei tipici casi in cui è richiesto il punto e virgola (o, al limite, il punto fermo). La necessità di inserire un segno di interpunzione più forte della virgola rafforza l’idea che ragione faccia parte più della relativa subordinata che della reggente.
2. Analisi corretta. Manca, però, l’indicazione del tipo di subordinata, ovvero relativa, e dell’informazione riguardo alla coordinata, che è coordinata alla subordinata.
3. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Tutti coloro sono invitati (principale) che parteciperanno al viaggio di istruzione (subordinata di 1° grado relativa) ad alzare la mano (subordinata di 1° grado oggettiva o finale), / perché il numero esatto dei ragazzi venga comunicato in segreteria (subordinata di 2° grado finale).
4. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Una volta saliti sul treno (subordinata di 1° grado temporale implicita) ci accorgemmo (principale) che il biglietto non era stato obliterato (subordinata di 1° grado oggettiva).
5. Sostanzialmente corretta. La subordinata di 1° grado è oggettiva; la subordinata di 2° grado è relativa implicita. In questo caso non c’è dubbio che quella faccia parte della reggenre, quindi: che la soluzione migliore sia quella / indicatami da Luigi.
6. Scorretta. Ecco la versione corretta: “Senza che lui lo sapesse (subordinata di 1° grado esclusiva), / gli amici di Marco hanno organizzato una festa (principale), / perché è tornato da un soggiorno all’estero (subordinata di 1° grado causale) che è durato più di un anno (subordinata di 2° grado relativa).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È vero che posso dire un pane da un chilo e un pane di un chilo?
E poi: Finora l’italiano non mi sembrava come lo spagnolo che ha l’uso pleonastico dei pronomi personali. Vorrei chiedere il significato o il motivo per cui in queste frasi dove c’è già un oggetto (nome o subordinata) si usa il pronome:
“Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?”
“Lo so che costa di meno”.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette entrambe le espressioni: un pane (o forse meglio una pagnotta di pane, cioè un tipo specifico di pane, non il pane in astratto: visto che si specifica il peso, si tratta di un tipo concreto di pane) di un chilo o da un chilo.
Per quanto riguarda la seconda domanda, ha ragione, l’italiano non ha grammaticalizzato i pleonasmi pronominali come lo spagnolo: a mi me gusta. Tuttavia, in alcuni casi, nello stile informale, sono ammessi pleonasmi pronominali, in costrutti detti dislocazioni a destra (“lo mangio il panino”) o dislocazioni a destra (“il panino lo mangio”), per dare maggior valore o al soggetto, o all’oggetto, o al rapporto tra gli interlocutori ecc. Talora i costrutti dislocati (tra i quali rientrano anche a me mi e simili) sono talmente frequenti, in alcune espressioni italiane, da lasciar supporre una forma di grammaticalizzazione simile a quella dello spagnolo e di altre lingue. Per es.: “La sai l’ultima”, “Lo sai che ore sono”, “Me ne infischio di quello che dici” ecc., in cui le forme con pleonasmo sono molto più naturali di quelle senza pleonasmo.
Quindi, andando nello specifico ai suoi esempi:
– “Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?” rende molto più l’idea del trattare bene (cioè enfatizza il significato del verbo), quasi dando per scontato l’oggetto, che poi alla fine viene ripreso. Infatti, nell’equivalente senza ripresa pronominale, il concetto di trattare MOLTO bene qualcuno è molto indebolito: “Certo che tratti bene il tuo Sergio, eh?”
– “Lo so che costa di meno” rende molto meglio l’idea che io lo so già, rispetto al semplice “so che costa di meno”. Con sapere, poi, come detto poco sopra, questi usi pleonastici sono talmente comuni da lasciar supporre una prossima definitiva grammaticalizzazione alla spagnola, con saperlo, piuttosto che sapere, come unica forma possibile. 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Hanno archiviato la pratica per coloro il cui adempimento era stato regolarmente soddisfatto.
La frase è corretta (coloro il cui adempimento…)?

Cerca di pensare a quanti spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha riservato.
La frase è corretta (quanti spasimanti… dai quali)?

 

RISPOSTA:

Le frasi non sono ben formate.
Nella prima, il cui adempimento (equivalente a l’adempimento dei quali) può significare sia l’adempimento fatto dai quali, sia l’adempimento fatto nei confronti dei quali. Già questa ambiguità è dannosa per la comprensione e dovrebbe essere evitata. A questa, inoltre, si aggiunge l’inconciliabilità tra il soggetto ademplimento e il predicato essere soddisfatto. Non sono molti i verbi che ammettono adempimento come argomento (che sia il soggetto o il complemento oggetto): mi viene in mente soltanto ottemperare. In alternativa, si può modificare la frase in modo da trasformare adempimento nel verbo adempiere a, inserendo un complemento oggetto generico. In conclusione propongo due versioni riformulate della frase:
1. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente ottemperato all’adempimento;
2. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente adempiuto all’indicazione / all’ordine / all’obbligo.
Nella seconda frase c’è un pleonasmo: la stessa funzione relativa, infatti, è svolta tanto dall’aggettivo quanti quanto dal pronome dai quali. Per evitare il pleonasmo, bisogna eliminare una delle due parole. Anche in questa frase, inoltre, il verbo della relativa non è ben scelto: riservare da spasimanti non è un’espressione felice. Propongo questa riformulazione:
1. cerca di pensare alla quantità di spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha protetto.
Altre variazioni sono possibili, per esempio:
2. cerca di pensare a quanti spasimanti molesti tuo padre abbia allontanato da te per proteggerti.
Possibile, ma problematica (quindi da riservare a contesti informali), anche la seguente:
3. cerca di pensare da quanti spasimanti molesti tuo padre ti abbia protetto.
Il problema di questa variante è la sostituzione sintetica della preposizione retta dal verbo pensare (a) con quella richiesta da quanti per svolgere la sua funzione di complemento di allontanamento (da) in relazione al verbo proteggere.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio riguardo a questa frase: “Se stavi a casa tua, tutto questo non sarebbe accaduto”.
Con il se l’imperfetto è assolutamente vietato? Devo per forza dire se fossi stato?

 

RISPOSTA:

L’indicativo imperfetto può essere usato al posto del congiuntivo trapassato nella protasi del periodo ipotetico dell’irrealtà in un contesto informale. Anche l’apodosi può prendere l’indicativo imperfetto: “Se stavi a casa tua, tutto questo non accadeva”.
La forma è generalmente da evitare nel parlato e nello scritto di alta formalità (sentenze, articoli scientifici, lezioni e relazioni di studio o di lavoro e simili). Nello scritto di media formalità (componimenti scolastici, e-mail di lavoro e simili) è accettabile, ma produce un abbassamento del tono del testo. Nello scritto informale e nel parlato di media e bassa formalità si può usare senza remore. 
Nella scelta, ovviamente, peseranno anche ragioni di stile personale ed esigenze espressive: nello scritto giornalistico, per esempio, l’indicativo può essere preferito per dare al testo un alone di leggerezza ammiccante.
Questo tema è stato oggetto di decine di risposte che può leggere nell’archivio di DICO usando come parola chiave per la ricerca periodo ipotetico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho una perplessità a proposito del tempo – o dei tempi – valido per accordare una proposizione dipendente dall’apodosi di un periodo ipotetico.

“Se non ti fossi sottoposto a questo esame, ora ti domanderesti / ti saresti domandato: ‘Che malattia ho?'”
potrebbe diventare:
“Se non ti fossi sottoposto a questo esame, ora…
1a) “ti domanderesti che malattia hai”
1b) “ti domanderesti che malattia tu abbia”
1c) “ti domanderesti che malattia potresti avere”
2a) “ti saresti domandato che malattia hai”
2b) “ti saresti domandato che malattia tu abbia”
2c) “ti saresti domandato che malattia potresti avere”.
Quali predicati sono ammessi e quale secondo voi è il più indicato?

Rimanendo in tema di subordinate dipendenti da apodosi, in una frase che abbia come protasi “Se avessi seguito il mio consiglio”, l’apodosi potrebbe essere “ti renderesti conto / ti saresti reso conto”, ma un’eventuale subordinata di quest’ultima si dovrebbe costruire con il tempo imperfetto o anche altri tempi e modi sarebbero possibili?
3a) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare era la soluzione migliore”
3b) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare è la soluzione migliore”
3c) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare sia la soluzione migliore”
3d) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare fosse la soluzione migliore”
3e) […] “ti renderesti conto che continuare a studiare sarebbe la soluzione migliore”
3f) […] “ti saresti reso conto che continuare a studiare sarebbe stata la soluzione migliore”.

 

RISPOSTA:

Partiamo dall’assunto che i tempi dell’indicativo e del congiuntivo si equivalgono nella proposizione completiva (quindi tanto in “che malattia…” quanto in “che continuare a studiare…”); il congiuntivo, rispetto all’indicativo, caratterizza la frase come più formale, ma non ne modifica il senso. Il condizionale presente, a sua volta, coincide con l’indicativo presente (sia che usiamo il condizionale del verbo, sia che affianchiamo al verbo un verbo servile come potere). Rispetto all’indicativo, il condizionale aggiunge una sfumatura di eventualità, suggerendo che ci sia un’altra condizione sottintesa. Per esempio, nella prima frase “ti domanderesti che malattia potresti avere” suggerisce “… che malattia potresti avere se tu fossi malato”. Come si nota, dal punto di vista semantico non cambia molto; il condizionale, infatti, serve qui non per aggiungere informazioni, ma come espediente per attenuare il peso emotivo dell’affermazione.
Per quanto riguarda i tempi, tutte le varianti da lei proposte sono corrette per entrambe le frasi, ma nel passaggio dall’una all’altra cambia leggermente da una parte il rapporto temporale tra la condizione e la conseguenza (l’apodosi), dall’altra il rapporto temporale tra la reggente (che coincide con l’apodosi) e la completiva.
Sul versante del periodo ipotetico, “se non ti fossi sottoposto… ti domanderesti” comporta uno scarto temporale tra i due eventi: la condizione è avvenuta nel passato, la conseguenza è contemporanea al momento dell’enunciazione; “se non ti fossi sottoposto… ti saresti domandato”, invece, rappresenta i due eventi come contemporanei tra loro, ma entrambi passati rispetto al momento dell’enunciazione. La stessa relazione vale per la seconda frase. 
Sul versante della proposizione completiva, vale la regola generale della consecutio temporum: il presente instaura un rapporto di contemporaneità con il verbo della reggente, il passato di anteriorità, il futuro (o il congiuntivo presente) di posteriorità. Quando la reggente è al passato, il futuro si costruisce con il condizionale passato; è il caso della variante 3f) […] “ti saresti reso conto [nel passato] che continuare a studiare sarebbe stata [nel futuro rispetto a quel passato] la soluzione migliore”.
Potrà trovare molti altri esempi e spiegazioni sulla consecutio temporum e sull’uso dei modi nel periodo ipotetico nell’archivio di DICO, scrivendo nel campo search o consecutio temporum o periodo ipotetico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Come posso capire la regola nel caso della comparazione di due avverbi?
1. Elena ha studiato più oggi che ieri. 
2. Mario è tornato più stanco di prima. 
In queste due frasi si usano congiunzioni diverse, perché?

 

RISPOSTA:

Nelle sue frasi è presente una comparazione, che richiede il secondo termine di paragone, anche detto complemento di paragone. Questo complemento è introdotto dalla preposizione di o dalla congiunzione che secondo queste regole: di è preferito (ma la sostituzione con che è possibile) quando il complemento è costituito da un nome (più stanco di Luca) o un pronome (più stanco di te) non preceduti da altre preposizioni, oppure un avverbio. In quest’ultimo caso rientra la sua seconda frase.
Che è obbligatorio quando il complemento di paragone è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione: “Mi piace di più parlare con te / con Luca che con lui / con Marco”; quando è costituito da un aggettivo, se questo riguarda lo stesso oggetto del primo aggettivo: “Luca è più studioso che intelligente”, “Questa occasione è più unica che rara”, oppure da un avverbio se questo riguarda lo stesso evento (più oggi che ieri, come nella sua prima frase); quando è costituito da un verbo, ovvero da un’intera proposizione: “Mi piace di più sciare che pattinare”, “Correndo si arriva prima che camminando”, “Se ogni tanto ti limiti nel bere è meglio che se bevi sconsideratamente”.
Si noti che, nella sua prima frase, se cambiamo l’ordine delle parole di diventa preferibile a che: “Elena ha studiato più oggi che ieri”, ma “Oggi Elena ha studiato più di ieri”. In questa forma, infatti, il complemento di paragone diventa analogo a quello della seconda frase. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Facciamo la spesa agli anziani” equivale a facciamogli la spesa o a facciamoli la spesa?

 

RISPOSTA:

La variante corretta tra le due è facciamogli la spesa.
A differenza delle particelle pronominali (tecnicamente chiamate pronomi cliticimitici vi, che possono fungere da oggetto diretto e indiretto (prendimi = ‘prendi me’ e ‘prendi a / per me’), i pronomi clitici di terza persona si distinguono per la varietà delle forme. In funzione di oggetto diretto avremo lo la al singolare e li e le al plurale (prendili = ‘prendi loro’); in funzione di oggetto indiretto, invece, avremo gli le al singolare (prendigli = ‘prendi a / per lui’), e il solo gli al plurale (prendigli = ‘prendi a / per loro). *”Facciamoli la spesa” è, pertanto, impossibile; “Facciamogli la spesa”, invece, significa ‘facciamo la spesa a / per lui’ e ‘facciamo la spesa a / per loro’ (la disambiguazione è affidata al co-testo). L’uso di gli per ‘a loro’ è ormai accettato a tutti i livelli di formalità; è possibile, però, ancora propendere per “Facciamo loro la spesa” in un contesto molto formale.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo su un giornale a diffusione nazionale, nell’articolo di fondo: “… non prendeteci in giro, che non siamo ragazzini …”. Quel che non dovrebbe essere accentato ed avere quindi valore di perché poiché? Altrimenti, come definire quel che?

 

RISPOSTA:

Uno dei tratti più caratteristici dell’italiano contemporaneo è la diffusione nello scritto del che polivalente, ovvero di usi del connettivo che non facilmente inquadrabili nella classificazione grammaticale tradizionale. Si tratta di usi ben noti alla tradizione dell’italiano, ma fino a qualche decennio fa tipici del parlato. Tipici, ma non esclusivi, come dimostrano, per fare un esempio tanto antico quanto illustre, i tanti passi danteschi nei quali la funzione di che è indecidibile (per una disamina di questi passi si può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata proprio a che). Il più famoso è probabilmente il verso 3 dell’Inferno: “ché la diritta via era smarrita”, che nell’edizione Petrocchi (qui riprodotta) appare come ché, ma sul quale ci sono parecchi pareri discordi che vorrebbero la restituzione di che (secondo la lezione di molti codici). Il valore del connettivo nel passo, infatti, può sì essere causale, ma non si possono escludere il valore consecutivo (= tanto che la diritta via era smarrita), quello semplicemente aggiuntivo (= e la diritta via era smarrita), quello che alcuni definiscono modale (= in modo tale che / sicché la diritta via era smarrita) e addirittura, ma si tratta dell’interpretazione meno accreditata, quello relativo (= nella quale la diritta via era smarrita). Tra gli usi del che polivalente, infatti, rientra anche quello di relativo generico, che può sostituire cui e tutti gli altri casi (in cuiper cui ecc.). 
Questi usi sono rimasti ai margini della tradizione scritta fino a qualche decennio fa; anche le occorrenze dantesche sono da interpretare come tentativi di imitare il parlato o occasionali abbassamenti di tono. L’avvicinamento relativamente recente tra lo scritto e il parlato ha portato a una sempre maggiore accoglienza di tratti come questo nello scritto, a partire ovviamente da testi di bassa formalità (famoso il verso della canzone di Jovanotti perché non c’è niente che ho bisogno) o brillanti, come certi articoli giornalistici di commento. Lo scritto mediamente formale ancora rifiuta questi usi, ma è possibile che essi si diffondano sempre di più in futuro. Già oggi, per esempio, il che pseudorelativo all’interno della frase scissa (“È lui che ho visto”) è pienamente accettato. Sulla frase scissa, in particolare, si possono leggere diverse risposte nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se verificassi che la situazione fosse / sia / è sotto controllo mi sentirei più tranquillo.

La subordinata oggettiva che la situazione fosse, a mio avviso è corretta, ma una collega sostiene che occorre il congiuntivo presente sia. Pur considerando corretto anche l’uso dell’ indicativo (volendo dare alla proposizione una natura realistica), quale tempo del congiuntivo è corretto?

 

RISPOSTA:

Come regola generale, sconsiglio sempre di sostenere che una forma o una costruzione sia scorretta. Molto spesso, infatti, l’errore si rivela essere una variante ammessa dalla lingua, magari con qualche restrizione, o addirittura pienamente legittima. In questo caso, per esempio, le tre forme verbali da lei prospettate sono valide, a certe condizioni. In particolare, fosse è addirittura l’unica possibile se la situazione di cui si parla è passata: “Se verificassi (ora) che la situazione (ieri) fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Se, invece, la situazione è attuale, sia è sicuramente la forma più attesa, perché in linea con le regole della consecutio temporum, secondo cui il presente congiuntivo indica contemporaneità nel presente con il verbo della reggente. La forma fosse, però, non è comunque da escludere, perché può essere attratta dalla struttura sottostante: “Se la situazione fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Si tratta di un uso meno preciso, ma che non definirei scorretto. L’indicativo presente, infine, non rappresenta la situazione come realistica, come lei suppone, ma abbassa il registro linguistico. Non c’è differenza tra sia e è dal punto di vista sintattico, ma la prima forma è più formale della seconda.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta? 
1. Ieri era il mio compleanno. 
2. Ieri è stato il mio compleanno.
È preferibile usare un altro tempo?

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti vanno bene. Nella frase 1 si designa il carattere durativo dell’evento, cioè del passare del tempo durante il compleanno. In altre parole, con l’imperfetto l’evento è rappresentato come continuato all’interno dei limiti temporali fissati dall’avverbio ieri.
Il passato prossimo della frase 2, invece, rappresenta l’evento come unitario, cioè come un unico momento nel tempo, coincidente con ieri.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Secondo la predizione, ‘Roma esisterà fino a quando esisterà il Colosseo'”.
Se non vado errato, l’esempio è valido; se però volessimo modificarne le sfumature semantiche, si potrebbe procedere come segue?
1. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esista il Colosseo”.
2. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esistesse il Colosseo”.
3. Secondo la predizione, “Roma esisterà fino a quando esista il Colosseo”.
Le tre varianti sono corrette sotto il profilo sintattico?
La seguente, invece, è scorretta?
4. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esisterebbe il Colosseo”.

 

RISPOSTA:

Il primo punto da considerare è il verbo della proposizione Roma esisterà / esisterebbe. La scelta del modo del verbo dipende qui dalla volontà di rappresentare l’esistenza come un fatto certo (indicativo) o come la conseguenza di una condizione (condizionale).
Nel primo caso ci si aspetta che anche la subordinata temporale (che essendo al futuro ha già in sé una sfumatura di potenzialità) sia all’indicativo futuro (versione 1). Così facendo, i due eventi, pur in un rapporto di condizione-conseguenza, sono rappresentati come certi (per quanto sia possibile rappresentare come certi eventi non ancora avvenuti).
Possibile è anche il congiuntivo presente nella temporale dipendente dalla principale all’indicativo futuro (versione 3); si tratta della variante più formale della versione 1.
Con il condizionale nella principale, la subordinata temporale ammette ancora l’indicativo futuro (“Roma esisterebbe fino a quando esisterà il Colosseo”). In questo caso il condizionale è giustificato da un’altra condizione, diversa da quella dell’esistenza del Colosseo, recuperabile dal co-testo, ovvero la veridicità della predizione: “Roma esisterebbe (se fosse vera la predizione) fino a quando esisterà il Colosseo”. Sarebbe un caso di condizionale di distanziamento; lo stesso che usano i giornalisti quando riportano fatti non confermati (per esempio: “L’imputato avrebbe ricattato il vicino di casa”, ovvero “L’imputato avrebbe ricattato se l’accusa fosse vera, il vicino di casa”).
Se, invece, costruiamo la temporale con il congiuntivo imperfetto (versione 2) mettiamo in relazione diretta la condizione del perdurare dell’esistenza del Colosseo e la conseguenza dell’esistenza di Roma.
La versione 4 della frase, infine, è scorretta, perché rappresenta la condizione all’interno della temporale ipotetica con il condizionale presente, che, invece, serve a rappresentare la conseguenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Con una reggente all’indicativo (presente o futuro), una subordinata introdotta da appena o da quando può essere costruita tanto con il congiuntivo passato quanto con quello trapassato? Se sì, che cosa cambierebbe a livello semantico?
1. Rachele uscirà di casa, appena / quando abbia sbrigato le faccende.
2. Rachele uscirà di casa, appena / quando avesse sbrigato le faccende.
La costruzione
3. Rachele uscirà di casa, appena/quando avrà sbrigato le faccende
è certamente più attesa, ma vi domando se siano possibili anche quelle sopra elencate.

 

RISPOSTA:

Le tre varianti sono legittime e non sono neanche le uniche possibili. Partiamo dal presupposto che le proposizioni temporali al futuro sono per loro natura affini alle condizionali, sia che contengano l’indicativo, sia che contengano il congiuntivo. È chiaro, infatti, che la previsione di un evento futuro porti con sé una certa componente di potenzialità. Questa componente è minima nella versione 3 della frase, per via dell’uso dell’indicativo: quando avrà sbrigato implica sì se avrà sbrigato, ma nello stesso tempo suggerisce che ciò avverrà certamente (per quanto ne sa l’emittente). Nella versione 2, al contrario, la componente di potenzialità è massima, perché il congiuntivo trapassato (avesse sbrigato) ha il ruolo di indicare un’ipotesi improbabile o impossibile. La frase, quindi, suggerisce che, per quanto ne sa l’emittente, Rachele difficilmente riuscirà a sbrigare le faccende in tempo per uscire.
Ci sarebbe una terza versione della frase, con il congiuntivo imperfetto, che rappresenterebbe la condizione come incerta, ma realizzabile: “Rachele uscirà di casa, appena / quando sbrigasse le faccende”.
La versione 1, infine, rappresenta una variante della 3 senza apprezzabile cambiamento di significato, ma posizionata più in alto sull’asse diafasico, ovvero più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Sfogliando il vostro archivio delle domande, mi sono soffermata sull’alternanza tra congiuntivo trapassato e imperfetto, passato prossimo e futuri dell’indicativo nelle subordinate. Mi piacerebbe conoscere il livello di formalità delle soluzioni sotto indicate.
1) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi fosse passata, dovrei richiamarlo.
2) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, avrei dovuto richiamarlo.
3) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, dovrei richiamarlo.
4) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi è passata, dovrò richiamarlo.
5) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passerà, dovrò richiamarlo.
6) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi sarà passata, dovrò richiamarlo.

 

RISPOSTA:

1) La proposizione condizionale (se entro domani la febbre non mi fosse passata) configura l’oggettiva (dovrei richiamarlo) come l’apodosi di un periodo ipotetico (di cui la condizionale è la protasi). Il congiuntivo trapassato (fosse passata) indica che l’ipotesi è altamente improbabile, inverosimile. Si noti che questa funzione sintattica in questo caso è svincolata dalla consecutio temporum, tanto che il trapassato può essere usato anche in relazione a un evento futuro quale è quello descritto nella frase.
Riguardo alla 2) e alla 3), il congiuntivo imperfetto (passasse) indica che l’ipotesi è verosimile. L’apodosi di questo periodo ipotetico è una proposizione oggettiva (dipendente da ha detto) e tutte le completive (categoria nella quale rientra l’oggetiva) rispettano fedelmente la consecutio temporum. Stando alla consecutio, un evento successivo a un altro presente si indica con l’indicativo futuro, il congiuntivo presente o, in un periodo ipotetico, il condizionale presente; un evento successivo a uno passato (il cosiddetto futuro nel passato), invece, si indica con il congiuntivo imperfetto o il condizionale passato; la scelta del tempo del condizionale, pertanto, dipenderà dal tempo della reggente. Il passato prossimo (ha detto) è ovviamente un passato, ma vale come presente, perché la disposizione del medico è ancora valida nel momento dell’enunciazione e lo sarà anche nel momento in cui l’emittente dovrà chiamarlo. Il passato prossimo, pertanto, richiede preferibilmente il condizionale presente (dovrei), tanto in relazione a una protasi al congiuntivo imperfetto (ipotesi possibile), quanto in relazione a una al congiuntivo trapassato (ipotesi improbabile). Più insolito, ma non impossibile, sarebbe il condizionale passato (avrei dovuto), che rappresenterebbe automaticamente la disposizione del medico come legata al passato e non più valida (circostanza che potrebbe verificarsi se, per esempio, il medico ha in seguito comunicato una disposizione diversa, o se l’emittente ha già deciso che non seguirà la disposizione).
Nella 4) la proposizione condizionale rappresenta l’ipotesi come reale, suggerendo che sia molto probabile che si verifichi. Il passato prossimo (è passata) in relazione a un evento futuro si giustifica immaginando come momento di riferimento domani, rispetto al quale la febbre si è già manifestata come passata o no. L’apodosi all’indicativo futuro è perfettamente in linea con il grado di probabilità di questa ipotesi, ma essa ammette anche il condizionale, che lascia trasparire la possibilità che nonostante la febbre l’emittente possa non chiamare il medico (come se ci fosse una seconda protasi implicita: se entro domani la febbre non mi è passata, dovrei richiamarlo (se lo ritenessi opportuno)).
Dal punto di vista della formalità, quest’ultima versione della frase ammette delle varianti: quella più formale è la 6), con il futuro anteriore nella protasi (se non mi sarà passata) e il futuro semplice nell’apodosi; quella meno formale avrebbe il passato prossimo nella protasi e il presente nell’apodosi (devo chiamarlo). La 5), con i due futuri, si colloca a un livello intermedio: è meno precisa, quindi meno formale, di quella con il futuro anteriore, ma è più precisa, quindi più formale, di quella con il passato prossimo.
Si consideri che il futuro anteriore è usato soprattutto in contesti di alta formalità, o per evitare confusione qualora il co-testo generi ambiguità. Nel tempo, il futuro anteriore ha subito un progressivo abbandono in favore del futuro semplice e del presente indicativo, decisamente più economici.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi seguenti è stato usato il pronome relativo. C’è qualche differenza logica o di significato? Qual è, tra le due, la soluzione da preferire?
1. Il preside del Liceo è Giovanni, COLUI CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.
2. Giovanni è il preside del Liceo, CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.

 

RISPOSTA:

Tra le due frasi ci sono due differenze, entrambe nella proposizione principale, la disposizione dei sintagmi e la presenza del pronome colui. La prima differenza rispecchia un diverso scopo informativo: nella prima frase si vuole informare su chi sia il preside del Liceo, nella seconda su chi sia Giovanni. Per quanto riguarda colui, esso funge da antecedente di che, quindi è il referente dell’informazione della proposizione relativa; a sua volta, colui rimanda a Giovanni, che è subito adiacente. Questa formulazione con la relativa indirettamente riferita alla persona di cui si sta parlando separa l’informazione della relativa da quella della reggente, suggerendo che la prima sia rilevante per descrivere Giovanni, ma in modo indipendente dal suo ruolo di preside. Senza colui, al contrario, l’informazione della relativa è collegata a quella della reggente, tanto da suggerire che ci sia una relazione di quasi motivazione tra le due (quasi Giovanni è il preside del Liceo perché ha insegnato Filosofia).
Nella seconda frase, l’informazione della relativa si aggancia direttamente alla persona di cui si sta parlando; stranamente, però, questa non è Giovanni, ma il preside del Liceo.
La seconda formulazione, insomma, non è felice, perché, a prescindere dalla presenza di colui, allontana il pronome che dal suo antecedente naturale, che è Giovanni. È preferibile, pertanto, usare la prima versione, con o senza colui, oppure, nella seconda, anticipare la relativa come incidentale: “Giovanni, che ha insegnato per molti anni Filosofia, è Il preside del Liceo”. Con l’incidentale, colui diviene superfluo in ogni caso, perché l’anticipazione dell’informazione della relativa rispetto a quella della principale fa risaltare la prima come dotata di una rilevanza autonoma e rende molto improbabile l’interpretazione quasi motivazionale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si legge sui giornali: “L’Europa ci dia una mano”. Quel dia è da considerare congiuntivo presente o imperativo?

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista morfologico è un congiuntivo presente, ma il suo senso è quello di un imperativo. Quest’uso del congiuntivo in una proposizione indipendente (cioè non subordinata a un’altra proposizione) è detto esortativo e serve a supplire le persone che l’imperativo non ha, ovvero la terza singolare e plurale e la prima plurale (è quello che usiamo quando diciamo “Andiamo!”). In teoria si può anche usare alla prima singolare, ma in quel caso si preferisce usare la seconda persona dell’imperativo, rivolgendosì a sé stessi come se si parlasse a un’altra persona.
Si noti che questo congiuntivo è apparentemente all’interno di una proposizione indipendente, ma in realtà la proposizione in cui si trova è dipendente da una reggente implicita: “L’Europa ci dia una mano” = ‘Voglio / Vogliamo / Ordino / Ordiniamo che l’Europa ci dia una mano”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Penserai che sono una ignorante… ma

1. non avrei mai creduto che arrivasse un periodo così”; 
2. non avrei mai creduto che potesse arrivare un periodo così”.

Sono corrette entrambe?

 

RISPOSTA:

Sì, ma la seconda aggiunge alla formulazione una ulteriore sfumatura di eventualità, per mezzo della quale l’emittente enfatizza la scarsa probabilità che ha attribuito al realizzarsi dell’evento.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Potete aiutarmi a fare l’analisi di questi periodi?
1. Comprendiamo (principale) / che sei dispiaciuta (prop. oggettiva) / e non vogliamo certo andare avanti con questo argomento (prop. coordinata).

2. Credo (principale) / sia un bene (prop. oggettiva) / che tu abbia preso finalmente questa decisione (?).

3. Il mio assicuratore ha voluto sapere (principale) / che cosa era successo (prop. interrogativa indiretta) perché spesso i responsabili tentano (prop. causale) / di nascondere le prove dei loro errori (prop. oggettiva implicita).

4. Non mi era mai capitato (principale) / di essere fermata alla dogana (prop. oggettiva implicita) e di dover subire un interrogatorio (prop. coordinata).

5. Sono andata al supermercato (principale) / per comprare la pasta (finale).

RISPOSTA:

La sua analisi è giusta tranne che in pochi casi. Per comodità e per specificare alcune informazioni su alcune proposizioni, riscriviamo di seguito tutte le frasi con il tipo di proposizione tra parentesi quadre. Mettiamo in grassetto i punti in cui la sua analisi è sbagliata o incompleta.
1. Comprendiamo [principale] / che sei dispiaciuta [oggettiva esplicita di primo grado] / e non vogliamo certo andare avanti con questo argomento [coordinata alla principale].
 
2. Credo [principale] / sia un bene [oggettiva esplicita di primo grado] / che tu abbia preso finalmente questa decisione [soggettiva esplicita di secondo grado].
 
3. Il mio assicuratore ha voluto sapere [principale] / che cosa era successo [interrogativa indiretta esplicita di primo grado] / perché spesso i responsabili tentano di nascondere le prove dei loro errori [causale esplicita di secondo grado]. 
Tentare di + infinito rappresenta una perifrasi (detta aspettuale) che va considerata come un unico verbo.

4. Non mi era mai capitato [principale] / di essere fermata alla dogana [soggettiva implicita] / e di dover subire un interrogatorio [coordinata alla soggettiva]
 
5. Sono andata al supermercato [principale] / per comprare la pasta [finale implicita di primo grado].
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Qualora vi interessasse un film sulla pandemia che riguardi la quarantena di una città…”: la domanda è: che riguardi o che riguardasse?

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono possibili. Ugualmente possibile sarebbe che riguarda, ma, come sempre avviene, quando c’è la possibilità di scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo, quest’ultimo rappresenta la scelta più formale. E va aggiunto che la scelta del congiuntivo rispetto all’indicativo è motivata (sebbene non sia obbligatoria) anche dal contesto ipotetico in cui si inserisce la proposizione.
Il congiuntivo nella proposizione relativa, però, non è soltanto la scelta più formale; esso connota anche la proposizione come ipotetica, facendo sfumare il pronome che verso la locuzione nel caso in cui. In questo quadro, l’imperfetto rispetto al presente allontana la rappresentazione dello stato del riguardare dalla realtà. In altre parole, la variante con il congiuntivo imperfetto presenta la caratteristica del riguardare come meno probabile rispetto a quanto appaia con il congiuntivo presente. 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta? Perché?
1. Io mi riterrei felice alla fine di questa vacanza se tu abbia avuto il piacere di stare con me.
2. Io mi riterrei felice alla fine di questa vacanza se tu avessi avuto il piacere di stare con me.

 

RISPOSTA:

La variante corretta è la 2. La proposizione condizionale (quella introdotta da se) ammette il congiuntivo soltanto nei tempi imperfetto e trapassato. In particolare, quando tale proposizione è subordinata a una proposizione al condizionale presente, formando con essa il cosiddetto periodo ipotetico della possibilità, il tempo del congiuntivo più comune è l’imperfetto, ma, se l’evento descritto dalla proposizione condizionale è precedente a quello della reggente, il tempo da usare è il trapassato.
Nella sua frase 2, l’evento dell’avere piacere è precedente a quello del ritenersi felice, perché quest’ultimo avviene soltanto alla fine della vacanza; in questa situazione, come appena detto, nella condizionale ci si aspetta proprio il congiuntivo trapassato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Se, nel frattempo, sarà selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
Non sarebbe stato meglio adottare il futuro anteriore per differenziare la collocazione temporale delle due azioni?
“Se, nel frattempo, sarà stato selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
La locuzione nel frattempo in questo esempio, inevitabilmente proiettato nel futuro, è usata in modo improprio?

 

RISPOSTA:

Certamente la costruzione con il futuro anteriore è più precisa, quindi più formale. Non si può, però, dire che la prima variante sia sbagliata: il rapporto temporale tra le due azioni è, infatti, evidente anche senza il ricorso al futuro anteriore. Tale rapporto, per la verità, è quasi sempre recuperabile dal co-testo o ricostruibile per logica, ed è per questo che il futuro anteriore è sempre meno usato nella lingua comune.
In questo caso specifico, un ulteriore motivo che scoraggia l’uso del futuro anteriore e giustifica ancora più fortemente, al contrario, il futuro semplice, è la presenza di un terzo evento, che lei non riporta nell’esempio, ma che è richiamato dalla locuzione avverbiale nel frattempo e con il quale l’evento del selezionare è in rapporto di contemporaneità. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

1) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito fosse favorevole sia che fosse contrario”.
Le due proposizioni della frase dovrebbero essere contemporanee; ma se si volesse rendere la subordinata posteriore alla reggente, si potrebbe adottare il condizionale passato o sarebbe sbagliato (rendendo quindi necessario il ricorso al congiuntivo trapassato)?
“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito sarebbe stato favorevole sia che sarebbe stato contrario”.
Se modificassimo la struttura del periodo trasformando sia che in sia se avremmo 2) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia se mio marito sarebbe stato favorevole sia se sarebbe stato contrario”.
Se la subordinata diventasse una concessiva (introdotta da anche se), avremmo 3) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”.
Nelle due varianti modificate cambierebbe qualcosa a livello sintattico?

 

RISPOSTA:

La locuzione correlativa sia che… sia che introduce due proposizioni condizionali, che richiedono il verbo al congiuntivo ed escludono il condizionale. Ammettono, ma in un registro molto trascurato, l’indicativo in sostituzione del congiuntivo: “… sia che mio marito è / era / sarà favorevole sia che è / era / sarà contrario”. 
A riprova della natura condizionale della proposizione introdotta da sia che, potremmo parafrasare che con una perifrasi: “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia nel caso in cui mio marito fosse favorevole, sia in quello in cui fosse contrario”. 
Il congiuntivo non permette di esprimere la posteriorità, se non in modo molto sfumato, con il presente in relazione a un tempo presente, con l’imperfetto in relazione a un tempo passato: “Spero che domani tu venga alla mia festa”; “Speravo che l’indomani tu venissi alla mia festa”. In una completiva è quasi sempre possibile supplire a questa mancanza del congiuntivo con l’indicativo futuro al posto del congiuntivo presente (“Spero che domani tu verrai”) e con il condizionale passato al posto del congiuntivo imperfetto (“Speravo che domani tu saresti venuto”). Si tratta, comunque, di scelte che abbassano la formalità della costruzione. Nella frase 1), invece, il congiuntivo è in una proposizione condizionale retta da una proposizione al passato, che non ammette la sostituzione del congiuntivo imperfetto con il condizionale passato. Ne consegue che, in questa frase, non c’è modo di esprimere la posteriorità dell’evento della subordinata se non in modo lessicale, ovvero inserendo un riferimento temporale esplicito; per esempio sia che poi mio marito fosse favorevole… In alternativa, si può formulare la frase diversamente; per esempio sia che in seguito scoprissi che mio marito era / fosse favorevole (si noti che l’oggettiva qui ammette pienamente l’indicativo per evitare l’insolita sequenza di due congiuntivi imperfetti l’uno in dipendenza dall’altro).
Lo stesso discorso fatto per la 1) vale per la 2): la costruzione sia se mio marito sarebbe stato favorevole… è scorretta, sebbene risulti leggermente più ammissibile della 1) per via dell’attrazione della completiva logicamente (ma impossibile sintatticamente) sottostante: sia (non sapevo) se mio marito sarebbe stato favorevole…
Riguardo alla 3), la proposizione concessiva, specialmente dopo anche se, ammette sia l’indicativo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito era contrario”); sia il congiuntivo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito fosse contrario”); sia il condizionale passato (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”).
La variante con il condizionale passato situa l’evento certamente in un momento successivo a quello della reggente.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

A proposito della possibilità che la consecutio e il periodo ipotetico si intreccino, è anche il caso di questi esempi?

1) Comunque andasse, egli sarebbe stato contento.
2) Comunque fosse andata, egli sarebbe stato contento.

Nella soluzione 1 (consecutio), la secondaria con andasse è contemporanea alla reggente?
Nella soluzione 2 (periodo ipotetico), la secondaria con fosse andata potrebbe essere considerata anteriore non solo, è ovvio, alla reggente, ma anche al momento in cui il periodo è stato enunciato? Anche se ipotizzassimo un esempio introdotto da una dichiarativa, secondo me, il suddetto dubbio rimarrebbe:

3) Egli disse che ieri sarebbe stato contento, se ieri l’altro fosse andata bene.

4) Egli disse che l’anno successivo sarebbe stato contento, se fosse andata bene la visita che avrebbe fatto nei prossimi mesi.

In mancanza di opportuni riferimenti, come si fa a stabilire se le azioni sono già avvenute o possano avvenire?

Due ultime cose, non del tutto fuori attinenza dall’argomento. Il periodo

5) Se tu mi tradissi, la nostra amicizia non sarebbe stata sincera

rientra nei casi del periodo ipotetico misto e pertanto è valido?

Infine, in questa risposta vengono proposte due alternative all’esempio sollevato dall’utente: si potrebbe aggiungere anche la forma “Volevo chiederle se sia possibile”?

 

RISPOSTA:

Gli esempi 1 e 2 non si prestano bene a rappresentare la domanda, perché la proposizione introdotta da comunque non è una condizionale, bensì una concessiva, che non entra in relazione con la reggente per formare il periodo ipotetico. In entrambi i casi, quindi, il tempo del congiuntivo è relativo alla consecutio temporum, non al grado di certezza dell’ipotesi. La difficoltà nella scelta del tempo del congiuntivo della concessiva è tutta interna alla consecutio, e riguarda l’individuazione del momento di riferimento, necessariamente passato, rispetto a cui il congiuntivo imperfetto andasse indica contemporaneità e il congiuntivo trapassato fosse andata indica anteriorità. Ci sono, infatti, due momenti di riferimento possibili, sarebbe stato e l’implicito momento del punto di vista rispetto a cui il condizionale passato sarebbe stato indica un momento posteriore. Per rendere più evidente questo momento del punto di vista, possiamo rappresentarlo con un verbo di dire o di pensare al passato: “Disse che comunque andasse / fosse andata, egli sarebbe stato contento”. Andasse e fosse andata, quindi, possono indicare contemporaneità e anteriorità tanto rispetto a disse, tanto rispetto a sarebbe stato. Nel caso di andasse questo non provoca ambiguità, perché l’imperfetto congiuntivo non può che essere contemporaneo (ma proiettato nel futuro) a disse e precedente a sarebbe stato. Il trapassato, invece, può riferirsi a due momenti effettivamente diversi:

1. (Disse che) comunque fosse andata il giorno prima, egli sarebbe stato contento.
2. (Disse che) comunque fosse andata il giorno dopo, egli sarebbe stato contento.

Nel primo caso, il congiuntivo trapassato si giustifica perché indica un momento anteriore rispetto a un altro passato, ma nel secondo caso sembra indicare un momento posteriore rispetto a un altro passato (disse), quindi come si spiega? In questo caso seleziona come momento di riferimento sarebbe stato, che vale comunque come passato, perché è passato rispetto al momento dell’enunciazione (ovvero rispetto a ora, che il momento da cui noi guadiamo tutti gli eventi descritti dalla frase).
Per disambiguare la frase con il congiuntivo trapassato, ci sono due modi: uno è quello appena visto, l’inserimento di una indicazione temporale esplicita; l’altro è sostituire il congiuntivo trapassato con il condizionale passato nella proposizione concessiva, nel caso in cui l’evento della concessiva sia posteriore rispetto alla cornice:

3. (Disse che) comunque sarebbe andata, egli sarebbe stato contento.

In questo modo, non ci sono dubbi che sarebbe andata sia posteriore rispetto alla cornice e, per logica, anteriore rispetto a sarebbe stato (che rappresenta la conseguenza dell’evento della concessiva).
Il condizionale passato con la funzione di indicare il futuro nel passato nella proposizione concessiva introdotta da comunque  legittimo, ma può essere percepito come scorretto perché è chiara la componente condizionale della proposizione concessiva, che ci induce a preferire senz’altro il conguntivo al suo interno.
Si noti che altrettanto legittimo sarebbe il condizionale presente (in una frase riportata al presente) per esprimere un’attenuazione della fattualità dell’evento: “Pensa che comunque andrebbe, egli sarebbe contento”. L’alternativa con il congiuntivo è, comunque, considerata sempre più formale di quella con il condizionale, e decisamente preferibile anche in contesti di media formalità a quella con l’indicativo: “Pensa che comunque va, egli sarà / sarebbe contento”.
Gli esempi 3 e 4 introducono un problema nuovo, che non è la presenza della proposizione sovraordinata con il verbo di dire (che, però, non si può chiamare dichiarativa, perché la proposizione dichiarativa è una subordinata completiva), ma la sostituzione della proposizione concessiva con la condizionale. In questo caso si può dire che consecutio temporum e grado di possibilità del periodo ipotetico interagiscano, ma è anche vero che nelle sue frasi, ben costruite, non vedo alternative possibili, perché la complessa relazione temporale tra gli eventi prende il sopravvento su eventuali sfumature ipotetiche.
Per quanto riguarda la frase 5, il condizionale passato è dovuto alla relazione temporale di futuro nel passato tra il momento in cui si scopre l’insincerità dell’amicizia e lo svolgimento dell’amicizia. Questo è un altro caso di interazione tra periodo ipotetico e consecutio temporum, che produce quello che può essere definito un periodo ipotetico misto. Tale definizione, per la verità, ma non è necessaria, perché l’idea che il periodo ipotetico sia fissato in tre moduli e che le altre costruzioni siano commistioni di due di questi moduli è una semplificazione grossolana: ogni costruzione del periodo ipotetico ha la stessa validità delle altre.
La sua ultima frase, infine, è corretta sia che volevo indichi un momento effettivamente passato, sia che esso sia la forma di cortesia di voglio e si riferisca, quindi, al presente. Per chiarezza, però, va ricordato che qui il periodo ipotetico non è coinvolto, perché la proposizione introdotta da se è una interrogativa indiretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella correzione di un testo scritto va bene quanto segue?
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo/abbastanza completo/essenziale, ecc.
– INDICATORE: Organizzazione nella successione logica e nell’ordine crono-spaziale.
L’esposizione risulta articolata/ lineare/frammentaria, ecc.
– INDICATORE: Correttezza ortografica, morfo-sintattica, punteggiatura, coesione.
La forma presenta lievi errori/pochi errori/ gravi errori.
– INDICATORE: Uso del lessico
Il lessico utilizzato è appropriato/ adeguato/semplice, ecc.

 

RISPOSTA:

La domanda esula dal nostro campo specifico, ma proverò comunque a fare qualche osservazione. Il primo indicatore è ben costruito, sia nella descrizione, sia nei livelli, tranne che per ecc., che in generale va evitato, proprio perché gli indicatori servono a dare chiarezza. Si può, semmai, aggiungere un quarto livello:

– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo / quasi completo / essenziale / quasi assente

Nel secondo indicatore non si capisce come si possano associare successione logica e ordine crono-spaziale. Ma soprattutto, non è chiaro che cosa si intenda con ordine crono-spaziale (o meglio spaziotemporale). Forse intendeva riferirsi alla successione degli eventi di una storia? In questo caso, si consideri che se per la successione logica si può individuare un modello migliore di un altro, per la successione degli eventi in una storia esistono tante possibilità (quelle che in narratologia sono definite intreccio) tra le quali è difficile stabilire la migliore.
I livelli, inoltre, non sembrano adatti a definire una gradualità di valore: perché, infatti, una organizzazione articolata sarebbe migliore di una lineare?
Ammesso che ordine crono-spaziale abbia il significato che io ho inteso, le propongo, per questo indicatore, questa scala di valore: articolata e lineare / lineare / a tratti imprecisa / fortemente imprecisa.
Il terzo indicatore raccoglie troppi aspetti. Si potrebbe dividere in almeno due indicatori, uno per l’ortografia e uno per la coesione (nel quale si può far rientrare anche la punteggiatura e la morfosintassi). Volendo, però, coesione e punteggiatura potrebbero essere separati da morfosintassi.
I livelli non vanno bene neanche in questo indicatore: lievi e gravi sono indicazioni di qualità, peraltro piuttosto arbitarie (quale errore ortografico è più grave o lieve di altri?), mentre pochi indica una quantità ed è, quindi, incongruente con gli altri. Ritengo che la strada migliore nel caso dell’ortografia sia proprio quella della quantità, quindi una scala come molti errori / pochi errori / quasi nessun errore / nessun errore.
Per quanto riguarda la coesione, invece, si può propendere per la qualità, quindi per una scala come pienamente adeguata (allo scopo) / parzialmente adeguata (allo scopo) / appena adeguata (allo scopo) / del tutto inadeguata (allo scopo).
Anche per l’uso del lessico i livelli sono incongruenti: intanto appropriato e adeguato sono quasi sinonimi, quindi non rappresentano una distinzione chiara. Semplice, inoltre, non individua per forza un difetto, quindi non è adatto a rappresentare il grado più basso del giudizio. Potrebbe usare per questo indicatore la stessa scala che ho proposto per la coesione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se nei testi scritti la forma comprende solo gli aspetti grammaticali (punteggiatura, ortografia, morfosintassi) oppure anche il lessico.
Inoltre vorrei sapere se la coerenza riguarda il modo di esporre l’argomento, mentre la coesione ha la funzione di collegare bene le parti.

 

RISPOSTA:

Il lessico fa certamente parte della forma di un testo nella sua parte significante, fatta di suoni, grafemi e morfemi. Nella parte del significato, invece, fa parte del contenuto del testo stesso.
In linguistica testuale, la coerenza è la qualità imprescindibile dei testi. Rappresenta la capacità del testo di comunicare qualcosa, che dipende dalla sua non contraddittorietà rispetto al co-testo, al contesto, all’enciclopedia del ricevente. Per esempio, il testo che ho scritto finora è coerente rispetto a sé stesso (ovvero rispetto al co-testo), perché non contiene informazioni che contraddicono altre informazioni fornite in precedenza, ma è anche coerente rispetto al contesto, cioè alla sede che lo ospita e alla domanda a cui cerca di rispondere. Potrebbe, però, essere incoerente rispetto all’enciclopedia del ricevente, ovvero rispetto alle sue conoscenze, se lei non conosce i fondamenti della linguistica testuale. In questo caso, questo testo sarebbe incoerente e non potrebbe comunicare niente. Se lei, invece, conosce i fondamenti della linguistica testuale, questo testo le sembrerà sensato e quindi potrà considerarsi coerente. Questo esempio mostra che la coerenza di un testo non è assoluta, ma è relativa al contesto e agli attori coinvolti nella comunicazione. 
La coesione non è imprescindibile per un testo, e riguarda il corretto uso dei legami logici (i connettivi) e referenziali (i coesivi) previsti dalla lingua, ma anche dei segnali discorsivi, della punteggiatura, della consecutio temporum, della concordanza, della deissi (diversi accenni a queste categorie di parole e forme sono contenuti nell’archivio di DICO, a cui la rimando per approfondimenti). 
Sebbene un testo possa essere coeso senza essere coerente (pensi al caso fatto sopra), e possa essere coerente senza essere coeso (si pensi a una richiesta di informazioni da parte di uno straniero con una conoscenza limitata della lingua), è vero anche che la coesione possa incidere sulla coerenza. Un connettivo, o un segnale discorsivo al posto sbagliato, per esempio, può rendere incomprensibile un testo o cambiarne il senso. Ad esempio, una frase come “Mi piace il vino rosso, quindi questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco” potrebbe risultare incoerente a causa della scelta sbagliata del segnale discorsivo; mentre più prevedibile sarebbe “Mi piace il vino rosso, ma questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco”. Attenzione, la prima frase non è per forza incoerente; potrebbe, infatti, essere coerente nel contesto giusto (come si è detto prima, infatti, la coerenza testuale è una qualità relativa). In un ristorante in cui servono del vino rosso di pessima qualità, per esempio, la persona a cui piace il vino rosso potrebbe decidere, proprio perché le piace il vino rosso, di non ordinarne.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le frasi seguenti sono corrette nell’uso dei tempi e modi verbali e che tipo di proposizioni sono.
– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca pensarono che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola se non la smetteva con le sue stranezze.

– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo disse a Luca che la compagna se fosse stata “reale” sarebbe / era nei guai.

– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca si dissero che se era una persona “vera”, non sarebbe resistita a lungo in quella scuola.

 

RISPOSTA:

1) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [proposizione indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca pensarono [principale] che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola [oggettiva] se non la smetteva con le sue stranezze [condizionale].
I verbi vanno bene. L’indicativo imperfetto (se non la smetteva) è una variante meno formale del congiuntivo trapassato (se non l’avesse smessa), qui coerente con il tono generale del testo.

2) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo disse a Luca [principale] che la compagna sarebbe stata nei guai [oggettiva], se fosse stata “reale” [condizionale].
Il condizionale presente sarebbe non è un’opzione valida, perché l’evento dell’essere nei guai può essere o contemporaneo a quello del dire della reggente (Leo disse) o successivo. Nel primo caso sarebbe richiesto l’indicativo imperfetto era o il congiuntivo imperfetto fosse (per la verità molto forzato in dipendenza dal verbo dire); nel secondo caso sarebbe richiesto il condizionale passato (che esprime il futuro nel passato) sarebbe stata o, ancora, l’indicativo imperfetto era. Quest’ultima forma, quindi, rimane ambigua tra la contemporaneità e la posteriorità, perché può assumere entrambe le funzioni. Va sottolineato che la presenza della proposizione condizionale (se fosse stata “reale”) configura la proposizione oggettiva come una apodosi di un periodo ipotetico. Anche se la costruiamo con il condizionale passato, però, questo non rappresenta la conseguenza per forza come irreale, perché, lo ricordiamo, ha la funzione di esprimere il futuro nel passato (e lo stesso vale per l’indicativo imperfetto). Possiamo, quindi, avere sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse stata “reale” (periodo ipotetico dell’irrealtà), sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse “reale” (periodo ipotetico della possibilità).

3) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca si dissero [principale], se era una persona “vera” [condizionale], che non sarebbe resistita a lungo in quella scuola [oggettiva]. 
Si noti che la congiunzione che è stata spostata dopo l’incidentale per permettere l’analisi.
In questo caso era è usato al posto del congiuntivo trapassato fosse stata. Si tratta di una variante legittima, ma meno formale.
L’indicativo imperfetto, come si vede, può prendere il posto tanto del condizionale passato quanto del congiuntivo trapassato; è, del resto, quello che succede in una frase come “Se lo sapevo venivo” = ‘Se lo avessi saputo sarei venuto’.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Spesso, nei dizionari, taluni termini (solitamente, verbi e aggettivi) sono associati, per così dire, a limitazioni d’uso che ne riducono i contesti di applicazione. Per esemplificare: sardonico (detto di viso o risata), flebile (detto di voce o suono), effluire (detto di gas o liquido). La letteratura (e non solo) ci insegna che ogni sistema linguistico, nel tempo, si è modificato, allargando tanto la disponibilità di vocaboli quanto le accezioni a essi ascrivibili. Mi viene in mente l’aneddoto legato alla parola bagnasciuga intesa come sinonimo di ‘battigia’ o ‘bàttima’. Fu Benito Mussolini, se non sbaglio, a impiegarla per la prima volta con questo significato (che, adesso, mi risulta essere il più diffuso, a discapito di quello originario).
Tornando all’oggetto dell’interrogativo, vi domando se in un periodo – tendenzialmente fantasioso – quale
 

Vidi quell’uomo misterioso, cupo: il suo approccio sardonico mi inquietava, anche per la circospezione con cui si muoveva nella stanza. Sentii effluire dal mio corpo l’energia che avevo raccolto fino a quel momento: e la già flebile speranza che la situazione potesse volgere a mio favore si esaurì all’istante…

i tre termini citati in precedenza (sardonicoflebileeffluire), che si allontanano dalle limitazioni d’uso indicate dai vocabolari, sono inaccettabili se sviluppati in tali accezioni, oppure le costruzioni che determinano possono dirsi corrette, anche in un’ottica metalinguistica, all’interno di uno scritto di stampo narrativo.

 

RISPOSTA:

Il cambiamento semantico delle parole è un fenomeno tanto ineluttabile quanto imprevedibile. Una delle cause possibili di cambiamento semantico è la paretimologia, ovvero la convinzione errata dei parlanti che una parola abbia una certa etimologia, da cui derivi un certo significato. Il caso di bagnasciuga si può interpretare proprio come un caso di paretimologia. La parola, infatti, sembra perfetta per descrivere la zona in cui la terra incontra il mare, soggetta al continuo andare e venire delle onde. Sappiamo che la parola ha un’origine diversa, perché nacque nel Settecento per designare la linea di galleggiamento delle navi, ma ben presto (certamente prima del famoso discorso del bagnasciuga del 1943 di Mussolini) fu usata con il significato ancora oggi corrente.
Un altro principio che muove il cambiamento semantico è l’assonanza, probabilmente alla base dell’evoluzione di flebile. Originato dal latino FLEBILEM (a sua volta dal verbo FLEO ‘piangere’), ha significato storicamente ‘piagnucoloso, lamentoso, che induce al pianto’, ma oggi significa anche  ‘debole, leggero, evanescente, appena percepibile’. A mio parere, l’assonanza con fiato e afflato, ma anche con fioco e persino fioresfiorare e simili, ha promosso questo spostamento, ulteriormente favorito dalla tipica associazione di questo aggettivo con oggetti effettivamente appena percepibili come il canto degli uccelli.  Addirittura, se flebile ancora conserva anche il significato originario, il suo allotropo popolare fievole ha soltanto il significato secondario. 
Anche l’uso figurato di un termine ne può determinare l’ampliamento semantico, fino a far dimenticare il significato originario. Un caso del genere è l’aggettivo cattivo, che deriva il suo significato attuale dall’uso figurato nell’espressione captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’, diffusosi nella Chiesa delle origini. In latino, infatti, CAPTIVUS significa ‘prigioniero’ (mentre cattivo si dice MALUS o IMPRŎBUS) e mai sarebbe potuto passare al significato di ‘cattivo’ senza il tramite dell’espressione figurata. Un uso figurato è anche alla base del caso di palinsesto di cui ci siamo occupati nella risposta n. 2800425 dell’archivio di DICO. Qui, addirittura, abbiamo un ampliamento del significato sulla base di un significato già figurato, legato alla programmazione televisiva. Se risaliamo indietro al significato originario del nome palinsesto, infatti, scopriamo che è ‘antico manoscritto di pergamena, il cui primo testo è stato raschiato via e sovrascritto’. 
Venendo alla sua proposta, nel caso di flebile non ci sono difficoltà, visto che flebile speranza è un’espressione già comunissima. Neanche approccio sardonico è originale. In rete se ne trova qualche decina di esempi, letterari ma anche di contesto medio, come questo: “L’inviato cult Valerio Staffelli, con il suo consueto approccio sardonico e dissacrante, ha consegnato nelle mani del rapper, come da rituale, il famigerato Tapiro d’oro” (ilgiornale.it, 2019). Effluire è effettivamente usato tipicamente in relazione a gas o liquidi, ma la rappresentazione figurata dell’energia come una sostanza fluida è piuttosto credibile, tanto da giustificare, sulla scorta del principio dell’uso figurato, questo ampliamento di ambito.
In conclusione, i suoi tre esempi di ampliamento di ambito d’uso lessicale, con conseguente cambiamento del significato, sono perfettamente accettabili, tanto che due su tre sono già usati. Il cambiamento semantico è davvero tumultuoso, accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Posso dire che si studia molto alla scuola
Si usa in italiano l’espressione il serial televisivo?

 

RISPOSTA:

Alla scuola non è corretto: questo sintagma è fortemente cristallizzato nella forma a scuola (come a casa). Si può usare la preposizione articolata se scuola è accompagnato da un aggettivo o un complemento di specificazione: alla scuola mediaalla scuola di Giulia. Anche in questi casi, comunque, si può usare a scuola.
Serial televisivo si può usare, ma suona un po’ antiquato. Oggi si preferisce serie (televisiva).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Può capitare che il soggetto non concordi nel genere e nel numero con il sostantivo che funge da nome del predicato del predicato nominale?

 

RISPOSTA:

Il soggetto può non concordare con il nome del predicato rappresentato da un sostantivo quando siano coinvolti nomi collettivi; per esempio: “La famiglia è i suoi membri”. I parlanti di solito evitano tali costruzioni, che istintivamente ritengono scorrette, preferendo concordare la copula con il nome del predicato: “La famiglia sono i suoi membri”. Anche così, però, si crea una stranezza, perché il verbo non concorda con il soggetto. L’unico modo per aggirare il problema è formulare la frase diversamente, per esempio “La famiglia è rappresentata dai suoi membri”.
Il mancato accordo può avvenire anche quando il nome collettivo è nel predicato; per esempio: “I giocatori sono la squadra”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Sei elegante come una sposa”, utilizzando l’analisi logica classica, come una sposa potrebbe essere sia complemento di paragone che complemento di modo?

 

RISPOSTA:

Il complemento di modo indica in che modo un’azione è compiuta. Con il verbo essere il complemento di modo è di fatto escluso. Come una sposa esprime un paragone.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono giuste:
1. Sul naso aveva una spruzzata di lentiggini, ma nel complesso somigliava a cento altre ragazze, se non che aveva degli occhi enormi e non era truccata.
2. Nessuno le si sedette accanto.
3. Pareva in un mondo tutto suo, isolata in una mare di occhi fissi su di lei.
4. Il secondo giorno arrivò vestita in modo sempre strano, ma diverso, e questa volta cantò…
5. Infatti in quella scuola erano tutti uguali: se per caso capitava di distinguersi, in un nanosecondo sarebbero tornati alla normalità.

 

RISPOSTA:

1. Il connettivo se non che è la sintesi di se non per il fatto che. Si può usare come fa lei (anche nella forma univerbata sennonché), anche senza che che abbia un aggancio preciso. Possibile, eventualmente, usare la variante completa se non per il fatto che.
2. Niente da segnalare.
3. Niente da segnalare.
4. Niente da segnalare.
5. La forma impersonale capitava non va bene in dipendenza dalla reggente con soggetto personale in un nanosecondo sarebbero tornati alla normalità. Si può correggere così: “Se per caso a qualcuno capitava di distinguersi, in un nanosecondo sarebbe tornato alla normalità”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Studiando gli schemi della consecutio temporum disponibili anche in rete, noto che in un rapporto di contemporaneità, la secondaria di una principale al condizionale passato si costruisce, a seconda del modo suggerito del predicato verbale (congiuntivo o indicativo), con l’imperfetto.
Ciò vale anche quando il suddetto condizionale ha valore di futuro nel passato?

Ad esempio:
1. Il ricordo avrebbe scandito per sempre l’esperienza che avrei vissuto, bella o brutta che fosse.

È valida? Sostituire il congiuntivo imperfetto con un altro condizionale passato sarebbe errato?
2. Il ricordo avrebbe scandito per sempre l’esperienza che avrei vissuto, bella o brutta che sarebbe stata.

 

RISPOSTA:

Come lei stessa nota, il modo verbale richiesto nelle subordinate è dovuto a ragioni sintattiche estranee alla consecutio temporum, sebbene con essa intrecciate. La proposizione bella o brutta che fosse è equivalente a o che fosse bella, o che fosse brutta, ovvero a una ipotetica (o condizionale) correlativa, che richiede il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, ha il potere di proiettarsi nel futuro (si pensi a una frase come “Speravo che il giorno dopo mi chiamasse”).
Il condizionale passato sarebbe possibile se modificassimo leggermente la sintassi, trasformando la subordinata condizionale in relativa: che sarebbe stata bella o (sarebbe stata) brutta. Ovviamente, in questo modo si perde l’idea dell’ipotesi, dell’incertezza, e la prospettiva è rappresentata come un’alternativa fattuale. Questa scelta risulterebbe meno significativa, perché è scontato che le esperienze future siano fattualmente o belle o brutte (non c’è bisogno di esplicitarlo); meno scontato, invece, è che il parlante consideri in anticipo il ricordo legato all’esperienza futura duraturo (ma, sia detto a margine, la scelta del verbo scandire lascia un po’ perplessi) a prescindere dalla natura dell’esperienza.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la forma della frase “Volevo chiederle se sarebbe possibile fare l’esame in forma scritta anziché orale” è corretta, o se invece bisogna usare il se fosse.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Se sarebbe possibile non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una proposizione interrogativa indiretta retta da sapere. In questo tipo di proposizione si può usare il congiuntivo (quindi se fosse possibile), che è, anzi, la variante più formale, ma anche l’indicativo (se è possibile) e il condizionale, che serve ad attenuare la perentorietà della richiesta, rendendola più cortese.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quanti errori ho commesso?

1) La sua spavalderia non gli permetteva di riflettere, di capire che dare libero sfogo agli istinti giovanili fosse una cosa; che [si può eliminare?] agire con sfrontatezza e leggerezza, invece, sarebbe diventato pericoloso.  
2) Riguardo all’inferno, disse che l’aveva considerato una punizione solo per gli adulti; e se tutte le ragazze che si comportavano come lei fossero finite all’inferno, per stare calde, non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno. 
3) Sapevano che essere genitori comportasse anche subire grandi delusioni e provare forti dispiaceri. 
4) Quando i ragazzi cominciarono a guardarla con interesse, capì che stava andando nella giusta direzione; o meglio, che lei immaginava fosse quella giusta. 
5) Suor Teresa iniziò dicendo che il giorno dopo sarebbe partita per i ritiri spirituali e che [questo che si può togliere?] sarebbe stata assente per due giorni.   
6) Si consolò pensando che l’esame saltato, in definitiva, era / fosse stato una fortuna, anche se dal retrogusto amarissimo: gli aveva permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) In quel momento entrò la sua segretaria che, vedendolo in quello stato, gli chiese preoccupata… [le virgole si possono togliere?] 
8) Lo pestarono senza pietà, peggio di come lui aveva / avesse fatto con l’altro. 
 

RISPOSTA:

1) Il che si può togliere. Facendolo, però, la struttura della frase, e il suo significato, cambiano leggermente, perché sarebbe diventato pericoloso si configura non più come subordinata di di capire ma come coordinata alla principale.
2) Corretta. Qui l’assenza del che introduttivo di non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno non cambia quasi niente, perché la proposizione non può che essere subordinata a disse
3) Corretta. Il congiuntivo imperfetto è usato secondo i modi della consecutio temporum per esprimere contemporaneità nel passato.
4) La seconda parte è poco coesa, perché che rimane a metà strada tra il pronome relativo e la congiunzione correlativa del primo che. Una possibile correzione è la seguente: o meglio, nella direzione che lei immaginava fosse quella giusta
5) Come la 2.
6) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale. Dopo i due punti si potrebbe aggiungere un segnale discorsivo per maggiore chiarezza: gli aveva, infatti, permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) Le proposizioni incidentali, come la gerundiva vedendolo in quello stato, richiedono le virgole di apertura e chiusura.
8) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale.
Raphael Merida 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto nell’enciclopedia Treccani online: “Nei casi in cui è seguito dalla vocale ‹i›, ma non è preceduto da ‹n›, il nesso ‹gl› può essere pronunciato [gl] oppure come laterale palatale [ʎ] (di grado intenso se intervocalica, come nella quasi totalità dei casi) a seconda della posizione e del contesto di parola.
Che cosa significa contesto di parola?

 

RISPOSTA:

L’espressione indica i fonemi, ovvero i suoni, che si trovano intorno, prima e dopo, a quello considerato, che possono modificarlo per approssimazione, provocando per esempio assimilazione o dissimilazione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1. Nella frase “Se pagassi rate mensili da 100 euro e la maxirata da 5000, alla fine dei tre anni l’auto mi costerebbe 8.600 euro” si potrebbe sostituire il condizionale presente con quello passato (“Se pagassi rate mensili da 100 euro e la maxirata da 5000, alla fine dei tre anni l’auto mi sarebbe costata 8.600 euro”), per accentuare l’idea di un effetto compiuto o di un’azione conclusa?
Tra le soluzioni costerebbesarebbe costatacosteràsarà costata, qual è preferibile?

2. La seguente frase è sintatticamente valida? “Tu torneresti a casa quando (nel momento in cui) io verrei a prenderti”. 
“Tu torneresti a casa quando io venissi a prenderti” è certamente corretta e, mi pare, sarebbe equiparabile a un periodo ipotetico, ma non restituirebbe la semantica che tenderei ad ascrivere alla precedente forma (semplificando: “Io – se potessi – verrei a prenderti e – in questo caso – tu torneresti a casa”). 

3. “Tanto più tempo avrebbe atteso, quanto più improbabile sarebbe stato che avrebbe parlato con il professore”. È corretto il terzo condizionale, anche in riferimento a essere improbabile che per indicare la posteriorità dell’azione? L’alternativa “Tanto più tempo avrebbe atteso, quanto più improbabile sarebbe stato che parlasse con il professore” ne avrebbe invece indicato la contemporaneità?

4. “Non siamo certi del programma: o verrei a prenderti io in mattinata o passerebbe Giulia nel primo pomeriggio”. Fermo restando che varianti quali passerò / passo io o passerà / passa Giulia… e potrei passare io oppure Giulia… sarebbero più efficaci, l’esempio indicato è accettabile?

5. Muovo da un articolo presente nel vostro archivio: “Se ci fosse un’emergenza, il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato / è stato / sarà stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità”.
Non riesco ad afferrare la ragione secondo la quale il condizionale passato non è del tutto accettabile. Il passato prossimo è, a mio modestissimo parere, effettivamente valido se, nell’introdurre la subordinata, indica certezza e fa riferimento a un evento anteriore all’enunciazione. Il futuro anteriore si potrebbe quindi impiegare, sempre per indicare certezza (per quanto possa essere certo il futuro), per
sottolineare che l’evento è successivo, anziché anteriore, all’enunciazione. Mi domando se l’accettabilità non piena del condizionale passato abbia ragioni logiche (legate all’esempio proposto e alle sue implicazioni semantiche) oppure attinga a ragioni strettamente sintattiche. 

 

RISPOSTA:

1. La variante con il condizionale passato è corretta e legittima, sebbene improbabile da incontrare. Il condizionale passato accentua l’idea che il pagamento delle rate non si verifichi e che, quindi, ci sia la possibilità che l’acquisto non si concretizzi. Per questo motivo è più facile incontrarlo con il congiuntivo trapassato (se avessi pagato… l’auto mi sarebbe costata). Il congiuntivo trapassato, però, è possibile soltanto se l’emittente sappia in anticipo che non pagherà le rate, per esempio perché sta immaginando uno scenario che si sarebbe realizzato se avesse fatto una scelta diversa, ormai impossibile. Il condizionale passato, invece, rimane valido anche in relazione al congiuntivo presente. Il futuro semplice e il futuro anteriore sono anche alternative possibili, tutte dotate di una specifica sfumatura e difficili da graduare in base alla formalità. Per un approfondimento sul rapporto tra futuro semplice e anteriore in un contesto analogo si veda la risposta 2800177 dell’archivio di DICO.

2. Bisogna distinguere le interrogative dirette e indirette introdotte dall’avverbio quando e le temporali introdotte dalla congiunzione quando. Le prime possono avere il condizionale: Quando vorresti partire?; dimmi quando vorresti partire. Le seconde possono avere l’indicativo e il congiuntivo (con sfumatura ipotetica), ma non il condizionale. Nella sua frase, quando introduce una temporale ipotetica, che, quindi, richiede il congiuntivo venissi. Anche se inserissimo una protasi esplicita, la situazione non cambierebbe: “Tu torneresti a casa quando, se io volessi, venissi a prenderti”. 
 
3. Vanno bene sia la variante con il condizionale passato sia quella con il congiuntivo imperfetto. Il congiuntivo è preferibile perché consente di evitare la stranezza della ripetizione dei condizionali. Del resto, con il congiuntivo non si perde l’idea del futuro, che è implicita nella frase.

4. La frase è corretta. I condizionali si giustificano come strategia attenuativa (passerei io implica una protasi del tipo se è possibile).

5. La non piena accettabilità del condizionale passato è dovuta proprio alla logica interna della frase, non a ragioni generali. Come detto nella risposta 2800361 dell’archivio di DICO, a cui lei fa riferimento, si dà per scontato che il personale medico sia stato formato per fronteggiare le emergenze prima dell’insorgere delle emergenze, nonché prima del momento dell’enunciazione (prima di entrare in servizio, cioè), e quindi il tempo più indicato sia proprio il passato prossimo. Una frase che descriva una situazione diversa ammetterebbe sia il futuro anteriore sia il condizionale passato. Per esempio: “Sto seguendo un corso di primo soccorso, così, se ci fosse un’emergenza, sarei pronto ad aiutare le persone in difficoltà, perché sarei / sarò stato formato per questo scopo”. In questo caso l’indicativo futuro indicherebbe la mia certezza di essere formato; il condizionale seguirebbe la logica della conseguenza possibile .
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Se scrivo “Devo superare le difficoltà per raggiungere lo stato dell’anima in cui possiedo perfettamente Dio”, se questo stato può essere sintetizzato con la parola Paradiso Beatitudine, si può intendere tutta la frase su espressa dicendo “Devo conquistare il paradiso”? Volevo sapere se il significato su espresso può essere mantenuto anche con quest’ultima frase più sintetica e più efficace, a parer mio.

 

RISPOSTA:

Le parole paradiso beatitudine non riassumono bene lo stato di perfezione spirituale e divina a cui si riferisce la frase. Nella concezione cristiana, la prima, oltre a designare il luogo, indica una condizione di eterna felicità come ricompensa per aver agito in modo giusto durante la vita terrena; la seconda, invece, descrive uno stato di perfetta felicità che consiste nella visione beatifica di Dio. Il termine che dal punto di vista teologico sintetizza lo stato di perfezione spirituale attribuito all’essenza stessa di Dio, ma anche alle persone che riproducono in parte la perfezione divina, è santità. La frase si potrebbe quindi riassumere così: “Devo superare le difficoltà per raggiungere la santità”, anche se (dal punto di vista teologico) il superamento delle difficoltà non implica necessariamente come conseguenza il raggiungimento della santità, bensì il raggiungimento del paradiso. Insomma, riassumere un concetto così complesso con una sola parola, per quanto semanticamente vicina al concetto ricercato, è rischioso e se da una parte produce un effetto di maggiore incisività per via della brevità, dall’altra esclude le sfumature che una frase intera può veicolare.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta l’alternanza di tempi passati (passato prossimo  / passato remoto) all’interno di uno stesso testo?
Es.: “L’altro giorno ho incontrato Marcella all’uscita di casa. Marcella è la ragazza che due anni fa lasciò il suo compagno e che tentò di dimenticarlo, ma non ci riuscì. Io le ho consigliato di essere più riflessiva”.

 

RISPOSTA:

A una domanda molto simile abbiamo già risposto (legga questa risposta  dell’archivio di DICO). In quel caso l’alternanza era ingiustificata; nel suo caso, invece, i due tempi possono convivere perché rappresentanti due piani temporali diversi. In considerazione della funzione dei due tempi, comunque, consiglio di usare il passato remoto soltanto in riferimento all’evento della separazione: “Marcella è la ragazza che due anni fa lasciò il suo compagno e che ha tentato di dimenticarlo, ma non ci è riuscita”. Il processo del tentativo di dimenticare e il suo risultato sono, infatti, psicologicamente legati al presente, quindi sono meglio costruiti con il passato prossimo. Per la verità, anche l’evento della separazione può essere efficacemente rappresentato con il passato prossimo, proprio perché ancora vivo nel presente: l’uso del passato remoto comporta, in questo caso, un effetto di allontanamento psicologico di quell’evento dal presente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Sono il segretario di una Associazione nazionale di professionisti di una disciplina del benessere denominata Wa… Il nome è un marchio registrato, ma identifica ormai comunemente la nostra professione e disciplina. Stiamo realizzando il nuovo logo dell’associazione sotto il quale dobbiamo usare la parola Professionisti Wa… È stato proposto Professionisti del Wa…, ma alcuni lo ritengono grammaticalmente scorretto perché prima di un nome proprio, come ritengono essere Wa…, andrebbe semmai la preposizione di. Suggeriscono, quindi, Professionisti di Wa… Altri invece ritengono Wa… il nome comune della disciplina e utilizzerebbero senza problemi la preposizione articolata. 
Anche l’articolo da utilizzare crea dubbi. Dobbiamo scrivere il Wa… o lo Wa…?

 

RISPOSTA:

Il nome della disciplina dovrebbe essere allineato con altri nomi di sport come calciotennisaquagym ecc. Dovrebbe, quindi, essere comune, non proprio. Detto questo, ricordiamo che anche i nomi comuni singolari, che di norma sono preceduti da un articolo, possono non avere l’articolo; ma solo ad alcune condizioni. Rimanendo nell’ambito dei nomi di sport, notiamo che essi sono spesso senza articolo quando sono preceduti dalle preposizioni di o da, a loro volta rette da alcuni nomi o aggettivi (esperto di calciotifoso di calciosquadra di calcioscarpette da calcio…). La caduta dell’articolo si può avere anche dopo a retta da alcuni verbi: giocare a calcio.
Dopo professionisti di di solito l’articolo è mantenuto (professionisti del calciodel tennisdella pallavolo); molto forte, però, è l’attrazione di esperti di, che, invece, di solito non ha l’articolo (esperti di calcio): ne deriva la possibilità di scegliere liberamente tra le due varianti, considerando, però, che quella con l’articolo è la più regolare.
L’articolo da scegliere è anche una questione aperta. In italiano il suono [w] (corrispondente alla vocale u seguita da un’altra vocale) è preceduto da lo, che, però, è sempre apostrofato: l’uomol’uovo (molto innaturale lo uomo ecc.). Davanti alle parole straniere inizianti per w, però, è invalsa l’abitudine di usare il (il würstelil wasabi), sebbene il suono della lettera w coincida perfettamente con [w]. Paradossalmente, la scelta più corretta, l’w-, è percepita come scorretta dalla maggioranza dei parlanti, che propende per il w- (ma l’u-). Chiaramente, la ragione per cui i parlanti non accettano l’wasabi è che graficamente il nome comincia per consonante (sebbene foneticamente, che è ciò che conta, cominci per vocale). A dimostrazione di questo, il nome di un gruppo musicale famoso qualche anno fa, One direction, era quasi sempre preceduto da gli, sebbene one si pronunci [wa-] (come wasabi).
In conclusione, il mio consiglio è professionisti del Watsu®, ma tutte le altre opzioni sono più o meno valide. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il seguente periodo è ben costruito?
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
In specie, nella proposizione concessiva sarebbe meglio essere più chiari esplicitando il soggetto (lui)?
“Lei non si era opposta a lui quando questo / quest’ultimo / egli / lui, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Oppure:
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, questo / quest’ultimo / lui / egli le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
E comunque, una subordinata può precedere la principale?

 

RISPOSTA:

Una subordinata implicita deve avere sempre lo stesso soggetto della reggente quando sia costruita con il gerundio o l’infinito. Questa regola serve a garantire la riconoscibilità del soggetto laddove il verbo della proposizione non ha tratti morfologici che rimandi a esso. L’eccezione, comunque codificata, delle proposizioni rette da verbi di comando o di percezione, nei quali il soggetto coincide non con il soggetto della reggente, ma con il complemento oggetto o indiretto (“Ti ordino di andare”; “L’ho visto cadere”) è possibile proprio perché mantiene la riconoscibilità del soggetto dell’infinito. 
I participi presente e passato, che pure sono modi indefiniti, possiedono il tratto morfologico della desinenza, che consente di recuperare facilmente il soggetto nel caso in cui ci sia un solo possibile candidato a questo ruolo, come nella sua frase. Quando ci sia questa condizione, quindi, non è necessario esplicitare il soggetto della subordinata. 
Diverso sarebbe il caso se i soggetti possibili fossero più di uno: “Lui non si era opposto all’altro quando, in primavera, benché già sconfitto, gli aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”. Come si può notare, in una frase siffatta non è possibile stabilire chi sia sconfitto ed è, quindi, necessario esplicitare il soggetto di sconfitto in qualche modo, per esempio con un pronome. Si noti che le sue soluzioni non risolvono il problema (ma vanno comunque bene perché nel suo caso il problema non c’è). L’esplicitazione del soggetto, se necessaria, va fatta all’interno della subordinata, che quindi deve essere trasformata in esplicita; per esempio così: “Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché lui fosse già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Tra i pronomi possibili, vanno considerati anche questi, che è la variante più formale di questo e va usato preferenzialmente come soggetto, e costui, molto formale, tanto da suonare affettato in un contesto medio. Ormai antiquato, ma ancora possibile, è egli
Possibile, inoltre, anche sostituire sua con propria, per sottolineare che l’intenzione sia del soggetto.
La posizione delle subordinate, infine, è piuttosto libera per le proposizioni dette avverbiali, di cui fa parte la concessiva. Posposte alla reggente sono di norma le completive (*”Chi era ti ho chiesto”) e obbligatoriamente le relative (*”Ho quasi finito che mi hai prestato il libro”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La frase che segue è corretta?
“Sai che dopo il check-in, anziché mettermi in prima classe fui collocata in seconda a causa di un errore del personale?”.

 

RISPOSTA:

La frase non è corretta. L’uso dell’infinito (in questo caso mettermi) presuppone che il soggetto del verbo (in questo caso il personale) coincida con quello della proposizione reggente (in questo caso io). Non è difficile correggere la costruzione, modificando il soggetto della proposizione reggente o quello della subordinata all’infinito (di tipo avversativo). Nel primo caso avremo “Sai che dopo il check-in, anziché mettermi in prima classe, il personale mi collocò in seconda a causa di un errore?”; nel secondo “Sai che dopo il check-in, anziché essere messa in prima classe, fui collocata in seconda a causa di un errore del personale?”. Si noti anche che ho aggiunto la virgola tra la subordinata preposta alla reggente e la reggente; regola, comunque, non rigida.
La scelta tra la prima e la seconda soluzione dipenderà dall’informazione che si vuole mettere in evidenza: la variante con il soggetto il personale suona molto più accusatoria nei confronti di questa categoria, che è, invece, lasciata in secondo piano nella variante con io soggetto passivo. 
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

In un confronto tra due alternative, nessuna delle quali errata, si può usare l’espressione è più corretto per indicare l’opzione che si ritiene più adeguata, quindi preferibile?

 

RISPOSTA:

Certo, in un ambito in cui la correttezza non sia netta, ma graduale, è possibile che un uso sia più corretto di un altro. Nel campo della lingua, per esempio, molte volte le scelte dipendono dai vari gradi di formalità e dai contesti; un uso più corretto di un altro indica, quindi, che entrambe le soluzioni esistono e che una è preferibile all’altra. Riallacciandomi alle sue parole, più corretto equivale a più adeguato o preferibile
Raphael Merida

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio: è giusto dire io personalmente? Non è una ripetizione? Non basterebbe dire solo personalmente? L’io non è sottinteso?
 

RISPOSTA:

Più che una ripetizione è un rafforzamento del concetto. In contesti comuni è chiaramente sufficiente dire io oppure personalmente. In un contesto scritto burocratico, come un documento, invece, tale rafforzamento si giustifica maggiormente, nel caso in cui io voglia sottolineare che l’atto è compiuto da me personalmente, non attraverso un’altra persona che mi rappresenta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Adesso ti ci metti anche tu a prendermi in giro” come si analizza la parola anche? È un avverbio o una congiunzione? E la parola neppure nella frase “Non c’era neppure un libro”? A me paiono avverbi, ma i libri da cui sono tratte le indicano come congiunzioni… Perché? Cosa uniscono?

 

RISPOSTA:

Le grammatiche scolastiche tendono a considerare queste parole congiunzioni sulla scorta di frasi come “Ho incontrato lui e anche quell’altro” e “Non voglio studiare e neppure leggere”; è chiaro, però, che anche in esempi del genere la parola che congiunge è un’altra (e, ma potrebbe essere anche ma o o), mentre anche e neppure si legano a un nome, un verbo, un pronome, un aggettivo, come fanno gli avverbi.
In conclusione concordo con lei: si tratta di avverbi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono corrette le seguenti frasi?
1) Qualora lo desiderasse / avesse desiderato, le avrebbe procurato due inviti. 
2) La testa della ragazzina elaborava le novità in un modo tutto suo e come prima cosa le venne in mente se questa situazione le avrebbe portato, oltre al mal di pancia, anche qualche vantaggio.                                                              
3) Abituata a camminare a braccetto con i guai, si fece coraggio pensando che ormai la bomba era scoppiata, pertanto non sarebbe potuta esplodere un’altra volta.
4) Quando le gemelle salutarono Annarosa con un bacio, lei credette che fosse stato più sincero quello che Giuda diede a Gesù.
5) I pensieri rivolti alle persone care, ai gesti quotidiani e a tutto ciò che fino allora aveva dato per scontato che avrebbe avuto attorno a se le fecero capire l’importanza di quello che stava perdendo.                                            
6) Prese la palla al balzo e le disse che se avesse voluto, lui avrebbe potuto aiutarla.                                                                      
7) Marco non aveva sopportato che il loro rapporto fosse avvelenato dalla gelosia.                                                      
8) Marco le disse che fosse normale avere sensi di colpa dopo tragedie così grandi e che ogni sua decisione era stata dettata dall’amore verso di loro e dall’istinto materno.

 

RISPOSTA:

1) Se si mantiene il congiuntivo imperfetto (desiderasse), nell’apodosi ci si aspetta il condizionale presente: “Qualora lo desiderasse, le procurerebbe i biglietti”. Il condizionale passato (avrebbe procurato) non è impossibile: rende la condizione più concreta.
2) Corretta. Il condizionale passato avrebbe portato esprime l’idea di futuro nel passato.
3) Come 2).
4) Va bene. Il congiuntivo trapassato (fosse stato) indica anteriorità rispetto al momento di riferimento (credette).
5) Va bene. È necessario accentare il . In questo caso avrebbe avuto indicaun evento successivo rispetto ad aveva dato per scontato.
6) In questo caso il condizionale passato avrebbe potuto somma in sé l’idea della posteriorità rispetto al momento di riferimento (avesse voluto) e quella della conseguenza rispetto a una condizione al congiuntivo passato. A sua volta, il congiuntivo passato avesse voluto si giustifica in parte perché all’interno della protasi del periodo ipotetico, in parte perché anteriore rispetto a disse.
7) Corretta. L’imperfetto fosse indica contemporaneità nel passato.
8) Corretta. In dipendenza da dire l’indicativo è più comune del congiuntivo (disse che era normale).
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere una mano a proposito della concordanza.
1) In questa frase per me vanno bene le due forme:
Dubitavo che Marta capisse / avesse capito cio che le avevi detto.
2) In questa frase vanno bene entrambe le forme?
Benché avesse / avesse avuto tutto cio che voleva, non era mai contento.
3) E in questa frase è giusto usare il trapassato anche se vogliamo esprimere contemporaneità con la reggente?
Pensai che loro (prima) avessero sbagliato quando (= contemporaneità) ti avevano dato quell’informazione.
4) E in generale: purché si usa come se?

 

RISPOSTA:

1) Entrambe le forme sono corrette: a cambiare è il rapporto temporale tra reggente e subordinata. L’imperfetto (capisse) è contemporaneo nel passato a dubitavo; il trapassato (avesse capito) esprime l’anteriorità dell’evento rispetto a dubitavo.
2) Come per 1).
3) Anche se l’evento del dare l’informazione è contemporaneo rispetto a quello dello sbagliare, il trapassato (avevano dato) è l’unica scelta. Questo per due motivi: da una parte l’evento del dare entra in relazione con avessero sbagliato, ma anche con il verbo della principale (pensai), rispetto al quale è precedente. Dall’altra parte, l’indicativo è più svincolato dalla consecutio temporum rispetto al congiuntivo. 
4) Su purchè la invito a leggere questa risposta  dell’archivio di DICO. Inoltre, nell’archivio di DICO può leggere altre risposte sulla consecutio temporum.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La costruzione potrebbe darsi che, ma anche quella può darsi che, è compatibile con il modo condizionale, specie quando si abbia una protasi ipotetica implicita? 
Esempio: “Potrebbe darsi / può darsi che sceglierei di rimanere a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Sarebbe comunque possibile, anche in questo caso, optare per il congiuntivo, oppure ne risentirebbe il senso generale? “Potrebbe darsi / può darsi che stia a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Rimanendo nell’àmbito del condizionale, tra le tre forme sotto riportate, quale/i consigliate e quale/i no?
1. La domanda che hai appena fatto dovrebbe essere posta a un’altra persona.
2. La domanda che hai appena fatto andrebbe posta a un’altra persona.
3. La domanda che hai appena sarebbe da porre a un’altra persona.

 

RISPOSTA:

La costruzione impersonale può darsi (o potrebbe darsi) regge una proposizione completiva soggettiva che può essere costruita anche con il condizionale: la frase, quindi, va bene tanto con può darsi quanto con potrebbe darsi. Con una protasi al congiuntivo imperfetto (se fosse organizzato uno sciopero), comunemente si avrebbe il condizionale nell’apodosi, perciò “Se fosse organizzato uno sciopero, potrebbe darsi che sceglierei di rimanere a casa”. Possibile, però, anche l’indicativo (“Se fosse organizzato uno sciopero, può darsi che sceglierei di rimanere a casa”), che sottolineerebbe la concretezza della possibilità (in parte prescindente dall’evento dell’organizzazione dello sciopero).
Come si è detto, il condizionale della soggettiva (sceglierei) è previsto dal tipo di proposizione, ma è meno formale della variante al congiuntivo (“Può / Potrebbe darsi che scelga di rimanere a casa”). 
D’altro canto, però, il condizionale è favorito dalla logica, che induce il parlante a considerare proprio sceglierei l’apodosi del periodo ipotetico, trascurando la reggente potrebbe darsi, che in effetti, in quanto al contenuto, è assimilabile a un avverbio: “Se fosse organizzato uno sciopero, forse sceglierei di rimanere a casa”.
Le proposizioni soggettive, oltre al congiuntivo e al condizionale, prevedono anche l’uso dell’indicativo, che certamente è la soluzione meno formale fra le tre: “Può / Potrebbe darsi che scelgo di rimanere a casa”.
Le frasi conclusive sono tutte ben formate e sostanzialmente equivalenti in quanto al senso. Tutte e tre veicolano in modi diversi l’idea di dovere (il verbo modale dovere, il verbo andare con funzione di ausiliare, la costruzione sintattica essere + proposizione relativa implicita).
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Le mie perplessità riguardano l’uso del si combinato con un’altra particella pronominale (mi siti sici sivi sigli silo sile sile si). Cioè, forme particolari (e forse un po’ anomale) di pronomi combinati in cui l’abbinamento col si presupporrebbe un significato (e un uso) di tipo riflessivo, impersonale o passivante.
Dunque, se diciamo: “da noi ci si diverte”, il pronome combinato ci si penso abbia valore impersonale (mi sembra che manchino sia il soggetto sia l’oggetto). Nel caso di: “mi si è rotta la bici”, il pron. comb. mi si pare abbia valore passivante (penso che il soggetto sia a me e l’oggetto la bici). Invece, per quanto riguarda l’uso riflessivo non riesco a trovare alcun esempio.
Per concludere, vi chiedo un quadro esplicativo il più completo possibile. Inoltre, vi chiedo anche alcuni riferimenti bibliografici. 
Per cortesia, potreste fare una valutazione delle seguenti frasi e indicare a quale categoria appartengono (riflessiva, impersonale o passivante) i pronomi combinati?
1. Al lavoro ci si stanca;   
2. Dopo cena, con gli amici ci si incontra al bar; 
3. Qui ci si occupa di tasse;   
4. ti si vede una ruga;   
5. (a lui) gli si è intenerito il cuore;   
6. (a loro) gli si sono spalancate le porte;   
7. (a Gino) lo si è appreso solo ora;   
8. la si contatta e sentiamo che dice;   
9. li si raduna e facciamo il punto;   
10. vi si invita un sabato sera.

 

RISPOSTA:

Non c’è niente di anomalo nelle combinazioni di pronomi: è una pratica soluzione che la lingua italiana offre per unire un verbo pronominale (ovvero un verbo che incorpora nella sua forma anche un pronome) a un ulteriore pronome, che può avere la funzione di riferirsi a un nome (ti si vede = ‘si vede te’) o a un luogo (ci si va= ‘si va lì’).
Le regole di combinazione dei pronomi (in termini di combinazioni possibili e impossibili, ordine reciproco dei pronomi, cambiamento della loro forma) sono complicate dall’intrecciarsi, in queste parole, di funzioni diverse, a volte coesistenti. I casi più semplici sono quelli legati a mi e ti (che diventano me e te), gli e le (che diventano glie unito graficamente al secondo pronome), ci (ce), vi (ve) con funzione di complemento di termine in combinazione con lolalile, che hanno la funzione di complementi oggetto: me lo dai = ‘dai questa cosa a me’; glieli dai = ‘dai queste cose a lui / a lei / a loro’; ve le do = ‘do queste cose a voi’.
Con i verbi riflessivi, le combinazioni non si possono avere, perché l’azione rimane nell’orbita della stessa persona, che è soggetto e oggetto, e non è previsto un complemento indiretto pronominalizzabile. Con questi verbi, infatti, mitici, vi servono da complementi oggetti: mi lavo = ‘lavo me’ e gli e le, che possono essere soltanto complementi indiretti, non si possono usare, ma vengono sostituiti da si
L’unica combinazione possibile con i verbi riflessivi è ci si (“Nel Medioevo ci si lavava di rado”), in cui si ha la funzione di rendere il verbo riflessivo e ci funge da soggetto generico, che rende il verbo impersonale: ci si lavava = ‘la gente si lavava’. Con i verbi non riflessivi, il soggetto generico è rappresentato proprio da si: “Gli si è aperta una nuova opportunità”; con i verbi riflessivi, questo comporterebbe una sequenza si (impersonale) + si (riflessivo), non ammessa: da qui la soluzione ci + si
Come mai usiamo proprio ci per sostituire il si impersonale? Perché la prima persona plurale è quella che si avvicina di più all’idea dell’impersonalità. La usiamo anche in altri casi con questa funzione: “Dobbiamo smettere di inquinare” = ‘Si deve smettere di inquinare’.
Non basta: come spieghiamo casi come me li lavo? Semplice: in questo caso lavarsi non è riflessivo, ma transitivo: me li lavo = ‘mi lavo questi (i capelli, per esempio)’. Nei verbi transitivi pronominali, il pronome integrato non ha una funzione logica codificata, ma sottolinea la partecipazione del soggetto all’azione. 
Un po’ diverso è un caso come me la sono mangiata tutta, in cui mi (me) non serve ad altro che a enfatizzare la soddisfazione derivante al soggetto dal completamento dell’azione. Si noti che con i verbi transitivi pronominali si usano non gli e le ma si (se): se li lava = ‘si lava questi’. Lo stesso vale per i verbi che aggiungono il pronome enfatico: se l’è mangiata tutta = ‘si è mangiata tutta questa’. Questo dimostra che, sebbene non siano riflessivi, questi verbi veicolano una sfumatura di riflessività, sotto forma di beneficio che deriva dall’azione stessa al soggetto che la compie. Ovviamente, se la persona del pronome indiretto non coincide con quella del soggetto torniamo al primo caso illustrato sopra: glieli lavo = ‘li lavo a lui / lei / loro’. 
Esistono anche verbi intransitivi pronominali che hanno un si integrato nella loro forma. Se reggono un complemento di termine o simili ci sono le condizioni per avere una combinazione di tipo mi si: “I fedeli le si sono votati” = ‘i fedeli si sono votati a lei (alla Madonna, per esempio)’. Anche con questo tipo di verbi si crea la sequenza si + si quando vengono resi impersonali: *si si vota alla Madonna = ‘la gente si vota alla Madonna’. Come per i verbi passivi, anche in questo caso il primo si viene sostituito da cici si vota alla Madonna. Si noterà che abbiamo evitato la sequenza le ci si (“Le ci si vota”); essa è, però, del tutto corretta, per quanto insolita.
Più raro il caso di verbi intransitivi pronominali che hanno integrato un ci e richiedono un complemento di termine: “ti ci vuole molto?” = ‘a te ci vuole molto?’. Con questi verbi si crea la sequenza ci + ci alla prima persona plurale: *”Ci ci vuole mezz’ora per arrivare” = ‘a noi ci vuole mezz’ora per arrivare’. In questo caso la sequenza viene evitata, non modificata; possiamo avere “A noi ci vuole mezz’ora per arrivare”, oppure una variante semplificata (pratica, ma poco corretta): “Ci vuole mezz’ora per arrivare”, in cui l’unico ci sta per entrambe le funzioni, o, come soluzione estrema, la riformulazione, per esempio “Abbiamo bisogno di mezz’ora per arrivare” o “Ci mettiamo mezz’ora per arrivare”. Si noti che anche metterci è un verbo pronominale con ci, ma è transitivo e soprattutto non richiede un complemento di termine; può, quindi, essere accompagnato da una combinazione di pronomi soltanto se lo facciamo impersonale: ci si mette. C’è una differenza, però, tra ci si metteci si lava e ci si vota: nel primo si è impersonale e ci è intergrato nel verbo, nel secondo si è riflessivo e ci è impersonale, nel terzo si è integrato nel verbo e ci è impersonale.
La sequenza ci + ci si crea a volte anche quando ci ha valore locativo, ad esempio in “- Come vi trovate nella nuova scuola? – *Ci ci troviamo bene”. Anche in questo caso non ci sono sostituzioni possibili; le soluzioni sono quelle viste per *ci ci vuole.
I verbi pronominali che reggono un complemento costruito con di possono essere accompagnati da ne; per esempio preoccuparsinon me ne preoccupo = ‘non mi preoccupo di questa cosa / queste cose’. Si noti che nella forma impersonale preoccuparsi è analogo a votarsici si preoccupa.
Anche ne può avere funzione locativa (= ‘da quel luogo’), ma è improbabile che si creino sequenze ne + ne (che sarebbero, comunque, evitate come quelle ci ci). Possibile, invece, la sequenza di vi con funzione locativa e vi personale: *”Vi vi porto se fate i bravi” = ‘vi porto lì se fate i bravi’. La possibilità di sostituire sempre vi locativo con ci, però, rende questa evenienza facilmente risolvibile: “Vi ci porto se fate i bravi”. Si noti, per completezza, che la sequenza ci vi è impossibile, nonostante che il pronome personale sia più solidale con il verbo rispetto al pronome locativo. Esiste un ordine fissato per la collocazione dei pronomi, che è difficile da spiegare, ma che è applicato infallibilmente dai parlanti nativi; eccolo: 1. mi; 2. glile complementi indiretti; 3. vi; 4. ti; 5. ci; 6. si riflessivo; 7. lolalile complementi diretti; 8. si impersonale; 9. ne. L’elenco va letto nel senso della priorità: mi precede sempre tutti quelli che vengono dopo; gli segue mi ma precede tutti quelli che vengono dopo e così via.
Veniamo, infine, alle sue frasi: 1-3 sono casi di verbi pronominali impersonali, sul modello di ci si preoccupa (sostitutivo di *si si preoccupa); 4-6 sono casi di verbi pronominali che reggono complementi indiretti; 7-10 sono casi di verbi impersonali con complementi oggetto pronominalizzati.
Come sempre in casi così intricati, il riferimento migliore è la Grande grammatica italiana di consultazione (Bologna, Il Mulino), in particolare il volume I alle pagine 588-592.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella forma di cortesia qual e il pronome indiretto plurale: “Signori, Gli / Vi darò il libro più tardi”?

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia singolare lei (terza persona) coincide, al plurale, con il pronome voi, e quindi con la particella pronominale vi: “Signori, vi darò il libro più tardi”. Ricordiamo che i pronomi di cortesia possono essere scritti con l’iniziale minuscola o maiuscola; quest’ultima scelta è, ovviamente, più formale.
Fino a qualche decennio fa, voi era molto diffuso anche al singolare, al posto di lei (“Signore, vi darò il libro più tardi”). Oggi quest’uso suona un po’ antiquato, anche se in alcune regioni del Sud è, al contrario, la forma più comune ancora oggi. Fino a qualche tempo fa era anche possibile usare il pronome loro per rivolgersi direttamente a una pluralità di persone (“Signori, loro cosa desiderano?”). Ormai estremamente formale e burocratico, l’uso di loro rimane oggi in uso in alcune formule di cortesia cristallizzate come desiderano? In ogni caso loro, quando è usato come pronome di cortesia, non può essere sostituito da gli nel complemento di termine; quindi: “Signori, ho dato loro un buon consiglio o no?” (non *”Signori, gli ho dato un buon consiglio o no?”).
Per un approfondimento sui pronomi di cortesia (leivoiloro), la invito a leggere la risposta 2800291 dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1. Vorrei chiedere aiuto a proposito delle frasi relative. In questa frase è obbligatorio l’uso del congiuntivo?
“Un insegnante che voglia / vuole essere veramente efficace nel suo lavoro deve anzitutto saper ascoltare”.

2. In quest’altra frase, seguendo le regole del consecutio temporum non si dovrebbe usare l’imperfetto?
“L’insegnante ha convocato i genitori di Mattia perché sappiano / sapessero qual è la situazione scolastica del figlio”.

3. In questa frase e obbligatorio l’uso del congiuntivo passato? Il congiuntivo presente è sbagliato?
“Martina non può uscire prima che il bambino non si sia addormetato”.

4. In questa frase non sarebbe meglio usare il trapassato?
“Abbiamo trascorso una bella giornata e la visita al museo è stata più interessante di quanto ci aspettassimo / ci fossimo aspettati”.

5. In questa frase non capisco l’uso del trapassato. Non sarebbe piu logico con un passato prossimo?
“Frequentando un corso estivo di tedesco in Germania, Carlo *aveva imparato* più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola”.

6. In questa frase che senso hanno i trapassati?
“Nonostante fosse rimasto a casa tutto il giorno, Andrea non aveva studiato”.

7. In questa frase sono corretti sia l’imperfetto sia il trapassato?
“Renè riusciva quasi sempre a prendere il treno, nonostante ______________ (uscire) di casa sempre all’ultimo momento”.

 

RISPOSTA:

1. Sono adatti sia l’indicativo sia il congiuntivo. Nelle subordinate relative, il congiuntivo, oltre a essere la scelta più formale, aggiunge una sfumatura semantica di ipoteticità. Che vuole descrive una qualità posseduta dall’insegnante; che voglia suggerisce che questa qualità può essere posseduta o no. Con il congiuntivo, in altre parole, la relativa si può quasi leggere come la protasi di un periodo ipotetico: un insegnante, qualora voglia… È anche possibile usare il congiuntivo imperfetto, per rendere la possibilità ancora meno concreta: un insegnante che volesse… dovrebbe.
2. Il passato prossimo della proposizione reggente può essere interpretato in due modi, focalizzando il momento in cui l’azione del convocare è avvenuta, nel passato, oppure considerando l’effetto del convocare, che è presente. Nel primo caso la finale prenderà il congiuntivo imperfetto, nel secondo il presente. Si consideri che l’interpretazione più comune sarebbe la seconda.
3. Possono andar bene entrambi i tempi del congiuntivo. Con il presente si sottolinea la contemporaneità tra i due eventi, con il passato l’anteriorità dell’addormentarsi rispetto all’uscire. Nella frase c’è una negazione di troppo; ecco la forma più corretta: “Martina non può uscire prima che il bambino si sia addormetato”. 
4. Come per la 3.
5. Il trapassato è corretto se c’è sottinteso un momento di riferimento passato; per esempio: “Carlo aveva imparato più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola (e per questo superò brillantemente l’esame)”. Senza il momento di riferimento, il tempo da scegliere è il passato remoto (o prossimo).
6. Come per la 5. Ci deve essere un momento di riferimento passato sottinteso rispetto al quale i due eventi sono precedenti.
7. Il trapassato è scorretto perché l’evento dell’uscire è descritto come abituale nel passato; il tempo da inserire, pertanto, è l’imperfetto uscisse. Il trapassato sarebbe adatto in questa frase: “Renè riuscì a prendere il treno, nonostante fosse uscito di casa all’ultimo momento”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase, ricavata da un romanzo, “Aveva l’aria di uno che vuole sapere che cosa gli sarebbe accaduto”, l’autore non avrebbe fatto meglio a sostituire il condizionale passato con il futuro semplice, dato che il verbo della subordinata è al presente?
Al suo posto, avrei infatti scritto: “Aveva l’aria di uno che vuole sapere che cosa gli accadrà”.
Il condizionale passato, a mio modesto avviso, sarebbe stato giustificato in presenza di un verbo al passato, fosse esso del modo congiuntivo o dell’indicativo.
E infine, tra le tre frasi che seguono quale consigliate per un contesto formale?
L’ultima, all’indicativo presente, è accettabile?
“Marco pensò al peggio, come uno che non abbia tempo da perdere”;
“Marco pensò al peggio, come uno che non avesse tempo da perdere”;
“Marco pensò al peggio, come uno che non ha tempo da perdere”.

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: in dipendenza da un presente il futuro si esprime con il futuro (o anche con il congiuntivo presente: “Vuole sapere che cosa gli succeda domani”), mentre in dipendenza da un passato si usa il condizionale passato. In questo caso, però, non sarei così netto nel condannare la scelta dell’autore. Tutto sommato, infatti, il presente vuole sapere non serve a portare la linea temporale degli eventi al presente, visto che la narrazione è al passato. Serve, invece, a dare una dimensione atemporale alla descrizione, come per richiamare nel lettore la consapevolezza che quella reazione evidenziata nel personaggio è, in realtà. comune in ogni tempo e in ogni luogo. Con il condizionale passato, quindi, lo scrittore ritorna alla linea temporale effettiva, che è passata, trascurando l’accidente della reggenza al presente. 
Questo è uno di quei casi in cui la regola grammaticale cede il passo all’espressività linguistica.
Per quanto riguarda le tre frasi che lei propone, la prima e la terza sono equivalenti per il significato, ma quella con l’indicativo è meno formale. La seconda sottolinea che la descrizione è relativa a Marco in particolare, diversamente da quelle al presente, che sono atemporali, quindi suggeriscono che lo stesso atteggiamento è potenzialmente riscontrabile in chiunque.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

​A proposito del congiuntivo: la congiunzione purché si usa come se?  
“Sarei andato in macchina, purché (= se) avessimo diviso le spese” (contemporaneità nel passato);
“Andrei in macchina purché dividessimo le spese”
In questo contesto perché si usa il trapassato. Non basta il congiuntivo passato?
– Giorgio ieri sera ha fatto dei discorsi strani.
– Anche a me e sembrato che il suo comportamento non fosse normale.
– Che avesse bevuto troppo? (oppure Che abbia bevuto troppo?)

Qui invece del trapassato dell’indicativo si usa il trapassato del congiuntivo?
– Luisa non mi parló del suo progetto di cercare un altro lavoro.
– Che avesse cambiato idea?
E anche qui?
– Franco ha ripetuto ciò che mi aveva detto Giulio.
– Che si fossero messi d’accordo?

 

RISPOSTA:

La congiunzione purché è quasi sempre usata nel periodo ipotetico, come semplice variante di se, rispetto alla quale veicola una sfumatura restrittiva. Nella sua frase, per esempio, purché si può parafrasare con ‘soltanto se, soltanto nel caso in cui’.
Ha, però, anche un uso specifico, condizionale-restrittivo, con il quale indica la condizione che deve realizzarsi (o avrebbe dovuto realizzarsi) perché un evento possa verificarsi (o avesse potuto verificarsi). Quando è usata con questa funzione in riferimento a eventi presenti o futuri, non può essere sostituita perfettamente da se; ad esempio: “Farò come tu vuoi, purché tu me lo chieda per favore”. Se proviamo a sostituire purché con se in questa frase, otteniamo un risultato al limite dell’accettabilità: *”Farò come tu vuoi, se tu me lo chieda per favore”. Si noti anche che qui purché è preferibilmente preceduta dalla virgola, perché il legame logico tra condizione e conseguenza è percepito come meno diretto di quello tra ipotesi e conseguenza. Al passato, la specificità di purché si annulla in ogni caso, perché la condizione viene a confluire automaticamente nell’ipotesi: “Avrei fatto come tu volevi, purché / se tu me lo avessi chiesto per favore”. Si noti, però, che anche in questo caso purché richiede la virgola più fortemente di se.

Le proposizioni interrogative che esprimono un dubbio richiedono, come nota lei, il congiuntivo. Possiamo considerare queste proposizioni subordinate a una reggente sottintesa come è possibile… La sua prima frase, quindi, equivale a: “È possibile che abbia / avesse bevuto troppo”. Dal momento che l’evento del bere sarebbe avvenuto prima di un altro evento passato, corrispondente al comportamento non normale, il tempo può essere trapassato. Il passato non sarebbe comunque scorretto, perché l’evento del bere può essere rappresentato come semplicemente passato, senza il riferimento alla precedenza rispetto al comportamento non normale. In 4 la scelta del tempo del congiuntivo modifica sostanzialmente il senso della frase: “Che abbia cambiato idea?” implica che il cambiamento di idea sia ancora attuale, mentre “Che avesse cambiato idea?” lo riferisce solamente al passato (il che, però, non esclude che sia ancora attuale).
Fabio Ruggiano 
Raphael Merida 

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QUESITO:

Si dice vestito di oppure a tinta unita?

 

RISPOSTA:

Esistono entrambe le forme, anzi se ne può aggiungere una terza: in tinta unita. La locuzione tinta unita infatti non richiede una determinata preposizione, ma, a seconda dei contesti, è adattabile, senza che il significato dell’espressione cambi. Il vocabolario Devoto-Oli offre alcuni esempi d’uso: alla voce Unito registra la locuzione in tinta unita ‘tutto di un colore’, mentre alle voci Lidite (il nome di una roccia) troviamo: “Varietà di diaspro di tinta unita nera”, e alla voce Operato (una lavorazione del tessuto): “Di qualsiasi tessuto o altro materiale a disegni (contrapposto a quelli a tinta unita)”. 
Raphael Merida 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Si può dire mi sono divorziato?

 

RISPOSTA:

Divorziare è, nell’italiano contemporaneo, un verbo intransitivo che esige l’ausiliare avere; l’espressione da usare è quindi ho divorziato. Dato che il divorzio prevede lo scioglimento di un vincolo creato tra due persone, è previsto l’uso della preposizione da, che veicola l’idea di allontanamento: “Ho divorziato da mia moglie”. 
L’uso di divorziarsi è attualmente attestato pochissimo, ma potrebbe anche prendere piede, grazie all’analogia con alcuni verbi dello stesso ambito dell’esperienza, come sposarsi e separarsi.
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È meglio scrivere privata dalla libertà oppure privata della libertà.

 

RISPOSTA:

Il verbo privare ‘rendere qualcuno o qualcosa privo di qualcosa’ richiede sempre la preposizione di, perciò l’unica forma corretta è privata della libertà. Ovviamente si può sempre essere privati di qualcosa da / da parte di qualcuno, per esempio: “Gli schiavi sono privati della libertà dai / da parte dei padroni”. Volendo estremizzare, quindi, si potrebbe dire: “Sono stata privata dei miei affetti più cari dalla libertà”, intendendo che la libertà mi ha allontanato dai miei affetti più cari.
Raphael Merida 

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto la frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, che mi lascia dubbiosa circa la sua validità. Dato che il pronome lui rimanda al soggetto, non sarebbe stato il caso di procedere con la scelta di ?
“Matthew sentì crescere dentro di sé”.
Qual è la regola che stabilisce quando usare  e quando, invece, lui / lei?

 

RISPOSTA:

La regola è proprio quella da lei individuata:  si riferisce al soggetto, di terza persona singolare o plurale, della stessa proposizione, che può anche coincidere con quello della proposizione reggente (“Luca è una persona che vuole tutto per sé” = ‘Luca vuole tutto per Luca’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per sé” = ‘Luca e Mario vogliono tutto per Luca e Mario’); lui / lei, o, al plurale, loro, si riferiscono a una terza persona o a terze persone (“Luca è una persona che vuole tutto per lui” = ‘Luca vuole tutto per un’altra persona di sesso maschile’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per loro” = Luca e Mario voglio tutto per altre persone’). La frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, quindi, deve essere corretta come fatto da lei (oltre che, ovviamente, completata con il soggetto del verbo crescere). 
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il verbo pensare presenta delle difficoltà di non facile soluzione. In molti casi non ci sono dubbi: “io penso a lei”, “io penso bene di lei”. Quando, però, il verbo pensare è seguito da un verbo all’infinito, sorgono dubbi.
Faccio degli esempi: “Lui pensa a vendere la macchina” ben diverso da “Lui pensa di vendere la macchina”. Nel primo caso s’intende che lui si occupa della vendita della macchina, nel secondo caso lui è dell’idea di vendere la macchina. Altri esempi: “Lui pensa a lavorare bene” contrapposto a ” Lui pensa di lavorare bene”. Nel primo caso lui s’impegna a lavorare bene, nel secondo caso lui ritiene di lavorare bene. La differenza non è sottile. Altro esempio: “Lui pensa a trovar moglie” e “Lui pensa di trovare moglie”. Nel primo caso lui si dà da fare nella ricerca di una moglie, nel secondo caso lui pensa che troverà una moglie. Anche qui sono due concetti ben diversi. In altri casi la differenza è invece minima,
impercettibile: “Lui pensa a lasciare l’incarico”; ” Lui pensa di lasciare l’incarico”.
Ora  le chiedo: le risulta che esista una regola nell’utilizzo del verbo pensare?
Quando pensare a e quando pensare di

 

RISPOSTA:

Il verbo pensare seguito da una proposizione completiva all’infinito ammette una duplice reggenza preposizionale (sebbene in questo caso le preposizioni fungano da congiunzioni) in grazia del suo significato molto ampio; le due preposizioni, cioè, selezionano ciascuna una diversa parte del significato del verbo, coerente con la propria funzione. La a, che è la preposizione della direzione, seleziona il significato più fattivo del verbo, quello relativo al trovare, grazie al pensiero, il modo per raggiungere un obiettivo (quindi ‘progettare’, ma anche ‘adoperarsi per’). La preposizione di, invece, che instaura relazioni di pertinenza, anche riguardo all’argomento (discutere di politica), seleziona il significato più contemplativo: ‘ponderare, riflettere, valutare’. La reggenza di di, si noti, è limitata ai casi in cui pensare regga una proposizione completiva all’infinito; per il resto la preposizione selezionata è a.
Pensare può essere anche transitivo, e reggere un nome o un pronome: pensare una soluzioneche cosa ne pensi?, o una proposizione: pensa quanto ci divertiremo domani. In questi casi il verbo assume il suo significato più generico: ‘immaginare, formare un giudizio nella mente’. Si noti che l’ultima frase (pensa quanto ci divertiremo domani) può essere costruita anche con la preposizione / congiunzione apensa a quanto ci divertiremo domani, senza che questo faccia scattare il significato di ‘progettare’ o quello di ‘occuparsi di’. Questo avviene perché tale specializzazione si attiva quando sono possibili entrambe le costruzioni, con a e con di, ovvero quando la proposizione completiva è all’infinito. Negli altri casi, quando di è esclusa, la a non aggiunge una sfumatura particolare al significato generico del verbo.
Quando pensare è seguito da un nome, regge preferenzialmente a e a volte, come si è visto, è transitivo. Non regge mai di (ma è possibile, quando è transitivo, farlo seguire da un complemento di argomento: che ne pensi di Luca?​). Seguito da un nome, pensare può oscillare tra un significato più fattivo e uno più contemplativo; la specializzazione semantica, in questi casi, si coglie dal senso della frase: penso io alla cena = mi occupo io della cenapenso ancora alla cena di ieri = rifletto ancora sulla cena di ieri.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’; 
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masutmazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iotanon valere uno / una iotaun / uno pneumatico.

 

RISPOSTA:

​Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginsengun megahertz molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acquasalemercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domanimenodopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iotauno iotauna iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi sotto indicate sono tutte corrette?
1. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorino.
2. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici siano migliorati.
3. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici miglioreranno.
4. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici saranno migliorati.

 

RISPOSTA:

Le proposizioni oggettive esplicite, nelle frasi introdotte da che, ammettono sia l’indicativo sia il congiuntivo. La costruzione della frase, però, ammette soltanto le frasi 1. e 3. La scelta tra le due va fatta in base al contesto comunicativo: l’indicativo (miglioreranno) è la variante meno formale, il congiuntivo (migliorino) quella più formale. Si può anche immaginare una variante ancora meno formale, se non proprio trascurata: “Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorano”.
Le frasi 2. e 4. risultano incoerenti. Il congiuntivo passato (siano migliorati) indica anteriorità rispetto al verbo della reggente; ciò vuol dire che al momento dell’enunciazione il fatto è già accaduto. Potremmo avere la soluzione con il congiuntivo passato in una situazione rivolta al presente (“Spero che i dati economici siano migliorati”), in cui si spera che i dati economici siano migliorati in un momento del passato. 
Il futuro anteriore indica anteriorità rispetto al futuro, mentre nella frase il punto di riferimento del cambiamento è attuale, sebbene proiettato al futuro (da ora alla fine del 2021).
Le frasi 2. e 4. divengono coerenti se posizioniamo il riferimento al futuro, invece che da ora al futuro: “Spero che alla fine del 2021 i dati economici siano / saranno migliorati”. In questo modo, il futuro anteriore assume la sua funzione propria di descrivere un evento precedente rispetto al futuro (la fine del 2021); il congiuntivo passato, a sua volta, diviene possibile perché l’emittente può spostare mentalmente il suo punto di vista alla fine del 2021 e osservare il cambiamento come passato rispetto a quel momento.
Anche con il cambiamento del riferimento temporale le frasi 1. e 3. rimangono valide (“Spero che alla fine del 2021 i dati economici migliorino / miglioreranno”), ma cambiano di significato: passano, infatti, a indicare che il cambiamento è ipotizzato a partire dalla fine del 2021.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le due varianti di ognuna delle coppie di frasi presentate si differenziano a livello di formalità: 
  
1a. Non sono io a dover rispondere. 
1b. Non sono io che devo rispondere.

2a. Lei mi prese la mano.  
2b. Lei prese la mia mano. 

 

RISPOSTA:

​Nella prima coppia, la soluzione con la subordinata implicita è più formale. Essa ha il vantaggio di nascondere il problema dell’accordo del verbo con il soggetto della subordinata (detta pseudorelativa). Se si considera attentamente, infatti, il che che introduce la subordinata è a metà strada tra la prima e la terza persona, come se ci fosse un colui (o quello o simili) sottinteso: “Non sono io (colui) che deve rispondere”. A riprova di questo, se capovolgiamo le posizioni del soggetto e del verbo essere nella proposizione reggente colui diventa obbligatorio, e di conseguenza l’accordo del verbo della subordinata è alla terza persona: “Io non sono colui / quello / la persona che deve rispondere”. La concordanza alla terza persona, che in presenza di colui è obbligatoria, è, però, innaturale senza colui, quindi preferiamo concordare il verbo “logicamente” con io, oppure aggirare il problema con l’infinito.
Nella seconda coppia, la variante con l’aggettivo possessivo è decisamente poco comune e formale, tanto da essere adatta a uno scritto letterario ed essere, invece, da evitare in qualsiasi altra sede. Si pensi a quanto suonerebbe ironica tale costruzione associata a un evento quotidiano: “Il parrucchiere taglia i miei capelli”. Se, però, rendiamo la frase più aulica, ecco che la costruzione diviene accettabile: “Il parrucchiere acconciò la mia chioma con maestria”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?

1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro. 
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata. 
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo. 
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.

 

RISPOSTA:

​Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale. 
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato. 
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho scritto la seguente frase umoristica su Facebook: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, al cui confronto Frankestein sembra un ginnasta dell’antica Atene”.
Dopo qualche ora mi è sorto il dubbio che quella virgola, l’unica presente nel testo, non dovesse essere posta. Solo che ormai tutti hanno letto e perciò temo di aver rovinato la reputazione di discreto scrittore che ho costruito con fatica. 

 

RISPOSTA:

Nella frase la virgola non è richiesta perché la proposizione relativa introdotta da al cui confronto è di tipo limitativo, non esplicativo. Questa relativa è parte integrante dell’antecedente (un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’), che non ne può fare a meno; se, infatti, proviamo a eliminarla, il risultato risulta incompleto: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre'”. Si veda, invece, come cambia il rapporto tra reggente e relativa se rendiamo l’antecedente autonomo:  “Certi individui attraversano la strada con un certo dinamismo vitale e una certa ‘joie de vivre'”; in questo caso la relativa, che pure può seguire, andrà preceduta da virgola, perché è esplicativa, aggiuntiva, non limitativa, ovvero identificativa dell’antecedente. 
Per approfondire questo argomento può consultare diverse risposte nell’archivio di DICO (per esempio la FAQ  Usi testuali della virgola).
Va detto che la sua frase presenta un problema di coesione tipico del parlato, da evitare nello scritto: il riferimento di al cui confronto sarebbe un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, non certi individui. Nella frase, quindi, si confronta Frankenstein al modo di camminare di certi individui, mentre il confronto può essere fatto o tra il modo di camminare di Frankenstein e il modo di camminare di certi individui, o tra Frankenstein e certi individui che camminano in un certo modo. Il senso della frase è comunque chiaro, ma il testo risulta sconnesso.
Un modo semplice per riconnettere i due termini del confronto è questo: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’ al cui confronto il modo di camminare di Frankestein sembra quello di un ginnasta dell’antica Atene”. Chiaramente, in questo modo la frase è meno diretta e probabilmente fa meno ridere, ma la coesione è migliore. In ogni caso, la relativa rimane limitativa, quindi senza virgola.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Richiedo il vostro parere sulla correttezza di questa frase: “Vi informo che il veicolo, abbia subito un danno”.
Sarebbe più corretto scrivere “Vi informo che il veicolo ha subito un danno”?

 

RISPOSTA:

La frase ha certamente un difetto, che è la virgola prima di che, da eliminare. Si può, inoltre, discutere su quale modo verbale sia meglio usare nella subordinata completiva. Quasi sempre le proposizioni completive ammettono l’alternanza tra indicativo e congiuntivo (penso che tu sei mio amico / penso che tu sia mio amico). In questi casi il congiuntivo si configura come la soluzione più formale, e il senso della frase non è intaccato dalla scelta. Nella sua frase, invece, il senso è talmente oggettivo da preferire senz’altro l’indicativo, in quanto modo della fattualità. Non si può giudicare Vi informo che il veicolo abbia… sbagliata, ma Vi informo che il veicolo ha… è più naturale ed è adatta a tutti i contesti.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto su un libro di scrittura e comunicazione il seguente passo: “La lettura – e intendiamo riferirci alla lettura in quanto attività anche libera,disinteressata – è stato il vero serbatoio della scrittura”. Il passato prossimo non si dovrebbe concordare con lettura: “La lettura è stata il vero serbatoio della scrittura”?

 

RISPOSTA:

L’accordo del participio passato è un motivo ricorrente di dubbio. Nel suo caso, il participio di essere può accordarsi sia con il soggetto sia con il nome del predicato, quindi entrambe le forme (“La lettura è stato il vero serbatoio” / “la lettura è stata il vero serbatoio”) sono corrette.
Per un approfondimento sull’accordo del participio passato, la rimando alla risposta della FAQ  Tutti gli accordi del participio passato dell’archivio di DICO.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Ha fatto un minimo sforzo”, minimo potrebbe essere considerato sia superlativo assoluto sia superlativo relativo, nel senso di ‘il più piccolo tra tanti’?

 

RISPOSTA:

Minimo è il superlativo assoluto di piccolo; il superlativo relativo si forma con il minore. “Ha fatto lo sforzo minore” implicherebbe la presenza di un riferimento rispetto al quale il superlativo sarebbe tale: “Ha fatto il minor sforzo possibile / lo sforzo minore tra quelli che gli si erano prospettati / lo sforzo minore della sua squadra (tra quelli fatti dai componenti della sua squadra)”.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO

Volevo chiedere se nella frase “Ogni lancetta potrebbe spostarsi più lentamente o accelerare, lasciandoti indietro senza che te ne accorga” è corretto l’uso del congiuntivo o andrebbe meglio l’indicativo accorgi.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo è corretto. L’indicativo, dal canto suo, non è scorretto, ma più informale, adatto al parlato e a contesti scritti trascurati. Molte risposte sull’alternanza tra indicativo e congiuntivo sono contenute nell’Archivio di DICO; sono recuperabili digitando nel motore di ricerca interno la parola congiuntivo.
Fabio Ruggiano

 

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Sono corrette queste frasi?

1. Se rappresentava il compenso per una settimana di lavoro, lo considerava inadeguato; se invece fosse stato un regalo per le sue prestazioni sullo yacht, significava che era stata considerata una puttana. 
2. Se a te fa piacere, sarei felice di invitarti a prendere un gelato o se preferisci, potremmo andare al cinema.
3. Due giorni prima dell’esame, Marco ricordò alla sua ragazza l’impegno che si era preso/a? di accompagnarlo.  
4. Inoltre, vista la mia situazione, un aumento di stipendio era proprio ciò che ci volesse / voleva?
5. Ci vorranno ancora secoli perché tutto questo cambi.

 

RISPOSTA:

1. Corretta; l’alternanza tra un periodo ipotetico con protasi all’indicativo imperfetto (rappresentava) e al congiuntivo trapassato (fosse stato) è ammissibile come scelta stilistica.
2. L’unica sbavatura è la mancanza delle virgole prima della coordinata disgiuntiva (non sempre richiesta, ma in questo caso preferibile perché la coordinata presenta un’alternativa netta rispetto alla prima proposizione), e in apertura dell’incidentale. Quindi, un gelato, o, se preferisci,.
3. l’impegno che si era presa. Il participio passato unito all’ausiliare essere concorda con il soggetto.
4. Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è più formale.
5. Corretta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In questa frase è meglio usare il passato prossimo?
“Hai visto il giallo di ieri sera? È stato / era fantastico!”

Inoltre vorrei chiedere se a questa domanda tutt’e due le risposte sono giuste: “C’è un supermercato qui vicino?”
“Sì, c’è uno (vicino alla posta)”.
“Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”.

E in ultimo: alla domanda “Quanto vino hai bevuto?” posso rispondere “Non ne ho bevuto niente / nessuno”?

 

RISPOSTA:

La soluzione migliore per la prima frase è il passato prossimo. Il film, infatti, viene considerato come un evento che ha avuto un inizio e una fine, quindi compiuto. Con l’imperfetto, invece, lo si rappresenta come continuato.
La variante corretta per la seconda domanda è “Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”. È necessario, infatti, specificare nella risposta di che cosa ci sia uno, ovvero “Ce ne è (ce n’è) uno” = ‘di supermercati c’è uno’.
La risposta alla terza domanda non è corretta perché l’uso di ne contrasta con i pronomi niente nessuno. Così costruita, la frase corrisponde a “Non ho bevuto niente di vino”, o “Non ho bevuto nessuno di vino”, che non vanno comunque bene, perché “Non ho bevuto niente” non ha bisogno di ulteriori specificazioni, e “Non ho bevuto nessuno” vuol dire ‘non ho bevuto nessuna persona’. Quindi, o si dice “Non ho bevuto niente”, oppure si usa un avverbio: “Non ho bevuto affatto / per niente / assolutamente vino”. Possibile, nel parlato (da evitare nello scritto), anche la dislocazione a destra: “non ne ho bevuto vino”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le tre varianti dell’esempio sotto riportato siano valide?
“Se riuscissimo a sbloccare il progetto, nessun governo, italiano o francese che possa essere / potrebbe essere / sia, sarebbe in grado di osteggiarne la realizzazione”.
 

 

RISPOSTA:

Le due varianti che possa essere e sia sono equivalenti dal punto di vista della sintassi del periodo: entrambe hanno il congiuntivo presente (sia possa) in dipendenza da che. Tra le due, quella senza il verbo servile possa è senz’altro preferibile, perché la sfumatura potenziale è già presente nella costruzione che + congiuntivo.
Da scartare, invece, *che potrebbe essere, perché la proposizione costruita con che + congiuntivo equivale a una subordinata completiva a un’espressione come mettiamo il caso; in altre parole, che sia equivale a mettiamo il caso che sia. Se sostituiamo potrebbe essere a sia, quindi, otteniamo una frase scorretta: *mettiamo il caso che potrebbe essere.
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio semantico quando scrivo questa frase: “Devo conquistare il Paradiso”. Conquistare significa ‘ottenere qualcosa con fatica, andando contro ostacoli’. Ma è risaputo, per i cristiani, che queste fatiche scompaiono facendo posto alla gioia, in vista del fine gioioso del Paradiso. Scomparendo la fatica, ho l’impressione che scompare anche il senso stesso del termine conquistare (il quale prevede fatica nell’ottenimento di qualcosa). Ho pensato che sia più adatto a questo punto usare il termine conseguire, ma non ha lo stesso carico di significato che voglio dare alla frase (cioè far capire che vi sono ostacoli e fatiche, ma queste scompaiono, facendo posto alla gioia in vista del fine). Quindi, chiedo se sia opportuno cambiare il termine oppure se possa rimanere. Nel caso sia possibile mantenere il termine, chiedo se si debba inserire tra virgolette o se possa essere inserito anche senza virgolette (una sorta di significato sottinteso che non so in grammatica come si chiama).

 

RISPOSTA:

Le sue riflessioni semantiche su conquistare sono soggettive e non toccano il significato codificato del verbo. Incidono, piuttosto, sul senso che lei vuole veicolare nel suo testo particolare. Per veicolare la sfumatura da lei ricercata, dovrebbe esplicitarla in modo più disteso, piuttosto che affidarla al significato di un singolo verbo. Va sottolineato che proprio il significato dei due verbi modifica la rappresentazione degli oggetti a essi legati. Conquistare si lega a oggetti (in senso lato) raggiungibili attraverso il superamento di ostacoli; conseguire ha in sé il tratto del ‘seguire’ e per questo raffigura l’oggetto come l’esito di un processo (tacendo delle qualità di questo processo). Tanto per chiarire la differenza, si può conquistare una coppa, ma non si può conseguire una coppa, perché comunemente la coppa è considerato il simbolo di una vittoria, quindi allude al superamento di una prova. Anche con vittoria, il verbo conquistare sottolinea la difficoltà, conseguire solamente il risultato. Tipicamente, non a caso, l’oggetto che si consegue è proprio un risultato; molto innaturale, invece, è conquistare un risultato, perché il significato di risultato non è facilmente associabile ‘difficoltà’. E, per fare un ultimo esempio, si può conquistare la vetta di una montagna, ma non si può conseguire lo stesso oggetto. 
Conquistare, insomma, rimane, tra i due, il verbo più adatto a un oggetto come il Paradiso, ferma restando la possibilità di sottolineare la natura del tutto particolare delle difficoltà da superare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “la cosa che Michele sa fare di più è scrivere”, di più è un comparativo?

 

RISPOSTA:

Nella frase, di più (che equivale all’avverbio meglio) è senz’altro un’espressione superlativa, non comparativa: non c’è, infatti, un secondo termine di paragone.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se voglio scrivere che “i miei amici si preoccupano più quando devono dare un esame di quanto si sono / si siano preoccupati di vivere quegli anni preziosi”, quale scelgo tra indicativo e congiuntivo?
Se dico: “Un cane che non abbaiasse: ecco un animale domestico che non rompe le scatole”, va bene che ci sia l’imperfetto congiuntivo e poi l’indicativo presente?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase vanno bene entrambi i modi; in questo caso il congiuntivo non è necessario, ma è un’alternativa stilisticamente più alta. Nella seconda frase il congiuntivo nella proposizione relativa, oltre a rappresentare un’alternativa più formale come nella prima frase, carica la proposizione di una sfumatura ipotetica; come nel caso della proposizione ipotetica, quindi, l’imperfetto accentua la sfumatura rispetto al presente; potremmo dire che che non abbaiasse è assimilabile a se non abbaiasse, mentre che non abbai è a metà strada tra se non abbaia che non abbaia. Visto, però, che anche il presente veicola un certo senso di eventualità, il valore aggiunto dell’imperfetto appare non essenziale, e dal momento che l’imperfetto stride in correlazione con l’indicativo presente rompe, la scelta più consigliabile è che non abbai.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In una frase come “loro si vestono eleganti”, l’aggettivo, che mi pare un avverbio, si concorda con il soggetto o no?
 

 

RISPOSTA:

La frase “loro si vestono eleganti” è corretta, ma informale. Sarebbe più formale “loro si vestono elegantemente”, con l’avverbio al posto dell’aggettivo (che, infatti, ha funzione avverbiale). Possibile, ma molto informale, anche “loro si vestono elegante”, con l’aggettivo che rimane invariato proprio perché ha la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Secondo la regola, se una volontà che si riferisce al futuro non si realizzerà bisogna usare il condizionale composto. Ma in tutti i casi? Non posso semplicemente usare il futuro semplice?

“Domani andrei / sarei andata al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa”.

 

RISPOSTA:

Il condizionale passato non esprime semplicemente il futuro, ma esprime un evento successivo a un altro evento passato, per esempio “Luca disse che sarebbe andato a sciare l’inverno successivo”. Nella sua frase, le due versioni sono corrette, ma significano due cose diverse. In nessuna delle due, inoltre, è presente un futuro, ma il condizionale riguarda il grado di possibilità che ha, secondo l’emittente, l’evento andare al mare. “Domani andrei al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa” significa che il desiderio di andare al mare è condizionato da un evento (la necessità di rimanere a casa), ma è ancora realizzabile; “Domani sarei andata al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa” descrive la stessa situazione, ma con la differenza che il desiderio è descritto (mediante il condizionale passato) come irrealizzabile. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi? 

 

RISPOSTA:

I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Retorica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere se questa frase è giusta con la preposizione da o solo con a: “Portano via la capacita di concentrarsi dagli / agli studenti”.

 

RISPOSTA:

​Il verbo portare via richiede la preposizione aportare via qualcosa a qualcuno
Non si può, però, sostenere che la preposizione da sia sbagliata. L’idea di allontanamento o sottrazione è espressa di solito con la preposizione da, mentre a indica esattamente l’opposto: un movimento verso o la consegna di qualcosa. Per questo motivo è comune che i parlanti usino da anche con questo verbo, quindi portare via qualcosa da qualcuno. Direi, quindi, che a è più corretto di da, ma da è accettabile, sebbene meno regolare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”.
La domanda è questa: l’aggettivo possessivo suoi potrebbe riferirsi allo studente o al maestro in questa frase? Quello che dovrebbe dirimere il dubbio è il verbo ripercorrere, che significa ‘percorrere di nuovo’?

 

RISPOSTA:

​L’aggettivo possessivo suo rimanda al soggetto della proposizione, che nel caso di i suoi passi è un suo studente (così come, a sua volta, suo nella proposizione principale una volta constrinse un suo studente rimanda all’altro personaggio in questione). In teoria, quindi, suoi passi sono quelli dello studente. Sempre in teoria, i passi dell’altro soggetto dovrebbero essere definiti i passi di lui: “Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i passi di lui attraverso l’immensa stazione”. 
In realtà, la situazione è più complicata, perché suo è comunemente riferito anche a soggetti di proposizioni sovraordinate, non solamente completive, come è in questo caso. Ugualmente ambigua, per esempio, sarebbe la frase: “Lo chiamò per parlare dei suoi genitori” (i genitori del chiamante o del chiamato?). Il complemento di specificazione con il pronome personale in sostituzione dell’aggettivo possessivo, inoltre, è sentito come antiquato e burocratico (fa pensare a formule come la di lui consorte).
Responsabile, ma in minor misura, dell’ambiguità del riferimento è l’indecidibilità della responsabilità dell’azione (non è possibile, cioè, inferire dal cotesto se i suoi passi siano quelli dello studente o quelli dell’altro personaggio). Il verbo ripercorrere non è dirimente: anche se lo sostituissimo con percorrere l’ambiguità rimarrebbe, perché essa è provocata soprattutto dall’aggettivo possessivo. Non ambigua, per esempio, sarebbe la frase “Una volta costrinse alcuni suoi studenti a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”, perché non potremmo riferire il secondo suoi agli studenti
Per risolvere il problema si può soltanto formulare la frase diversamente, oppure fornire, prima o dopo, informazioni dirimenti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sottopongo i seguenti periodi (forma originaria e forme alternative) per analizzare le varie posizioni assunte dalla virgola, nonché, talvolta, l’omissione di quest’ultima.
1a: Suo marito era simile a lei, orgoglioso quando si manifestavano delle critiche alle sue radici.
1b: Suo marito era simile a lei, orgoglioso, quando si manifestavano delle critiche alle sue radici.

2a: Le voci penetravano nella stanza, e nel bosco vicino si moltiplicavano gli ululati del vento.
2b: Le voci penetravano nella stanza e nel bosco vicino si moltiplicavano gli ululati del vento.
2c: Le voci penetravano nella stanza e, nel bosco vicino, si moltiplicavano gli ululati del vento.
2d: Le voci penetravano nella stanza, e, nel bosco vicino, si moltiplicavano gli ululati del vento.

3a: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante, e anche invitante.
3b: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante e, anche, invitante.
3c: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante e anche invitante.

4a: L’obiettivo era ottenere un plauso, un consenso che ne confermasse il placet degli addetti ai lavori.
4b: L’obiettivo era ottenere un plauso, un consenso, che ne confermasse il placet degli addetti ai lavori.

5a: Doveva essere pieno di debiti, o forse di sensi di colpa.
5b: Doveva essere pieno di debiti o forse di sensi di colpa.
5c: Doveva essere pieno di debiti, o, forse, di sensi di colpa.
5d: Doveva essere pieno di debiti o, forse, di sensi di colpa.

 

RISPOSTA:

​La virgola separa e rende autonome due unità informative. Di volta in volta, questa separazione produce sfumature semantiche diverse, evidenti oppure appena percepibili. Nella frase 1a il marito è descritto come orgoglioso nel caso in cui ricevesse critiche, al pari della moglie; nella 1b, invece, si dice che quando riceveva critiche era simile alla moglie, ovvero orgoglioso. La differenza, è evidente, è minima e riguarda il peso informativo dell’aggettivo orgoglioso: in 1b, a causa della seconda virgola, risulta ridotto a una chiosa esplicativa (come se fosse introdotto da ovvero), mentre risalta maggiormente il dato della somiglianza con la moglie.
Anche nella 2a la virgola prima della e separa due unità informative e rende le due descrizioni autonome (con varie possibili ragioni espressive). In 2c e 2d il luogo del bosco è rappresentato come di secondaria importanza rispetto all’informazione principale, la descrizione degli ululati.
La stessa analisi vale per la 3 e la 5.
La 4 presenta il tipico confronto tra la proposizione relativa limitativa (4a) e quella esplicativa (4b) Su questo argomento ci sono diverse risposte nell’archivio di DICO (da FAQ  Usi testuali della virgola), a cui la rimando anche per consultare altri casi commentati di uso della virgola.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

È possibile scrivere molto superiore?

 

RISPOSTA:

Certo: è equivalente a molto più alto. In questo caso l’avverbio molto serve a rafforzare la locuzione aggettivale comparativa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “bisogna lavorare su questo fatto”, su questo fatto è un complemento di stato figurato?

 

RISPOSTA:

Immagino intenda stato in luogo figurato, ma comunque non credo che sia questo il complemento nel quale rientra questo sintagma. L’espressione lavorare su significa ‘impegnarsi per ottenere un risultato’, come in: “L’amministratore del Milan ha lavorato per mesi sull’acquisto del giocatore”. La possiamo avvicinare a lavorare a un progetto, quindi a un complemento di fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

“Dott.ssa, potrebbe indicarmi dove posso trovare il libro del Prof.? Sembra in molte librerie esaurito o non disponibile”.
La domanda è questa: è corretto mettere il punto interrogativo e ritenere la frase indipendente, oppure dipende da come formulo la frase e abbiamo anche una subordinata e quindi non inserisco il punto interrogativo?

 

RISPOSTA:

​Il punto interrogativo va inserito alla fine della domanda, ovvero proprio dove l’ha inserito lei. Quella che segue è una frase affermativa che serve a giustificare la domanda precedente. Se non mettesse il punto interrogativo la frase sarebbe tutta affermativa, ma la forma stessa e il senso della prima parte rendono impossibile una interpretazione che non sia interrogativa.
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Un’amica mi ha fatto venire un dubbio: il caso è diverso dal classico bell’e buono in quanto ci siamo chiesti quale sia la forma corretta tra un bel e ricco libro (forma da lei sostenuta) e un bello e ricco libro (forma da me sostenuta).

 

RISPOSTA:

​Il vincitore della sfida è lei (ma si tratta di una mezza vittoria): bello e bel si comportano come lo e il se sono seguiti direttamente dal nome a cui si riferiscono; quindi bello sguardo (come lo sguardo), bello zoccolobello arcobaleno (o meglio bell’arcobaleno), ma bel canto (come il canto), bel discorso ecc. Nella sua espressione, bello non è seguito direttamente dal nome, ma l’elisione (bell’) è comunque preferita davanti a vocale (è quel che succede in bell’e buono), mentre l’apocope (bel) non è giustificata. Ubello e ricco libro, quindi, è possibile, ma oggi è sfavorita rispetto a bell’e ricco. Se vogliamo mantenere bello nella sua forma piena, dobbiamo farlo uscire dall’orbita del nome, posponendolo a questo: un libro bello e ricco
La forma apocopata bel è soggetta a restrizioni ancora maggiori se è seguita da un elemento diverso dal nome (perché si perde il rispecchiamento con l’articolo). Un caso come un bel ma stupido ragazzo è da scartare in favore di un ragazzo bello ma stupido (meno felice un bello ma stupido ragazzo): anche qui l’aggettivo posposto al nome a cui si riferisce si libera dal paragone con l’articolo e non è più soggetto all’apocope.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si può dire: “Ha detto che non veniva”?

 

RISPOSTA:

L’imperfetto può essere usato al posto del condizionale passato, sia in questo caso, cioè quando ha la funzione di futuro nel passato (“Ha detto che non veniva” = “Ha detto che non sarebbe venuto / venuta”), sia quando esprime la conseguenza in un periodo ipotetico: “Se l’avessi saputo non venivo” = “Se l’avessi saputo non sarei venuto”. 
In entrambi i casi si tratta di un uso diffuso ma un po’ trascurato, da riservare al parlato e allo scritto informale. Negli altri casi, è preferibile ricorrere al condizionale passato.
Molte altre risposte sull’uso modale (cioè in sostituzione del modo condizionale) dell’imperfetto si possono leggere nell’archvio di DICO, inserendo nella maschera di ricerca la parola imperfetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si può dire una frase così: “Essendoci piaciuto tanto il libro, abbiamo deciso di comprare tutti i libri di questo autore”?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il gerundio può avere un soggetto (nella sua frase il libro) diverso dal soggetto della proposizione reggente (noi) se è esplicitato. A volte non è necessario esplicitare il soggetto del gerundio, anche se è diverso da quello della proposizione reggente, se si capisce facilmente; ad esempio: “Essendoci piaciuto tanto (sottinteso l’autore), abbiamo deciso di comprare tutti i libri di questo autore”.
Fabio Ruggiano
 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È possibile che tra il complemento di qualità e il complemento predicativo dell’oggetto ci sia poca differenza? Cioè è solo questione di verbo copulativo?
Ad esempio, in “i miei amici mi chiamano ‘testa dura’”, testa dura viene considerato complemento predicativo dell’oggetto. Ma non potrebbe essere anche complemento di qualità?

 

RISPOSTA:

Effettivamente lo stesso sintagma che ha funzione di complemento di qualità può divenire complemento predicativo (o viceversa) a seconda della costruzione della frase. 
Per esempio, in “Lucia sembra una ragazza di grande intelligenza”, di grande intelligenza è un complemento di qualità, ma in “quella ragazza sembra di grande intelligenza”, lo stesso sintagma ha la funzione di complemento predicativo. 
Si noterà che lo stesso avviene per gli aggettivi, che assumono una funzione attributiva o predicativa a seconda del sintagma in cui sono inseriti, nominale o verbale: “Lucia sembra una ragazza intelligente” (intelligente = aggettivo attributivo, o attributo); “quella ragazza sembra intelligente” (intelligente = aggettivo predicativo, o complemento predicativo).
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi sono imbattuta nell’analisi dei complementi predicativi. Tra questi sono compresi oltre ai verbi sembrarediventare ecc., anche gli appellativi, estimativi, elettivi e effettivi, dunque:

Rossi: soggetto
è stato eletto: predicato con verbo copulativo (non predicato verbale)
preside: complemento predicativo del soggetto.

Vi chiedo, invece, perché nell’analisi di frase con il predicativo dell’oggetto il verbo viene analizzato in molte grammatiche come predicato verbale e non come verbo copulativo?

Gli alunni: soggetto
hanno giudicato: predicato verbale
difficile: complemento predicativo
il compito: complemento oggetto

 

RISPOSTA:

​La differenza potrebbe stare nello scarto tra i verbi che possono avere il complemento oggetto (gli appellativi, gli elettivi, gli estimativi) e quelli che non possono averlo (gli effettivi). Il verbo, cioè, viene interpretato come predicativo (quindi come predicato verbale) quando ha un complemento oggetto, come  in “Gli alunni hanno giudicato difficile il compito”.
In realtà, questa distinzione è ingiustificata: in presenza di un complemento predicativo, tutti i verbi copulativi vanno considerati alla stessa stregua. L’unico caso in cui questi verbi possono essere considerati predicati verbali è quello in cui non hanno bisogno del complemento predicativo, in frasi come “Luca è stato eletto alla fine”, oppure “L’ho già chiamato, ma ancora non si vede”, o ancora “Luca sostiene di aver visto un UFO”. Questa possibilità è esclusa per molti verbi effettivi: *”Luca sembra”, *”Maria è diventata” *”La verità rende” (ma non per “È nato Luca”, “Dopo la curva apparirà un cartello” e simili).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Volevo chiedere se sbaglio omettendo la congiunzione se nel testo della mia poesia che vi riporto qui sotto, oppure se è indifferente:

…è ricamata col verde, e scintilla
di quelle che all’occhio sembrano gemme
(se) non fosse per la sinfonia di profumi
che orchestrano l’arancio e il limone…

 

RISPOSTA:

L’omissione è consentita: il congiuntivo preceduto da non veicola sufficientemente il senso dell’eccezione (se non o, qui, se non fosse = ‘tranne che’). L’omissione della congiunzione conferisce al verso una vaghezza che è stata apprezzata nella lirica tradizionale e oggi è un tratto di arcaicità o aulicità: 

“E tanto li agradisce il vostro regno / che mai da voi partire non dé’ ello, / non [‘tranne che, a meno che’] fosse da la morte a voi furato” (Bonagiunta Orbicciani, S’eo sono innamorato e duro pene, XIII sec.).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Posso scrivere “I diversi membri del gruppo hanno ognuno la sua parte specifica”? Oppure dovrei scrivere hanno ognuno la loro parte specifica?
Cioè ognuno può essere anche accordato al singolare con sua?

 

RISPOSTA:

Ognuno è singolare, quindi richiede l’accordo al singolare. La forma corretta, pertanto, è ognuno la sua parteOgnuno la loro parte, che è scorretto, può essere descritto come un caso di concordanza a senso, cioè non con la parola effettivamente usata (ognuno), ma con il referente “logico” (i diversi membri).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Vi pongo alcuni dubbi e spero che possiate chiarirmeli.
1. Dire a loro oppure dire loro?

2. “Cara Lucia, come stai? E il piccolo Luca?”
Riguardo a questa frase chiedo se è corretta così com’è scritta.

3. “Scrivere a te che non conosco / ti conosco è bello”.

4. “Mi chiedo perché a ogni saggio qualcuno si rompe / rompa un braccio”.

5. “Una volta che i miei genitori si arrabbiano, solo dopo due giorni gli passa…”.
In questa frase è corretto l’uso di gli è corretto?

6. “A volte di domenica vado agli scout”.
Si può dire agli scout?

7 . “Oh cara / Oh, cara quando mi hai concesso quel ballo ero emozionato”.

 

RISPOSTA:

1. Vanno bene entrambe le soluzioni (la stessa possibilità si ha con cui / a cui).
2. La frase va benissimo in un contesto anche scritto di media formalità. Più formale, perché più precisa, è l’esplicitazione del secondo verbo, visto che cambia la persona.
3. La variante corretta è “Scrivere a te che non conosco è bello”. Il che, infatti, può riferirsi a tutte le persone, anche se è più comune che rimandi a un antecedente alla terza persona singolare o plurale. Da evitare la ripetizione del pronome, che non avrebbe alcuna funzione informativa, ma servirebbe solamente a esplicitare un riferimento già sufficientemente esplicito.
4. Vanno bene entrambe le varianti; quella con il congiuntivo è più formale.
5. Gli per (a) loro è ormai accettato in tutti i registri.
6. L’espressione sintetica è efficace e trasparente, ma adatta a un contesto colloquiale, perché non perfettamente formata secondo le regole standard. In italiano, la preposizione di moto a luogo quando il luogo è rappresentato da una persona è da, non a (per esempio: “Ogni domenica vado dai miei nonni”, non *”ai miei nonni”). Vado dagli scout, però, sarebbe inteso come ‘vado a trovare gli scout’, mentre qui si intende che si va a fare le attività degli scout. Da qui la soluzione abborracciata vado agli scout. Per risolvere la questione in linea con la lingua standard si dovrebbe sostituire scout con un luogo, per esempio: vado alla sede degli scout, oppure con un’azione: vado a partecipare alle attività degli scout, o simili. In questo modo, l’espressione si allunga e diviene faticosa, per cui è ovvio, e legittimo, che parlando tra amici si preferisca la variante sintetica.
7. Vanno bene entrambe le varianti. Obbligatoria, invece, la virgola dopo l’allocuzione (ovvero il complemento vocativo): “Oh cara, quando mi hai…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire “a me mi piace”?

 

RISPOSTA:

​In contesti formali, soprattutto scritti, è da evitare, perché pleonastico (lo stesso pronome è ripetuto, sebbene in forma diversa, due volte). Nella lingua d’uso comune, però, specie nel parlato, il costrutto è molto diffuso e ampiamente accettato, tanto che sarebbe eccessivo sostenere che non si possa dire. 
La ragione del successo di questa costruzione, nota come dislocazione a sinistra, è che chiarisce bene quale sia l’argomento di cui si parla (tecnicamente il tema) e quale sia l’informazione fornita su quell’argomento (tecnicamente il rema). In questo caso il tema è a me, il rema mi piace. Per fare un altro esempio analogo, in una frase come “A te non ti credo più” (nella quale si nota la ripetizione del pronome, prima nella forma a te, poi nella forma atona ti), il tema è a te, il rema tutto il resto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Porto alla vostra attenzione alcune frasi negative, o che includono congiunzioni ad esse riconducibili, su cui vertono i miei dubbi.
 

1. Non si vedeva niente intorno: né ombrelloni e lettini, né bagnanti, né barche o pattini.

La frase è corretta? Si possono collegare con il né elementi che al loro interno abbiano congiunzioni – come eo – e che potrebbero essere intesi come unità inscindibili, oppure sarebbe meglio scegliere altre forme?
 

2. All’uomo non era permesso di bere alcolici, anche / neppure a tavola.

Meglio anche o neppure?
 

3. Il fenomeno mediatico è privo di (non ha prodotto) ricadute positive, neppure / anche minime, per l’indotto.

Meglio anche o neppure?
 

4. Serve niente?

La frase è equivalente a “serve qualcosa”?

 

RISPOSTA:

La prima frase è ben costruita: le congiunzioni e e o operano in un àmbito ristretto rispetto ai membri dell’elenco, uniti da . La seconda frase ammette entrambe le soluzioni: neppure (o neanche) rafforza la negazione, soluzione spesso preferita in italiano, anche se non obbligatoria. Lo stesso vale per la terza frase. 
La quarta frase è molto interessante, perché rivela un comportamento specifico della proposizione interrogativa diretta. In questa proposizione, la negazione iniziale può avere valore retorico, interpretato convenzionalmente come richiesta di una risposta positiva: “Non vuoi venire alla festa?” (sottinteso: ‘certo che vuoi’). La frase “Non serve niente?”, pertanto, potrebbe essere interpretata come un invito a rispondere positivamente; l’eliminazione della negazione iniziale previene questa interpretazione. In questo modo, si noti, si viene a creare una frase agrammaticale; ciò si vede se la confrontiamo, per esempio, con la sua prima frase: “Non si vedeva niente intorno”. Se togliessimo la negazione del verbo (come avviene in “Serve niente?”), questa frase diventerebbe *”Si vedeva niente intorno”, che è inaccettabile. L’impossibilità di “Serve niente?” non preoccupa i parlanti, che interpretano correttamente la frase come ‘serve qualcosa?’, sebbene letteralmente significhi il contrario. È, infatti, come se interpretassimo la frase *”Si vedeva niente intorno” vista sopra come ‘si vedeva qualcosa intorno’. 
Che questa costruzione, certamente propria di un registro colloquiale, valga solamente nelle domande è dimostrato, oltre che dal confronto fatto, anche dalla risposta negativa normale alla domanda “Serve niente?”, che non è *”No, serve niente” (a meno che non si voglia scherzare), bensì “No, non serve niente”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In italiano qual è la forma corretta: “Ci sarò anche io e Laura?” oppure “Ci saremo anche io e Laura?
 

 

RISPOSTA:

l soggetto della frase è io e Laura, quindi noi; il verbo va, pertanto, coniugato alla prima persona plurale: “Ci saremo anche io e Laura”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla concordanza degli aggettivi. Si dice maglie e scarpe rosse o rossi se intendo entrambe? Sono due soggetti femminili e non so come accordarli se voglio considerarli entrambi. 
Si dice i minerali e sostanze ferrosi intendendoli entrambi? O ancora gli applausi e le risate furono uditi o udite?
Se dico tutte le case e i condomini, infine, quel tutte è riferito ad entrambi i nomi?

 

RISPOSTA:

Nel caso di due o più nomi tutti femminili l’accordo dell’aggettivo sarà plurale femminile, quindi maglie e scarpe rosse. Nel caso di due o più nomi tra i quali almeno uno sia maschile l’accordo sarà plurale maschile, quindi gli applausi e le risate furono uditi. Nell’espressione i minerali e sostanze ferrosi è necessario inserire l’articolo davanti a sostanze (ogni nome dovrebbe avere il suo articolo, soprattutto se è di genere o numero diversi da quelli dell’articolo inserito): i minerali e le sostanze ferrosi.
In astratto la regola dell’accordo vale anche quando l’aggettivo precede i nomi con cui deve concordare. In questo caso, però, se il primo nome è femminile risulta molto sgradevole mettere l’aggettivo al maschile (tutti le case e i condomini), come vuole la regola. Si può ovviare facilmente al problema ripetendo l’aggettivo: tutte le case e tutti i condomini. In alternativa, si può cambiare l’ordine dei nomi: tutti i condomini e le case.
Si noti che nell’espressione tutti i condomini e le case l’aggettivo può, ma non deve necessariamente, riferirsi a entrambi i sintagmi nominali: rimane, cioè, la possibilità che tutti sia riferito soltanto a condomini. Se fosse davvero necessario specificare oltre ogni dubbio che tutti va riferito a condomini e a case l’unica soluzione è ripetere l’aggettivo: tutti i condomini e tutte le case. Se fosse, al contrario, necessario specificare che tutti va riferito soltanto a condomini si potrebbe optare per una forma come tutti i condomini, nonché le case, che separa i due sintagmi nominali. Si tratta, comunque, di una sottolineatura un po’ pignola, perché l’ambiguità risultante da tutti i condomini e le case non pregiudica, nella maggior parte dei contesti, la comprensione del significato della frase.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Il periodo successivo può dirsi lineare?

Certo, i ricordi brutti sono molti come lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle, partecipare a una missione del genere, ma i ricordi belli sono indelebili, come sentirsi dire “Congratulazioni lei è ufficialmente laureata”. Ma tu sei giovane e questa è solo una piccola parte della tua vita.

In particolare, la congiunzione ma dopo il punto fermo non mi sembra adatta.
 

 

RISPOSTA:

La seconda parte va bene, compreso il ma all’inizio del periodo, con funzione avversativa rispetto a tutto il periodo precedente, non solamente rispetto a un elemento. Nella prima parte l’elenco è incongruente (al netto di effetti retorici ricercati), perché una missione dovrebbe contenere, quindi precedere, lanciare una bomba e sentirsi un amico morire, non essere messo sullo stesso piano. Propongo la seguente riformulazione, con la rivisitazione anche della punteggiatura:

​Certo, i ricordi brutti sono molti, come partecipare a una missione del genere, lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle; ma…
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Coerenza
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QUESITO:

In una frase come restare a / al fianco di un nazista è meglio usare a oppure al prima della parola fianco?

 

RISPOSTA:

Al fianco di e a fianco di sono usate oggi in modo intercambiabile, un po’ come al livello di e a livello di. La perdita dell’articolo è una conseguenza della solidarizzazione a cui è soggetta l’espressione, cioè del fatto che i parlanti la percepiscano sempre più come un’unica parola, perché è molto frequente nell’uso. A volte, questo fenomeno produce una vera e propria univerbazione, come è successo a soprattutto (sopra + tutto) e come sta succedendo a avvolte (a + volte), che, però, è ancora da considerare sbagliata. 
Al fianco è preferito quando è usato come locuzione avverbiale, in casi come questo: “Lei si sforzò di leggere la scena, e con trepidazione vide sua madre sorridere a qualcuno che le stava al fianco” (Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, 2004). È, inoltre, l’unica forma possibile quando ha significato letterale: “Ecco che mi solleva la maglietta, e comincia una tortuosa marcia di avvicinamento fatta di baci e di succhiotti, dal petto fino al fianco” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale tra le due forme è corretta?
Sapevamo che vi sareste presi cura di lui.
Sapevamo che vi sareste preso cura di lui.

 

RISPOSTA:

​La forma corretta è la prima (se il soggetto è maschile). Quando l’ausiliare è essere, il participio passato concorda con il soggetto; se il soggetto è femminile, quindi, avremo “Sapevamo che vi sareste prese cura di lui”. Maggiori informazioni sull’accordo del participio passato sono nella risposta Tutti gli accordi del participio passato dell’archvio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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QUESITO:

Nel codice deontologico degli assistenti sociali si legge: “l’assistente sociale non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti”. Vorrei sapere cosa si intende con il termine giudizi di valore e se potete cortesemente citare alcuni esempi. 

 

RISPOSTA:

​I giudizi di valore sono pronunciamenti circa la bontà, giustezza, validità di un certo comportamento o modo di essere. Ogni volta che qualifichiamo direttamente o indirettamente uno stato di cose come giusto o ingiustocorretto o scorrettoaccettabile o inaccettabile e simili, costruiamo giudizi di valore, che classificano la realtà osservata secondo la nostra personale ideologia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da quello che so, sproloquiare ha come sinonimo ‘parlare a vanvera o a sproposito, straparlare’. Volevo sapere se ‘parlare in maniera spropositata’ rientra nello sproloquiare.
Da una ricerca che ho fatto sul dizionario Treccani, spropositato significa ‘pieno di spropositi, di gravi errori: un tema s., anche se non privo di idee; un discorso s. e confuso; per cui dire che una persona che fa un discorso spropositato sproloquia è corretto? C’è sinonimia tra sproloquiare parlare in maniera spropositata (intendendo ‘fare discorso pieno di spropositi’)?

 

RISPOSTA:

Uno sproloquio è una introduzione (in latino proloquium) che degenera (come indica il prefisso s-) in un discorso. Chi sproloquia, quindi, fa un discorso troppo lungo rispetto al dovuto e, nonostante questo, non arriva a nessuna conclusione, perché il suo discorso non è altro che l’introduzione di un altro discorso. Nella parola sproloquio, come si vede, è contenuta sia l’idea dell’eccesso verbale, sia quella della inanità, che, in effetti, spesso accompagna l’eccesso. Non è contenuta, invece, l’idea della scorrettezza grammaticale. 
Di conseguenza, uno sproloquio è per sua natura spropositato, cioè ‘fuori da ciò che è proposto’ (suffisso s- + il latino propositum ‘proposto’), nel senso di ‘diverso da quello che si propone di essere’. Si badi che spropositato si riferisce sempre alla quantità, non alla qualità, quindi non allude a possibili errori, sebbene sproposito, invece, indichi tipicamente l’errore grave. C’è, quindi, uno scarto semantico tra sproposito ‘errore grave’ e spropositato ‘eccessivamente grande o lungo’. Se, quindi, uno sproloquio è certamente un discorso spropositato, non è altrettanto certamente (ma non si può escludere che lo sia) un discorso pieno di spropositi.
Si tratta di una distinzione sottile: spesso, infatti, si considera l’eccesso verbale come automaticamente comprensivo di una buona dose di errori. Non a caso, il verbo straparlare, che si riferisce a persone che non sono pienamente in possesso delle proprie capacità mentali, contiene entrambe le idee presenti in sproloquiare, quella dell’eccesso e quella dell’inutilità, ma allude anche alla presenza di errori nel discorso. A straparlare si avvicina l’espressione (parlare) a vanvera ‘senza riflettere, a caso’, che sottolinea, però, più che la perdita della ragione da parte di una persona solitamente savia, lo sforzo di parlare a proposito da parte di una persona che è momentaneamente o congenitamente incapace di farlo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Verbo
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QUESITO:

Sarò molto grato se Loro potranno aiutarmi e spiegare quando si usano agg. poss. SuaVostraLoro in formule di cortesia e di cerimoniale.
Nel Vocabolario online (http://www.treccani.it/vocabolario/maesta) ho trovato la seguente spiegazione:
 

Maestà… 2. a. Titolo e appellativo spettante in origine all’imperatore, in seguito esteso anche ai re: Sua M. reale e imperiale, o più comunem. Sua M. il Re Imperatore, o meglio la M. del Re Imperatore, espressioni con le quali si indica un re che è anche imperatore; in usi assol.: Sua M., il re o la regina; le Loro Maestà, il re e la regina; nel discorso diretto: Vostra M.le Vostre Maestà

Cioè, se ho capito bene, quando si rivolge direttamente a un Re o Imperatore, si dice: Vostra Maestà (con valore di 2a persona sing.), le Vostre Maestà (con valore di 2a persona pl.). Per es.: “Il sottoscritto chiede alla Vostra Maestà / alle Vostre Maestà”. Quando parliamo di un Re o Imperatore, invece, si dice: Sua Maestà (con valore di 3a persona sing.), le Loro Maestà (con valore di 3a persona pl.). Per es.: “Vorrei parlare con Sua Maestà”; “le Loro Maestà sono occupate e non possono riceverLa”.
Lo stesso principio nell’articolo (http://www.treccani.it/vocabolario/signoria):
 

Signoria… 3. Titolo di grande onore e rispetto attribuito nell’ultimo medioevo ad alti dignitarî, funzionarî e magistrati e a signori di stati assolutistici, esteso poi dal primo Cinquecento, anche per influsso spagnolo, a persone di media condizione: Vostra SignoriaSua S., e, al plur., le Vostrele Loro Signorie

Però nello Zingarelli 2004, p. 1017 trovo:
 

Loro B agg. poss. di 3a pers. pl. … preposto o postposto a un sostantivo si usa in formule di cortesia e di cerimoniale (con valore di seconda persona pl.): le signorie lorole Loro maestàle Loro altezze!

Questo significa che le Loro maestà si può usare come forma equivalente a le Vostre Maestà quando si rivolge direttamente al Re e alla Regina? 
Vorrei anche sapere:
– se il principio spiegato nel Vocabolario Treccani è valido anche per: AltezzaEccellenzaGraziaSantitàSignoriaEminenza?
– Se questi titoli / appellativi si possono usare quando ci si rivolge a una donna (per es. una principessa, una ambasciatrice, una donna autorevole.

 

RISPOSTA:

I pronomi di cortesia e gli aggettivi possessivi che li accompagnano, Lei / Loro (Suo e Loro) e Voi (Vostro), si distinguono soprattutto per il grado di formalità che veicolano: il Voi (quindi l’aggettivo Vostro) è sentito come massimamente rispettoso, mentre il Lei / Loro (con gli aggettivi Suo e Loro) è leggermente meno formale. L’unica distinzione funzionale tra le due persone riguarda le allocuzioni: Vostra Maestà / Signoria / Grazia difficilmente può essere sostituito da Sua Maestà o simili, che suona al limite dell’accettabilità. Fuori da questo contesto, Voi e Lei (e i rispettivi aggettivi possessivi) sono intercambiabili; si può dire, per esempio: “Vostra Signoria, la prego di concedermi il suo perdono”, oppure “Vostra Signoria, vi prego di concedermi il vostro perdono”. Nel caso ci si rivolga a un re, sarebbe più indicata questa seconda soluzione, più ossequiosa.
Si noti che, se è comune scrivere con lettera maiuscola i pronomi di cortesia, meno comune è scrivere con maiuscola anche gli aggettivi possessivi. È, inoltre, possibile sostituire Lei con Ella (quando è soggetto), ma la rarità di questo pronome nell’italiano contemporaneo rischia di caratterizzare il discorso come troppo cerimonioso. 
La possibilità di passare al Lei dopo una allocuzione con il Voi è ben attestata anche nella tradizione; si legga questa lettera di Giacomo Leopardi del 1823:
 

Signoria Illustrissima Padrona Colendissima. Trovandomi sul punto di partire per Recanati mia patria, e non avendo avuto la sorte di poter inchinare Vostra S. Ill. [ovvero Vostra Signoria Illustrissima] nelle due volte che mi sono recato presso di Lei a questo effetto, mi fo coraggio di servirmi della presente per chiedere i di Lei comandi nel mio imminente ritorno alla mia patria, dove sarò disposto e pronto agli ordini di S. Em. [ovvero Sua Eminenza] il Signor Cardinale Segretario di Stato, e attenderò con fiducia gli effetti della sua alta beneficenza. Avrei desiderato e voluto personalmente fare omaggio all’Eminenza Sua, offrirmi umilmente ai cenni della Medesima, e profondamente ringraziarla delle benigne disposizioni che si è degnata di mostrare in favor mio, ma straniero come io sono alla Corte, timido per natura e per abitudine, e persuaso che ciascuno istante rapito alle vaste occupazioni di sua Eminenza sia rapito allo Stato, e al bene de’ sudditi Pontificii, ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta di supplire alla mia insufficienza, rappresentando questi miei umili sentimenti all’Eminenza Sua, ed invocando la benignità della Medesima sulla mia rispettosa ritenutezza. 

Come si vede, Leopardi passa dal Vostra al Lei rivolgendosi alla stessa persona, e in ogni caso usa il verbo alla terza persona singolare quando il soggetto è questa persona (ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta). Quando si riferisce a un terzo personaggio illustre, usa ovviamente il Lei e l’aggettivo sua (sua Eminenza), perché non si tratta di una allocuzione, ma di un riferimento.
Per quanto riguarda il genere, i pronomi e gli aggettivi possessivi di cortesia sono ambigenere: potremmo dire che quando li usiamo ci rivolgiamo e ci riferiamo non alle persone ma ai ruoli politici che ricoprono, quindi non facciamo distinzione tra uomini e donne.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo: “La sua occupazione doveva essere cucinare le castagne che trovava nel bosco”. 
L’impiego dell’imperfetto dell’indicativo credo che sia corretto, in quanto veicola la scioltezza del periodo; per curiosità intellettuale e pignoleria analitica, vi domando se le seguenti alternative siano altrettanto valide:
a) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avesse trovato (aggiunge una sfumatura ipotetica).
b) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avrebbe trovato (la subordinata è posteriore alla principale e si costruisce quindi con il condizionale composto). 
c) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che trovasse (la subordinata è contemporanea alla principale).
Penso che il predicato della principale, qualora si volesse eliminare l’incertezza dell’evento, potrebbe essere sostituito da sarebbe stata o: “la sua occupazione sarebbe stata cucinare le castagne che avesse trovato / avrebbe trovato / trovasse”.
Concludo chiedendo se, in generale, l’imperfetto dell’indicativo, come anticipato poc’anzi, sia la forma “sciatta” del più ricercato (ma talvolta pesante) condizionale passato, in particolare quando si ha a che fare con il verbo potere.
d) La sua paura poteva giocargli un brutto tiro,
benché corretta, non si potrebbe sostituire con 
e) la sua paura avrebbe potuto giocargli un brutto tiro 
senza stravolgere la sintassi della frase (e quindi i rapporti temporali tra reggente e subordinata)?

 

RISPOSTA:

​L’indicativo imperfetto nella frase iniziale può essere interpretato in due modi: come fa lei, oppure con valore epistemico: ‘La sua occupazione era sicuramente cucinare le castagne…”. La parafrasi da lei proposta, con il condizionale passato, annulla questa seconda possibilità e seleziona il valore di futuro nel passato. Ovviamente questa scelta può essere fatta solamente conoscendo il contesto della frase, dal quale si evinca il vero valore dell’imperfetto.
L’imperfetto può avere i due valori appena visti, ma anche quello di ipotesi remota: se lo sapevo = ‘se lo avessi saputo’. Si tratta di valori sfruttati nell’italiano dell’uso medio, ampiamente accettati, non “sciatti” sebbene da non preferire in un contesto formale, specialmente scritto. Innanzitutto perché possono essere ambigui, perché compresenti, come in questo caso. Forse il concetto, che comunque non mi è chiaro, di scioltezza del periodo da lei evocato si riferisce a questa ambiguità?
La stessa ambiguità si trova nella frase d: poteva giocargli può significare ‘a volte gli giocava’ (si noti l’emersione del significato probabilistico del verbo potere, laddove nella prima frase vista sopra il verbo dovere assume un significato epistemico) oppure ‘avrebbe potuto giocargli’. La riscrittura e seleziona solamente quest’ultimo valore.
Le alternative a, b, c per la subordinata relativa modulano il grado di certezza dell’emittente sull’avvenimento del trovare le castagne: il condizionale passato lo rappresenta come futuro rispetto al momento in cui l’occupazione è stata assegnata; i due congiuntivi lo rappresentano non tanto come futuro (che è un tratto implicito), ma come possibile (che trovasse = ‘se le trovasse’) o come improbabile (che avesse trovato = ‘se le avesse trovate’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quali forme tra le sottoindicate sono pienamente valide, ai limiti dell’accettabilità e, infine, agrammaticali. I dubbi sono sorti dopo la lettura di un articolo on line sulla cosiddetta attrazione modale.

1a) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremo.
1b) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che ottenessimo.
1c) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremmo.

2) Ci vorrebbe qualcuno che parlerebbe inglese.
(Do per scontato che tutte le altre soluzioni possibili, con relativi gradi di formalità, siano valide: parlasseparliparla).

3a) Se fossi sicuro che viene, gli parlerei a quattr’occhi.
3b) Se fossi sicuro che venga, gli parlerei a quattr’occhi.
3c) Se fossi sicuro che verrà, gli parlerei a quattr’occhi.
3d) Se fossi sicuro che verrebbe (protasi implicita), gli parlerei a quattr’occhi.
3e) Se fossi sicuro che venisse, gli parlerei a quattr’occhi.

4a) Se fossi sicuro che sia stato lui, gliene direi quattro.
4b) Se fossi sicuro che fosse stato lui, gliene direi quattro.
4c) Se fossi sicuro che è stato lui, gliene direi quattro.

5a) Se credessi che lei non mi amerebbe, smetterei di frequentarla.
5b) Se credessi che lei non mi ama, smetterei di frequentarla.
5c) Se credessi che lei non mi ami, smetterei di frequentarla.
(Anche qui do per scontato che la soluzione preferibile sia amasse).

 

RISPOSTA:

Le varianti 1 sono tutte valide. La 1b con la principale all’indicativo futuro suona un po’ forzata, perché pone come certa, all’indicativo, la circostanza dell’impossibilità di rinunciare a privilegi il cui ottenimento è possibile, non certo. Il congiuntivo ottenessimo, infatti, conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica. Molto più atteso è il condizionale potremmo. Per ragioni simili, anche la 1c con l’indicativo è improbabile, perché l’ottenimento dei privilegi è descritto come condizionato (al condizionale), come se ci fosse sottintesa una protasi al congiuntivo: “Non potremo mai rinunciare ai privilegi che otterremmo (se riuscissimo in questa impresa)”. Anche in questo caso è più logico costruire la principale con il condizionale.
La 2 è scorretta. I verbi di volontà o desiderio al condizionale richiedono, nella subordinata, il congiuntivo imperfetto; l’unica variante senz’altro corretta, pertanto, è “Ci vorrebbe qualcuno che parlasse inglese”. Accettabile, in fondo, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parli inglese”, che, però, è comunemente considerata errata. Al limite dell’accettabilità, e solamente in un contesto parlato molto informale, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parla inglese”.
Le varianti 3 sono tutte corrette (con molte riserve sulla 3e, su cui mi soffermerò a parte), anche se non ugualmente accettabili. Quella con il congiuntivo presente è la più formale, quella con l’indicativo presente la più comune. Quella con il condizionale, infine, introduce una ulteriore sfumatura; sottintende, infatti, una protasi (come da lei suggerito): “Se fossi sicuro che verrebbe (se glielo chiedessi), gli parlerei a quattr’occhi”. 
La 3e è, in teoria, scorretta perché contrasta con lo schema della consecutio temporum. Secondo questo, infatti, il congiuntivo imperfetto nella subordinata completiva indica la contemporaneità nel passato con la reggente, ma la reggente (se fossi sicuro) è presente e lo è anche l’apodosi del periodo ipotetico, che è la proposizione principale (gli parlerei a quattr’occhi). Attenzione: il congiuntivo imperfetto della reggente è dovuto alle esigenze del periodo ipotetico, non al fatto che lo stato dell’essere sicuro sia passato; è chiaro, infatti, che tale stato sia presente (= ‘se fossi sicuro adesso’). Questa frase è impossibile solamente in teoria perché, in realtà, esistono, e sono piuttosto comuni, frasi come questa: “Se sapessi che fosse l’ultima volta che ti vedo uscire dalla porta, ti abbraccerei e darei un bacio e poi ti richiamerei per dartene un altro” (trovata attraverso una ricerca on line). Perché i parlanti costruiscono frasi come questa? Per due ragioni concorrenti: perché interpretano l’imperfetto della reggente come passato, quindi usano nella subordinata il congiuntivo imperfetto per instaurare la contemporaneità nel passato (mentre, come abbiamo detto, il congiuntivo imperfetto della reggente esprime, in questo caso, un evento o uno stato presente); perché il tempo della subordinata è attratto da quello della reggente: nel costruire questa frase, cioè, il parlante sovrappone la reggente alla subordinata, perché tende a semplificare il costrutto reggente epistemica ipotetica + subordinata completiva in reggente ipotetica. In questo modo, se fossi sicuro che venga (o se sapessi che sia o simili) si trasforma in se venisse (o se fosse o simili), ma le due costruzioni non si possono escludere a vicenda; si fondono, bensì, insieme, creando se fossi sicuro che venisse
Questa variante, sebbene possibile (e attestata in letteratura, ma lontano nel tempo: “Queste non gle le dò più, se credessi, che mi accoppasse di bastonate”, Carlo Goldoni, Le donne curiose), è frutto di una confusione e va evitata.
Sottolineo, a margine, che il senso generale della frase è oscuro: descrive, infatti, la volontà di parlare a qualcuno solamente nel caso in cui si sia sicuri che questo qualcuno sia presente. Una situazione realistica, invece, sarebbe quella in cui si voglia parlare a qualcuno solamente nel caso in cui questi sia presente (non nel caso in cui si sia sicuri che questi sia presente).
Tra le varianti 4, la 4a e la 4c sono corrette (l’indicativo è meno formale del congiuntivo). La 4b è improbabile, ma possibile se si sottintende un evento a metà strada tra il momento dell’azione compiuta da lui e il momento dell’enunciazione: “Se fossi sicuro che fosse stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”. Anche in questo caso, comunque, sarebbe possibile usare il congiuntivo passato, neutralizzando lo scarto temporale tra i due eventi passati: “Se fossi sicuro che sia stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”.
La frase 5 è identica nella struttura alla 3; la soluzione che lei giudica preferibile, pertanto, è proprio quella più decisamente da evitare.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si può ritenere c’è una pseudoproposizione principale?

 

RISPOSTA:

Non si tratta di una “pseudoprincipale” (in linguistica non esistono pseudoprincipali, ma solamente pseudorelative), ma di un predicato verbale, che può anche coincidere con una proposizione. Per esempio, in una frase come “C’è da dire che è simpatico” c’è rappresenta, da solo, la proposizione principale; in “C’è una persona che ti aspetta” la proposizione principale è c’è una persona
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Ho seri dubbi, per non dire quasi un incubo, sulla punteggiatura. Come bisogna puntare la seguente frase?
“Hanno chiesto un intervento tempestivo da parte delle famiglie ed esplicitato che qualora si dovessero verificare altri episodi di “sottrazione impropria”, ricorreranno alle vie legali”.

 

RISPOSTA:

La frase può rimanere così com’è. In questa formulazione, la virgola non ha valore informativo, ma serve solamente a separare la subordinata anteposta alla reggente dalla reggente stessa. Per questo motivo, non è necessaria, sebbene sia attesa; sarebbe, inoltre, disorientante per il lettore lasciare un periodo così complesso senza punteggiatura.
Ci sono anche alcune alternative possibili: 
1. “Hanno chiesto un intervento tempestivo da parte delle famiglie, ed esplicitato che qualora si dovessero verificare altri episodi di ‘sottrazione impropria’, ricorreranno alle vie legali” (si noti che le virgolette all’interno di altre virgolette divengono singoli apici).
2. “Hanno chiesto un intervento tempestivo da parte delle famiglie ed esplicitato che, qualora si dovessero verificare altri episodi di ‘sottrazione impropria’, ricorreranno alle vie legali”.
3. “Hanno chiesto un intervento tempestivo da parte delle famiglie, ed esplicitato che, qualora si dovessero verificare altri episodi di ‘sottrazione impropria’, ricorreranno alle vie legali”.
Nella prima la virgola separa i due momenti della richiesta di intervento e dell’esplicitazione, sottolineando l’autonomia dei due eventi.
Nella seconda, la proposizione ipotetica è resa incidentale, quindi semanticamente secondaria, come a suggerire che l’eventualità sia ritenuta improbabile.
La terza unisce le prime due.
La virgola tra subordinata e reggente può essere eliminata solamente nella prima riscrittura; nelle altre due è necessaria per chiudere l’incidentale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Le seguenti frasi sono corrette ?

1. Diceva che nel matrimonio bisogna / bisognasse avere pazienza e saper perdonare; che fosse dannoso dare tutto per scontato e lasciare che la routine prendesse il sopravento. E che l’unica soluzione fosse mantenere il rapporto sempre vivo. 
2. Quello che mi fece arrabbiare di più, oltre all’ennesimo probabile tradimento, fu che ti presentasti con giacca e camicia stropicciati, cravatta fuori posto e spettinato; una offesa alla mia intelligenza e una conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, del poco rispetto che tu portavi nei miei confronti.                  3. Il proprietario dell’hotel gli chiese se, in caso di necessità, avrebbe / avesse potuto / potesse chiamarlo. 
4. In un lungo e imbarazzante colloquio, la informò delle frequenti e brevi avventure amorose della figlia e che tutti o quasi ne erano / fossero a conoscenza. 
5. La piccola non si aspettava certo un aiuto dalle sorelle, ma che almeno avessero taciuto sì, quello lo aveva sperato.
6. Quella frase di Marco, nonostante avesse capito perché l’avesse pronunciata, la riempì comunque di gioia. 
7. Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata, Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea e che lei avesse / aveva promesso di accompagnarlo.

 

RISPOSTA:

​Nella prima frase l’alternanza tra presente e imperfetto è possibile non solamente nel primo caso (bisogna / bisognasse), ma anche nei seguenti. Ovviamente, se si propende, come lei ha fatto, per l’imperfetto negli altri casi, ci si aspetta bisognasse, ma il passaggio dal presente all’imperfetto sarebbe giustificabile se si volesse ottenere una sfumatura di significato (apprezzabile solamente in uno scritto con aspirazioni letterarie). La differenza tra il presente e l’imperfetto è che il primo caratterizza il pensiero come generale, atemporale, sempre valido, il secondo lo riconduce al piano temporale al quale appartiene diceva, quindi allude al caso specifico di cui il soggetto di diceva stava parlando.
La seconda frase è corretta, tranne per l’accordo tra giacca e camicia e stropicciati (corretto stropicciate). Possibile, oltre a ce ne fosse stato bisogno, anche ce ne fosse bisogno.
Nella terza sono corrette le forme avrebbe potuto (condizionale passato per esprimere il futuro nel passato) e potesse (congiuntivo imperfetto che conferisce una sfumatura ipotetica alla proposizione interrogativa indiretta). Avesse potuto sarebbe la forma corretta solamente se il proprietario si riferisse non al futuro ma al passato (nel qual caso le altre due forme sarebbero scorrette).
Nella quarta sono corrette entrambe le forme; l’indicativo è più comune, il congiuntivo più formale.
La quinta è corretta.
Nella sesta le forme verbali sono corrette. Per maggiore chiarezza, è possibile, ma in fondo non necessario, aggiungere uno dei due soggetti pronominali nel gruppo proposizionale incidentale: nonostante lei avesse capito perché l’avesse pronunciata o nonostante avesse capito perché lui l’avesse pronunciata. Possibile, ma al costo di una certa ridondanza, anche aggiungerli entrambi: nonostante lei avesse capito perché lui l’avesse pronunciata
Per la settima vale quanto detto per la quarta. Bisogna, però, intervenire sulla punteggiatura: “Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea e che lei…”, oppure “Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea, e che lei…”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Nello scritto è possibile iniziare un periodo con “Ma perché…?”. 
È meglio scrivere “Studio la grammatica oppure studio grammatica”. 
​Infine, nei temi i numeri vanno scritti in lettere oppure è possibile anche scriverli in cifre?

 

RISPOSTA:

Ma perché è un attacco perfettamente legittimo in uno scritto dialogico (il tipo di scritto delle chat e dei social network) e in qualunque altro scritto, anche letterario (teatro, romanzo), che imiti l’andamento del parlato: “anzi, macelli e crudeltà a non finire, eppure niente più diluvi, addirittura la promessa di non estirpare la vita dalla terra. Ma perché tanta pietà per gli assassini venuti dopo e nessuna per quelli di prima, affogati tutti come topi?” (Claudio Magris, Microcosmi, 1997). Va bene anche in uno scritto scientifico, o in generale informativo, divulgativo, inteso ad avvicinare il grande pubblico a un argomento difficile. È inadatto a testi scientifici specialistici e a testi normativi.

Studio grammatica e studio la grammatica sono entrambe corrette. La prima rappresenta l’argomento dello studio come non numerabile, sottolineando che si tratta di una disciplina, una materia scolastica; la seconda lo rappresenta come un oggetto di studio tra tanti. Per capire meglio la sfumatura, si può confrontare studio (la) grammatica con faccio ginnastica (impossibile *faccio la ginnastica), ovvero ‘sono nell’ora di ginnastica, a scuola o in palestra’, e pratico la ginnastica (molto innaturale pratico ginnastica), ovvero ‘pratico lo sport della ginnastica’. Si può arrivare a dire (con un po’ di immaginazione) che in studio grammatica (come in faccio ginnastica) lo studio sia rappresentato come passivo, perché parte di un programma imposto, mentre in studio la grammatica si percepisca la partecipazione emotiva dell’emittente nel processo.

In uno scritto mediamente formale, quale può essere considerato il tema scolastico, si preferisce scrivere i numeri con le lettere, perché le cifre non fanno parte dell’alfabeto. Si tratta di una convenzione di secondaria importanza, che può essere applicata con flessibilità, soprattutto nel caso di numeri che richiedano stringhe di testo molto lunghe.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

I verbi aspettuali come stare per formano un’unica unità sintattica, quindi un unico predicato verbale?

 

RISPOSTA:

​Sì: stare per fare va considerato un unico verbo dal punto di vista sintattico (o nell’analisi logica), perché stare per non è autonomo, ma serve a esprimere una sfumatura del verbo principale (qui fare). Nell’analisi grammaticale i componenti si possono analizzare separatamente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Un’espressione come: “Tardelli per Rossi”, riferita ad un passaggio di palla, potrebbe rientrare sia tra i complementi di vantaggio che di limitazione? 

 

RISPOSTA:

Il complemento può essere considerato di vantaggio, come se intendesse ‘Tardelli (fa il passaggio) a vantaggio di Rossi’); di fine, ovvero ‘Tardelli (fa il passaggio) allo scopo di raggiungere Rossi’; di moto a luogo, ovvero ‘Tardelli (fa il passaggio) verso Rossi’. Non può, invece, essere considerato di limitazione; se lo fosse l’espressione si potrebbe parafrasare così: ‘Tardelli (fa il passaggio) secondo il parere di Rossi’, che non è certo il significato inteso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Alle scuole superiori mi è stato insegnato che nel narrare fatti contemporanei non si può alternare passato prossimo e passato remoto. Pertanto in uno scritto del genere: “Quando il freddo tornò pungente  a ricordarci della nostra impresa, ci siamo incamminati verso l’edificio…”,  si può accettare questa alternanza?

 

RISPOSTA:

Un’alternanza come quella da lei ipotizzata è difficilmente giustificabile. Il passato prossimo e il remoto sono in un rapporto di esclusione reciproca, perché hanno due funzioni diverse. Il passaggio dall’uno all’altro nella stessa frase, e persino nello stesso discorso, quindi, produce un senso di straniamento.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coesione, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Riferendosi ad una donna la frase corretta è “Carla non ti abbiamo mai dimenticato” oppure “Carla non ti abbiamo mai dimenticata”?

 

RISPOSTA:

​La variante con il participio passato accordato con il complemento oggetto è in linea di principio preferibile, sul modello delle frasi in cui il verbo è preceduto da un pronome di terza persona (ad esempio “Non la abbiamo mai dimenticata”), nelle quali l’accordo è obbligatorio. La variante senza l’accordo, però, non può dirsi scorretta, anche se è meno precisa; su essa opera l’analogia con la costruzione più comune, nella quale il participio passato è invariabile (“Non abbiamo mai dimenticato Carla”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Adoro le lingue straniere perché mi piace l’idea che ovunque io vada / andrò, in giro per il mondo, sia / sarò in grado di parlare la lingua del luogo”, entrambe le versioni mi sembrano corrette, ma ho letto in Internet che ovunque richiede sempre il congiuntivo.

 

RISPOSTA:

Come abbiamo detto in molte altre risposte, ogni volta che l’italiano ammette l’alternanza tra indicativo e congiuntivo l’indicativo rappresenta la variante meno formale e comune nel parlato, il congiuntivo quella più formale e da preferire nello scritto. 
In questo caso l’alternanza riguarda una proposizione completiva, “che sia / sarò in grado…”, e una relativa, “ovunque io vada / andrò…”. Per le completive le suggerisco, se volesse approfondire il caso, di cercare nell’archivio di DICO la parola chiave completiva; la relativa merita un discorso a parte. La congiunzione ovunque contiene una sfumatura di eventualità che avvicina la proposizione da essa introdotta alla protasi del periodo ipotetico. “Ovunque io vada”, cioè, è vicino a “se io vada”, se non, addirittura, a “se io andassi”. Da qui la forte preferenza per il congiuntivo, che, comunque, non può dirsi obbligo. 
In particolare, al presente, al passato prossimo e all’imperfetto l’indicativo risulta molto trascurato, perché può essere sostituito facilmente dal congiuntivo (presente, passato e imperfetto); al passato remoto, però, diviene pienamente accettabile anche nello scritto formale, perché insostituibile: “E ovunque andai, trovai una gioventù avida” (Frank Lloyd Wright, Una autobiografia, trad. it. di Maria Antonietta Crippa e Marina Loffi Randolin, 1985). Al futuro, infine, l’indicativo futuro è sì meno formale del congiuntivo presente, ma non risulta trascurato, perché, rispetto al congiuntivo, ha il vantaggio di rispecchiare più fedelmente l’evento descritto (ovunque andrò, cioè, rispecchia più fedelmente un evento futuro rispetto a ovunque vada), e questo ne legittima parzialmente l’uso. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Una frase come “I cristiani sono chiamati ad attraversare le ‘gioiose sofferenze’ della vita per conquistare il paradiso è corretta”? Vi spiego il mio dubbio. Il motivo della conquista è la lotta contro le sofferenze della vita. Ma è pur vero che la sofferenza si trasforma in gioia in vista del paradiso. Quindi, visto che la sofferenza è “gioiosa”, la conquista diviene per così dire “facile”. Ma il vocabolario spiega il termine conquista con ‘l’ottenimento di un qualcosa attraverso difficoltà’. Quindi chiedo se in virtù di quanto esplicato la frase è corretta, e se lo fosse come si chiama in italiano la tecnica utilizzata (penso sia l’ossimoro).

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista grammaticale la frase è corretta. Il suo dubbio semantico è legittimo, ma lei stesso dà una spiegazione che supera il problema in modo convincente. L’ossimoro, la figura retorica da lei usata, serve proprio a superare l’evidenza dell’esperienza per far emergere sfumature nascoste negli eventi, nelle situazioni, nelle relazioni umane. Il suo gioiose sofferenze (cioè ‘sofferenze finalizzate a un fine gioioso, che le rende accettabili’) funziona al pari del comune silenzio assordante (ovvero ‘silenzio su un tema delicato, che rivela l’impotenza, o la colpevolezza, di chi lo pratica’), o dell’altrettanto comune lucida follia (cioè ‘comportamento anticonvenzionale derivato non da irrazionalità, ma da calcolo’) ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le quattro costruzioni di seguito indicate sono consentite? Qual è la migliore e quale andrebbe invece evitata o da riservare a uno scritto poco sorvegliato?

1) La frutta e la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
2) Né la frutta né la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
3) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti per (a causa di) la freschezza e il prezzo;
4) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo.

 

RISPOSTA:

​In linea di principio, nessuna delle formulazioni è scorretta. Sempre in linea di principio, la formulazione con una sola negazione sarebbe già sufficiente a chiarire l’idea: “La frutta e la verdura non sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”, oppure “Né la frutta né la verdura sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”. Queste ultime sarebbero le forme più vicine allo standard. Meno felice “La frutta e la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo”, perché in italiano la posizione tipica della negazione è a sinistra del verbo. Comunemente si preferisce, infatti, la costruzione “Nessuno dei miei amici è venuto”, oppure “I miei amici non sono venuti”, ma si evita “È venuto nessuno dei miei amici”, che viene formulata comunemente come “Non è venuto nessuno dei miei amici”, con la doppia negazione (diversamente dall’inglese, nel quale è tipica una costruzione come “I have no money”, ovvero “Ho nessun denaro / ho niente soldi”), oppure, ma è una soluzione rara, “Non è venuto alcuno dei miei amici”. 
Nella lingua d’uso comune, quindi, la doppia negazione (a sinistra e a destra del verbo) è quasi necessaria se gli elementi negati sono a destra del verbo, per cui sono accettabili, anche se meno formali, tanto la prima quanto la seconda variante da lei proposte. La terza e la quarta risultano un po’ strane (ma, ripeto, non scorrette) per l’opposizione di fatto che si crea tra sia… sia e non, che è meglio evitare usando, appunto, né e tornando, quindi, alle varianti di cui sopra.
Per quanto riguarda la scelta tra per a causa di, questa dipende da quanto si vuole essere espliciti; la maggiore esplicitezza allontana dalla lingua d’uso e avvicina allo standard.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Avverbio, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono corrette queste frasi?
1. Sono convinta che il Signore avrebbe perdonato più facilmente un aborto che tutto il male fatto a vostra figlia.
2. L’unica soluzione da prendere, seppure a malincuore, era troncare la relazione.
3. È logico che, se la famiglia tradizionale dovesse generare un ambiente invivibile, sarebbe meglio per i figli vivere con un solo genitore.
4. Sono talmente felice che potrei non mangiare per una settimana! 

 

RISPOSTA:

​Le frasi sono tutte corrette. 
Per la prima e la terza il sospetto potrebbe venire dall’uso del condizionale nella subordinata completiva (“sono convinta che avrebbe“, “è logico che sarebbe“); si tratta, però, di un uso legittimo, perché in entrambe le frasi le completive sono a loro volta apodosi di periodi ipotetici. Nella prima frase la protasi è sottintesa: “Sono convinta che il Signore (se avesse dovuto) avrebbe perdonato più facilmente un aborto che tutto il male fatto a vostra figlia”; nella terza la protasi è esplicitata: “se la famiglia tradizionale dovesse generare un ambiente invivibile”.
Nella quarta il dubbio potrebbe venire ancora dal condizionale, questa volta usato in una proposizione consecutiva. Anche qui, però, il condizionale è giustificato perché la consecutiva è l’apodosi di un periodo ipotetico con la protasi sottintesa: “Sono talmente felice che (se dovessi) potrei non mangiare per una settimana!”.
La seconda frase ha una costruzione con due infiniti, uno nella relativa implicita (“da prendere”) e uno nella completiva (“troncare la relazione”). Come sempre, anche in questi due casi l’infinito presente instaura un rapporto di contemporaneità (in questo caso nel passato) con il verbo della proposizione reggente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Vi chiedo se è possibile accettare in uno scritto la forma “stramegafantastico”

 

RISPOSTA:

Dipende dal contesto. Dal punto di vista dello standard, la parola presenta due difetti: l’aggettivo fantastico è considerato già semanticamente superlativo e non accetta, di conseguenza, la forma superlativa; il raddoppiamento del prefisso (stra- + mega) è superfluo. In un contesto “brillante” o giocoso, però, censurarla sarebbe una reazione logicistica e fuori luogo: è evidente, infatti, che la parola sia formata allo scopo di suscitare sorpresa e guadagnare la simpatia dell’interlocutore. Queste funzioni, in alcuni casi, sono importanti tanto quanto la trasmissione lineare di informazioni. 
Per maggiori dettagli sui prefissi (o prefissoidi) stra-mega-maxi- ecc. la rimando alla risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”?dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Neologismi
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sull’uso del congiuntivo, in particolare nelle seguenti frasi: “Ha gli occhi azzurri, ma è probabile che cambieranno / cambino e diventeranno / diventino verdi”; “L’albero della vita presente nell’ex area Expo rimane acceso 24 ore su 24 e 365 giorni su 365. Io ho pensato a quanta energia c’è / ci sia dietro tutto ciò”.

 

RISPOSTA:

​Le due soluzioni da lei prospettate per le due le frasi sono entrambe accettabili. Per una discussione sui vantaggi e gli svantaggi dell’indicativo futuro e del congiuntivo nelle proposizioni completive può vedere le risposte Indicativo o congiuntivo nella interrogativa indirettaCredo che si debba usare il congiuntivo anche in futuro dell’archivio di DICO.  Molte altre risposte presenti in archivio, inoltre, riguardano il rapporto tra l’indicativo in generale e il congiuntivo nelle completive: può recuperarle attraverso il motore di ricerca interno (che trova in alto a destra) inserendo parole chiave come indicativocongiuntivo o completiva.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la frase “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2” è corretta perché viene considerata come presente storico oppure no e perché.

 

RISPOSTA:

​Nella comunicazione quotidiana è consigliabile mantenere lo stesso piano temporale nell’ambito della stessa frase, per non generare confusione. Se, pertanto, si sceglie di usare il presente storico, si dovrebbe mantenere il presente storico per tutta la frase; quindi: “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma finisce 2 a 2”, oppure “Io ho giocato una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2”. Inoltre, è preferibile non lasciare il soggetto sottinteso se questo non è stato mai introdotto, altrimenti l’interlocutore è indotto a pensare che il soggetto sottinteso coincida con quello precedente o, se non è possibile, come in questo caso, che coincida con l’ultimo referente possibile (“Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la scommessa finisce 2 a 2″); quindi sarebbe meglio “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la partita finisce 2 a 2”. Questa raccomandazione di massima in questo caso è secondaria, perché si suppone che l’interlocutore sia in grado di recuperare dal contesto il soggetto la partita.
In teoria, è possibile affiancare un presente storico a un passato; ma si dovrebbe limitare questa scelta a contesti letterari, nei quali la scelta si spiegherebbe con l’intento di spiazzare l’interlocutore, presentandogli in rapida sequenza un primo evento come attuale e un secondo come passato. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Spesso i libri scolastici propongono esempi molto banali di analisi del periodo, senza presentare quelli più complessi. Esistono testi ben fatti, con esempi articolati di analisi del periodo?
Quale potrebbe essere, ad esempio, l’analisi del seguente periodo?
“Dice che bisognerebbe fare in modo che ci sia spazio da poter adibire per mangiare senza che gli altri ambienti vengano utilizzati”.
Quando ci si riferisce  a un periodo si può parlare di analisi logica oppure questa è una espressione da riferire solamente all’analisi delle proposizioni?

 

 

RISPOSTA:

​l’analisi del periodo proposta a scuola deve tenere conto della preparazione parziale degli studenti; gli autori di grammatiche scolastiche, pertanto, evitano di presentare i casi più controversi. Il problema è, però, che i casi controversi siano molto comuni; gli enunciati che i parlanti e gli scriventi producono per comunicare tra loro spesso non si lasciano incasellare nelle rigide categorie di questa forma di analisi. Le frasi semplificate proposte nelle grammatiche, quindi, finiscono per risultare un po’ innaturali, come esperimenti condotti in laboratorio. 
Un libro agile e serio, scritto da un linguista navigato, dedicato a questo argomento, è L’analisi del periodo, di Michele Prandi, Roma, Carocci, 2013.

La stessa frase da lei proposta, per la verità, risulta innaturale; sembrerebbe rappresentare un discorso parlato (dice che…), ma si fatica a immaginare una persona che possa effettivamente parlare così. Nel parlato, infatti, si cerca la semplicità, per aggirare gli ostacoli della memoria limitata, del rumore, della distrazione ecc. Nello scritto, al contrario, possiamo concedere maggiore spazio alla complessità, perché il mezzo che usiamo è stabile e duraturo.
In ogni caso, volendo analizzare la sua frase otteniamo questo schema:
dice: proposizione principale;
che bisognerebbe: proposizione subordinata di primo grado oggettiva;
fare in modo: proposizione subordinata di secondo grado soggettiva;
che ci sia spazio: proposizione subordinata di terzo grado oggettiva;
da poter adibire: proposizione subordinata di quarto grado relativa implicita (equivalente a che deve poter essere adibito);
per mangiare: proposizione subordinata di quinto grado finale implicita;
senza…: proposizione subordinata di sesto grado eccettuativa.
Si noti che l’eccessiva, chiaramente non necessaria, complessità della frase produce una sbavatura sintattica: il verbo adibire difficilmente regge una proposizione; richiede, invece, tipicamente un complemento introdotto dalla preposizione a. Normalmente si direbbe, quindi, “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area per la mensa”, o anche “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area nel quale si possa mangiare”.

Il termine analisi logica si riferisce solamente all’analisi delle funzioni sintattiche, anche dette complementi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda sulla possibilità di poter eseguire l’analisi logica nelle frasi interrogative.
Cioè se scrivo: “La politica a chi piace?” , “a chi” è un complemento di termine, oppure non è possibile l’analisi?

 

RISPOSTA:

Sì, l’analisi è possibile ed è complemento di termine. Nelle frasi interrogative dirette il complementatore, cioè l’elemento su cui verte la domanda, in questo caso, cioè il pronome interrogativo chi, va trattato alla stregua di un normale sintagma pieno, come se fosse, per esempio: “la politica piace ai giovani?” o, senza domanda, “la politica piace ai giovani”. Solo che, al posto di “ai giovani”, o simili, c’è chi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

Ho dei dubbi sulla punteggiatura e correttezza formale delle tre frasi seguenti:
1. Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, subito abbiamo iniziato a
pescare con il fluttuante. Sono elettrizzato ancora adesso; lui è già bravo e
subito ha preso una bella trota che purtroppo è riuscita a slamarsi. (Il punto e
virgola dopo “adesso” va bene?)
2.  Ho preso una iridea di 37 cm, era sbalordito, era veramente un esemplare
gigante, subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo. (Dopo la parola gigante è meglio una virgola o un punto e virgola?)
3. Naturalmente ho partecipato ad altri campeggi, ma non ero mai stata con dei
ragazzi molto più grandi di me. Infatti sento di aver compreso che ci si può
divertire anche stando con persone più grandi o più piccole, più simpatiche o
meno,  che conosco già o che non conosco affatto. (La congiunzione “infatti” è
corretta).

 

RISPOSTA:

Rispondo sotto ciascun esempio, punto per punto.
1. Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, subito abbiamo iniziato a
pescare con il fluttuante. Sono elettrizzato ancora adesso; lui è già bravo e
subito ha preso una bella trota che purtroppo è riuscita a slamarsi. (Il punto e
virgola dopo “adesso” va bene?).
Sì, va bene, meglio della virgola, perché tra la prima proposizione (“sono elettrizzato”) e la seconda (“lui è già bravo”) c’è un notevole cambiamento di piano, da quello emotivo a quello narrativo.
2.  Ho preso una iridea di 37 cm, era sbalordito, era veramente un esemplare
gigante, subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo. (Dopo la parola gigante è meglio una virgola o un punto e virgola?).
Meglio il punto e virgola per motivo analogo a quello del punto 1. E c’è un refuso era > ero. Anche altri segni interpuntivi possono essere migliorati alla luce del cambiamento di piano dall’emotivo al narrativo o viceversa e simili. Provo a riformulare tutto il brano:
Ho preso una iridea di 37 cm; ero sbalordito: era veramente un esemplare
gigante. Subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo.
3. Naturalmente ho partecipato ad altri campeggi, ma non ero mai stata con dei
ragazzi molto più grandi di me. Infatti sento di aver compreso che ci si può
divertire anche stando con persone più grandi o più piccole, più simpatiche o
meno,  che conosco già o che non conosco affatto. (La congiunzione “infatti” è
corretta).
Non molto, perché non si sta deducendo qualcosa sulla base di quanto precede, bensì aggiungendo un nuovo elemento. Infatti [stavolta ci sta bene] si può non essere mai stati prima con ragazzi ecc. senza per questo aver compreso ecc. Sarebbe meglio eliminarlo e attaccare con “Sento…”.
 
Fabio Rossi
 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1. Gradirei sapere se il congiuntivo passato e il congiuntivo trapassato possono essere considerati tempi anaforici (quali varianti formali rispettivamente del passato prossimo e dei trapassati dell’indicativo). 
“Ti aggiornerò domani sul caso e tu potrai pensare se sia stato utile affidare l’incarico al nostro collega”; 
“Mi chiamerai e mi chiederai se nel frattempo qualcuno ti abbia cercato a casa”.
In questi esempi dovrebbe essere valido anche il futuro anteriore (su cui vorrei spendere due parole più avanti) in quanto la subordinata è un’interrogativa.
2. Il passato prossimo, inoltre, può assolvere alla funzione anaforica anche quando la principale è al condizionale presente? Un esempio: “Nei prossimi giorni non potrai rifiutarti di mangiare, altrimenti io mi rivolgerei al medico, gli racconterei tutto e lui così saprebbe che hai volutamente digiunato”. È evidente che in tale periodo l’azione al passato prossimo è precedente solo a quella costruita con il condizionale presente.
3. A margine, mi permetto anche di esporre un’ultima perplessità cui ho accennato in precedenza. In uno dei vostri interessanti interventi pubblicati molto tempo fa, si è parlato del futuro anteriore che, secondo la Grande grammatica italiana di consultazione, “ha un esplicito valore deittico ed è inaccettabile nelle proposizioni oggettive e soggettive”. Forse non ho ben assimilato la regola, ma in un frase come
“Non saprai mai tutto quello che ho fatto per te” (che dovrebbe invece essere accettabile, in quanto la subordinata è costruita con il passato prossimo) in che modo si potrebbe stabilire se l’azione sia anteriore esclusivamente a non saprai mai
Potrebbe, se non erro, essere anteriore anche al momento dell’enunciazione. Usando il futuro anteriore, invece, tale dubbio sarebbe fugato: “Non saprai mai tutto quello che avrò fatto per te”, ossia ‘Oggi ti dico che tu l’anno prossimo non saprai mai quello che nel frattempo (quindi in un lasso di tempo che è successivo all’ora dell’enunciazione e precedente solo a saprai mai) avrò fatto per te”. 
Secondo il mio modestissimo parere, senza l’ausilio di opportune congiunzioni e preposizioni, in un esempio scarno come quello sopra riportato, la soluzione con il passato prossimo sarebbe un po’ oscura. 

 

RISPOSTA:

​1. Tutti i tempi del congiuntivo sono anaforici, in quanto servono a stabilire un rapporto temporale tra l’evento espresso e quello descritto nella proposizione reggente.
2. Il condizionale presente nella reggente della sua frase funziona allo stesso modo dell’indicativo futuro (in altri casi funziona come l’indicativo presente); nel rapporto con il passato prossimo nella subordinata, pertanto, vale quanto illustrato nella FAQ  Sono tempi difficili per il discorso indiretto dell’archivio di DICO. Aggiungo che l’interpretazione deittica del passato prossimo non è esclusa neanche in una frase di questo genere: è possibile, cioè, che il digiuno sia effettivamente cominciato prima del momento dell’enunciazione, non dopo (anche se prima che il medico lo venga a sapere). 
3. Quanto ho appena scritto le dà ragione su questo punto; già nella FAQ  Sono tempi difficili per il discorso indiretto, infatti, avevo espresso il mio disaccordo con la posizione della Grande grammatica italiana di consultazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Mi è sorto un dubbio in merito alla frase “Indicare il mese nel quale / in cui / durante il quale / durante cui si intende realizzare l’attività”. Vorrei sapere se sono corrette tutte e tre le forme.

 

RISPOSTA:

​Le forme sono tutte corrette; si differenziano sul piano della formalità e su quello della precisione. Le forme con cui sono più formali di quelle con preposizione articolata + quale, ma non modificano la sostanza; durante, rispetto a in, sottolinea che le attività avranno una certa durata. Si tratta di una sfumatura, perché in non esclude che le attività abbiano una durata; lo lascia, però, in secondo piano, facendo risaltare solamente che si svolgeranno nei limiti temporali del mese.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Spesso vedo scritto “domenica, 5 ottobre 2019, ore 13.30”, altre volte “domenica 5 ottobre 2019, ore 13.30”. Mi piacerebbe sapere qual è la forma giusta.

 

RISPOSTA:

​In una stringa di testo come una data, nella quale i collegamenti testuali sono appena accennati, la punteggiatura assume la stessa funzione che ha in un elenco: separarne i membri. Il punto in cui mettiamo la virgola, pertanto, segna il confine tra un membro dell’elenco e il successivo. La prima soluzione, a causa della separazione tra domenica e 5 ottobre 2019, dà maggiore peso al secondo elemento, e potrebbe essere più adatta al caso in cui 5 ottobre 2019 fosse particolarmente importante; la seconda, al contrario, è adatta al caso in cui si voglia dare pari importanza a entrambe le informazioni del giorno. Se si volesse far risaltare domenica, ancora, si potrebbe optare per “5 ottobre 2019, domenica, ore 13.30”.
In conclusione, entrambe le varianti vanno bene, ma la seconda è quella più neutrale e adatta a tutte le occasioni. 
Faccio notare che la grafia 13.30 non è l’unica diffusa nell’uso: esistono anche 13:30 e 13,30. Tra le tre, quella con la virgola è la meno indicata, perché la virgola si usa in matematica per separare i numeri interi dalla parte decimale, che è una funzione pericolosamente simile a quella di separare l’ora dai minuti: le 11,30, per esempio, rapportate al sistema decimale sono le 11,50 (cioè le 11 e mezzo). Il punto, a sua volta, ha la funzione di separare gli enunciati, mentre le due informazioni sull’ora e i minuti sono sicuramente da tenere insieme; la variante preferibile, pertanto, è quella con i due punti. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

So che la relativa può essere costruita con indicativo e congiuntivo, a seconda dei contesti.
Una frase come: “Voglio comprare una casa che ABBIA un bel giardino” può essere resa anche come “Voglio comprare una casa che HA un bel giardino” senza che quest’ultima sia considerata “errata”?

 

RISPOSTA:

Una subordinata relativa con il verbo all’indicativo va sempre bene; al massimo, in alcuni casi, potrà essere giudicata meno formale, ma mai sbagliata. Il congiuntivo, in alcuni contesti, può servire a esprimere sfumature finali, eventuali o potenziali, ipotetiche, desiderative o d’altra natura, ma, per l’appunto, si tratta di sfumature.
Nel suo caso specifico, “Voglio comprare una casa che HA un bel giardino” è perfettamente formata e la sfumatura di potenzialità espressa dall’equivalente frase al congiuntivo è davvero trascurabile, dal momento che il sintagma voglio comprare della reggente indica inequivocabilmente che la casa non è stata ancora comprata.
Aggiungo inoltre che, in questo caso, la relativa, sia all’indicativo sia al congiuntivo, è anche lievemente pleonastica, visto che si potrebbe più agevolmente dire e scrivere: “Voglio comprare una casa con un bel giardino”.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei ricevere, se possibile, alcuni chiarimenti circa i rapporti che il passato prossimo stringe con gli altri tempi verbali.

Primo caso: passato prossimo e trasformazione da discorso diretto a indiretto.

“L’ho visto e gli ho domandato: ‘Come va?’”
1a) L’ho visto e gli ho domandato come va. (Accettabile per indicare l’attualità dell’interrogativo.)
1b) L’ho visto e gli ho domandato come vada. (Mantiene l’attualità dell’interrogativo ma ne aumenta la formalità.)
1C) L’ho visto e gli ho domandato come andava. (Costruzione nel rispetto della consecutio.)
1d) L’ho visto e gli ho domandato come andasse. (Consecutio e formalità.)

Nel caso le mie annotazioni siano corrette, mi chiedo se le opzioni 1C e 1D siano applicabili anche in quei contesti in cui, come nelle prime due varianti, si voglia o si debba sottolineare che l’evento è “presente”.
In altre parole, scrivendo o dicendo “gli ho domandato come andasse/andava” si sottintende esclusivamente la contemporaneità con l’azione espressa dalla reggente che, in quanto al passato prossimo, attiene alla sfera del passato, oppure si mantiene comunque un possibile legame con il presente?

Il secondo caso è di simile natura. Mesi addietro lessi su un noto testo grammaticale i seguenti esempi:

“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia.”

“Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica.”

Le costruzioni dimostrano il nesso sintattico e semantico tra passato prossimo e azione presente; ricollegandomi al quesito esposto sopra, mutatis mutandis, vorrei sapere se la sostituzione del congiuntivo presente con il congiuntivo imperfetto cambierebbe tale nesso.

La frase: “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”, ad esempio, escluderebbe la contemporaneità tra la subordinata e l’enunciazione?

Vi ringrazio sinceramente per la vostra disponibilità e per la vostra cordiale attenzione.

Seguo i vostri post su Facebook e sono orgoglioso di promuovere, nel mio piccolo, tra amici, colleghi e familiari, l’attività di DICO.

 

RISPOSTA:

Premetto che tutte le alternative da lei formulate sono valide, in italiano. Facciamo qualche piccola precisazione e distinzione, dunque, soltanto per amore di precisione e di speculazione (nel senso nobile del termine) metalinguistica.
Come giustamente osserva lei, la differenza d’uso tra indicativo e congiuntivo, nelle completive, è più che altro una differenza diafasica, cioè di livello di formalità, senza alcun cambiamento di significato. Qualcosa in più si può dire sull’uso del tempo, invece.
 “L’ho visto e gli ho domandato come va” e “come vada” non sono del tutto rispettose della consecutio temporum, perché, a rigore, quel che conta, nel discorso indiretto, non è il momento dell’enunciazione (essenziale, invece, nel discorso diretto), bensì il rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità rispetto al verbo reggente, vale a dire quello che introduce il discorso indiretto (“ho domandato”). Dunque in questo caso è come se ci fosse una mescolanza tra due piani deittici (cioè di riferimento temporale), quello del passato e quello del presente, cioè quello del discorso indiretto e quello del discorso diretto. Ma, a rigore, la domanda “come va” si presume sia stata fatta nel passato (quando cioè “gli ho domandato”), e non nel presente (o meglio, non troppo tempo dopo l’azione del domandare), e dunque la scelta migliore è senza dubbio “come andava” o, più formalmente, “come andasse”.
Diversi sono gli altri due casi da lei citati, il primo dei quali (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”) attribuibile ad Annibal Caro, cioè un autore del Cinquecento (e dunque tenga presente che i rapporti di consecutio temporum, almeno fino all’Ottocento, erano un po’ più elastici di quanto non siano nell’italiano odierno, o comunque non del tutto e non sempre assimilabili a esso).
I due esempi da lei citati (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”; “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica”) non sono a rigore esempi di discorso riportato (non sono, infatti, introdotti da un verbo di dire o simili). Inoltre, prima avviene l’azione di raccomandarsi a Dio, o a Cristo, e poi quella di esser soccorso, o di dire.
Dato che la distanza temporale tra il rivolgersi a Dio ed averne la grazia, e simili, si suppone ben esigua, di fatto l’uso del presente o dell’imperfetto cambia davvero poco o nulla, in questo caso, e pertanto direi che sarebbe di identico significato anche: “Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorresse della sua grazia” e “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”.
Diverso sarebbe il caso, poniano, di “Cristo mi ha detto che io vi dicessi”, che a quel punto rientrerebbe perfettamente nel discorso riportato, di cui sopra, e che dunque sarebbe senz’altro preferibile a: “Cristo mi ha detto che io vi dica” (o, più semplicemente, “mi ha detto di dirvi”), a meno che non si voglia supporre una notevole distanza cronologica tra “Cristo mi ha detto” e il mio “dirvi”.
Come ho già osservato in apertura, si tratta comunque di minuzie, qui sceverate soltanto per amor di precisione e di riflessione metalinguistica.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

Se esistesse un’interruzione con la c seguita o preceduta dall’h non cambierebbe il suono dolce della c? Mi è venuto questo dubbio per 2 motivi: se la c è in fine di parola (hhhc) è dura e anche quando è seguita da una consonante (cccch). Quelle fra parentesi sono le ipotesi che secondo me sono sbagliate.
Nelle interiezioni l’h divide il suono delle vocali (Ahahah)? Allunga il suono della vocale che la precede o che le sta davanti (hhhhheohhhehhhhi)? Le cose che ho elencato delle interiezioni non riguardano le parole?
In pezzi di parola e acronimi, nel caso dei dittonghi e trittonghi, l’h cambierebbe il suono?: ghnghliglhihgliglihoshci. La c quando è da sola viene considerata più come affricativa? Un esempio è: c’ho.
Le parole composte seguono una regola di lettura diversa da una parola normale? Un esempio di parola composta è scioglilingua e un esempio di parola è glicemia. Il suono della gli in glicemia è duro mentre in scioglilingua è diverso. Le parole composte si pronunciano separatamente?
Una parola composta potrebbe perdere la sua validità in quanto parola composta se si aggiungessero accenti, doppie oppure delle h sparse in modo casuale: sscioglilinguascíoglilinguascioglilinguàscioghlilinguascioglilihngua?
Nel caso di hascisconore si rischia la pronuncia sbagliata per quanto riguarda le parole composte, ma questo a cosa è dovuto? Hashishonore, invece, è più fattibile perché è una parola straniera riconoscibile? Le parole composte con le parole straniere talvolta possono essere complicate per via della riconoscibilità del termine? Per esempio le parole inglesi: Imea e do. Le parole composte seguono uno schema (nome+nome, aggettivo+aggettivo ecc.) oppure le parole possono essere messe a caso (nome+articolo). Le parole composte si potrebbero fare con qualsiasi tipo di parola: Interiezioni, nomi di persona, cognomi ecc.? Sono sempre composte da 2 parole? Le parole macedonia con i casi tipo hascisc non si potrebbero creare? Potrebbero coesistere le parole composte e le parole normali? Es: liberamente (è un avverbio, ma non si potrebbe creare un composto libera+mente?). Se esistesse una parola come ascisconore sarebbe assolutamente infattibile fare un composto come ascisc+onore?

 

RISPOSTA:

Non esistono regole, ma solo consuetudini e analogie, sulla pronuncia di pezzi di parola (quali acronimi o parole inventate o sezioni più o meno riconducibili a parti di parola esistente). Comunemente, se una parola inventata, o un pezzo di parola, o un acronimo, finisce per c (nessuna parola italiana esistente finora può finire per c), la c si pronuncia come velare, e non come affricata, perché la pronuncia velare è quella meno marcata, per così dire, cioè quella più comune, dal momento che le affricate (come la c di cena e la g di gelo, per intenderci) sono fonemi rarissimi, nelle lingue del mondo, e infatti l’italiano è una delle poche lingue a possederle nel proprio apparato fonologico.
Per quanto riguarda le interiezioni e gli ideofoni (cioè parole che indicano rumori), anche qui val più la convenzione, la consuetudine e l’analogia che la regola fonetica (inesistente). E dunque, l’h di solito non modifica la pronuncia né delle vocali né delle consonanti cui si accompagna, con la parziale eccezione per la c e la g, per analogia con le parole italiane: dunque ch e gh non possono che pronunciarsi, almeno in italiano, come velari. Anche hc e hg si pronuncerebbero come velari, sia per il mutismo della h sia per quanto appena detto sulla pronuncia non marcata delle velari. Per quanto riguarda le vocali, una parziale deroga al mutismo della h si ha nell’interiezione (o ideofono) che riproduce la risata, che da taluni (ma non necessariamente) viene pronunciata con una serie di a separate da aspirazione: ahahahah. L’allungamento vocalico delle interiezioni non è, di solito, segnalato dalla presenza o meno della h, bensì dal valore pragmatico, e dunque dal contesto d’uso, di quell’interiezione. E infatti, benché molte (non tutte) le interiezioni siano presenti nella gran parte dei dizionari, non v’è un accordo perfetto sulla loro grafia: chi scrive hm, chi mh, chi hmh, chi hmm ecc. Dicevo che è il contesto d’uso, più che la grafia, a segnalare la lunghezza vocalica (di norma non graficamente segnalata, in italiano, eccezion fatta per alcune interiezioni, per l’appunto, e con notevoli oscillazioni da autore ad autore). E dunque, anche per l’ah di meraviglia, per esempio, e anche a parità di scrittura (ah), ci sarà un caso come: “Ah, che spavento!” (che si pronuncia con una a breve) e un altro caso come “Ah, qui ti volevo! Lo vedi che avevo ragione io?!”, che si pronuncia con una a molto allungata.
D’altra parte, è possibile che talora lo scrivente senta l’esigenza di segnalare graficamente (o con l’h o con la duplicazione della vocale) il diverso valore pragmatico, e dunque anche la diversa pronuncia, delle interiezioni, distinguendo, per es., tra ehi e eeeeehi, o hhhhei o in altro modo ancora. Se, nella letteratura tradizionale, si tendeva a non ripetere stesse serie di grafemi per più di due volte, l’effervescenza grafica, e talora grafomane, incoraggiata dai nuovi media ha immesso in italiano (anche in letteratura) talune interiezioni fatte anche di lunghe serie di vocali e/o di h. Se accetta un consiglio, il troppo stroppia sempre, e il ricorso a questi mezzucci grafici è considerato, da taluni linguisti superciliosi come chi le scrive, un modo di scrivere assai cheap.
La prima parte della domanda sui pezzi di parola e gli acronimi non ha senso, perché MANCA una regola fonetica per la pronuncia delle parole inventate, dei pezzi di parola, degli acronimi, quindi i casi da lei elencati possono pronunciarsi come si vuole. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, la pronuncia affricata (affricativa non esiste, esistono le fricative, ma sono un’altra cosa) della c isolata in c’ho è la classica eccezione che conferma la regola della pronuncia velare di c in isolamento. In effetti, dato che la grafia c’ho (non a caso da taluni contestata e riflettente un caso di lingua parlata trascritta) contrassegna la caduta della i per elisione, allora lì la pronuncia permane quella affricata, come se la i rimanesse: ci ho.
La pronuncia dei composti non cambia, di norma, rispetto a quella delle parole componenti, tranne, talvolta, per questioni di accento (nel senso che tende a perdersi, anche come accento secondario, quello del primo elemento) o di raddoppiamento fonosintattico: per esempio, caffè + latte = caffellattecosì + che = cosicché.
Nel caso di scioglilingua, la pronuncia è quella normale, con l palatale, della parola sciogli. È semmai glicemia l’eccezione (come glicine e altre), nel senso che la pronuncia non palatale del nesso gl dipende dal fatto che quella parola deriva dal greco, lingua in cui la laterale palatale non esisteva (su quest’argomento può vedere la FAQ Pronuncia di Gliaca dell’archivio di DICO).
Benché l’italiano, a differenza dell’inglese, sia una lingua che segue l’ordine determinato + determinante, sono numerosi i composti (soprattutto dal greco o dall’inglese) che seguono l’ordine inverso: agopuntura, psicoterapia ecc., motivo per cui anche hashishonore nel significato di ‘onore dell’hashish’ potrebbe andar bene.
Dopodiché è ovvio che le parole non possano esser messe a caso, né in italiano né in inglese né in nessuna altra lingua, direi, ed è altresì chiaro che bisognerebbe tentare di evitare ambiguità di pronuncia e di senso. La libertà di scelta delle componenti di un composto è lasciata, un po’ come la pronuncia, al buon senso, anche qui tentando di evitare ambiguità: eviterei, per esempio, l’uso delle interiezioni nei composti, e forse anche l’uso degli articoli, nei limiti del possibile. Composti con nomi propri sono possibili, anche qui entro i limiti del buon senso e della comprensibilità. Per es., così come era comune, anni fa, il D’Alema-pensiero, oggi sarebbe possibile il Salvini-pensiero (ammesso che esista…), che tra l’altro segue l’ordine determinante + determinato.
Su libera mente inteso come “qualcosa che libera la mente”, ci hanno già pensato in molti prima di Lei, come scoprirà on line.
Fabio Rossi
Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Neologismi
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QUESITO:

Ho difficoltà a capire le sigle e gli acronimi. Gli acronimi sono quasi sempre sigle e si leggono per esteso. Mi sono chiesto: come mai STA si legge distaccato, visto che è un nome leggibile? Non dovrebbe essere un acronimo? Queste parole sono da considerare acronimi? As, us, mi, ez, arm e gil. Queste, invece, no? ASH,USC,UGL, UGN.
Se scrivessi un nickname strambo del tipo ngnmlo, si potrebbe tranquillamente leggere, nonostante le posizioni delle consonanti sballate? Inoltre, l’acronimo Ngnmlo non è leggibile di vera regola per via dell’eccesso di consonanti? Ngenmlo e Nginmlo invece sì? Una sigla senza puntini non si potrebbe confondere con un nome? Per esempio, se scrivessi MLIC, una persona non potrebbe pensare che possa essere una sigla e quindi pronunciarlo distaccato e non come un nome (sempre il caso del nickname).
Il numero di consonanti che possono stare insieme è 3? In italiano ci sono dei criteri per capire se una consonante può stare con un’altra? Cso è impronunciabile perché cs è all’inizio, questo vale anche per la n iniziale seguita da consonante. Ci sono coppie di consonanti che a fine di parola sono pronunciabili (tipo ansasling)  e coppie che non lo sono (amdazt ecc.). Come riconoscerle?

RISPOSTA:

Gli acronimi, o sigle, possono essere costituiti sia da singole lettere, ciascuna corrispondente all’iniziale di una parola (USAONU ecc.), sia da sillabe, sia da altri insiemi di lettere, sillabe, parti di parola e parole intere talora imprevedibili (per es. Confcommercio = Confederazione del Commercio). Il fatto che un acronimo venga letto una lettera alla volta, oppure come fosse una parola autonoma (come USAONU ecc.) è anch’esso poco prevedibile e dipende sostanzialmente da tre fattori: la facile (o difficile) leggibilità dell’insieme delle componenti (agevole in STA, decisamente scarsa in CGIL), la frequenza (e dunque la facile riconoscibilità) dell’acronimo, la possibilità di equivoci con omofoni: in effetti, se STA può essere confuso con la terza persona del verbo stare, sarebbe meglio pronunciarlo Esse Ti A.
Anche l’uso maiuscolo o minuscolo delle componenti è imprevedibile: di solito, se un acronimo è d’uso molto comune, può essere scritto con la sola prima lettera maiuscola e le altre minuscole (UsaOnu), ma le versione con tutte le lettere maiuscole è comunque sempre adeguata (USAONU).
Anche il fatto che un acronimo si scriva con o senza puntini è difficilmente prevedibile: in angloamericano, in cui si abusa di acronimi, raramente le componenti dell’acronimo sono separate da puntini, in italiano di solito si usano i puntini per gli acronimi meno frequenti, non si usano per quelli più frequenti, ma, come ribadisco, non c’è una regola ferrea.
Tutti quelli da Lei citati possono essere considerati acronimi, se sono effettivamente sigle, cioè se a ciascuna lettera, o gruppo di lettere, corrisponde un nome proprio o comune. Se rientra in quest’ultima tipologia, anche quello da lei proposto (Ngnmlo) potrebbe essere un acronimo, sebbene non possa essere pronunciato come parola se non a costo di notevoli forzature fonetiche: potrebbe, per esempio, essere pronunciato come Ngenmlo o Nginmlo.
MLIC può essere facilmente pronunciato sia lettera per lettera, sia come parola autonoma, ma, ripeto, è un acronimo solo a condizione che le lettere, o i gruppi di lettere, che lo costituiscano siano associate a singole parole: per esempio (inventato), Misura Lineare Cubana (o mille altri significati reali che quest’acronimo ha in inglese, come appurerà facilmente on line). Se si vuole evitare l’equivoco tra acronimo e nomignolo, allora è bene chiarire sempre il valore dell’acronimo, per esempio sciogliendone il significato tra parentesi.
Le consonanti possono essere tre o quattro di seguito, se una è r o l, che resistono meglio di altre alla pronuncia non appoggiata a vocali. Per cui, per es., si pronuncia bene ARST, ma per il suo Ngnmlo è necessario un appoggio vocalico, magari realizzato diversamente rispetto a quanto proposto da me: che so, gnemmelo sarebbe carino, ancorché un po’ infedele.
La casistica fonetica italiana è in realtà molto complessa e controversa. Per un prospetto completo si invita a consultare manuali di fonetica specializzati, quali quelli di Marina Nespor, Luciano Canepari o Pietro Maturi, tra gli altri. Va detto però che le restrizioni fonetiche delle parole italiane possono essere infrante dagli acronimi pronunciati come fossero una parola. Per esempio, nessuna parola italiana può terminare nella sequenza affricata più occlusiva, per esempio azt, ma nulla vieta che l’acronimo azt venga pronunciato come se fosse una parola. 
Sarebbe bene non abusare di acronimi (sempre che non siano sciolti tra parentesi, come appena detto), a meno che non usuali e comprensibili ai più, se non si vuole escludere gli interlocutori. Sarà capitato anche a Lei, come a ciascuno di noi, immagino, di sentirsi frustrato, parlando specialmente con angloamericani, nel sentire una raffica di acronimi di cui ignorava il significato.
Fabio Rossi
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Espressioni quali come vi parecome si preferiscecome credilascia il tempo che trova e simili, sono, per così dire, cristallizzate o i predicati da cui sono formate si coniugano non solo in base al numero ma anche a seconda del rapporto temporale che instaurano con la reggente?
1. Ti consiglio di rinunciare; ma già il prossimo mese potrai fare come ti parrà / come ti pare.
2. Se volessi conseguire la libertà, dovresti comportarti come preferiresti / come preferisci.
3. Dopo che ti avrò spiegato il mio punto di vista, tu potrai continuare a pensarla come vuoi / come vorrai.
4. Già prima di essere riconosciuto come il migliore nel suo campo, il ragazzo anche a scuola aveva fatto sempre le cose come si deve / come si doveva.
5. Il resto sarebbe chiacchiera vana, che lascia il tempo che trova / che lascerebbe il tempo che troverebbe.

 

RISPOSTA:

Le espressioni da lei elencate sono effettivamente relativamente cristallizzate, prima di tutto perché il presente al loro interno può assumere senza difficoltà valore atemporale, quindi essere valido sempre. Prendendo come esempio la prima frase, “… potrai fare come ti pare” è una costruzione legittima al netto della cristallizzazione, perché si riferisce al parere dell’interlocutore tanto nel momento dell’enunciazione quanto in quello dell’evento. In altre parole fare come ti pare equivale a agire secondo il tuo desiderio o simili (e così le altre), ovvero a una costruzione nominale svincolata dal riferimento temporale. Direi addirittura che la cristallizzazione sia conseguenza di questa caratteristica del presente: il fatto che il presente sia sempre valido ha provocato la fissazione della forma di queste espressioni.
Non è, comunque, da escludere la possibilità di coniugare il verbo dell’espressione in tutti i tempi e i modi che siano richiesti dalla consecutio temporum. Così facendo si perde in parte la idiomaticità delle espressioni, ma si guadagna precisione nel riferimento.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Mi è capitato di entrare in più palestre della mia città e trovare il termine palinsesto per indicare il programma annuale di tutte le attività di fitness. Vorrei sapere se l’uso è improprio o no. visto che dovrebbe riferirsi al campo radiotelevisivo.

 

RISPOSTA:

​L’uso di una parola tende a cambiare nel tempo, accumulando, talvolta, alcune estensioni semantiche. La parola palinsesto nasce in àmbito filologico per indicare un manoscritto in cui la scrittura è stata sovrapposta a un’altra precedente raschiata o cancellata. L’idea di cancellare per sovrascrivere è connessa ad altri contesti d’uso: come già osservato da lei, palinsesto è normalmente associato alla sfera radiotelevisiva per indicare lo schema grafico delle trasmissioni previste in programmazione (che vengono modificate di giorno in giorno). È del tutto prevedibile, quindi, che la parola sia usata per identificare anche altri tipi di programmi che cambiano molto spesso, come quello di un’attività sportiva; non a caso, il dizionario Zingarelli 2020 attribuisce alla parola anche il significato di ‘programma, catalogo’, senza specificare il contenuto dello stesso.
Raphael Merida

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

I miei dubbi sono i seguenti:
1. nella frase “Al giorno d’oggi è importante essere sul web”, è giusto scrivere sul web?
2. È più corretto dire cerco in Internet o su Internet?
3. nella frase “L’agenzia si occupa della realizzazione di siti internet in provincia di Genova, di Savona e di La Spezia”, è corretto ripetere la preposizione di  oppure è meglio scrivere di Genova, Savona e La Spezia?
4. Nella frase “È necessaria una fase di studio e progettazione iniziali”, è corretto il plurale iniziali?

 

RISPOSTA:

​1. Sul websul Web, o sul web (vale a dire “sul web“) è la costruzione più comune, motivata dal fatto che i contenuti del web ci raggiungono sotto forma di stringhe di testo e immagini su uno schermo. I parlanti, quindi, assimilano per metonimia il contenuto al contenitore. Più preciso è nel web, visto che il web è l’ambiente figurato nel quale si trovano i contenuti. Si ripropone con questa espressione la stessa alternanza che c’era già tra in un libro e su un libronel giornale e sul giornale.
2. Come sopra.
3. Le due varianti sono ugualmente corrette; visto che non c’è ragione di ripetere la preposizione, però, è preferibile non ripeterla.
4. Sì, un aggettivo riferito con due o più nomi di genere diverso (a prescindere dal loro numero) concorda di norma al maschile plurale.
​Fabio Ruggiano
 

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QUESITO:

Come dobbiamo dire: “lavorare per un talk show in / su una televisione privata”?

 

RISPOSTA:

È preferibile in una televisione. Il termine televisione indica diverse realtà che ruotano intorno alla tecnologia della trasmissione delle immagini a distanza. Prima di tutto, televisione è proprio tale tecnologia; non è, però, il significato più comune associato a questa parola. Più comunemente, infatti, televisione indica la trasmissione stessa e i suoi contenuti, come nella frase fatta “l’ha detto la televisione”, ovvero ‘è stato detto in un programma trasmesso in televisione’. In questo senso, televisione entra in concorrenza con canale, che è ciascuna delle frequenze che trasmettono il segnale televisivo. Se televisione è la trasmissione che contiene i dati, canale è il mezzo sul quale viaggia la trasmissione: facile confondere le due cose, che, quindi, finiscono per scambiarsi anche le preposizioni. L’accoppiamento più sensato è in televisione e su un canale, quindi le varianti sulla televisione (si noti che, con televisionein non vuole l’articolo, mentre su lo richiede obbligatoriamente) e in un canale sono più trascurate (in un canale, per la verità, è molto più diffuso di sulla televisione).
Il suo caso specifico, infine, è ancora diverso, perché in esso televisione indica una terza realtà: l’ambiente nel quale gli addetti lavorano, così come si lavora in una bancain una scuolain una azienda e così via. In questo caso, la preposizione in è ancora più rispondente alla situazione descritta. 
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

L’avverbio di luogo ci sostituisce il luogo. Ad esempio: “- ti trovi bene a Firenze? – Sì, mi ci trovo bene”.
Coniughiamo le prime tre persone: Io mi ci trovo beneTu ti ci trovi beneLui / lei ci si trova bene.
Come vede, alla terza persona il ci precede il si, mentre nella prima e seconda persona l’avverbio di luogo è posto dopo i pronomi.
Possiamo affermare che questo “capovolgimento” è dovuto ad una questione di natura fonetica?
E ancora: per la prima persona plurale, credo nessuno dica e tanto meno scriva Noi ci ci troviamo bene. Come ovviare? Usare la variante vi al posto di ci, renderebbe la frase ancora più bislacca: Noi vi ci troviamo bene.
E allora? Come sostituire il ci ci?

 

RISPOSTA:

L’inversione dell’ordine dei pronomi (ci è un pronome, non un avverbio, per quanto abbia la funzione di indicare un luogo) alla terza persona è dovuta probabilmente alla concorrenza di una struttura simile, che ha avuto il sopravvento. Su lui si ci trova ha influito la forma impersonale del verbo pronominale corrispondente a trovarsi, ovvero trovarci ‘riconoscere’, in cui ci fa parte del verbo stesso e si è il pronome che rende il verbo impersonale. Il fenomeno non riguarda questo verbo in particolare, ma si è prodotto su tutti i verbi analoghi allo stesso modo: metterci ha influito su mettersifarci su farsivederci su vedersi ecc.
Anche all’infinito è evitata la forma che dovrebbe essere regolare, trovarsici, in favore di quella analoga ai verbi con ci, quindi trovarcisi
Tale adattamento è antico: non ho trovato esempi di si ci in testi letterari più recenti di questo: “Ad alcuni reggenti, in questo primo anno, dispiacque la novità per gl’incomodi che s’immaginavano dover soffrire, ma dapoi ben si ci accomodarono” (Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, 1740 ca.). Per la verità, ho trovato attestazioni anche contemporanee di si ci, in discorsi parlati o scritti trascurati di provenienza siciliana, come questo, tratto da un’intercettazione di due malavitosi della provincia di Palermo: “Allora Vicè, fagli sapere se lui si ci può mettere” (livesicilia.it, 2019), quest’altro, tratto da una dichiarazione del mafioso Giovanni Brusca: “Dopodiché gli dico: ‘Fagli sapere a Totò Riina che ho commesso l’omicidio di Vincenzo Milazzo’, perché lui si ci vedeva tutti i giorni” (repubblica.it, 2019), o questo, da un blog sportivo catanese: “Lui si ci mette sempre l’impegno necessario per se e per la squadra” (ilblogdialessandromagno.it, 2014). Quest’ultimo esempio è davvero notevole, perché il verbo qui usato è metterci ‘impiegare’, non mettersi ‘sistemarsi’ (come nell’esempio precedente), quindi si non è richiesto dalla costruzione, ma è inserito perché lo scrivente si adegua a un modello per lui forte.
Non escludo, quindi, che si ci rimanga ancora oggi come regionalismo popolare siciliano o al massimo meridionale.
Per quanto riguarda la seconda domanda, comunemente si ovvia al problema della ripetizione di ci alla prima plurale con l’eliminazione del ci di luogo (noi ci troviamo bene). Se è necessario sottolineare il luogo, è possibile trasformare il secondo ci in lì / là, che va anteposto o posposto: noi lì / là ci troviamo bene, o noi ci troviamo bene lì .
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Sono abituata a dire e leggere frasi come “Spero che possa esserti utile…” o “Spero che potrà esserti utile …”. È anche accettabile spero con il condizionale, come: “Spero che potrebbe esserti utile….”?

 

RISPOSTA:

​Le proposizioni oggettive esplicite, come quella che nella sua frase è introdotta da che, ammettono l’indicativo, il condizionale e il congiuntivo. È facile, infatti, trovare esempi di credo che potrebbepenso che potrebbeimmagino che potrebbe e simili. Il verbo spero, però, veicola un forte senso di eventualità che rende improbabile, alle orecchie dei parlanti, la reggenza del condizionale e, addirittura, rende anche l’indicativo meno accettabile rispetto a quanto non lo sia con gli altri verbi di pensiero. In altre parole spero che puoi è meno accettabile di credo che puoi
Si tratta di una preferenza nell’uso, non di una regola grammaticale: la costruzione spero che potrebbe non può dirsi errata; in pratica, però, è scartata dalla maggioranza dei parlanti e degli scriventi rispetto a quelle con il congiuntivo (più formale) e con l’indicativo (più trascurata).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella lingua spagnola ci sono i verbi di dire e di pensare che richiedono il congiuntivo solo nella forma negativa. E nell’italiano? Dopo le strutture: non diconon posso direnon sento, non capisconon vedo usiamo il congiuntivo o l’indicativo? 

 

RISPOSTA:

È preferibile il congiuntivo, soprattutto nello scritto; ma l’indicativo è la scelta più frequente nel parlato comune. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Tra le varie accezioni di se troviamo, se non vado errata, quella di esprimere una causa, accostandosi pertanto alle funzioni di dato chedal momento che.
  
Muovendo da ciò, vi chiedo se tali frasi potrebbero essere ammesse: 
“Ti voglio bene, se (dato che) non potrei mai vivere lontana da te”;
“Se (dal momento che) non riuscirei mai a parlargli senza arrossire, puoi star certo che già da adesso provo qualcosa per lui”.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono perfettamente accettabili; in esse, se esprime la causa come un finto dubbio, cioè come un dubbio che è già stato risolto.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO

Non molto tempo fa ho letto su uno spazio di discussione una discettazione sui modi verbali da adottare con le completive oggettive, specie quando queste sono rette da verbi di opinione, percezione e simili.
Più di un utente osservava che in relazione a eventi futuri nella secondaria si debba adottare solo l’indicativo futuro e mai il congiuntivo presente, che è da circoscrivere alla contemporaneità tra reggente e secondaria. Applicando la regola tali frasi sarebbero quindi da penna rossa:

1. Credo che alla festa di stasera non partecipi nessuno.
2. Non penso che in un prosieguo di tempo tuo fratello utilizzi il dizionario.
3. Ipotizzo che entro dieci anni scompaiano del tutto le mezze stagioni.

Che ne pensate?

 

RISPOSTA

L’opinione che nella proposizione oggettiva con un evento al futuro si debba usare obbligatoriamente l’indicativo futuro è infondata. L’indicativo futuro è una variante pienamente accettabile, ma meno formale del congiuntivo presente. In generale, il congiuntivo è sempre il modo da preferire nelle completive in un contesto medio-alto nel parlato e anche medio-basso nello scritto. Bisogna riconoscere all’indicativo futuro una maggiore precisione nel descrivere un evento futuro rispetto al congiuntivo presente; tale vantaggio, però, è poco funzionale, visto che la contestualizzazione futura è ugualmente riconoscibile e, se necessario, ricostruibile attraverso strumenti lessicali come gli avverbi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere il Suo aiuto a propositi dei pronomi riflessivi.
1. Quali sono le forme toniche: metenoivoi?
2. È obbligatorio mettere la parola stesso? “Lavo me” o “Lavo me stessa”?
3. È riflessiva la forma “mi compro il vestito”? “Compro a me il vestito”?

 

RISPOSTA:

​1. Le forme toniche del pronome personale complemento di prima e seconda persona singolare e plurale (metenoivoi) coincidono con quelle dei pronomi riflessivi. In altre parole, i pronomi personali hanno funzione riflessiva quando il soggetto coincide con il complemento diretto: io lavo me (stesso) = io mi lavo. La sostituzione di io mi lavo con io lavo me (stesso) è, comunque, marcata: funziona solamente se il parlante vuole contrapporre me a qualcun altro (ad esempio: “Adesso lavo me, più tardi laverò te”). 
Solamente la terza persona singolare e plurale hanno un pronome riflessivo proprio, che è, per entrambe le persone,  nella forma tonica, si nella forma atona. 

2. L’aggettivo stesso accompagna spesso il pronome riflessivo nella lingua comune, ma non è quasi mai obbligatorio. Il caso più comune in cui è fortemente richiesto (quasi obbligatorio) è quando il pronome ha la funzione di complemento predicativo: “Non sono più me stesso” (*”Non sono più me”).

3. “Mi compro un vestito” non è propriamente una frase riflessiva, perché l’azione del verbo non ricade sul soggetto, ma su un complemento oggetto diverso (il vestito). Il pronome, in questo caso, esprime il beneficiario dell’azione, ed è costui che coincide con il soggetto. 
Sebbene questa sia la nostra posizione, va detto che secondo alcuni anche questa funzione rientra nell’ambito della riflessività (si veda, per esempio, http://www.treccani.it/enciclopedia/pronomi-riflessivi_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Mi è capitato di leggere alcuni periodi all’interno dei quali avrei sostituito determinate virgole scelte dall’autore di turno con i due punti (che ho inserito tra parentesi).
Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione in merito.
In fondo, sai, non c’è niente di recuperabile, (:) il tempo è volato via e le condizioni sono variate.
Era libera di uscire di casa, (:) i parenti erano tutti a dormire.
Ogni tre mesi cambiava città, (:) era questo l’unico modo di cui disponeva per non mettere radici.
Si sarebbe goduto la pensione, (:) leggere romanzi storici e passeggiare in campagna. 
Federico guardò Davide negli occhi, (:) ne vide la paura.
Aprì la porta di casa, corse in giardino, (:) c’era il sole, era primavera.
Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, (:) subito abbiamo iniziato a pescare…

 

RISPOSTA:

Come immagina, il terreno della punteggiatura, soprattutto in stralci dì’ambito narrativo-letterario, come quelli da lei proposti, è sdrucciolevole e non si presta a risposte seccamente binarie sì/no, giusto/sbagliato, bianco/nero. Ciò detto, mi pare che in tutti i casi da lei segnalati i due punti vadano meglio della virgola. In particolare:
– 1) “In fondo, sai, non c’è niente di recuperabile, (:) il tempo è volato via e le condizioni sono variate”: la seconda parte del brano in effetti è conseguenza della (o discende come caso specifico dalla) prima e dunque i due punti sono la scelta migliore. Andrebbe bene anche il punto e virgola, meno bene la virgola, dato il cambiamento di piano, appunto dalla constatazione generale (la prima parte) al caso dimostrativo particolare (la seconda).
– 2) “Era libera di uscire di casa, (:) i parenti erano tutti a dormire”. qui vanno bene tutti e tre i segni: virgola, due punti, punto e virgola, ma io preferisco i due punti, sempre per il rapporto logico di consequenzialità tra i due membri.
– 3) “Ogni tre mesi cambiava città, (:) era questo l’unico modo di cui disponeva per non mettere radici”: come 1: la virgola non va bene.
– 4) “Si sarebbe goduto la pensione, (:) leggere romanzi storici e passeggiare in campagna”. Come 2.
– 5) “Federico guardò Davide negli occhi, (:) ne vide la paura”: come 1.
 – 6) “Aprì la porta di casa, corse in giardino, (:) c’era il sole, era primavera”: come 1.
 – 7) “Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, (:) subito abbiamo iniziato a pescare…”: come 1.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi sarei grato se mi deste alcune indicazioni utili sulla composizione di comunicazioni formali. Innanzitutto vi domando quale formula sia da preferire tra io sottoscritto e il sottoscritto. Mi pare che le due soluzioni convivano. Ho sempre preferito la seconda, malgrado tuttora mi generi una qualche esitazione in termini di concordanza.
Credo che tutte le parti variabili del discorso che sono declinate in base al genere e al numero e siano riferibili al sottoscritto (verbi, aggettivi) debbano muovere dalla terza persona. Tutto ciò alle volte risulta innaturale, considerando che lo scrivente si riferisce a sé stesso.
 

Il sottoscritto xxx intende richiedere che il proprio indirizzo di posta elettronica sia modificato e che ogni messaggio ad egli (?) inviato sia… Il sottoscritto richiede inoltre che i suoi dati personali…
Resta (?) in attesa di un riscontro.
Porge (?) distinti saluti.

Questi sono solo alcuni esempi critici; ma in una comunicazione mediamente lunga i motivi di incertezza possono essere numerosi. 
Domando inoltre se esista un’alternativa alla ripetizione del sostantivo sottoscritto durante la stesura: è possibile usare il pronome egli (o ella in caso di sottoscritta)?
E un’ultima cosa, che prescinde dalla concordanza: nella chiusa delle comunicazioni formali non è raro trovare ringraziamenti per l’attenzione o il tempo dedicati. Quelle di seguito proposte sono tutte e cinque ammissibili?

Grazie per l’attenzione che mi dedicherete/dedicherà.
Grazie per l’attenzione che vorrete/vorrà dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che vogliate/voglia dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che mi avete/ha dedicata.
Grazie per l’attenzione che mi è stata dedicata.

 

RISPOSTA:

​La comunicazione scritta del tipo da lei indagato è talmente formale da essere formalizzata, cioè popolata di espressioni cristallizzate, che la configurano come ingessata e, per certi versi, come inelegante. Il primo punto critico è propio la formula di responsabilità, che, come già rilevato da lei, può essere Il sottoscritto / La sottoscritta + nome o Io sottoscritto / La sottoscritta + nome. 
La prima variante è quella più tradizionale; fa riferimento alla firma in calce, alla quale si demanda la dichiarazione della responsabilità sul contenuto della comunicazione, come se si dicesse ‘Quel Fabio Ruggiano che ha firmato questo scritto’. Porta con sé, però, la stranezza di dover continuare tutto lo scritto in terza persona, mentre si parla di sé; pena la perdita della coreferenza (*Il sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro…). In realtà questa stranezza è proprio ricercata e fa parte di quel formalismo di cui sopra: parlare in terza persona rende la comunicazione estremamente distaccata e oggettiva, come se lo scrivente non fosse direttamente interessato al contenuto della comunicazione, sebbene abbia dichiarato di esserne responsabile con il rimando alla firma. In questo contesto, che è ovviamente simbolico e non deve dar conto solamente delle esigenze comunicative, continuano ad avere piena cittadinanza forme obsolete nella lingua comune, come i pronomi egli e ellacostui e costeicodesto e codesta
L’innaturalezza della costruzione in terza persona, in un’epoca in cui il formalismo nella comunicazione è quasi sparito in tutti i campi, ha reso insopportabile la formula il sottoscritto / la sottoscritta; gli scriventi hanno, così, deformato appena la formula ottenendo quella che sembrava la soluzione più semplice: Io sottoscritto / Io sottoscritta. Con questo cambiamento minimo, la terza persona diviene prima persona: Io sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro… Inutile dire, però, che il formalismo in questo modo si perde, mentre si mantiene solamente la superficie di una formula a questo punto davvero stantia e grammaticalmente discutibile: Io sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro, infatti, corrisponde a ‘Io Fabio Ruggiano che sono scritto sotto dichiaro’ (senza virgole). Dal punto di vista grammaticale, quindi, la costruzione è sciatta, dal punto di vista logico è ridondante: non c’è motivo, infatti, di rimandare alla firma se si sta già dichiarando la propria responsabilità parlando in prima persona. A questo punto, tanto vale eliminare sottoscritto e mantenere l’essenziale, facendo una scelta di vera semplificazione: Io, Fabio Ruggiano, dichiaro…
In astratto, oggi le varianti Il sottoscritto / La sottoscritta Io sottoscritto / Io sottoscritta sono ugualmente accettabili; la scelta tra le due è una questione di stile, nella quale potrebbero (o no) avere un peso le osservazioni fatte sopra. La variante Io, + nome, (la virgola fa parte della formula) è chiaramente la meno formale ed è attualmente la scelta meno scontata (ma a mio parere perfettamente legittima).
Per quanto riguarda le formule di commiato, infine, tutte le varianti da lei presentate sono valide, ma sono da posizionare in una scala di formalità. Dalla più alla meno formale troviamo: 

Grazie per l’attenzione che vogliate/voglia dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che vorrete/vorrà dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che mi dedicherete/dedicherà.
Grazie per l’attenzione che mi è stata dedicata.
Grazie per l’attenzione che mi avete/ha dedicata.

Nell’ultima si consideri anche la possibilità di non concordare il participio passato (che mi avete / ha dedicato). Su questo punto rimando alle tante risposte dell’archivio di DICO che se ne sono occupate.
Riguardo alla prima, sottolineo che in questa forma suona un po’ innaturale, perché la proposizione ipotetica (o in questo caso relativa con sfumatura ipotetica) al congiuntivo presente è rara: al presente si usa quasi sempre l’indicativo. Non la scarterei, però, ma la renderei o ancora più formale, aggiungendo il pronome soggetto (Grazie per l’attenzione che voi vogliate / lei voglia dedicarmi), in modo da allontanarla totalmente dalla lingua comune e configurarla come un’espressione del tutto formalizzata; o più comune, con il congiuntivo imperfetto: Grazie per l’attenzione che voleste / volesse dedicarmi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Vi auguriamo di vivere a pieno la bellezza di questo nuovo viaggio impregnato di conoscenza e relazioni positive”, vorrei sapere se prima di impregnato bisogna inserire una virgola.

 

RISPOSTA:

​La virgola non è obbligatoria, ma probabilmente è la scelta migliore nel suo caso. Senza virgola, la frase suppone che il viaggio sia già di per sé impregnato, mentre con la virgola questa qualità diventa subordinata all’augurio. Per rendere più trasparente la differenza, è possibile esplicitare la proposizione relativa “contenuta” nel participio passato:
“Vi auguriamo di vivere a pieno la bellezza di questo nuovo viaggio che è impregnato di conoscenza e relazioni positive”.
“Vi auguriamo di vivere a pieno la bellezza di questo nuovo viaggio, che è impregnato di conoscenza e relazioni positive”.
Addirittura, la presenza del verbo augurare favorisce una interpretazione ancora più ottativa della variante con la virgola, come se dicesse:
“Vi auguriamo di vivere a pieno la bellezza di questo nuovo viaggio, che sarà certamente impregnato di conoscenza e relazioni positive”. 
Detto questo, mi permetto di fare un appunto stilistico: il termine impregnato suona, in questa frase, un po’ troppo enfatico, quindi artificioso. Una riformulazione più sobria sarebbe, secondo me, più efficace. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere che in queste frasi la particella ci ha valore avverbiale o idiomatico:

1. Per cuocere la pasta al dente CI vogliono 8-10 minuti. 
2. Per arrivare in centro con l’autobus CI metto venti minuti. 
3. Ieri abbiamo provato a connetterci con i nostri amici all’estero, ma non CI siamo riusciti.
4. Non parlare così forte. CI sento benissimo! 

 

RISPOSTA:

​La distinzione tra valore avverbiale e valore idiomatico non è chiara. Immagino che lei intenda accertare quando ci abbia la funzione propria di pronome e quando, invece, si unisca al verbo per fargli prendere un nuovo significato. In ogni caso, ci non ha mai la funzione di avverbio, anche se a volte è semanticamente equivalente a un avverbio di luogo: “Ci sono andato ieri” = “Sono andato  / in quel posto ieri”.
Nelle frasi da lei proposte, ci è un pronome solamente nella 3, nella quale riuscirci significa ‘riuscire a fare questa cosa’. Nelle altre frasi, ci si fonde con i verbi e non è più semanticamente separabile da essi, producendo 1. volerci ‘richiedere’, 2. metterci ‘impiegare’, 4. sentirci ‘avere il senso dell’udito in una certa condizione’. Questi verbi formati con l’aggiunta di un pronome atono sono detti procomplementari: troverà ulteriori informazioni al riguardo nelle FAQ  Ci penso e ci ripenso: le costruzioni del verbo “pensare”, “Ci si dimentica” come funziona la costruzione impersonale e Non è possibile “starsene” tranquilli con i verbi pronominali dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Locuzioni e congiunzioni che normalmente richiedono il congiuntivo possono talvolta introdurre proposizioni al condizionale – oltreché all’indicativo futuro – specie se assumono, per così dire, un valore simile a quello delle apodosi del periodo ipotetico quando la protasi è sottintesa?
Alludo principalmente a è probabile chepurchéa patto chea condizione chenon è detto chesempre che e simili.

1. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vincerebbe.
2. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) sarebbero abilitati a svolgere questi lavori.
3. Vorrei al caso rivolgermi al professore, a patto che sarebbe propenso a ricevermi.
4. Non è detto che capirà.

Quali elementi devono essere tenuti in considerazione per stabilire in autonomia quando tali usi siano eventualmente corretti? E Inoltre, l’uso del congiuntivo sarebbe comunque valido nei primi tre esempi o
stravolgerebbe il senso generale delle costruzioni?

a. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vinca.
b. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) siano abilitati a svolgere questi lavori.
c. Vorrei eventualmente rivolgermi al professore, a patto che sia propenso a ricevermi.

 

RISPOSTA:

Lei mette insieme due costrutti apparentemente analoghi, ma che, invece, sono diversi e comportano una diversa organizzazione della frase. Da una parte abbiamo costrutti impersonali come è probabile che e non è detto che, che reggono una proposizione completiva soggettiva; dall’altra abbiamo congiunzioni come purchéa patto chea condizione chesempre che, che sono tutte varianti, con varie sfumature semantiche, di se introduttore di una proposizione subordinata ipotetica. 
La proposizione soggettiva può avere il condizionale, la ipotetica no, quindi le frasi 1 e 4 sono ben costruite, la 2 e la 3 sono scorrette. Rispetto alla 1, la variante a è più formale (la variante più formale della 4 sarebbe “non è detto che capisca”), rispetto alla 2 e alla 3, le varianti b e c sono quelle corrette.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggevo che l’avverbio più può determinare un verbo. In frasi come queste: “la città merita di più”, l’avverbio più non ha un valore comparativo? Cioè, ci sono situazioni in cui più è solamente un avverbio di quantità senza essere comparativo o superlativo?

 

RISPOSTA:

​Come avverbio, o anche aggettivo (in frasi come “ho bisogno di più tempo”), più è sempre comparativo o superlativo. Instaura, cioè, un rapporto tra due termini o tra un termine e un gruppo di riferimento, anche quando l’altro termine del rapporto, o il gruppo di riferimento, siano sottintesi: “la città meria di più (di quanto abbia avuto finora)”, “Luca è il più forte (tra tutte le persone del mondo)”.
Anche quando è usato in espressioni negative, per indicare un evento che cessa di avvenire, in realtà stabilisce un rapporto tra due termini, in questo caso un prima e un dopo: “non lo faccio più” = ‘non aggiungo altro rispetto a quanto già fatto’, quindi ‘da ora il mio agire in questo modo sarà meno (= non sarà di più) di quello precedente’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del verbo guadagnare con il pronome ci. Perché si dice: “Cosa ci guadagni a comportarti così male?”; perché si usa il pronome ci? È obbligatorio? E cosa significa la frase cosi?

 

RISPOSTA:

​Il pronome atono ci in guadagnarci può avere due funzioni diverse, corrispondenti a due diversi significati del verbo. Può servire a riprendere o anticipare il tema dell’enunciato nel quale è inserito: in “Dalla vendita della casa ci ho guadagnato poco” il tema (dalla vendita della casa) è ripreso da ci; in “Ci ho guadagnato poco dalla vendita della casa” il tema è anticipato. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a sinistra, ripreso da un pronome, o a destra, anticipato da un pronome, è nota come dislocazione e serve a mettere in evidenza proprio il tema; quella a sinistra, in particolare, è utile per collegarlo meglio al co-testo precedente, quella a destra, invece, funziona meglio per creare effetti retorici di ironia o polemica.

Più spesso, però, guadagnarci è un verbo procomplementare; rientra, cioè, in quel gruppo di verbi formati con una o più particelle pronominali che assumono, proprio in forza di queste particelle, dei significati diversi dal verbo base. Tra questi verbi troviamo, per esempio, farcelamettersivedersela e moltissimi altri. Come si può vedere dagli esempi, in questi verbi le particelle sono fuse con il verbo e non hanno una funzione sintattica identificabile; allo stesso tempo, dagli esempi si ricava che questi verbi sono particolarmente appropriati a contesti informali, nei quali rappresentano alternative brillanti a verbi più formali dal significato analogo (per esempio farcelariuscire, mettersi a / iniziare avedersela con / affrontare). Lo stesso vale per guadagnarci, che non è la variante informale di guadagnare, ma corrisponde piuttosto a ottenere; se, infatti, guadagnare riguarda un profitto materiale, guadagnarci si riferisce a un vantaggio astratto. Da questo significato di base, inoltre, guadagnarci ha sviluppato quello relativo all’aumento di valore, che emerge in una frase come “Con la costruzione della fermata della metropolitana la zona ci ha guadagnato”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Vi chiedo un parere su una interpretazione di un avverbio in questa frase:
“La percezione del corpo può cambiare in modi davvero insoliti: come dicevamo prima, puoi sentirti gigantesco o piccolo; talvolta ti sembra che il naso (dove la sensazione del respiro è spesso più forte) si sia spostato sul cuore o si sia staccato dal corpo, come se la respirazione si fosse trasferita a qualche passo di distanza.
La domanda è questa: “spesso”, significa nella frase tra le parentesi, che molte persone lo sentono in quella zona del corpo essendo sicuramente un punto importante nella respirazione, oppure  accade che tante volte  una singola persona lo senta in quel punto?

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le interpretazioni. A rigore, quella più “letterale” (spesso = frequentemente, molte volte) sarebbe ‘accade tante volte che una singola persona…’; tuttavia, dato che il concetto di ‘molte volte’ (a una sola persona) sconfina “spessissimo” in quello di ‘molte volte a più persone’, è assai frequente imbattersi in significati ambigui, che però nel 99% dei casi vengono disambiguate dal contesto.  Anche nel suo caso, direi al 99% che il contesto extralinguistico e le mie scarsissime cognizioni laringoiatriche autorizzano come interpretazione privilegiata ‘nella maggior parte degli esseri umani’. Tra i 1000 esempi possibili, oltre al suo, le posso citare il seguente, colto a caso online: «L’apparato ideologico-organizzativo è avvertito spesso come incombente, ma altrettanto necessario. Di qui, molti vissuti di frustrazione, nervosismi diffusi, che ognuno vive ed esprime secondo le differenti condizioni soggettive di partenza». Spesso ‘più volte da una persona sola’ o ‘da persone diverse’. Il senso, e il prosieguo del discorso (moltiognuno), previlegiano la seconda interpretazione: ‘da più persone’.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le soluzioni di seguito avanzate sono tutte consentite? Quale prevale sulle altre in termini di conformità grammaticale?
La paura che Giorgio disse di aver sperimentato…
a) era stata quella di perdere la propria dignità
b) era quella di perdere la propria dignità
c) è stata quella di perdere la propria dignità
d) fu quella di perdere la propria dignità
e) è quella di perdere la propria dignità.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle cinque alternative è del tutto inaccettabile, sebbene alcune sembrino un po’ scolastiche e forzate.
Un primo problema è nella complessa reggenza sintattica che disse di… era quella di…, decisamente faticosa. Un secondo problema è nella frase pseudoscissa: “la paura è quella di”, piuttosto che un piano “Giorgio … sperimentato la paura di”. Un terzo problema è nella natura del verbo essere quando non ha un valore pienamente temporalizzabile, ma generico e quasi grammaticalizzato, come appunto accade nelle frasi scisse e pseudoscisse o anche nelle considerazioni di carattere generale e quasi universale.
Commisurando tutti questi problemi, la soluzione a) sembra forse la migliore, perché rende minutamente conto della consecutio temporum. Anche la b) va bene perché la genericità del verbo essere in questo caso giustifica una deroga alla resa minuziosa della consecutio, anche perché la paura di perdere la dignità è una paura di allora come di ora, forse, cioè l’uso del verbo essere è qui quasi acronico, o aoristico, nella generalità dell’affermazione “perdere la dignità”. Per spiegarmi meglio, certe affermazioni hanno una loro valenza di là dal momento contingente: se io dico “dissi che per me la paura è quel sentimento che” ecc. ecc., non avrebbe senso dire “fu quel sentimento”, al massimo potrei dire “era”, ma comunque la considerazione ha valore adesso come allora.
Per questo motivo la c) e la d) sono le soluzioni meno felici, perché forzano a una temporalità troppo rigida la constatazione di carattere generale. La e) invece andrebbe bene quasi quanto la b), se non fosse che l’insistito uso del passato in disse e aver sperimentato rende questo presente un po’ forzato: uno scrittore cavilloso (troppo) potrebbe eccepire: chi ti dice che la paura di perdere la dignità che Giorgio aveva allora ce l’abbia tuttora?
In conclusione, così com’è il periodo non autorizza a escludere che la paura di perdere la dignità sia una paura generale (valida sempre, allora come ora, per chiunque ecc.) o contingente, in riferimento a quel momento specifico della vita di Giorgio.
Ribadisco comunque che l’intero periodo, con qualsivoglia alternativa delle cinque, risulterebbe un po’ faticoso, sia per il verbo sperimentare (perché non provare?), sia per il doppio salto mortale sintattico del dire di avere avuto paura e di specificare che la paura è quella di… Sarebbe auspicabile una semplificazione del tipo: “Giorgio ebbe paura si perdere la dignità. Una paura mai provata prima”, o qualcosa di simile (anche propria è pleonastico: di chi altri sarebbe la dignità se non la sua?).
 
Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si può scrivere: con che macchina, con che faccia, etc….oppure è corretto scrivere: con quale macchina, con quale faccia…. Sono accettabili entrambi?

 

RISPOSTA:

Sì, sebbene che sia lievemente meno formale e meno accetto ai puristi. Con buona pace di questi ultimi, tuttavia, l’aggettivo interrogativo ed esclamativo che, sempre più spesso e in tutti i livelli di lingua, sta sostituendo quale, anche in certe espressioni (quasi) idiomatiche: “quale onore!” > “che onore!”. Ma regge ancora, per esempio, in: “Qual buon vento ti porta?”.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo un periodo complesso con alcune soluzioni sintattiche su cui vi sarei grato se vi pronunciaste.
Tu dovrai mantenere la calma e isolare a uno a uno tutti i cavi di alimentazione. Dopo un’ora sarà il momento di attendere il segnale convenuto; a quel punto il lavoro
1. sarà stato completato [evento certo, concluso, pertanto anteriore a quello del “segnale convenuto”]
2. dovrebbe essere stato completato 
3. sarebbe stato completato [implicito: se non fossero subentrati inconvenienti]
4. sarebbe completato [implicito: se non subentrassero inconvenienti].

 

RISPOSTA:

Vanno senz’altro bene le due prime frasi, sebbene la seconda esprima in più un valore epistemico (di possibilità): potrebbe anche non essere completato, se qualcosa non funziona o non ha funzionato. In questo caso andrebbe bene anche “dovrebbe essere completato”.
La 3 suona un po’ innaturale, sebbene possibile, per esprimere la possibilità di inconvenienti però meglio espressa con la 2.
La 4 è possibile, sebbene suoni anch’essa più innaturale della 2.
Aggiungo una 5a possibilità, cioè quella al semplice futuro: “sarà completato”, che è la migliore di tutte, visto che il futuro anteriore con valore di anteriorità nel futuro è davvero poco usato, nell’italiano odierno. Inoltre, visto che le indicazioni procedurali presenti nell’esempio hanno il sapore di un’azione che si sta svolgendo quasi in tempo reale, o comunque in un futuro immediato, o proiettato nel presente, sarebbe possibile (e e preferibile) esprimere tutto al presente:
“Devi mantenere la calma e isolare a uno a uno tutti i cavi di alimentazione. Dopo un’ora è il momento di attendere il segnale convenuto; a quel punto il lavoro è completato”.
Concludo che, anche nel suo esempio con i verbi al futuro, la conclusione “il lavoro è completato” va bene, anzi è la migliore.
 
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vi chiedo se è corretto scrivere luogo e data in basso a sinistra, ad esempio:
I sottoscritti genitori _______ dell’alunno _____ autorizzano il proprio figlio a partecipare a ______
Milano, 30/08/2019                 Firma ___________

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. L’indicazione del luogo e della data in un messaggio possono andare sia all’inizio sia alla fine, sia a destra sia a sinistra, sia prima (più spesso) sia dopo (più raramente) la firma. Sono soltanto consuetudini scrittorie, convenzioni e stili diversi, ma nessuno può essere considerato più giusto, né più sbagliato, dell’altro.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Leggevo in un giornale: “è anni che il marito la tradisce”. E’ accettabile, oppure è corretto scrivere solamente: “sono anni che il marito…”

 

RISPOSTA:

Il costrutto da Lei segnalato “è anni che” è detto, in linguistica, frase scissa, ed è molto frequente (almeno a partire dal Settecento) e molto studiato. Serve a dare maggiore rilievo, a mettere in evidenza, a focalizzare, la parte dell’enunciato subito dopo il verbo essere. Benché si possa trovare in ogni tipo di lingua, è chiaro che, al pari degli altri costrutti di sintassi marcata, la frase scissa sia più frequente, e appropriata, in quei tipi di testo in cui sale l’esigenza di coinvolgere l’attenzione dell’interlocutore, o anche in quelli in cui è necessario ripristinare la coesione riagganciandosi a quanto già detto. Pertanto, il regno delle frasi scisse saranno, per esempio, i testi giornalistici e anche alcuni tipi di testo più informali, più vicini alla mimesi del parlato. Ma, a differenza di altri costrutti marcati (come le dislocazioni a destra o gli anacoluti), le frasi scisse si trovano anche in testi letterari e molto formali, proprio come tecnica di coesione e di focalizzazione. Proprio perché il verbo essere e il che sono, per dir così, abbastanza desemantizzati e grammaticalizzati, cioè utili al fenomeno della focalizzazione (si tratta infatti di un che pseudorealtivo, e non relativo puro, come dimostra l’impossibile sostituzione con il quale), non è infrequente, nell’italiano di ieri e di oggi, incontrare l’accordo di è singolare con un soggetto plurale, perché, come ripeto, il verbo serve qui a introdurre qualcosa da focalizzare (focus), indipendentemente dal suo ruolo sintattico. Per es., nelle quattrocentesche lettere di Alessandra Macinghi Strozzi (nel CD della Biblioteca italiana Zanichelli) leggo: “ma egli è anni che tu cominciasti a fare delle cose non ben fatte”. È chiaro che la forma senza accordo (“è anni che”) sia da intendersi come la soluzione meno formale, meno adatta a un testo scritto ufficiale, ma comunque possibile e non scorretta tout court.
Ciò detto, possiamo provare a istituire una sorta di scala di formalità, dal più al meno formale, per esprimere un concetto analogo:
1. il marito la tradisce da anni
2. sono anni che il marito la tradisce
3. è anni (o anche “è da anni”) che il marito la tradisce.
Aggiungo in coda che recentemente m’è capitato di studiare un fenomeno analogo, sempre sul terreno del labile accordo nelle frasi scisse. Il verso, splendido, è nella conclusione del Falstaff di Verdi/Boito: “Son io che vi fa scaltri”. In questo caso ci si aspetterebbe l’accordo “faccio”, ma proprio la natura della focalizzazione pseudorelativa consente di considerare quel che come una ripresa neutra, svincolata da quanto riprende. In verità, il discorso sarebbe ben più complesso, ma questa è un’altra storia.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

È possibile utilizzare il termine  discorsivo nell’ambito di un attività dove la percezione del tempo risulta discorsiva( nel senso di scorrevole)? esempio: una coda discorsiva.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano antico, il termine discorso (da dis-correre, cioè ‘correre qua e là, muoversi, spostarsi’ e simili) aveva una quantità di significati anche non legati al parlare, cioè al significato moderno, bensì agli spostamenti nel tempo e nello spazio. Pertanto, erano possibili espressioni quali “in discorso di tempo”, cioè ‘con il passar del tempo’; “in discorso d’anni” (Ariosto) ecc. (citazioni tratte dal Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Garzanti).
L’aggettivo discorsivo, che è termine un po’ meno antico, è più legato al discorso come lo intendiamo noi, per cui i riferimenti all’etimo originario dello spostarsi nel tempo o nello spazio sono più difficili, ma comunque sempre possibili, a patto di evitare le ambiguità. In assenza di un contesto maggiore, per esempio, io non potrei che interpretare il suo coda discorsiva come ‘fine di un discorso, in coda a un discorso’. Ma, come ripeto, nulla vieta, magari per amor d’arcaismo e di significati peregrini, di intenderlo, nel dovuto contesto, come ‘la fine dello scorrere del tempo’ e simili.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Provo a riassumere le cose:
Con l’avverbio NE e obbligatorio la concordanza se c’e solo un pronome indefinito o un numerale:
Delle banane ho comprata una/ho comprate due/ ho comprate molte, parecchie.
Ma se c’e una quantità: pagina, chilo, pezzi, fette: come va l’accordo? Cioè non posso concordare con il soggetto se c’e la quantità come oggetto.
Delle arance ne ho presi due chili. va bene con la concordanza con la quantità.
Ne ho preso due chili. va bene-non è obbligatorio la concordanza, il participio rimane invariato
Ne ho prese due chili. non va bene, non posso concordare con le arance, o rimane invariato il participio o va concordato con la quantità.
Mi scusino per insistere su questo punto, insegno l’italiano e ho spiegato secondo le vecchie regole questo uso e adesso quando mi correggo non voglio sbagliare di nuovo.
Adesso sono nel giusto?

 

RISPOSTA:

I suoi dubbi sono più che legittimi, anche per un madrelingua, dal momento che l’accordo con il ne è uno dei punti d’ombra della nostra grammatica, ovvero uno di quelli poco normati e in cui gli usi valgono più delle regole. Le risposte presenti nell’archivio di DICO sull’argomento (si vedano almeno le domande “Ancora sull’accordo con “ne” e Ancora sull’uso del ne: con o senza accordo del participio passato con l’oggetto? ) riflettono le scelte più comuni e quelle che non destano alcuna reazione negativa nella gran parte dei parlanti. Tutti gli altri usi che cita Lei sono in realtà pure attestati, ma non da tutti condivisi. Pertanto, riassumendo a partire dalle sue parole: tutto vero quello che scrive nella prima parte del suo messaggio. Per quanto riguarda la seconda parte, ovvero in presenza di un quantificatore, la scelta più comune (e dunque da me suggerita) è quella dell’accordo con l’oggetto. Quindi:
“Delle arance ne ho presi due chili” va bene sempre. Le altre due possibilità suscitano qualche perplessità nei parlanti e nei grammatici: “Ne ho preso due chili” (più frequente, ma meno formale) e “Ne ho prese due chili” (più rara).
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Facendo un piccolo ritorno all’uso di NE vorrei chiedere se queste forme sono giuste con l’accordo e se esso *è obbligatorio*:
Come sono i libri di Moravia? Buonissimi!          Ne ho letto uno.
Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni.  // *Ne ho letto due/molti/parecchi… ???*
Non mi piacciono.         Non ne ho letto nessuno.
Non ne ho letto nessuna (delle poesie)
Come sono le banane? Buonissime!       Ne ho presa una. // *Ne ho preso una. ???*
Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune. // *Ne ho preso molte/tante…
???*
Non mi piacciono.       Non ne ho mangiata nessuna. // *Non ne ho mangiato nessuna.  ???*
*E in questo caso e obblagatorio la concordanza o possiamo prescinderne?*
Hai comprato del vino?               Sì, ne ho comprato. /ne ho comprato
Hai comprato della pasta?          Sì, ne ho comprata. /ne ho comprato
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati. /ne ho
Hai comprato le mele?                   Sì, ne ho comprato / i due chili.
Alla domanda: Hai mangiato del pane? Hai preparato degni gnocchi?
qual e la risposta giusta?
Si, l’ho mangiato. o : Si, ne ho mangiato.
Si, li ho preparati. o Si, ne ho preparato. / ne ho preparati alcuni.

 

RISPOSTA:

Rispondo caso per caso:
“Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno”: va bene la forma al maschile singolare: uno si riferisce a libroBuonissimi però non è adatto ai libri, ma a qualcosa che si mangia, o altro, ma non ai libri. Meglio Bellissimiinteressantissimiottimi o altro.
“Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni”: l’accordo al plurale è fortemente richiesto, anche se nell’uso informale esiste la variante senza accordo: “Ne ho letto due”.
“Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno”: va bene.
“Non ne ho letto nessuna (delle poesie)”: vale lo stesso che per “Ne ho letto / letti due”, l’accordo al femminile è corretto; la variante senza accordo è ammessa ma meno formale.
“Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una”: va bene con accordo.
“Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune”: va bene accordato.
“Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna”: va bene con accordo.
“Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato”. “Ne ho comprato” va bene, ma andrebbe bene anche: “sì, l’ho comprato”, visto che il partitivo di qualcosa di cui non ci specifica la quantità si presta sempre ad essere interpretato come un intero, a meno che non si specifichi un peso preciso, o una misura ecc., per es.: “Sì, ne ho comprati due litri”, meglio di “ne ho comprato due litri”. Sarebbe scorretto, invece, in questo caso: “L’ho comprato due litri”, appunto perché in presenza di quantità va specificato il partitivo ne.
“Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata”: identico al discorso fatto sopra per il vino: se non si specifica la quantità il partitivo è inutile, e dunque si può rispondere anche: “Sì, l’ho comprata”, ma: “Ne ho comprati due chili”, meglio di “ne ho comprato due chili”. Possibile in astratto, ma rarissima, anche la variante “Ne ho comprata due chili”, con il participio accordato con pasta.
“Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati”: come sopra.
“Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili”. La forma più corretta è “Ne ho comprati due chili”, ma andrebbe bene, in astratto, anche “Ne ho comprate due chili”, con l’accordo con mele. Più informale, ma possibile, “Ne ho comprato due chili”, senza accordo.
Quanto infine alle ultime due domande, entrambe le risposte alla prima sono giuste, per il discorso fatto sopra sulla quantità non specificata. Alla seconda domanda, sono corrette, per lo stesso motivo, tutte le varianti; tra “Ne ho preparati alcuni” e “Ne ho preparato alcuni” la prima è più formale.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del pronome ne. Come si sa, si può concordarlo sia con il sostantivo sia con la quantità: “Delle caramelle ne ho comprate tre / ne ho comprati due chili”. Mi pare che anche le seguenti frasi abbiano due risposte giuste.
1. Ho tutti i libri di Harry Potter in fila in libreria e ne ho regalato / regalata qualche copia agli amici.
2. Mi sono addormentato guardando la tv e del film ne ho visto / vista solo una parte.
3. Ne ho bevuto / bevuti due bicchieri (di vino).
4. Ne ho bevuta / bevuto un bicchiere (della birra).
5. Ne ho mangiata / mangiate due fette (della torta).

 

RISPOSTA:

Come spiegato in questa risposta dell’archivio, il participio passato dei verbi transitivi preceduto dal pronome ne può concordare con il complemento oggetto oppure rimanere invariato (quest’ultima possibilità è meno formale) . Tutte le sue frasi, quindi, ammettono entrambe le soluzioni: “Delle caramelle ne ho comprate tre” (con comprate concordato con caramelle, sottinteso accanto a tre ) e “Delle caramelle ne ho comprato tre” (con comprato invariabile) . “Delle caramelle ne ho comprati due chili” e “Delle caramelle ne ho comprato due chili”. L’accordo con il referente di ne, pur attestato, è la soluzione più rara (e in alcuni casi risulta artificiosa) : “Ne ho bevuta un bicchiere (della birra) “; più comune: “Ne ho bevuto un bicchiere (della birra) “, perché la forma bevuto è sia quella invariabile, sia quella concordata con il complemento oggetto, un bicchiere. Lo stesso vale per la frase 5: le due forme ineccepibili sono mangiate (concordato con il complemento oggetto, due fette ) e mangiato (invariabile) ; mangiata suscita perplessità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una conversazione informale può essere accettata una frase come “Se vuoi, domani fammi sapere come è andato il provino”? Come dovrebbe essere formulata la stessa frase in un contesto più formale?

 

RISPOSTA:

La variazione diafasica (cioè le differenze tra ambito formale e informale) non va enfatizzata. A volte, un enunciato va benissimo in entrambi gli ambiti, com’è il caso del suo. Presupposto che vi sia un rapporto tra pari tra gli interlocutori (come testimonia l’uso del Tu in luogo del Lei come allocutivo), l’enunciato non ha alcuna necessità d’esser “sollevato” stilisticamente. Ovviamente, sono sempre possibili alternative, ma che suonerebbero stonate, a mio avviso, come per esempio la sostituzione (qui fuori luogo) dell’indicativo con il congiuntivo: “come sia andato”. Si potrebbe anche eliminare, dandolo per scontato, l’inciso iniziale con funzione di segnale discorsivo incipitario: “Se vuoi”. Si potrebbe anche trasformare l’enunciato da discorso diretto a indiretto (o proiettato, come lo chiamerebbe Halliday), e con sostituzione del presente con il futuro, a rendere meno perentoria la richiesta all’imperativo: “ti prego di farmi sapere come andrà il provino”. E mille altri cambiamenti sono possibili. Ma ripeto: il troppo stroppia. Perché mai accanirsi a modificare (o innalzare) ciò che funziona benissimo così com’è, in tutti gli ambiti?
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si può usare il “perché” in una frase a sé per non fare una domanda, ma per affermare? 
Es.: “Domani non andremo al mare. Perché non ho voglia”.

 

RISPOSTA:

Sì, si può usare. Sicuramente il punto che separa una subordinata dalla reggente è la soluzione meno formale, e più espressiva, adatta per esempio a un articolo giornalistico piuttosto che a un saggio critico, nel quale si opta di solito per una maggiore coesione sintattica. Questo in linea di massima. Per essere più specifici, la subordinata causale è solitamente tra quelle più solidali con la reggente, cioè il cui significato (la causa, la conseguenza di qualcosa, appunto) più delimita il significato della reggente, e per questo motivo si tende a non separare con una virgola la causa dall’effetto. Tuttavia subentra talora l’esigenza di dare pari valore sia alla causa sia all’effetto, e in casi simili il punto aiuta proprio a non mettere in secondo piano, in ombra, la causa rispetto all’effetto. Pare proprio questo il senso dell’enunciato da Lei riportato, nel quale il non aver voglia ha pari importanza, se non addirittura superiore, rispetto al non andare la mare. Lo stesso enunciato senza la virgola conferirebbe meno valore al non avere voglia: “Domani non andremo al mare perché non ho voglia”, in cui la prima parte del periodo ha decisamente più importanza della seconda.
A queste ragioni si aggiunga che talora il perché causale ha in italiano non tanto il valore della causa in sé (cosiddetta causa de re), quanto della causa del dire o pensare una determinata cosa (cosiddetta causa de dicto). Questo secondo valore del perché (causa de dicto), usualmente più comune nel parlato che nello scritto, o nello stile colloquiale piuttosto che in quello formale, è preferibilmente separato da un punto rispetto alla reggente. L’esempio classico del perché de dicto è il seguente: “Piove. Perché prendo l’ombrello”. La causale “perché prendo l’ombrello” non è la causa del piovere (semmai ne è l’effetto), bensì del mio dire, o ipotizzare, che piove.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

Per la possibilità di essere  analizzato, in una frase come: “per la verità partirò domani”, il sintagma “per la verità”, si può considerare complemento di causa oppure di fine?

 

RISPOSTA:

“Per la verità” è un segnale discorsivo che serve a conferire una modalità epistemica al verbo, dal quale dunque non dipende tramite una reggenza sintattica (il per non è come in “passo per la porta” , ovvero non è dipendente dal verbo ma parte integrante della locuzione avverbiale “per la verità”), bensì tramite un rapporto semantico-testuale. In altre parole, non è in gioco qui la sintassi, bensì la testualità. Motivo per cui NON si deve qui applicare l’analisi logica, bensì altri tipi di analisi, cioè quella pragmatico-testuale. Come detto più e più volte in molte risposte di DICO, la tassonomia dei complementi non va applicata acriticamente a tutti i sintagmi della frase. Questo ne è un caso tipico.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La congiunzione finché gode della stessa libertà sintattica di appena (come illustrato nel vostro intervento 2800305) e di quando? Includo dati esempi:

aspetterò / aspetto finché venga;
aspetterò / aspetto finché viene;
aspetterò / aspetto finché è venuto;
aspetterò / aspetto finché sia venuto;
aspetterò / aspetto finché verrà;
aspetterò / aspetto finché sarà venuto.

Se il predicato della principale non è di modo indicativo, ma condizionale, sono comunque possibili molte delle soluzioni sopra prospettate?

aspetterei finché venga;
aspetterei finché viene;
aspetterei finché verrà;
aspetterei finché sarà venuto;
aspetterei finché è venuto;
aspetterei finché sia venuto;
aspetterei finché venisse;
avrei aspettato finché fosse venuto;
avrei aspettato finché venisse.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti dei due blocchi da lei proposte sono accettabili, anche se non ugualmente frequenti. Come sempre, quelle con il congiuntivo sono più formali di quelle con l’indicativo. 
Particolarmente inattese quella con il passato prossimo, che unisce una struttura sintattica sofisticata a una realizzazione superficiale non curata, e quella con la reggente al condizionale passato e la subordinata al congiuntivo imperfetto (piuttosto comune, invece, quella con il congiuntivo trapassato). 
​Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”.  Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (luileite) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si parla spesso del condizionale composto in relazione al futuro nel passato. 
Il periodo “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1986) si sarebbe potuto recare a Venezia” 
dovrebbe essere dunque corretto. Mi immagino che si possa affermare altrettanto di “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia”. 
Omettendo le specifiche incluse tra parentesi – utili nel mio caso per semplificare l’enucleazione del concetto – i due periodi risultano identici, malgrado lo stesso predicato verbale si agganci prima al futuro (nel passato) e poi al passato. 
Mi domando se ci siano, per così dire, accorgimenti linguistici che permettono di decifrare la giusta semantica in assenza di elementi di “co-testo”. 

 

RISPOSTA:

I due periodi sono entrambi ben, formati, ha ragione lei. Qui infatti il condizionale serve non tanto a indicare il futuro nel passato, quanto la modalità epistemica (cioè la probabilità) del verbo recarsi, ribadita dal verbo servile potere. Infatti, se eliminassimo potere, vedrebbe come il condizionale, stavolta per indicare esclusivamente il futuro nel passato, sarebbe corretto soltanto nel primo caso, ma non nel secondo:
1) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1986) si sarebbe recato a Venezia”;
2) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si ERA RECATO a Venezia”.
Sarebbe, con molte difficoltà, forse possibile l’uso del condizionale cosiddetto di distanza, cioè quello tipico con cui i giornalisti scaricano la responsabilità di quanto stanno scrivendo: “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe recato a Venezia”, nel senso: ‘pare che vi si sia recato ma non vi sono prove’. Tuttavia, sarebbe bene evitare quest’uso, in quanto, in questo contesto, risulterebbe particolarmente incerta l’interpretazione, a causa del conflitto tra il condizionale per esprimere il futuro nel passato (in contraddizione con le date) e il condizionale di distanza.
Nelle sue frasi, a causa della modalità epistemica, la seconda funziona soltanto se la persona in questione (il signor X) a Venezia non ci si è recata. In caso contrario, bisognerebbe per forza utilizzare il trapassato prossimo:
2A) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia, ma poi non c’è più andato”
2B) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si ERA POTUTO recare a Venezia e si era molto divertito”.
Al limite, ma sarebbe davvero difficile da accettare, potrebbe anche essere possibile un uso del genere:
“(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia, e in effetti poi c’è (o c’era) andato davvero”, ma l’enunciato così composto avrebbe un effetto un po’ spiazzante sull’interlocutore, che tenderebbe a interpretarlo come contraddittorio.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi vorrei chiedere un parere in riguardo all’analisi logica. Quindi anche l’analisi del periodo, in molti aspetti ha le sue limitazioni? 
Cioè essendo analisi della frase complessa, ha in sé l’analisi dei complementi, quindi in alcune situazioni mostra i propri limiti?
La grammatica valenziale, riesce a superare le limitazioni dell’analisi del periodo?

 

RISPOSTA:

Anche l’analisi del periodo, se condotta come mera tassonomia di tipi e se si limita a considerare le subordinate come ampliamento di un complemento è inutile. E anche all’analisi del periodo la grammatica valenziale può apportare qualche aiuto, per esempio nella distinzione tra subordinate argomentali (le completive), cioè necessarie a completare il senso della reggente altrimenti incompleta, e quelle circostanziali, accessorie e non necessarie al completamento della reggente. Insomma, est modus in rebus, come sempre. Dipende da come la si fa, l’analisi del periodo. Distinguere i tipi di subordinata spiegando esattamente i diversi tipi di reggenza, di necessità e di rapporto col verbo reggente è utile e produttivo, mentre attribuire fantasiose etichette semantiche al tipo di subordinata non lo è affatto.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “C’é da soffrire”, la proposizione “da soffrire” è  una relativa, oppure si può considerare una consecutiva?

 

RISPOSTA:

“C’è da soffrire” = “Bisogna soffire”: “da soffrire”: subordinata soggettiva dipendente dalla reggente “c’è” = “bisogna”. Ulteriori dettagli e specificazioni si possono leggere in altre risposte a domande pressoché identiche a questa: faq 2800312 e faq 2800341. 

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Tutt’e due” si può ritenere un pronome personale, dato che contiene un indefinito ma anche un aggettivo numerate?

 

RISPOSTA:

Tutti e due = entrambi non è pronome personale, bensì pronome (o aggettivo, se seguito da un nome) numerativo.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Stavo consultando un vecchio libro di analisi logica del Tantucci.
Riguarda il complemento di quantità.
Scrive che è una forma particolare del complemento di specificazione.
Retto da sostantivi o da aggettivi e avverbi sostantivati o da pronomi di cosa, preceduti dalla preposizione “di”.
Si ha in dipendenza di sostantivi come turba, dove ad esempio nella frase:” turba di scalmanati”, il complemento di quantità è “di scalmanati”;
oppure nella frase: “fatti un pò di coraggio”, il complemento di quantità è “di coraggio”.
Quindi secondo il Tantucci, è un complemento di specificazione?
Vi sembra una interpretazione valida?

 

RISPOSTA:

La Sua domanda conferma in pieno la nostra piena convinzione della radicale inutilità dell’analisi logica tradizionale, se interpretata come sterile tassonomia dei complementi. Infatti, l’attuale, scolastica, tipologia dei complementi combina arbitrariamente elementi semantici e funzionalistici (a che serve e che cosa significa quel determinato costrutto?) con elementi sintattici (come si combinano insieme sostantivi e preposizioni e come dipendono dal verbo). Se tutto questo ha un senso in latino, laddove è necessario conoscere in quale caso vanno espressi determinati costrutti a seconda del loro valore, in italiano certe distinzioni appaiono del tutto inutili, se non dannose.
Pertanto, ha perfettamente ragione il Tantucci nell’osservare che, in latino, la reggenza al genitivo vale tanto per la nozione logico-semantica di specificazione quanto per quella di quantità, che è tutto sommato un sottotipo della prima; mentre in italiano la distinzione tra un complemento di specificazione e uno di quantità è del tutto inutile, inventata a tavolino, senza alcuna utilità pratica né teorica. E, ancora una volta, d’accordo con Luca Serianni, Francesco Sabatini e numerosi altri lingiuisti, viene da dar ragione a quel bambino che, di fronte alla domanda della maestra: “che complemento è a pallone nella frase io gioco a pallone? Rispose: “complemento di calcio”! Bambino geniale e linguista in pectore, che comprende, malgré lui, come attribuire valore sintattico a mere relazioni semantiche sia privo di fondamento. Molto meglio concentrarsi sulle relazioni di reggenza tra verbo e sostantivi, secondo quanto predicato dalla grammatica delle valenze, su cui Francesco Sabatini e Cristiana De Santis hanno scritto pagine interessantissime. Ma questa è un’altra storia.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nonostante le vostre numerose spiegazioni offerte in merito alla consecutio, che ho
letto e ho provato ad assimilare in toto, quando mi sono trovato davanti al periodo
sotto riportato, ho pensato subito di ricorrere a voi per ricevere lumi:
Faremo il possibile per preparare il reparto all’evenienza. Se ci fosse un’emergenza,
il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato
precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità.
Il periodo è ben formato, in particolare la subordinata dell’apodosi, introdotta da
“perché”?
Mi trovo inoltre al centro di un confronto, per così dire, retorico, con un mio
collega a proposito di questa frase:
Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché hai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima.
Ritengo valida la scelta del passato prossimo “hai ricevuto”, memore delle vostre
lezioni sui tempi deittici e su quelli anaforici; sono tuttavia comparse nella mia
mente alcune soluzioni alternative – non tutte convincenti – su cui mi piacerebbe si
posasse la vostra attenzione:
1) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avrai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima.
2) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché riceverai la convocazione una decina di giorni prima.
3) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avresti ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima.
4) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché dovresti aver ricevuto la convocazione una decina di
giorni prima.
5) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché tu abbia ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima.
Vi ho posto le suddette alternative per curiosità intellettuale, lo ammetto; se
infatti fosse toccato a me esprimere il concetto intorno al quale ruota la frase,
avrei scelto la seguente soluzione, con tre varianti (che mi auguro essere valide) per
la subordinata:
Il prossimo 9 settembre presenzierai all’udienza solo se nei giorni precedenti
ricevessi/avessi ricevuto/avrai ricevuto la convocazione.

 

RISPOSTA:

Il periodo: “Se ci fosse un’emergenza, il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità” è ben formato nella prima parte (protasi più apodosi del periodo ipotetico dell’eventualità), direi ipercorretto (e dunque non pienamente accettabile) nella causale successiva, che, in quanto causale, non necessita del condizionale che in realtà estende l’eventualità anche a questa seconda parte del periodo. Infatti, il fatto di essere stato formato non è un’eventualità ma la realtà di ogni personale medico e paramedico che si rispetti. Dunque propongo: “….perché è stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità”. Ricordo che l’apodosi è “il personale sarebbe…”, mentre “perché…” è una causale di secondo grado dipendente dall’apodosi.
Passiamo al secondo esempio: il periodo “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché hai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima” è ben formato.
Vediamo le alternative da Lei elencate.
1) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avrai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima”.
Il futuro anteriore appare fuori luogo. Semmai, per rispettare la consecutio temporum del futuro nel passato, “avresti ricevuto”.
2) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché riceverai la convocazione una decina di giorni prima”.
Come sopra.
3) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avresti ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima”.
Va bene.
4) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché dovresti aver ricevuto la convocazione una decina di
giorni prima”.
Va bene: introduce una modulazione epistemica (l’eventualità “dovresti…”) alla frase.
5) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché tu abbia ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima”.
No, non va bene, sia perché il passato congiuntivo non rispetta la consecutio temporum del futuro nel passato, sia, soprattutto, poiché “perché + il congiuntivo” non indica una causale, bensì una finale, e dunque si falserebbe completamente il senso della frase..
Infine, la sua ultima poliforme alternativa: “Il prossimo 9 settembre presenzierai all’udienza solo se nei giorni precedenti ricevessi/avessi ricevuto/avrai ricevuto la convocazione” va bene in tutte le sue possibili varianti. “Ricevessi…” pone l’accento sull’eventualità: chi sa se la riceverai o no; la seconda (“avessi ricevuto…”) sia sull’eventualità sia sulla consecutio temporum (prima ricevi, poi presenzi); la terza (“avrai ricevuto…”) solo sulla consecutio temporum.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Più che mai si può considerare un comparativo di maggioranza? Oppure è solo incremento valore aggettivo? Es: sono più che mai felice.

 

RISPOSTA:

Più che mai non è interpretabile come un comparativo, bensì come un modificatore dell’aggettivo cui si accompagna, per indicarne il grado di intensità: è dunque equivalente a un avverbio (tecnicamente, si tratta di una locuzione avverbiale) come moltissimo o simili. In questo caso, dunque, è un tutt’uno con felice, quale parte nominale del predicato nominale “sono più che mai felice”.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Chiedo un chiarimento sulla correttezza dei tempi nella seguente frase:
“È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA/VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
A mio avviso sono entrambi corretti, con la differenza che VOGLIA si riferisce al futuro, mentre VOLESSE indica una contemporaneità. Dico bene?

 

RISPOSTA:

La sua intuizione è in parte giusta, in parte troppo rigida.
Cominciamo dal modo: la scelta del congiuntivo è la più formale, come al solito, ma il suo esempio funzionerebbe perfettamente, e direi anche meglio, all’indicativo: “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VUOLE/VOLEVA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
Sicuramente nel suo caso l’uso del congiuntivo è incoraggiato, oltreché dalla formalità e dal retaggio scolastico (non sempre giustificato) di preferire il congiuntivo all’indicativo (che noi linguisti chiamiamo scherzosamente “congiuntivite”), dalla sfumatura eventuale conferita dall’espressione reggente “mi è capitato di sentire”. Se sostituissimo alla reggente (che è una frase scissa: “è la prima che mi è capitato”) un’espressione più netta e meno eventuale, rispettandone però il tempo al passato, come “ho sentito”, l’indicativo sarebbe di fatto l’unica alternativa possibile, relegando il congiuntivo a un livello di artificiosità quasi irricevibile: “ho sentito che Luigi VUOLE/VOLEVA” ecc. / *“ho sentito che Luigi VOGLIA/VOLESSE” ecc.
Passiamo ora alla consecutio temporum. Esattamente come nell’esempio da me ricostruito all’indicativo, il presente ha un valore non del tutto definito (quasi acronico o pancronico) che va dalla contemporaneità alla posteriorità: quando vuole tornarci? ora? domani? prima o poi? Mentre l’imperfetto ha un valore anch’esso più o meno indefinito dalla contemporaneità all’anteriorità: ci voleva tornare e poi c’è effettivamente tornato? oppure ci voleva tornare e non c’è tornato? oppure genericamente ci vorrebbe tornare prima o poi? Quest’ultimo significato è incoraggiato dal valore modale dell’imperfetto indicativo, che può valere, epistemicamente, come un condizionale: voleva = vorrebbe.
Al congiuntivo accade più o meno quel che accadrebbe all’indicativo:
1) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi vuole tornare nello stesso luogo, forse ci tornerà, ma forse c’è già tornato (anche se quest’ultima eventualità è la più rara).
2) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi voleva (prima), o vuole tuttora, tornare ecc., e non si capisce se ha già realizzato o no la sua volontà.
Nel caso da Lei segnalato, infine, a rendere ancora più sfumato il rapporto tra contemporaneità, anteriorità e posteriorità c’è anche l’uso del verbo modale volere, che conferisce una sfumatura eventuale-desiderativa e una proiezione sulla realizzabilità dell’azione che ben si sposa con l’idea di futuro (cioè di posteriorità), che configge, in certo qual modo, con la dipendenza al passato di “è la prima volta che mi è capitato di sentire”. Ricordo en passant, al riguardo, che l’idea di futuro, in molte lingue del mondo (sicuramente quelle romanze e germaniche) è intimamente legata con quella di volere/dovere, tant’è vero che in inglese il futuro si può costruire anche con will = ‘voglio’ e in italiano con il suffisso -arò ecc. che proviene dall’espressione perifrastica latina con habeocantare habeo = devo cantare = canterò, questo per dire che tra verbi modali e idea di posteriorità c ‘è una forte congruenza.
Morale della favola: nell’enunciato da Lei segnalatoci, sia il presente sia l’imperfetto congiuntivo (o indicativo) sono accettabili, ma non è possibile stabilire in modo univoco i valori di contemporaneità, anteriorità e posteriorità dell’uno e dell’altro. Tendenzialmente, il presente voglia  incoraggia l’interpretazione della contemporaneità-posteriorità, l’imperfetto volesse quella della contemporaneità-anteriorità. Il tutto, poi, relativamente al valore del verbo volere. Ma se ci spostiamo da volere a tornare, cioè il verbo principale retto dal modale volere, il discorso si fa ancora più sfumato, perché, sia per la consecutio temporum sia soprattutto per la sfumatura modale conferita dal verbo volere, è impossibile, in tutti i casi da Lei e da noi qui segnalati, stabilire con certezza se Luigi ci è tornato o no.
Le lingue, e il cervello umano che le crea, son fatte di incertezze e di sfumature: è questo il loro fascino, il loro mistero, il loro miracolo cognitivo. Ed è questo che rende la comunicazione, e tutti gli sforzi per comprenderci gli uni con gli altri, un’attività così creativa e accattivante. Non bisogna mai perdere il gusto e la tenacia di tentare di comprendere sempre i testi (scritti, orali, visivi ecc.) con cui ci confrontiamo, neppure di fronte alla loro inevitabile ambiguità.
Concludo con un’ultima notazione: le anomalie date dal valore modale (a metà tra il volitivo e il desiderativo) del verbo volere giustificano anche un’altra apparente anomalia morfosintattica e semantica di quel verbo, vale a dire il fatto che dal presente condizionale dipenda preferibilmente l’imperfetto congiuntivo, piuttosto che il presente, per esprimere la contemporaneità dell’azione: “vorrei che Luigi tornasse”, piuttosto che “vorrei che Luigi torni” (comunque possibile, ma meno formale, in italiano). Per ulteriori dettagli su quest’ennesima “stranezza” dell’italiano, può leggere la documentata risposta del prof. Ruggiano, con relativa citazione da Serianni, nella risposta di DICO dal titolo “Vorrei che tu…”.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Punteggiatura, Semantica

QUESITO:

Ho un dubbio sul significato o uso di alcune parole poste tra le virgole.
Questa è la frase: “Avendo lavorato nel corso degli anni con un certo numero di studenti, penso che i meditanti debbano seguire il respiro dove gli sembra più vivido e tranquillo, dove è più probabile che catturi la loro attenzione. Nessuna di queste aree rimarrà sempre, in ogni seduta, la più vivida.Ma è importante non continuare a passare da una all’altra, alimentando una mente già agitata.
La mia domanda è questa: quando scrive “in ogni seduta” tra le virgole, sta puntualizzando cosa significa l’avverbio “sempre”; oppure sta solo aggiungendo una informazione nel contesto della frase? Cioè una considerazione all’interno della frase.

 

RISPOSTA:

A rigor di logica, l’inciso in questione serva a meglio precisare l’avverbio precedente: sempre, cioè in ogni seduta. Dal contesto del brano da Lei riportato (in verità non chiarissimo), non sembrano potervi essere altre interpretazioni. In realtà sempre e mai, nella loro assolutezza, non richiederebbero alcuna precisazione né dunque alcun inciso, visto che c’è poco da chiarire su ciò che deve verificarsi tutte le volte (e dunque, implicitamente, in ogni seduta) o nessuna volta. Tuttavia spesso i parlanti (e dal tono del discorso il suo ha tutta l’aria di essere un brano di parlato trascritto, o quasi) tendono a svuotare di valore semantico gli avverbi sempre e mai e a usarli quasi come segnali discorsivi, come dimostrano esempi, assai frequenti, quali: “di solito ho sempre fame” o “di solito non ho mai caldo”; da un punto di vista logico, naturalmente, mai e sempre sono inconciliabili con di solito.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Vorrei essere amato”, abbiamo solo una proposizione principale?
Il verbo volere essere è un verbo fraseologico? e amato?

 

RISPOSTA:

“Vorrei essere amato” è una sola proposizione passiva costituita dal verbo servile (o modale) volere, che regge l’infinito (in questo caso passivo) essere amato. Dunque, esattamente come all’attivo (vorrei amare), il complesso di servile + infinito costituisce un’unica frase, non due; il verbo servile si comporta, insomma, come un ausiliare.

​Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?

 

RISPOSTA:

Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista: 
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Mario è più furbo che bravo”, analizzando in analisi logica, “più furbo  che bravo” è tutto insieme il nome del predicato?

 

RISPOSTA:

“Che bravo” (ovvero, di quanto [non] sia bravo) è complemento di paragone, ovvero secondo termine di paragone, mentre “è più furbo” è predicato nominale, costituito da “è” = copula + “più furbo” = nome del predicato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La frase: “continuerai a farti scegliere”, si può considerare una forma causativa passiva?
Si può considerare della stessa caratteristica anche: “lasciarti ascoltare”?
Oppure sono solamente causative?

 

RISPOSTA:

Sì, la prima frase segnalata (“continuerai a farti scegliere”) è un costrutto causativo (o fattitivo) passivo, corrispondente più o meno a ‘continuerai a fare sì che tu sia scelto/a’. La seconda frase (“lasciarti ascoltare”) ha lo stesso valore passivo in un contesto come, per esempio: “mi piacerebbe lasciarti (o farti) ascoltare da tutti, dato che canti così bene”, ma ha valore attivo (sempre causativo o fattitivo) in “non posso lasciarti ascoltare tutto il giorno pessima musica commerciale”.

 

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito di interpretazione semantica. Senza menzionare la legge in questione, vi cito testualmente l’articolo stranamente male interpretato (ma forse è una mia impressione):

“Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina”.

Secondo l’interpretazione collettiva di chi amministra, quell’ove possibile è interpretato in generale; giusto per enfatizzare l’interpretazione, ove possibile equivale anche a dire ‘se non piove ti autorizzo a …’.
Invece, per la conoscenza che ho io di italiano e di analisi logica il testo lo interpreto così:
‘… ha diritto a scegliere la sede di lavoro, se in quella sede non ci sono impedimenti di varia natura’.
Per interpretarla con il ‘se non piove ti autorizzo a…’, secondo me quell’ove possibile doveva essere messo subito dopo la citazione del comma, ovvero “Il lavoratore di cui al comma 3, ove possibile, ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina.”; così scritta è interpretabile con ‘laddove non ci siano
impedimenti di varia natura, il lavoratore ha diritto a scegliere…’.
Secondo voi è corretta la mia interpretazione? 

 

RISPOSTA:

L’interpretazione di un articolo di legge separato dal resto del testo è rischiosa; limiterò le mie osservazioni al versante linguistico. L’espressione ove possibile (descrivibile, dal punto di vista grammaticale, come una proposizione relativa ipotetica nominale incidentale) è semanticamente molto generica, tanto da comprendere qualsiasi circostanza potenzialmente ostativa, dalle avverse condizioni atmosferiche alla mancanza di posizioni vacanti. In questi casi, ci si affida al ragionevolezza del giudice per evitare interpretazioni fedeli alla lettera ma contrarie allo spirito della legge.
L’anticipazione della proposizione incidentale da lei proposta cambia effettivamente il senso generale della frase, ma in un modo potenzialmente peggiorativo per il lavoratore: in “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina”, la restrizione si applica alla sede di lavoro più vicina. Si enfatizza, pertanto, la relazione tra la possibilità della scelta e la vicinanza della sede di lavoro, come a dire che il lavoratore può scegliere la sede più vicina solo se ciò è possibile (senza specificare, come detto sopra, quale possa essere la causa ostativa). Nella frase non è spiegato che cosa succeda se la sede più vicina non sia disponibile, ma il diritto di scegliere una sede è fatto salvo e può essere esercitato, presumibilmente, su un’altra sede.
In “Il lavoratore di cui al comma 3, ove possibile, ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina”, la restrizione si applica al diritto: è il diritto a essere vincolato alla possibilità, non la scelta. Con questa formulazione, il diritto potrebbe non essere fatto salvo in ogni caso, ma valere solamente ove possibile. Paradossalmente, la motivazione ostativa potrebbe essere l’impossibilità di scegliere la sede più vicina; il diritto, cioè, si perderebbe del tutto (e non potrebbe essere esercitato su sedi alternative) se la sede più vicina non fosse disponibile.
Sottolineo che la differenza tra le due formulazioni è sottile; anche nel secondo caso si potrebbe argomentare che lo spirito sia da ricondurre al primo; che, cioè, ove possibile si riferisca al diritto di scegliere la sede più vicina, ma non escluda la possibilità di sceglierne altre.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Tra le funzioni dei due punti, se non sbaglio, vi è anche quella di indicare – con la proposizione che li segue – le conseguenze della proposizione che li precede.
Nella frase “Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali” la proposizione “ha detto di volermi raggiungere” è una conseguenza della chiamata, ma l’atto di fornire le indicazioni stradali durante il lavoro non lo è, almeno
direttamente.
In casi come questo è preferibile separare le eventuali proposizioni alla destra dei due punti con altri segni (punto e virgola, punto fermo), così da segnare un confine tra ciò che è conseguenza della parte del discorso prima dei due punti e ciò che non lo è?
Nell’esempio summenzionato, le soluzioni potrebbero essere queste:
“Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere; e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali”.
“Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere. Mentre ero impegnato con il lavoro, (io) le ho fornito le indicazioni stradali”.
Quale sarebbe la soluzione consigliata, considerando anche quelle che non ho ipotizzato?

 

DOMANDA:

​Più che una conseguenza, i due punti segnalano che seguirà una giustificazione, una motivazione, una spiegazione dell’evento o dello stato di cose introdotto prima, o del perché un evento o uno stato di cose sia stato introdotto prima. In questa frase, ai due punti segue una spiegazione della descrizione: “I soffitti a travicelli, freddo d’inverno, caldo d’estate, non potevo aprire la finestra, sempre qualcuno mi faceva brutti segni: Roma era così” (Anna Banti, Artemisia, 1948). Se capovolgiamo il periodo, la descrizione diviene la spiegazione della proposizione “Roma era così”: “Roma era così: i soffitti a travicelli, freddo d’inverno, caldo d’estate, non potevo aprire la finestra, sempre qualcuno mi faceva brutti segni”. Le due proposizioni separate dai due punti, insomma, sono tra di loro in una relazione di spiegazione reciproca.
Nel suo esempio, il fatto che Valentina abbia detto qualcosa non è una conseguenza del fatto che ha chiamato; non è neanche, però, una spiegazione di questo fatto: è, piuttosto, una motivazione, ovvero la spiegazione del perché lo scrivente abbia introdotto il fatto della chiamata di Valentina. Potremmo dire che i due punti, in questo caso, sostituiscono un’espressione come “L’ho detto perché”:  “Mi ha chiamato Valentina. L’ho detto perché ha detto di volermi raggiungere e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali”.
Per quanto riguarda la prosecuzione della frase, la punteggiatura va scelta in base alla relazione semantica che si intende esprimere tra l’evento della dichiarazione di Valentina e quello della comunicazione da parte dello scrivente. La prima variante della frase, senza segni, suggerisce che i due eventi siano direttamente consequenziali, come se tutta la parte del periodo che va dai due punti al punto finale serva da motivazione per la parte che precede i due punti. Questa soluzione è legittima e si adatta bene a una situazione in cui lo scrivente stia raccontando gli eventi in modo semplice. Non convince la variante con il punto e virgola, che non chiarisce quale rapporto ci sia tra la dichiarazione e la comunicazione. Quella con il punto fermo, invece, è valida: rispetto a quella senza segni separa i due eventi, rendendoli autonomi. In virtù di questa autonomia, “mentre ero impegnato con il lavoro” risulta più rilevante rispetto all’altra variante; in questo modo, lo scrivente potrebbe far rilevare di aver interrotto il proprio lavoro con un certo fastidio per rispondere a Valentina. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:
So che in italiano le singole lettere vengono pronunciate come quando si dice l’alfabeto: la (‘bi’), la (‘ci’), la (‘effe’). In alcuni casi ho dei dubbi: la c si pronuncia ‘c’; ma non dovrebbe essere accompagnata dalla i?. La pronuncia alfabetica riguarda anche i digrammi e trigrammi: la gl (‘gi elle’), la gn (‘gi enne’), la ch (‘ci acca’), la gli (‘gi elle i’). Come mai anche i digrammi si pronunciano separatamente?

 

RISPOSTA:

​Il concetto di lettera è ambiguo, perché può riferirsi a un oggetto fonetico, il fonema, e a uno grafico, il grafema. Ricordiamo che le lingue nascono parlate, quindi sono composte prima di tutto dai fonemi, i suoni che i parlanti di una determinata lingua riconoscono come distinti e autonomi. I grafemi sono tentativi di “tradurre” i suoni in segni grafici, per dare un corpo visibile ai suoni, in modo da poterli scrivere. 
L’alfabeto di una lingua è fatto di grafemi, che sono tipicamente in numero minore rispetto ai fonemi propri di quella lingua. Questo avviene perché alcuni grafemi sono usati per rappresentare più di un fonema (ad esempio in italiano c rappresenta sia il fonema /ʧ/, come in cena, sia il fonema /k/, come in cane) e alcuni fonemi mancano del tutto (ad esempio in italiano /ɲ/ di gnocco non è rappresentato nell’alfabeto, ma è rappresentato dal digramma gn). Si noti che lo stesso fonema può essere rappresentato in modo diverso negli alfabeti di lingue diverse: è il caso, per esempio, proprio di /ɲ/, che in spagnolo è presente nell’alfabeto con il segno ñ.
Una volta creato l’alfabeto, i grafemi divengono nomi comuni, quindi si pone il problema del genere da attribuire loro. Alcuni sono stati nella storia stabilmente femminili, perché terminanti per -aazetaacca; gli altri hanno sempre oscillato tra il maschile e il femminile fino a pochi decenni fa (si pensi all’espressione idiomatica mettere i puntini sulle i, nota anche nella variante mettere i puntini sugli i), per fissarsi generalmente sul femminile negli ultimi tempi (ma in realtà ancora oggi sono accettabili entrambi i generi, e le lettere dell’alfabeto greco sono considerate maschili). Tale oscillazione è dovuta alla possibilità di sottintendere, accanto al nome del grafema, tanto segno quanto, appunto, lettera.
L’alfabeto, dunque, è una costruzione altamente convenzionale, soggetta a molte spinte analogiche. Non devono stupire, pertanto, alcune incongruenze al suo interno, come la mancanza di alcuni suoni, la confusione di più suoni in un solo segno, e persino la mancanza di alcuni segni che pure si usano nella lingua (nell’alfabeto italiano, per esempio, mancano jkxyw).  
Per quanto riguarda la pronuncia dei nomi dei grafemi, le consonanti necessitano di una vocale di appoggio, visto che, come è noto, le consonanti “suonano”, cioè producono un suono, solamente quando sono accompagnate da una vocale. La vocale di appoggio nella storia dell’italiano è stata inizialmente la e, ma poi i parlanti hanno preferito la i (probabilmente perché è la vocale percepita come la più debole). Ci sono alcune eccezioni, dovute all’intento di evitare potenziali confusioni: effeemmeenne per esempio, non sono fimini per evitare la confusione con le omonime lettere dell’alfabeto greco. Questo, però, non ha indotto a cambiare il nome della p (identico al pi greco) in *eppeAcca ha un’etimologia incerta, elle e esse servono a evitare la confusione con li e sierre probabilmente è nato per evitare un nesso difficile da pronunciare: il ri
​Dovendo scrivere il nome di una consonante, si può scegliere se riportare il singolo grafema, ad esempio p, oppure rappresentare fedelmente la pronuncia, segnando anche la vocale di appoggio, ad esempio pi. Tradizionalmente, però, questo secondo modo è riservato alle lettere dell’alfabeto greco, per distinguerle dai grafemi latini, che si scrivono da soli.
I digrammi si possono pronunciare riportando la rappresentazione grafica al fonema corrispondente, oppure scandendo le componenti grafiche separatamente. La prima soluzione ha il difetto di risultare molto artificiosa, perché bisogna evitare di pronunciare la vocale di appoggio, altrimenti si crea un trigramma. Siccome questo è impossibile, si deve optare per la sostituzione della i con la vocale [ə], detta schwa, inesistente nel repertorio dell’italiano standard (ma esistente in molti dialetti). I trigrammi gli e sci sono più facili da pronunciare foneticamente, perché contengono la vocale i alla fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Marco pensò a cose che solo lui poteva sapere”, vuoi per l’assenza di altre persone, vuoi per il contesto testuale, è chiaro che il pronome lui si riferisca al soggetto, cioè Marco.
Ma in un esempio come “Marco aveva salutato Luigi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere” mi pare che il referente del pronome sia meno diretto.
Mi piacerebbe ricevere la vostra opinione; nonché, se possibile, qualche indicazione per destreggiarsi in situazioni semantiche simili.
Per inciso, mi torna in mente la differenza d’impiego tra proprio e suo, per distinguere l’attribuzione dell’aggettivo al soggetto o al complemento).

 

RISPOSTA:

​Il pronome personale si riferisce al tema più vicino tra quelli possibili. Per esempio, se nella sua frase ci fosse Maria, oppure i coniugi Rossi, al posto di Luigi, il riferimento sarebbe ancora chiaro: “Marco aveva salutato Maria / i coniugi Rossi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere”. Nella sua frase, invece, il tema Luigi è il più vicino tra quelli possibili e, pertanto, si sostituisce a Marco come bersaglio di lui
Il lettore rimane comunque dubbioso sulla correttezza del riferimento, perché la proposizione coordinata mantiene Marco come soggetto e, in generale, per il senso della frase, che sembra ruotare tutto intorno a Marco. Per ovviare a questa ambiguità si possono usare forme referenziali (che possiamo chiamare proforme) più esplicite, per esempio quest’ultimo, oppure lo stesso Luigi, se vogliamo puntare a Luigi. Se vogliamo puntare a Marco, possiamo rafforzare lui con stesso, che rimanda al soggetto della frase. Altre proforme che rimandano inequivocabilmente al soggetto (ma che in questa frase non possono essere usate, a meno che non la si riformuli diversamente) sono il pronome riflessivo sé (stesso) e, come da lei ricordato, l’aggettivo possessivo proprio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Alcuni giorni addietro ho letto l’articolo 2800333, in cui un utente ha introdotto un argomento, a me caro, che avrei voluto esporre a mia volta. Benché le vostre chiose siano state come al solito chiare e dettagliate, permangono in me punti oscuri sull’alternativa congiuntivo/condizionale nella reggenza di quando.
Già prima di consultare il vostro intervento, avevo condotto svariate ricerche su Internet (Google libri, siti di linguistica, ecc.), ma, in tutta onestà, confesso di non aver ancora afferrato la regola che ne sancisce l’uso. Il setaccio on line ha prodotto, tra le numerosissime occorrenze, anche i seguenti risultati:
“Avrebbe continuato a farlo anche quando lui sarebbe sparito per sempre” (C. Castellaneta).
“Avrebbe potuto irritarla quando avrebbe voluto” (A. Moravia).
“Ti si chiamerebbe quando si fosse finito” (A. Moravia).
“Sapevo che quando sarebbero venuti gli infermieri, non lo avrei mai più visto” (A. Elkann). 
“Parlava di dedicarsi alla scrittura, quando fosse andato in pensione” (autore non identificato).
Aggiungo in calce anche una frase estratta da traduzione di Edgar Allan Poe a cura di Elio Vittorini (si discosta dal pernio dell’argomento, ma anche qui vi è un uso del condizionale in cui, secondo me, si potrebbe scegliere il congiuntivo): “Si decise allora di informare della mia presenza a bordo il primo uomo che sarebbe venuto giù”.
Come già detto, queste sono solo alcune delle occorrenze. In generale, ho riscontrato un’alternanza dei due modi, anche all’interno di quei casi nei quali – se ho ben interpretato la semantica – quando ha un valore paragonabile a quello di ‘nel momento in cui’.
Mi permetto di domandarvi se:
1) Si possa sempre usare il congiuntivo, indipendentemente dalle sfumature che di volta in volta potrebbe assumere quando, oppure ci sono casi in cui è obbligatorio il condizionale?
2) Esistono appunto dei casi in cui si usa solo il congiuntivo e altri in cui invece si usa solo il condizionale (sempre in riferimento a quando ‘nel momento in cui’), oppure i due modi rivaleggiano negli stessi ambiti e la scelta da parte dello scrivente-parlante dipende esclusivamente dal registro (il congiuntivo è più formale del condizionale)?
3) Nel quesito già citato, l’esempio dell’utente è “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. La forma “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sarebbe stata comunque accettabile, anche se meno formale?

 

RISPOSTA:

​1) Il congiuntivo è sempre possibile, sia in un contesto ipotetico, sia in uno di futuro nel passato. In tutti gli esempi letterari da lei proposti, non a caso, si può sostituire il condizionale con il congiuntivo. 
2) Se la proposizione reggente è una apodosi, la proposizione subordinata introdotta da quando richiede il congiuntivo: “Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui fosse venuto” (non *”Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui sarebbe venuto”); se, però, l’evento della proposizione al condizionale passato è futuro rispetto al passato, il condizionale nella subordinata torna a essere accettabile, perché la subordinata si interpreta come una temporale con possibile sfumatura ipotetica: “Pensai che gli avrei detto tutto quando fosse / sarebbe venuto”. In questo caso, in cui sono possibili entrambi i modi, il congiuntivo è la scelta più formale.
Si noti che in questi casi lo scarto tra protasi e temporale è sottile; a distinguerle è spesso solamente il contesto (negli esempi che ho portato sopra, è il tempo del verbo della proposizione principale).
3) Da quanto appena detto discende che “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sia accettabile, sebbene meno formale di “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. In ogni caso, il congiuntivo nella proposizione introdotta da quando non ha valore ipotetico: il giungere dell’alba, infatti, è un fatto ineludibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Chiedo la vostra consulenza per alcuni chiarimenti sulle seguenti forme ed espressioni. 
1. All’interno di una narrazione fatta con il passato remoto, per indicare ciò che è avvenuto prima sarebbe più opportuno usare il trapassato prossimo anziché lo stesso passato remoto?
a. “Quando arrivò Michele non era in casa perché aveva voglia di fare una passeggiata. Poco prima di uscire incontrò sul pianerottolo la vicina che gli disse:…”.
b. “Quando arrivò, Michele non era in casa perché aveva avuto voglia di fare una passeggiata. Poco prima di uscire aveva incontrato sul pianerottolo la vicina che gli aveva detto:….”.
2. L’espressione “è sbagliato fare agli altri ciò che non vorresti essere fatto a te” è corretta? Ritengo che la forma debba essere “è sbagliato fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te”.

 

RISPOSTA:

La funzione primaria del trapassato è proprio quella di descrivere un evento precedente a un altro a sua volta passato. Nell’italiano contemporaneo, il trapassato remoto, che dovrebbe essere usato nel caso in cui l’evento di riferimento sia al passato remoto, è poco gradito, in favore del trapassato prossimo. La frase 1b, pertanto, è senz’altro ben composta. La frase 1a, però, non è automaticamente composta male, soprattutto nel secondo periodo. Il primo periodo rappresenta l’evento dell’ avere voglia con un imperfetto; nel caso specifico la formulazione risulta incoerente: “perché aveva voglia di fare una passeggiata” non spiega affatto perché Michele non fosse in casa. Cambiando l’evento, però, l’imperfetto può divenire accettabile: per esempio in “Michele non era in casa perché c’era troppo caldo”. Come si vede, l’imperfetto, grazie alla sua funzione di tempo di sfondo, può descrivere un evento o una situazione iniziati in precedenza e ancora validi nel momento in cui avviene l’evento di riferimento. Inaccettabile sarebbe stato, comunque, il passato remoto: *”Michele non era in casa perché ebbe voglia di fare una passeggiata”.

Nel secondo periodo, la formulazione con i due passati remoti è legittima al pari di quella con i trapassati; tra le due cambia il momento di riferimento: per la prima coincide con quello dell’enunciazione, cioè ora, per la seconda, invece, è quello dell’ uscire. In altre parole, nel secondo periodo della frase 1a abbiamo due piani temporali: Momento dell’enunciazione: “(Ora dico che) Momento dell’evento: poco prima di uscire incontrò sul pianerottolo la vicina che gli disse: Nella frase 1b, invece, abbiamo tre piani temporali: Momento dell’enunciazione:”(Ora dico che) Momento di riferimento: poco prima di uscire Momento dell’evento: aveva incontrato sul pianerottolo la vicina che gli aveva detto: La frase 1a sarà certamente preferita in un contesto informale (o in uno scritto che imiti l’andamento del parlato informale) ; la 1b è, invece, più accurata e più adatta allo scritto in generale e al parlato formale.

La frase 2 presenta una sintassi scorretta, sebbene vicina a una costruzione ben nota e antica (la completiva all’infinito senza identità di soggetto), già discussa in questa risposta di DICO, a cui rimando per approfondimenti. Proprio questa vicinanza favorisce l’uso di una simile frase, nonostante la sua scorrettezza. A rendere la costruzione scorretta è il verbo vorresti, che non regge una completiva, ma forma con l’infinito un unico sintagma verbale. Quest’unico sintagma si trova, nella frase, ad avere due soggetti, tu per vorresti e che per essere fatto: una circostanza, come si può immaginare, da evitare. La variante con il congiuntivo, invece, non presenta difficoltà. Si potrebbe, però, ulteriormente migliorare sottintentendo il secondo che, per evitare la sgradevole ripetizione.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

I pronomi della forma di cortesia si scrivono con la maiuscola. Ma l’uso attuale della lingua non segue questa regola: è così?

 

RISPOSTA:

I pronomi personali maiuscoli sono molto formali. In passato erano molto comuni; oggi si usano quando si vuole essere deferenti verso qualcuno. In tutti gli altri casi, possono essere scritti minuscoli.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso del plurale in questa frase: “Mantenendo meglio che possiamo la dignitosa posizione seduta che abbiamo adottato, ci concentriamo sulle sensazioni date dal respiro nelle parti del corpo in cui sono più evidenti, di solito le narici o l’addome.” 
La mia domanda è questa: utilizzando la congiunzione o tra le parole le narici e l’addome, non si dovrebbe scrivere “nella parte del corpo”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni, parte del corpo e parti del corpo, sono accettabili, con un piccolo scarto semantico tra l’una e l’altra. Il singolare suggerisce che la prima parte nominata, le narici, sia l’unica propriamente contemplata, e l’altra sia marginale. Per questo motivo, se si usa parte, ci si aspetta una separazione più netta tra le narici e l’addome, per esempio così: “di solito le narici, o, più difficilmente, l’addome”. Il plurale, invece, mette le due parti sullo stesso piano, suggerendo che abbiano la stessa probabilità di essere interessate dal fenomeno.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se, in un testo scolastico (es. la simulazione di una lettera o di un diario), si può accettare l’espressione “Siamo migliori amiche”.

 

RISPOSTA:

La lettera a un amico o a un’amica e il diario sono generi caratterizzati da un registro informale, nel quale figurano a loro agio, e sono pienamente giustificate, espressioni “brillanti”, non canoniche, vicine al parlato.
Ma vediamo perché migliore amico/a e migliori amici/amiche sono espressioni non canoniche. Molto diffuse oggi, presentano tre difficoltà se passate al vaglio della grammatica standard: non hanno l’articolo determinativo e non hanno il complemento partitivo, entrambi richiesti dal superlativo relativo migliore; mancano del complemento di specificazione (o dell’aggettivo possessivo), richiesto dal nome amico.
In una frase standard come “Il migliore amico dell’uomo è il cane” si nota che l’aggettivo al grado superlativo relativo sia preceduto dall’articolo determinativo; amico, inoltre, è correttamente specificato (molto strano sarebbe *”Il miglior amico è il cane”). Anche in questa frase, invece, manca il complemento partitivo, che, per la verità, può facilmente essere sottinteso nel caso in cui coincida con tra tutti gli altri o simili: “(Tra tutti gli altri amici,) il migliore amico dell’uomo è il cane”.
Delle tre difficoltà individuate nell’espressione qui analizzata, quindi, una è trascurabile: migliore amico presuppone tra tutti.
Più strana sembra la mancanza del complemento di specificazione per amico/a/i/e. A ben vedere, però, anche questa si spiega con il sottinteso: “Siamo migliori amiche” è implicitamente completata da l’una dell’altra. Come si vede, questo costrutto appesantisce l’espressione e la rende molto meno agevole e immediata: si capisce, quindi, perché i parlanti lo eludano. Rispetto allo standard, questa scelta rappresenta uno scarto, non grave ma sufficiente per abbassare di un gradino la formalità dell’espressione.
La terza mancanza, quella dell’articolo prima di migliore/i, è l’unica davvero grave, perché contrasta con una regola sintattica molto rigida (migliore è comparativo di maggioranza; il migliore è superlativo relativo), sebbene si giustifichi sul piano della convenienza. Se inseriamo l’articolo, infatti, otteniamo “Siamo le migliori amiche”, che renderebbe il sottintendimento del complemento di specificazione inaccettabile per la maggioranza dei parlanti.
Questa disamina dei “difetti” insiti nell’espressione ci consegna, per contrasto, la variante standard della stessa: “Siamo le migliori amiche l’una dell’altra”. Si noterà, nella formulazione, oltre alla minore efficacia espressiva, la “stranezza” del mancato accordo tra il nome del predicato le migliori amiche e il costrutto reciproco, che è grammaticalmente singolare. La variante “Siamo la migliore amica l’una dell’altra”, pure possibile, sana questa “stranezza”, ma provoca la sgrammaticatura (quindi è formalmente più trascurata) del mancato accordo tra la copula (a sua volta concordata con il soggetto), plurale, e il nome del predicato, singolare.
A margine rilevo che la lettera e la pagina di diario, generi testuali familiari ai ragazzi fino a qualche anno fa, oggi appaiono anacronistici e, per questo, poco motivanti. Si possono sostituire con l’articolo di un blog, l’e-mail, il post di un social network (purché siano rese chiare le finalità e le caratteristiche formali che questi prodotti devono avere).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “C’è da dire che è stato importante”, il costrutto c’è da dire è un sintagma nominale?

 

RISPOSTA:

il sintagma nominale (per esempio il cane, Mario, molta strada ecc. ) non contiene verbi e non si può ulteriormente scomporre dal punto di vista sintattico. C’è da dire, al contrario, contiene due verbi e si può ulteriormente scomporre in parti sintattiche, il sintagma pronominale ci, il sintagma verbale è, il sintagma preposizionale da dire. I primi due, insieme, formano la proposizione principale del periodo; il terzo coincide con una proposizione relativa implicita (equivalente a “che deve essere detto”). Il periodo è completato dalla proposizione “che è stato importante”, sulla cui natura, a metà tra soggettiva e oggettiva, suggerisco di leggere questa risposta
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Continuo a non cogliere a fondo determinate funzioni dei modi congiuntivo e condizionale e di come si intrecciano e si alternano nelle varie enunciazioni.
La proposizione qualunque cosa fosse successa all’interno del periodo

a) Qualunque cosa fosse successa, egli sapeva che ella ci sarebbe stata,

ha esclusivamente valore ipotetico o anche ipotetico-temporale, sottintendendo l’adesione dell’azione al passato? In altre parole, quel fosse successa rimanda a ieri, una settimana prima, eccetera?
Per significare un’ipotesi aderente al futuro si potrebbe o si deve obbligatoriamente usare il condizionale composto?

b) Qualunque cosa sarebbe successa, egli sapeva che ella ci sarebbe stata.

Inoltre, il condizionale composto, oltre a svolgere la funzione di futuro nel passato, può indicare anteriorità rispetto al condizionale presente (fatte le dovute distinzioni, sulla stregua del futuro anteriore rispetto al futuro semplice)?

c) Ti chiameremmo quando / se avremmo finito.

d) Se toccasse a me, farei quanto mi avrebbero detto.

Oppure sarebbe meglio scrivere, per indicare, appunto, un’anteriorità incerta rispetto all’altrettanto incerta azione del farei, “se toccasse a me, farei quanto potrebbero avermi detto”? In altre parole, esiste un tempo che permetta al lettore di discernere un’eventualità sicuramente non avvenuta nel passato e un’eventualità che abbia le caratteristiche esposte sopra?

 

RISPOSTA:

​I tempi del congiuntivo usati nella protasi del periodo ipotetico (l’imperfetto e il trapassato, raramente gli altri due) assumono la funzione di indicatori del grado di ipoteticità dell’evento, dovendo mediare tra questo sistema e quello della consecutio temporum, con conseguenze difficili da schematizzare, perché i parlanti incrociano continuamente la prospettiva temporale con quella ipotetica alla ricerca di sfumature illocutive (su questo concetto si veda questa risposta dell’archivio di DICO).
In linea di massima, secondo la consecutio temporum il congiuntivo imperfetto indica la contemporaneità nel passato “Mi avrebbe fatto piacere che tu venissi”; nel periodo ipotetico, invece, indica un evento ancora realizzabile, quindi legato al presente: “Mi farebbe piacere se tu venissi” (= è ancora possibile che tu venga). Se, però, è impossibile, se non in uno stile molto trascurato (o in casi molto intricati), costruire una protasi all’imperfetto con un’apodosi al passato (*”Mi avrebbe fatto piacere se tu venissi”) è, al contrario, possibile far dipendere l’imperfetto dal condizionale presente: “Mi farebbe piacere che tu venissi”. In un caso come questo, è evidente la sovrapposizione tra la costruzione completiva e quella ipotetica.
Nella consecutio temporum, il congiuntivo trapassato indica un evento anteriore a quello della reggente, a sua volta al passato: “Non sapevo che lui fosse venuto alla festa ieri”. Nel periodo ipotetico, invece, indica una eventualità che non può più realizzarsi, o al limite una possibilità remota; questa funzione è assolta tipicamente in composizione con un’apodosi al passato: “Sarei stato felice se tu fossi venuto”, ma può essere richiesta anche con un’apodosi al presente: “Sarei felice se tu fossi venuto” (= non sono felice perché tu non sei venuto).
Nella sua frase a) il congiuntivo trapassato (fosse successa) si inquadra nella consecutio temporum, perché indica un evento precedente a un altro passato, corrispondente a ci sarebbe stata. In questo caso fosse successa indica una possibilità futura, non passata, rispetto a sapeva, perché ciò che preme qui è rappresentare il rapporto reciproco tra fosse successa sarebbe stata.
La frase b), al contrario, sottolinea il rapporto tra sapeva e gli altri due eventi, entrambi proiettati nel futuro (rispetto al passato). Si noti che in questo modo è comunque possibile ricostruire, per logica, che sarebbe successa è precedente a sarebbe stata.
La frase c) non è ben costruita: quando / se avremmo finito è chiaramente una protasi di periodo ipotetico, che non ammette il modo condizionale. Lasciando l’apodosi al condizionale presente, la frase può prendere le seguenti forme: “Ti chiameremmo se finissimo” e “Ti chiameremmo se avessimo finito”, per sottolineare che non abbiamo ancora finito.
Nella d) il periodo ipotetico è formato da se toccasse a me, farei, mentre il condizionale passato è contenuto in una ulteriore subordinata dell’apodosi, di tipo interrogativo indiretto. Escludiamo che quest’ultima proposizione possa descrivere un evento futuro nel passato perché, come detto, il futuro nel passato deve riferirsi a un passato, che qui non c’è (se ci fosse, il futuro nel passato sarebbe legittimo: Avrei fatto quanto mi avrebbero chiesto). Il condizionale presente non è escluso: farei quanto mi direbbero, ma è meno formale del congiuntivo, nonché meno efficace, perché innesca un nuovo periodo ipotetico, ridondante (il condizionale presente, infatti, esprime sempre un’azione in qualche modo condizionata): farei quanto mi direbbero (se ciò avvenisse).
L’opzione migliore per costruire l’interrogativa indiretta è il congiuntivo, scegliendo il tempo in base alla consecutio temporum. Partendo dal presente della reggente (farei) potremmo avere farei quanto mi dicessero, che rappresenta l’atto del dire come contestuale a quello del fare, ma per logica leggermente anteriore, o farei quanto mi avessero detto, che lo rappresenta come avvenuto in precedenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Per l’età che ha è giovane”, “Per l’età che ha” è una proposizione concessiva?

 

RISPOSTA:

​”Per l’età che ha” non è una proposizione, ma un complemento, per l’età, a cui è collegata una proposizione relativa, “che ha”. La funzione che più immediatamente si riconosce in questo complemento è quella concessiva (esso equivale, cioè, a nonostante l’età); è possibile, però, interpretarlo anche come un complemento di paragone, equivalente a in confronto all’età, ovvero ‘in confronto all’immagine comunemente accettata di una persona di quella età’. In virtù di questa interpretazione, la frase intera sarebbe parafrasabile così: “In confronto all’età che ha è giovane”, quindi: “È più giovane dell’età che ha”. 
“Per l’età che ha” può essere trasformato nella proposizione “Per avere questa / quella età” (“Per avere questa / quella età, è giovane”), che, però, non è totalmente equivalente al complemento per l’età: in virtù del verbo contenuto, infatti, accetta solamente l’interpretazione concessiva, non quella comparativa. Inaccettabile sarebbe *”Rispetto all’avere questa / quella età è giovane”, ovvero *”È più giovane dell’avere questa / quella età”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Chiedo delucidazioni in merito all’uso delle virgola prima delle congiunzioni o e oppure.
Ho letto su una rivista: “Estate legata ai cibi, o ai fiori, o ai colori”: è corretta la punteggiatura? Altre frasi dubbiose sono:
– Vuoi restare a casa, oppure uscire con gli amici?
– Vuoi andare al mare, o in montagna?

 

RISPOSTA:

​La virgola prima della o non è necessaria nel caso in cui la congiunzione separi due sintagmi, o due proposizioni: “Estate legata al cibo o ai fiori”, “L’estate è il tempo giusto per andare in vacanza o per rimanere in città a riposarsi”. Niente vieta, comunque, di inserirla anche in questi casi, al fine di sottolineare l’opposizione tra i due membri disgiunti: “Estate legata al cibo, o ai fiori”, “L’estate è il tempo giusto per andare in vacanza, o per rimanere in città a riposarsi”.
Nel caso di un elenco di almeno tre membri, la virgola diviene più fortemente richiesta, per cadenzare chiaramente l’andamento sintattico. Nel caso di membri sintagmatici si può valutare anche in questo caso se non inserirla: “Estate legata ai cibi o ai fiori o ai colori”. Si tratta di una scelta insolita, giustificabile se i membri siano non in opposizione, ma in alternativa (una sfumatura non sempre percepibile). Se i membri sono proposizionali, la mancanza della virgola è molto marcata; in una frase come la seguente la versione con le virgole è preferibile: “L’estate è il tempo giusto per andare in vacanza, o per rimanere in città a riposarsi, o per continuare a lavorare”.
La congiunzione oppure richiede la virgola più fortemente di o: non a caso introduce spesso il terzo membro (o, nel caso di più membri, l’ultimo) dell’elenco: “Estate legata ai cibi o ai fiori, oppure ai colori”. Come si nota, la mancanza della virgola tra i primi due membri e l’uso di oppure segnalano che l’ultimo membro è in contrapposizione con gli altri, automaticamente accomuncati proprio per effetto della contrapposizione instaurata. Se, invece, mettiamo la virgola anche prima di o, la contrapposizione si indebolisce, e oppure viene interpretata come una variante di o, che, del resto, è la sua funzione propria (oppure o pure): “Estate legata ai cibi, o ai fiori, oppure ai colori”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Nella frase “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così mi attivo per la ricerca”, vorrei sapere se prima di avvisami bisogna inserire la virgola. 
Inoltre, nello scritto è meglio usare la forma Mi sono ricordato, oppure ricordo?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla virgola dopo avvisarmi, fortemente richiesta per via della necessità di segnalare la separazione tra due unità informative all’interno di questo enunciato. La prima contiene il periodo ipotetico, la seconda la coordinata alla principale, con valore consecutivo. 
Oltre alla virgola, che è la soluzione più semplice, è possibile anche il punto e virgola, se si vuole enfatizzare l’autonomia dell’atto dell’attivarsi rispetto a quello dell’avvisare. Possibile anche il punto fermo, che renderebbe ancora più autonomo e rilevante l’atto dell’attivarsi. Con il punto fermo, inoltre, il secondo enunciato può assumere due forme: “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così mi attivo per la ricerca” e “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così, mi attivo per la ricerca”. La seconda variante isola così, sottolineando il collegamento logico tra la premessa dell’avvisare e la conseguenza dell’attivarsi
Per quanto riguarda la virgola prima di avvisami, è buona norma separare con la virgola la subordinata preposta alla sua reggente dalla reggente stessa. Tale norma ha a che fare con la sintassi del periodo più che con la sintassi dell’informazione; se la subordinata, al contrario, è posposta, l’inserimento della virgola risponde a ragioni più informative che sintattiche. 
Calando il discorso teorico sui suoi esempi, abbiamo le seguenti soluzioni: “Se ti vengono in mente altre mete, avvisami”, ma “Mi scusi se la disturbo”. Possibile, per la verità, anche “Se ti vengono in mente altre mete avvisami”, perché la subordinata ipotetica (ovvero la protasi del periodo ipotetico) si trova regolarmente prima della reggente (l’apodosi), visto che rappresenta la condizione dell’evento descritto nell’apodosi. La variante senza virgola è particolarmente efficace se la frase continua dopo la reggente con altre proposizioni coordinate o subordinate, perché permette di evitare una proliferazione di virgole (ma è una considerazione da fare caso per caso). È proprio questo il caso di “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così…”.
Per quanto riguarda l’opposizione tra mi sono ricordato ricordo, la variante pronominale del verbo contiene, proprio in forza del pronome, una sfumatura di coinvolgimento emotivo del soggetto nel processo. Per questo motivo è più tipica in discorsi informali, solitamente incentrati su esperienze personali. Sempre per questo motivo, inoltre, ricordo è tipicamente usato con valore fattitivo (su questo concetto si può vedere la risposta n. 280013 nell’archivio di DICO), cioè nel senso di ‘far ricordare a qualcuno’.
Faccio notare che mi sono ricordato può essere confrontato con ho ricordato: “Ieri mi sono ricordato dell’appuntamento / ho ricordato l’appuntamento quando era troppo tardi”, ma anche con ricordo​, in un contesto presente: “Mi sono ricordato / ricordo che Luca ci ha / aveva invitato a pranzo per oggi”. Molto strano sarebbe *”Ho ricordato che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”, a meno che il verbo non sia usato con valore fattitivo: “Ho ricordato a Mario che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Questo è il problema”, il soggetto della frase è Questo oppure il problema?

 

RISPOSTA:

​In questa frase abbiamo un soggetto e un predicato nominale. Per stabilire quale sia il soggetto e quale la parte nominale del predicato è utile ricordare la definizione astratta di queste funzioni logiche: il soggetto è l’elemento della frase a cui si riferisce il predicato; la parte nominale è il sintagma nominale o aggettivale che si unisce alla copula per formare il predicato nominale. La parte nominale serve a definire o qualificare il soggetto.
Seguendo queste informazioni astratte, nella sua frase abbiamo due possibilità: nel caso in cui la frase intenda definire l’elemento questo, come se rispondesse alla domanda “Che cos’è questo?”, il soggetto della frase è proprio questo, mentre il problema è la parte nominale, che definisce il soggetto. Se, invece, la frase intende indicare quale sia il problema, come se rispondesse alla domanda “Qual è il problema?” (in questo caso, nel parlato sarebbe pronunciata con intonazione ascendente su questo e con una breve pausa tra questo e è il problema), la situazione si capovolge: il soggetto è il problema e questo è è il predicato nominale, che definisce il problema. In questo secondo caso, quindi, “Questo è il problema” equivale dal punto di vista dell’analisi logica a “Il problema è questo”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda le forme di saluto nello scritto. Si può chiudere una lettera informale con Cordiali saluti? Oppure iniziare una elaborato con Salve? Nel ringraziare, sempre a livello informale, è possibile usare la forma Grazie mille

 

RISPOSTA:

​La rimando a questa risposta  dell’archivio di DICO, data qualche tempo fa, ma sempre valida, dal prof. Rossi a un altro utente riguardo alle formule da usare nelle e-mail. Potrebbe anche trovare utile questa nota, sempre del prof. Rossi, pubblicata in DICO, nella rubrica Lo sapevate che? ciao-arrivederci-e-salve-non-sono-del-tutto-intercambiabili/.
Infine, per quanto riguarda grazie mille, va benissimo in una lettera, o e-mail, informale di ringraziamento. L’informalità dipende dalla posposizione dell’aggettivo, che lo rende più enfatico, e dall’iperbolicità di mille; la variante più formale, non a caso, è molte grazie.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gentile staff DICO,

nonostante la mia lunga esperienza nel mondo accademico, ho sempre avuto alcuni dubbi su come si debba scrivere correttamente una e-mail. Nel mio caso, diretta ai professori universitari, ai quali rivolgo richieste molto comuni (ad esempio fissare una appuntamento nelle loro ore di ricevimento oppure avere chiarimenti in merito a seminari, convegni ecc.). Purtroppo non ho mai trovato una fonte ufficiale (come testi), che mi abbiano fornito le indicazioni, a parte qualcuna.

Vi ringrazio previamente per la Vostra cortesia.
Cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che la sua e-mail è scritta benissimo, e dunque potrebbe ben essere proposta a modello di stesura. Con un’unica omissione: non ha scritto il suo nome e cognome alla fine del messaggio, come invece sarebbe buona norma fare sempre.
Per il resto, sarebbe necessario distinguere sempre tra l’ambito informale (nel quale non vi sono regole particolari da seguire, se non quelle generali dell’italiano) e quello formale, come quello da lei suggerito: vale a dire una e-mail di lavoro, per es. a professori. In quest’ultimo caso, la posta elettronica non differisce molto dalle vecchie lettere cartacee: si inizia con il rivolgersi al proprio destinatario, con i titoli del caso: GentileChiar.mo ecc.
Dopo un a capo, meglio ancora se con un rigo bianco, segue il testo della lettera, che si deve concludere con i saluti e con la firma (nome e cognome).
Si può omettere la data, che è, nella posta elettronica, inserita automaticamente dal sistema. Il soggetto o oggetto (l’argomento) non occorre specificarlo nel corpo del messaggio, visto che c’è l’apposito campo Oggetto nei sistemi di posta elettronica.
Se la e-mail è molto formale, si può anche (non è indispensabile) optare per la maiuscola di cortesia, da utilizzare tutte le volte che ci si rivolge al destinatario: LeiSuoVostra ecc., esattamente come fa lei (io, invece, in questo caso opto per la forma più confidenziale, con l’iniziale minuscola), nella sua (bella) e-mail. L’importante è la coerenza: in un medesimo messaggio, o l’iniziale maiuscola di cortesia si scrive sempre, o mai, non qualche volta sì e qualche volta no, altrimenti si dà l’impressione di trascuratezza e disordine e di essere scriventi inesperti.
Poche, elementari regole, che possono essere reperite, per es., nei manuali di scrittura correnti. Recentemente, l’Accademia della Crusca sta vendendo, tutti i venerdì, insieme con la Repubblica, dei volumetti sull’italiano. La terza uscita era dedicata proprio alla scrittura online, con qualche indicazione anche sulla posta elettronica.
Mi permetto di suggerirle, tra i numerosi manuali di scrittura dell’italiano, il seguente: Fabio Rossi e Fabio Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria, Roma, Carocci, 2013.
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi seguenti i tempi sono  corretti?

1. “Ho pagato senza che sia stato fatto quanto accordato”.
2. “Ho pagato senza che fosse stato fatto quanto accordato”.
3. “Ho pagato senza che fosse fatto quanto accordato”.

Potreste spiegarmi il perché?

 

RISPOSTA:

​Le frasi sono tutte corrette, ma descrivono situazioni leggermente diverse.
La scelta del tempo del congiuntivo della proposizione subordinata (qui di tipo esclusivo) dipende proprio dalla consecutio temporum: secondo questa organizzazione del verbo, il congiuntivo passato (sia stato fatto) indica anteriorità rispetto al presente, quindi la prima frase descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in seguito alla (e nonostante la) mancata realizzazione del lavoro. Vero è che ho pagato non sia presente, ma passato prossimo; nella prima frase, però, questo tempo indica la situazione attuale, che è il risultato dell’azione del pagare (come se significasse ‘mi trovo adesso ad aver pagato’). Il congiuntivo trapassato (fosse stato fatto) indica anteriorità rispetto al passato, quindi la seconda frase descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in passato in seguito alla (e nonostante la) mancata realizzazione del lavoro. Qui il passato prossimo assume il suo valore proprio di passato. Lo stesso vale per la terza frase, che, in forza del congiuntivo imperfetto (fosse fatto), descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in passato, contemporaneamente alla mancata realizzazione del lavoro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sempre avuto la tendenza a usare la congiunzione quando con valore ipotetico, e facendola di conseguenza seguire dal congiuntivo, anche in quei casi in cui sarebbe stato possibile, o forse addirittura obbligatorio, il condizionale con valore temporale. 
In un frase quale

“Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”

Il congiuntivo è valido, nonostante il giungere dell’alba sia una certezza e non un’eventualità?
Questa particolare tendenza deriva in parte dalle mie letture giovanili dell’opera di Hemingway, in cui sono frequenti costruzioni ipotetiche simili a quella portata alla vostra attenzione.

 

RISPOSTA:

​La sua frase rifiuta una interpretazione ipotetica, sia a causa del contenuto della proposizione principale, sia per la costruzione temporale e per il contenuto della subordinata. L’evento del superare il fiume, infatti, appare situato nel futuro (ma dal punto di vista di una situazione passata); in una apodosi di periodo ipotetico al condizionale passato, invece, si presenta un evento situato nel passato (a volte un passato tendente al presente), che sarebbe avvenuto ma che sappiamo già non essere avvenuto, ad esempio: “Quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. Per cogliere con chiarezza la differenza tra costruzione propriamente ipotetica e al futuro nel passato (per un approfondimento di questo concetto si vedano le tante risposte al riguardo presenti nell’archivio di DICO), immagini la sua frase subordinata a un verbo di dire o di pensare al passato, che rappresenta il riferimento passato rispetto al quale l’evento del superare il fiume è futuro: “Il generale affermò che quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”; in questo modo, l’apparente “stranezza” del congiuntivo svanisce.
in un contesto di futuro nel passato come quello della sua frase, il congiuntivo non solo è ammissibile, ma è la soluzione più formale rispetto al condizionale passato nella subordinata temporale, anche se descrive un evento inevitabile come il sorgere dell’alba. La funzione primaria del congiuntivo, infatti, è quella di segnalare, in un registro medio-alto, la subordinazione; esso veicola l’idea dell’eventualità solamente in contesti ipotetici. 
Si noti che il contenuto della frase non sempre è sufficiente per stabilire se la frase sia al futuro nel passato o sia un periodo ipotetico dell’irrealtà; l’esempio fatto sopra è uno di questi casi: se lo manipoliamo allo stesso modo della frase sull’esercito, si trasforma da periodo ipotetico a descrizione di un evento futuro rispetto al passato: “Dissi che quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. In questi casi è il contesto della frase a farci optare per l’interpretazione corretta.
Fabio Ruggiano

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​QUESITO:

In analisi logica e grammaticale, come si analizza ci nelle espressioni: “CI incontreremo alle 16?”, “CI vedremo alle 16”?
I verbi incontrarsi e vedersi vanno considerati transitivi o intransitivi?

 

RISPOSTA:

​Si tratta di un pronome personale atono, anche detto particella pronominale. In analisi logica va considerato parte integrante dei verbi incontrarsi e vedersi. Volendolo analizzare, esso sembra avere la funzione di complemento oggetto, ma questa è in contraddizione con il genere intransitivo di questi verbi.
Ricordo che in questi verbi, detti riflessivi reciproci o solamente reciproci, il pronome ci non ha il valore propriamente riflessivo di noi stessi, ma uno leggermente diverso, difficile da esprimere in altro modo: “Io e Luca dobbiamo incontrarci” significa non *’Io devo incontrare me stesso e Luca deve incontrare sé stesso”, ma ‘io devo incontrare Luca e Luca deve incontrare me’ (mentre “Io e Luca dobbiamo vestirci” significa esattamente ‘Io devo vestire me stesso e Luca deve vestire sé stesso’). 
Aggiungo che entrambi i verbi in questione possono essere costruiti anche come intransitivi pronominali, in casi come “Stasera mi incontrerò / mi vedrò con Luca”, nei quali il pronome non ha alcun valore proprio (la frase non significa *’incontrerò / vedrò me stesso con Luca’) e serve solamente a sottolineare il coinvolgimento del soggetto nell’azione espressa dal verbo. In questi casi, in analisi logica non si può che considerare il pronome come parte integrante del verbo.
Sia che siano costruiti come reciproci, sia che siano costruiti come intransitivi pronominali, i due verbi sono intransitivi (e richiedono l’ausiliare essere).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A proposito dell’eterno dualismo si passivante / si impersonale, ampiamente discusso in precedenti occasioni, vi domando se, in presenza di una doppia particella pronominale all’interno di un periodo, si sceglie, di preferenza, l’una o l’altra costruzione: “Da anziani, ci si dimentica / dimenticano le cose”.

 

RISPOSTA:

Dimenticare è un verbo transitivo, che, nella sua frase, regge un complemento oggetto. In questo contesto, il si ha la funzione di rendere il costrutto passivo: “Da anziani si dimenticano le cose” (ovvero “Da anziani le cose sono dimenticate”). Non bisogna confondere questa costruzione con quella del verbo dimenticarsi, che vediamo in un esempio come: “Il mio vecchio zio si dimentica le cose”. In questo caso il si funge da pronome personale atono intensificatore (che, cioè, enfatizza la partecipazione del soggetto al processo designato dal verbo), quindi il verbo concorda con il soggetto (infatti, cambiando soggetto avremo, per esempio, “Io mi dimentico sempre le chiavi nelle tasche delle giacche”).
Se al si aggiungiamo il pronome ci il costrutto diviene impersonale (il soggetto è un noi generico), quindi il verbo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dalla presenza o assenza del complemento oggetto, e a prescindere dal numero del complemento oggetto. Nella sua frase, pertanto, l’unica costruzione corretta è “ci si dimentica le cose”. La costruzione, scorretta, *”ci si dimenticano le cose” è attratta dal già visto “si dimenticano le cose”, ma anche da espressioni del tutto diverse, ma apparentemente identiche, come “e poi ci si mettono anche gli imbecilli del caffè a ridere” (Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, 1960), in cui gli imbecilli non è il complemento oggetto, ma il soggetto del verbo pronominale mettersi e ci è un pronome che possiamo parafrasare come ‘in questa situazione’ (sulla funzione avverbiale del pronome ci rimando a questo articolo di DICO, e soprattutto alla risposta del prof. Rossi al commento di un utente, che si trova in coda all’articolo). Per completezza, va detto che mettercisi può anche essere considerato un verbo procomplementare, ovvero un verbo nel quale l’appendice pronominale (qui -cisi) non ha un significato autonomo, ma conferisce al verbo un nuovo significato: mettere ‘introdurre un oggetto dentro un altro’ / mettercisi ‘darsi a una attività’. Maggiori informazioni sui verbi procomplementari sono fornite in altre risposte presenti nell’archivio di DICO (si trovano inserendo nella maschera di ricerca la parola chiave procomplementare).
La ricerca nel web attraverso Google rivela che le occorrenze di *”ci si dimenticano le cose” sono più numerose di quelle di *”ci si dimentica le cose”: questo fatto indica che i parlanti sono inclini ad accettare la forma scorretta e addirittura a preferirla. Aggiungo che, in letteratura, è attestato l’accordo del verbo impersonale con il complemento oggetto per la costruzione impersonale del tipo noi si va; Luca Serianni, nella sua grammatica (Italiano, Garzanti, 2000), riporta questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Ora queste ragazze andavano alla messa e noi si volevano accompagnare”. L’attrazione esercitata dai costrutti passivanti su quelli impersonali è, quindi, forte, tanto da far passare inosservata la scorrettezza di *”ci si dimenticano le cose”. Ritengo, comunque, che si possa ancora considerarla scorretta, e che si debba scoraggiarne l’uso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale forme sono corrette?

1. Nonostante i nostri atteggiamenti da onnipotenti non potremmo / potremo mai fare a meno degli altri organismi del mondo vegetale e animale.

2. Dedichiamoli pure le attenzioni che meritano; magari come quelle che eventualmente destineremmo / destineremo a nobili personaggi come il Marchesino Eufemio.

3. Se ne sono andati minacciando che dopo questo attacco ne sarebbero seguiti / seguiranno altri.

4. È facile capire che non avremo / avremmo mai la fortuna di vivere realmente questa utopia.

5. Una situazione che farebbe sorgere una domanda legittima: “Chi difenderebbe / difenderà i diritti di coloro che, giustamente, non accetterebbero mai un pregiudicato alla guida di un governo?”

 

RISPOSTA:

​La scelta tra indicativo futuro e condizionale presente nei suoi esempi è una questione non di correttezza, ma di scelta espressiva. Dipende, cioè, da come si vuole rappresentare l’evento, come un fatto che avverrà in futuro, o come la conseguenza di una condizione implicita (tranne che nella frase 3, che discuterò alla fine). 
Nella frase 1, per l’appunto, se usiamo il futuro abbiamo una affermazione al futuro (non potremo mai fare a meno…); se, invece, usiamo potremmo esprimiamo una conseguenza, quindi lasciamo intendere che ci sia una condizione implicita: “Non potremmo mai fare a meno degli altri organismi (se anche ci provassimo)”. 
Nella frase 2, l’avverbio eventualmente suggerisce che l’atto del destinare sia condizionato, quindi favorisce il condizionale (eventualmente equivale a una protasi come “se volessimo” o “se dovessimo scegliere” o simili). Il futuro, però, non è escluso: rispetto al condizionale, pone il destinare come fattuale, certo (nella mente del parlante); eventualmente, del resto, può anche essere interpretato come ‘se vorremo’, o ‘se dovremo scegliere’ o simili. Attenzione, dedichiamoli non è corretto, perché il pronome enclitico li ha la funzione di complemento oggetto: dedichiamoli significa ‘dedichiamo queste persone’. Il senso ricercato, qui, è ‘dedichiamo a queste persone’, che si ottiene con il pronome enclitico gli, quindi dedichiamogli, come soluzione più informale (oggi largamente accettata anche nello scritto di media formalità), oppure con dedichiamo loro o dedichiamo a loro, come soluzione più formale. Si noti che dedichiamo loro è ambiguo, perché significa sia ‘dedichiamo queste persone’, sia ‘dedichiamo a queste persone’: è una piccola stranezza della lingua italiana, che, comunque, si risolve quasi sempre grazie al senso generale della frase.
La frase 4 risponde alla stessa logica della 1 e della 2: la scelta tra indicativo futuro e condizionale presente è legata al senso ricercato, un fatto futuro (non avremo mai la fortuna) o una conseguenza condizionata da un altro evento, implicito, che potrebbe accadere (non avremmo mai la fortuna). Va detto che, volendo usare il condizionale, la costruzione con non avremmo mai la fortuna sarebbe un po’ insolita (ma non scorretta): comunemente le si preferirebbe non potremmo mai avere la fortuna, proprio come nella frase 1.
La frase 6 è analoga alle altre.
La frase 3 presenta una situazione diversa, perché contiene il condizionale (che non a caso qui è passato, non presente) nella funzione di indicatore di futuro nel passato, non di conseguenza di una condizione. In questo caso, la scelta deve dipendere dalla consecutio temporum: il verbo reggente la proposizione in questione è minacciando, a sua volta dipendente da se ne sono andati, che è passato. Per esprimere un evento futuro rispetto a un altro evento passato si usa proprio il condizionale passato: la scelta più regolare è, pertanto, sarebbero seguiti. Il futuro seguiranno non può dirsi scorretto: può essere considerato legittimo se lo mettiamo in relazione non con se ne sono andati, ma con dopo questo attacco, equivalente a in futuro. Una soluzione come questa potrebbe essere giudicata più trascurata, meno precisa, rispetto a quella del condizionale passato, ma potrebbe anche dipendere da una scelta espressiva consapevole, diretta a rappresentare la realtà in modo più vivido.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Porto alla vostra attenzione il seguente brano:

“Mettiamo che il medico voglia approfondire l’origine dei tuoi disturbi. Tra uno o due mesi potrebbe suggerirti un semplice prelievo venoso per controllare i tuoi valori; e se, nel frattempo, fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, potrebbe prescriverti un esame diagnostico più invasivo”.
Apprezzerei la vostra opinione relativamente alla validità di tre aspetti:
1. Il punto e virgola prima della congiunzione e;
2. L’uso del congiuntivo trapassato (fosse maturata), anziché del congiuntivo imperfetto, nella protasi, per introdurre un’ipotesi di cui non si ha contezza al momento dell’enunciazione;
3. L’accordo del sostantivo plurale mesi con l’aggettivo numerale due nonostante il precedente uno avrebbe richiesto il singolare. In questo caso sarebbe stato maggiormente formale ripetere il sostantivo (“Tra un mese o due mesi…”)?

 

RISPOSTA:

​Il punto e virgola è corretto: separa, all’interno di un enunciato complesso, due unità informative, la seconda delle quali è ulteriormente divisa in più unità informative, ben separate da virgole. 
Quello che non convince, piuttosto è il connettivo e dopo il punto e virgola, che introduce quella che si rivela essere un’alternativa. Propongo questa correzione: “… i tuoi valori; oppure, se nel frattempo fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, …”.
Il congiuntivo trapassato è ugualmente corretto: indica che il parlante giudichi l’evento improbabile. Vista la delicatezza dell’argomento, si tratta di una sfumatura fortemente indotta dalle convenzioni della cortesia, per sottolineare che l’ipotesi peggiore è anche quella più remota. Remota, ma sempre possibile, come rivela l’apodosi al condizionale presente (potrebbe prescriverti).
L’accordo di mesi con uno o due, infine, segue la regola dell’accordo al plurale tra referenti di generi diversi e una proforma che li raggruppa. Si pensi a “Ieri ho incontrato i miei amici Laura, Giulia e Andrea”. Tale regola è largamente accettata, anche in contesti formali, perché evita ridondanze come un mese o due mesi, o le mie amiche Laura e Giulia e il mio amico Andrea. Rimane, però, possibile, e tutto sommato più preciso (quindi anche più formale), fare tale distinzione, se il contesto lo richiede.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho qualche dubbio sull’uso della virgola, precisamente: 

“Vado al cinema, dove incontrerò Lucia. 

In questa frase è corretto inserire la virgola prima di dove? in quali casi la congiunzione e può essere preceduta dalla virgola?

 

RISPOSTA:

Nella frase in questione la virgola è ammessa, ma non necessaria; il suo inserimento dipende dal senso che si vuole dare alla frase. Senza virgola, il senso sarà: ‘Vado proprio in quel cinema in cui incontrerò Lucia”; con la virgola sarà: ‘Vado al cinema, e lì incontrerò Lucia’. La virgola, cioè, separa due unità informative, delle quali una è di primo piano (qui coincidente con la proposizione principale), la seconda è di sfondo (qui la proposizione relativa introdotta da dove). Con la virgola, quindi, la proposizione relativa diviene accessoria (e viene detta esplicativa ), mentre senza virgola essa è informativamente unita alla principale, di cui limita il senso (e viene, per questo, detta limitativa). Come si vede, infatti, il cinema dove incontrerò Lucia è un’informazione unitaria, nella quale dove incontrerò Lucia individua un cinema preciso (da qui la funzione limitativa), quello nel quale avverrà l’incontro. Nella variante con la virgola, invece, il cinema può essere uno qualsiasi, non viene identificato, e l’incontro è un evento che si aggiunge a quello dell’andare al cinema, senza dire niente su quale sia il cinema scelto. Altre risposte su questo argomento, con frasi diverse e altri dettagli, possono essere trovate nell’archivio di DICO usando la parola chiave limitativa.
Per quanto riguarda la e, la questione è analoga: la virgola separa informativamente la proposizione o il sintagma introdotti dalla congiunzione, rendendoli di sfondo rispetto a quelli con i quali sono coordinati. Si veda questo esempio letterario: “I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta” (Giovanni Verga, Certi argomenti, 1876). La proposizione coordinata preceduta da virgola (ed erano accorsi in fretta ) diviene, proprio in virtù della virgola, di sfondo rispetto al resto della frase. Questa organizzazione fa assumere alla coordinata una sfumatura consequenziale (‘e per questo erano accorsi in fretta’) e, nello stesso tempo, fa risaltare l’unità informativa precedente e l’evento in essa descritto, che diviene di primo piano. Senza virgola, invece, la coordinata sarebbe parte di una unica unità informativa nella quale il contenuto delle due proposizioni sarebbe sullo stesso piano e ugualmente importante.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi viene in mente un problema ricorrente nelle tesi (e non solo) e cioè l’uso di “ne” pronome (col valore di complemento di specificazione, di argomento, partitivo etc.). Soprattutto l’uso pleonastico (per es.: “di questo ne abbiamo già parlato”; “di gelati ne ho mangiati due”; “non ne abbiamo bisogno del tuo aiuto” e simili) è spesso incontrollato, proprio perché viene usato abitualmente in riferimento a elementi della frase già espressi: appesantisce il dettato e credo che nella lingua scritta non debba essere usato.

 

RISPOSTA:

È vero: nei casi come quelli indicati nel quesito, il ne va assolutamente evitato, nel registro formale, in quanto pleonastico. Si tratta, tecnicamente, di casi di dislocazione, dei quali DICO si è già occupato qui.

Come detto in quella sede, tuttavia, non tutti i casi di dislocazione sono condannabili, sia perché alcuni di essi sono ormai perfettamente grammaticalizzati (“infischiarsene di qualcosa” ecc.), sia perché a volte sono un prezioso strumento pragmatico per agevolare la ripartizione del discorso in informazione data (o tema) e informazione nuova (o rema). Vedi, al riguardo, anche questo intervento.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Poter dormire accanto a te è una delle cose più belle che la vita poteva regalarmi”. In questa frase é corretto utilizzare la forma poteva, si deve usare la forma potesse, o sono corrette entrambe? 

 

RISPOSTA:

L’indicativo non è scorretto, ma è più informale del congiuntivo, che è la variante standard. In un contesto intimo, pertanto, è appropriato. Nell’archivio di DICO potrà trovare molte altre risposte intorno all’imperfetto e all’alternanza tra indicativo e congiuntivo (per esempio questa).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Tra le frasi sotto riportare quali sono considerabili valide?
1. Prima dei cani, lei si occupava di cavalli.
2. Prima che i cani, lei si occupava di cavalli.
3. Prima che di cani, lei si occupava di cavalli.
4. Oltre ai cani, lei si occupa (anche) di cavalli.
5. Oltre i cani, lei si occupava (anche) di cavalli. 
6. Oltre che (oltreché) di cani, lei si occupa di cavalli.

 

RISPOSTA:

​Le due varianti sostanzialmente corrette, ma non perfette, sono la 3 e la 6, perché in entrambe la proposizione subordinata con il verbo sottinteso (“Prima che di cani” e “Oltre che / oltreché di cani”) mantiene quasi la stessa costruzione della reggente. Non sono perfette perché la forma del verbo sottintesa non è identica a quella contenuta nella principale (“Prima che si occupasse di cani, lei si occupava di cavalli”, “Oltre che / oltreché occuparsi di cani, lei si occupa di cavalli”), quindi non potrebbe essere sottintesa. Preferibile, quindi, esplicitare il verbo anche nelle subordinate. Nel parlato e nello scritto informale e di media formalità, comunque, costruzioni del genere sono molto comuni e pienamente accettabili: il verbo sottinteso, infatti, è facilmente inferibile e non c’è possibilità di fraintendimento sul senso della frase.
Possibili anche “Prima di occuparsi di… lei si occupava di…” e tutte le varianti qui descritte con la sostituzione, nella reggente e nella subordinata, di dei a di (con il cambiamento semantico che consegue all’introduzione dell’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Vorrei risolvere un dubbio circa l’uso di “quale” nella seguente frase: “Fibrillazione atriale: ruolo dei farmaci anticoagualanti quale approccio terapeutico”. È corretto? O sarebbe più indicata la forma “nell’approccio terapeutico”?
Grazie.

 

RISPOSTA:

Il dubbio è essenzialmente concettuale: va, cioè, chiarito se i farmaci anticoagulanti rappresentano da soli un approccio terapeutico (nel qual caso va bene quale) o fanno parte dell’approccio terapeutico (nel qual caso va bene nel ).

Fabio Ruggiano

 

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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Qual è la punteggiatura adatta per inserire “o meglio” in una frase? Esempi: ,o meglio, ,o, meglio, ,o meglio; o meglio, O forse è bene evitare quest’espressione abbastanza comune nella lingua parlata e usarne altre come “per meglio dire”?

 

RISPOSTA:

Non c’è niente di male a usare l’espressione o meglio. Essendo usata quasi sempre come incidentale, per contrapporre immediatamente due concetti, essa richiede le due virgole, di apertura e chiusura, come in questo esempio (dalla novella Padron Dio di Luigi Pirandello): “viveva di elemosina, senza mai chiederla, o meglio, chiedendola in un modo suo particolare”. L’incidentalità, però, può essere meno marcata, ad esempio perché ci sono più di due termini in gioco; in questo caso, si può avere solo la virgola di apertura, come si vede in quest’altro esempio, tratto dalla novella La casa dell’agonia, sempre di Pirandello: “ad ammirarsi o a commiserarsi tra loro, o meglio anche a sonnecchiare”.
Al contrario, è anche possibile evidenziare l’avverbio meglio tramite una terza virgola, dopo o; la conseguente frammentazione del discorso, però, potrebbe risultare sgradevole, quindi bisogna ponderare l’opportunità di tale scelta.
Scelte stilistiche creative, con i punti e virgola o anche i punti fermi, sono sempre possibili, all’interno di un uso coerente, alla luce di sfumature di senso o di ritmo che si vogliono imprimere al discorso.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un contesto di discussione, con la frase “Se loro non trascendono da ciò che vogliono fare” volevo intendere la possibilità che su alcune cosa non si possa fare diversamente da quanto loro stessi vogliono. Mi è stato puntualizzato che il significato era sostanzialmente diverso. Chi è in errore?

 

RISPOSTA:

Stando al GRADIT, il dizionario dell’uso più esteso in circolazione, il verbo trascendere può essere transitivo e intransitivo. Tralasciando le accezioni tecnico-specialistiche e quelle letterarie, come intransitivo, il verbo ha il significato di ‘dare in escandescenze’ e può avere come ausiliare essere o avere : “Non capisco perché hai/sei trasceso in quella discussione”. Il verbo ha anche il significato di ‘oltrepassare, andare oltre’, che si avvicina (sebbene non coincida) a quello che lei intendeva. Sempre secondo il GRADIT, però, con questo significato il verbo deve essere costruito transitivamente, quindi non “se loro non trascendono da ciò che vogliono fare”, ma “se loro non trascendono ciò che vogliono fare”. Così costruita, la frase significa, grosso modo,’se loro non finiscono con il fare più di quanto era loro intenzione’.

A dispetto della regola, per la verità, è invalso l’uso intransitivo del verbo anche con il significato di ‘oltrepassare’. Una veloce ricerca in Internet mostra frasi come “qualità che trascendono da un mero discorso tecnico”, “i leader trascendono da un ruolo meramente manageriale”, “i tradizionali strumenti normativi trascendono da una dimensione territoriale ben definita”, “interessi che trascendono da quelli inerenti alla soluzione della controversia” ecc.

In conclusione, trascendere non può significare ‘fare diversamente’, ma può significare ‘oltrepassare, superare, andare oltre’. Con questo significato, secondo i dizionari andrebbe costruito transitivamente, quindi con il complemento oggetto, ma l’uso intransitivo, con la preposizione da, è comune nell’uso, anche in testi mediamente e altamente formali.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

È più corretto dire a mare o al mare? Comunemente ho notato che si usa al mare quando si risiede in una città lontana da esso o ci si stabilisce in una casa strategicamente vicina, ma queste sfumature non possono avere senso, grammaticalmente. Altra questione annosa: la e negli anni (almeno oralmente) è un errore o solo una mia mortale antipatia?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda le espressioni al mare e a mare, può leggere il quesito Al mare/a mare/in spiaggia/a spiaggia nell’archivio di DICO.
Sulla congiunzione e nelle date, immagino si riferisca a quella che unisce il mille iniziale alle cifre seguenti, ad es. in mille e novecentodue. Sia nel parlato che nello scritto, sono considerate accettabili, ed effettivamente usate, tanto le forme univerbate (ad es. millenovecentodue) quanto quelle con la congiunzione (che si scriveranno separate, appunto: mille e novecentodue).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“La dichiarazione è sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità in corso di validità del sottoscrittore ai sensi degli articoli 35 e 38 del D.P.R. n. 445/2000.
Esenta da imposta di bollo ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445″.

 

RISPOSTA:

La voce esenta in questione potrebbe anche rappresentare, come da lei suggerito, un caso di verbo con soggetto sottinteso (e anche con oggetto sottinteso: esenta il sottoscrittore), ma sarebbe assai strano, in un testo burocratico che tende, semmai, all’iperspecificazione piuttosto che all’omissione. Sarebbe corretto ma comunque non comune, anche in un testo non burocratico, dal momento che il verbo esentare richiede di norma tutti i suoi argomenti: chi esenta chi da che cosa. È dunque più plausibile pensare a un refuso per esente, in una frase nominale, tipica dello stile burocratico. Vale a dire che la dichiarazione non richiede l’imposta di bollo, ma può esser fatta in carta semplice.
Purtroppo, quello da lei sottopostoci è un ennesimo esempio delle falle dei testi burocratici, che riescono a rendere criptici anche i concetti più semplici. Fosse per me, lo riscriverei così: 
 

“La dichiarazione deve essere firmata ed essere presentata insieme alla fotocopia di un documento di identità valido ai sensi degli articoli 35 e 38 del D.P.R. n. 445/2000.
La dichiarazione va presentata in carta semplice, senza imposta di bollo ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445″.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È routine, causa fretta, dimenticarmi le monete nell’auto. Stamane mi viene offerto un caffè e declino in quanto provvisto di monete: “Grazie. Ho arraffato le monete dall’auto poco fa. Se non le avevo te lo chiedevo io…”. Un collega mi riprende: ”Perché usi l’imperfetto? Avresti dovuto dire: Se non le avessi avute allora te lo chiederei”. Mi è rimasto il dubbio. Si possono usare i due verbi consecutivi in tempo imperfetto? L’azione è abituale.

 

RISPOSTA:

Si può usare senza dubbio l’imperfetto indicativo nel periodo ipotetico dell’irrealtà, o misto, come nel suo esempio. È un uso da sempre attestato in italiano, anche in letteratura (numerosissimi gli esempi settecenteschi, tra l’altro, anche in poesia), che i grammatici chiamano indicativo irreale. Sicuramente, si tratta di una forma più adatta allo stile informale e colloquiale che non a quello di elevata formalità, che continua a preferire il congiuntivo. Ma in una conversazione tra amici è più che appropriato!
Tuttavia, la giustificazione dell’imperfetto non risiede tanto nell’abitualità dell’azione, sibbene nella sua ipoteticità. L’imperfetto indicativo, infatti, oltre a valori temporali (passato) e aspettuali (serve cioè a esprimere qualità dell’azione quali la continuatività, la ripetizione, l’abitualità ecc.), possiede anche valori modali epistemici, cioè serve a esprimere un certo margine di dubbio, di ipotesi, di probabilità dell’azione. È proprio da questo punto di vista che viene usato frequentemente in frasi come quella da lei sottopostaci.
Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli online è una parola italiana? Policy è una parola italiana? loginwebmasterinternational? Siccome sono tutte presenti in un sito che si vanta di conoscere l’italiano, (addirittura affiliato ad una università) anzi addirittura a suggerire le migliori espressioni da usare in tale lingua, io penso che dovrebbe cominiciare a suggersi una buona lettura di un vocabolario e presentare un sito corretto.

 

RISPOSTA:

Attendevamo una domanda come la sua, dal momento che molti parlanti e scriventi si sentono disturbati dall’eccesso di parole inglesi nella lingua italiana. DICO ha già preso posizioni al riguardo, come lei sicuramente già saprà: infatti, in diverse sezioni del nostro sito abbiamo suggerito, qualora possibile, di evitare l’eccesso di forestierismi, specialmente quando termini italiani equivalenti sono consolidati e a portata di mano.
Ciò premesso, come dice il proverbio, “il troppo stroppia”, le crociate non si addicono alla lingua, né alla convivenza civile, e il tono polemico non aiuta la discussione, né la divulgazione, né l’approfondimento scientifico.
In primo luogo, DICO non ha l’obiettivo di “suggerire le migliori espressioni da usare in” italiano, come scrive lei. Anzi, il nostro obiettivo è proprio quello di mostrare la duttilità di qualunque lingua storico-naturale. Ci prefiggiamo, semmai, lo scopo di mostrare la varietà delle scelte possibili. Piuttosto che puntare il dito, pensiamo sia utile mettere a disposizione gli strumenti possibili per arrivare da soli a un uso consapevole della lingua.
In secondo luogo, gli esempi di anglicismi da lei addotti (onlineloginwebmaster ecc.) sono perlopiù tecnicismi informatici, di fatto imposti dai sistemi in uso in qualunque sito internet. Sostituirli con equivalenti italiani, qualora fosse possibile, genererebbe probabilmente un notevole fraintendimento tra gli utenti, che ormai se leggessero parola d’ordine o parola di passo, faccio per dire, in luogo di password, si sentirebbero di colpo catapultati in ambiente militare o massonico, piuttosto che in un sito di infrarete (già che ci siamo, perché non sostituire Internet con infrarete?).
Il buon uso della lingua passa, sicuramente, anche per le scelte lessicali, ha ragione lei: ma non saranno certo pochi anglicismi informatici a intaccarne l’integrità. Ammesso poi che l’integrità sia un valore, nell’uso linguistico. Se così fosse, che ne direbbe di tornare a parlare latino?
Infine, la inviterei a riflettere su altre violazioni della norma linguistica, come per esempio quella sintattica da lei commessa, nella sua elettrolettera (= e-mail), allorché ci scrive: “ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli”. Quel li pleonastico, ammissibile in una conversazione informale ma non certo in una lettera formale di chi si erge a giudice del buon uso dell’italiano, è il tipico esempio di caduta di controllo nella progettazione del periodo. Per saperne di più al riguardo, potrebbe andare a guardare, questo intervento in DICO, e anche la domanda  in questo quesito dell’Archivio.
Fabio Rossi

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QUESITO:

Potrebbe aiutarmi a chiarire il significato dell’espressione “curare la traduzione”. Il Treccani dice: “C. l’edizione di un’opera (d’altro autore), prepararne il testo per la pubblicazione, per lo più attraverso l’esame comparativo della tradizione a stampa e, quando si risalga a manoscritti, mediante le varie operazioni della critica testuale”. Penso, forse erroneamente, che possa significare anche ‘tradurre’. Che cosa si evince dalla frase: “Egli curò la prima traduzione mondiale”?

 

RISPOSTA:

Curare e a cura di sono spesso usati in modo improprio o quantomeno allargato. Nel caso da lei segnalato, è evidente che “curò la traduzione” è semplicemente un modo avvertito come più formale e ricercato di dire ‘tradusse’. A me è capitato recentemente di vedere articoli scritti da autori che però figuravano sotto la dizione a cura di.
Non v’è dubbio che il significato più preciso sia quello segnalato dalla Treccani, e che dunque il curatore sia diverso dall’autore. Tuttavia, usi in cui con a cura di si intenda in realtà l’autore (o il traduttore) sono assai frequenti.
Dietro serpeggia la solita paura, brillantemente diagnostica da Italo Calvino come antilingua, di chiamare le cose col loro nome e la volontà di nobilitarle a tutti i costi, spesso in modo ridicolo. Come se un semplice traduttore si prendesse cura del proprio lavoro meno di un più generico, professionale (e meno materiale) curatore.
Fabio Rossi
 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è la forma giusta tra i due periodi: 1. “Se c’è un tempo per morire, 21 anni e 33 anni non è quello giusto”. 2. “Se c’è un tempo per morire, 21 anni e 33 anni non sono quello giusto”. È o sono? 

 

RISPOSTA:

In realtà, entrambi i periodi da lei indicati sono corretti, visto che in 1 l’accordo del verbo è con il soggetto dell’ipotetica (“tempo”, nonché soggetto logico di “21 anni e 33 anni…”), mentre in 2 con il soggetto della reggente (“21 anni e 33 anni”). Il fatto che in 2 la parte nominale del predicato sia singolare (“quello”) non costituisce alcun problema, visto che il verbo può essere accordato, in italiano, tanto con il soggetto quanto con il predicativo del soggetto (o con la parte nominale). Pensi al seguente caso: “Il suo ritorno è stata una sorpresa” o “Il suo ritorno è stato una sorpresa”. Nei Suoi esempi, inoltre, “21 anni e 33 anni” sono in realtà dei plurali anomali, in quanto il soggetto vero e proprio non è tanto “anni”, quanto “età” (il “tempo” per morire, appunto, che è singolare: l’età di 21 anni o l’età di 33 anni).
Forse, per evitare il più possibile ogni ambiguità e ogni fastidio dovuto a un uso poco razionale della lingua (sebbene nessuna lingua possa essere giudicata secondo un assolutismo razionalistico), propenderei per una terza opzione: “Se c’è un tempo per morire, né 21 anni né 33 anni è quello giusto”. O, meglio ancora: “quello giusto non è né 21 né 33 anni”. Mi pare che in questo modo, con una coppia negativa (né né, vale a dire ‘nessuno dei due’) piuttosto che aggiuntiva (e), il verbo al singolare sia più facilmente giustificabile.
Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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QUESITO:

Io lavoro all’università e malgrado la mia, diciamo così, buona conoscenza dell’italiano, mi trovo a chiedere sempre: ma come devo scrivere: l’8 aprilel’1 aprilelo 08 o lo 01? O è meglio scrivere il 1° o scriverlo in lettere? Inoltre, si scrive dall’1 o dallo 01?
E poi conseguente o consequente? Io ho scritto conseguente perchè da una azione primaria dovrebbero seguirne altre… consequenziali (o conseguenziali?). Sono giuste tutte e due?

 

RISPOSTA:

Tutti dubbi più che legittimi, stia pur tranquillo/a, e condivisi dalla gran parte degli italiani, anche colti, per via del fatto che certe cose non vengono (quasi) mai spiegate dalle grammatiche, oppure perché l’italiano è più elastico (e dunque ammette più soluzioni) di quanto comunemente si creda. Rispondiamo con ordine a tutte le sue domande.
1) Decisamente meglio l’8, l’11 ecc. La soluzione con lo zero davanti è tipicamente burocratica e da riservarsi a quei formulari che pretendono due cifre per ogni numero: 04/05/15 per il 4 maggio del 2015, per intenderci.
2) Se però il giorno del mese è il primo (nella scrittura distesa, meglio scrivere i numeri a lettere, piuttosto che in cifre, ma nelle date secche, e nei formulari burocratici, la scrittura in cifre è obbligatoria), allora sarebbe meglio scrivere “1° maggio”, piuttosto che “1 maggio”, e pronunciare “primo maggio” (o giugno ecc.) piuttosto che “uno maggio”. Questo per via della consuetudine antica (conservatasi quasi soltanto per il primo giorno di ogni mese) di intendere il numero del giorno come numero ordinale (primo, secondo ecc., sottinteso giorno) e non cardinale. Comunque, anticamente, si utilizzavano per le date anche i numeri cardinali, ma li si introduceva con gli articoli: per es., “li 22 di aprile”. Sottinteso: giorni. Naturalmente, li è un articolo arcaico, oggi non più possibile, anche se rimasto disponibile nei soliti formulari burocratici: es. Messina, li… Dato che è articolo e non avverbio di luogo, la forma con l’accento (pure talora attestata) è erronea: Messina, lì… Erronea perché, come ripeto, non si tratta di un avverbio di luogo.
3) Si dice e si scrive “dal 2 all’8”, “dal 1° al 10 luglio” e simili. Ovviamente, se il formulario impone sia l’articolo sia lo zero iniziale, l’unica forma corretta non può che essere “dallo 01 allo 08”, anche se, come ripeto, è brutto (sia a vedersi scritto, sia a sentirsi pronunciato) e burocratico. Meglio sempre senza zero.
4) Seguente e conseguente si scrivono con la g in quanto derivano direttamente dall’italiano, come participi presenti del verbo seguire. Invece consequenziale è ripreso dalla forma latina consequentia, e per questo si scrive con la q. Si tratta comunque, all’origine, sempre di eredi del verbo latino sequi. Tuttavia, quando la parola che ne è derivata in italiano ha avuto una trafila etimologica popolare, vale a dire di uso ininterrotto dall’antichità fino ad oggi, con tutti gli inevitabili cambiamenti fonetici, la q si è trasformata (tecnicamente, sonorizzata) in g, come in conseguenzaseguire ecc. Quando, invece, la parola che ne è derivata ha seguito una trafila dotta, recuperando cioè artificiosamente l’antica forma latina, la q si è mantenuta: sequenzaconsequenziale. Spessissimo, dalla medesima forma latina, derivano diverse forme italiane (dette allotropi) con esiti fonetici diversi. Per es., dal latino vitium derivano tanto l’italiano vizio, quanto l’italiano vezzo. Da radium derivano radiorazzo e raggio ecc. ecc.
Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Desidererei sapere se esiste e nel caso il significato della parola antipomeridiano.

 

RISPOSTA:

Da un certo punto di vista, la parola antipomeridiano non esiste, dal momento che non è attestata nei vocabolari. Esiste antimeridiano (dal latino meridies ‘mezzogiorno’), con due significati: 1) mattutino, ciò che accade prima di mezzogiorno; 2) la metà di un meridiano (per es. quello di Greenwich).
Ovviamente ogni lingua è creativa e può avere un numero di parole ben più elevato rispetto a quanto registrato dai dizionari. Basti pensare ai meccanismi di derivazione e composizione di parole a partire da una forma data: dalla parola pomeriggio, per es., io posso ben creare antipomeriggiopomerigginopomeriggiaccio ecc., e il fatto che non compaiano nei dizionari non le rende parole impossibili né scorrette. Sono, per dir così, parole virtuali, vale a dire possibili, anche se non attestate, secondo il sistema fonomorfologico (cioè delle regole di pronuncia, di grafia e di formazione delle parole) della lingua italiana.
Pertanto, possiamo anche coniare antipomeridiano, in certi contesti. Non certo nel significato di ‘mattutino’, visto che antimeridiano già assolve perfettamente a quella funzione; ma magari nel senso di ‘contrario alle attività del pomeriggio’, Per es. in un testo del genere: “io odio lavorare o studiare il pomeriggio, perché dopo pranzo mi viene una gran sonnolenza e tutto quel che riesco a fare è dormire almeno dalle 3 alle 6. In questo senso mi definirei un antipomeridiano”.
Se proprio vogliamo segnalare la natura neologica (cioè di parola nuova) di antipomeridiano, possiamo, eventualmente, scriverlo tra virgolette. Ma non è obbligatorio.
La creatività delle lingue, anche nella formazione delle parole nuove, è una risorsa straordinaria e una delle principali cause dell’arricchimento e dell’evoluzione lessicale. È anche il motivo per cui non è possibile rispondere con certezza alla domanda: “quante parole esistono in una determinata lingua”?
Come sempre, tuttavia, negli usi linguistici, l’importante è la consapevolezza. Se usassimo antipomeridiano nel significato di antimeridiano, perché ignoriamo quest’ultimo termine, commetteremmo un errore. Mentre, se il neologismo antipomeridiano è consapevolmente usato con il valore di ‘contrario alle attività pomeridiane’ (o, perché no, in altri possibili significati), non soltanto non commettiamo nessun errore, ma mostriamo addirittura una vivacità e un’originalità (sempre salutari) nell’uso linguistico, allontanandoci da triti stereotipi.
Molti neologismi nascono proprio così e, con un po’ di fortuna, attecchiscono stabilmente nel sistema lessicale. Basti pensare a regista o autista, coniati, nel 1932, dal linguista Bruno Migliorini, quali (fortunatissimi) sostituti dei termini francesi régisseur e chauffeur.
Fabio Rossi

Parole chiave: Neologismi
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QUESITO:

Mi trovo a dover descrivere due fenomeni opposti: in un caso il nome Apollonia viene storpiato in Polonia e immagino si tratti di aferesi. In un altro caso il cognome Gizziello viene storpiato in Egizziello. C’è un nome tecnico per indicare tale fenomeno?

 

RISPOSTA:

Il primo fenomeno è definibile come afèresi, mentre il secondo, l’aggiunta di un fonema o di una sillaba non etimologici all’inizio di una parola, come pròstesi. La prostesi più comune in italiano consiste nell’aggiunta di una i- eufonica prima di parole inizianti con s- seguita da consonante, quando siano precedute da parole che finiscono per consonante, per facilitare la lettura del gruppo, ad esempio: per iscritto, per ischerzo, in istrada . Oggi questo fenomeno è percepito come artificioso e antiquato ed è , pertanto, evitato. In alcune parole è avvenuta l’aggiunta di una a- sempre per rendere la pronuncia meno faticosa, così dal latino vulturem è derivato avvoltoio . Questo è il contrario di quanto è successo in altri nomi che hanno subito l’aferesi (perché la prima lettera è stata interpretata come un articolo determinativo o parte di esso), ad esempio rena dal latino arenam, avello da labellum, usignolo da lusciniolum ecc.

I casi da lei proposti sono dei veri e propri storpiamenti, probabilmente intenzionali e a scopo ironico, influenzati dall’assonanza dei cognomi con aggettivi di nazionalità.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché quando scriviamo un testo (in questo caso non intendo su un supporto digitale) non utilizziamo mai l’accento grave, ma su quelle parole per cui è prevista l’accentazione inseriamo solo quello acuto? Si può considerare grammaticalmente corretto o dovremmo essere a conoscenza di quei vocaboli che per natura portano l’uno o l’altro accento?

 

RISPOSTA:

L’accento è un tratto grafico piuttosto trascurato nella prassi della lingua. Per varie ragioni, che vanno dalla scarsa visibilità del corpo del segno alla limitata presenza del segno nel sistema, esso tende a essere omesso in scritti poco formali (nei testi dialogici elettronicamente mediati, ad esempio) e rappresenta uno dei tratti più problematici dell’apprendimento dell’ortografia. Stando così le cose, l’insegnamento scolastico tralascia quasi sempre l’argomento della distinzione tra accento grave e acuto, limitandosi a trattare l’accento in generale. Per questo motivo, gli scriventi adottano normalmente un unico tratto, che può coincidere con l’accento grave (dall’alto verso il basso, corrispondente a una vocale aperta), quello acuto (dal basso verso l’alto, corrispondente a una vocale chiusa), nessuno dei due (per esempio un segno piatto, oppure un quasi-apostrofo), o alternativamente l’uno o l’altro dei segni, senza la consapevolezza della differenza. È ovviamente più corretto differenziare i due accenti, anche se comunemente non si fa (e, bisogna dirlo, dal punto di vista fonologico cambia poco).
Alcune regole di base: in italiano l’accento grafico si segna solamente quando cade alla fine della parola. L’accento in fine di parola è quasi sempre grave. Se la parola finisce in aiu, per convenzione si segna sempre l’accento grave (alcune case editrici preferiscono l’accento acuto per la i e la u, che sono, effettivamente, vocali chiuse). Se la parola finisce in o, ha sempre l’accento grave, perché la o è sempre aperta in fine di parola. Se la parola finisce in e, hanno l’accento acuto solamente sé, i composti di che (perchénonchébenché…), la terza persona singolare del passato remoto di alcuni verbi della seconda coniugazione (abbattéperdépoté) e poche altre parole (nontiscordardimé). Per togliersi il dubbio è sempre bene consultare il dizionario. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché secondo i più si dovrebbe dire “vado al mare” e non “vado a mare”?

 

RISPOSTA:

Andare al mare significa “andare in una località che si trova nei pressi del mare”. Se ci si trova in città, e si va verso una località del genere, allora si sta andando al mare; se, invece, ci si trova già in spiaggia, e semplicemente ci si avvicina al mare, non si sta andando al mare, ma piuttosto in acqua.

La forma “(andare) a mare” sembra essere non standard, ma diffusa solamente nel Sud Italia. Tra le ragioni che hanno portato alla sua diffusione possiamo immaginare che essa funzioni da compromesso tra al mare e in acqua nel caso in cui ci si trovi in una località marittima o balneare, ma non in prossimità del mare, e ci si stia dirigendo verso il mare. Questa condizione è tipica, ma non esclusiva, del Meridione (nella Liguria di Ponente esiste l’espressione “andare a spiaggia”, che sembra rispondere alla stessa esigenza di rappresentare la condizione di andare al mare pur essendo già molto vicini ad esso); su “andare a mare” deve aver influito anche il fenomeno linguistico dell’assimilazione, marcatamente meridionale, per cui al mare si pronuncia [am’mare] e da qui viene reinterpretato nello scritto come a mare.

A mare non è del tutto estraneo all’italiano: è accettato nello standard in pochissimi casi, come “buttare/buttarsi a mare”, “tuffarsi a mare” e simili; oppure nel senso di ‘sul mare’, come in “porta a mare”, usato da Guicciardini, “tira vento di greco a mare” (D’Annunzio), “passeggiata a mare”; e in alcuni toponimi, non a caso quasi tutti meridionali, Praia a Mare, Castello a Mare, ma anche Gatteo a Mare e, nell’Ottocento, Bologna a Mare, italianizzazione di Boulogne-sur-Mer.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è l’origine della parola buzzo e del modo di dire di buzzo buono?

 

RISPOSTA:

L’etimologia precisa del termine buzzo (attestato anche, in diverse forme, in varie regioni, sia al Nord sia al Centro) è controversa. Parrebbe però connessa con una radice germanica dal significato di ‘stomaco, ventre’, da cui anche il milanese buseca ‘trippa’, italianizzato in busecca e busecchia (attestato anche in Boccaccio), e il toscano e romanesco buzzurro ‘cafone’ (ma letteralmente ‘uomo panciuto’). L’espressione di buzzo buono, cioè ‘con impegno’, varrebbe dunque, alla lettera: ‘con tutto lo stomaco, con tutte le interiora, con tutto lo sforzo e l’energia possibili’.
Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho notato che il 90% dei miei studenti abusa dell’aggettivo determinato, usato prevalentemente come pre-modificatore: determinate paroledeterminate personedeterminati momentideterminato gruppo etc. Ha chiaramente un valore indefinito e vago (leggi ‘inutile’) e non indica affatto il significato di ‘prestabilito, prefissato’. Non mi spiego la frequenza d’uso che ha dei valori incredibilmente alti negli elaborati in italiano dei miei studenti e mi chiedo cosa provochi questo (ab)uso.

 

RISPOSTA:

Di norma, gli aggettivi qualificativi assumono una funzione diversa se preposti o posposti al nome a cui si riferiscono: nel primo caso essi sono detti descrittivi e servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome; nel secondo caso sono detti restrittivi e indicano una qualità oggettiva posseduta dall’oggetto, tale da distinguere l’oggetto da altri simili. Così “Il verde prato in cui giocavo da bambino” comunica una partecipazione emotiva all’enunciato, assente in “Il prato verde in cui giocavo da bambino” (al netto del contenuto emotivo complessivo dell’enunciato). 
Alcuni aggettivi assumono, a seconda della posizione rispetto al nome, non solo una funzione, ma anche un significato diverso: “Un caro amico” / “Un amico caro”, “Una vera sorpresa” / “Una sorpresa vera”, “Un povero artigiano” / “Un artigiano povero”. All’interno di quest’ultima categoria, esiste un sottogruppo di aggettivi che, in posizione prenominale, perdono quasi del tutto il proprio significato e assumono la funzione di enfatizzare o intensificare l’oggetto designato dal nome: “Un forte mal di testa” / “Un mal di testa forte”, “Un alto commissario” / “Un commissario alto”, “Una discreta somma” / “Una somma discreta”. Tra questi ultimi facciamo rientrare certo e il sinonimo determinato. Preposti al nome, questi aggettivi sono desemantizzati (come osservato da lei), quindi non aggiungono alcuna qualità al nome, ma ne intensificano, soggettivamente, il valore. Possiamo assimilare l’uso di questi strumenti a quello, altrettanto diffuso, di avverbi del tutto desemantizzati come praticamenteovviamentedi fatto.
Fermo restando che questa funzione dell’aggettivo è codificata e accettata nello standard italiano, bisogna chiedersi come mai un uso che serve solamente a dare enfasi al discorso, senza aggiungere informazioni (e che, pertanto, deve essere limitato al parlato informale e a pochi altri contesti), sia tanto ricorrente nel parlato (e a volte anche nello scritto) dei giovani. È possibile che simili aggettivi funzionino come riempitivi di pause, cioè servano ad allungare l’enunciato in modo da dare il tempo all’emittente di pensare al segmento successivo. Accanto a questa necessità, si può individuare anche l’intento di dare maggior peso, pragmatico, alle parole, per compensare una insicurezza di fondo sul contenuto semantico delle stesse. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quando si può dire semplicemente “La storia diverte qualcuno” e quando “la storia fa divertire…”?

 

RISPOSTA:

Le due costruzioni – la seconda delle quali è detta causativa o fattitiva – sono praticamente equivalenti dal punto di vista del significato: “La storia fa divertire qualcuno” è assimilabile a “La storia fa in modo che qualcuno si diverta”, quindi, appunto, “diverte qualcuno”.
Si noti che, di norma, l’equivalenza tra la forma attiva e quella causativa vale solamente con i verbi che nella forma pronominale assumono un valore medio: “Io sono divertito” significa, infatti, ‘mi diverto’. Con gli altri verbi transitivi, invece, le due forme hanno significato diverso, ad esempio: “Luca fa accompagnare Maria” equivale a “Luca fa in modo che qualcuno (non lui) accompagni Maria”. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Perché in italiano esiste l’espressione “Mi sono tagliata i capelli”, quando in realtà l’azione è stata fatta da altri? In inglese esiste la costruzione “I had my hair cut”, cioè ho avuto qualcun altro che ha fatto l’azione per mio conto. In questo caso l’espressione mi farebbe pensare a un’azione subita, decisa dalla volontà di altri e dunque non piacevole. Perché?

 

RISPOSTA:

Nessuna lingua codifica tutte le relazioni e i concetti possibili, né tutte le lingue codificano le medesime relazioni allo stesso modo. Dunque, per es., per esprimere il forte coinvolgimento emotivo del parlante rispetto all’azione compiuta, riportata o subita, il greco antico (e molte altre lingue indoeuropee) aveva a disposizione la diatesi media dei verbi, che in latino, in italiano e nella gran parte delle lingue moderne si è persa.
Ciò premesso, in effetti l’italiano e l’inglese hanno due modi diversi di esprimere il concetto di “Mi sono tagliata i capelli” (e altri analoghi), che probabilmente il greco avrebbe espresso col medio e il latino col dativo etico (si veda la bella voce dativo etico nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, ormai gratuitamente online). L’inglese adotta qualcosa di molto simile al medio-passivo (tant’è vero che ricorre al participio passato con valore passivo).
In effetti quel mi è una sorta di dativo etico, o di benefattivo, che non indica certo né il complemento di termine né un pronome riflessivo (cioè non sono io che li ho tagliati a me stesso, ma me li ha tagliati il parrucchiere). In altre parole, quel mi sono ecc. indica un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione (anche in altri casi più o meno colloquiali si usa il mi: “Mi sono mangiato una pizza”, “Mi sono fatto due birre”, “Mi sono ricordato”, “Mi sono dimenticato” ecc.), o di chi riceve l’azione, ovvero, potremmo anche dire, del soggetto logico (“mi sono tagliato i capelli” = ‘mi hanno tagliato i capelli’), coinvolgimento che già nella tarda latinità poteva essere espresso dal caso dativo (da cui l’estensione del complemento di termine in italiano).
Come giustamente osserva lei, si può aggiungere che l’alternativa più formale non potrebbe essere “Mi hanno tagliato i capelli” (che implicherebbe un’azione contro la mia volontà, mentre, viceversa, la presenza del mi in questo caso indica proprio il mio coinvolgimento), ma, semmai, “Ho tagliato i capelli”. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, si perderebbe il coinvolgimento, per dir così, affettivo all’azione compiuta, o ricevuta.
Insomma, è questa una delle numerose situazioni nelle quali la lingua parlata, o quantomeno meno formale, sembra avere più risorse, rispetto allo scritto formale, per esprimere le più minute sfumature dell’animo.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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QUESITO:

In aula, durante una lezione in cui si commentavano i versi finali del coro del quarto atto dell’Adelchi di Manzoni, nel termine colono (v. 119) uno studente coglieva una connotazione “ideologica”, estranea invece al termine contadino: colono, diceva, è chi lavora alle dipendenze di un padrone, coltivando terreni non di proprietà. Ne è nata una vivace discussione…
C’è del vero in quanto affermava? E qual è in realtà la sfumatura che diversifica i due sostantivi?

 

RISPOSTA:

Lo studente mostra una sottile conoscenza del lessico contemporaneo, nel quale, in effetti, con colono si designa un contadino dipendente, cioè un coltivatore di un fondo non suo. Diversa la natura del lessico poetico, spesso rivolto al passato, e in particolare al significato che le parole avevano in latino.
Qui Manzoni (il quale nella prosa si mostra ben più moderno che in poesia, dal punto di vista linguistico) utilizza colono nel significato originario di ‘agricoltore’ (dal verbo còlere ‘coltivare’). Si tratta dunque, nel caso dell’Adelchi, di un latinismo semantico, vale a dire di una parola italiana usata tuttavia nel significato della corrispondente parola latina.
Un dibattito siffatto, peraltro, mostra una bella vivacità sia degli studenti coinvolti sia del docente, in quanto stimola proprio l’arricchimento lessicale e l’approfondimento diacronico della lingua, colta nelle sue sfumature dagli usi poetici a quelli in  prosa, dallo scritto al parlato, dagli usi arcaici a quelli contemporanei.
Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua letteraria
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È meglio dire (o scrivere): “Un gruppo di persone è arrivato o sono arrivate? Quale è la differenza? Meglio considerare un gruppo come il soggetto oppure concordare by proximity e usare il plurale? Cambia in qualche modo il registro?

 

RISPOSTA:

Nello stile formale non c’è dubbio che la soluzione della concordanza con il sostantivo principale del sintagma (la cosiddetta testa) sia la soluzione più appropriata: “Un gruppo di persone è arrivato”. Va tuttavia ricordato che da sempre, in un registro un po’ più rilassato, l’italiano (come del resto già il latino) prevede anche la concordanza a senso, dunque con il senso di collettività espresso dall’intero sintagma: “sono arrivate un milione di persone”, e simili.
Dunque: verbo al singolare nello stile formale, singolare o plurale indifferentemente in quello meno formale.
Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

Il mio dubbio é sorto nel momento in cui una persona di lingua inglese, da pochi anni in Italia, mi chiese il perché usassimo dire: “Veniamo tutti a casa tua” invece di “Andiamo tutti a casa tua”. Essendo il verbo venire intransitivo, non sono riuscita a spiegare la differenza tra venireandare e raggiungere nel modo più semplice possibile.

 

RISPOSTA:

Il problema sorge nel confronto tra l’italiano e l’inglese. Italiano e inglese concordano sull’uso di andare e venire in frasi come: “Vado a casa di Luca” ( “I’m going to Luca’s”) e “Vengo con te” ( “I’m coming with you”). Nel caso di: “Vengo con te a casa di Luca”, invece, l’inglese preferisce dire: “I’m going with you to Luca’s”, usando to go, ovvero ‘andare’. Non si può dire che l’uso di una delle due lingue sia scorretto; piuttosto, diciamo che in italiano venire non significa solamente ‘andare nel luogo dove si trova la persona con cui si parla (“Vengo da te”) o la persona che parla (“Luca viene da me”)’, ma anche ‘andare in un luogo insieme alla persona con cui si parla’ (“Vengo con te da Luca”) o insieme alla persona che parla (“Luca viene con me da Andrea”).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Scritto-parlato-mediato
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QUESITO:

È più corretto dire: “Se vuoi vengo prima a casa tua” o “Se vuoi raggiungo prima casa tua”?

 

RISPOSTA:

Venire e raggiungere sono parzialmente sinonimi, cioè condividono parte del loro significato; difficilmente, però, possono essere usati in modo interscambiabile. Nella frase da lei proposta, per esempio, “raggiungere casa tua” non ha lo stesso significato di “venire a casa tua”, perché raggiungere indica che nel processo di avvicinamento ci sia stato uno sforzo o una gradazione: infatti si dice raggiungere un obiettivo (non *venire a un obiettivo), raggiungere la vetta, “finalmente ti ho raggiunto”, “la temperatura ha raggiunto i 40 gradi” ecc. Più vicino a raggiungere è arrivare, che, però, enfatizza meno la gradualità del processo e concentra più l’attenzione sul traguardo. Venire, invece, ha un significato più ampio, senza tratti semantici secondari.
“Se vuoi, raggiungo prima casa tua”, quindi, fa pensare che la casa dell’interlocutore sia lontana o difficile da, appunto, raggiungere.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi chiedo se i termini utilizzati ormai universalmente dai ragazzi italiani negli SMS o nelle chat (ad esempio xke in luogo di perché) possano essere ritenuti italiano o no. 

 

RISPOSTA:

Le abbreviazioni come quelle usate negli SMS non sono esattamente delle parole nuove, ma sono degli adattamenti di parole già presenti nel sistema della lingua ad un tipo di comunicazione molto veloce. Questi adattamenti sono utili quando il messaggio deve essere scritto in breve tempo e risparmiando spazio, come, appunto, negli SMS. Nella storia della comunicazione, più volte la lingua è stata sottoposta a simili adattamenti al mezzo, ad esempio nelle iscrizioni murarie latine (tanto per fare un esempio: “LEG AVG PR PR” significa ‘Legatus Augusti pro praetore’), nei telegrammi, nella stenografia. 
Simili usi devono, però, essere limitati – e questa è una regola generale che riguarda tutte le scelte linguistiche – ai contesti nei quali sono funzionali. Le abbreviazioni, cioè, sono accettabili (sebbene non obbligatorie: il gusto personale è sempre esercitabile) negli SMS e nelle chat, meno in altri tipi di messaggi, come le e-mail, per niente in scritti dalla struttura distesa (i compiti in classe di italiano, per esempio). E non è solamente il tipo di testo che ammette o esclude queste abbreviazioni, ma anche il livello di formalità atteso per la comunicazione in corso: un SMS ad un amico è diverso rispetto ad uno ad un professore, o ad un superiore con cui non si ha confidenza.
In conclusione, le abbreviazioni, come altre “licenze” diffuse negli SMS, sono paragonabili alla scrittura di getto, utile quando si compila la lista della spesa, ma inadatta a contesti di comunicazione mediamente formali o anche solamente non confidenziali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In italiano formale, ad esempio in una relazione, le parole straniere vanno sempre virgolettate anche se non esistono analoghi in italiano (o sono desueti)? Per esempio, come dorei scrivere i termini router o switch, ma anche computer?

 

 

RISPOSTA:

Come al solito, nelle lingue quasi mai la risposta è semplice e univoca, tipo sì/no, corretto/scorretto. Nel caso da te richiesto, la gran parte dei linguisti conviene sulla necessità di contrassegnare sempre un termine straniero, per indicarne l’estraneità (talora anche nella pronuncia) rispetto al sistema italiano. Tuttavia l’espediente più comune per contrassegnare i forestierismi non è rappresentato tanto dalle virgolette (che sarebbe meglio riservare alle citazioni e, più raramente, agli usi semantici particolari delle parole), bensì dal corsivo. Dunque, anche computer , mouse, router ecc. andrebbero, soprattutto in contesti formali, sempre scritti in corsivo.

Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

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QUESITO:
Con un collega tempo fa c’era una diatriba su questo termine. Io, vedendo l’etimologia e cercando su un vocabolario on line dicevo che era altamente offensivo fare sarcasmo su altri. La sua fonte era Wikipedia 😉

 

RISPOSTA:
In effetti, l’etimologia della parola sarcasmo (il verbo greco sarkazo ‘dilanio’) lascia intendere che il termine indichi un atteggiamento estremamente negativo nei confronti di chi ne è fatto oggetto. Una considerazione generale, però, è che l’etimologia non esaurisce il significato delle parole (tanto per fare un esempio evidente, pupilla non significa in italiano ‘bambolina’, come in latino), ma ne rappresenta un nucleo che si arricchisce nel tempo e negli usi. Prendiamo un esempio come il seguente, di una famosa scrittrice del Novecento, Maria Bellonci (dal romanzo Rinascimento privato, 1986):

“Federico ha fatto anche questo” rispose con sarcasmo Alfonso, “ha sottoscritto il contratto nuziale sotto gli occhi dell’imperatore. E mai Carlo abdicherà alla sua maestà di ordinatore del mondo.”

È indubbio l’intento offensivo espresso dal termine; anche se, come si evince dall’esempio, l’offesa è indiretta e non particolarmente violenta. Il sarcasmo, infatti, sfuma spesso nell’ironia e nella beffa, di cui rappresenta quasi un sinonimo.
Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Ho sentito diverse volte questa frase: “Fa tutta la differenza del mondo”. Con essa si intende che al mondo ci sono tantissime differenze in ogni campo, quindi vorrebbe dire che fa una differenza enorme?

 

RISPOSTA:

​Il senso dell’espressione idiomatica, chiaramente iperbolica, è che fare una scelta rispetto a un’altra, pure possibile, rappresenta la distanza maggiore possibile tra due opposti. Tra le due scelte, cioè, si pone tutta la differenza che si può trovare nel mondo, quindi tutta la differenza possibile. 
Il mondo è usato in molte espressioni di vario genere, per definire il massimo grado di qualcosa; lo troviamo come termine in relazione al quale esprimere una qualità superlativa: “La più bella del mondo”, oppure per definire una quantità enorme: “Ti voglio un mondo di bene”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È notorio che con i verbi modali, accompagnati da essere avere, si debba utilizzare l’ausiliare che si concilia con l’infinito. Faccio un esempio: “Ho voluto mangiare da solo”. In effetti si dice ho mangiato. Ancora: “Sono dovuto partire improvvisamente”, in effetti si dice sono partito e non ho partito. Ci sono però alcuni casi in cui sorge qualche dubbio. Esempio: “Non ho voluto venire con voi”. In questo caso, secondo me, non ho voluto è accettabile in quanto denota meglio la mia ferma volonta di non venire. Certo, si può anche dire “Non sono voluto venire con voi”, e forse è più corretto, ma reputo non ho voluto quasi più efficace.

 

RISPOSTA:

​La scelta dell’ausiliare con i verbi modali è meno rigida di quanto lei creda. Se non ci sono dubbi su avere con i verbi transitivi (nessun parlante nativo direbbe mai *sono voluto fare), con i verbi intransitivi l’oscillazione tra essere e avere è un fatto antico e ben radicato anche in letteratura. Ecco alcuni esempi di avere + modale + infinito di verbo intransitivo: 
 

“Come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d’Aristotile, coi cui princìpi ne hanno amendue ragionato!” (Giovan Battista Vico, Principi di scienza nuova, 1744);

“Guarda dal parapetto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco – diceva Giovanni tabaccone – non avrebbe potuto cadere in terra” (Arrigo Boito, Il demonio muto, 1883); 

“Egli avrebbe voluto alzarsi e camminare nel gabinetto, per vincere l’emozione che gli cresceva nel cuore, ma si accorgeva che la fanciulla non aveva ancora finito” (Alfredo Oriani, La disfatta, 1896).

“Ma avrebbero potuto andare avanti e indietro senza timore di svegliarli, scavalcandoli tutti, tanto dormivano in pace” (Elio Vittorini, Le donne di Messina, 1949).

La ragione dell’oscillazione non è di natura espressiva, come sospetta lei per il suo esempio, ma dipende dalla costruzione sintagmatica verbo modale + infinito, che è molto solidale, tanto che il modale può essere percepito come autonomo rispetto all’infinito, ma anche come un tutt’uno con l’infinito. Nel primo caso, l’ausiliare è selezionato dal modale, che formalmente è il verbo con il quale l’ausiliare entra in composizione (ho dovuto | andare); nel secondo caso, l’ausiliare è selezionato dal verbo all’infinito (sono dovuto andare). Questo spiega anche perché non ci sia la stessa oscillazione con i verbi transitivi: ho dovuto | fare = ho dovuto fare
Attenzione: il verbo essere preferisce l’ausiliare avere a essere. L’autorevolissima Grammatica italiana di Luca Serianni (UTET, 1988), anzi, la considera l’unica scelta corretta. Io non sarei così drastico, e mi limiterei a considerare essere + modale + essere una scelta trascurata, ma pur sempre ammissibile in contesti informali (non credo che molti parlanti sarebbero disturbati da frasi come “Nonostante la malattia, lo zio è voluto essere presente alla laurea della nipote”). In ogni caso, bisogna rilevare che l’uso vivo propende decisamente per avere + modale + essere: la ricerca di sarebbe potuto essere nell’archivio di Repubblica per l’anno 2019 restituisce appena 15 attestazioni, a fronte di 99 per avrebbe potuto essere
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

È corretto l’uso del punto interrogativo nelle seguenti frasi? Esistono delle semplici regole per evitare errori?

1. Che dire quando il tentativo di sdoganare l’indicibile arriva proprio dall’alto, come l’affermazione di un ex parlamentare ora deceduto, che è lecito prostituirsi per far carriera?

2. Vogliamo paragonare l’efficacia immediata di questi sbrigativi sistemi anche se di dubbia moralità e durata, col fare una lunga gavetta politica, affrontare seri provini o un concorso non truccato?

3. D’altronde, come avremmo potuto fare tesoro di qualcosa di astratto anche se d’impareggiabile valore, non essendo riusciti a conservare, sfruttare e valorizzare nemmeno le vestigia del passato?

4. Sarà la fine del patto scellerato e del ragazzaccio toscano?  

5. Sarebbe curioso conoscere se ancora oggi i soliti tuttologi, politologi e opinionisti che si erano subito esaltati, spero in buona fede, al suo ingresso in politica, continuano a vedere in lui il Messia.

 

RISPOSTA:

Tutti gli esempi sono corretti, compreso l’ultimo periodo, nel quale il punto interrogativo giustamente non c’è. In generale, il punto interrogativo si mette alla fine delle proposizioni interrogative dirette (esempi 1-4), mentre si evita alla fine delle interrogative indirette (esempio 5). Quindi “Dove vai?”, ma “Ti ho chiesto / Vorrei sapere dove vai”. Se la proposizione interrogativa diretta, che è sempre una principale, è arricchita da coordinate e subordinate semanticamente necessarie alla domanda, il punto interrogativo può apparire senza problemi in coda a tutto il periodo che si viene a creare, come negli esempi 1-3.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei portare alla vostra attenzione un passaggio ricavato da un romanzo che sto leggendo:

È o non è probabile che, una volta che non fosse avvenuta la resurrezione fisica del corpo di Gesù, i suoi resti fossero stati deposti in un ossario presso il monte Moriah, con vista privilegiata sul Tempio?”
(traduzione dall’originale di Vaticanum di J.R. Dos Santos, pagina 379, pubblicato da Newton Compton editori).

Ammetto tutte le mie difficoltà nello stabilire in primis se il costrutto sia valido dal punto di vista sintattico e, in secondo luogo, nel comporre la relazione semantica tra le proposizioni contenenti i due congiuntivi trapassati.
Modificando l’assetto del costrutto, a mio avviso aumenterebbe la comprensione del passaggio:

È o non è probabile che i suoi resti fossero stati deposti in un ossario presso il monte Moriah, con vista privilegiata sul Tempio, una volta che non fosse avvenuta la resurrezione fisica del corpo di Gesù?”

Ma tenderei comunque a differenziare i due tempi del congiuntivo, trasformando fossero stati deposti in siano stati deposti.

 

RISPOSTA:

La frase è malformata, e ammette un’unica correzione: fossero stati deposti deve diventare sarebbero stati deposti. La correzione da lei proposta, il congiuntivo passato al posto del trapassato, pur sintatticamente possibile, si scontra con il senso della frase, che riguarda non quello che è successo, ma quello che sarebbe successo (ma, per l’appunto, non è successo) se il corpo di Gesù non fosse risorto. A maggior ragione, lo spostamento delle proposizioni non sana il problema. Un simile, grossolano, errore sintattico da parte del traduttore può essere dovuto all’attrazione esercitata dal primo congiuntivo trapassato sul verbo della proposizione successiva, che, però, è una subordinata di primo grado, ed è la reggente della subordinata che la precede (rappresenta l’apodosi del periodo ipotetico completato dalla protasi ipotetico-temporale “una volta che non fosse avvenuta la resurrezione fisica del corpo di Gesù”). Non escludo che il traduttore sia di madrelingua inglese, e abbia confuso le due funzioni che la forma would può assumere in italiano, appunto quella di condizionale e quella di congiuntivo: “If I would come, I would be rejected” = ‘Se venissi, sarei lasciato fuori’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

“Perot, un uomo che si era fatto da sé e dalla povertà era assurto a diventare uno degli uomini più ricchi d’America…”. È corretto l’uso del verbo assurgere che ho trovato nella precedente citazione tratta da un articolo giornalistico? Normalmente i vocabolari forniscono esempi in cui il verbo è seguito solo ed esclusivamente da sostantivi: “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo” ecc… Può il verbo assurgere essere seguito da un altro verbo?

 

RISPOSTA:

Il verbo assurgere ‘elevarsi a un ruolo, a una funzione’ è effettivamente seguito solitamente dal nome che definisce il ruolo o la funzione assunta. La reggenza proposizionale, però, non è esclusa: l’indagine on line rivela più di 10. 000 attestazioni del solo “assurgere a diventare” (qualcuna in meno di “assurge a diventare”). Sono numeri molto alti, se si considera che il verbo non è di largo uso. Tale costruzione si trova in contesti di formalità media e medio-bassa (molti esempi vengono da giornali locali, blog di vario genere e siti informativi anche specialistici) ; se ne trova una traccia trascurabile, invece, in pubblicazioni monografiche (almeno tra quelle censite da Google Books).

La costruzione deriva probabilmente dalla forte restrizione operata dal verbo nei confronti dei possibili collocati; i sintagmi nominali che seguono tipicamente (quasi esclusivamente) assurgere a, cioè, sono pochi: le combinazioni possibili si limitano a “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo”, “assurgere al ruolo di, alla funzione di, alla carica di” e “assurgere al trono”. Anzi, se facessimo una ricerca sull’uso reale, potremmo scoprire che l’elenco è anche più limitato; la restrizione operata da questo verbo, quindi, è probabilmente ancora più forte. In ogni caso, la costruzione “assurgere a uno degli uomini più ricchi d’America”, che sarebbe la variante nominale della frase del suo esempio, per quanto grammaticalmente corretta e preferibile da tutti i punti di vista, potrebbe suonare alle orecchie del parlante medio come non tipica, quindi potenzialmente malformata. Da qui la scelta di inserire un verbo copulativo a completamento; una scelta che non produce un errore sintattico, ma rende la frase meno felice perché in parte ridondante, visto che l’idea di diventare è già contenuta nel significato di assurgere.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda queste espressioni: a chiazzea striscea pallinia buchia disegnia fumettia fioria stellea strappi. Possono essere utilizzate anche sugli esseri viventi e non solo sugli oggetti? Se una persona fosse coperta da macchie cutanee, tatuaggi e disegni, si potrebbe utilizzare la costruzione nome + macchie cutaneetatuaggi e disegni?
Di solito, quando vedo  i termini a fioria strisce ecc., li associo a immagini sparpagliate, ma nel caso di a buchi mi è capitato che si associasse non tanto a immagini di buchi, ma a effettivi buchi. Altri esempi come a buchi sono: pantaloni a strappi e quaderno ad anelli
Mi è capitato di leggere ghepardo dal mantello a chiazze e capelli a strisce: sono da considerare errori? 
Il termine colori ha lo stesso significato dei termini a strisce e a fiori? Se sì, vuol dire che si utilizza solo p’er gli oggetti?
Queste espressioni si possono utilizzare anche per le piante e i liquidi, come, per esempio, pianta a strisce e mare a chiazze? Oltre ad avere il significato di ‘immagini sparpagliate su una superficie’, inoltre, possono avere il significato di a pezzia cubettia fettine; con questo significato, sarebbe corretto adoperarle per gli esseri viventi? Esempio: “Sono a pezzi”, “Sono a strisce” (‘fatto di strisce’).

 

RISPOSTA:

Tutte le espressioni che indicano un certo tipo di colorazione o, in generale, di aspetto di una superficie si usano, appunto, in riferimento a superfici: è il caso di a chiazzea striscea pallinia poisa puntinia macchiea fiori e simili. L’espressione a colori è quella più generica, che racchiude tutte le altre: si suppone, infatti, che le chiazze, le strisce, i pallini ecc. siano di colori diversi dallo sfondo, quindi qualunque superficie a chiazze o altro è anche a colori, nel senso che presenta almeno due colori.
Quando sono riferite a oggetti inanimati è automatico associare queste espressioni alla superficie degli oggetti, come per mare a chiazze = ‘superficie del mare a chiazze’. Alcune di queste espressioni, con una piccola forzatura, possono riferirsi non all’aspetto della superficie, ma alla forma dell’oggetto. Penso a foglia a strisce (o, meno precisamente, pianta a strisce), che descrive primariamente la colorazione variegata della superficie della foglia, e che, in modo un po’ vago, può essere usata anche per descrivere la forma della foglia. Le espressioni costruite con a + nome plurale che si riferiscono alla forma di un oggetto, però, sono tipicamente diverse: a cubettia fettea blocchi, oppure a forma di…
Gli esempi che lei porta di possibile confusione tra la superficie e la forma sono poco significativi: in pantaloni a strappi la forma dell’oggetto e la sua superficie coincidono, quindi non si può decidere se a strappi sia associato alla superficie o alla forma dell’oggetto. Si tratta, inoltre, di una espressione bizzarra: lascia credere che gli strappi siano connaturati ai pantaloni, e non applicati ad essi. Non a caso essa è pressoché assente on line, e dovrebbe essere sostituita da pantaloni con strappi, o pantaloni strappatiQuaderno ad anelli, invece, è del tutto fuori luogo, perché gli anelli non indicano né un aspetto della superficie del quaderno né una sua forma, ma sono oggetti a parte uniti al quaderno. Esistono, invece, i fogli a buchi, che sono quelli nei quali si infilano gli anelli del quaderno ad anelli. In questo caso succede lo stesso che per pantaloni a strappi: la superficie del foglio coincide con la sua forma.
Le persone sono più complesse degli oggetti e ci aspettiamo che vengano descritte distinguendo l’apparenza dalla sostanza. Per questo motivo un’espressione come *persona a strisce è insensata (a meno che non sia ironica; ma anche in quel caso andrebbe ben contestualizzata), perché dà l’idea di una persona costituita da strisce. Possiamo, però, dire persona con la pelle a strisce, o al limite persona con il corpo a strisce, specificando che le strisce sono visibili sulla superficie del corpo della persona stessa (per esempio perché la persona in questione si è abbronzata in modo disomogeneo). In alternativa, si può dire che la persona è coperta di…ricoperta di…piena di… Quanto detto per a strisce vale per a chiazzea macchiea puntini e simili; ma per la verità non sono molte le espressioni del genere che possono essere associate a una persona, perché la pelle umana può assumere una varietà limitata di configurazioni. Come si può intuire, quello che vale per la pelle vale anche per i capelli, che coprono la testa, quindi ne rappresentano la superficie.
Per quanto riguarda a pezzi, difficilmente l’espressione può riferirsi all’aspetto di una persona (come può la pelle di una persona essere a pezzi?), ma, invece, descrive tipicamente uno stato d’animo.
Gli animali stanno a metà strada tra gli esseri umani e gli oggetti: “La tigre è un animale a strisce” è accettabile, sebbene più preciso e formale sia “La tigre è un animale con la pelle / il mantello a strisce”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gli esempi sotto riportati sono intercambiabili, nonostante qualche sfumatura di significato tra l’uno e l’altro? E soprattutto sono validi?
Alle volte mi trovo alle prese con tali opzioni e sono indecisa su quale preferire per scrivere costruzioni sintatticamente inappuntabili.

Paolo era sostenuto dai punti di forza del suo lavoro, che…
1) esaltavano la sua indole
2) ne esaltavano l’indole
3) gli esaltavano l’indole.

Marco osservò attentamente Anna:
4) le vide i capelli arruffati
5) ne vide i capelli arruffati
6) vide i suoi capelli arruffati.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase, la soluzione migliore è la 1, che evita qualunque ambiguità, perché l’aggettivo possessivo rimanda con sicurezza a Paolo.
La 2 non è scorretta grammaticalmente, né è da scartare, ma è meno chiara, perché, sebbene il nome indole si adatti soprattutto a un referente umano, quindi a Paolo, il suo lavoro non può essere escluso comereferente (la frase, cioè, potrebbe significare che i punti di forza del suo lavoro esaltavano l’indole del suo lavoro) . Il pronome gli della terza soluzione è da scartare:equivale, infatti, ad a lui, quinditrasforma la frase in “esaltavano l’indole a lui”, inaccettabile. C’è da dire cheesempi del genere sono rinvenibili (ma non per questo devono essere riprodotti) in produzioni poco sorvegliate; derivano probabilmente dall’analogia con espressioni completabili tanto con il complemento di termine quanto con quello di specificazione, come”Gli strinse la mano” / “Ne strinse la mano” (e quindi anche “Strinse la sua mano”) , “Gli toccò la spalla” / “Ne toccò la spalla” (quindi anche “Toccò la sua spalla”) , “Gli allaccia le scarpe” / “Ne allaccia le scarpe” (quindi anche “Allaccia le sue scarpe”) e simili.
Nella seconda frase le soluzioni 5 e 6 sono corrette e non ambigue, quindi la scelta tra l’una e l’altra è una questione di stile. Volendo essere molto precisi, in realtà, le due varianti hanno una sfumatura di differenza sul piano informativo: la prima mette in evidenza il sintagma i capelli arruffati, come se Marco si concentrasse sui capelli di Anna, che erano arruffati; la seconda, invece, pone l’attenzione solo su arruffati, come se Marco notasse non i capelli in generale, ma il particolare dell’aspetto dei capelli.
La soluzione 4 è simile alla 3, con la differenza che vedere, come tutti i verbi di percezione,tollerala doppia costruzione con il complemento di termine o quello di specificazione (succede lo stesso per sentire, come nella tipica frase”Il dottore sente il polso al / del paziente”, o per odorare: “Amo odorare i capelli alla / della mia fidanzata”) . Come si vede dagli esempi, comunque, il complemento di termine retto daiverbi di percezione è una soluzione di registro basso. L’unico verbo semanticamente affine a questo gruppo che ammette entrambe le costruzioni e per il quale il complemento di termine si può considerare d’uso medio è toccare (e sinonimi, sfiorare, colpire, premere…) .Non a caso,esempi di “Le vede i capelli” on line sono quasi assenti (nessuna attestazione, invece, risulta per “le vide i capelli”) , mentre “Le tocca i capelli” conta migliaia di attestazioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La proposizione “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza” (inteso pressappoco come “non si ha conoscenza delle cause del fenomeno”) è ben formata? 

 

RISPOSTA:

Sì. Il pronome cui inserito tra l’articolo determinativo e il nome ad esso collegato equivale a di cui ; quindi le cui cause= le cause di cui, e delle cui cause= delle cause di cui. “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza”, in definitiva, equivale a “Un fenomeno delle cause di cui non si ha conoscenza”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il seguente periodo, pur essendo migliorabile, può essere considerato corretto, con particolare riferimento alla funzione del ? “È una strategia di cui non si ha controllo, né delle sue possibili ripercussioni”.

 

RISPOSTA:

​La correlazione tra le due negazioni non è ben costruita. L’espressione avere controllo, inoltre, non dovrebbe essere completata dalla preposizione di, bensì da su; quindi “su cui non si ha controllo”. Diversamente, se inseriamo l’articolo nell’espressione, entrambe le preposizioni divengono possibili: “Su / di cui non si ha il controllo”. Casi di avere controllo di sono riscontrabili on line, anche in sedi giornalistiche, ma ritengo che siano al limite dell’accettabilità.
Per quanto riguarda la correlazione tra le negazioni, non si riferisce all’avere controllo, per cui la seconda negazione, , deve riferirisi a un elemento simmetrico all’avere controllo; per esempio: “Su cui non si ha controllo né si hanno dati storici sufficienti”, oppure “Su cui non si hanno controllo né dati storici sufficienti”.
In alternativa, si può inserire un elemento veramente simmetrico di possibili ripercussioni, manipolando tutta la frase; per esempio: “È una strategia che non consente il controllo degli esiti, né delle possibili ripercussioni”. Si noti che la preposizione di richiede l’inserimento dell’articolo prima di controllo: difficilmente accettabile sarebbe “… consente controllo degli esiti…”. Una soluzione ulteriore è subordinare possibili ripercussioni a controllo, eliminando la correlazione; per esempio così: “È una strategia che non consente il controllo delle possibili ripercussioni” (anche qui, la preposizione di richiede l’inserimento dell’articolo davanti a controllo). 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei approfondire le applicazioni d’uso del pronome ne. Esso può riferirsi a soggetti o complementi collocati in un periodo precedente già concluso o, in generale, a soggetti e complementi, per così dire, distanti? Oppure, per evitare inconvenienti di interpretazione, sarebbe consigliato che tra soggetto / complemento e ne non ci fossero altri nomi compatibili con la funzione di tale pronome?
Ad esempio: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Ne lesse (riferimento a lettera) due righe…”.
Vi chiedo infine se, al livello di accordo del participio, vi sia libera scelta, seguendo le regole base in proposito, oppure con il ne partitivo si debbano seguire indicazioni diverse?
Ad esempio: “Ho comprato il libro e ne ho letto / lette tre pagine”.

 

RISPOSTA:

Il pronome ne può essere usato con funzione coreferenziale (cioè per riprendere un referente introdotto precedentemente, o per anticiparlo) al pari degli altri pronomi atoni e con gli stessi accorgimenti. Nel caso di referente molto lontano o confondibile, cioè, bisogna preferire coesivi più espliciti. Nella seguente frase, ad esempio, il pronome atono lo è ambiguo, perché può rimandare tanto a Mario quanto a il suo cane: “Ho incontrato Mario a spasso con il suo cane. L’ho trovato, come sempre, molto simpatico”.
Rispetto ai pronomi atoni diretti, inoltre, ne, non essendo marcato nel genere e nel numero, deve essere usato con particolare cautela, per evitare fraintendimenti. Nella sua frase, ad esempio, il rimando di ne a lettera è ricavabile solamente grazie al verbo lesse; se sostituissimo tale verbo con uno dal significato più generico, il rimando sarebbe ambiguo: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Non se ne sarebbe separato per ore” (dalla lettera, dal bicchiere o dal cognac?).
Per quanto riguarda l’accordo di ne con il participio passato dei verbi transitivi, bisogna ricordare che l’obbligo riguarda i pronomi lolalile, che rappresentano i complementi oggetti di verbi: “Hai visto Maria? No, non l’ho (= la ho) vista”. Il pronome ne, invece, presuppone un complemento oggetto esterno, ed è con questo che il participio passato può concordare o no. Nella sua frase, per esempio, il participio passato può rimanere invariabile (letto) oppure concordare con pagine (lette), non certo con ne. Lo stesso vale nel caso in cui il complemento oggetto sia rappresentato da un pronome indefinito o un numerale: “Ho comprato una scorta di riviste e ne ho già letto / lette molte“, “Ho comprato tre libri e ne ho letto / letti due“.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Egregio professore, un mio conoscente tedesco mi ha chiesto perché si dice “Penso a Maria”, ma, sempre in riferimento a Maria, si dice “La penso”. Dativo o accusativo? Grazie.

 

DOMANDA:

Il verbo pensare è ricco di sfumature e di costruzioni: può essere usato assolutamente (“Le tue parole mi hanno fatto pensare”), può reggere la proposizione oggettiva (“Penso che tu sia una brava persona”), il complemento di vantaggio (“Al mondo ognuno pensa per sé”). 
Le reggenze che qui interessano, però, sono quella del complemento oggetto e quella, molto più comune, del complemento introdotto dalla preposizione a. Il verbo pensare regge il complemento oggetto preferibilmente con il pronome atono preposto e specie quando segue un complemento predicativo: “Non lo pensavo capace di tanto”; con il complemento oggetto posposto, pronominale o nominale, si preferisce la proposizione oggettiva: “Non pensavo che lui / Carlo fosse capace di tanto” (rispetto a “Non pensavo lui / Carlo capace di tanto”). 
Più comune è la reggenza del complemento indiretto, che, bisogna chiarire, non è un complemento di termine, bensì un complemento di difficile classificazione, di natura locativa, quasi un complemento di moto a luogo. Una prova di questa natura del complemento è che la trasformazione di penso a lei con lo spostamento preverbale del complemento è ci penso, non *le penso: il sintagma a lei, quindi, viene sostituito dal pronome atono ciLa penso è, piuttosto, equivalente a penso lei, e infatti è leggermente innaturale, perché non equivale esattamente a penso a lei e perché, come detto prima, questa costruzione è quasi sempre seguita da un complemento predicativo. In alcuni casi, però, i parlanti preferiscono la penso a ci penso (abbondano on line esempi di “la penso ancora”) perché ci non lascia trasparire il genere e il numero dell’oggetto del pensiero: può, infatti, stare per a luia leia questa / quella cosaa loroa queste / quelle cose. Un esempio di questa ambiguità del pronome ci è nel famoso verso verso della canzone del 1991 di Gianni Bella “Più ci penso e più mi viene voglia di lei”, nel quale rimaniamo incerti se ci penso significhi ‘penso a lei’ o ‘penso a questa/quella cosa’. 
A margine, va detto che la penso può anche essere una voce del verbo (detto procomplementarepensarla ‘avere una determinata opinione’ (usato nelle espressioni pensarla cosìpensarla in un certo modopensarla come qualcun altro ecc.): in questo caso la è parte integrante del verbo e non ha un referente preciso (come in farcelacavarselapiantarla ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Come spiegare il valore della particella pronominale (o avverbio di luogo?) ne nella seguente frase: “Starsene tranquilli su una poltrona”? Se dico “Me ne vado” è tutto chiaro: il ne significa ‘da qui’, ma nella succitata frase non ne colgo il senso.

 

RISPOSTA:

Starsene è un verbo procomplementare, ovvero un verbo dal significato non precisamente letterale formato con l’aggiunta di uno o più pronomi atoni a un comune verbo. La classe di questi verbi, rientrante nella più ampia categoria dei verbi pronominali, è popolosa: al suo interno troviamo farcela ‘riuscire’, piantarla ‘smettere di comportarsi in modo fastidioso’, volerci ‘richiedere, abbisognare’, spassarsela ‘divertirsi’, intendersela ‘avere un rapporto speciale con qualcuno, specialmente segreto’, intendersene ‘essere esperto’ e tanti altri.
Come si può vedere in questi esempi, il gruppo pronominale aggiunto al verbo base non prende un significato preciso né una funzione contemplata nella tradizionale analisi logica; bisogna considerarlo, piuttosto, come parte integrante della parola, alla stregua di un suffisso (per esempio come -zione in costruzione). Il significato complessivo del verbo procomplementare può essere vicino a quello del verbo base, a cui aggiunge una sfumatura di partecipazione emotiva (come starsene rispetto a stare), oppure molto distante (come piantarla rispetto a piantare). Va anche detto che spesso (ma non sempre) i verbi procomplementari si contruiscono diversamente dal verbo base: intendere è transitivo, intendersene richiede un complemento indiretto (riconoscibile come complemento di specificazione nell’ottica dell’analisi logica, o come oggetto indiretto nell’ottica della grammatica valenziale); stare e starsene, invece, hanno la stessa costruzione.
Anche andarsene rientra nella categoria dei verbi procomplementari: più che avere un significato autonomo, infatti, il gruppo pronominale finale sene arricchisce il verbo base della stessa sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto all’azione riconoscibile in starsene.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Navigando in internet mi sono imbattuto in teorizzazioni di natura sintattica che intendo sottoporre al vostro vaglio e in merito alle quali gradirei ricevere la vostra autorevole opinione. 
A) Si sostiene che il se ipotetico, a differenza di qualoranel caso (che) e, in parte, casomai (che), non accetti né il congiuntivo presente né il congiuntivo passato.
B) Si sostiene inoltre che il se ipotetico accetti anche i tempi del modo condizionale, purché sottintenda “è vero che” o espressioni di senso analogo. 
Per effetto del punto A, le seguenti costruzioni determinerebbero un errore: 
1. Ti invito a chiamarmi, se tua madre te ne dia la possibilità.
2. Parteciperò / partecipo all’incontro se la presenza dell’oratore sia stata confermata.
Per quanto inusuali e, forse, da evitare, non mi sentirei di bollare i congiuntivi dei due esempi come scorretti. 
Per effetto del punto B, le seguenti costruzioni sarebbero invece valide: 
3. Se (è vero che) potresti aver ragione nel protestare, dovresti innanzitutto farti un esame di coscienza.
4. Se (è vero che) avrei agito come te al posto tuo, allora è probabile che siamo più simili di quanto crediamo.

 

RISPOSTA:

Concordo pienamente con lei riguardo alla legittimità delle frasi 1. e 2. Non bisogna confondere la rarità con il divieto. Il congiuntivo presente e passato sono evitati nella protasi del periodo ipotetico perché esprimerebbero un’ipotesi reale, nel presente e nel passato (mentre l’imperfetto esprime la possibilità e il trapassato l’irrealtà). Siccome la realtà è associata all’indicativo, i due tempi del congiuntivo vengono sempre sostituiti dai corrispondenti tempi dell’indicativo. Rimane, però, possibile ricorrervi; con cautela e preferibilmente in contesti molto formali: sono, infatti, talmente insoliti che farebbero storcere il naso a molti parlanti.
Anche le frasi 3. e 4. sono ben formale. In questi casi il se regge “è vero”, “tu sostieni”, “ammettessimo” o simili: la protasi, cioè, è “Se è vero”, “Se tu sostieni”, “Se ammettessimo” ecc. Il condizionale, quindi, non è introdotto da se, ma è inserito nella proposizione, soggettiva o oggettiva (a seconda di come è costruita la protasi), retta dalla protasi così formata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Sono corrette le costruzioni seguenti?
1. Se il tecnico che dovrò pagare di tasca mia dovesse rimbalzare la responsabilità del guasto al gestore, io avrei subìto un prolungamento del disservizio.

2. Pubblicherei l’intervista se avessi ricevuto il consenso dell’intervistato.

La seconda è per me più ostica, perché non sono certa se il congiuntivo trapassato possa collegarsi a un evento di fatto incerto ma che, se si compisse, sarebbe successivo all’enunciazione e precedente a quello determinato dall’apodosi.
La costruzione numero 2 sarebbe all’atto pratico il calco di uno dei periodi ipotetici canonici (condizionale presente/congiuntivo imperfetto) ma con il congiuntivo trapassato scelto per sottolineare lo scarto temporale tra l’evento della protasi e quello dell’apodosi.

 

RISPOSTA:

Entrambe le costruzioni sono possibili. Nella prima il condizionale passato presenta l’evento del subire come già avvenuto al momento dell’avverarsi della ipotesi (dovesse rimbalzare), come per sottolineare che il disservizio non inizi al momento dell’avverarsi dell’ipotesi, ma prosegua, essendo iniziato precedentemente all’avverarsi stesso dell’ipotesi.La seconda è meno tipica, ma non per la ragione da lei addotta: la mancata ricezione del consenso, infatti, precede tanto l’evento dell’apodosi quanto il momento dell’enunciazione. Rispetto a ora (momento dell’enunciazione), cioè, il consenso è presentato come non ricevuto prima. In sintesi: “Dico (ora) che se avessi ricevuto (ieri) il consenso dell’intervistato pubblicherei (ora o in futuro) l’intervista”.
Se volessimo, invece, situare nel futuro tanto la ricezione del consenso quanto la pubblicazione dell’intervista, non ci sarebbe ragione di costruire la protasi con il trapassato (perché non si può presentare come impossibile un fatto che non si è ancora avverato); la costruzione più indicata sarebbe, allora, “Pubblicherei l’intervista se ricevessi il consenso dell’intervistato”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Facendo l’analisi logica della frase: “Ha lavorato piuttosto bene”, l’avverbio piuttosto come viene analizzato?

 

RISPOSTA:

Piuttosto bene è considerato, in analisi logica, un unico complemento, in questo caso di modo. Come piuttosto si comportano gli altri avverbi che modificano un aggettivo o un avverbio, abbastanza, molto, tanto, poco, alquanto, quasi ecc.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Non so perché ma questa frase mi suona strana: “Quando si è diventati vegetariani non ci si crede di aver mangiato cadaveri per tutta la vita”.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata. La sensazione di stranezza è forse dovuta alla sequenza di due costrutti impersonali con il pronome atono si, si è diventati e ci si crede, che, però, sono del tutto legittimi in questo contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In una frase come questa: “C’è da dire che è stato importante”, la proposizione da dire ha un valore tra il consecutivo e il finale?

 

RISPOSTA:

Si tratta di un costrutto difficile da inquadrare nella tassonomia sintattica tradizionale; l’analisi qui proposta, pertanto, deve essere considerata una di diverse possibilità. La prima parte del periodo (C’è da dire ) è costruita con un c’è presentativo, che serve a introdurre un’informazione nuova nel discorso, seguito da una proposizione introdotta da da interpretabile come relativa implicita passiva, o meglio pseudorelativa, come quella impiegata nelle frasi scisse implicite (per le quali la invito a leggere anche questa risposta dell’archivio di DICO), oppure come soggettiva.
Quando il costrutto presenta un antecedente, l’interpretazione pseudorelativa è molto più plausibile di quella soggettiva, ma nello stesso tempo l’antecedente della pseudorelativa è anche il soggetto di c’è ; per esempio c’è qualcosa da dire= qualcosa (soggetto di c’è e antecedente della pseudorelativa) c’è che deve essere detto. Nel suo esempio, la proposizione che è stato importante sarebbe proprio l’antecedente della proposizione pseudorelativa, quindi anche il soggetto (ovvero una proposizione soggettiva) di c’è: “C’è da dire che è stato importante” = “Che è stato importante c’è che deve essere detto”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Stavo scrivendo: “Rifletti se sarebbe tanto male tornare indietro”, ma poi mi è venuto il dubbio della correttezza di questa espressione. So, e me ne sono accertata, che il se + condizionale può essere usato in alcuni casi, per esempio se indica dubbio o nel caso di un’interrogativa indiretta. Solo che non sono sicura di che caso sia il mio; è del tutto sbagliato dire “Rifletti se sarebbe”?

 

RISPOSTA:

Il suo è proprio il caso dell’interrogativa indiretta, nella quale il condizionale può sostituire, come di norma può fare sempre, l’indicativo: così come si può dire “Rifletti se è tanto male”, si può dire “Rifletti se sarebbe tanto male”. Così facendo, l’interrogativa indiretta si configura come l’apodosi di un periodo ipotetico completato da una protasi implicita: “Rifletti se sarebbe tanto male tornare indietro (se tu lo facessi)”.La costruzione con il congiuntivo è, comunque, possibile: “Rifletti se sia tanto male tornare indietro”. Sarebbe, anzi, la scelta più elegante e lineare.

A margine, ricordo che il condizionale retto da se è necessario (non sostituibile dall’indicativo né dal congiuntivo), al passato, quando esprime il futuro nel passato: “Riflettevo se sarebbe venuto o no”.

Altre domande e risposte sull’alternanza tra condizionale e congiuntivo e sul futuro nel passato si possono leggere nell’archivio di DICO; per trovarle basterà inserire la parola chiave condizionale nella maschera di ricerca interna.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica

QUESITO:

È corretto dire: “Cosa avrà voluto dire Marco ieri?”? E invece: “Cosa ha voluto dire Marco ieri?”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le costruzioni sono corrette. Nella prima frase il futuro non ha il valore temporale che ricopre normalmente, ma assume quello non standard, diffusissimo nella lingua d’uso medio, di segnalatore di incertezza, dubbio, vaghezza. Quando ha questa funzione, il futuro si comporta come un modo, non come un tempo (infatti può essere usato anche in riferimento al passato) ed è detto epistemico , perché riguarda la conoscenza dell’emittente (dal greco epistéme ‘conoscenza’). Questa funzione può essere svolta anche dal futuro semplice, se l’incertezza riguarda il presente: “Finalmente sei arrivato: saranno tre ore che ti aspetto”.In particolare, nella sua prima frase il futuro esprime il dubbio dell’emittente che Marco abbia voluto dire più di quello che ha effettivamente detto; il passato prossimo nella seconda frase, invece, indica che l’emittente è certo di non aver capito il senso delle parole di Marco.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si scrive “ai bei e dolci momenti”, “ai begli e dolci momenti”, oppure “ai belli e dolci momenti”?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra bel e bello e, al plurale, tra bei e begli, segue gli stessi criteri di quella tra gli articoli il e lo e i e gli; quindi bel e bei davanti a consonante semplice o consonante diversa da s seguita da r o l (bel plenilunio ma bello sguardo), bello e begli davanti a vocale, s seguita da altra consonante (la cosiddetta s impura), palatale, zx (begli gnocchibegli zoccolibello xilofono) e gruppi consonantici vari, ps-pn- ecc. Davanti a vocale, bello è spesso eliso: bell’amico; al plurale, invece, l’elisione è vietata: *begl’amici.
Belli è una variante di begli che si usa solamente quando è alla fine della frase o, se la frase continua, quando è posposto al nome a cui si riferisce: “E c’era il sole e avevi gli occhi belli. Lui ti baciò le labbra ed i capelli” cantava Fabrizio De André nella Canzone di Marinella; “I regali belli sono quelli fatti con il cuore”, “Quest’anno i fuochi d’artificio sono stati i più belli di sempre”. Si usa anche quando è sostantivato: “Ma davvero i belli guadagnano di più” (ilsole24ore.it, 9 luglio 2018).
Nel suo esempio, quindi, la forma corretta è “Ai begli e dolci momenti”, perché begli è seguito da e. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che l’aggettivo sia riferito a momenti, che, cominciando per consonante, richiederebbe bei: quello che conta nella scelta tra bei e begli (esattamente come nella scelta tra i e gli) è l’iniziale della parola successiva.
Se invertissimo l’ordine delle parole, potremmo avere “Ai dolci e bei momenti”, “Ai momenti belli e dolci” e altre combinazioni.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La congiunzione appena, con valore temporale, può essere assimilata a quando dal punto di vista della consecutio temporum?

1. Appena l’uomo sia entrato in casa, la donna può / potrà salutarlo.
2. Appena l’uomo avesse potuto entrare in casa, la donna avrebbe potuto salutarlo.
3. Appena l’uomo entrasse in casa, la donna potrebbe / può / potrà salutarlo.

Molti anni addietro, in un prontuario lessicale, trovai una notazione dei cosiddetti “puristi” in cui si sconsigliava l’uso della suddetta congiunzione con i verbi futuri dell’indicativo. Il seguente esempio sarebbe pertanto sbagliato?

4. Appena l’uomo sarà entrato / entrerà in casa, la donna potrà salutarlo.

 

RISPOSTA:

Come congiunzione, appena si comporta come quando, rispetto alla quale ha una sfumatura di significato in più, indicando la coincidenza esatta tra l’evento descritto nella proposizione introdotta e quello descritto nella reggente. La proposizione introdotta da appena, pertanto, può avere, come quando, tutti i tempi del congiuntivo, ma anche tutti quelli dell’indicativo (più comune ma meno formale).

Qualche perplessità suscita la frase 2., ma solamente per via della ripetizione del verbo potere; consiglierei questa soluzione: “Appena l’uomo fosse riuscito a entrare in casa, la donna avrebbe potuto salutarlo”.

Nessun problema neanche con la frase 4. Il divieto “puristico” era probabilmente diretto all’alternanza tra indicativo e congiuntivo, sulla quale il prontuario prendeva le parti del congiuntivo: prescriveva, cioè, di costruire la frase 4. come la 1., equivalente ma più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

“A scuola ho avuto una compagna che ha / aveva / ha avuto 6 fratelli”. Qual è il tempo da usare?

 

RISPOSTA:

“A scuola ho avuto una compagna che ha 6 fratelli” indica che l’emittente frequenta ancora la compagna e vuole sottolineare che questa ha ancora 6 fratelli.

“A scuola ho avuto una compagna che aveva 6 fratelli” indica che l’emittente non è certo se la compagna continui ad avere 6 fratelli.

“A scuola ho avuto una compagna che ha avuto 6 fratelli” è molto strano e da evitare, perché avere fratelli può essere solamente un evento durativo (quindi espresso al presente o all’imperfetto), mentre il passato prossimo del verbo avere seleziona l’aspetto momentaneo del verbo.

Per capire meglio questa differenza si confronti “Mario aveva due figli” = ‘Mario aveva (e forse ha ancora) una famiglia con due figli’ e “Mario ha avuto due figli” = ‘La compagna / moglie di Mario ha partorito due figli’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

 

QUESITO:

Il verbo giocare richiede la preposizione a o con? Sono intercambiabili (Giocare a giochi di societàGiocare a puzzle)?

Inoltre: ci si può concentrare su fare qualcosa o solo su una cosa?

E infine: si può essere appassionati di cucinare o solo appassionati della cucina?

 

 

RIPOSTA:

​​Quando si fa un gioco o uno sport, si gioca a qualcosagiocare a pallavoloa rugbya nascondinoalle belle statuinea guardie e ladri… La preposizione con si usa quando il verbo giocare prende il significato di manipolaregingillarsi, o più genericamente, usare; si noti, ad esempio, la differenza tra giocare a carte ‘fare un gioco di carte’ e giocare con le carte ‘maneggiare le carte in vari modi per ammazzare il tempo’, giocare a dadi ‘lanciare i dadi scommettendo sul numero che uscirà’ e giocare con i dadi ‘tirare i dadi per passare il tempo’, oppure ‘fare un gioco nel quale è previsto l’uso dei dadi’, giocare a pallone ‘giocare a calcio’ e giocare con il pallone ‘usare un pallone come parte di un altro gioco’ ecc. La preposizione con è usata anche quando giocare ha un senso figurato: giocare con il fuoco ‘sottovalutare una situazione pericolosa’, giocare con i sentimenti di qualcuno ‘fingere di ricambiare l’amore di una persona’.
Per quanto riguarda i suoi esempi, il primo va bene, anche se nella realtà è molto improbabile: più comunemente si dice giocare a un gioco di società, o meglio giocare a seguito dal nome del gioco.
*Giocare a puzzle è, invece, impossibile per due ragioni: il puzzle non è considerato un gioco e la parola richiede l’articolo; la frase tipica è fare un puzzle o realizzare un puzzle. Possibili anche lavorare a un puzzle cominciare / continuare / completare un puzzle (o sinonimi).

Il verbo concentrare può reggere un infinito (anche se è sempre preferibile il complemento oggetto), ma questo è quasi sempre sostantivato mediante l’articolo, quindi concentrarsi sul fare qualcosaConcentrarsi su fare qualcosa è anche possibile, ma solo con il verbo fare; con altri verbi è molto raro e da evitare.

L’espressione più comune è essere appassionati di cucina; possibile, ma insolita, è del cucinare; impossibile di cucinareEssere appassionati della cucina è l’espressione migliore se la frase continua con un modificatore, per esempio: “Sono (un) appassionato della cucina giapponese / italiana / messicana”, oppure “Sono (un) appassionato della cucina di mia suocera”. Possibile anche “Sono (un) appassionato di cucina giapponese / italiana / messicana”, ma non *”Sono (un) appassionato di cucina di mia suocera”.
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Le tre frasi sotto indicate sono accettabili ed equivalenti?
1. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, uno per Letizia.
2. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, l’altro per Letizia.
3. Ho deciso di acquistare due regali: l’uno per Francesca, l’altro per Letizia.
Colgo l’occasione per domandare – a prescindere dagli esempi proposti – se, in generale, l’apostrofo per il pronome uno all’interno dei correlativi l’un(o)… l’altro e relativi plurali sia obbligatorio o facoltativo.

 

RIPOSTA:

​Le tre frasi sono valide e tutto sommato equivalenti. Volendo individuare una sfumatura semantica specifica, possiamo sottolineare che la 1 mette sullo stesso piano i due elementi correlati, mentre la 2 e la 3 distinguono tra un elemento che è uno e uno che l’altro, come se quest’ultimo fosse in subordine rispetto al primo. Per quanto riguarda l’articolo determinativo prima del pronome uno, dal momento che ci sono solo due elementi in campo la sua presenza è legittima, ma non necessaria, perché non può esserci che un solo uno autodeterminato: se, invece, gli elementi correlati fossero tre o più, ovviamente l’articolo non potrebbe essere usato. In quel caso le opzioni sarebbero: “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, uno per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, un altro per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, un altro per Letizia, un altro per Maria”.
Se la sua seconda domanda riguarda l’elisione dell’articolo determinativo, la risposta è che, in generale, l’elisione non sia obbligatoria, ma sia talmente comune da essere obbligatoria di fatto (molto strano sarebbe lo uno). Se, invece, la domanda riguarda il troncamento di un(o), questo è obbligatorio nel sintagma, tipico della lingua del diritto, l’un caso: “L’integrazione probatoria avverrà, quindi, nell’un caso, nelle forme del giudizio abbreviato e, nell’altro, in quelle del giudizio direttissimo” (da una sentenza della Corte costituzionale). È facoltativo, ma fortemente atteso, nel sintagma l’un l’altro: “Si salutarono l’un l’altro”. È, per il resto, vietato, anche con lo stesso sintagma l’un l’altro se i due termini correlati sono separati: “Si salutarono l’uno con un sorriso, l’altro no”. Oscillante il comportamento di l’un contro l’altro / l’uno contro l’altro, che dovrebbe prendere la forma normale senza troncamento, ma sul quale pesa il famoso verso manzoniano, risuonante nelle orecchie di tutti gli italiani, “L’un contro l’altro armato”, frutto della “licenza poetica”.
Ricordo, comunque, che il troncamento di un(o) rifiuta l’inserimento dell’apostrofo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

Mi son venuti dei dubbi leggendo un libro di esercizi. Leggo:
1. Tradurre dall’italiano al tedesco.
2. Tradurre Platone in italiano.
3. Tradurre le parole nella tua lingua.

A me sembrano la stessa struttura: “tradurre a una lingua”. Ma perché si usa una volta a e altre volte in? O sono intercambiabili?

 

RISPOSTA:

L’uso delle preposizioni è legato a fattori solo in parte logici. A volte a pesare è la storia della lingua o anche altre ragioni difficili da riconoscere. Si pensi, per fare un esempio tra mille, alla preposizione di, che è richiesta tanto da un aggettivo come degno (“Degno di lode”) quanto dal secondo termine di paragone (“Meglio di niente”), può esprimere provenienza se segue il verbo essere (“Sono di Atene” = “Vengo da Atene”), ma anche un certo momento della giornata in alcune espressioni (“Ci vediamo di pomeriggio”).
Il verbo tradurre regge di norma la preposizione in, come dimostrano le sue frasi 2 e 3. L’assenza dell’articolo nella 2 è dovuta alla idiomaticità dell’espressione in italiano (che si comporta come in casain bancain classe…). Nella frase 1, la presenza della lingua di provenienza, introdotta dalla preposizione da, configura l’azione del tradurre come uno spostamento fisico di un corpo da un luogo a un altro: questo favorisce l’uso, altrimenti sbagliato (non si può *”tradurre a una lingua”) della preposizione a. Rimane comunque possibile usare in anche quando sia esplicitata la lingua da cui si traduce: “Tradurre dall’italiano in tedesco” è corretto, sebbene meno comune.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere che differenza c’è tra le parole. spesso usate da sole come interiezioni, auguricomplimenticongratulazioni. Magari tra auguri e le altre e più facile, perché auguri guarda al futuro; ma le altre due a volte sono intercambiabili, a volte no. Me ne può spiegare l’uso?

 

RISPOSTA:

La parola auguri è stata oggetto di un approfondimento etimologico nella rubrica di DICO “La parola che non ti aspetti”. Trova l’articolo qui: http://www.dico.unime.it/2015/12/28/tanti-buoni-presagi-da-dico/.
Complimenti è un prestito adattato antico, dallo spagnolo cumplimiento ‘completamento, compimento di un compito’. Quando si fa un complimento a qualcuno, o si esclama “Complimenti!”, quindi, si compie il proprio dovere di dimostrare il proprio favore a quella persona. Come si può immaginare, questo dovere è virtuale, convenzionale, non ha niente di concreto; i complimenti, infatti, sono spesso vuoti e possono addirittura servire a mascherare sentimenti opposti. Non a caso, fare complimenti indica l’atteggiamento di chi rifiuta ostentatamente offerte o favori, anche se vorrebbe accettarli (un atteggiamento che è definito complimentoso); spesso, inoltre, l’esclamazione “Complimenti (per…)!” è fatta con un intento dichiaratamente ironico, per “onorare” un insuccesso.
Le congratulazioni, invece, sono tipicamente sincere e raramente ironiche. L’etimologia della parola congratulazioni rimanda al latino CONGRATULOR ‘rallegrarsi insieme’ e rivela, quindi, che l’atto riguarda i sentimenti, e in particolare la gioia che si prova per il successo di qualcuno a cui si vuole bene. Il nome congratulazioni è imparentato con grazie, che a sua volta può essere usato come interiezione. Di questo ci siamo occupati in un’altra risposta, che può leggere qui.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Interiezione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere se in queste frasi e meglio usare il passato prossimo, l’imperfetto o vanno bene tutt’e due.

1. Quando Luigi bussava / ha bussato, noi guardavamo la TV.
2. Dove eri / sei stato nel pomeriggio? eri / sei stato in città?
3. L’estate scorsa mangiavamo sempre in spiaggia.
4. Paolo è uscito / usciva nel momento in cui io telefonavo / ho telefonato.

 

RISPOSTA:

L’imperfetto come tempo è usato primariamente con due funzioni: per indicare che l’evento si è ripetuto più volte nel passato, o che era abituale; per osservare l’evento nel suo svolgimento, nel suo processo, mentre stava accadendo.
Nella frase 1., “Quando Luigi bussava, noi guardavamo la TV” si può interpretare come relazione abituale, ripetutasi molte volte. Se, invece, intendiamo i due eventi come svolti contemporaneamente in una occasione unica è preferibile sostituire quando con mentre, perché mentre sottolinea la durata del processo. Avremo, quindi, “Mentre Luigi bussava, noi guardavamo la TV”.
Comunemente, comunque, l’imperfetto durativo è messo in relazione con un passato momentaneo, prossimo o remoto, che esprime l’evento di primo piano. Nel nostro caso avremo, quindi: “Quando Luigi ha bussato, noi guardavamo la TV”. In teoria possiamo fare il contrario: “Mentre Luigi bussava, noi abbiamo guardato la TV”, ma il risultato è un po’ surreale; se sostituiamo l’azione del guardare la TV con un altro evento, però, la frase diviene possibile: “Mentre Luigi bussava, è arrivato Luca”. Possibile anche “Quando Luigi ha bussato, è arrivato Luca”, per sottolineare che le due azioni si sono svolte nello stesso momento.
Nella frase 2., la costruzione esclude che l’imperfetto indichi un’azione ripetuta. Indica sicuramente, invece, che l’evento dell’essere sia visto nel suo processo. Anche in questo caso, questa scelta si giustifica soprattutto se si vuole mettere l’evento all’imperfetto in relazione con un altro evento avvenuto mentre il primo si stava svolgendo; per esempio: “Dove eri nel pomeriggio, quando ti ho telefonato?”. Il passato prossimo, invece, osserva l’evento nella sua completezza, senza riferimento al processo: una frase come “Dove sei stato nel pomeriggio”, pertanto, serve a informarsi sulle attività svolte dall’interlocutore nella giornata.
Nella 3., l’imperfetto si interpreta automaticamente come segnale di abitudinarietà, a causa dell’avverbio sempre. Possibile anche “L’estate scorsa abbiamo mangiato sempre in spiaggia”, per indicare non l’abitudine, ma una caratteristica generale dell’estate scorsa.
La 4. somiglia molto alla 1. Possibile l’interpretazione abituale dell’imperfetto, che, però, dovrebbe essere favorita da un avverbio come solitamente: “Paolo solitamente usciva nel momento in cui io telefonavo”. Anche in questo caso, la costruzione più comune sarà: “Paolo è uscito nel momento in cui io telefonavo” (meno naturale “Paolo usciva nel momento in cui io ho telefonato”). Si noti che il connettivo nel momento in cui non permette di interpretare l’imperfetto esattamente come durativo, ma rende l’azione incoativa, concentrando l’attenzione sul processo di preparazione dell’evento. “Nel momento in cui telefonavo”, pertanto, si interpreta come ‘nel processo di preparazione della telefonata’.
Possibile anche “Paolo è uscito nel momento in cui io ho telefonato”, per indicare che i due eventi sono avvenuti nello stesso momento.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire, a qualcuno che ti chiede se hai preso la patente: “Sì, ma guido quasi mai”?

 

RISPOSTA:

​La frase non può dirsi scorretta, ma è certamente non tipica. Comunemente, infatti, la negazione precede l’elemento negato e poi, se serve, può essere ripetuta per mezzo di avverbi o aggettivi semanticamente negativi. La costruzione più regolare per la sua frase, pertanto, è quella con l’avverbio quasi mai spostato prima del verbo, che è l’elemento negato: “Sì, ma quasi mai guido”. Ovviamente, senza tenere in conto la costruzione in assoluto più comune, che sarebbe quella con la doppia negazione: “Sì, ma non guido quasi mai”.
Riporto, per confermare che posizione attesa della negazione è subito prima dell’elemento negato, questa frase tratta dal romanzo Rinascimento privato di Maria Bellonci (1986): “Una cosa che gli uomini quasi mai conoscono in profondo è il vuoto dei figli, la mancanza della loro presenza da toccare con mano”. Se spostassimo quasi mai dopo il verbo (sul modello della sua frase), l’elemento negato diverrebbe in profondo, e il significato della frase cambierebbe, sebbene di poco: “Una cosa che gli uomini conoscono quasi mai in profondo è il vuoto dei figli…”. Nella sua frase, dopo quasi mai non c’è un altro elemento da negare; il ricevente, pertanto, non può che riportare la negazione al verbo.
Per un approfondimento sulle conseguenze informative dello spostamento degli elementi della frase, proprio in relazione alla negazione, la rimando alla risposta  dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Ho cambiato qualche foto, anche se avrei voluto mettere altre” è corretta?

 

RISPOSTA:

​Nella sua frase c’è un unico problema, che riguarda il riferimento del pronome indefinito altre. Il significato generico di questo pronome richiede che si specifichi da quale insieme si estraggono gli elementi scelti. Ci vuole, insomma, un complemento partitivo. La soluzione più immediata è realizzarlo con il pronome ne, che rimanda, ovviamente, a foto: quindi “avrei voluto metterne altre”. Se altre non rimandasse a fotoaltre sarebbe aggettivo, non pronome, e dovrebbe appoggiarsi a un nome, che diventerebbe il complemento oggetto di mettere: “avrei voluto mettere altre cose / immagini / pose” o simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “La partita è durata più del dovuto”, è durata è predicato verbale o nominale?
In “Gioiva con il canto”, con il canto è complemento di modo o di mezzo?

 

RISPOSTA:

È durata è predicato verbale. Con il canto non può essere complemento di modo, perché non indica in che modo l’azione era compiuta (un complemento di modo adatto a questo verbo potrebbe essere immensamente); potrebbe essere complemento di mezzo (“Gioiva per mezzo del canto”), ma anche di causa, se intendessimo la frase come “Gioiva per via del canto”. La frase è ambigua e non è possibile fare una scelta precisa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO: 

È corretta la frase “Incontro persone che so aver opinioni diverse dalle mie”, con l’infinito alla latina anziché la forma esplicita con l’indicativo?
Penso di no, ma non ne sono certissimo, perché il soggetto della completiva dovrebbe coincidere di norma con il soggetto della reggente. Forse i toscani usano questo costrutto arcaico. 

 

RISPOSTA:

​La costruzione della frase è corretta e ancora a suo agio nell’italiano contemporaneo, anche di media formalità, senza coloriture regionali; ho trovato, per esempio, un costrutto simile in un account Facebook: “Come faccio a segnalare una persona che so avere un profilo falso ma mi ha bloccato?”. A darle la sensazione di arcaicità è forse l’apocope di aver, che suona un po’ letteraria, sebbene sia anch’essa piuttosto comune.
Ha ragione a ricordare la norma della conservazione del soggetto per l’infinito. Questa, però, non è assoluta e, in questo caso, viene infranta con buone ragioni (nonché sulla base di un modello molto antico). La costruzione sintattica superficiale della frase nasconde una costruzione logica bimembre: da una parte “Incontro persone”, dall’altra “so che queste persone hanno opinioni diverse dalle mie”. Il pronome relativo consente di fondere le due costruzioni logicamente autonome in modi diversi, per esempio così: “So che le persone che incontro hanno opinioni diverse dalle mie”. Se, però, per ragioni informative, vogliamo isolare a sinistra della frase “Incontro persone”, si crea un corto circuito tra la sintassi e la logica, perché la proposizione dipendente dal verbo sapere è a metà strada tra una oggettiva e una relativa. Nella frase “Incontro persone che so che hanno opinioni diverse dalle mie”, cioè, il parlante rimane incerto se interpretare “che hanno opinioni diverse dalle mie” come una relativa dipendente da “Incontro persone” (come se “che so” fosse, in realtà, una incidentale tipo ” – e lo so -“) o come una oggettiva dipendente da “che so”. La costruzione con l’infinito elimina la difficoltà.
Si noti, a questo proposito, che il soggetto dell’infinito in quest’ultima costruzione non può che essere l’oggetto del verbo della reggente. Se il soggetto fosse lo stesso della reggente sarebbe richiesta la preposizione introduttiva di: “So di aver opinioni diverse”; nel caso specifico, però, il risultato sarebbe incoerente, visto che la frase completa diverrebbe *”Incontro persone che so di aver opinioni diverse dalle mie”.
Avvicinerei questo caso agli altri comunemente considerati le eccezioni più evidenti alla norma dell’identità del soggetto tra la reggente e la subordinata implicita, le frasi con un verbo di comando o licenza e quelle con un verbo di percezione nella reggente, nelle quali il soggetto della oggettiva è senz’altro l’oggetto (diretto o indiretto) del verbo della reggente, non il soggetto: “Ti ordino / permetto di fare ì compiti” = “Ordino / permetto che tu faccia i compiti”; “Ti ho visto uscire” = “Ho visto che tu uscivi / sei uscito”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Prendo spunto da questa risposta , in cui ho avuto modo di apprendere le vostre indicazioni circa l’inserimento di predicati al presente in costruzioni al passato.
Nonostante la vostra spiegazione sia stata, come al solito, comprensibile ed esauriente, vorrei, se possibile, addentrarmi un po’ nella materia. Anche in periodi molto complessi è consentita l’alternanza di tempi diversi a seconda della condizione della situazione proposta o è preferibile, laddove attuabile, mantenere la narrazione “sulla stessa linea”?
Un esempio:
 

Molti anni fa facemmo una gita al mare. Lungo la spiaggia c’era un molo che si insinuava nella baia. Lì incontrammo un uomo, il suo nome era Ernest, e insieme a lui raggiungemmo quella montagna che con le sue vette lambiva il cielo.

Per prima cosa domando se la narrazione possa essere ritenuta valida, anche se Ernest è ancora in vita e continua a portare tale nome, il molo continua a insinuarsi nella baia e la montagna con le sue vette continua a lambire il cielo. Tali predicati potrebbero essere tramutati in indicativo presente per conferire alle descrizioni un carattere di attualità o ciò potrebbe generare delle stonature sintattiche?
 

Molti anni fa facemmo una gita al mare. Lungo la spiaggia c’è un molo che si insinua nella baia. Lì incontrammo un uomo, il suo nome è Ernest, e insieme a lui raggiungemmo quella montagna che con le sue vette lambisce il cielo.

Quale soluzione suggerireste, purché siano entrambe corrette?

 

RISPOSTA:

Le soluzioni che lei propone sono ugualmente valide. La prima lascia aperta la questione della persistenza degli elementi descritti nel presente; la seconda, invece, ne fa il centro dell’interesse. Questo è un caso di scelta espressiva e narrativa, che va valutato da una parte alla luce del gusto e dello stile scrittorio, dall’altra considerando i fini della narrazione, cioè quanto sia importante, nel meccanismo narrativo, che gli elementi siano descritti come ancora attuali.

​Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

In molte opere narrative ho rilevato l’impiego di aggettivi e avverbi (richiamando alla memoria ricordi scolastici, azzarderei a definirli deittici) che i vari scriventi hanno inserito in contesti passati anziché contemporanei. Gradirei ricevere la vostra autorevole posizione al riguardo, nonché eventuali suggerimenti per affinare le seguenti costruzioni:

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in questa occasione non proferì parola (si sarebbe potuto sostituire questa con quella?).
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e adesso lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma ora notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta un forte malessere (sostituire l’avverbio con in quella occasione o quella volta non sarebbe stato preferibile?).
5) In Michele scintillò la rabbia che, oggi, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto finora (avrei scritto fino ad allora o fino a quel momento).

 

RISPOSTA:

​Le espressioni che lei ha correttamente definito deittiche servono a indicare una persona, un luogo o un momento presente nella realtà extralinguistica. Tra le più comuni riconosciamo i pronomi personali e i dimostrativi, gli avverbi di tempo e di luogo; anche i tempi verbali, però, possono svolgere questa funzione: se dico, ad esempio, “Sto lavorando”, è chiaro che l’azione sta avvenendo adesso. I deittici hanno la caratteristica di mutare di senso al mutare della situazione extralinguistica. L’enunciato “Sto lavorando” pronunciato da Luca il 19 maggio 2019 alle 20:30 a casa ha un significato diverso da “Sto lavorando” pronunciato da Maria il 20 maggio alle 9:00 in ufficio. I due enunciati, cioè, indicano (deissi significa proprio ‘indicazione’) due situazioni completamente diverse.
Vista la loro relazione con la situazione extralinguistica, i deittici sbagliati provocherebbero un senso di straniamento nell’interlocutore e potrebbero inficiare la comprensione. Ad esempio, se un amico chiedesse a Luca: “Che stai facendo?” e lui rispondesse “Ieri ha lavorato”, l’amico rimarrebbe molto perplesso (a meno che non conoscesse dettagli della vita di Luca che spiegassero una simile risposta).
In realtà, è rarissimo che un parlante nativo abbia dubbi su quale deittico usare per descrivere la situazione a cui sta pensando: è una competenza che si acquisisce fin da piccolissimi.
I problemi possono insorgere quando il parlante deve proiettarsi in un centro deittico diverso da io-qui-ora. Quando, cioè, deve parlare non di sé adesso, ma di sé nel passato, o di altri nel presente, nel passato o nel futuro, il centro deittico, il centro da cui si dipartono le coordinate personali e spazio-temporali, lo può indurre in errore. L’errore consiste quasi sempre (è così in tutti i suoi esempi) nella confusione tra quel centro deittico altro con quello relativo a io-qui-ora; ne deriva la sovrapposizione della situazione contingente, quella in cui l’emittente sta interloquendo con il ricevente, con quella riportata: quest’ultima viene riportata a qui-ora e a volte anche a io (si pensi a casi tipici della lingua poco sorvegliata come “Io sono una persona che sono sempre generoso”, ovviamente detto da un uomo), e viene, pertanto, descritta con i deittici propri della contingenza. Alcuni casi sono talmente comuni che possono essere considerati normali, almeno nel parlato poco sorvegliato e nello scritto dialogico; penso a stavolta della sua frase 4, a ora in una frase come questa: “Aveva provato di tutto e ora era rimasto senza alternative” (ora nella sua frase 3, invece, mi sembra più difficile da accettare, probabilmente perché accompagna un passato remoto, non un imperfetto), e casi simili.
Bisogna anche considerare che lo slittamento di piani indessicali può essere dovuto non alla confusione dei centri deittici ma al preciso intento, di natura letteraria, di sovrapporli. Si consideri un esempio come questo (dagli Indifferenti ​di Alberto Moravia): “il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco: egli era dovunque così: sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa”. L’aggettivo dimostrativo questa è ovviamente fuori luogo in un racconto al passato, e andrebbe sostituito con quella. L’autore, però, non si è confuso: ha volutamente giocato con le possibilità della lingua per catapultare per un attimo il personaggio nell’io-qui-ora del lettore, che se lo vede quasi davanti, per poi riportarlo al suo centro deittico naturale.
Visto che i deittici fuori luogo dei suoi esempi potrebbero essere voluti dagli autori, suggerire correzioni potrebbe essere un eccesso di zelo. In ogni caso, volendo rispettare le regole standard della grammatica, ecco come si potrebbero emendare le frasi (in alcuni casi non faccio che applicare i suoi suggerimenti, che sono corretti):

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in quella occasione non proferì parola.
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e allora lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma allora / in quel momento notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta / quella volta un forte malessere.
5) In Michele scintillò la rabbia che, quella volta / in quella occasione, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto fino ad allora / fino a quel momento.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Mi piacerebbe avere dei chiarimenti in merito all’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo al posto di oppure. Ad esempio: “Sono stata al mercato e non sapevo se comprare pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Potreste fornirmi delle delucidazioni in merito a questo strano uso?
Il significato di piuttosto che a cui sono abituata è quello di invece di, come in questo esempio: “Piuttosto che sgridarmi, spiegami dove ho sbagliato”.

 

RISPOSTA:

Il significato di piuttosto che a cui lei è abituata, cioè di ‘invece di’ o ‘anziché’, è l’unico appartenente all’italiano standard (quello codificato dalle grammatiche e dai dizionari). Con questo significato, il connettivo ha valore comparativo ed eccettuativo; l’esempio da lei fornito, infatti, può essere trasformato nel seguente modo: “Spiegami dove ho sbagliato, invece di sgridarmi”.
Da più di un decennio, e specialmente nell’italiano centrosettentrionale, piuttosto che ha assunto il significato proprio della congiunzione disgiuntiva o. Le ragioni di questa moda sono da ricercarsi nella percezione di piuttosto che come nobilitante rispetto a da parte dei ceti medio-alti del Settentrione che, poi, hanno influenzato gli altri parlanti. Sono gli stessi motivi, per esempio, che inducono a pronunciare rùbrica invece di rubrìcamòllica piuttosto che mollìca.
L’uso disgiuntivo di piuttosto che è ancora da considerare scorretto e non è consigliabile in nessun contesto; non solo perché in contrasto con la grammatica e con la storia etimologica del sintagma, ma anche perché può creare importanti ambiguità nella comunicazione, rischiando di compromettere la funzione del linguaggio. Una frase come “Stasera vado al cinema piuttosto che al teatro” indica una preferenza (‘Stasera vado al cinema, non al teatro’) e non un’alternativa (‘Stasera vado al cinema o al teatro’). L’uso disgiuntivo è, comunque, tipico di catene di alternative, come nell’esempio da lei proposto “pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Si noti che la frase, se interpretata con il valore standard di piuttosto che, significherebbe: ‘[compro] i pomodori e non le cipolle, né dell’aglio”.
Già nel 2002 la linguista Ornella Castellani Pollidori ipotizzava che alla base dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo ci fossero frasi come “Andiamo a Vienna in treno o piuttosto in aereo” (in cui piuttosto dà maggiore plausibilità al secondo elemento della coppia disgiuntiva).
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società
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QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

​Il verbo non è registrato né nello Zingarelli 2019, né nel Devoto-Oli 2019, i due dizionari dell’uso più diffusi e sensibili all’aggiornamento lessicale. Non si trova neanche nella banca dati dell’Osservatorio neologico della lingua italiana (http://www.iliesi.cnr.it/ONLI/), né nella aggiornatissima pagina del sito Treccani dedicata ai neologismi (http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/neologismi/).
La ricerca on line attraverso il motore di ricerca Google restituisce circa millecinquecento risultati, decisamente pochi (molti sono, per giunta, falsi positivi). Alcune attestazioni, però, risalgono anche a 15 anni fa, e si trovano in blog, giornali, persino libri specialistici di case editrici di rilevanza nazionale; ecco un esempio giornalistico del 2006, dalla pagina http://www.ilgiornale.it/news/aaa-laureato-cercasi-purch-senza-master.html: “Molti di questi corsi post-laurea sono semplicemente dei parcheggi per signorini viziati che pensano di «masterizzarsi» per poi entrare con più titoli nel mondo del lavoro ed evitare la gavetta in azienda”.
Dal punto di vista morfologico, masterizzarsi ‘conseguire un master’ è formato sul modello di diplomarsi ‘conseguire un diploma’, laurearsi ‘conseguire una laurea’, addottorarsi ‘conseguire un dottorato’, specializzarsi ‘conseguire una specializzazione’. È un verbo di cui il sistema ha bisogno, per designare un’esperienza sempre più diffusa anche in Italia. In teoria, quindi, ha piena legittimità d’uso; a scoraggiarne la diffusione, però, malgrado la sua coniazione risalga a più di dieci anni fa, è la coincidenza con il verbo masterizzare ‘copiare dati su un CD’ (da master ‘registrazione originale digitale da cui derivano le copie’), che lo rende semanticamente ambiguo.
È possibile che, con il progressivo tramonto della tecnologia dei CD, l’ambiguità tra masterizzare e masterizzarsi venga meno, i parlanti abbandonino le remore a usare il verbo e, di conseguenza, i dizionari lo accolgano. Fino a quel momento, il verbo rimane rischioso da usare (non a caso, nelle attestazioni rinvenute nel Web, il termine è spesso virgolettato, perché sentito come non ufficiale), perché non pienamente autorizzato né dall’uso vivo né dalla lessicografia: un buon compromesso è usarlo, anche senza virgolette, in contesti specialistici sul tema dell’istruzione; metterlo tra virgolette altrove.
A margine, sottolineo che masterizzarsi, al pari di laurearsi ecc., rientra nella categoria dei verbi intransitivi pronominali (come innamorarsi o accorgersi), non in quella dei verbi riflessivi, perché indica non un’azione che il soggetto compie su sé stesso (il soggetto non laurea, masterizza ecc. sé stesso), bensì l’ottenimento o il raggiungimento di uno stato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia si distingue solamente al singolare, ed è sempre lei (terza persona). Ad esso corrispondono le particelle pronominali la per il complemento oggetto e le per il complemento di termine.
Esempi: “Sa che le [complemento di termine] dico? Lei [soggetto] è proprio una brava persona”; “Ho chiamato lei [complemento oggetto] per avere un aiuto”; “La ho (l’ho) [complemento oggetto] chiamata per avere un aiuto”; “Voglio regalare a lei [complemento di termine] questa penna”; “Le [complemento di termine] voglio regalare questa penna”.
Si noti che lei come pronome di cortesia si concorda al femminile se si riferisce a una donna, al maschile se si riferisce a un uomo: “Le dispiace essere più chiarasignora Bianchi?”; “Le dispiace essere più chiarosignor Bianchi?”.
Al plurale, il pronome di cortesia coincide con il pronome voi. In alcune regioni d’Italia, soprattutto al Sud, voi si usa anche per il singolare: “Posso parlarvisignor Bianchi?”.
Fino a qualche decennio fa, e ancora oggi in un registro estremamente formale, era ed è possibile usare, come pronome di cortesia per il plurale, il pronome loro: “(Loro) non abbiano timore: siano certi che fugherò i loro dubbi”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Questa frase può essere corretta solo con l’imperfetto? magari con il passato prossimo indica anteriorità e sarebbe meglio il trapassato prossimo? “Ieri sono andata al giardino zoologico e ho visto che hanno dato / davano da mangiare alle foche”.

 

 

RISPOSTA:

La frase rimane corretta con il passato prossimo, l’imperfetto e il trapassato prossimo. Il suo significato, però, cambia. “Ho visto che hanno dato da mangiare alle foche” mette in evidenza l’evento in sé, per rilevarne l’effettiva realizzazione. Sarebbe adatta a una situazione in cui la parlante non fosse sicura se allo zoo avrebbero dato da mangiare alle foche nel momento in cui lei sarebbe stata presente. Allora, avendo visto l’evento, potrebbe raccontare in seguito di aver visto “che hanno dato da mangiare alle foche”.
“Ho visto che davano da mangiare alle foche” è la forma più prevedibile, perché mette in evidenza che l’evento del dare da mangiare è avvenuto quando la parlante stava guardando. Si noti che l’imperfetto non chiarisce se la parlante sia rimasta a guardare tutto il processo del dare da mangiare, o ne abbia visto solamente una parte.
“Ho visto che avevano dato da mangiare alle foche”, infine, indica che l’evento del dare da mangiare era già avvenuto quando la parlante è arrivata in vista delle foche. Di conseguenza, la parlante non ha visto l’evento, bensì qualche conseguenza, per esempio una parte del cibo ancora non mangiato, o le lische dei pesci scartate dalle foche, da cui ha dedotto che le foche avevano già ricevuto il cibo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In un contesto sviluppato su tre livelli temporali, che tempo si usa per indicare un evento precedente a quello espresso con il trapassato prossimo o il trapassato remoto? Tra i due, quale si deve scegliere per determinare l’anteriorità rispetto all’altro? 
Esempio: “Nel 1985 andammo in Sardegna. L’anno prima avevamo / avemmo optato per la Sicilia, dopo che una guida turistica ce ne aveva / ebbe decantato le bellezze”.

 

RISPOSTA:

​L’italiano non ha un tempo che esprima l’anteriorità rispetto al trapassato: tutti gli eventi precedenti a eventi già al trapassato andranno, pertanto, anch’essi al trapassato. Sarà il senso della frase a guidare il ricevente nella corretta ricostruzione della linea temporale.
Non bisogna pensare che il trapassato remoto indichi anteriorità rispetto al trapassato prossimo (o viceversa); dal punto di vista temporale, i due tempi sono sullo stesso piano: indicano anteriorità rispetto a un evento descritto da un tempo passato.
La scelta tra il trapassato prossimo e il trapassato remoto dipende in parte dalla funzione dei due tempi, il primo dei quali entra in relazione con il passato prossimo, il secondo con il passato remoto. Da questo punto di vista, la sua frase, che comincia con il passato remoto andammo, dovrebbe continuare con due trapassati remoti, avemmo optato e ebbe decantato. D’altra parte, il trapassato remoto è oggi caduto in disuso ed è sostituito comunemente dal trapassato prossimo, anche in relazione con un passato remoto. La sua frase, pertanto, sarebbe ben costruita anche con avevamo optato e aveva decantato. La scelta tra le due varianti (trapassati prossimi o remoti) dipenderà dal grado di formalità che si vuole conferire alla frase: il trapassato remoto, che dal punto di vista normativo è più corretto, innalza il registro linguistico. Potrebbe, però, paradossalmente, essere percepito come scorretto da molti parlanti, per via della sua rarità nell’uso comune.
In ogni caso, opterei per due trapassati analoghi; il passaggio dal prossimo al remoto o viceversa non è giustificabile né dal punto di vista funzionale, né dal punto di vista dell’adesione alla norma o all’uso.
A margine, sottolineo che i piani temporali nella sua frase sono quattro, non tre: bisogna sempre considerare il momento dell’enunciazione, cioè ora, rispetto al quale andammo è, appunto, passato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Le costruzioni implicite con l’infinito presente possono sostituire anche le coniugazioni al futuro delle costruzioni esplicite o sono invece contestualizzabili solo nella contemporaneità?
“Credo di venire” corrisponde all’agrammaticale “credo che io venga” o a “credo che verrò”?
Quindi: le due costruzioni sotto riportate sono equivalenti e ugualmente accettabili?
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto”;
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”.

RISPOSTA:

I modi indefiniti hanno il “difetto” di avere solamente due tempi, presente e passato. Non è un caso che l’italiano abbia operato questa semplificazione rispetto al latino (ricordiamo, infatti, che in latino il participio e l’infinito avevano anche il futuro; il gerundio, invece, era molto diverso da quello italiano, quindi non si può confrontare). Il futuro è il tempo meno funzionale tra quelli codificati, perché può essere facilmente assorbito dal presente. Anche tra i modi finiti, del resto, condizionale, congiuntivo e imperativo non hanno il futuro (l’imperativo lo aveva in latino, sebbene fosse raramente usato). Il futuro, pertanto, è appannaggio del solo indicativo; e anche nell’indicativo notiamo nell’italiano contemporaneo la tendenza del presente a svolgere le funzioni del futuro, come in questo esempio letterario di discorso diretto: “- Alle tre ho un appuntamento, ma appena finito prendo la macchina e vengo. -” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
La perdita del tempo futuro non danneggia affatto la comunicazione (altrimenti i parlanti non la avrebbero permessa): il ricevente è sempre in grado di riportare l’azione al presente o al futuro grazie alle informazioni cotestuali o alla sua enciclopedia mentale (ovvero, semplificando, al buonsenso). Di conseguenza, “Credo di venire” può significare tanto ‘Credo che io venga adesso’ quanto ‘Credo che verrò più tardi’. Sottolineo che, sebbene in questo caso la costruzione implicita sia fortemente richiesta, le varianti esplicite, al congiuntivo presente e all’indicativo futuro, non sono agrammaticali (cioè non contemplate dal sistema della lingua): la prima è al limite del substandard, la seconda è decisamente accettabile in contesti di media formalità parlata, proprio perché giustificabile per la volontà dell’emittente di sottolineare la temporalità dell’azione. Decisamente substandard, ma comunque non agrammaticale, è “Credo che vengo”, che emerge in contesti molto trascurati, come questo (dalla pagina Instagram del cantante Nek): “Nek credo che vengo al tuo concerto a Napoli Io saro’ quella che urlera’ a pazza”.
La variante esplicita al futuro ha anche il vantaggio di esprimere la persona del soggetto, utile se l’emittente voglia enfatizzarla; si pensi alla differenza tra “Preciso che non sono stato ancora pagato”, o ancora più chiaramente “Preciso che io non sono stato ancora pagato”, e “Preciso di non essere stato ancora pagato”.
Questo stesso dettaglio può rendere preferibile “Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto” rispetto a “Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”. D’altro canto, però, nella variante con il condizionale passato c’è una sgradevole ripetizione di che, a fronte di uno scarsissimo guadagno semantico. Si dovrebbe, pertanto, ma è una questione di stile, preferire comunque la variante implicita.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Apprezzerei la vostra consulenza per ricevere innanzitutto eventuale conferma della correttezza dei seguenti enunciati:

1. Ringrazio il cielo che mio figlio abbia/ha un lavoro.
2. Il problema è che un Paese come il nostro non abbia/ha una vera politica di incentivazione culturale.
3. Essi hanno commentato che si tratti/tratta di un errore.

Come avrete certamente notato, per ognuno dei tre esempi ho inserito sia il congiuntivo sia l’indicativo, poiché – confrontando vari dizionari e interrogando siti internet ad hoc – ho riscontrato entrambi i modi.  Ho notato che, al di fuori di DICO, sono molti gli addetti ai lavori (o sedicenti tali) che, a proposito dell’alternanza dei modi congiuntivo e indicativo sostengono che i cosiddetti verba dicendi reggano solo il secondo dei due; mi sono inoltre imbattuto in presunte regole, per me alquanto bizzarre, per le quali certe costruzioni verbali (come, tanto per citarne una, “essere convinto che”) coniugate al passato o alla terza persona (sia plurale sia singolare) possono reggere il congiuntivo “perché indicano una certezza soggettiva altrui”, ma in caso di azioni presenti o con coniugazioni alla prima persona, l’indicativo sarebbe obbligatorio “perché se si è certi di ciò che si dice non si può scegliere il congiuntivo” (scrivere “Sono convinto che X abbia disputato una bella prestazione” sarebbe quindi un errore imperdonabile). Se non vado errato, negli articoli reperibili all’interno del vostro archivio e accomunati dalla chiave completive si parla invece di una scelta tra i due modi che muove dagli intenti di registro e quindi comunicativi: formale = congiuntivo; informale = indicativo. Se ho ben assimilato le lezioni e prescindendo dall’adeguatezza contestuale, giudico valide in assoluto costruzioni quali

Sostengo che abbiano parlato troppo.
Dico che possa ancora farcela.
Non posso ignorare che egli abbia sbagliato.
Mi è giunta voce che lei non si sia presentata.
Si accorse che i suoi amici non fossero vicino a lei.
Sono giunto alla conclusione che si possa partire.
La legge stabilisce che sia garantita la libertà d’espressione.
 

malgrado le varianti all’indicativo siano di norma ben tollerate e certi risultati con il congiuntivo siano un po’ stridenti.
Domanda finale, di forse difficile risoluzione: se la grammatica è una, come si spiega questa varietà di interpretazioni di certe sue disposizioni?

 

RISPOSTA:

La funzione primaria del congiuntivo è di modo della subordinazione (non esclusivo: l’indicativo ha sempre avuto la funzione di modo di alcune subordinate, come le relative, le causali, le temporali). Esso non ha, di base, una precisa sfumatura semantica. Nel tempo, però, si è colorito di una sfumatura di eventualità per via dell’associazione con la proposizione ipotetica, con la concessiva e simili. È divenuto, per questo, il modo del dubbio, dell’eventualità, della incertezza. Nello stesso tempo, l’indicativo ha allargato la sua funzionalità a quasi tutte le subordinate, entrando in concorrenza con il congiuntivo. Di fronte all’avanzata dell’indicativo nella subordinazione, per giustificare l’esistenza del congiuntivo i parlanti hanno sfruttato la sua sfumatura semantica, che gli ha, quindi, donato una nuova ragion d’essere. Quando noi diciamo che il congiuntivo sia più formale dell’indicativo ci ricolleghiamo alla natura propria del congiuntivo, quella di modo della subordinazione: nelle proposizioni che ammettono entrambi i modi, ad esempio le completive, il congiuntivo è la scelta più in linea con la tradizione; l’indicativo è quella più innovativa. Si badi che non scoraggiamo l’uso dell’indicativo nelle completive: ne rileviamo, invece, la reale differenza rispetto alla scelta del congiuntivo. Ho più volte sottolineato che in un contesto parlato familiare è proprio il congiuntivo a rischiare di essere “stonato”.
Chi sostiene che il congiuntivo indichi incertezza, in contrapposizione alla fattualità dell’indicativo, non sbaglia completamente, ma si concentra sull’aspetto secondario dell’opposizione tra questi due modi. In ragione di ciò, arriva a conclusioni impressionistiche, come la convinzione, molto diffusa, che “Credo che tu sia…” indichi incertezza, mentre “Credo che sei…” indichi certezza. Bisogna comunque ammettere che la sfumatura semantica del congiuntivo sia percepita sempre più distintamente dai parlanti, mentre sempre meno riconosciuta sia la funzione sintattica di questo modo; è possibile che questa situazione porti in futuro al rafforzamento dell’aspetto secondario, e all’indebolimento di quello primario, così che si instauri una contrapposizione tra indicativo e congiuntivo totalmente su base semantica.
Attualmente, è ancora possibile difendere l’opposizione sintattica, per cui tutte le sue frasi sono ben formate, nonché più formali (più “fedeli alla funzione primaria del congiuntivo”) rispetto alle, possibili, varianti con l’indicativo.
Come si vede dalla riflessione qui svolta, le diverse interpretazioni dei fenomeni grammaticali derivano dalla storicità della lingua, che muta nel tempo, nonché dalla libertà che i parlanti hanno di spiegare a sé e agli altri come funziona la loro lingua, arrivando a conclusioni a volte impressionistiche ma che, se accolte dalla maggioranza, possono trasformarsi in regole.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

Nelle proposizioni completive (come la soggettiva retta da succede nel suo esempio), il congiuntivo è preferito in contesti di media formalità (richiesto in contesti di alta formalità), specie nello scritto. Le faccio notare che il suo dubbio non ha toccato abbandonino, nella seconda soggettiva, istintivamente coniugato al congiuntivo. Per maggiori dettagli, le consiglio di interrogare l’archivio di DICO inserendo la parola chiave congiuntivo nel motore di ricerca interno).
Eviterei di usare cose per intendere ‘persone’: difficilmente il lettore potrebbe intendere tale assimilazione; meglio sarebbe: “Traslocando succede che ci si portino dietro alcune cose e persone, e se ne abbandonino altre”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di €…… Incluse le eventuali spese per motivi aggiunti.

2. È come se gli stessimo dicendo:”non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”

RISPOSTA:

Le frasi sono sintatticamente ben formate. Ho sostituito aggiunti con aggiuntivi e qualche altro dettaglio grafico. Per quanto riguarda € …, infine, la sequenza “ + importo” è di stampo burocratico, quindi adatta a comunicazioni istituzionali; in una comunicazione ufficiosa come quella qui considerata, è preferibile “importo + “, o anche “importo + euro“.
Ecco il risultato:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di … euro / €, incluse le eventuali spese per motivi aggiuntivi.

2. È come se gli stessimo dicendo: “Non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come si chiama la vegetazione che cresce spontanea sull’asfalto?

 

RISPOSTA:

Le piante che crescono nelle crepe dei muri o delle strade appartengono a molte specie. Sono, comunemente, designate con espressioni collettive come vegetazione spontanea, visto che crescono senza essere coltivate, oppure infestante, con riferimento alla loro dannosità per i fabbricati (sebbene questo aggettivo si adatti più propriamente alle piante che insidiano le loro concorrenti coltivate, come la gramigna, la zizzania e le piante parassite). .Si può distinguere tra erba, che ha un fusto non legnoso, piante, che sono dotate di fusto legnoso o fibroso, arbusti, che sono bassi, legnosi o fibrosi e ramificati fin dalla base, alberelli e persino alberi, se la pianta ha fusto legnoso, rami, foglie, fiori e frutti. Le piante, poi, possono essere isolate o raggruppate in cespugli, se presentano un intrico grossolanamente globulare di molti rami, rovi, se i cespugli sono anche spinosi (il rovo è anche una pianta specifica: quella che ha i frutti detti more), siepi (con una punta di ironia, visto che queste formazioni sono spesso, ma non sempre, curate e modellate per delimitare confini), che sono cespugli con una certa estensione lineare, filari (con ironia più marcata, visto che il termine si associa di solito agli alberi), che si presentano in file più o meno regolari e non intricate.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’interpretazione della locuzione “a seconda dei casi” nel seguente testo:

“Cerchiamo di essere particolarmente consapevoli della sensazione prodotta dal passaggio dell’aria attraverso il naso, dove la percepiamo con maggiore intensità. A seconda dei casi, potrà trattarsi del punto di primo contatto dell’aria con le narici, o un po’ più all’interno, o ancora più in alto, nel seno nasale”.

“A seconda dei casi” significa ‘a seconda delle persone’ oppure ‘a seconda del momento in cui avviene l’evento’?

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a) e 1b) sono corrette. L’indicativo accentua la fattualità, quindi la concretezza dell’evento; il condizionale lo esprime come possibile, ma maggiormente soggetto all’avverarsi della condizione implicitamente contenuta nel sintagma in tal caso.
Anche le tre varianti proposte in 2a) e 2b) sono tutte valide. La scelta di costruire l’apodosi di 2a) con il presente, effettivamente più marcata rispetto alle altre, veicola una sfumatura di attualità atemporale per l’evento del trovare, come se il parlante volesse sottolineare l’assolutezza della situazione, la sua validità a prescindere da qualsiasi imprevisto.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

1a) Non è chiaro se sia stato effettuato l’intervento; in tal caso procederemo con una diffida.

1b) Non è chiaro se sia stato effettuato l’intervento; in tal caso procederemmo con una diffida.

2a) Se tornerai, mi trovi qui.

Se fossi stata al posto dello scrivente, avrei di preferenza omologato i predicati a un unico tempo, ottenendo tali risultati: 2b) Se torni, mi trovi qui (oppure: “Se tornerai, mi troverai qui”).

 

RISPOSTA:

 

​Vista la quantità di esempi, rimandiamo all’archivio di DICO per ulteriori approfondimenti sulla consecutio temporum.
1) Entrambe le opzioni vanno bene: il condizionale nella proposizione oggettiva subordinata (“che altri si sarebbero posti / si porrebbero tutti questi problemi” configura la proposizione stessa come l’apodosi di un periodo ipotetico, con la protasi implicita. In altre parole, la frase si lascia interpretare così: “anche se dubito che altri si sarebbero posti tutti questi problemi (se si fossero trovati in questa stessa situazione)”, oppure “anche se dubito che altri si porrebbero tutti questi problemi (se si trovassero in questa stessa situazione). La scelta tra il condizionale presente e il passato dipende dal grado di possibilità che il parlante attribuisce all’evento del porsi problemi (collegato alla relazione temporale con il verbo della reggente): se questo evento è percepito come possibile, quindi attuale rispetto all’evento del dubitare, si usa il presente si porrebbero; se, invece, è percepito come improbabile, quindi lontano dal presente dubito, si usa il passato si sarebbero posti.
La subordinata oggettiva può anche essere costruita con il congiuntivo, perdendo il valore di apodosi di periodo ipotetico. Riscrivendo la frase con il congiuntivo, si ottiene: “anche se dubito che altri si pongano / siano posti tutti questi problemi”. Anche in questo caso, è possibile scegliere tra il presente e il passato, secondo il solo criterio del rapporto temporale tra l’evento del porsi problemi e il l’evento del dubitare.

2) Sia l’indicativo, sia il congiuntivo vanno bene: la scelta dipende dal grado di formalità che si vuole ottenere (indicativo meno formale; congiuntivo più formale).

3) L’evento dell’invitare è antecedente rispetto ad ancora oggi insiste, cioè al presente. In questo contesto, il tempo del congiuntivo nella subordinata è il passato: abbia invitata. Il congiuntivo trapassato andrebbe bene in una frase in cui si evidenzia l’anteriorità dell’evento rispetto al passato: “Insisteva nel volermi fare il bagno nella vasca, nonostante l’avessi invitata più volte a non considerarmi più un bambino”. Inoltre, la punteggiatura della frase così com’è non va bene, sarebbe opportuno non separare verbo e oggetto: “Ancora oggi, insiste nel volermi fare lei il bagno nella vasca…”.

4) Entrambe le forme vanno bene. L’indicativo futuro nell’apodosi del periodo ipotetico sottolinea la fattualità dell’evento, esprimendo maggiore certezza (nella percezione dell’emittente) sulla sua realizzabilità; il condizionale esprime l’evento come possibile.

5) La subordinata in questione è una comparativa ipotetica, che serve, come suggerisce il nome, a fare un confronto tra la realtà (descritta nella reggente) e un’ipotesi. Il verbo della reggente (ha mostrato) è passato, quindi la subordinata, che richiede il congiuntivo, può prendere l’imperfetto se l’evento del voler partecipare è percepito come possibile (quindi contemporaneo all’evento del mostrare), trapassato se l’evento è percepito come improbabile (quindi distante nel tempo dal mostrare). Si noti che con il trapassato si accentua il valore retorico dell’immagine: il parlante costruisce il confronto con una ipotesi che lui stesso esprime come improbabile.

6)-8) Come la 4).

9) Entrambe le forme sono corrette, anche se il futuro (potrò entrare) è preferibile. Il futuro, infatti, pone l’evento dell’entrare in relazione al momento dell’enunciazione, che è adesso; il passato prossimo ha informato, a sua volta, colloca l’evento dell’informare in relazione con il momento dell’enunciazione, lasciando intendere che l’evento sia ancora da consumarsi, cioè, per l’appunto, futuro rispetto ad adesso.
Diversamente, il condizionale passato (sarei potuto entrare) esprime l’idea del futuro nel passato, quindi si pone in relazione non con il momento dell’enunciazione, bensì con quello di riferimento, che è rappresentato da ha informato. Come detto sopra, ha informato è in stretto rapporto con il presente, il che non giustifica pienamente la costruzione del futuro nel passato. Se sostituiamo il passato prossimo con il passato remoto, il condizionale passato diviene legittimo: “Inoltre mi informò che sarei potuto entrare nella struttura la sera…” (sempre possibile, comunque, rimane “Inoltre mi informò che potrò entrare nella struttura la sera…”, nel caso in cui l’evento dell’entrare sia futuro rispetto ad adesso).
A margine, si noti che il sintagma la sera si lascia interpretare (preferibilmente, non obbligatoriamente) in due modi diversi nelle due costruzioni: “Inoltre mi ha informato che potrò entrare nella struttura la sera…” suggerisce che potrò entrare di sera (possibilmente ogni sera); “Inoltre mi informò che sarei potuto entrare nella struttura la sera…” suggerisce che sarei potuto entrare quella sera.

10. Simile all’esempio precedente. Il sintagma “da questa sera” accentua la separazione tra il passato prossimo ha raccontato e il momento dell’enunciazione, rendendo più accettabile il condizionale passato.

11. La proposizione relativa può essere costruita con l’indicativo (“che vogliono partecipare”), il congiuntivo presente (“che vogliano partecipare”), il congiuntivo imperfetto (“che volessero partecipare”). La scelta dipende dal grado di probabilità dell’evento del voler partecipare (nella percezione dell’emittente). Esattamente lo stesso vale se sostituiamo volere con desiderare (quindi desiderano / desiderino / desiderassero); cambia, ovviamente, il significato del verbo: desiderare ‘avere un desiderio’; volere ‘avere la volontà’.

12) Possibili entrambe le varianti, con la solita sfumatura funzionale tra l’indicativo fattuale e il condizionale che presuppone un’ipotesi. Il condizionale, infatti, configura la proposizione come l’apodosi di un periodo ipotetico, come se fosse: “anche se (se non l’avessi trovata) quella vecchia andrebbe bene”.

13) Siano state esplose si pone in relazione al momento dell’enunciazione, rispetto a cui è antecedente; fossero state esplose, invece, si pone in relazione a hanno disposto, che è già passato, rispetto a cui è, a sua volta, antecedente. Come nella frase 9), il passato prossimo è fortemente proiettato sul presente, tanto da non giustificare pienamente la costruzione con il trapassato; questo vale anche per la relativa “che avevano colpito il senzatetto”, che funziona meglio con il passato prossimo: “le autorità hanno subito disposto l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole che hanno colpito il senzatetto siano state esplose”. Anche qui, se usassimo il passato remoto la situazione si capovolgerebbe a favore del trapassato: “le autorità disposero subito l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole che avevano colpito il senzatetto fossero state esplose”.
Si noti anche la punteggiatura: le virgole prima e dopo la relativa non sono richieste, perché la relativa è limitativa (su questa rimandiamo all’archivio di DICO).

14) Corrette entrambe le forme. Anche per questo rimandiamo all’archivio di DICO, consultabile con la parola chiava ausiliare.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

1) Condivido i tuoi timori, anche se dubito che altri si sarebbero posti / si porrebbero tutti questi problemi. 
2) Diceva che lavorare lo faceva / facesse sentire meglio.  
3) Ancora oggi, insiste nel volermi fare lei, il bagno nella vasca, nonostante l’abbia / l’avessi invitata più volte a non considerarmi più un bambino e a lasciarmi lavare da solo.   
4) Il nonno ha accettato la sfida: se dovessi riuscire nell’intento, mi porterà / porterebbe sulla Torre Eiffel, a vedere Parigi dall’alto.           
5) Oggi è stato il giorno del funerale e Parigi ha mostrato il suo volto piovoso, come se anche il cielo volesse / avesse voluto partecipare al lutto, versando il suo tributo di lacrime per la mia mamma. 
6) Così, se dovessi averne bisogno, potrò / potrei contare anche sul loro aiuto.   
7) Se dovessero investirti non chiamerei / chiamerò nemmeno l’ambulanza anzi, ti passerei / passerò sopra anche con la mia auto.          
8) Così, se dovessero derubarmi ancora, salverei / salverò le scarpe buone.    
9) Inoltre mi ha informato che potrò/ sarei potuto entrare nella struttura la sera…  
10) Le ha raccontato la mia storia e che, da questa sera, sarò / sarei diventato a tutti gli effetti un ospite fisso.    
11) Un collega è favorevole a estenderla ad amici e conoscenti di Philippe che vorranno / desiderassero partecipare.  
12) Papà chiede se fra le cose di Philippe abbia trovato una sua foto; anche se vecchia andrebbe / andrà bene ugualmente.                 
13) Marco aggiunge che le autorità hanno subito disposto l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole, che avevano colpito il senzatetto, siano state / fossero state esplose dall’arma sequestrata.             
14) … poiché loro non sarebbero vissuti / non avrebbero vissuto in eterno…

 

RISPOSTA:

L’espressione “a seconda dei casi” ha un significato vago, che si specifica nel co-testo in cui appare di volta in volta. In quello qui considerato, i casi sono le volte diverse in cui ripetiamo l’operazione. Questa interpretazione è dovuta alla mancanza di riferimenti, nel co-testo, a possibili differenze da persona a persona; è possibile, invece, ricondurre “a seconda dei casi” a passaggio dell’aria, che è un evento comune a tutte le persone e caratterizzato dalla ripetitività. La frase può, insomma, essere parafrasata con “Alcune volte il punto di maggiore intensità sarà quello di primo contatto dell’aria con le narici, altre volte sarà un po’ più all’interno, altre volte ancora sarà nel seno nasale”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho fatto una ricerca sui sinonimi di moderazione e ho trovato su diversi dizionari di sinonimi e contrari i termini ponderatezza e ponderazione. Posso considerarli validi? Lo stesso vale per i verbi ponderare e moderare?

 

RISPOSTA:

In astratto tanto ponderatezza quanto ponderazione possono essere usati come sinonimi di moderatezza. Bisogna, però, ricordare che non c’è mai identità di significato tra le parole: bisogna valutare di volta in volta qual è il significato attribuito nel testo specifico alla parola. Non a caso, infatti, i dizionari propongono quasi sempre più di un sinonimo, ognuno dei quali riflette uno dei significati possibili della parola che vogliamo sostituire. Nel suo caso particolare, consideri che moderazione è, in generale, la qualità di chi agisce rimanendo all’intero dei limiti comunemente ritenuti normali. Ponderatezza, invece, è la capacità di soppesare le conseguenze, che di solito porta alla moderazione, ma può portare anche all’inattività, oppure, al contrario, a un comportamento consapevolmente non moderato. Ponderazione, infine, è l’atto di ponderare, ovvero l’applicazione a una situazione specifica della capacità della ponderatezza.
La vicinanza semantica individuata tra ponderazione e moderazione si rispecchia nella relazione tra ponderare e moderarsi (non moderare). Bisogna, però, considerare che ponderare richiede un complemento oggetto (si può anche usare in modo assoluto, ma con il significato generico di ‘pensare, riflettere’), mentre moderarsi no.
Moderarsi indica l’atteggiamento di chi controlla i propri impulsi per mantenere il proprio comportamento all’interno dei limiti considerati normali. Alla base di moderarsi c’è, ovviamente, moderare, che significa ‘mantenere qualcosa entro i limiti considerati normali’ e si usa con parole che indicano oggetti quantitativamente variabili, come la velocità o le spese, oppure con termini che indicano moti psicologici potenzialmente eccessivi, come l’ira o l’entusiasmo, o ancora con le parole, nel senso, figurato, di ‘esprimere in modo indiretto concetti che potrebbero offendere’. Si usa spesso anche con riferimento a convegni, dibattiti o simili, per definire l’attività del moderatore, ovvero dare la parola ai relatori, stabilire i tempi degli interventi, evitare che il botta e risposta degeneri in rissa ecc.
Ponderare, al contrario, è accompagnato da parole che hanno a che fare con valutazioni da cui dovrebbero scaturire decisioni: si possono ponderare le opzionile alternativei pro e i contro e simili.
Per moderarsi è spesso necessario ponderare le alternative e valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ma è anche possibile ponderare le alternative e poi decidere di non moderarsi affatto.
Ponderare e moderare possono avere come oggetto le paroleModerare le parole e ponderare le parole, però, non descrivono la stessa azione: la prima espressione significa ‘parlare in modo indiretto per non provocare l’interlocutore’; la seconda ‘riflettere sulle possibili parole adatte al contesto per scegliere quelle più adatte’. Potremmo dire, semplificando, che prima si ponderano le parole per poterle, poi, moderare. Ma è anche possibile che le parole vengano ponderate proprio per non moderarle, ma per esprimere con chiarezza il proprio pensiero.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

​QUESITO:

Curiosando in rete mi sono imbattuta in una discussione circa le seguenti costruzioni:
1. Se non vieni perché non te la senti è un discorso; se invece vorresti venire ma ti senti in imbarazzo, sbagli.
2. Se hai rifiutato perché non ne hai bisogno, posso capire; se invece avresti voluto accettare ma qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo.
Gli utenti intervenuti si sono divisi tra sostenitori della conformità ai dettami sintattici e sostenitori del contrario. Voi che cosa ne pensate?

 

RISPOSTA:

Il condizionale in una proposizione introdotta dalla congiunzione se è sempre visto con sospetto, perché è un errore molto comune sostituirlo al congiuntivo imperfetto nella protasi del periodo ipotetico (*”Se vorresti potresti farlo” al posto del corretto “Se tu volessi potresti farlo”).
Nella prima frase da lei proposta, la difficoltà sta nel contrasto tra l’apparente violazione della regola appena esposta e la sensazione che il risultato “suoni bene”. E in effetti la frase è corretta, perché la regola non viene affatto violata. Per accordare la sensazione con la regola basta reintegrare un pezzo di frase che è stato sottinteso: “se, invece, vorresti venire ma non vieni perché ti senti in imbarazzo, sbagli”. La protasi che funge da ipotesi di sbagli non è, quindi, “se vorresti venire”, che sarebbe mal formata (*”Se vorresti venire sbagli”) e non rispecchierebbe il senso inteso dal parlante (lo sbaglio non è voler venire, ma, al contrario, non venire), bensì “se vorresti venire ma non vieni”, ovvero “se non vieni pur volendo venire” (che sarebbe la costruzione della frase più formale e adatta allo scritto), oppure “se non vieni anche se vorresti venire”. La costruzione coordinata con ma della protasi, insomma, nasconde una struttura semantica subordinativa con una concessiva.
Per la verità, anche senza reintegrare “se non vieni” il ragionamento vale lo stesso: “se ti senti in imbarazzo pur volendo venire / anche se vorresti venire”; bisogna, però, riconoscere che l’ipotesi è senz’altro “se non vieni”. Nella mente del parlante, cioè, il rapporto di ipotesi-conseguenza è questo: “Sbagli se non vieni”. Le altre informazioni, “ti senti in imbarazzo” e “vorresti venire”, hanno semanticamente un ruolo di sfondo rispetto al nucleo dell’enunciato.
I motivi per cui il parlante non dice chiaramente quello che pensa (“Sbagli se non vieni”) possono essere due; la variatio sintattica rispetto alla costruzione del primo pezzo della frase, oppure, più probabilmente, la cortesia: normalmente, infatti, quando comunichiamo costruiamo percorsi linguistici alternativi, più lunghi e indiretti, rispetto a quello che rispecchia più fedelmente il nostro pensiero, se quest’ultimo ci sembra troppo violento o invadente. Lo facciamo soprattutto quando dobbiamo ordinare qualcosa (invece di dire “Apri la finestra” diciamo “Potresti aprire le finestra?”); quando esprimiamo un’opinione non pacifica (invece di dire “La filatelia è un ottimo passatempo perché…” diciamo “La filatelia mi rilassa molto, mi aiuta a concentrarmi e mi fa scoprire tanti fatti storici”); quando, similmente, critichiamo qualcuno, come nel caso della frase in questione.
Possiamo applicare lo stesso ragionamento fatto per la prima frase anche alla seconda: “se, invece, avresti voluto accettare ma non hai accettato perché qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo” (ovvero “se non hai accettato pur avendo voluto…”). In più, questo secondo caso offre un interessante incrocio sintattico: il verbo di dire nell’apodosi avvicina tutto il resto della frase, compresa la protasi (ma esclusa l’eventuale causale) a una interrogativa indiretta: “ti prego di dirmi se avresti voluto accettare ma (non hai accettato perché) qualcuno te l’ha impedito”. L’interrogativa indiretta è normalmente costruita con il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato.
​Per maggiori informazioni sul futuro nel passato suggerisco di consultare l’archivio di DICO inserendo nel motore di ricerca interno il termine consecutio temporum.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Enuncio (ora): i gentili professori di DICO mi hanno invitato (ieri) a consultare dopodomani (futuro rispetto all’enunciazione) l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (in un tempo intermedio tra ieri e dopodomani) … è stato / fosse / sia stato / era stato / fosse stato pubblicato il quesito”.
Quale tempo determina al meglio l’azione dell’eventuale pubblicazione del quesito?
Che cosa cambierebbe se riformulassi la frase così: “Ieri l’altro, i gentili professori di DICO mi hanno invitato a consultare stamattina / poche ore fa / ora l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”?

 

RISPOSTA:

La scelta nel primo caso è tra sia stato pubblicato e sarà stato pubblicato (o al limite, ma solo in un contesto informale, e meglio se nel parlato, è stato pubblicato). Le uniche coordinate rilevanti per stabilire la consecutio sono il momento dell’enunciazione, che è sempre ora, il momento di riferimento, ovvero dopodomani, e il momento dell’azione del pubblicare, che è successiva rispetto a ora, ma precedente rispetto a dopodomani. Il momento di ieri non è rilevante: anche se l’invito fosse fatto domani, non ieri, la consecutio rimarrebbe uguale: “I gentili professori di DICO mi inviteranno (domani) a consultare dopodomani l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo sia stato / sarà stato / è stato pubblicato il quesito”.
Chiarito questo, diventa evidente che il tempo dell’azione è il futuro anteriore, ma, se scegliamo il modo congiuntivo, più formale, opteremo per il tempo che in questo modo, privo di futuro, sostituisce il futuro anteriore, ovvero il passato. L’indicativo passato prossimo può svolgere la stessa funzione del congiuntivo passato, ma in un registro informale. Dal momento che l’indicativo ha il futuro anteriore, il passato prossimo produce, rispetto al congiuntivo passato (che è obbligato), uno slittamento del centro deittico (per una spiegazione di che cosa sia si veda l’archivio di DICO) dal momento dell’enunciazione a quello di riferimento (nel nostro caso dopodomani); il parlante, cioè, semplifica la situazione, che ha tre coordinate, considerandone solamente due: il momento dell’azione e quello di riferimento. Rispetto al momento di riferimento, l’azione diviene, appunto, passata (sparisce il tratto del futuro).
L’imperfetto congiuntivo (fosse pubblicato) indica contemporaneità nel passato, quindi non può essere usato in questo contesto. Allo stesso modo, inadeguati sono il trapassato indicativo e congiuntivo, che indicano anteriorità rispetto a un evento passato.

La riformulazione della frase sposta l’evento nel passato, quindi esclude il futuro anteriore come possibilità. Rimane, invece, valido il congiuntivo passato, sia stato pubblicato (meno formale l’indicativo, è stato pubblicato), che ignora il momento di riferimento (in questo caso ieri l’altro) e considera solamente il momento dell’enunciazione, rispetto al quale l’azione è passata. Se, invece, “triangoliamo” le tre coordinate, l’azione del pubblicare si configura come futura rispetto al passato, quindi prende la forma del condizionale passato, sarebbe stato pubblicato.
Non è finita: possiamo anche valorizzare la sfumatura ipotetica veicolata dalla proposizione interrogativa indiretta “se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”, come se la frase intendesse dire ‘nel caso in cui nel frattempo (?) pubblicato il quesito’. Questa operazione cambierebbe la prospettiva e renderebbe valido il congiuntivo imperfetto, fosse pubblicato (ipotesi possibile), e anche il congiuntivo trapassato, fosse stato pubblicato (ipotesi improbabile). Da scartare, in questo caso, le varianti all’indicativo, era pubblicato e era stato pubblicato.
Il trapassato unisce al valore ipotetico quello di anteriorità, che il ricevente interpreta come anteriorità rispetto al momento dell’enunciazione; l’imperfetto esprime contemporaneità, quindi oscura la relazione tanto con il momento di riferimento, quanto con il momento dell’enunciazione (tranne per il fatto che è un tempo passato) e fa risaltare, invece, la fase intermedia, descritta con l’avverbio nel frattempo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste dirmi quale delle due alternative è corretta nei punti segnalati della seguente lettera?
 Volevo dirle che, in questo periodo ho trovato molto difficile seguire XXX per le sue numerose assenze, mi sono ritrovata il giorno prima per il seguente con tutto il lavoro da svolgere e interrogazioni da preparare, inoltre mi è dispiaciuto non seguire XXX in modo ottimale, ma anche lui mi ha fatto / mi fece presente di queste sue difficoltà il giorno precedente all’esposizione della relazione, quando nelle settimane precedenti ho chiesto / chiesi alla classe di chiedermi aiuto se qualcuno ne aveva bisogno /  avesse avuto bisogno.

 

RISPOSTA:

Il passato remoto nel primo caso risulta fuori luogo per via degli altri passati prossimi che lo precedono (ho trovatomi sono ritrovatami è dispiaciuto); nel secondo caso è richiesto il trapassato prossimo, perché l’azione espressa precede un’altra azione, già passata (la richiesta di aiuto del bambino). Nel terzo punto, le possibilità sono tre: avesse bisognoavesse avuto bisognoaveva bisogno; tra queste ritengo la migliore avesse bisogno, perché il congiuntivo imperfetto (più formale dell’indicativo imperfetto) esprime l’evento come possibile, mentre il trapassato lascia intendere che l’emittente lo ritenga improbabile.
A parte i tre dubbi da lei segnalati, però, ci sono altri punti deboli nella nota (relativi alla punteggiatura, alla sintassi e al lessico), che mi permetto di aggiustare nella seguente riscrittura.

Volevo dirle che in questo periodo ho trovato molto difficile seguire Tommy: a causa delle numerose assenze, mi sono ritrovata il giorno prima per il seguente con tutto il lavoro da svolgere e interrogazioni da preparare. Inoltre, mi è dispiaciuto non seguire Cristian in modo ottimale; ma anche lui mi ha parlato di queste sue difficoltà il giorno precedente all’esposizione della relazione, quando nelle settimane precedenti avevo invitato la classe a chiedermi aiuto se qualcuno ne avesse bisogno.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Qual è l’accordo corretto del participio passato?

 

RISPOSTA:

Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Una volta che può avere sia valore ipotetico che temporale, come quando? Le possibilità riportate più sotto, nonostante i distinguo di carattere semantico, sono valide?
“Una volta che avreste / abbiate / avrete ricevuto la comunicazione, vorrei essere messo al corrente”.

 

RISPOSTA:

Tutti i connettivi temporali assumono una sfumatura ipotetica quando introducono un evento futuro, proprio perché il futuro comporta automaticamente un certo grado di incertezza. Questa sfumatura è accentuata, nella percezione dei parlanti, dal congiuntivo (sebbene in astratto il congiuntivo sia solamente più formale dell’indicativo; su questo punto può leggere una recente risposta nell’archivio di DICO). Quindi, “Una volta che abbiate / avrete / avete ricevuto…” sono tutte varianti possibili, tra cui la più formale è abbiate ricevuto (sul passato prossimo in costrutti ipotetici si può leggere questa altra risposta nell’archivio di DICO). Possibili anche “Una volta che riceveste…” (congiuntivo imperfetto) e persino “Una volta che aveste ricevuto…” (congiuntivo trapassato), che designano l’evento rispettivamente come possibile e improbabile (accentuano, quindi, la sfumatura ipotetica del connettivo).
Scorretta, invece, nel suo caso, *”Una volta che avreste ricevuto…”. Il condizionale passato è possibile solamente se ci si trova in un contesto di futuro nel passato, come in questa frase: “Vi avevo chiesto di avvisarmi subito una volta che avreste ricevuto la comunicazione”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Entrò in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato”: tale frase è un esempio di scissa o pseudoscissa?
Vi domando, poi, se il congiuntivo trapassato o il passato prossimo sarebbero stati ugualmente validi:
“Entrò in camera, come uno che avesse corso a perdifiato”.
“Entrò in camera, come uno che ha corso a perdifiato”.

 

RISPOSTA:

​La prima frase ricalca l’ordine sintattico naturale dell’italiano, Soggetto, Verbo, Oggetto (ovvero ampliamenti vari, visto che al posto dell’Oggetto qui troviamo un complemento di moto a luogo e poi un complemento predicativo del soggetto). La versione scissa della sua frase sarebbe: “Fu lui a entrare in camera trafelato…” (la seconda parte è implicita perché il suo soggetto coincide con quello della reggente); quella pseudoscissa “A entrare in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato, fu lui”.
Il congiuntivo passato della proposizione comparativa può essere sostituito con il trapassato, con la differenza che il rapporto temporale tra reggente e subordinata cambia. Il passato esprime anteriorità rispetto al presente, quindi rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero ora: ne consegue che la descrizione della persona è riferita non alla situazione specifica narrata, ma ha valore generale (la persona somigliava a chiunque abbia corso a perdifiato). Il trapassato esprime anteriorità rispetto al passato, quindi viene riferito al momento dell’azione dell’entrare: ne consegue che la descrizione riguarda la situazione specifica narrata (la persona sembrava aver corso a perdifiato).
La sostituzione con l’indicativo passato prossimo è anche possibile: in questo caso non cambia la relazione temporale, ma il livello di formalità (più basso con l’indicativo).
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vivo all’estero e mi risulta difficile spiegare ai miei amici tedeschi i motivi per cui si fa uso del congiuntivo in certe frasi della nostra lingua. Alcuni esempi: “È bello che tu sia venuto”; oppure: “È importante che si veda il film dall’inizio”; “È deprecabile che Mario arrivi sempre in ritardo”. Nella lingua tedesca, ma anche in altre lingue, in frasi analoghe si usa l’indicativo. Perché noi usiamo il congiuntivo? Quale spiegazione dare?

 

RISPOSTA:

​Il congiuntivo è una risorsa che l’italiano ha sviluppato per segnalare la subordinazione. Il nome stesso del modo allude alla sua funzione di collegare le proposizioni, ma ricordiamo che in passato per designarlo era usato anche il termine soggiuntivo (ancora oggi in inglese esso è definito subjunctive), ancora più esplicito riguardo alla funzione di aggiungere parti della frase subordinate alla proposizione principale. 
In astratto, quindi, il congiuntivo è il modo delle subordinate, o almeno di quelle esplicite, visto che le implicite usano i modi indefiniti. In effetti, se osserviamo il panorama delle proposizioni subordinate, vediamo che molte richiedono obbligatoriamente o facoltativamente il congiuntivo (finali, completive, ipotetiche non del primo tipo, relative improprie, concessive, comparative di minoranza e maggioranza, eccettuative), e quando è prevista la possibilità di scegliere tra il congiuntivo e l’indicativo, il primo rappresenta la variante più formale. 
Se molte subordinate richiedono il congiuntivo, alcune, al contrario, lo rifiutano: le causali (ma non le causali irreali, sulle quali si veda questa risposta dell’archivio di DICO: https://bit.ly/2XpQU1x), le temporali, le relative proprie, le consecutive, le ipotetiche di primo grado (del tipo “Se sei tanto sicuro, fallo”), le comparative di uguaglianza e di analogia. Questa distinzione tra subordinate al congiuntivo e subordinate all’indicativo non deve sorprendere: le lingue non sono meccanismi perfetti. Il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma l’indicativo non è escluso da questa funzione. 
Del resto, lo stesso congiuntivo può figurare in proposizioni indipendenti, al posto dell’indicativo (che, come si sa, è il modo per eccellenza della proposizione principale), come in “Volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “Mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “I volontari facciano un passo avanti” e simili. In realtà, se osserviamo bene, le proposizioni principali al congiuntivo sono subordinate ad altre proposizioni all’indicativo, che rimangono implicite: “(Vorrei che) volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “(Lascio che) mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “(Ordino che) i volontari facciano un passo avanti”. 
La selezione dell’indicativo da parte di alcune subordinate, invece, è dovuta allo stretto legame logico esistente tra queste subordinate e la principale, ma anche alla tradizione e all’uso (non sempre è possibile ricondurre le strutture sintattiche a ragioni logiche). È possibile fare una graduatoria tra le subordinate in base al criterio della aderenza logica con la principale. Le più aderenti sono quelle proposizioni che richiedono l’indicativo anche quando sono dipendenti da proposizioni a loro volta al congiuntivo, come le consecutive, le relative proprie, la causali: “Dicono che Luca fosse tanto stanco che dormì per due giorni“; “Non sapevo che tu avessi conosciuto il ragazzo di cui ti avevo parlato tanto“; “Vorrei che tu venissi perché lo vuoi, non perché tu sia costretto” (sulle causali irreali si è detto sopra). Più incerto il comportamento delle comparative di uguaglianza: “Andrea si comporta sempre come ci si aspetta da lui“, ma “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetti da lui“. Ovviamente, però, è anche possibile “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetta da lui“.  Anche in questi casi, come in tutti quelli in cui è possibile l’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo, vale la norma non scritta che il congiuntivo rappresenti la soluzione più formale. Come si è detto, l’aderenza logica alla reggente non può spiegare tutti i casi: le completive, per esempio, tanto legate alla reggente da essere necessarie (una frase come “Sono convinto che tu mi stia imbrogliando” non avrebbe senso compiuto se togliessimo “che tu mi stia imbrogliando”) sono quasi sempre costruite con il congiuntivo.
La specializzazione sintattica del congiuntivo nella segnalazione della subordinazione ha finito per assegnargli la sfumatura semantica di modo della ipotesi, dell’eventualità, della possibilità, della controfattualità. Questa sfumatura, sviluppatasi secondariamente rispetto alla funzione sintattica primaria, è oggi percepita come il carattere preminente del congiuntivo. È opinione comune, per esempio, che “Credo che tu sei un buon amico” esprima certezza, mentre “Credo che tu sia un buon amico” esprima dubbio; la differenza, invece, è, come detto, di natura diafasica: la prima variante è meno formale della seconda, ed è, coerentemente, tipica del registro medio-basso nello scritto e del registro medio e medio-alto nel parlato. Lo stesso vale per “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettavo” e “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettassi” e, ribadisco, per tutti gli altri casi di possibile alternanza. 
Certo, una convinzione così radicata come quella che il congiuntivo sia il modo dell’eventualità non può essere trascurata: anche se si tratta di una interpretazione secondaria, oggi essa è attiva nella percezione dei parlanti, quindi va registrata. Possiamo dire, quindi, che il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma veicola anche, secondariamente e non sempre, una sfumatura semantica epistemica: il parlante, usandolo, esprime incertezza sulla fattualità di ciò che sta affermando.
La relazione tra indicativo e congiuntivo è al centro di molte domande poste a DICO nel tempo: una delle ultime risposte sull’argomento si può leggere qui: https://bit.ly/2GnQ1zH, ma consiglio anche di interrogare l’archivio inserendo nel motore di ricerca interno la parola chiave congiuntivo
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Marco era accanto a Riccardo, che parlava a vanvera”, la subordinata è collegata al soggetto o al complemento? La virgola (sia se presente, come nell’esempio, sia se assente) è determinante per caratterizzare la relativa? In che modo si possono evitare incomprensioni senza ricorrere a soluzioni quali “Marco era accanto a Riccardo e quest’ultimo parlava a vanvera”; “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”?

 

RISPOSTA:

 

Nella sua frase, la relativa è senz’altro collegata al complemento, perché il pronome relativo rimanda sempre al referente più vicino, detto anche antecedente. Non è, pertanto, necessario sovraspecificare il riferimento con una forma referenziale come quest’ultimo. Questo pronome è adatto se dividiamo la frase in due parti, così: “Marco era accanto a Riccardo. Quest’ultimo parlava a vanvera”.
Se manteniamo la frase unita, un pronome più esplicito è necessario qualora il referente sia non quello adiacente, ma quello più lontano (in questo caso Marco): in “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”, infatti, il referente di quello è proprio Marco (si noti che, coerentemente, quello indica in genere un oggetto che si trova lontano da chi parla).
La virgola non influisce sul collegamento, ma influisce, invece, sulla funzione della relativa e sul significato dell’intera frase. La relativa senza virgola, detta limitativa, contiene una informazione che identifica l’antecedente, mentre quella separata dalla virgola, detta esplicativa, aggiunge una informazione accessoria sull’antecedente. Nel suo caso, la virgola è quasi obbligatoria, perché Riccardo, nome proprio, è identificato di per sé; ma la situazione cambia se sostituiamo a Riccardo un nome comune, ad esempio: “Marco era accanto a quel ragazzo, che parlava a vanvera”. Nella frase così costruita, la relativa aggiunge una caratteristica non necessaria per identificare quel ragazzo; quindi l’emittente presuppone che il suo interlocutore sappia già chi sia quel ragazzo. Se l’enunciato fosse parlato anziché scritto la virgola sarebbe sostituita da una pausa intonativa e si potrebbe immaginare che l’interlocutore stia vedendo quel ragazzo nel momento in cui avviene la conversazione. La caratteristica del parlare a vanvera si configura, pertanto, come accessoria, o transitoria: il ragazzo in questione si comportava in quel modo nel momento in cui era accanto a Marco, ma non sappiamo se parlare a vanvera sia un’abitudine che lo identifica.
Sappiamo, però, che l’emittente non ritiene il parlare a vanvera un’abitudine che identifica quel ragazzo agli occhi del suo interlocutore, altrimenti avrebbe scritto “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera” e, nel parlato, avrebbe pronunciato l’enunciato senza pause. In “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera”, senza virgole o pause, la relativa fa, infatti, parte del complesso nominale di quel ragazzo e ne determina l’identità: in questo caso, l’emittente sta richiamando alla memoria del suo interlocutore un particolare ragazzo noto a entrambi in passato (visto che usa l’imperfetto parlava) per la sua abitudine di parlare a vanvera.
Di relative limitative ed esplicative si parla anche in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le seguenti costruzioni sono corrette in tema di rapporti tra i tempi verbali? 
– Lavorerai domattina – domanda l’uno.
– Sì, di pomeriggio – risponde l’altro.
– Pensavo che lavorassi di mattina. 
(Mi domando se il congiuntivo imperfetto possa sostituire il condizionale passato).

– Mi stai dicendo che tu domani saresti stato disposto a partire di casa alle 6 di mattina? – domanda la donna. 
(Il condizionale passato, pur collegandosi a un evento futuro al momento dell’enunciazione, può essere accettato per sottolineare la definitiva conclusione della condizione?)

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo imperfetto può estendere la sua funzione di indicatore di contemporaneità nel passato inglobando anche l’espressione del futuro nel passato, propria del condizionale passato. Usando il congiuntivo imperfetto, il parlante rappresenta l’evento come contemporaneo al momento in cui lo ha pensato o comunicato, conferendogli una sfumatura di certezza, a dispetto della sua collocazione nel futuro. Per questo motivo, con verbi di comando il condizionale passato è quasi impossibile: “Ordinò che io l’indomani partissi” (non *”Ordinò che io l’indomani sarei partito”), mentre è il congiuntivo imperfetto molto strano con verbi di dire privi di sfumature volitive: “Mi disse / comunicò che l’indomani sarei stato arrestato” (non *”Mi disse / comunicò che l’indomani fossi arrestato”). Con verbi di pensiero, le due opzioni sono generalmente valide; il congiuntivo è la scelta meno formale, sebbene non si possa dire trascurata, adatta a un registro medio, come dimostrano gli esempi letterari: “Lei stava ai fornelli, si è girata al rumore dei passi. Pensavo che aprisse le braccia. Ho detto: ‘Mamma, sono qui!'” (Susanna Tamaro, Per voce sola, 1991). Si vedano, su questo argomento, le tante risposte a domande analoghe nell’archivio di DICO; per esempio questa.
Il condizionale passato nella seconda frase lascia intendere che l’azione futura non si avvererà, perché è intervenuta una condizione ostativa. L’emittente, cioè, sa già che la persona con cui sta parlando non dovrà partire. Si noti che non siamo in un contesto di futuro nel passato, perché il momento di riferimento è presente e coincide con il momento dell’enunciazione (nel futuro nel passato, invece, il momento di riferimento è passato, mentre quello dell’enunciazione è, come sempre, presente). Il condizionale passato, pertanto, si configura come l’apodosi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, che suggerisce, come detto, la controfattualità dell’espressione verbale. Diversamente, “Mi stai dicendo che tu domani saresti disposto a partire…” indicherebbe che l’azione potrebbe ancora avverarsi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quando si dice giocare a qualcose quando con qualcosa? Per esempio giocare a o con un gioco di società?

 

RISPOSTA:

Si gioca a un gioco di società. In generale, si gioca a qualcosa quando si partecipa a un’attività  organizzata e con un regolamento: giocare a calcioa cartea scacchia Monopoli. Si gioca con qualcosa, invece, quando si usa un oggetto per divertirsi: giocare con il pallone ‘giocare usando un pallone’ (mentre giocare a pallone significa ‘giocare a calcio’), con il frisbeecon le bambole ecc.

Fabio Ruggiano 

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le varianti ellittiche contrassegnate di seguito dalla lettera b sono ben formate.

1a) Ho parlato con Anna e con Marco.
1b) Ho parlato con Anna e Marco.

2a) Nell’aria c’è un eccesso di microparticelle e di pollini.
2b) Nell’aria c’è un eccesso di microparticelle e pollini.

3a) A Luca e a Matteo vorrei dedicare più tempo.
3b) A Luca e Matteo vorrei dedicare più tempo.

4a) Negli ultimi anni o nelle ultime ore è successo qualcosa.
4b) Negli ultimi anni od ore è successo qualcosa.

5a) Le case erano ville, i palazzi erano regge, i giardini erano parchi.
5b) Le case erano ville; i palazzi, regge; i giardini, parchi.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti vanno bene. Ovviamente, le varianti ellittiche rappresentano i due elementi raggruppati come più solidali. “Ho parlato con Anna e Marco”, per esempio, è più adatto al caso in cui il soggetto abbia parlato con i due insieme; al contrario “Ho parlato con Anna e con Marco” allude al fatto che il soggetto abbia avuto due diversi colloqui.
Ho qualche riserva sulla 4b) perché l’articolo gli della preposizione negli stride un po’ nell’accordo con ore. È vero che vale la regola dell’accordo al plurale maschile con serie di nomi tra i quali almeno uno sia maschile, ma è comunque preferibile costruire la frase come la 4a) (a meno che non si voglia sottolineare, per qualche ragione, la solidarietà tra anni ore). Inoltre, la d epitetica per la congiunzione o mi sembra eccessiva, anche davanti a un’altra o: si può tranquillamente eliminare.
La 5b), infine, può essere punteggiata diversamente, risultando più scorrevole: “Le case erano ville, i palazzi regge, i giardini parchi”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Congiunzione
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Buongiorno, nella seguente frase: “Aprile è il quarto mese dell’anno, maggio è il quinto”, il quinto è pronome o sostantivo? Io sono più orientata per il sostantivo.

 

RISPOSTA:

Nel suo caso il numerale è un pronome. Per maggiori informazioni la rimando a questa altra risposta dell’archivio di DICO.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi pare che le relazioni di consecutio temporum che qui di illustro non siano mai state prese in esame.

1) Domani pomeriggio ricordati di chiamare il centralino, se entro la fine della mattinata (di domani)…
a) non avrai ricevuto/riceverai aggiornamenti.
b) non ricevessi aggiornamenti.
c) non avessi ricevuto aggiornamenti.
N.B. Nella variante a) ho unito i due tempi del futuro perché leggendo i vostri articoli ho capito che si differenziano quasi esclusivamente per il livello di formalità.

2) Se nel frattempo fosse stata chiarita la situazione, il dirigente già domani…
a) potrebbe adottare misure restrittive.
b) potrà adottare misure restrittive.

 

RISPOSTA:

Nei suoi esempi la costruzione del periodo ipotetico si intreccia con la consecutio temporum.
La frase 1) presenta i tre modelli canonici della protasi del periodo ipotetico. La soluzione a) coincide con la protasi di un periodo ipotetico della realtà, costruita con l’indicativo. L’evento condizionante, quello che provoca come conseguenza l’altro (ricordati), espresso nell’apodosi, è situato nel futuro rispetto al momento dell’enunciazione, cioè adesso (dal punto di vista di chi parla). La scelta del tempo da usare per questo evento è molto ampia: sono possibili li futuro semplice (se non riceverai), il futuro anteriore (se non avrai ricevuto), il presente (se non ricevi) e anche il passato prossimo (se non hai ricevuto). Tra queste, il futuro anteriore è la più lineare, perché esprime tanto la posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione quanto l’anteriorità rispetto alla conseguenza; il futuro semplice è, nell’italiano contemporaneo, sempre sostituibile a quello anteriore, come variante semplificata, che lascia implicito il rapporto di anteriorità rispetto alla conseguenza, facilmente inferibile per logica. Il presente, a sua volta, è quasi sempre sostituibile al futuro con funzione temporale: sarebbe questa, probabilmente, la variante preferita in una conversazione tra pari. Il passato prossimo è l’esito di uno slittamento, pienamente ammissibile, di piani temporali: con esso, il parlante sposta il suo centro deittico per un attimo a domani, mettendosi nei panni della persona che deve ricordarsi di chiamare. In quel momento, l’evento della protasi è, appunto, nel passato.
La soluzione b) rappresenta una protasi di un periodo ipotetico della possibilità: esprime l’evento della mancata ricezione di aggiornamenti come possibile invece che come reale, suggerendo che secondo il parlante esso sia un po’ meno probabile rispetto a quanto lo sarebbe stato se lo avrebbe espresso con l’indicativo.
La soluzione c), infine, rappresenta una protasi dell’irrealtà, che suggerisce l’improbabilità dell’evento.
La frase 2) mostra due casi apodosi rispetto a una protasi con il trapassato (se fosse stata chiarita). La soluzione a), al condizionale presente (potrebbe adottare), da un parte designa l’evento come possibile, dall’altro sottolinea la necessità che l’evento della protasi si sia concluso prima che l’evento dell’apodosi, l’adozione di misure, possa avvenire. Nella soluzione b), l’indicativo designa la conseguenza come reale, sottolineando il pieno potere del dirigente (se non, addirittura, l’intenzione già formata) di metterla in atto. Si può, ovviamente, aggiungere anche in questo caso una terza soluzione per l’apodosi, quella che rispecchia la costruzione canonica dell’irrealtà: “avrebbe potuto adottare misure restrittive”. Con questa, la conseguenza è data, appunto, per irreale: si completa, in questo modo, la costruzione di una ipotesi di cui si conosce già l’esito controfattuale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Su alcuni libri di grammatica, in uso nella scuola secondaria di I grado, è registrata la possibilità di coniugare il participio presente passivo dei verbi transitivi con essente unito al participio passato (per es.: di amareessente amato); inoltre viene distinta la voce del participio passato nella tabella della coniugazione attiva (per es.: di amareamato) da quella corrispondente nella tabella della coniugazione passiva (per es.: di amarestato amato).
Se il participio presente ha solo diatesi e forma attiva e se quello passato dei verbi transitivi ha solo diatesi passiva, le voci verbali sopra riportate sono giustificabili? Se sì, da quali autori della letteratura sono state usate?

 

RISPOSTA:

Alcune grammatiche scolastiche eccedono nello sforzo di completare i paradigmi della lingua, registrando sullo stesso piano forme effettivamente esistenti nell’uso e forme in teoria possibili, ma non usate (o, in certi casi, usate in passato ma oggi obsolete). I casi da lei proposti sono esempi degli effetti di questo sforzo: il fantomatico participio presente passivo è possibile in teoria, ma non se ne trovano tracce nella storia dell’italiano (per la verità, ho trovato un caso di essente odiato, nello ‘Nfarinato secondo di Lionardo Salviati, datato 1588), e soprattutto nell’italiano contemporaneo. Lo stesso participio presente di essereessente, è praticamente in disuso oggi; lo si trova usato solamente come aggettivo in ambito filosofico, con il significato di ‘dotato della qualità dell’esistenza’.
Anche la distinzione tra participio passato attivo e passivo per i verbi transitivi è discutibile, nei termini da lei illustrati: perché amato dovrebbe essere considerata una forma attiva? Bisogna andare più a fondo nel problema. Il participio passato, quando è in composizione con l’ausiliare, può divenire attivo: “Avendo preso la valigia, Luca uscì” mostra che l’azione del prendere parte dal soggetto, Luca, e ricade sull’oggetto, valigia. Questo succede perché il participio passato transitivo viene percepito come un tutt’uno con l’ausiliare avere e, per questo, perde la sua funzione originaria di passivo. Si noti, però, che è sempre possibile dire “avendo presa la valigia”, che è comunque una costruzione attiva, ma mantiene il ricordo della funzione passiva del participio passato: equivale, infatti, a ‘avendo la valigia presa’, cioè ‘avendo reso la valigia presa’. Quando è usato da solo, inoltre, il participio passato transitivo è ancora preferenzialmente passivo: se togliamo l’ausiliare alla nostra frase esempio, infatti, rimaniamo con “Preso la valigia, Luca uscì”, che è al limite dell’accettabilità rispetto a “Presa la valigia, Luca uscì”, la variante più corretta, nella quale il soggetto di presa è la valigia. La frase equivale, quindi, a “Essendo stata presa la valigia, Luca uscì”: il participio è detto, in questo caso, assoluto, perché non ha collegamenti sintattici con la proposizione reggente. In “Preso la valigia, Luca uscì” agisce il modello sottostante “Avendo preso la valigia, Luca uscì”, che dà alla costruzione legittimità (limitata a usi non sorvegliati) per analogia.
Tanto amato, o preso quanto stato amato, o stato preso, quindi, possiedono il tratto della passività: amatopreso ecc. possono divenire attivi in composizione con l’ausiliare averestato amatostato preso ecc., ovviamente, no, visto che sono già accompagnati dall’ausiliare essere.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Avrei bisogno di alcune conferme inerenti ad alcune frasi da analizzare grammaticalmente per una scheda di scuola primaria.
1. “Questi soldi sono pochi”. Pochi è aggettivo o pronome?
2. “Nessuno dei miei fratelli mi ascolta”. Nessuno è aggettivo o pronome?
3. “Qualche volta ci divertiamo davvero poco”. Poco è aggettivo o pronome?
4. “Mario ha parlato tanto”. Tanto è aggettivo o pronome?
5. “Alla gara di nuoto sono arrivato primo”. Primo è aggettivo o pronome?

 

RISPOSTA:

Pochi è aggettivo (predicativo, perché si collega al nome non direttamente, ma per il tramite di un verbo) nella prima frase, mentre poco è avverbio nella terza (più precisamente davvero poco è una locuzione avverbiale). Avverbio è anche tanto nella quarta frase: come davvero poco nella terza frase, infatti, modifica il significato del verbo aggiungendo ad esso una sfumatura. Nessuno è un pronome, primo è aggettivo (predicativo, come poco nella prima frase).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella risposta a uno dei quesiti pubblicati, il 2800189 in specie, se ho ben compreso, consigliate l’uso del si quando la costruzione sia impersonale (“sarebbe bello incontrarsi”); vi domando se in tutti quei casi in cui il pronome noi (espresso o sottinteso) fa da soggetto è ammesso il ci dopo il verbo all’infinito:
1) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarci.
2) Ci siamo incontrati per chiarirci.
Se invece costruissimo tali forme:
3) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarsi.
4) Ci siamo incontrati per chiarirsi,
commetteremmo un errore o sarebbero varianti valide della 1 e della 2?

 

RISPOSTA:

​Le frasi 3) e 4) sono mal costruite: il pronome ci non può essere sostituito da si, perché ha una funzione diversa. Quando il soggetto della frase è noi e il verbo prevede il pronome atono, questo pronome sarà per forza ci; questo vale quando il verbo ammette la particella rafforzativa, come in “Dobbiamo stare attenti a non dimenticarci la torta in forno”; quando il verbo è reciproco, come in “Ci siamo incontrati per chiarirci“; quando il verbo è riflessivo, come in “Stasera guardiamo un film per rilassarci“.
Il pronome si, invece, rende il verbo impersonale in frasi come “Si va al cinema”, oppure lo rende passivo, come in “Si mangiano le mele” (ovvero “Le mele sono mangiate”). In una frase come “Si va al cinema”, il soggetto logico, ma non grammaticale (visto che il verbo impersonale per definizione non ha soggetto), può essere noi, ma anche un generico la gente. Ad esempio, se dicessi “Si va al cinema; tu vieni?”, il soggetto logico di si va sarebbe noi; ma se dicessi “Oggi si va al cinema meno di cinquant’anni fa”, il soggetto logico sarebbe, piuttosto, la gente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

 

QUESITO:

In un paragrafo incluso in una grammatica, leggo, a proposito dell’accordo del participio passato, il seguente esempio: “Non si è vinta la partita”.
Domanda: la costruzione “Non si è vinto la partita”, anche se non riconducibile alla regola cui si riferisce l’esempio precedente, sarebbe corretta quale forma impersonale, equivalente a “Noi non abbiamo vinto la partita”?
Accordo con negazione .
Leggo la frase: “Né io né tu né lei né gli altri sanno…”.
Domanda: non sarebbe stato più giusto coniugare il verbo alla prima persona plurale: “Né io né tu né lei né gli altri sappiamo”? O esiste oppure una terza coniugazione più appropriata?
Ultimo caso: congiunzione disgiuntiva o. Leggo che quando si presenta una scelta netta, il verbo si accorda al singolare (se ovviamente lo sono anche i soggetti). Evinco che la regola decada se i soggetti siano di numero misto: “O io o loro andremo”.
Domanda: il verbo può essere accordato al plurale anche se i soggetti sono singolari e se il primo di essi non è preceduto dalla congiunzione: “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi”?

 

RISPOSTA:

Quando il verbo costruito con il si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione si considera non impersonale ma passiva; la forma corretta nel suo caso è, pertanto, “Non si è vinta la partita” (equivalente a “la partita non è stata vinta”). La variante “Non si è vinto la partita” non è impossibile, però: viene a coincidere con il tipo di costruzione impersonale tipica del toscano e della tradizione letteraria, quindi non proprio comune (ma comunque legittima), noi si fa qualcosa (e noi si fa alcune cose). Si considerino, per un confronto, questi due esempi giornalistici: “Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo” (la Repubblica, 27 gennaio 2018); “Dare la colpa a qualcuno che per una volta si è vinto le elezioni: non è ancora successo, ma dal PD possiamo aspettarci anche di peggio” (l’Espresso, 11 giugno 2013). Nel secondo esempio “si è vinto le elezioni” sottintende un soggetto noi, ovvero “noi si è vinto le elezioni”. Si consideri, comunque, che anche la forma impersonale del tipo noi si fa alcune cose si può costruire come se fosse passivante: noi si fanno cose (si veda l’esempio letterario riportato  in questa risposta dell’archivio di DICO).
In una frase con soggetti multipli, se è presente io il verbo va alla prima persona plurale, come da lei suggerito (se ci fosse tu senza io, il verbo andrebbe alla seconda plurale). La versione da lei letta è scorretta; in essa il verbo è accordato “per prossimità” con l’ultimo soggetto introdotto, come si farebbe nel parlato poco sorvegliato.
“O io o loro andremo” è corretto (rappresenta un caso sovrapponibile a quello appena discusso). Il verbo va comunemente alla terza plurale anche con soggetti di terza persona singolare uniti da o. Può andare al singolare quando i soggetti stanno tra loro in un rapporto di alternativa: “Verrà a chiamarti un mio amico o mio fratello”. Niente vieta, però, di concordare il verbo alla terza plurale anche in questo caso: “Fu stabilito che, nei giorni seguenti, lui o la governante mi avrebbero portato da mangiare” (Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970).
Infine, la presenza della seconda o correlativa non cambia niente ai fini dell’accordo; quindi “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi” è ben formata, come anche “Il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì” o “O il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì”. Possibili anche, ricollegandoci alla questione appena discussa, “(O) il prof. Rossi o il prof. Verdi riceverà i genitori venerdì” e “Riceverà i genitori (o) il prof. Rossi o il prof. Verdi”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La costruzione essere (o eventualmente avere) coniugato al congiuntivo trapassato + verbo servile +  essere (infinito o infinito passato) è consentita?
Due esempi: “Non sapevamo se i documenti ci fossero dovuti essere consegnati”, “Non sapevamo se i documenti ci fossero dovuti essere stati consegnati”. Specie il secondo caso risulta, d’impatto, abbastanza macchinoso (e, da questo punto di vista, l’uso dell’ausiliare avere mi pare che non cambierebbe l’effetto), ma, al di là della complessità dei predicati, mi domando che cosa preveda la grammatica.

 

RISPOSTA:

Il costrutto verbo servile + essere prevede che l’ausiliare sia sempre avere; non si può, quindi, dire *”Mi dispiace, ma sono dovuto essere diretto”, ma si deve dire “Mi dispiace, ma ho dovuto essere diretto”. Bisogna dire che l’ausiliare essere in combinazione con un verbo servile reggente a sua volta il verbo essere non è sconosciuto nell’uso (soprattutto con il servile potere), persino letterario, per cui va almeno considerato possibile, sebbene meno formale.
Nei casi da lei prospettati, comunque, la costruzione con l’ausiliare essere è certamente da scartare, perché, oltre ad essere meno formale è anche poco chiara, vista anche la concomitanza della diatesi passiva di consegnare. Al contrario, la costruzione con il verbo avere è chiara e legittima: “Non sapevamo se i documenti avessero dovuto essere consegnati a noi”; oppure, con riferimento al futuro (nel passato): “Non sapevamo se i documenti avrebbero dovuto essere consegnati a noi”. Questo esempio letterario contiene entrambi i costrutti: “E ripeteva a ciascuno […] che se a professare questa retta opinione avesse dovuto essere condannato al supplizio, tanto meglio, perché in breve tempo avrebbe potuto vedere ciò che dicono le scritture” (Umberto Eco, Il nome della rosa, 1981).
Non c’è nessun motivo di coniugare l’infinito al passato nella sua frase, visto che esso dipende da un verbo servile già al passato, che è sufficiente per veicolare l’informazione temporale e soprattutto il rapporto di anteriorità con il verbo reggente. Un infinito passato retto da un verbo servile passato può servire solamente se si immagina un momento intermedio tra quello dell’evento e quello del verbo reggente (ovviamente a sua volta passato rispetto al momento dell’enunciazione); ad esempio: “Mi chiedevo (verbo reggente, passato rispetto al momento dell’enunciazione, che è adesso) se quando avevo preso il treno avessi dovuto (evento del momento intermedio) aver già fatto il biglietto (evento primario), oppure se avrei potuto farlo sul treno”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Avrei bisogno dell’analisi di queste due frasi:
– il doppio di sei è dodici.
– tu vali il triplo.

 

RISPOSTA:

​In entrambe le frasi ci sono verbi copulativi. Nella prima c’è proprio la copula è, seguita dalla parte nominale dodici, con la quale forma il predicato nominale. Nella stessa frase, di sei è complemento di specificazione. Nella seconda frase, vale è, come detto, un verbo copulativo (dello stesso tipo di risultare e sembrare), seguito dal complemento predicativo del soggetto il triplo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La congiunzione se può essere sostituita all’occorrenza da qualora o nel caso che per evitare che dentro lo stesso enunciato vengano a crearsi ripetizioni? Tali ripetizioni (se… se…), laddove fossero presenti, sarebbero riconducibili a una sgrammaticatura?
Esempio: “Non so se Niccolò userebbe ancora oggi quelle parole, qualora / se avesse l’occasione di
esprimersi sul fatto.

 

RISPOSTA:

​La sostituzione da lei immaginata è quasi sempre possibile, con un cambiamento di significato trascurabile. Volendo essere precisi, rispetto al generico sequalora aumenta il grado di improbabilità dell’evento espresso nella proposizione che introduce, mentre nel caso che (ma anche nel caso in cui) specifica che quella espressa nella proposizione introdotta è una tra due o più possibilità.
In ogni caso, la ripetizione di se non si può considerare un errore; qualche fastidio può provocare, al massimo, la ripetizione per tre o più volte a poca distanza.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali forme verbali vanno usate in queste frasi?
1. Luca gli chiede se è / sarebbe / sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
2. Ho detto loro che non avessi / avevo idea di cosa accadeva / accadesse a René quando urlava.
3. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva / sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
4. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi / fossi stato uno di loro.
5. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può / potrebbe / potrà mettere a disposizione un pulmino
6. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva / avvenisse all’interno del deposito.
7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi / si fosse presentato un baratro.
8. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva / sarebbe accaduto.
9. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo / averlo meritato o guadagnato.
10. Aveva più amici di quanti lui stesso avrebbe / avesse mai potuto immaginare.
11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino potesse / possa immaginare e sopportare.
12. Chiamo e chiedo se è / sarebbe / sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
13. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse / fosse uscito completamente
dalla stazione.
14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che / come, nonostante sorprese ed emozioni, siamo / fossimo riusciti comunque a fare una bella dormita.
15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire avesse / abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
16. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa / farebbe accendere la sigaretta.
17. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto / abbia spinto / avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse / desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
18. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha / aveva / abbia / avesse ricevuto comunicazioni.
19. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano / sono / fossero conosciuti.
20. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei / avrei sospettato che l’acuto finale te lo fossi / lo avessi preparato per l’occasione.
21. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi / desideravo metterla contro mia madre, rispose…
22. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva / avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. 

 

RISPOSTA:

​La scelta del modo e del tempo verbale nelle frasi da lei proposte non è quasi mai obbligata, ma, piuttosto, dipende dalla sfumatura semantica ricercata, dal grado di formalità richiesto dalla situazione o dalla consecutio temporum. Visto il gran numero di esempi, non mi dilungo in spiegazioni, ma rimando all’archivio di DICO, nel quale ci sono già molte risposte che trattano dei fenomeni qui coinvolti. Riscriverò, di seguito, le frasi corrette:
1a. Luca gli chiede se è ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1b. Luca gli chiede se sarebbe ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1c. Luca gli chiede se sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
Tutte le tre frasi 1. vanno bene: quella con l’indicativo è più diretta, quella con il condizionale è più cortese (e fa emergere il punto di vista interno del soggetto, avvicinandosi al discorso indiretto libero), quella con il congiuntivo è più formale.

2a. Ho detto loro che non avevo idea di cosa accadeva a René quando urlava.
2b. Ho detto loro che non avessi idea di cosa accadesse a René quando urlava.
Anche in questo caso, la scelta del modo dipende dal grado di formalità atteso.

3a. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
3b. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
La versione con il condizionale passato è più formale. In teoria l’imperfetto è più generico e può far riferimento alla vita in generale, non per forza alla vita futura, ma il verbo della reggente, avvertire, impone un’interpretazione futura. Possibile anche potesse.

4a. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi uno di loro.
4b. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi stato uno di loro.
La variante con l’imperfetto indica che l’amicizia era o non era in corso mentre lei pensava; quella con il trapassato sottolinea che l’amicizia si era o non si era conclusa in un momento precedente a quello in cui lei si era trovata a pensare.

5a. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può mettere a disposizione un pulmino.
5b. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrebbe mettere a disposizione un pulmino.
5c. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrà mettere a disposizione un pulmino.
Come per la 1., l’indicativo è più diretto. Il futuro aggiunge una precisazione temporale rispetto al presente, per cui è più facile ricondurlo a un evento specifico, mentre il presente rimane ambiguo tra “può mettere a disposizione sempre” e “può mettere a disposizione per una specifica occasione”. Aggiungerei anche una quarta versione, con possa, che risulterebbe la più formale.

6a. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva all’interno del deposito.
6b. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avvenisse all’interno del deposito.
Come per la 1., è una questione di formalità.

7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi un baratro.
Impossibile si fosse presentato, perché il trapassato esprime l’anteriorità rispetto al tempo della reggente, quindi contrasta con il fatto che il soggetto non sapeva che ci fosse un baratro. Possibile, e più formale, si sarebbe presentato.

8a. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva.
8b. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi sarebbe accaduto.
Anche qui l’indicativo è meno formale (e più comune), il condizionale passato più formale.

9a. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo meritato o guadagnato.
9b. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di averlo meritato o guadagnato.
Qui la scelta è tra meritare (ausiliare avere) e meritarsi (ausiliare essere), ovvero tra il verbo nella sua forma neutrale, più formale e distaccata, e lo stesso verbo nella versione pronominale, che gli conferisce una sfumatura emotiva, di partecipazione del soggetto (come se intendesse meritare per sé).

10. Aveva più amici di quanti lui stesso avesse mai potuto immaginare.
La variante con il condizionale passato è al limite dell’illogico, perché descrive una situazione in cui il soggetto non può immaginare che si sia realizzato uno stato (avere tante amicizie) dopo che lo stesso si è effettivamente realizzato e lui non può che esserne pienamente consapevole.

11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino possa immaginare e sopportare.
Non c’è nessuna ragione per usare il congiuntivo imperfetto in questo contesto.

12a. Chiamo e chiedo se è possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12b. Chiamo e chiedo se sarebbe possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12c. Chiamo e chiedo se sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
Si veda l’esempio 5.

13a. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse completamente dalla stazione.
13b. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno fosse uscito completamente dalla stazione.
La scelta del tempo dipende da una sfumatura: l’imperfetto esprime la contemporaneità tra l’azione del treno e quella di lui; il trapassato sottolinea che il treno era completamento uscito prima che lui lasciasse il binario.

14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che, nonostante sorprese ed emozioni, siamo riusciti comunque a fare una bella dormita.
Visto il contenuto analogo delle due oggettive coordinate, non c’è ragione per non mantenere la stessa costruzione per entrambe. La sostituzione del secondo che con come è possibile, ma non cambia la costruzione della proposizione.

15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
Non c’è ragione per usare il trapassato congiuntivo in questa frase.

16a. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa accendere la sigaretta.
16b. Tornata la calma gli chiedo anche se mi farebbe accendere la sigaretta.
Si veda la 1. Possibile anche la variante più formale con faccia.

17a. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17b. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17c. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17d. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17e. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17f. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
Come si vede, tutte le varianti sono possibili. I vari tempi del congiuntivo instaurano di volta in volta rapporti diversi (di anteriorità o contemporaneità) tra il momento dell’azione che essi stessi esprimono e gli altri momenti configurati nella frase: quello dell’enunciazione, ovvero ora, quello della chiamata e quello dell’insorgenza della volontà di comunicare con l’amico.

18a. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha ricevuto comunicazioni.
18b. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se aveva ricevuto comunicazioni.
18c. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se abbia ricevuto comunicazioni.
18d. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni.
Le varianti più attese sono quelle con il passato prossimo indicativo (meno formale) e il passato congiuntivo (più formale). Quelle con il trapassato (per le quali vale sempre la differenza di formalità tra indicativo e congiuntivo) presuppongono la presenza di un tempo di riferimento intermedio tra quello dell’enunciazione e quello della ricezione delle comunicazioni. In realtà, questo tempo intermedio dovrebbe coincidere con quello della domanda del Colonnello, ma il fatto che il soggetto usi il presente (sento) pone questo evento sullo stesso piano temporale del momento dell’enunciazione, appunto il presente. La situazione sarebbe più chiara se sento fosse un presente storico, che ammette senza difficoltà (ma con cautela) lo slittamento dei piani temporali tra il presente e il passato. In alternativa, si può pensare che ci sia un altro evento intermedio, non introdotto esplicitamente, tra la domanda e la ricezione delle comunicazioni; ad esempio “Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni prima dell’arrivo degli ordini ufficiali“.

19a. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano conosciuti.
19b. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si sono conosciuti.
19c. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si fossero conosciuti.
Anche qui l’indicativo è la variante più diretta, meno formale e più comune. Per il trapassato valgono le stesse considerazioni fatte a proposito dell’esempio 18.

20a. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale te lo fossi preparato per l’occasione.
20b. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale lo avessi preparato per l’occasione.
Non c’è motivo (sebbene non sia impossibile) di usare il condizionale passato (avrei sospettato) quando si specifica che l’azione avviene ora e la protasi del periodo ipotetico ha il congiuntivo imperfetto (fosse). Il passato funzionerebbe bene se la protasi fosse al trapassato (“Se non fosse stato per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora avrei sospettato…”). Per quanto riguarda la scelta tra preparare e prepararsi si veda l’esempio 9.

21a. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desideravo metterla contro mia madre, rispose…
21b. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi metterla contro mia madre, rispose…
Il congiuntivo è più formale.

22a. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva fatto uso di sostanze stupefacenti.
22b. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non avesse fatto uso di sostanze stupefacenti.
Come per l’esempio 21.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il seguente periodo è ben costruito o contiene invece un errore madornale?
“Se, qualora diventassi ricco, farei del bene al prossimo, significa che, di base, la mia natura è buona”. Alludo chiaramente alla frase con il condizionale: nel caso fosse valida, vi domando se la specificazione della protasi (nell’esempio di riferimento “qualora diventassi ricco”) sarebbe obbligatoria o facoltativa.

 

RISPOSTA:

La frase non è ben formata. La proposizione ipotetica incidentale “qualora diventassi ricco” non è la protasi del periodo ipotetico, ma è subordinata alla protasi (e non sintatticamente necessaria), che è “Se facessi del bene al prossimo”. Quindi, innanzitutto, il condizionale farei va sostituito con il congiuntivo imperfetto facessi. Noto anche che la protasi con il congiuntivo imperfetto è subordinata a una apodosi con l’indicativo presente, significa. Questo non può essere considerato un errore, ma è certamente una scelta insolita, visto che l’indicativo esprime la certezza del parlante su quanto sta dicendo, mentre la protasi al congiuntivo imperfetto esprime la possibilità che qualcosa avvenga. Insomma, il modello sottostante alle frase così formulata è: ‘se si verificasse un evento ciò comporta una conseguenza’. La formulazione più comune in questo caso sarebbe, invece, “Se, qualora diventassi ricco, facessi del bene al prossimo, significherebbe che, di base, la mia natura è buona”; con il condizionale significherebbe si esprime con chiarezza che la conseguenza è, appunto, condizionata dalla possibilità che si verifichi l’evento indicato nella protasi. La proposizione oggettiva “che, di base, la mia natura è buona”, infine, può essere costruita anche con il congiuntivo (“che, di base, la mia natura sia buona”), se si vuole elevare il registro dell’intera frase.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il periodo: “Non c’è niente di anomalo (né) nel rapporto con le cose né in quello con le persone” si sarebbe potuto scrivere anche così: “Non c’è niente di anomalo nel rapporto né con le cose né con le persone” senza commettere errori o operare variazioni di significato?

 

RISPOSTA:

​La posizione del primo  in astratto modifica il significato della frase; in questo caso specifico, il significato rimane grosso modo lo stesso dovunque mettiamo la congiunzione, ma con una piccola sfumatura di differenza: nella prima frase si sottolinea che la mancanza di anomalia riguardi il rapporto con le cose e le persone, e non si evoca alcun’altra entità; nella seconda frase si lascia intendere che la mancanza di anomalia possa riguardare altre entità oltre alle cose e alle persone, quindi si lascia aperta la possibilità che ci sia qualcosa di anomalo nel rapporto con entità diverse dalle cose e dalle persone. La sfumatura tende ad annullarsi perché le cose e le persone rappresentano più o meno tutta la realtà, quindi si farebbe fatica a trovare un’altra entità oltre a queste. Si immagini, però, due frasi del genere, formate sullo stesso modello delle sue: “Non sono in disaccordo né con Luca né con Mario” = potrei essere in disaccordo con altri / “Non sono né in disaccordo con Luca né in disaccordo con Mario” = Non considero la possibilità di essere in disaccordo con altri.
La forma delle due frasi è, comunque, corretta, visto che, nella prima, ha avuto l’accortezza di riprendere rapporto con il pronome quello. Molto meno felice sarebbe stata la formulazione: “Non c’è niente di anomalo né nel rapporto con le cose né con le persone”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi piacerebbe avere il vostro parere  su questa una frase che mi ha fatto sorgere un dubbio sull’uso non obbligatorio del congiuntivo: “Sul loro viso il terrore aveva fatto spazio al disprezzo che volevano trasmettermi, ignorando che, in quel periodo, era l’ingrediente principale della mia vanità…”.
È giusto “era l’ingrediente…” o la regola prevede fosse?

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo nel caso da lei indicato non è obbligatorio. Questo esempio rientra tra quelli in cui il parlante (o lo scrivente) è libero di scegliere il modo del verbo in base alla situazione comunicativa e allo scopo del testo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Condizionale o congiuntivo?
“Se Rodolfo si sarebbe limitato a rompere le scatole, com’è giusto che sia, solo alla mafia, oggi godrebbe di ottima salute!”.

 

RISPOSTA:

​La proposizione introdotta da se, nel suo esempio, è una ipotetica. Nel caso specifico, rappresenta la protasi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, che  richiede il congiuntivo trapassato. La costruzione corretta, pertanto, è “Se Rodolfo si fosse limitato a rompere le scatole, com’è giusto che sia, solo alla mafia, oggi godrebbe di ottima salute!”.
Assolutamente corretta è l’apodosi di questo periodo ipotetico (“oggi godrebbe di ottima salute”), al condizionale presente. Sebbene il tipico periodo ipotetico dell’irrealtà abbia il passato nell’apodosi (ad esempio: “Se fossi venuto da me ti avrei aiutato“), è sempre possibile, per esprimere rapporti temporali specifici tra la protasi e l’apodosi, usare vari tempi del congiuntivo e del condizionale in relazione tra loro. In questo caso, in particolare, il parlante vuole esprimere l’attualità della possibilità del godere di buona salute nel presente, per sottolineare che tale esito sarebbe stato possibile, anche se non si è realizzato. La costruzione con il condizionale passato (“Oggi avrebbe goduto di ottima salute”), invece, avrebbe sottolineato il fatto che effettivamente l’esito non si è realizzato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Il mio banco è il primo a destra, quello di Giovanni il secondo” il numerale primo è da considerarsi aggettivo o pronome?

 

RISPOSTA:

Essendo preceduti da articoli, né primo né secondo possono essere considerati semplici aggettivi. Non possono essere neanche considerati aggettivi sostantivati (come il rosso in una frase come “Il rosso ti dona molto”), perché è evidente la loro funzione di rimandare a un nome già introdotto precedentemente, banco. Questa è la tipica funzione dei pronomi; difatti, se al posto di il primo mettessimo quello (“Il mio banco è quello”), quello sarebbe un pronome dimostrativo. C’è da dire che alcune grammatiche attribuiscono ai numerali la funzione di aggettivi o di nomi, ma non quella di pronomi: secondo questa visione, il primo e il secondo, nella sua frase, sarebbero nomi. La differenza tra il primo e quello sarebbe che il primo ha un contenuto semantico ben preciso, mentre quello veicola solamente un significato di contorno; la funzione dei numerali in casi come questo, però, è talmente vicina a quella dei pronomi che non ho molti dubbi nel definirli, appunto, pronomi.
Dubbi maggiori sulla natura dei numerali, non solo degli ordinali, ma anche dei cardinali, sorgono quando essi fanno riferimento a un nome non introdotto, ma “inglobato”, ovvero implicito: “Ho preso otto in fisica”, “sono le tre e un quarto”. In questi casi c’è un accordo quasi unanime nel riconoscerli come nomi.
Una grammatica che ha rilevato il problema della labilità dei confini tra natura nominale e pronominale nel campo dei numerali in italiano è quella (in francese) di Jacqueline Brunet, Grammaire critique de l’Italien, Université de Paris VIII-Vincennes, Paris, 1981 (vol. IV, pp. 86-87, 92-93).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Spesso, specie nel parlato, si registra una preponderanza di frasi costruite con il presente dell’indicativo, anche in presenza di avverbi e congiunzioni che potrebbero ammettere tempi diversi.
Gli esempi di seguito sono accettabili nel linguaggio sorvegliato o sarebbe meglio modificarli?
1) Quando finisci di lavorare, torna.
2) Appena posso, vengo da te.
3) Finché non arriva lei, non mi muovo da qui.

 

RISPOSTA:

L’estensione del presente indicativo a usi che logicamente sarebbero propri del futuro (l’espressione di eventi o azioni future) è un tratto tipico della varietà della lingua detta neostandard, divergente dalla norma tradizionale, ma accettata da tutti i parlanti nella maggior parte dei contesti comunicativi.
Le frasi come quelle proposte da lei, in particolare, sono appropriate a una conversazione, o uno scritto, di media formalità, o anche familiare; è possibile anche in questi casi usare il futuro, ma una simile scelta potrebbe conferire all’eloquio del parlante una patina di artificiosità. Volendo aderire allo standard, anzi, si dovrebbe usare anche il futuro anteriore in due dei tre esempi: “Quando avrai finito di lavorare, torna”; “Finché non sarà arrivata lei, non mi muoverò da qui”.
Il futuro, semplice e anteriore, è, comunque, ancora la scelta più appropriata in contesti comunicativi molto formali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La locuzione com’è, in casi quali “bella com’è”, “stonato com’è” e simili, può essere adattata con le opportune flessioni del verbo in frasi al passato?
“Giulia, bella com’era, aveva uno stuolo di ammiratori al suo seguito”;
“Marco, per come era stanco, non riusciva più a camminare”;
“Paola, sfiancata come era stata la sera precedente, quel giorno non provò nemmeno ad alzarsi dal letto”.

 

RISPOSTA:

Quella che lei chiama locuzione è una vera e propria proposizione subordinata, introdotta dall’avverbio come. Se come non è a sua volta preceduto da una preposizione, la proposizione è una comparativa (è il caso della prima e della terza frase che lei porta come esempi); se, invece, è preceduta da per, come nella sua seconda frase, è piuttosto interpretabile come una causale: “Marco non riusciva a camminare a causa di quanto era stanco”. Entrambe le proposizioni, comparative e causali, richiedono il modo indicativo del verbo, che deve rispettare le regole del tempo comuni alla maggior parte delle altre subordinate. I suoi esempi, pertanto, sono tutti ben formati.
Per saperne di più sull’uso dei tempi del verbo nelle subordinate, può consultare l’archivio di DICO inserendo come parola chiave consecutio temporum.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Mi avvalgo della vostra cordiale disponibilità per esplicare il seguente interrogativo:
le frasi
1. Anche Tizio non è stato promosso;
2. Non è stato promosso neppure / nemmeno Tizio;
3. Neppure / nemmeno Tizio è stato promosso
sono tutte ben formate?
È possibile che modificando la posizione del predicato (esempio 2 rispetto a 1 e 3) o il tipo di costruzione da negativa a positiva (esempio 3 rispetto a 2), anche e nemmeno o neppure svolgano la medesima funzione?

 

RISPOSTA:

​Per quanto riguarda la funzione degli avverbi negativi nemmenoneancheneppure, essa cambia in relazione alla posizione degli avverbi nella frase; questi avverbi, cioè, negano il sintagma al quale sono adiacenti. Quindi “Neppure Tizio è stato promosso” vuol dire che neanche altri sono stati promossi, mentre “Tizio non è stato neppure promosso” vuol dire che Tizio non ha superato neanche altre prove.
Aggiungo che la frase 1. è al limite dell’accettabilità; la forma migliore sarebbe: “Neanche / neppure / nemmeno Tizio è stato promosso”.
La questione dello spostamento dell’elemento negato all’interno della frase è diversa, e chiama in causa la sintassi dell’informazione, ovvero il diverso peso che le informazioni acquisiscono a seconda della posizione in cui vengono inserite. Solitamente, le informazioni che inseriamo a destra sono quelle su cui vogliamo che il nostro interlocutore concentri la sua attenzione. Si pensi a un esempio come questo: “Ho preso la penna blu nel cassetto” / “Ho preso nel cassetto la penna blu”: l’informazione che si viene a trovare alla destra della frase (prima nel cassetto, poi la penna) riceve un peso maggiore; diviene, come si dice in linguistica testuale, il fuoco dell’enunciato. Alcune parole, come gli avverbi nemmeno e simili, sono dette focalizzatori, perché fanno risaltare l’informazione a cui si accompagnano qualsiasi sia la sua posizione. Nel nostro caso, infatti, nemmeno Tizio risulta il fuoco dell’enunciato anche se lo mettiamo a sinistra: “Neppure Tizio è stato promosso”. Rimane da capire che differenza ci sia tra quest’ultima formulazione e “Non è stato promosso neppure Tizio”. Dal punto di vista sintattico, notiamo che in questa formulazione diviene obbligatorio negare anche il verbo, mentre in quella con nemmeno Tizio a sinistra la negazione del verbo sarebbe, al contrario, inaccettabile. Questo avviene perché l’italiano preferisce inserire sempre la negazione all’inizio dell’enunciato e poi solitamente ammette, ma non richiede, la sua ripetizione. Notiamo anche che il soggetto grammaticale del verbo, Tizio, è posposto.
Dal punto di vista della sintassi dell’informazione, immaginiamo una situazione in cui il parlante (una persona diversa da Tizio) non abbia superato un esame, e qualcuno glielo faccia notare per mancanza di tatto, o per dargli fastidio: “Quindi non sei stato promosso, eh?”. Il parlante potrebbe rispondere con entrambe le formulazioni: “Non è stato promosso neppure Tizio” chiarirebbe i termini della questione in modo neutrale: ‘riguardo al tema che hai sollevato, ti faccio notare che…’; “Neppure Tizio è stato promosso”, invece, stabilirebbe fin da subito ciò che più preme al parlante comunicare, riducendo l’altra informazione a una appendice, richiesta per completare sintatticamente la frase (la sola enunciazione “Neppure Tizio” risulterebbe sospesa). Riguardo alla funzione informativa di questa appendice, emerge l’intento di rimarcarne il valore pragmatico, come se il parlante comunicasse tra le righe ‘visto che me lo chiedi / se proprio lo vuoi sapere’, con tutte le sfumature psicologiche che ne possono derivare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette: 
“Anita non sa neanche cosa dica”, 
“La pedagogia speciale propone metodi educativi che rispondano / rispondono ai bisogni degli educandi”,
“Il filosofo preferisce una scienza che parta / parte dal dubbio”,
“Mi ha chiesto se io abbia dormito bene”.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette, comprese entrambe le varianti per la seconda e la terza. La prima e la quarta contengono una proposizione interrogativa indiretta, introdotta in entrambi i casi da se, che preferisce il congiuntivo. L’indicativo non sarebbe scorretto (“Anita non sa neanche cosa dice”, “Mi ha chiesto se ho dormito bene”), ma sarebbe meno formale.
​Nella seconda e nella terza frase la situazione è diversa: le subordinate sono relative, che normalmente richiedono l’indicativo (quindi rispondono e parte) quando indicano una qualità posseduta dal referente o uno stato di fatto, ma possono prendere il congiuntivo se si vuole aggiungere al verbo una sfumatura di eventualità e di auspicio. “Che rispondono ai bisogni degli educandi”, cioè, descrive i metodi che la pedagogia effettivamente propone; “che rispondano ai bisogni degli educandi” fa risaltare la speranza che la pedagogia ripone nella possibilità che i metodi rispondano ai bisogni degli educandi. E lo stesso vale per la terza frase.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono un’insegnante. Recentemente è sorta una diatriba con una collega circa un complemento. Nella frase “Molti animali sono a rischio di estinzione”, a rischio è un complemento di modo (come sostiene la collega) o di stato in luogo figurato, al pari di “essere in pericolo” (come sostengo io)?

 

RISPOSTA:

A rischio è la parte nominale del predicato nominale, completato dalla copula sono. Lo dimostra il fatto che potremmo sostituire il sintagma preposizionale con un aggettivo o un participio passato con funzione di aggettivo, come minacciatiinsidiaticompromessi e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti costruzioni, ricavate da brani narrativi e di cui la letteratura abbonda, siano valide nelle loro ellissi verbali:
“Appoggiato a una delle cabine di ferro del portico era un uomo in attesa, le braccia incrociate”. 
“Riposò lentamente il ricevitore, restando poi immobile, gli occhi sul telefono”.
“Era Annetta, la cuoca, gli occhi rossi, la testa imbacuccata nello scialle”.
“Donato, nude le braccia, in canottiera, i fianchi stretti da una sciarpa, se ne stava accovacciato in un angolo”.
“Federica ora parlava piano, la testa china, i capelli sul viso”.
In quest’ultimo esempio vi è inoltre un impiego particolare dell’avverbio ora: è legittimo in un enunciato al passato?

 

RISPOSTA:

Quelle da lei messe in evidenza sono apposizioni modali-associative, ovvero nomi seguiti da aggettivi o participi (ma ci potrebbero essere anche proposizioni relative), apposti a un nome introdotto subito prima, di cui rappresentano un dettaglio. Il costrutto è a suo agio in letteratura, ma alcuni di questi sintagmi, divenuti routinari, si sono diffusi anche nella lingua comune; ad esempio le braccia conserte o le gambe penzoloni. Nella lingua comune, per la verità, si trova più frequentemente la variante sintatticamente legata di queste strutture: con le braccia consertecon le gambe penzolonicon le dita incrociate ecc., che viene a coincidere con un complemento predicativo (“Si fermò con le braccia alzate”) o di unione (“Si presentò con le scarpe tutte infangate”).
Queste apposizioni rientrano nella categoria delle strutture assolute, ovvero quelle strutture legate logicamente ma non sintatticamente al resto della frase di cui fanno parte. Una disamina completa delle strutture assolute, compreso il cosiddetto accusativo alla greca, è qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/strutture-assolute_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.
Per quanto riguarda ora usato all’interno di un discorso riportato al passato, si deve innanzitutto ricordare che questo avverbio è comunissimo, e accettabile nello scritto di media formalità, anche con il significato di ‘in quel momento’ (il dizionario GRADIT dà addirittura questo uso come FO, ovvero fondamentale: “per indicare contemporaneità nel passato, in quel momento: il pericolo era cessato, o. poteva  fermarsi“). Lo scrivente, però, potrebbe averlo usato come tratto del discorso indiretto libero (il breve estratto non consente di decidere a quale significato sia riconducibile l’uso specifico). Se, infatti, attribuiamo a ora il significato tradizionale di ‘in questo momento’, questo avverbio sposta per un attimo il centro deittico dal piano diegetico al piano mimetico. In altre parole, ora interrompe la narrazione in terza persona, che è costruita dall’esterno e da una coordinata temporale diversa rispetto ai fatti (chi narra, cioè, è una persona diversa da chi agisce, e si trova in un tempo diverso, tanto che riporta le azioni al passato) per portare il discorso al piano della realtà, proiettandoci per un attimo nella linea temporale, quindi nel punto di vista, del protagonista della storia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’uso del condizionale nelle proposizioni sotto riportate è adeguato?
1) Anche se dovresti occupartene tu, mi farò carico io dell’incombenza.
2) Ho voluto aggiornarla sulla variazione, fermo restando che dovrebbe essere l’istituto a procedere d’ufficio.

 

RISPOSTA:

È sicuramente corretto; in quanto all’adeguatezza, questa dipende dal contesto e dallo scopo comunicativo che l’emittente si propone. Il condizionale del verbo dovere serve per mitigare la forza illocutiva, ovvero la perentorietà, dell’ordine realizzato con questo verbo. Tale modalizzazione del verbo dovere è quasi sempre richiesta in condizioni normali, per evitare di sembrare scortesi; ma nel caso in cui l’emittente intenda essere molto esplicito, al limite dello scortese, potrebbe anche optare per l’indicativo. Al contrario, se l’emittente intende ridurre ancora di più la forza illocutiva, può sostituire del tutto il verbo dovere con altre perifrasi che mascherano completamente l’ordine, ad esempio: “Anche se potresti occupartene tu, mi farò carico io dell’incombenza”, oppure mascherano il destinatario dell’ordine: “Anche se non dovrei occuparmene io, mi farò comunque carico dell’incombenza”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase “Caio informava Sempronio che avrebbe avviato un’indagine interna al fine di accertare che fine abbia fatto l’oggetto” è corretto dire abbia fatto o si deve usare avesse fatto?  

 

RISPOSTA:

La costruzione corretta è la seguente: “Caio informava Sempronio che avrebbe avviato un’indagine interna al fine di accertare che fine avesse fatto l’oggetto”. Le regole della consecutio temporum stabiliscono che il tempo del congiuntivo della proposizione dipendente (qui “che fine… l’oggetto”) è passato (abbia fatto) quando esprime un evento anteriore a un altro evento presente, trapassato (avesse fatto) quando esprime un evento anteriore a un altro evento passato. Dal momento che l’evento di riferimento nel nostro caso è informava, che è imperfetto, quindi passato, il tempo da scegliere è, appunto, il trapassato.
Il tema della consecutio temporum è stato spesso affrontato nelle risposte di DICO: può approfondirlo consultando il nostro archivio usando come parola chiave proprio consecutio temporum.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vi sarei grata se analizzaste il seguente enunciato, letto recentemente:
“Ti avevo detto che avrei aspettato di riuscire a parlare con Max, prima di avvertirti”.
Avrebbe potuto essere migliorato dallo scrivente in chiave sintattica e di punteggiatura?

 

RISPOSTA:

​La frase è ben formata da tutti i punti di vista. Descrive una situazione intricata, nella quale il momento dell’incontro con Max è stato preceduto dall’annuncio dell’emittente: “Ti avevo detto”. Tale avvertimento è espresso con il trapassato perché è avvenuto prima di un altro evento, a sua volta passato. L’evento passato rispetto al quale l’annuncio dell’emittente è anteriore non è esplicitato, ma possiamo facilmente ricostruirlo: è la richiesta di informazioni da parte del ricevente. Il parlante, cioè, sottintende “Prima che tu mi chiedessi informazioni sul mio incontro con Max, ti avevo detto…”.
L’azione dell’aspettare contenuta nella subordinata oggettiva direttamente dipendente dalla principale è espressa con il condizionale passato perché è collocata nel futuro rispetto al trapassato avevo detto (per saperne di più sul futuro nel passato è possibile consultare l’archivio di DICO con la parola chiave consecutio temporum). La proposizione temporale “Prima di avvertirti”, infine, è costruita con l’infinito perché il suo soggetto coincide con quello della reggente, io; l’infinito è, inoltre, presente perché instaura un rapporto di posteriorità con l’azione della reggente (“che avrei aspettato”).
Quest’ultima proposizione contiene un’informazione di sfondo, quindi è bene separarla dal resto della frase con una virgola. Una alternativa ugualmente valida è inserirla come incidentale nel corpo della frase: “Ti avevo detto che, prima di avvertirti, avrei aspettato di riuscire a parlare con Max”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Mi sono emozionato nel vederlo”
“Mi sono emozionato nell’averla vista”
Differiscono solamente per il fatto che la seconda, diversamente dalla prima, indica l’anteriorità dell’evento rappresentato dall’infinito passato, ma sono entrambe corrette?
Senza discostarmi dall’oggetto della domanda, vi chiedo se si possono riscontrare dei contesti in cui l’infinito presente e il passato siano intercambiabili, escludendo qualunque distinguo di carattere semantico.
Mettiamo il caso che ci si voglia congedare da un collega che ha appena presentato le dimissioni; si potrebbe dire indifferentemente
“È stato un piacere lavorare con te”
“È stato un piacere aver lavorato con te”? 

 

RISPOSTA:

l’infinito passato, come da lei stesso ricordato, indica che l’evento o la situazione sia antecedente all’evento o situazione della reggente. Tale regola, però, si scontra con la funzione deittica di questa forma verbale, che colloca l’evento espresso nel passato. A seconda di quale funzione facciamo prevalere, quella anaforica o quella deittica (su questi concetti rimando alla risposta n. 2800175 dell’archivio di DICO), possiamo avere l’una o l’altra versione della frase, entrambe accettabili.
Questo vale per la seconda coppia di frasi; nella prima coppia, invece, la versione con l’infinito passato risulta un po’ forzata, al limite dell’accettabilità. La preposizione nel come introduttore di una subordinata temporale-causale, infatti, indica automaticamente che l’evento contenuto nella subordinata sia contestuale a quello contenuto nella reggente. Questo fa emergere il valore anaforico del tempo dell’infinito della subordinata, quindi richiede che tale infinito sia presente, in linea con la contemporaneità con la reggente indicata da nel. La costruzione diviene pienamente accettabile se, per esempio, sostituiamo la preposizione nel con a: “Mi sono emozionato ad averla vista”. In questo modo la proposizione subordinata, pur rimanendo temporale-causale, non implica necessariamente la contemporaneità con la reggente (ma neanche la esclude: “Mi sono emozionato a vederla”) .
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi sottopongono quattro frasi per sapere se siano ben formate. Alla luce delle vostre spiegazioni, presumo che le prime due lo siano, ma non sono certo che la terza e la quarta siano equivalenti alle precedenti in termini sintattici.
“L’unico che ha scritto la poesia sono stato io”.
“L’unico che ha scritto la poesia sono io”.
“L’unico ad aver scritto la poesia sono io”.
“L’unico ad aver scritto la poesia sono stato io”.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono ben formate. Le seconde due rappresentano varianti implicite (con l’infinito al posto dell’indicativo nella proposizione pseudorelativa) delle prime due; ai fini della scelta del tempo del verbo nella reggente si comportano allo stesso modo. Ciò che le distingue dalle varianti esplicite, invece, è che sono possibili solamente quando il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente; impossibile è, infatti, trasformare in implicita una frase come questa: “È la libertà (quello) che voglio”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi pongo un quesito relativo alla declinazione dei pronomi reciproci l’un l’altro e derivati. Quando ci si riferisce a soggetti maschili, il problema, almeno per me, non sussiste; la questione si complica in presenza di soggetti femminili o misti.
Le frasi:
“Le ragazze si stimano le une le altre”,
“Lucia e Paolo si amano l’una l’altro” (laddove non fosse possibile invertire le posizioni dei soggetti),
“I bambini e le bambine giocano gli uni con le altre”
sono valide?
Sarebbe inoltre possibile usare soluzioni, per così dire, “al maschile”, come se fossero cristallizzate, quando il genere è misto?
“Lucia e Paolo si amano l’un l’altro”.

 

RISPOSTA:

Il pronome reciproco l’un l’altro è soggetto all’accordo di genere e numero con i nomi a cui si riferisce. Le forme senza identità di genere tra i due membri (l’un l’altra, gli uni le altre) sono più rare di quelle “omogenee”, ma ugualmente ben formate. Decisamente rara, sebbene in linea di principio ineccepibile, è l’inversione dei termini, con la precedenza data al membro femminile. Va detto, comunque, che, proprio in virtù della reciprocità, l’accordo funziona a prescindere dall’ordine relativo dei due membri: “Lucia e Paolo si amano l’un l’altra” è corretto nonostante la mancata corrispondenza simmetrica tra i generi dei soggetti e quelli del pronome. “Lucia e Paolo si amano l’una l’altro”, invece, pur non essendo scorretto, risulta sgradito ai parlanti, come dimostra la quasi totale assenza di esempi, tanto on line quanto nell’archivio della BIZ (Biblioteca Italiana Zanichelli). Rari, sebbene attestati, sono, infine, l’una l’altra e le une le altre.

L’alta frequenza d’uso di varianti plurali e con il secondo membro femminile sconsigliano l’uso cristallizzato di l’un l’altro. Vero è che una certa tendenza alla cristallizzazione esiste; essa è, però, attualmente un fenomeno popolare, non accolto nella lingua comune.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto questa frase: “Nemmeno non fare niente non è così complicato”. Secondo il Vostro parere, è corretto scrivere “Non è così complicato”, oppure si dovrebbe scrivere “Nemmeno non fare niente è così complicato”. Cioè, inserire non nella frase mi sembra che comunque non cambi il senso della frase.

 

RISPOSTA:

In effetti le tre negazioni nella stessa frase sembrano ingiustificate, a meno che il parlante non intendesse volutamente esagerare per scopi comunicativi particolari, come l’ironia, o la parafrasi di una frase detta precedentemente, ovvero “Fare qualcosa non è cosi complicato”. Dal punto di vista strettamente semantico, la variante proposta da lei sarebbe del tutto analoga alla forma originaria e, al netto degli intenti comunicativi di cui sopra, preferibile.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi domando se le locuzioni con valore condizionale o dubitativo e tutte quelle concessive (non solo benché) possono essere utilizzate senza il verbo. 

1. Anche se spaventato, sarebbe giunto alla fine del tunnel.
2. Seppure / sebbene difficili, gli esami possono essere superati.
3. Gli alunni frequenteranno la classe quinta, purché promossi.

Al di là degli esempi, quali sono le congiunzioni che ammettono l’ellissi del verbo nelle proposizioni che introducono? 

RISPOSTA:

Le frasi da lei portate ad esempio sono tutte ben formate. In generale, l’ellissi del verbo è possibile, a prescindere dalle congiunzioni usate, ogni volta che il verbo sottinteso sia facilmente recuperabile nel co-testo o nel contesto. Come esempio di recupero dal co-testo si veda la seguente conversazione, nella quale il verbo della risposta si suppone sia lo stesso della domanda (sebbene con un adattamento morfologico dovuto al cambiamento del soggetto): “- Sarà Luca ad accompagnarti? – No, Andrea”. Un caso di recupero dal contesto è il seguente: “Io amo i film comici, e tu?”. Ovviamente, ancora più tipico è il recupero all’interno della stessa frase, come avviene negli esempi da lei proposti, o nelle frasi coordinate, come: “Luca è andato a casa presto e Andrea tardi”.

Fabio Ruggiano‚ Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) “L’ultima parola che ho detto è stata speranza“; 
2) “L’ultima parola che ho detto è speranza“;
3) “L’aspetto che più mi piacque della città furono le bellezze architettoniche”;
4) “L’aspetto che più mi piacque della città sono le bellezze architettoniche”.
Le soluzioni 2 e 4 sono corrette al pari, rispettivamente, della 1 e della 3? È obbligatoria, in questi e altri casi simili, l’identità dei tempi verbali nelle proposizioni?

RISPOSTA:

​Le frasi da lei proposte sono tutte ben formate. La proposizione relativa instaura un rapporto temporale con la reggente piuttosto libero, quindi è possibile trovare tempi diversi dell’indicativo nelle due proposizioni. La scelta tra il presente e lo stesso tempo della subordinata per il verbo della reggente dipende da quanto l’emittente vuole sottolineare l’attualità dell’elemento introdotto (qui la parola speranza e le bellezze architettoniche). il presente mostra che l’elemento è ancora (o già) esistente (o che l’emittente lo considera esistente); la scelta opposta, però, non indica che l’elemento non sia più (o ancora) esistente, ma, semplicemente, trascura questo dettaglio, mentre, al contrario, sottolinea la logica contemporaneità tra l’esistenza dell’elemento e l’evento espresso dalla relativa (cioè l’aver detto la parola speranza o aver gradito le bellezze architettoniche).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi scritte di seguito sono corrette o sarebbe consigliato il congiuntivo? Nell’esempio B, si verrebbe tra l’altro a creare, secondo me, una ripetizione, oltreché una cacofonia. 
a) L’eventualità che potrebbero accadere certi fatti è da tenere in conto.
b) La possibilità che potrebbe succedere mi fa paura.
c) Penserei che sarebbe un pazzo se facesse quello che temi (in riferimento a uno dei vostri esempi FAQ, in cui avevate impiegato sia al posto di sarebbe).
Sempre restando in tema di alternanza congiuntivo/condizionale, gli enunciati con valore concessivo, introdotti da malgradononostante (che) ecc., nonché quelli introdotti da qualunquequale che ecc., possono talvolta ammettere il condizionale composto per rimarcare l’aspetto del futuro del passato o è d’obbligo il congiuntivo a prescindere?
d) Qualunque risposta avrei ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare.
e) Non si sarebbe lasciato convincere facilmente, nonostante avrebbe subito pressioni. 

RISPOSTA:

​Nella frase a), il condizionale nella proposizione oggettiva (o, se vogliamo, dichiarativa) è ammesso, soprattutto se manteniamo il verbo servile potere, che accentua la sfumatura semantica potenziale, funzionale all’uso del condizionale. Se, invece, eliminiamo potere, la frase diviene difficilmente accettabile: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti è da tenere in conto”. In realtà, anche in questo caso il condizionale è giustificabile, se consideriamo l’oggettiva come l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti (se le circostanze lo permettessero) è da tenere in conto”. Il congiuntivo rimane comunque la scelta migliore; con questo modo si può anche costruire l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadano certi fatti (se le circostanze lo permettono / permettano) è da tenere in conto”. Rispetto a questo periodo ipotetico, quello con il condizionale presente e il congiuntivo imperfetto possiede una sfumatura eventuale più spiccata.
La frase b) ha la stessa struttura della a), per cui quanto detto si applica, mutatis mutandis, anche a questa.
Nella frase c) il condizionale sarebbe risponde agli stessi principi esposti sopra: esalta la sfumatura eventuale della frase. In altre parole, “Penserei che sarebbe un pazzo…” punta l’attenzione sul fatto che la concretizzazione della qualità dell’essere pazzo dipende (è, appunto, condizionata) dagli avvenimenti presentati nella protasi. Il congiuntivo, dal canto suo, veicola una sfumatura epistemica, molto meno marcata rispetto a quella eventuale del condizionale: sottolinea, cioè, che quanto detto dall’emittente sia un’opinione, non un fatto (come, del resto, emerge chiaramente dal senso generale della frase).
Per quanto riguarda le frasi d) ed e), il condizionale passato è sempre accettabile. Sostituendo il condizionale con il congiuntivo nella frase d) (“Qualunque cosa avessi ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare”) si accentua la sfumatura epistemica; si sottolinea, cioè, l’incertezza dell’emittente riguardo a quello che avrebbe potuto ricevere e si enfatizza, quindi, l’indeterminatezza di questa cosa, o di queste cose. Tale incertezza è in linea con il significato indefinito dell’aggettivo qualunque; per questo con gli aggettivi e i pronomi indefiniti si preferisce di solito usare il congiuntivo.
Nella frase e) la sostituzione del condizionale con il congiuntivo non cambierebbe solamente una sfumatura semantica, ma il significato complessivo della frase: “… nonostante avesse subito pressioni” si riferisce al passato rispetto al momento di riferimento rispetto a cui “non si sarebbe lasciato convincere” è futuro; diversamente, “… nonostante avrebbe subito pressioni” si riferisce al futuro, che può essere o non essere contemporaneo a quello in cui “non si sarebbe lasciato convincere”, rispetto allo stesso momento di riferimento.
Il condizionale passato nelle proposizioni concessive è usato anche nei giornali. Può servire a esprimere il futuro nel passato: “E invece non hanno seguito le indicazioni di andare a Malta, porto più vicino, nonostante avrebbe costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti” (ilgiornale.it, 19 marzo 2018). Può esprimere, in alternativa, il distacco epistemico del giornalista che non garantisce sulla veridicità di quanto riporta: “Stando alle prime indiscrezioni la rinuncia al trono del re sarebbe un gesto d’amore, nonostante avrebbe mentito sui due mesi di assenza dal suo incarico” (Rainews, 7 gennaio 2019).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Avrei dovuto dare un regalo a Piero stasera, SAI SE VENGA?”. Alcuni dicono sia più corretto SAI SE VIENE.

RISPOSTA:

​Sono entrambe costruzioni corrette. Quella con il congiuntivo è decisamente formale, quindi adatta a contesti scritti e molto seri. In un contesto di comunicazione familiare o con amici, al contrario, può sembrare eccessivamente elaborata. Per maggiori informazioni sulla scelta del modo nelle proposizioni completive (come la interrogativa indiretta, qui rappresentata da se venga / se viene), può consultare questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo in una traduzione di Conan Doyle:
“Mi era intollerabile la prospettiva di tenere per me il segreto fino a quando non potessi parlarne con lei”.
Se scrivessimo “avessi potuto parlarne con lei” o “avrei potuto parlarne con lei”, al di là delle differenze semantiche, si commetterebbe un errore?

RISPOSTA:

Sono tutte alternative possibili, con, come rilevato da lei, differenze semantiche._x000D_n”Fino a quando non avrei potuto parlarne con lei” è la normale costruzione del futuro nel passato, che richiede il condizionale passato. Con questa costruzione l’evento delparlarne con lei è semplicemente presentato come futuro rispetto alla situazione configurata dalla proposizione reggente (tenere il segreto ), che è, a sua volta, passata rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero il qui e ora dell’emittente._x000D_n”Fino a quando nonpotessi parlarne con lei” trascura la relazione temporale con il verbo reggente (comunque facilmente decodificabile grazie al significato della congiunzionefino a quando )e accentua, invece, il carattere ipotetico della proposizione temporale: la frase, così, si avvicina a “(Forse non avrei tenuto il segreto) senonpotessi parlarne con lei”. Grazie all’imperfetto congiuntivo, la prospettiva delparlarne con lei è presentata come possibile, quindi l’emittente sa, o è convinto, che si realizzerà (ma non sa quando).La variante con il trapassato (“Fino a quando nonavessi potuto parlarne con lei”) sposta l’ipotesi dal piano della possibilità a quello dell’irrealtà: l’emittente, quindi, non sa se, né quando, l’evento si realizzerà._x000D_nFabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Si dice “Ho visto in televisione” oppure “Ho visto alla televisione”?

RISPOSTA:

Alla televisione rimanda alla funzione precipua della preposizione a riferita a luoghi. Rispetto a in, che è pertinente allo spazio, a riguarda gli ambienti, cioè le attività, le procedure, le abitudini, le funzioni svolte tipicamente in determinati spazi. Per questo motivo, di ritorno da un viaggio diciamo “Sono a casa”, intendendo il nostro ambiente privato opposto al mondo esterno, non “Sono in casa”, ovvero nello spazio delimitato dai muri dell’abitazione. Per lo stesso motivo, se sentiamo che qualcuno si trova all’ospedale pensiamo che sia senz’altro malato, perché è ricorso alle procedure mediche tipiche di quell’ambiente, mentre se si trova in ospedale potrebbe essere malato, oppure essere in visita a un parente, o essere un dottore.
Alla televisione, quindi, significa ‘nell’ambiente dei programmi televisivi’, con riferimento alla trasmissione delle immagini, opposta alla testimonianza diretta. L’espressione in televisione si è imposta oggi nell’uso probabilmente per via della confusione tra televisione e televisore ‘elettrodomestico utile a mostrare le immagini trasmesse per mezzo della televisione’. In televisione, cioè, significa quasi ‘all’interno del televisore’, come in vetrinain stanzain ospedale ed è, pertanto, meno preciso. La larghissima diffusione di in televisione, comunque, rende questa espressione pienamente legittima in quasi tutti i contesti, sebbene sia sempre possibile preferire alla televisione, in ossequio alla precisione semantica.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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QUESITO:

Vi chiederei di argomentare la sintassi di certe costruzioni negative, per stabilire se e quando la negazione  possa essere sostituita o dalla congiunzione e o dalla semplice virgola. Nella fattispecie, le frasi sotto indicate sono tutte valide?

1. Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e coloranti.
2. Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti né coloranti.
3. Senza olio di palma né grassi idrogenati né conservanti né coloranti.

4. Uscì di casa senza cappello e guanti.
5. Uscì di casa senza cappello né guanti.
6. Uscì di casa senza né cappello né guanti.

7. Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e coloranti.
8. Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti né coloranti.
9. Il prodotto non contiene né olio di palma né grassi idrogenati né conservanti né coloranti.

E per concludere, la negazione  deve essere preceduta dalla virgola o essa è consigliabile solo in avvio di una proposizione particolarmente complessa (ad esempio: “La donna non parlò, né avrebbe voluto farlo nelle ore successive”)?

RISPOSTA:

​La congiunzione  può essere scomposta in due componenti, e + NEG (‘negazione’). Se ricordiamo tale composizione risulta più facile stabilire quale delle varianti da lei proposta sia ben formata e quale sia ridondante o difettosa. In particolare, la 1., la 4. e la 7. vanno bene, perché la negazione contenuta in senza ed esplicitata nella 7. si applica a tutti gli elementi degli elenchi che seguono, rendendo superfluo ribadirla. La 1. e la 7. andrebbero bene anche sostituendo la e con una ulteriore virgola.
La ripetizione della negazione, comunque, non può essere considerata un errore, vista la tolleranza dell’italiano per la doppia negazione; per questo motivo le frasi 3. e 5. vanno ugualmente bene. Qualche precisazione meritano le altre.
Nella 2. la negazione ripetuta solamente per l’ultimo elemento dell’elenco crea una asimmetria che lo fa emergere sugli altri (ciò è molto meno percettibile, ovviamente, se l’elenco è bimembre, come nella frase 5.). In questa frase tale focalizzazione dell’attenzione sull’ultimo elemento non sembra giustificata, alla luce della natura degli elementi dell’elenco, ma l’emittente potrebbe avere qualche motivo per mettere in evidenza coloranti sul resto degli ingredienti. In ogni caso, più efficace a questo scopo sarebbe una congiunzione più pregnante: “Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e neppure / e neanche coloranti”, oppure la ripetizione di senza, preferibilmente accompagnata dalla virgola: “Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti, e senza coloranti”.
La stessa riflessione vale per la frase 8., che può essere parafrasata, nella sua composizione attuale, così: “Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e non contiene coloranti”.
La costruzione della 6. (senza né) e della 9. (non + ) è in astratto ridondante, eppure molto comune, quindi generalmente accettabile, tanto nel parlato e nello scritto poco sorvegliato, quanto in letteratura, al fine di mantenere gli elementi di un elenco sullo stesso piano. Un esempio di questo uso è in questo brano dallo Zibaldone di Leopardi: “Ma il giovane senza presente né futuro, cioè senza né beni, attività, piaceri, vita ec.  speranze e prospettiva dell’avvenire, dev’essere infelicissimo e disperato”; un altro è in questo estratto, più recente, dal romanzo Suo marito di Pirandello: “apparve subito chiaro agli occhi di Silvia che cosa egli avesse compreso senza né sdegno  offesa”.
Per quanto riguarda i segni di interpunzione, essi dipendono dall’omogeneità dei membri coordinati. All’interno di elenchi di elementi analoghi, la virgola prima di  non è formalmente richiesta (visto che  “contiene” la congiunzione e), ma è bene inserirla, visto che convenzionalmente gli elenchi sono separati dalle virgole: “Non voglio andare (né) in macchina, né in treno, né in aereo”. Lo stesso vale per elenchi di proposizioni: “Non voglio andare in macchina, né voglio andare in treno, né voglio andare in aereo”. Negli elenchi bimembri si fa più facilmente a meno della virgola, che, però, si può sempre usare: “Non voglio andare (né) in macchina né in treno”; “Non voglio andare in macchina né voglio andare in treno”.
Quando non ci si trova in una sintassi elencativa, ma gli elementi hanno una relazione più complessa tra loro, la presenza della virgola mette in evidenza una separazione tematica. Per fare una riflessione del genere, abbandoniamo l’analisi della frase e prendiamo quella dell’enunciato, cioè osserviamo lo scopo comunicativo della frase. In questo ambito possiamo riconoscere le relazioni semantiche tra gli enunciati e, al loro interno, la presenza di unità tematiche di primo piano e unità tematiche di sfondo. In un enunciato come “Ti ho detto che non voglio andare, né è il caso che lo ripeta”, il segmento introdotto da  non rappresenta il secondo elemento di un elenco, ma è una precisazione rispetto al primo segmento; funge, cioè, da unità tematica di sfondo (mentre “Ti ho detto che non voglio andare” è l’unità tematica di primo piano). In questi casi, la virgola è necessaria. Se, per fare un esperimento, la togliessimo (“Ti ho detto che non voglio andare né è il caso che lo ripeta”) il lettore sarebbe portato a interpretare la seconda parte dell’enunciato come dipendente da ho detto, ma costruita male; come se fosse “Ti ho detto che non voglio andare e che non è il caso che lo ripeta”.
Ancora, nel caso in cui  unisca non due unità tematiche, ma due enunciati, deve essere preceduto non dalla virgola, ma da un punto e virgola, o un punto: “Ti ho detto che non voglio andare; né voglio che insisti a portarmi”; “Ti ho detto che non voglio andare. Né mi piace che continui a insistere”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È possibile che nella frase “Nevicavano piume d’oca” il soggetto sia piume

RISPOSTA:

il soggetto è senz’altro piume, come dimostra la concordanza con il verbo alla terza persona plurale. I verbi atmosferici sono per loro natura impersonali, ma un uso personale è ben presente nella storia della lingua italiana. Per piovere, tale uso è diffuso anche nella lingua comune, fin dal Trecento (un esempio moderno popolare è il titolo del film di animazione Piovono polpette, del 2009). Per nevicare gli esempi sono scarsi, più recenti, e propri della lingua letteraria, come il seguente: “Qual de’ sogni tuoi le porti, / che ti nevicano dal cuore?” (Gabriele D’Annunzio,Forse che sì, forse che no, 1910).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei entrare nel merito dei modi verbali che si possono – o si devono – impiegare nelle subordinate completive, in particolare nelle oggettive. 
Se non sbaglio, in più occasioni avete sottolineato che in un registro formale si possa sempre usare il congiuntivo, benché l’indicativo risulti spesso la scelta più comune e largamente tollerata. Prima di apprendere tali indicazioni, tendevo a suddividere i possibili costrutti di tipo completivo in due categorie: quelli governati da verbi che richiedono l’indicativo e quelli governati invece da verbi che indulgono al congiuntivo. In altre parole, la distinzione che determinavo non seguiva l’asse formalità (congiuntivo) / “colloquialità” (indicativo). 
Pensavo, ad esempio, che la frase “Ho capito che cosa vuoi veramente” fosse preferibile (ma anche più ligia alla grammatica) a “ho capito che cosa tu voglia veramente”, come “affermo che avete regione” anziché “affermo che abbiate ragione” ecc. 
Per concludere, vi sarei riconoscente se mi chiariste questi dubbi: 
1. Con la completive oggettive si può sempre usare il congiuntivo, anche se il costrutto affermativo è retto da verbi dichiarativi o di giudizio o percezione, quali, tra gli altri, constataredirericordarerisponderescriveresostenerevedere ecc.?
2. Se, in determinate soggettive e oggettive, si usasse l’indicativo (ad esempio “È evidente che ha sbagliato”, “Sostengo che ha smesso di lavorare”, “Dico che i colleghi non sono in grado”, “Ha dimostrato che i ragazzi erano scappati” ecc.) si svilupperebbe comunque un registro sintattico medio-alto, adatto anche a contesti sorvegliati? (Mi vengono in mente i tanti “Sostiene Pereira che…” seguiti dall’indicativo che ho sempre ritenuto essere un esempio da manuale).

RISPOSTA:

Confermo che il congiuntivo sia la scelta più formale per le proposizioni completive, sebbene l’indicativo sia più comune, e in certi casi adatto a quasi tutti i contesti. Da rivedere, pertanto, l’idea che sia proprio il congiuntivo la variante meno “ligia alla grammatica”, ovvero meno aderente all’italiano standard.
I casi più favorevoli alla scelta dell’indicativo sono quelli in cui il verbo della proposizione reggente contenga nel suo significato il tratto della certezza (come sapereaffermareconstatare, i verbi di percezione in genere) e la reggente stessa sia affermativa e al presente. Questo avviene perché il modo indicativo veicola una sfumatura di fattività, mentre il congiuntivo è il modo della volizione e dell’eventualità. La semantica, pertanto, si intreccia con il registro e rende accettabili scelte diverse, a seconda di quale ragione l’emittente vuole far prevalere. Ci sono addirittura alcuni casi divenuti quasi canonici, con verbi reggenti dalla semantica ambigua, nei quali la maggioranza dei parlanti concorderebbe per una interpretazione semantica della scelta tra indicativo e congiuntivo: “Credo / penso che tu sei una brava persona” (= ‘ne sono sicuro’) contro “Credo / penso che tu sia una brava persona” (= ‘lo penso anche se non ne ho le prove’). Coerentemente con questa interpretazione semantica, il congiuntivo diventa preferibile al passato: “Credevo / pensavo che tu fossi (molto più sciatto eri) una brava persona”, per la controfattualità che emerge da una simile costruzione, o, per la stessa ragione, se la reggente diviene negativa, anche al presente: “Non credo / penso che tu sia (molto più sciatto sei) una brava persona”. A prescindere dalla convinzione generale, comunque, la ragione diafasica (il grado di formalità) è sempre presente e il congiuntivo rimane la scelta più formale anche con il verbo reggente costruito affermativamente e al presente.
Con verbi reggenti assertivi e di percezione, come detto, il congiuntivo è decisamente marcato verso l’alto, soprattutto quando questi verbi sono costruiti affermativamente al presente: “So / vedo che tu sei (molto formale sia) una brava persona”. Tale preferenza per l’indicativo è più sfumata al passato: “Sapevo / vedevo che tu eri (molto formale fossi) una brava persona”, ma si perde quasi del tutto con la costruzione negativa al passato: “Non sapevo / vedevo che tu fossi (o eri) una brava persona”. Per la costruzione negativa al presente dobbiamo cambiare verbi reggenti (spiegherò il motivo subito sotto) e, come si vede, il congiuntivo è anche qui preferibile o almeno sullo stesso piano dell’indicativo: “Non affermo / sento che tu sia (o sei) una brava persona”.
Con sapere e vedere costruiti negativamente al presente la subordinata oggettiva è innaturale (*”Non so che tu sia / sei una brava persona”). Possiamo, però, trasformarla in una interrogativa indiretta; osserviamo che, così, il congiuntivo diviene un’alternativa ancora più vicina alla medietà: “Non so / vedo se tu sia (o sei) una brava persona”.
In moltissimi casi, comunque, l’indicativo è una scelta talmente diffusa tra i parlanti che deve essere considerata adatta a molti contesti, anche di media formalità. Tra questi rientrano certamente i romanzi rivolti al grande pubblico, come il giustamente famoso Sostiene Pereira da lei citato, che aspirano a un modello di lingua comune. Anche in questo romanzo, non a caso, ci sono casi di congiuntivo in completive rette da verbi al passato; in questo brano, ad esempio, si susseguono una soggettiva e una oggettiva: “gli pareva strano, sostiene, che una persona che aveva formato riflessioni così profonde sulla morte non pensasse all’anima. E dunque pensò che ci fosse un equivoco”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “quando le ha telefonato era allegro”, allegro può riferirsi sia alla persona che telefona, sia a quella a cui si telefona?

RISPOSTA:

Nella sua frase il pronome le, femminile, impedisce la concordanza con l’aggettivo maschile allegro. Se sostituiamo il pronome con un nome questa impossibilità risulta ancora più chiara: “Quando ha telefonato a Maria era allegro”. Evidentemente, non può essere Maria a essere allegro.
Se il pronome avesse come referente una seconda persona a cui si dà del lei, l’ambiguità dovrebbe essere comunque esclusa; se dicessimo, infatti, “Signor Rossi, quando le ha telefonato era allegro” potremmo intendere solamente che a essere allegro era l’autore della telefonata, perché l’ellissi del soggetto è ammessa solamente quando il soggetto è immediatamente adiacente o identificabile senza alcuno sforzo. Se volessimo dire che a essere allegro era il signor Rossi dovremmo riformulare la frase, ad esempio così: “Signor Rossi, quando le ha telefonato lei era allegro”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Esempio, se dico: “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché vengano vestiti da clown”, cosa si intende in italiano? Chi ha l’obbligo di venire vestito da clown?

 

RISPOSTA:

​Si tratta di un caso di ambiguità, dovuto all’ellissi del soggetto della subordinata concessiva (“purché vengano”). Questa ambiguità non è risolvibile linguisticamente; il ricevente, cioè, non può ricavare (tecnicamente inferire) informazioni sufficienti a decodificare il senso della frase dalla forma linguistica della stessa. Il contesto può aiutare, ad esempio la condivisione di informazioni scambiate precedentemente tra l’emittente e il ricevente, o qualche altra fonte di informazioni circostanziale. Se il contesto non è sufficiente a completare il senso della frase, è probabile che il ricevente chieda all’emittente di spiegarsi meglio, oppure che rimanga con il dubbio.
Per evitare l’ambiguità è sufficiente esplicitare il soggetto di vengano; ad esempio: “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché tutti vengano vestiti da clown”, oppure “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché i gemelli vengano vestiti da clown”, o anche “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché gli uomini vengano vestiti da clown” ecc.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi piacerebbe porre alla vostra attenzione tre costruzioni, le prime due ricavate da testi musicali e l’ultima da un noto romanzo del Novecento. Vorrei mettere sotto la lente non già il modo congiuntivo, che reputo adeguato, ma i tempi che gli autori hanno scelto.

1) Un errore sarebbe volere che tu sia oro anche per me.
2) Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigliasse un po’ più al mio.
3) Mi gettai sulla spiaggia e immersi la faccia nel tritume fradicio e credo che svenissi perché rimasi immobile, quasi senza sentimento, un tempo che mi parve lunghissimo.

In riferimento al brano letterario – oltre alla domanda sull’adeguatezza del tempo imperfetto – vi chiedo – muovendo da alcuni dei vostri articoli FAQ pubblicati – se la forma esplicita della frase (“credo che svenissi”) non avrebbe dovuto essere sostituita da quella implicita (“credo di essere svenuto”).

 

RISPOSTA:

​Nella frase 1) troviamo un congiuntivo presente in dipendenza dall’infinito presente di un verbo di volontà, a sua volta dipendente da un condizionale presente. Questa situazione fa entrare in conflitto due costrutti, quello richiesto normalmente dalla consecutio temporum per la contemporaneità nel presente, e quello preferito dai verbi di volontà, desiderio, opportunità.
Il primo prevede nella oggettiva (anche in dipendenza da un condizionale presente) un presente, congiuntivo o indicativo: “Penserei che sia un pazzo se facesse davvero quello che temi”; “Se me lo chiedessi, ti risponderei che è un pazzo a volersi licenziare”. Il secondo prevede il congiuntivo imperfetto: “Vorrei che tu fossi più riflessivo quando prendi certe decisioni”. A rafforzare l’attrazione verso il congiuntivo imperfetto è anche il modello del periodo ipotetico del secondo tipo a cui si può conformare la frase: “Un errore sarebbe volere che tu sia oro anche per me” = “Un errore sarebbe se tu fossi oro anche per me”. Si noti, però, che se manteniamo i due gradi di subordinazione il presente torna a essere valido quanto l’imperfetto: “Un errore sarebbe se io volessi che tu sia / fossi oro anche per me”. Si torna, cioè, alla situazione iniziale, in cui il presente congiuntivo dell’oggettiva indica la contemporaneità nel presente, ma l’imperfetto è preferito dalla reggenza del verbo volere.
In conclusione, nella frase 1) presente e imperfetto sono ugualmente, per ragioni diverse, legittimi.
Nella frase 2) il congiuntivo si trova all’interno di una proposizione relativa, non di una oggettiva. La proposizione relativa è piuttosto libera da condizionamenti di tempo e modo verbale, infatti qui è accettabile il congiuntivo presente (“Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigli un po’ più al mio”) e anche l’indicativo presente (“Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somiglia un po’ più al mio”). In generale, quando è costruita con il congiuntivo, la relativa assume una sfumatura semantica di desiderio o auspicio; quindi “il cui nome somiglia” è una constatazione oggettiva, “il cui nome somigli / somigliasse” è un auspicio. Osservando l’alternanza dei modi da un altro punto di vista, si può dire che con l’indicativo la relativa è propria, quindi funge da ampliamento attributivo dell’antecedente (una metropoli), con il congiuntivo è impropria, e si avvicina a una finale-consecutiva: “Si potrebbe costruire una metropoli tale che / affinché il suo nome somigli un po’ più al mio”.
Il congiuntivo imperfetto, rispetto al presente, è attratto dalla semantica del costrutto reggente, si potrebbe, assimilabile a sarebbe bellosarebbe opportuno, ovvero a un’espressione che indica opportunità. Siamo, quindi, in una situazione analoga a quella della frase 1). Potremmo addirittura individuare una sfumatura di differenza semantica tra “Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigliasse un po’ più al mio”, in cui è più percepibile il desiderio che ciò avvenga, e “Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigli un po’ più al mio”, in cui la possibilità è vista dall’emittente con maggiore distacco, sebbene pur sempre come auspicabile.
Nella scelta tra somiglia e somigli, va detto, incide anche il grado di formalità del contesto: al netto delle sfumature semantiche, quando l’alternanza tra indicativo e congiuntivo è possibile, quest’ultimo risulta la scelta più formale. A meno che non si voglia sottolineare la sfumatura oggettiva, quindi, somigli è preferibile a somiglia.
Nella frase 3) l’imperfetto congiuntivo svenissi nell’oggettiva dipendente da un presente (credo) è perfettamente in linea con la consecutio temporum. Ovviamente, l’imperfetto è adatto a indicare azioni non momentanee, mentre il passato esprime azioni concluse (“credo che io sia svenuto”). Con questo tempo, quindi, lo scrittore ha inteso esprimere lo svolgimento dell’azione dello svenire, che poi, peraltro, non si è realizzata, quindi non si è conclusa. Oggi sarebbe più comune un costrutto progressivo: “Credo che stessi svenendo”, o anche “Credo che stessi per svenire”, nel quale, si noti, il verbo essere è comunque all’imperfetto congiuntivo.
Per quanto riguarda la forma esplicita della oggettiva con lo stesso soggetto della reggente, essa è giustificata dalla necessità di sottolineare l’aspetto durativo dell’azione; l’infinito passato renderebbe l’azione conclusa: “Credo di essere svenuto”.
Una questione collegata alla scelta dell’imperfetto è la scelta di ribadire il soggetto pronominale oppure lasciarlo sottinteso (“Credo che svenissi” o “Credo che io svenissi”), visto che svenissi vale tanto per la prima quanto per la seconda persona singolare. Normalmente il co-testo permette di capire se a compiere l’azione sia io o tu; ma se così non fosse, sarebbe bene esplicitare il soggetto. Questo, inoltre, può essere inserito per veicolare un valore contrastivo: “Credo che io (e non qualcun altro) svenissi”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se, nei casi sotto elencati, la virgola è necessaria, come da esempi, facoltativa o da evitare:
a. Ho parlato per ore, dimenticandomi dell’impegno che avevo fissato.
b. Nel resto della giornata, ho concluso ben poco.
c. Ti ho cercato dappertutto, per informarti dell’accaduto.
d. Continuo ad ascoltarti, nonostante tu stia uscendo dal seminato.
e. Sei stato punito, perché avevi commesso una cattiva azione.
f. Domani mattina, mi recherò in banca.
g. Le regalai una rosa, i cui petali erano gialli.
h. A Schelling, Hegel contesta la staticità del pensiero.

 

RISPOSTA:

In nessuno dei casi elencati la virgola è indispensabile, talora è consigliabile, talaltra sconsigliabile, in un caso è sbagliata. Nello specifico:
A. Meglio la virgola, dal momento che la subordinata gerundiva successiva introduce un’informazione che appartiene a un piano diverso, rispetto alla semplice descrizione dell’evento («ho parlato per ore»). È come se aggiungesse le conseguenze dell’evento e funge dunque, in un certo senso, da coordinata dal valore esplicativo. Si potrebbe, infatti, parafrasare come segue, in forma esplicita: «Ho parlato per ore, e, così facendo, ho dimenticato l’impegno» ecc. Ogniqualvolta la subordinata si colloca su un piano diverso, quasi accessorio, rispetto alla reggente, la virgola, ancorché non obbligatoria, è altamente consigliabile, per una più agevole ripartizione dei piani gerarchici dell’informazione, cioè per distinguere meglio le informazioni di primo piano («Ho parlato per ore») da quelle sullo sfondo.
B. In questo caso il complemento di tempo fa da quadro di riferimento dell’azione che segue: in casi come questo la virgola è superflua, a meno che il quadro riferimento temporale non sia particolarmente complesso e articolato, come per esempio in: «Dopo aver camminato per ore ed essermi anche slogato una caviglia, ho deciso che fosse giunto il momento di fermarmi». Oppure se non si voglia sottolineare il tempo, proprio in contrasto ad un altro tempo: «Di mattina, lavoro; la sera, mi diverto» (ma anche in questo caso la virgola sarebbe facoltativa, non certa obbligatoria).
C. Qui la virgola è superflua, perché la reggente e la finale sono unite da un forte vincolo logico-semantico: Il campo d’azione della reggente («Ti ho cercato dappertutto») è proprio finalizzato a quanto segue, cioè «per informarti» ecc. A meno che lo scrivente non voglia conferire particolare evidenza, e un certo margine di autonomia, a entrambe le azioni, quasi riproducendo le inflessioni tonali del parlato, in cui la principale potrebbe essere focalizzata, vale a dire con un particolare rilievo informativo e tonale; insomma, un po’ come se dicessi (o scrivessi): «Ti ho cercato dappertutto» (e con una certa apprensione, o sfinitezza, sottolineando DAPPERTUTTO e il fatto che per un sacco di tempo non riuscivo a trovarti), «proprio perché desideravo informarti dell’accaduto».
D. Vale quanto detto per C: la concessiva è strettamente legata alla reggente, e dunque la virgola è superflua, a meno che non vi sia un contesto particolare che richieda la focalizzazione di «Continuo ad ascoltarti». La virgola, in questo caso, sottolinea tanto la mia pazienza quanto la tua incoerenza.
E. Come sopra: la causale è fortemente solidale con la reggente, che ne rappresenta l’effetto, dunque la virgola è superflua, a meno che non si voglia focalizzare la punizione.
F. Come B, a meno che non si voglia focalizzare il complemento di tempo, per esempio in contrasto con un altro momento della giornata (focalizzazione contrastiva): «Domattina, mi recherò in banca, e non oggi pomeriggio».
G. Qui la virgola è sbagliata, perché la relativa è limitativa: cioè non le ho regalato una rosa qualsiasi, ma una gialla, e dunque quel che segue la reggente non è un’informazione accessoria, bensì costitutiva per la designazione dell’oggetto di cui si sta parlando (cioè l’antecedente del pronome relativo: «una rosa»). Diverso sarebbe il caso di «Le regalai una rosa, che è il suo fiore preferito»: in questo caso la relativa è appositiva, o esplicativa, cioè non delimita una rosa particolare, perché tutte le rose sono, o meglio la rosa in genere è, il suo fiore preferito; in quanto tale, questo tipo di relativa non è necessaria ai fini dell’identificazione dell’antecedente, ma aggiunge una caratteristica accessoria, e come tale è di norma (con qualche eccezione) separata dall’antecedente con una virgola.
H. La virgola è facoltativa, soprattutto se si vuole disambiguare il nome, fugando il dubbio che si tratti di un certo signor Schelling (di nome) e Hegel (di cognome). Naturalmente in questo caso l’equivoco è altamente improbabile, ma un caso come: «A Gianni Rossi diede ragione» potrebbe lasciare il lettore spiazzato per qualche secondo, senza virgola tra Gianni e Rossi.
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“L’artista non si aspettava che la mostra avesse un grande successo e rimase stupito nel vedere i visitatori”.
Qual è la corretta analisi logica e del periodo della seguente frase?

 

RISPOSTA:

L’analisi logica delle proposizioni contenute in questo periodo è molto semplice, tranne che per il sintagma avesse un grande successo, che merita un discorso a parte.
L’artista: soggetto.
Non si aspettava: predicato verbale.
La mostra: soggetto.
Avesse: predicato verbale.
Un grande successo: complemento oggetto con attributo.
Rimase: predicato verbale (verbo copulativo).
Stupito: complemento predicativo del soggetto.
Vedere: predicato verbale.
I visitatori: complemento oggetto.
In avesse un grande successo, a ben vedere, il verbo avere è un verbo supporto; serve, cioè, a comporre un unico significato insieme al sintagma nominale che lo accompagna. Analizzarlo separatamente da quest’ultimo, pertanto, è una forzatura. Alcuni costrutti a verbo supporto hanno un verbo equivalente, come, ad esempio, fare il proprio ingresso, che equivale a ‘entrare’, o dare ascolto, ovvero ‘ascoltare’. Altri non sono “traducibili” con un unico verbo, come avere pauraavere successofarsi la doccia e tanti altri. Un modo meno superficiale per analizzare avesse un grande successo è, quindi: costrutto / espressione a verbo supporto con attributo.
Analisi del periodo:
L’artista non si aspettava: proposizione principale.
Che la mostra avesse un grande successo: proposizione subordinata di primo grado oggettiva esplicita.
E rimase stupito: proposizione coordinata alla principale.
Nel vedere i visitatori: proposizione subordinata (alla coordinata alla principale) di primo grado implicita. Il valore di questa proposizione è a metà tra causale (‘perché vide i visitatori’) e temporale (‘quando vide i visitatori’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se scrivessi “Vengo con un obiettivo preciso”, si potrebbe considerare con un obiettivo, secondo la classificazione classica, un complemento di unione?

 

RISPOSTA:

​Il complemento di unione indica un oggetto insieme al quale una persona svolge un’attività. Logicamente, è del tutto assimilabile al complemento di compagnia, dal quale si distingue solamente perché, diversamente da quest’ultimo, che si riferisce a persone, si riferisce a oggetti inanimati. Ad esempio, in “Gioco con un amico” con un amico è un complemento di compagnia; in “Cammino con l’ombrello” con l’ombrello è un complemento di unione.
Ciò detto, con un obiettivo può essere considerato un complemento di unione solo se immaginiamo il soggetto impegnato nell’azione del venire insieme all’obiettivo preciso. Questa ricostruzione mi sembra tradire il vero senso della frase, che indica, piuttosto il fine con cui il soggetto compie l’azione del venire. La frase, insomma, si può parafrasare così: ‘Vengo per realizzare un obiettivo preciso’; con un obiettivo, pertanto, è un complemento di fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Mi piacerebbe sviluppare con il vostro contributo l’uso della punteggiatura in occasione dei discorsi diretti. Ho evidenziato differenze formali tra i testi analizzati, presumibilmente legate sia alle scelte dello scrivente sia alle indicazioni editoriali.
Cerco di entrare nel merito con qualche esemplificazione.

1. «Vado,» disse, «a comprare il pane.»
2. «Usciamo insieme», disse «così possiamo passeggiare al sole.»
3. «Prima di parlare» disse. «Rifletti sugli effetti che potresti produrre.»
4. «Sì, certo, » rispose l’uomo, «appena posso. »
5. «E come è possibile? » domandò, «ognuno ha quel che si merita. »
6. «Questo non me lo chiedere» disse. «Non c’entro niente in questa storia.»

Ho notato che il format più diffuso, specie in pubblicazioni di buon livello, è quello rappresentato dagli esempi 3 e 6; mentre gli altri esempi, con le virgolette caporali spesso sostituite dai trattini, sono frequenti in editori minori. Considerazioni personali a parte, mi (e vi) domando se, per un buon uso dei segni di punteggiatura, dentro e fuori le virgolette, si possa attingere a regole grammaticali, prescindendo da linee guida editoriali e simili. 

 

RISPOSTA:

​Come da lei giustamente notato, la punteggiatura che segnala il discorso diretto è soggetta a forti variazioni, dovute alle diverse tradizioni editoriali, quasi tutte, in linea di principio, valide, ma anche alla difficoltà a stabilire la relazione sintattica tra le virgolette e gli altri segni di interpunzione.
Limitandoci agli esempi da lei portati (che, comunque, non sono gli unici possibili), alcune considerazioni possono aiutarci a valutarne almeno la coerenza interna e il rispetto delle norme generali dell’interpunzione. In tutti gli esempi, l’espressione fuori dalle virgolette, che prende forme diverse, è identificabile come un inciso; questo, di norma, va inserito tra virgole, trattini lunghi, parentesi, oppure, solo in casi particolari, tra punti e virgola o punti fermi. Questo mi induce a considerare l’esempio 2. poco accurato, perché manca la virgola di chiusura dopo disse. Più comprensibile, ma pur sempre non ideale, la scelta di 5., che evita la virgola dopo il punto interrogativo e attribuisce, pertanto, a quest’ultimo anche la funzione di segnalare l’inizio dell’inciso.
L’esempio 3. mi risulta incomprensibile: l’inciso non introdotto dal alcun segno e concluso con un punto fermo è decisamente insolito. L’unica giustificazione per questa scelta si può trovare in un’eventuale sfumatura semantica ricercata dallo scrivente con questo uso (ma bisognerebbe valutare un brano più ampio). Diverso è il caso di 6., nel quale il punto dopo disse induce il lettore a immaginare uno stacco netto, intonativo e logico, tra il primo e il secondo intervento tra virgolette. Il fatto che i due interventi siano sintatticamente autonomi consente questa interpretazione, impedita, nell’esempio 3., dalla relazione di subordinazione tra il primo e il secondo intervento.
Inutili e da eliminare, infine, sono gli spazi tra i segni interni e le virgolette di chiusura in 4. e 5.
Difficile stabilire se sia meglio inserire i segni come le virgole dentro o fuori dalle virgolette: personalmente ritengo che solamente le marche dell’intonazione, ovvero punti esclamativi, punti interrogativi e puntini di sospensione (oltre, ovviamente, ai trattini che riguardano il discorso contenuto all’interno delle virgolette) andrebbero inseriti dentro le virgolette, mentre tutti gli altri segni andrebbero posti fuori. In questo modo si risolve il dilemma del doppio segno di 5., che diventerebbe così:

«E come è possibile?», domandò, «ognuno ha quel che si merita», o anche: «E come è possibile?», domandò, «Ognuno ha quel che si merita».

È, quest’ultima, la soluzione per cui parteggio. Se, invece, accettiamo l’inserimento di tutti i segni dentro le virgolette, la soluzione 1. appare internamente coerente ed efficace.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono corrette/accettabili le seguenti frasi: 
“Penso che per fare presto prenderò il treno, se mi vedi/vedrai per le cinque vorrà dire che avevo preso il diretto delle due”
“Penso di esserci, se non mi vedrai vorrà dire che avevo un impegno”?

 

RISPOSTA:

Il trapassato prossimo serve a indicare un evento passato rispetto a un altro, anch’esso passato. Se l’evento di riferimento è, invece, futuro (nella sua frase questo è rappresentato dall’incontro tra il parlante e il ricevente alle cinque), il trapassato non va bene; in questo caso l’anteriorità dell’evento può essere espressa con il futuro anteriore (visto che, presumibilmente, anche l’evento è futuro rispetto al momento in cui viene prodotto l’enunciato): “Penso che per fare presto prenderò il treno, se mi vedi/vedrai per le cinque vorrà dire che avrò preso il diretto delle due”. Valido è anche l’uso del passato prossimo: “Penso che per fare presto prenderò il treno, se mi vedi/vedrai per le cinque vorrà dire che ho preso il diretto delle due”, che esprime l’anteriorità rispetto all’evento di riferimento (l’incontro alle cinque) e lascia implicita la posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione. Ovviamente, se l’evento non è momentaneo, ma è continuato, il tempo giusto da usare è l’imperfetto: “Penso di esserci, se non mi vedrai vorrà dire che avevo un impegno”.
La invito a consultare l’archivio di DICO usando la chiave di ricerca consecutio temporum: troverà diverse domande simili alla sua e le rispettive risposte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se è vero che le forme dei pronomi possessivi corrispondono a quelle degli aggettivi e sono SEMPRE precedute da articolo, nella frase “Queste penne sono mie” qual è l’analisi grammaticale di mie?

RISPOSTA:

​Nella sua frase mie è un aggettivo con funzione predicativa (completa, insieme alla copula, il predicato nominale). Per coglierne più chiaramente la natura di aggettivo, e la differenza con il pronome corrispondente, si possono fare le seguenti sostituzioni:
a. “Queste penne sono mie” = “Queste penne sono di mia proprietà” = “Queste penne mi appartengono”;
b. “Queste penne sono le mie” = “Queste penne sono quelle di mia proprietà” = “Queste penne sono quelle che mi appartengono”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Che valore ha la negazione non nella seguente frase: “Ho più freddo quando piove che non quando nevica”? È diverso da quello che la stessa negazione assume in questa frase: “Ho più freddo quando piove di quando non nevica”?

 

RISPOSTA:

​Cambiando la posizione del non la sua funzione cambia e, con essa, cambia il significato della frase. Nella frase “Ho più freddo quando piove di quando non nevica” l’avverbio è inserito all’interno della proposizione temporale, quindi si unisce al verbo rendendolo negativo. L’anticipazione rispetto alla congiunzione quando produce due effetti: obbliga a modificare la congiunzione di in che (le due congiunzioni sono, invece, ugualmente valide senza non) e trasforma non da negazione vera e propria in negazione espletiva. Questo tipo di funzione di non riguarda alcune proposizioni subordinate (le comparative, le esclamative, quelle introdotte da chissà che, le temporali introdotte da finché e prima che, le eccettuative) ed è sempre facoltativa (sebbene in alcuni casi sia sconsigliata e in alcuni, al contrario, consigliata).
Tra le comparative, quella di uguaglianza esclude la negazione espletiva: “Amo il calcio tanto quanto non amo la pallavolo” significa che non amo affatto la pallavolo. Al contrario, la comparativa di disuguaglianza, soprattutto di maggioranza (come quella contenuta nella sua frase: “Ho più freddo quando piove che non quando nevica“), la accetta di buon grado. La negazione espletiva non rende la proposizione a cui si riferisce negativa, diversamente dalla negazione propria, che polarizza negativamente il verbo della proposizione. Al contrario, la proposizione che segue la negazione esplicativa è per forza positiva, in quanto questo tipo di negazione implica che ci sia una controparte negativa della proposizione positiva; così “Ho più freddo quando piove che non quando nevica” implica “Ho meno freddo / non ho freddo quando nevica”.
Quando il secondo termine di paragone possiede la qualità oggetto della comparazione in un grado minimo o nullo la negazione esplicativa è pienamente accettabile; al contrario, quando la qualità è posseduta in grado massimo la negazione è meno calzante. In altre parole, la sua frase (“Ho più freddo quando piove che non quando nevica”) suggerisce che quando nevica il soggetto abbia pochissimo o niente affatto freddo, mentre la variante “Ho più freddo quando piove che quando nevica” suggerisce che anche quando nevica il soggetto senta freddo (sebbene meno di quanto ne sente con la pioggia).
Sottolineo, a margine, che in una frase del genere la proposizione temporale “Quando nevica” si trova pur sempre all’interno del costrutto comparativo e viene considerata, pertanto, una proposizione comparativa. Questo vale anche per la temporale con la negazione propria in “Ho più freddo quando piove di quando non nevica“; un buon modo per definire questo tipo di proposizione può essere temporale comparativa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La concordanza al plurale maschile dell’aggettivo, in relazione a soggetti o complementi di genere e numero diversi, è applicabile a elementi collegati dalla negazione  o dalla congiunzione o?
“Nessuno dispone (né) di competenze né di tempo sufficienti per gestire l’attività”.
“Mi porteresti un quaderno o una penna gialli?”

 

RISPOSTA:

Certamente sì. Le congiunzioni coordinative si comportano, da questo punto di vista, tutte allo stesso modo: i sintagmi coordinati possono essere seguiti da un’attribuzione che li comprende. Lo stesso vale per la predicazione: “Né la pasta né il pane fanno ingrassare, se mangiati con moderazione”.

Ovviamente, è anche possibile qualificarli in modo distinto: “Preferiresti avere una casa spaziosa in campagna o un appartamento piccolo in città?”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Il presente quesito verte su rafforzativi ed eventuali usi pleonastici. Le frasi sotto riportate sono corrette o sarebbe opportuno apportare modifiche per migliorarle?
“Preferisci bere o, invece, mangiare?”
“Io domani studierò tutto il giorno, tu, per contro, guarderai la TV”.

 

RISPOSTA:

In queste frasi non si può parlare di pleonasmo: invece e per contro sono segnali discorsivi, che rafforzano il senso della coordinazione, nel primo caso realizzata con la congiunzione o, nel secondo realizzata con la virgola (ovvero per asindeto).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Credo che la frase “Penso che la vicenda non interessi a nessuno” sia corretta; vorrei sapere se lo sia anche quella che si ha volgendo in negativo la reggente e trasformando in affermativa la subordinata: “Non penso che la vicenda interessi a nessuno”. Ho sentito pronunciarla di recente da un personaggio pubblico; personalmente, avrei sostituito nessuno con qualcuno
Vorrei poi sapere, rimanendo sempre in tema di nessuno e simili, se una frase come “durante la mia assenza ti sei intrattenuto con qualcuna?” (sottintendendo qualche donna) possa essere considerata valida oppure sia meglio lasciare il pronome al maschile, come se fosse invariato.

 

RISPOSTA:

​L’italiano ammette la doppia negazione, del verbo e del pronome, sebbene a volte questa abitudine provochi qualche ambiguità. In alcuni casi, anzi, la doppia negazione è senz’altro richiesta; nella sua prima frase, ad esempio, la forma con la sola negazione del pronome (“Penso che la vicenda interessi a nessuno”) sarebbe innaturale, mentre quella con la negazione solamente del verbo (“Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”) sarebbe ben formata, ma molto formale.
Il fenomeno che lei ha notato nella frase “Non penso che la vicenda interessi a nessuno” è quello della “risalita” di un elemento dalla subordinata alla reggente. Di solito la risalita riguarda il pronome clitico in frasi con verbi servili (“Posso capirlo” ma anche “Lo posso capire”), con verbi modali (“Comincio a capirlo” ma anche “Lo comincio a capire”), con verbi di moto (“Vengo a prenderti con la macchina”, ma anche “Ti vengo a prendere con la macchina”). Sono tutti casi in cui sussiste una forte solidarietà tra la reggente e la subordinata, per cui le due proposizioni vengono trattate come una sola. Lo stesso avviene per la negazione. 
La risalita del pronome atono è ormai del tutto acclimata, tanto da non destare l’attenzione di quasi nessun parlante. Quella della negazione è altrettanto comune, e altrettanto accettabile, sebbene produca una frase leggermente diversa rispetto a quella intesa dal parlante: nel suo caso, ad esempio, il parlante sostiene di aver formulato un pensiero (penso che…) riguardo allo scarso interesse per la vicenda, non di non aver formulato un pensiero (non penso che) riguardo a quell’argomento.
La sua proposta di sostituire nessuno con qualcuno (“Non penso che la vicenda interessi a qualcuno”) non è calzante: produrrebbe, infatti, una frase dal significato diverso, equivalente a “Penso che la vicenda non interessi a qualcuno”. Il pronome qualcuno, cioè, suggerirebbe che secondo il parlante ci sia qualcun altro a cui la vicenda interessa. La variante con una sola negazione sarebbe, piuttosto, “Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”, o, al limite, “Non penso che la vicenda interessi ad alcuno”. 
Nella seconda frase, il pronome qualcuna riferito implicitamente a donna è corretto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In alcune delle vostre recenti risposte, avete parlato di costruzione implicita ed esplicita, elencando una serie di casi in cui la prima è obbligatoria. 
“Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo”, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela”, “Non so se io possa partire”, “Credo che mi sia sbagliato” sono da considerarsi sbagliate, anche se la specificazione del pronome, a parte l’ultimo esempio, fuga ogni dubbio riguardo alla persona cui si riferisce il verbo? 
Relativamente alla penultima frase, se sostituissimo il congiuntivo con il futuro indicativo, si migliorerebbe la qualità del linguaggio?
“Non si può escludere di dover prendere provvedimenti” o “Non si può escludere che dovremo prendere provvedimenti”?
“Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” è giusta o anche in questo caso sarebbe meglio la costruzione implicita?
“Non c’è motivo che io parli” o “non c’è motivo per/di parlare”?
“I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”.

 

RISPOSTA:

Riguardo alla sostituzione del congiuntivo con l’indicativo, valga la considerazione generale che quando la costruzione ammette tanto l’indicativo quanto il congiuntivo, il congiuntivo è sempre l’alternativa più formale.
Venendo al problema della costruzione implicita, la proposizione finale che ha lo stesso soggetto della reggente richiede la costruzione implicita, quindi *”Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo” deve essere corretta in “Ho scelto il vestito per poterlo indossare”. All’opposto, in “Non so se io possa partire” la proposizione subordinata è una interrogativa indiretta introdotta da se, che non ammette la costruzione implicita; la frase “Non so di poter partire”, infatti, non sarebbe equivalente a “Non so se io possa partire”, bensì a “Non so che io posso partire”, che ha un significato diverso.
Negli altri casi del primo gruppo, le proposizioni subordinate sono oggettive. Queste proposizioni, introdotte dalla congiunzione che nella forma esplicita, ammettono la costruzione implicita e, anzi, la preferiscono (sebbene non si possa parlare, in questo caso, di obbligo). Quindi a “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” va preferita “Ho dubitato spesso di potercela fare”; a “Credo che mi sia sbagliato” va preferita “Credo di essermi sbagliato”.
C’è, però, una considerazione da fare a proposito dell’opportunità di mantenere la costruzione esplicita anche con queste proposizioni: quando il parlante vuole enfatizzare l’identità del soggetto della subordinata, la costruzione esplicita diventa pienamente giustificata quasi sempre (questo vale persino per la proposizione finale). Pertanto, ferma restando la generale preferibilità della costruzione implicita, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” e “Credo che mi sia sbagliato” sono accettabili se l’intento del parlante è quello di enfatizzare il soggetto io.
Le frasi del secondo gruppo presentano qualche difficoltà in più: la prima ha una costruzione impersonale nella reggente (“Non si può escludere”), che favorisce la scelta della variante personale nella subordinata, nel caso in cui il parlante voglia evitare che tutta la proposizione sia impersonale.
La seconda ha, sempre nella reggente, una costruzione personale, ma deontica (cioè di obbligo: “Non dobbiamo dimenticarci”); tale costruzione rende possibile una doppia interpretazione pragmatica (cioè relativa allo scopo) dell’enunciato: se rimaniamo ancorati al significato del verbo, la subordinata va assimilata alle oggettive viste sopra (quindi preferisce la costruzione implicita, ma ammette quella esplicita, soprattutto per enfatizzare il soggetto); se, invece, diamo maggior peso alla costruzione deontica, la subordinata è assimilata a quelle rette dai verbi di comando (come comandareordinareconsigliaresuggerire ecc.), che sono sempre implicite quando il soggetto coincide con il destinatario dell’obbligo.
In altre parole, “Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” riceve facilmente un’interpretazione informativa; “Non dobbiamo dimenticarci di non sapere mai abbastanza” viene interpretata, piuttosto, come regolativa. Per rendere la differenza ancora più evidente, proviamo a sostituire non dobbiamo dimenticarci con ricordiamoci: “Ricordiamoci che non sappiamo mai abbastanza” suona come un avviso; “Ricordiamoci di non sapere mai abbastanza” è, piuttosto, un ordine.
In “Non c’è motivo che io parli” il soggetto della subordinata non coincide con quello della reggente, quindi la costruzione esplicita è del tutto legittima. La costruzione implicita (“non c’è motivo di parlare”) va anche bene, ovviamente, con la differenza che in questo caso il soggetto della subordinata è impersonale, come quello della reggente. La forma “Non c’è motivo per parlare” è anche possibile, ma in questa frase la proposizione subordinata non è completiva, bensì causale.
In “I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”, infine, la subordinata è relativa, non completiva (qui che ha funzione non di congiunzione, ma di pronome) e le due costruzioni sono ugualmente legittime; come di norma, comunque, anche in questo caso quella implicita è più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Viveva in un palazzo splendente d’avorio e di porpora” i sintagmi “d’avorio” e “di porpora” a quali complementi corrispondono?

 

RISPOSTA:

Nella (abbastanza) inutile tipologia dei complementi, raramente è possibile dare una risposta univoca, dal momento che si incrociano il parametro sintattico con quello semantico. Se non ci fosse splendente, nell’esempio in questione, d’avorio e di porpora sarebbero senza dubbio complementi di materia. Essendoci splendente, da cui dipendono i due sintagmi successivi, propenderei per un complemento di limitazione (‘quanto ad avorio’), sebbene non manchi una sfumatura causale (‘per via dell’avorio’).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi disturbo ancora con una seconda, rapida domanda rapida: verbi fraseologici e gerundio possono “convivere” in una frase governata da un verbo al passato? Mi sono imbattuta in una costruzione che, lo ammetto, non sono riuscita a concludere con una piena coscienza linguistica

L’uomo, al telefono, doveva star offendendo la ragazza, che infatti si alzò dalla sedia, rossa in viso.
E se dovessimo usare la particella pronominale, quale sarebbe la sua posizione?
L’uomo, al telefono, la doveva star offendendo
L’uomo, al telefono, doveva starla offendendo
L’uomo, al telefono, doveva star offendendola.

 

RISPOSTA:

Rapida la domanda, tutt’altro che banale, meno rapida e tutt’altro che semplice la risposta.
La perifrasi aspettuale (che esprime cioè, in questo caso, l’aspetto verbale dell’imminenza o della progressività dell’azione) costruita con stare + gerundio è ritenuta da molti parlanti italiani scarsamente accettabile quando stare è all’infinito. Su questo tema, mi permetto di rinviare a un mio articolo di qualche anno fa: Fabio Rossi, La perifrasi aspettuale stare + gerundio in costrutti subordinati impliciti, in Sintassi storica e sincronica dell’italiano. Subordinazione, coordinazione, giustapposizione. Atti del X Congresso della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Basilea, 30 giugno-3 luglio 2008), a cura di Angela Ferrari, Firenze, Cesati, 2009, vol. II, pp. 1155-1170. Aggiungo che stare all’infinito + gerundio è preferito dai parlanti (e scriventi) meridionali, rispetto a quelli settentrionali.
Non se ne trovano moltissimi esempi nella storia dell’italiano, benché oggi sia sempre più frequente. Per questi motivi, la sua perplessità è più che legittima. La perplessità non riguarda, dunque, tanto la presenza del tempo passato, quanto tre particolari:
1) la presenza di stare all’infinito. La perifrasi stare + gerundio in posizione subordinata sembra conferire un eccesso di autonomia semantica al verbo stare, ma non aggiungo qui altre specificazioni linguistiche (forse eccessivamente complesse in questa sede), che potranno peraltro essere reperite nell’articolo sopra citato, se interessa approfondire la questione.
2) La presenza di due ausiliari, o meglio un verbo modale (o servile) + una perifrasi aspettuale, cioè dovere e stare.
3) La presenza del clitico (la particella pronominale atona la), che può assumere tre diverse posizioni, in questi casi.
Dunque, nonostante certa impressione di pesantezza, tutte e quattro gli esempi da lei riportati sono corretti, in italiano. Naturalmente, il proprio gusto personale farà optare per l’una o l’altra soluzione. Io, personalmente, per evitare la pesantezza, eliminerei il primo modale sostituendolo con un avverbio: “l’uomo molto probabilmente la stava offendendo”.
Aggiungo che l’imperfetto doveva, in questi casi, non ha tanto valore temporale (passato), bensì modale epistemico (cioè indica l’eventualità o un certo grado di incertezza, di ipoteticità e simili). Insomma, è come se fosse: “molto probabilmente stava offendendola” o “la stava offendendo”.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase
Se non ti disturbo, verrei a trovarti stasera
è tollerabile anche in un linguaggio sorvegliato o il periodo ipotetico tradizionale
Se non ti disturbassi, verrei a trovarti stasera
È sempre consigliato?

 

RISPOSTA:

In questo caso non è tanto in gioco il rapporto tra un registro più formale (con la protasi al congiuntivo) e uno più informale (all’indicativo), bensì una diversa sfumatura semantica dei due costrutti, entrambi perfettamente standard, corretti e adatti anche in uno stile formale. Il primo esempio, tipico caso di periodo ipotetico misto, combina una protasi della realtà con un’apodosi (cioè la principale) dell’eventualità. Usando una frase siffatta, il parlante (o lo scrivente) intende manifestare la propria volontà di andare a trovare l’interlocutore, sfumando, per cortesia e buona educazione, la propria volontà sia mediante l’ipotetica (se non disturbo) sia mediante il condizionale epistemico che attenua la perentorietà di “vengo a trovarti di sicuro”.
La seconda frase, invece, manifesta una maggiore incertezza (in virtù della protasi al congiuntivo, tipica del periodo ipotetico dell’eventualità). In altre parole, chi sente o legge la frase ha la netta impressione che la persona che la usa non andrà a trovare l’interlocutore, vuoi perché è convinta di disturbarlo, vuoi perché non ne ha, poi, tutta questa voglia.
I due periodi oggetto della domanda, dunque, non sono affatto intercambiabili. È sempre bene fare attenzione alle sfumature della lingua, per non incorrere in spiacevoli incidenti diplomatici o simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho scorto in letteratura questi esempi, scritti peraltro da autori di grande caratura:
“Dopo che fummo usciti dalla stanza, ella si portò in sala da pranzo”.
“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”.
“Dopo che ci eravamo salutati, l’ispettore mi mise a parte di una confidenza”.
“Dopo che eravamo entrati nel locale, ho detto al barman…”
“Dopo che sua moglie fu estromessa dall’eredità, Giulio ha perso la testa”.

Come vedete, ho raccolto con l’aiuto di mio figlio tutti gli incroci (per così dire) possibili, tra passato remoto e passato prossimo nelle principali e i trapassati nelle secondarie. Ho letto le discussioni con cui avete affrontato l’argomento, in particolare la 2800183, ma mi sono permesso ugualmente di avanzare la richiesta di ulteriori chiarimenti. Apprezzerei molto la vostra opinione sui suddetti esempi.
Un’ultima curiosità: in un noto testo grammaticale, per illustrare l’uso di dopo che nelle temporali si trova questo periodo: “di intese programmatiche si discuterà dopo che gli alleati prenderanno atto…”. Do per scontato che il costrutto sia corretto; ma per esemplificare la regola standard, non sarebbe stato meglio propendere al futuro anteriore avranno preso atto?

 

RISPOSTA:

​Le frasi che ha raccolto per esemplificare l’uso del passato remoto, del passato prossimo e dei trapassati prossimo e remoto sono tutte ben formate e mostrano, tra le altre cose, sia che due azioni avvenute nel passato possono essere espresse da due passati, senza il ricorso al trapassato (“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”), sia che il passato prossimo può oggi sostituire il passato remoto in ogni situazione, senza conseguenze semantiche apprezzabili.
Per quanto riguarda il suo appunto sull’esempio usato dalla grammatica scolastica, effettivamente lo standard vorrebbe il futuro anteriore, ma così come si può dire “Dopo che abbiamo parlato” (insieme a “Dopo che avevamo parlato”), anche il doppio futuro semplice è più che legittimo.
Spesso si criticano le grammatiche perché offrono una rappresentazione della lingua troppo lontana dalla realtà: in questo caso gli autori hanno tentato di avvicinarsi un po’ all’uso reale; è una scelta discutibile, ma comprensibile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle risposte ai quesiti, ribadite spesso che l’identità di soggetto tra proposizioni reggenti e subordinate richiede, e a volte impone, la costruzione implicita. Partendo dal presupposto che seguendo questo suggerimento non si cadrebbe mai in errore, quali sono i casi in cui la costruzione esplicita è comunque ammessa (pur essendo sconsigliata) e quelli in cui invece è vietata?
Mi è capitato di leggere o ascoltare frasi quali “Spero che io sia stato chiaro”, “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”. Sono esempi da penna rossa?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra forma esplicita e forma implicita (rappresentata dall’infinito) riguarda le proposizioni subordinate che nella forma esplicita sono introdotte dalla congiunzione che e ammettono, o richiedono, il modo congiuntivo. Tali proposizioni, quindi, sono le completive soggettive e oggettive, le finali, che sono introdotte da perché (per + che) o affinché (al + fine + che), le consecutive e le temporali introdotte da prima che, che vogliono il congiuntivo (non quelle introdotte da dopo che, che vogliono l’indicativo, né, tanto meno, quelle introdotte da quandomentre ecc.).
In quattro casi la forma implicita è obbligatoria:
1. Con la proposizione finale sempre: “Ti parlo per farti capire il mio pensiero” (non *”Ti parlo perché io ti faccia capire il mio pensiero”); “Luca è venuto per studiare con me per l’esame” (non *”Luca è venuto perché studiasse con me per l’esame”); “Verranno per arrestarti” (non *”Verranno perché ti arrestino”).
2. Quando la proposizione soggettiva ha un soggetto che coincide con il soggetto logico della reggente: “A me piace viaggiare” (non *”A me piace che viaggio”); “A Luca è sembrato giusto chiedermi scusa” (non *”A Luca è sembrato giusto che mi chiedesse scusa”); “Domani ti sembrerà di aver agito bene?” (non *”Domani ti sembrerà che hai agito bene?”). In realtà in questo caso l’obbligo è, come spesso accade, in parte elastico; in particolare con il verbo sembrare l’infrazione è meno evidente (qualche esempio di “Ti sembra che hai…” e simili è rinvenibile on line, in sedi non squalificate). Questo avviene probabilmente perché sotto la costruzione con sembrare si insinua quella con pensare e simili, come se nella mente del parlante si creasse una confusione tra il modello “Ti sembra che…” e il modello “Pensi che…”. Con quest’ultimo, come si vedrà tra poco, la costruzione implicita è sì consigliata (“Pensi di aver fatto bene” è preferibile a “Pensi che hai fatto bene”), ma meno rigidamente.
3. Nelle oggettive rette da un verbo di comando, consiglio e simili. Attenzione: in questo caso l’identità che fa scattare l’obbligo non è tra i soggetti, ma tra il soggetto della subordinata e il destinatario del comando, consiglio ecc.: “Ti ordino di sistemare la stanza” (non *”Ti ordino che tu sistemi la stanza”); “Ho consigliato a Giulia di partire presto domani” (non *”Ho consigliato a Giulia che parta presto domani”); “Chiederò loro di aiutarmi con il lavoro” (non “Chiederò loro che mi aiutino con il lavoro). Si badi che nell’ultima frase il verbo chiedere è usato con il significato di ‘richiedere’, assimilabile ai verbi di comando; se, invece, lo usiamo con il significato di ‘domandare’ le cose cambiano: “Chiederò loro che intendono fare riguardo alla mia offerta”. Come si nota, qui la proposizione subordinata non è una oggettiva, ma una interrogativa indiretta, e che non è una congiunzione, ma un pronome interrogativo (infatti può essere sostituito da che cosa).
4. Quando tanto la reggente quanto la subordinata sono impersonali: “Bisogna comportarsi bene” (ma “Bisogna che tu ti comporti bene”); “Si stabilì di partire all’alba” (ma “Si stabilì che partissimo all’alba”); “Prima di agire è bene riflettere” (ma “Prima che tu agisca è bene che tu rifletta”).
Nella maggior parte degli altri casi, la costruzione implicita è consigliata ed è comunque la variante più formale, ma quella esplicita è comune e accettabile in contesti informali e mediamente formali. Il grado di accettabilità del costrutto esplicito non è costante, ma è soggetto alla semantica e alla reggenza del verbo reggente e ad altri fattori circostanziali. Ad esempio, la proposizione oggettiva vista prima: “Pensi che hai fatto bene?” è più accettabile di “Spero che io sia stato chiaro”, decisamente più sciatto di “Spero di essere stato chiaro” (si noti, a margine, che il congiuntivo sia, uguale per le prime tre persone, obbliga qui l’esplicitazione del soggetto pronominale, per evitare la concordanza automatica con un soggetto di terza persona). Anche il secondo esempio da lei proposto: “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”, mi sembra al limite dell’accettabilità; meglio “Prima che uscisse di casa, non aveva salutato nessuno” (e comunque la costruzione più formale è “Prima di uscire, non aveva salutato nessuno”).
La proposizione consecutiva è quella più libera su questo fronte; ammette quasi sempre, infatti, il costrutto esplicito senza un evidente scarto diafasico (ovvero di formalità): “Sono tanto stanco che non voglio uscire per una settimana” è valida tanto quanto “Sono tanto stanco da non voler uscire per una settimana”. Tale peculiarità di questa proposizione è dovuta probabilmente al fatto che contiene necessariamente un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Come si vedrà sotto, proprio questa circostanza avvantaggia la costruzione esplicita su quella implicita.
Va detto che il costrutto esplicito è quasi sempre possibile se il parlante intende enfatizzare il soggetto della subordinata, come in questo esempio letterario: “Facendomi onore mi chiese che collaborassi anch’io” (Vittorio Gorresio, La vita ingenua, 1980). Persino la finale ammette tale possibilità: “Ho lavorato tanto affinché avessi il premio anch’io”. Si noterà che in questi casi il soggetto viene inserito preferibilmente alla fine della subordinata, perché veicola una informazione nuova, che si trova tipicamente nella parte destra dell’enunciato. Anche se lo anticipassimo, ci troveremmo a pronunciarlo (o immaginare di pronunciarlo nella nostra testa) con un’intonazione marcata: “Ho lavorato tanto affinché ANCH’IO avessi il premio”. Più o meno lo stesso avviene quando l’enfasi ha una funzione contrastiva: “Ho pensato che io (e non altri) ho la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto affinché io (e non altri) avessi il premio”​. In questo caso, la novità del soggetto può essere rimarcata dividendo in due parti la subordinata (costruendo quella che viene definita una frase scissa): “Ho pensato che sia io (e non altri) ad avere la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto perché fossi io (e non altri) ad avere il premio”. Come si vede dagli esempi, peraltro, anche nella frase scissa permane la preferenza per la costruzione implicita della subordinata che ha lo stesso soggetto della reggente e che sarebbe introdotta da che se fosse esplicita: “ad avere la responsabilità…” (non *”che ho la responsabilità”); “ad avere il premio” (non *”che io abbia il premio”).
C’è, infine, un caso nel quale, nonostante l’identità di soggetto, è la costruzione esplicita a essere preferibile: quello delle completive che contengono un’azione futura rispetto alla reggente (si tratta della circostanza a cui abbiamo accennato a proposito della proposizione consecutiva). Tale preferenza è dovuta al fatto che l’infinito non ha il tempo futuro in italiano, quindi bisogna ricorrere alla costruzione finita per segnalare che l’evento della subordinata è posteriore rispetto a quello della reggente: “Credo che farò uno spuntino” (“Credo di fare uno spuntino” significherebbe che sono incerto se io stia facendo uno spuntino); “Pensai che avrei fatto uno spuntino” (in questo caso si usa il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato). L’infinito presente, per la verità, può anche esprimere un’azione futura, per cui quasi sempre il costrutto implicito risulta trasparente: “Penso di fare uno spuntino” e “Pensai di fare uno spuntino”, per esempio, sono ben formati, anche se l’azione di fare uno spuntino è posteriore rispetto al pensare. Con il verbo credere il costrutto implicito è meno felice perché credere può significare tanto ‘valutare’ quanto ‘non essere certo’ e può ingenerare confusione.

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali modi e tempi verbali si devono usare nelle proposizioni introdotte da senza che o dopo che nei periodi che sto per scrivervi?
1) Ho visto il documentario senza che io abbia avuto (avessi / avessi avuto) la possibilità di fare una pausa. (P. S. E se sostituissimo il passato prossimo della principale con il passato remoto, come si costruirebbe la subordinata?)
2) È andato in vacanza senza che io ne fossi stato informato.
3) Finiranno le ferie senza che avrò avuto (abbia avuto) la possibilità di riposare.
4) Gli esperimenti sarebbero eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / sarebbero state) completate.
5) Gli esperimenti saranno eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / siano state / saranno state) completate.

 

RISPOSTA:

La scelta del tempo del congiuntivo migliore per le subordinate nelle frasi da lei proposte dipende in parte dalla consecutio temporum, in parte dalla logica.
Nella frase 1) tutte le varianti sono da scartare, in favore della costruzione implicita: “Ho visto il documentario senza avere / avere avuto la possibilità di fare una pausa”. L’identità di soggetto tra la reggente e la subordinata consiglia, e a volte richiede, tale costruzione. Se, invece, modifichiamo la frase in modo che i soggetti delle due proposizioni siano diversi (ad esempio “Hai cambiato canale senza che io abbia potuto / potessi / avessi potuto chiederti di non farlo”), la situazione cambia completamente e tutte le varianti diventano possibili. La scelta tra l’una e l’altra dipende dal rapporto temporale che vogliamo stabilire tra i due eventi, il cambiamento di canale e la richiesta di non cambiare canale, nonché dall’aspetto che vogliamo attribuire al tempo della richiesta. Il congiuntivo passato stabilisce un rapporto di contemporaneità e attribuisce un aspetto momentaneo alla richiesta, mette, cioè, in evidenza che l’azione si è (o, in questo caso, non si è) verificata in quel preciso momento, contemporaneo rispetto all’azione del cambiare canale. L’imperfetto instaura lo stesso rapporto di contemporaneità nel passato con il verbo della reggente, ma ha un aspetto durativo, quindi comunica che l’azione non si è verificata in un lasso di tempo all’interno del quale è avvenuta l’azione del cambiamento di programma. Il trapassato, più semplicemente, implica che la richiesta non è stata fatta prima del cambiamento di canale (anteriorità nel passato).
Se al posto di hai cambiato mettessimo cambiasti non cambierebbe niente. Lo stesso discorso vale per la frase 2).
Nella frase 3) avrò avuto è da scartare non in quanto tempo, ma in quanto modo indicativo, rifiutato dalla congiunzione senza che. Il verbo reggente della frase è al futuro, che, nell’ambito della consecutio temporum al congiuntivo, si comporta come il presente. I tempi del congiuntivo ammissibili sono, pertanto, il passato per l’anteriorità e il presente per la contemporaneità e la posteriorità. A questo punto, entra in gioco la logica: è chiaro che la possibilità di riposare si sia manifestata prima della fine delle vacanze, non contemporaneamente a essa, né, a maggior ragione, dopo. L’unica possibilità, pertanto, è quella da lei stessa prospettata, con il congiuntivo passato: “Finiranno le ferie senza che abbia avuto la possibilità di riposare”. In una frase dal contenuto diverso, il presente sarebbe stato senz’altro possibile, o addirittura preferibile; ad esempio: “L’allarme suonerà senza che i ladri se ne accorgano”.
Nella frase 4) il verbo reggente è condizionale presente; in questo caso abbiamo due possibilità: se costruiamo il periodo come un periodo ipotetico (quindi assimiliamo dopo che a se), la forma del verbo corretta nella subordinata è il congiuntivo imperfetto fossero completate, proprio della protasi del periodo ipotetico della possibilità. Se, invece, consideriamo il condizionale sarebbero eseguiti come una variante di cortesia dell’indicativo presente, quindi diamo alla congiunzione dopo che pieno valore temporale, per cui sottolineiamo il rapporto temporale di anteriorità dell’evento della subordinata rispetto a quello della reggente, presente, sceglieremo il congiuntivo passato siano state completate, coerentemente con la consecutio temporum.
Per quanto riguarda saranno eseguiti nella frase 5), infine, ribadiamo che il futuro nella consecutio temporum si comporta come il presente, quindi la forma del verbo della subordinata sarà il congiuntivo passato siano state completate (anteriorità rispetto al presente o al futuro). In realtà, dopo che non seleziona obbligatoriamente il congiuntivo (diversamente da senza che, ma anche da prima che): non è da escludere, pertanto, il futuro semplice saranno completate, né quello composto saranno state completate, che instaurano con il futuro della reggente un rapporto di anteriorità o contemporaneità specificamente nel futuro, impossibile da rappresentare al congiuntivo, per la mancanza di un tempo futuro in quel modo. Come sempre, la variante con l’indicativo è più comune, ma meno formale; decisamente sciatta, ma pur sempre possibile, è anche quella con il corrispondente indicativo di siano state completate, il passato prossimo sono state completate​ (lo stesso vale per la frase 4). Le altre forme sono da scartare.
Fabio Ruggiano

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DOMANDA

Gentilissimi professori, sottopongo alla vostra analisi le seguenti frasi lette di recente:

a. Proprio ieri mi hanno domandato se era vero che due mesi fa ho incontrato il mio socio.
b. L’alunno si è ammalato ieri e starà a casa fino alla prossima settimana. È un vero peccato: la prossima settimana sarebbe stato in gita per due giorni.
c. Tutte le donne presenti, a quelle parole, si toccarono la bocca.
d. Quando eravamo piccoli si cantava le canzoni. Oggi si hanno i minuti contati.
Esempio a: non pensate che il secondo passato prossimo ho incontrato debba essere sostituito dal trapassato prossimo? Forse sbaglio, ma mantenerlo, come nell’esempio, non significherebbe situare l’azione di due giorni fa sullo stesso piano temporale di ieri?
Esempio b: se avessimo sostituito sarebbe stato con avrebbe dovuto essere o doveva essere, avremmo ottenuto costruzioni equivalenti e ugualmente corrette oppure no? Qual è, secondo voi, quella preferibile?
Esempio c: una volta per tutte: la frase è corretta o sarebbe stato meglio declinare al plurale anche il sostantivo bocca? Aggiungo: si dice la cima dei monti o le cime dei montila punta delle dita o le punte delle dita? la grammatica ci viene in soccorso con un regola universale per gestire la concordanza oppure ogni caso va analizzato a sé?
Esempio d: se non sbaglio, la prima frase riporta un si riflessivo che sostituisce la prima persona plurale. È sempre tollerato o si tratta di un toscanismo da evitare? La seconda è, invece, sempre se non sbaglio, una costruzione con il si passivante. Come si fa (o fanno???) a conoscere i casi in cui il si riflessivo è da preferire al si passivante e viceversa?

 

RISPOSTA

a. Entrambe le varianti sono possibili; il passato prossimo indica semplicemente che l’incontro è avvenuto nel passato rispetto al momento dell’enunciazione (adesso), il trapassato (avevo incontrato) aggiunge il dettaglio che l’incontro è avvenuto prima rispetto a un momento diverso da quello dell’enunciazione, coincidente con quello in cui è stata fatta la domanda. Proprio per questo motivo, se usiamo il trapassato prossimo, dobbiamo cambiare anche il complemento di tempo relativo a quell’evento, da due mesi fa a due mesi prima: l’avverbio (originariamente una forma verbale) fa, infatti, può riferirsi solamente al momento dell’enunciazione.
Va detto che, sebbene il passato prossimo ho incontrato sia formalmente equivalente al passato prossimo hanno domandato, non bisogna pensare che i due eventi siano rappresentati come contemporanei: essi sono, piuttosto, rappresentati entrambi come passati, senza una relazione reciproca esplicita. Tale relazione, peraltro, si ricava chiaramente dai complementi di tempo, ieri e due mesi fa.
b. La variante con il verbo servile non cambia molto dal punto di vista sintattico, ma aggiunge, ovviamente, una sfumatura semantica potenziale. La costruzione con l’imperfetto del verbo dovere dal punto di vista semantico presenta l’evento della gita come già stabilito, dal punto di vista sintattico è meno formale, sebbene molto comune.
c. Il singolare è la forma più attesa, sebbene il plurale non sia scorretto. Il singolare suggerisce che ognuno dei soggetti toccò la sua bocca; il plurale specifica che le bocche sono più di una, come i soggetti che le toccano (una specificazione, ovviamente, superflua).
Una considerazione simile si può fare per la punta delle dita, con la differenza che le dita sono più di una per ogni persona (diversamente dalla bocca), quindi la specificazione del plurale è meno superflua: la frase idiomatica sarà sempre “si contano sulla punta delle dita”, ma è del tutto giustificata una frase come “Può capitare di sentire le punte delle dita addormentate” (come anche, del resto, “Può capitare di sentire la punta delle dita addormentata”). Il caso di la cima / le cime dei monti è diverso: le due varianti hanno due significati diversi. La cima dei monti indica il punto più alto di una catena montuosa; le cime dei monti indica la cima di ognuno dei monti considerati. Come si può vedere, più che una questione di grammatica, qui è in gioco la logica.
d. La costruzione noi si cantava non è passiva, bensì impersonale; indica, infatti, che l’azione è compiuta da un soggetto imprecisato, non che essa ricade sul soggetto stesso. L’esplicitazione del soggetto di prima persona plurale, tipica della Toscana, ma ben attestata nella tradizione letteraria in italiano, sembra confliggere con l’impersonalità del costrutto, ma in realtà bisogna ricordare che i costrutti sintatticamente impersonali sottintendono sempre un soggetto logico. Anche il secondo si è impersonale, e infatti sottintende il soggetto logico noi: “Oggi si hanno i minuti contati” equivale a “Oggi abbiamo i minuti contati”, oppure a “Oggi tutti hanno i minuti contati”. Anche in “Come si fa a conoscere i casi”, si fa è impersonale (equivalente a facciamo). La costruzione “Come si fanno a conoscere i casi”, pertanto, è scorretta, sebbene molto diffusa in contesti informali; è indotta dall’attrazione esercitata dal complemento oggetto plurale casi sul verbo fare, come se proprio i casi fosse il soggetto di fare (infatti nessuno direbbe mai *”Come si fanno a conoscere il caso”).
La prego, per il futuro, di mandarci una domanda alla volta. Le domande complesse ci mettono in difficoltà perché non si possono classificare con precisione per l’archivio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Cari linguisti, a seguito della lettura di alcune vostre risposte sono sorte in me diverse incertezze che desidererei risolvere con il vostro contributo.
Alla luce di questa risposta, la costruzione “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avrebbe procurato” è giusta oppure sarebbero preferibili “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato” o “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”?
Trasformando il discorso diretto “Disse: ‘Chiunque ti aggredirà, si troverà nei guai'” in indiretto, si ottiene 
“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” oppure “disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”?
Oltre al passato prossimo, esistono altri tempi verbali che sono coinvolti dalla funzione deittica? Potrebbe essere il caso del trapassato remoto nella frase “Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”?
In tale esempio, il trapassato indicherebbe anteriorità rispetto alla principale e non rispetto al momento dell’enunciazione. 
A proposito dell’esempio 4 di questa risposta, spiegate che la soluzione con il congiuntivo è corretta e più formale rispetto a quella con l’indicativo. Non metto in dubbio, sia chiaro, il vostro giudizio, ma trattandosi di una frase positiva, retta da un verbo che indica certezza, non sarebbe addirittura più formale l’indicativo, come nei casi: “Ho capito chi sei”, “So che cosa vuoi”, “Ho notato dove andavi”, “Mi rendo conto che sei brava”?

 

RISPOSTA:

Rispetto alla frase analizzata nella risposta  (“Se tu fossi qui, non sapresti con chi ti toccherebbe parlare”), il suo primo esempio presenta una differenza dirimente: la proposizione introdotta da chi non è una interrogativa indiretta, bensì una relativa. Dal momento che le proposizioni relative sono molto autonome per quanto riguarda la scelta dei modi e dei tempi (mentre le completive, tra cui le interrogative indirette, sono fortemente vincolate), la costruzione con il congiuntivo trapassato (“Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”) è, nel suo caso, corretta. Non solo: la sua frase ha diverse varianti possibili.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo ha procurato”: qui la relativa è costruita come propria, all’indicativo, e presenta l’azione del procurare come passata, quindi automaticamente anteriore rispetto allo stato dell’essere responsabile.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse”: qui la relativa è costruita come impropria, in particolare come una ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse = se qualcuno lo procurasse la responsabilità sarebbe sua).
– Infine, come da lei proposto, “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”: simile alla precedente, presenta l’azione del procurare come fortemente ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato = se qualcuno lo avesse procurato la responsabilità sarebbe sua).
Scorretto (o quanto meno difficilmente giustificabile) è il congiuntivo passato (*”Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”), perché questa forma del verbo non si usa nella proposizione ipotetica, che influenza la scelta del modo congiuntivo nella relativa.
Ragionamento simile vale per questo dubbio (“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” o “Disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”): entrambe le varianti sono corrette. Nel primo caso la subordinata è considerata una relativa propria, equivalente a “Disse che colui che lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai”, con l’azione dell’aggredire posteriore rispetto all’azione del dire, ma pur sempre nel passato. Nel secondo caso è modellata su una ipotetica, come se fosse “Disse che se qualcuno lo avesse aggredito, costui si sarebbe trovato nei guai”.
I tempi deittici sono quelli che situano l’azione, l’evento o lo stato in un momento assoluto, passato, presente o futuro; i tempi anaforici (i trapassati, il futuro anteriore e il condizionale passato nella funzione di futuro nel passato) fanno, invece, riferimento a un’azione, un evento o uno stato diversi rispetto al momento dell’enunciazione. Il passato prossimo è un tempo deittico, non anaforico. Nella sua frase (“Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”), il trapassato prossimo (non remoto) era arrivata indica che l’arrivo della macchina è (o non è) anteriore a un momento nel passato. Tale momento potrebbe essere sia quello della richiesta della chiamata (colui che ha fatto la richiesta, quindi, non sapeva ancora, al momento della richiesta, se la macchina fosse arrivata o no) sia quello della chiamata, perché anche questa, per quanto si sia verificata oggi, precede il momento dell’enunciazione, quindi è passata. Ci sono, quindi, tre piani temporali: quello dell’enunciazione, cioè adesso, quello della richiesta e quello della chiamata, che sono passati, e quello dell’arrivo (o del mancato arrivo) della macchina, che precede i due momenti passati.
Il congiuntivo nelle completive è sempre la scelta più formale; non bisogna confondere, però, formale con comune: è prevedibile, infatti, che la variante più comune sia proprio quella meno formale. Anzi, in dipendenza da alcuni verbi (che esprimono certezza, come essere sicuro), specie all’interno di specifiche costruzioni (frasi affermative al presente), l’indicativo si è imposto quasi come unica scelta; di conseguenza, in questi casi il congiuntivo è oggi percepito come scorretto e il suo uso è sconsigliato se non in contesti di alta formalità. L’opportunità di usare il congiuntivo va, comunque, valutata caso per caso. Nei suoi esempi, la variante con il congiuntivo è quasi sempre possibile, sebbene poco comune: “Ho capito chi tu sia”, “So che cosa tu voglia”, “Mi rendo conto che tu sia brava”. Nell’esempio della risposta (“Sapevo che Marco voleva/volesse parlarle”), il verbo reggente, sapere, preferisce l’indicativo nella subordinata, ma all’imperfetto ammette il congiuntivo. Ecco un esempio letterario a sostegno di questa posizione: “Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco” (Mario Rigoni Stern, Il sergente della neve, 1953, p. 68).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le frasi a seguire, secondo voi, sono corrette? 

1. “Coinvolgi tutto il reparto – avrebbe potuto aver detto il capo in quell’occasione” (la criticità consiste nell’associazione condizionale composto-infinito passato).

2. “Si potrebbe scegliere una destinazione la cui distanza dall’Italia non sia (o fosse?) esagerata”;

3. “Gli spiegò chi fosse (o era?)”;

4. “Sapevo che Marco voleva (o volesse?) parlarle”;

5. “È chiaro/evidente/fuor di dubbio che la nipote non vuole (o voglia?) più studiare”;

6. “Sono sicuro/certo che ogni giorno abbia (o ha?) la sua pena”;

7. “Sono a conoscenza del fatto che abbia (o ha?) discusso con ognuno dei suoi amici”.

 

RISPOSTA:

​La frase numero 1 è ben formata, sebbene la sequenza di due tempi composti la faccia suonare strana. Non a caso, è giustificata solamente all’interno di una situazione insolita: indica, infatti, che in un momento passato rispetto al momento in cui viene enunciata la frase qualcuno abbia concepito il dubbio che il capo in un momento ancora anteriore avesse dato quell’ordine. Diviene più chiara se esplicitiamo il contesto: “Andrea pensò che il capo avrebbe potuto aver detto di coinvolgere tutto il reparto”.
La numero 2 richiede il presente (sia), perché la proposizione relativa richiede di norma il tempo verbale che rispecchia il tempo dell’azione o dello stato designato. In questo caso, lo stato della distanza dall’Italia è ovviamente presente.
Le frasi 3-7 sono ben formate sia con il congiuntivo, sia con l’indicativo: il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più colloquiale (infatti tipica del parlato).
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Congiuntivo: modo il cui perfetto utilizzo non finisce mai di mettermi in ansia esagerata.
1) Non voglia mai il cielo che venissero contestati sia il mio che il vostro titolo.
2) Non voglia mai il cielo che vengano contestati sia il mio che il vostro titolo.
Quale è preferibile?

3) Che importa se quest’uomo era realmente così, se come tale è accettato ancora oggi!
4) Che importa se quest’uomo fosse realmente così, se come tale è accettato ancora oggi!
Quale delle frasi è errata?

 

RISPOSTA:

Tra le prime due frasi, la seconda è quella più aderente alla norma standard. La consecutio temporum, infatti, richiede che in dipendenza da un tempo presente (nel suo esempio voglia) la subordinata al congiuntivo prenda il presente (quindi vengano contestati) se il rapporto tra i due eventi è di contemporaneità (o di posteriorità). Se la reggente avesse il congiuntivo imperfetto (“Non volesse mai il cielo che”), nella subordinata sarebbero ammessi sia il presente (vengano contestati), sia l’imperfetto (venissero contestati).
Tra le seconde due frasi, la prima è meno formale (ma non scorretta); la seconda è più formale, da preferire in contesti scritti e anche parlati non familiari.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

 La frase “Volevo chiederti quando potessi venire da te” può essere considerata corretta?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il congiuntivo nella proposizione interrogativa indiretta è la soluzione più formale. Corrette sono anche le varianti con il congiuntivo presente (“quando possa venire da te”), che rende l’eventualità più concreta rispetto al congiuntivo imperfetto, e quella con il condizionale (“quando potrei venire da te”), che subordina l’azione del venire a una condizione implicita, quella dell’assenso da parte dell’interlocutore (per esempio “se tu volessi”). Possibile anche l’indicativo presente (“quando posso venire da te”), meno formale ma del tutto appropriato in una conversazione tra pari. Possibile anche, sempre in un registro informale, l’indicativo imperfetto (“quando potevo venire da te”), che, spostando l’azione nel passato, risulta meno diretto del presente.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Come si dovrebbe scrivere il plurale di pomodoro ciliegino oppure pomodoro datterino, semplicemente pomodori ciliegino e pomodori datterino?

 

RISPOSTA:

Ciliegino e datterino sono due nomi, quindi, quando sono usati da soli, si declinano al plurale normalmente: ciliegini e datterini. Quando sono in composizione con la base pomodoro, però, costituiscono con quest’ultima delle parole uniche (che possono essere definite parole composte o composti, oppure possono rientrare nella categoria delle unità polirematiche, come stanza da letto e occhiali da sole), come buono scontocasa albergoparola chiavepausa pranzo ecc. Al pari di buoni scontocase albergoparole chiavepause pranzo, quindi, anche pomodori ciliegino e pomodori datterino declinano solamente la testa, ovvero la parola delle due che domina sull’altra.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Cari linguisti, vi pongo un doppio quesito inerente la consecutio temporum (già ampiamente discussa, ne sono consapevole). Il seguente costrutto: 
 

“Prima che uscissi dall’officina, il meccanico mi aveva detto che se il problema dell’auto fosse all’avantreno, avrebbe dovuto sostituire i supporti motore”

è un esempio che contiene un periodo ipotetico misto tollerato anche nello scritto sorvegliato, oppure è consigliata la forma canonica con il congiuntivo trapassato nella protasi, considerando che, nel suddetto esempio, la scelta del congiuntivo imperfetto è indotta dall’attualità del fatto proposto? E inoltre, a tal proposito, una variante del tipo: 
 

“Prima che uscissi dall’officina, il meccanico mi aveva detto che se il problema dell’auto fosse all’avantreno, dovrebbe sostituire i supporti motore” 

sarebbe comunque accettabile? 
A margine, ma sempre in riferimento al concetto di attualità indicato in precedenza, vi domando se si possa sempre impiegare un verbo coniugato all’indicativo presente, quando la reggente sia retta da un passato remoto o da un trapassato prossimo, oltreché dal passato prossimo: “Il professore mi aveva spiegato che il percorso universitario è arduo”, “Alle elementari mi hanno insegnato che la capitale d’Italia è Roma”, “L’uomo che vedesti due anni fa è mio padre”.

 

RISPOSTA:

​La prima frase, che contiene il periodo ipotetico con la protasi al congiuntivo imperfetto e l’apodosi all’indicativo trapassato, è ben formata, sebbene insolita: sottolinea che il parlante (non avendo ancora ricevuto notizie dal meccanico) ha ragione di credere, ma non ne è certo, che il problema non sia all’avantreno, e che il meccanico non abbia già sostituito i supporti. La costruzione risulta più chiara se eliminiamo il piano del discorso riportato: “Se il problema dell’auto fosse all’avantreno, il meccanico avrebbe dovuto sostituire i supporti motore”.
Rispetto al congiuntivo trapassato, l’imperfetto sottolinea che lo stato di cose (il problema) è ancora possibile nel momento dell’enunciazione (ovvero nel momento in cui il parlante sta raccontando i fatti).
Il periodo ipotetico con il congiuntivo trapassato (“se il problema dell’auto fosse stato all’avantreno”), si badi, sarebbe valido anche nel caso specifico illustrato, ma non veicolerebbe automaticamente la sfumatura di possibilità presente nell’imperfetto; lascerebbe, piuttosto, aperte entrambe le interpretazioni: 1. Il parlante (non avendo ricevuto notizie dal meccanico) ha ragione di credere, ma non ne è certo, che il problema non sia all’avantreno; 2. Al contrario, il parlante sa già che il problema era proprio quello e che il meccanico ha sostituito i supporti.
Per quanto riguarda il secondo quesito, anche queste costruzioni sono legittime e ben formate. Si tratta di casi in cui le proposizioni al presente indicano stati di fatto perduranti nel momento dell’enunciazione, che è presente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Incontro un po’ di difficoltà nel completare la seguente frase: “L’arrivo di tua sorella farebbe sì che… salti saltasse salterebbe il programma di domani”. L’espressione fare sì che, se non erro, impone l’uso del modo congiuntivo, come le congiunzioni sebbenebenché eccetera. So, però, che esse accettano talvolta anche il modo condizionale. È forse il caso anche dell’esempio che è al centro del mio dubbio?

 

RISPOSTA:

La forma più corretta sarebbe salti, che rispetta il rapporto di contemporaneità nel presente con il verbo della reggente farebbe (per approfondire questo punto potrebbe consultare le altre risposte dell’archivio di DICO che riguardano la consecutio temporum). Il condizionale salterebbe non è impossibile, per via dell’attrazione da parte di quello della proposizione reggente, che rappresenta l’apodosi di un periodo ipotetico (completato dalla protasi “L’arrivo di tua sorella”, ovvero “Se arrivasse tua sorella”). Si tratta, però, di una scelta meno formale. Non a caso, facendo una ricerca on line, troviamo entrambi i costrutti; quello con il congiuntivo in una fonte più affidabile (e firmata), quello con il condizionale in una meno titolata (e non firmata):

“La pratica consentirebbe semplicemente di ‘mirare’ meglio i messaggi pubblicitari e ciò, oltre a rendere più redditizia la pianificazione delle aziende, farebbe sì che anche la navigazione degli utenti sia più piacevole” (Riccardo Staglianò, in repubblica.it: http://www.repubblica.it/online/tecnologie_internet/privacy/doubleclick/doubleclick.html).

“Per accedere alla pensione anticipata, però, a meno che il governo non blocchi l’aumento dell’età pensionabile di 5 mesi prevista a partire dal 1 gennaio 2019, saranno necessari 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi di contributi per le donne, questo farebbe sì che la sua pensione decorrerebbe a partire dal 2020″ (https://www.notizieora.it/affari/pensione-anticipata-o-quota-100-nel-2019-valutiamo/).

Escluderei, infine, il congiuntivo imperfetto saltasse.
Una piccola nota di stile: vista la frequenza d’uso della parola che, dovuta alle sue tante funzioni, è consigliabile evitare tale parola ogni volta che sia possibile. In questo caso, per esempio, la frase potrebbe essere efficacemente riformulata così: “L’arrivo di tua sorella comporterebbe l’annullamento del programma di domani”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, ho riportato qui sotto alcuni esempi di frasi sui quali nutro dei dubbi circa la lo composizione. Ho usato la barra per separarne le alternative:
“Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”.
“Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”.
“Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema”.
“Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”.
“Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda”.
“Tutti i terzi livello/terzo livello/terzi livelli in seno all’azienda, dovranno presentare formale disdetta”.

 

RISPOSTA:

​Il dubbio relativo alla scelta tra il condizionale e il congiuntivo accomuna le seguenti frasi: “Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”, “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”, “Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Nei tre casi, entrambe le opzioni sono valide: il condizionale rappresenta la scelta richiesta dalla consecutio temporum, visto che il verbo esprime un evento successivo rispetto a un altro evento passato (posteriorità nel passato). In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate. L’evento è quello espresso dal verbo di dire, pensare o simili della proposizione principale, esplicitato nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avrebbero acquistato i biglietti”, sottintesa nelle altre due: “(Dichiarò/pensò che) avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero presentati”, “(Dichiararono/pensarono che) quando sarebbero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Rispetto a questa relazione temporale, quella tra gli eventi delle due subordinate passa in secondo piano e non viene rappresentata al livello morfologico. La sostituzione dei condizionali con i congiuntivi conferisce agli eventi una sfumatura di potenzialità: ad esempio, nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero acquistato i biglietti” si suggerisce che l’acquisto dei biglietti è ancora da decidere e potrebbe non avvenire.
Nella protasi del periodo ipotetico della realtà “Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema” è preferibile l’indicativo presente.
Nella frase “Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda” è preferibile il plurale; il singolare costituisce un caso di concordanza ad sensum, fenomeno largamente accettato, ma da evitare in contesti di media e alta formalità, e soprattutto nello scritto.
Infine, l’unica parola ben formata (tecnicamente si tratta di una unità polirematica) è i terzo livello, che è invariabile perché fa parte di un’espressione più ampia, nella quale la parte variabile è sottintesa: il (soggetto inquadrato / i soggetti inquadrati nel) terzo livello. Si tratta, comunque, di un termine burocratico, da evitare in contesti estranei all’ambito dell’amministrazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre problemi con le doppie. Come posso fare?
Grazie

 

RISPOSTA:

I suoi sono problemi più che legittimi, vista l’impossibilità a ricondurre la grafia delle doppie (o geminate) a una serie di regole semplici e sempre valide. Questo è stato a lungo un punto debole della norma dell’italiano scritto e ancora oggi molti parlanti sono incerti su alcuni casi, per via della discrepanza tra il parlato e lo scritto, perché non sempre a un suono rafforzato corrisponde un grafema raddoppiato. I casi problematici sono tanti e, in assenza di un rimedio certo, il primo consiglio che possiamo dare è allenarsi costantemente alla scrittura e alla lettura, non avendo mai timore o vergogna a usare il dizionario.
Per il resto, possiamo solamente accennare ai fenomeni principali alla base delle incongruenze tra il parlato e lo scritto, e suggerire alcuni accorgimenti pratici. Prima di tutto, osserviamo che le geminate possono occorrere solo tra due vocali o se precedute da una vocale e seguite da r o l (occorrereattritoapplausi): non è, infatti, possibile raddoppiare una consonante che si trova tra due consonanti (contratto) o tra una vocale e una consonante diversa da r o l (vescovo).
Molte parole che la maggior parte dei parlanti italiani pronunciano con una consonante rafforzata a cui corrisponde un solo grafema (che comunemente è chiamato lettera) sono latinismi (detti anche parole dotte), ovvero prestiti dal latino, che mantengono, in tutto o in parte, la forma grafica che avevano originariamente (un po’ come i prestiti dall’inglese, che nello scritto si mantengono inalterati, o cambiano di poco, mentre nel parlato si adattano quasi del tutto alla fonetica italiana). Un esempio di latinismo è vizio (dal latino VĬTĬUM), che, infatti, da Firenze in giù si pronuncia *vizzio. In italiano, i fonemi (o suoni) /ts/ e /dz/, che corrispondono entrambi al grafema z, sono sempre rafforzati quando si trovano tra due vocali, ma se la parola in cui uno dei due occorre è un latinismo, al fonema rafforzato corrisponde un solo grafema. Per questo motivo abbiamo parole popolari, nelle quali la grafia rispecchia la fonetica, come azzopparecarrozzacorazzapiazzapazziapuzzaspazzare ecc., e latinismi come armistizioospizioabbreviazionerazionesodalizioineziaspezia ecc. Purtroppo, essere consapevoli dell’esistenza dei latinismi non è utile nella pratica; non ci consente, cioè, di prevedere se un fonema si scriva scempio o raddoppiato. Un utile accorgimento, molto noto, è scrivere sempre scempia la z del suffisso -zione (tipico dei latinismi), ma anche quella della terminazione -zio-zia-zie con la i non accentata (ozioscrezioamiciziacalvizie) e comunque la z seguita dalla i non accentata, a sua volta seguita da un’altra vocale (come in prezioso e preziario, anche se alla base c’è prezzo). Se la z è seguita da i accentata le cose si complicano, perché abbiamo le parole popolari pazzia e razzia, e le parole dotte abbazia (anche abazia), democrazia e tutti i derivati da -crazia (burocraziaplutocraziatecnocrazia…).
Al contrario, le parole che finiscono con i fonemi /ts/ o /dz/ seguiti direttamente dalla desinenza (e ovviamente preceduti da una vocale) hanno tutte la doppia: lezzolizzapazzopezzopizzarazzarozzovezzo… Attenzione, il suffisso accrescitivo -one (come tutti gli altri suffissi: -oso-ino-erello…) applicato a queste parole mantiene la doppia z, quindi pezzonepuzzone ecc. (da non confondere con le parole in -zione come intuizionepozioneazionerazionestazione ecc.).
Specularmente, le parole che finiscono in -gione vogliono sempre una sola gragioneregionepigioneprigionemagionereligionestagione; tra quelle che finiscono in -ggio e quelle in -gio, invece, prevalgono quelle raddoppiate, ma bisogna stare attenti. Per la grafia del fonema /dʒ/ (corrispondente al grafema g seguito da i o e), infatti, oltre ai latinismi, creano dubbi anche i francesismi; dal francese derivano agio e disagiomalvagioregìa, ma anche paggiocoraggioselvaggioformaggio e, in generale, il suffisso -aggio. Il fonema /dʒ/, inoltre, è rappresentato da una g sola anche in bambagia (dal latino BAMBACĬAM, per effetto della sonorizzazione della /tʃ/), legittimo (dal latino LEGĬTĬMUM), regio ‘regale’ (dal latino REGĬUM, a cui si contrappone la parola popolare reggia ‘dimora del re’), rigido (dal latino RĬGĬDUM), rigettare (perché il prefisso ri- non produce assimilazione, diversamente dai prefissi che finiscono in consonante, come in-, da cui irrigidireirritualeirrevocabile) e simili. Un trucco, per la verità soggetto a coincidenze sfortunate, per indovinare con quante g si scriva una parola che termina in -agio o -aggio è separare quest’ultima parte dalla parte precedente: se rimane una parola di senso compiuto, o che si avvicina a una parola di senso compiuto, la parte finale è il suffisso -aggio, altrimenti la parola semplicemente finisce in -agio: quindi a vassallo corrisponde vassallaggio, a forma formaggio, al verbo pestare pestaggio e, meno chiaramente, a cuore coraggio, al francese ligne ‘discendenza’ (a sua volta dal latino LINĔAM) lignaggio, ancora al francese feurre ‘paglia’ foraggio ecc.; malvagio, invece, è una parola senza suffisso, così come contagio (coincidenza sfortunata: conta- potrebbe sembrare una parola, ma basta osservare che contare non ha niente a che fare con le malattie per riconoscere questo come un falso positivo), magionaufragioplagiopresagio (anche per presa- vale la considerazione fatta per conta- a proposito di contagio) ecc. Lo stesso trucco funziona per le parole terminanti in -eggio e -egioalpeggio (corrispondente a Alpi), maneggio (mano), palleggio (palla), ma ciliegiocollegio (che non ha a che fare con colle), egregiopregioprivilegiosacrilegio. Per la verità, in quest’ultimo si riconosce la base sacro, come in regio si riconosce re: sono i limiti di questo trucco un po’ arrangiato. Limiti ancora più evidenti quando -ggio e -gio sono precedute dalle altre vocali: in questi casi il trucco perde quasi del tutto valore. Bisogna dire, però, che si tratta di pochissimi casi. C’è una sola parola (a parte qualche altro termine raro) che finisce in -iggiopomeriggio; qualcuna in più finisce in -igio (bigiogrigioligiofastigiolitigioprestigioprodigio…). Pochissime anche quelle che finiscono in -oggioalloggioappoggio e poggiomoggiosloggio e poche altre; ancora meno quelle in -ogioelogiomogionecrologioorologio e poche altre. Non si registrano, infine, parole in -uggio (ma ricordiamo uggia ‘noia’), mentre rare sono quelle in -ugioarchibugioindugio, pertugiorifugiosegugiosotterfugio.
Anche tra le parole che finiscono in -ggine o -gine queste terminazioni sono quasi sempre precedute dalla vocale a (quindi -aggine o -agine). Poche di queste hanno una sola gcartilagineimmagineindagine, ma anche caligineoriginescaturiginevertigine. Molte di più sono quelle con la doppia g: si tratta soprattutto di parole che indicano difetti del carattere, come balordagginecafonagginecocciutaggineinfingardagginesbadatagginesfacciataggine ecc.; accanto a queste troviamo lentigginefuligginerugginetestuggine e poche altre.
L’opposizione tra parole popolari, che rispecchiano nella grafia la pronuncia delle consonanti, e parole dotte si manifesta anche nel raddoppiamento incostante della b: da una parte abbiamo abbiamo e abbiaabbaiareabbinarebabborabbiascabbia (anche rabbino, non dal latino, ma dall’ebraico rabbi ‘maestro mio’) ecc.; dall’altra abiettoabitareabitudineinibirebibitaimbibirerubino ecc. In un caso, vanno bene entrambe le soluzioni: obiettivo e obbiettivo. Il francese ha dato un piccolo contributo anche in questo ambito, con bobinacabina (da cabine ‘capanna’), carabina e carabiniere e qualche altra parola. Ad aumentare la confusione, può capitare che la parola base sia popolare, mentre le derivate (o alcune di esse) siano dotte: è il caso di dubbio, da cui derivano tanto dubbioso quanto dubitare; un caso simile a quello, già visto, di prezzo, legato a prezioso e preziario.
Ricordiamo, infine, le parole univerbate, che hanno la geminata per effetto del raddoppiamento fonosintattico. Questo fenomeno ci porta a rafforzare la consonante iniziale delle parole precedute da alcuni monosillabi (adaeèche e altri), pochi bisillabi (ad esempio sopra), e tutte le parole che finiscono con una vocale accentata. Per questo motivo re Carlo si pronuncia (tranne che in alcune regioni del Nord) reccarlo (cosa, tra l’altro, utile, perché permette di distinguere nel parlato re Carlo da recarlo ‘portarlo’, che si pronuncia come si scrive). Ovviamente, però, re Carlo si scrive così, con una sola C in Carlo, perché in italiano nessuna parola, che non sia un acronimo, può cominciare con due consonanti uguali (al contrario, esistono rarissime parole che cominciano con due vocali uguali: aalenianoiingaoocito e poche altre).
Alcune espressioni di largo uso nelle quali opera il raddoppiamento fonosintattico, però, con il tempo sono divenute parole uniche, ovvero univerbate, come appena (a + pena), dappoco ‘buono a nulla’ (da + poco), sebbene (se + bene), soprattutto (sopra + tutto), vieppiù (via + più) ecc. A volte l’univerbazione è opzionale; infatti si può scrivere anche a pena da pocoa capo e accapoda capo daccapo (ma se bene invece di sebbenesopra tutto al posto di soprattuttovia più al posto di vieppiù sono decisamente inusuali). Quel che conta, però, è che quando queste parole si scrivono univerbate, la consonante foneticamente rafforzata si scrive geminata, perché rappresenta il raddoppiamento fonosintattico prodottosi quando le parole erano separate.
Un tranello in cui non si deve cadere è unire nella scrittura espressioni che, sebbene del tutto simili ad altre univerbate, si scrivono ancora separate. Così, accanto ad apposta (a + posta) abbiamo a posto, che non si può scrivere *apposto (la parola apposto esiste: è il participio passato del verbo apporre; bisogna stare attenti a non fare confusione), ma anche a volte, che non si può scrivere *avvolte (anche in questo caso, la parola avvolte esiste: è il participio passato del verbo avvolgere), a poco a poco, non *appoco appoco ecc.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho il seguente dubbio: è più corretto dire costruzioni in calcestruzzo o di calcestruzzo? Struttura in legno o di legno? Nella mia attività di ingegnere civile ho potuto notare che nei testi normativi (es. Norme Tecniche per le Costruzioni, 2018) prevale l’uso della preposizione di, mentre nei manuali e nel linguaggio parlato è molto più diffusa la preposizione in. La mia domanda è: sono corrette entrambe? Se sì, qual è la differenza?

 

RISPOSTA:

​Nell’uso comune è difficile individuare una distinzione funzionale tra le preposizioni di e in nel complemento di materia. Una differenza di fondo, però, c’è e dipende dalla semantica delle due preposizioni. Il complemento di materia è costruito con di quando la materia è intesa come una delle qualità di un oggetto; diversamente, può essere costruito con in quando si vuole attirare l’attenzione sulla materia usata per costruire l’oggetto. Così, ad esempio, una statua di legno è una statua che, tra le altre qualità, possiede quella di essere fatta di legno; una statua in legno è una statua di cui si vuole sottolineare che è stata scolpita nel legno. Non a caso, la preposizione in è preferibilmente preceduta dall’azione che indica il processo usato per realizzare l’oggetto (statua scolpita in legno (ma non *statua scolpita di legno), e, anche quando non lo sia, lo sottintende.
La preposizione in, di conseguenza, è preferita nei cataloghi d’arte, nei registri, negli inventari, che hanno interesse a enfatizzare il materiale costitutivo degli oggetti, in quanto distintivo; è ovvio, inoltre, che è tipica degli oggetti realizzati con materiali preziosi. Quando si tratta di strutture edili, nelle quali i materiali sono standard e persino obbligati dalla normativa, l’uso di in non è quasi mai giustificato; lo diventa nel caso in cui si voglia enfatizzare il materiale con cui una struttura è stata costruita: costruzioni in calcestruzzo, ad esempio, equivale a costruzioni realizzate in calcestruzzo (e non in acciaio o altro).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei apprendere la giusta sintassi delle proposizioni reggenti nei casi in cui la subordinata sia introdotta da qualoranel caso chese.
Mi spiego meglio: se non erro, qualora nel caso che pretendono il modo congiuntivo e tollerano i vari tempi di esso; ma non sono certa che le forme riportate di seguito siano tipiche del linguaggio colloquiale e quindi da evitare:
“Qualora volesse, può (oppure potrebbe?) scegliere il libro che preferisce”.
“Qualora voglia, potrebbe (oppure può?) scegliere il libro che preferisce”.
“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò (oppure andrei?) a casa”.
“Se non ci fossero le condizioni, lascerò (anziché lascerei) perdere”.
“Se per te non è un problema, potrei contattarti domani oppure Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani”.

 

RISPOSTA:

La scelta dei tempi verbali per la protasi e per l’apodosi del periodo ipotetico deve tener conto della relazione sintattica che la protasi ha con l’apodosi, ma anche delle possibili sfumature semantiche risultanti da accostamenti insoliti.
La soluzione più comune per il periodo ipotetico detto della possibilità o del secondo tipo è quella con il congiuntivo imperfetto nella protasi e il condizionale imperfetto nell’apodosi. Rispetto a questa, le frasi da lei proposte con il congiuntivo imperfetto nella protasi e l’indicativo presente o futuro nell’apodosi (“Qualora volesse, può scegliere il libro che preferisce” e “Se non ci fossero le condizioni, lascerò perdere”), lungi dall’essere errate, veicolano una sfumatura di certezza che le rende più dirette e adatte a contesti informali. Si veda questo esempio letterario (nel quale si imita un tipo di parlato colto) per il caso del futuro: “Sì e no… Ma soprattutto se è no, rispondermi ti servirà di allenamento, qualora ti trovassi costretto a dire alla Polizia di essere stato a Milano” (Vasco Pratolini, Un eroe del nostro tempo, 1949, p. 199). Questo altro esempio, invece, dimostra che l’indicativo (presente, ma lo stesso si può dire del futuro), con la sua sfumatura fattuale, può essere funzionale anche in un contesto tecnico-scientifico: “né la prospettiva muta, qualora volesse ritenersi che il datore debba comunque edurre il lavoratore a termine delle maggiori esigenze” (Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, 2011, p. 296).
Per quanto riguarda la frase con il congiuntivo presente nella protasi (“Qualora voglia, potrebbe/può scegliere il libro che preferisce”), la soluzione più comune è quella con il presente indicativo nell’apodosi. Si viene, così, a formare quello che viene definito periodo ipotetico della realtà o del primo tipo. Si consideri che, in questo caso, se sostituiamo qualora con se, il congiuntivo presente diviene quasi innaturale, e la costruzione normale prevede l’indicativo tanto nella protasi quanto nell’apodosi. Il condizionale nell’apodosi non è, comunque, scorretto, ma si configura come variante più indiretta e cortese.
Da quanto detto finora consegue che le seguenti frasi, da lei poste come alternative, sono entrambe valide, ma diverse: “Se per te non è un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del primo tipo, con il condizionale di cortesia nell’apodosi; “Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del secondo tipo canonico.
Allo stesso modo, l’ultima frase (“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò/andrei a casa”) può essere interpretata in due modi, entrambi perfettamente validi e ugualmente formali. Se interpretiamo non fosse arrivato come un evento ormai concluso, siamo di fronte a un’ipotesi irreale (perché sappiamo che lui, in realtà, è arrivato), che richiede, nell’apodosi, un condizionale passato (in questo caso sarei andato o sarei andata). In questo modo si viene a costituire un periodo ipotetico dell’irrealtà o del terzo tipo. Se, invece, interpretiamo non fosse arrivato come evento ancora attuale, che presenta l’ipotesi come da verificare (non sappiamo, cioè, se lui sia effettivamente arrivato), rientriamo nella fattispecie del periodo ipotetico del secondo tipo, descritto sopra; in questo caso, quindi, nell’apodosi ci si aspetta un condizionale presente (andrei) o, con la sfumatura di certezza di cui si è detto, un indicativo futuro, o persino presente (se si vuol suggerire che la decisione di andare a casa non ammette deroghe).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il congiuntivo presente rispettino. Lo ritenete preferibile all’indicativo presente rispettano?
Grazie

“…E tu scegli parole che sfiorando le cose
ne rispettino la figura,
tenendosi alla giusta distanza
per non ingannare, per non ingannarsi”

 

RISPOSTA:

​La scelta tra indicativo e congiuntivo nella proposizione relativa è quasi sempre una questione di sfumature, non di correttezza. In generale, ricordiamo che il congiuntivo nelle subordinate rappresenta la scelta più formale, mentre l’indicativo è oggi più comune nel parlato e nello scritto informale. Il congiuntivo, inoltre, conferisce all’azione una sfumatura di eventualità che l’indicativo, modo della fattività, non possiede. La frase così costruita (“scegli parole che… ne rispettino la figura”) suggerisce che il rispetto è possibile, non scontato, per cui né l’emittente né il soggetto della scelta (è difficile distinguere il punto di vista dell’uno da quello dell’altro) possono garantire che la scelta produca l’effetto desiderato. Diversamente, l’indicativo (“scegli parole… che ne rispettano la figura”) suggerisce che il soggetto scelga le parole con la certezza che queste realizzino il suo scopo (sebbene si tratti sempre di una certezza psicologica, non oggettiva, anche in questo caso attribuibile al soggetto stesso o all’emittente, o a entrambi).
Dal punto di vista sintattico, va sottolineato che la costruzione del referente parole senza articolo o altro modificatore (per esempio un aggettivo dimostrativo) rende la scelta dell’indicativo un po’ forzata (ma in un testo poetico questo può anche essere un artificio ricercato consapevolmente), sebbene non scorretta, perché la certezza espressa dall’indicativo è più coerente con un referente determinato.
La questione della scelta tra indicativo e congiuntivo è stata affrontata in molte altre risposte, che può leggere nell’archivio di DICO, usando il motore di ricerca interno (con la parola chiave congiuntivo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

Le consiglio di usare il plurale, che è la forma più rigorosa dal punto di vista grammaticale. Il singolare rappresenterebbe una scelta meno precisa, che potrebbe essere giustificata in un contesto parlato, come una lezione, o scritto di formalità medio-bassa, come un articolo non specialistico o una comunicazione tra non esperti. Va detto che l’attrazione esercitata dall’ultimo referente sull’aggettivo è molto forte, tanto che la sbavatura dell’accordo in “Arte e civiltà etrusca” è poco percepibile; questo è dimostrato, tra l’altro, dal titolo del catalogo di una mostra del 1955: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, aprile-giugno 1955, Milano, Palazzo reale, Silvana editore.
L’esistenza di questa e di altre attestazioni di ambito specialistico dovrebbe rassicurare sulla legittimità dell’accordo al singolare; la considerazione sul rigore grammaticale, però, rimane: sta, dunque, al parlante valutare l’adeguatezza dell’una o l’altra variante in base al contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Se dovessi sapere che mia figlia avrebbe anche lei questi comportamenti ci rimarrei male”?
Grazie

 

RISPOSTA:

Nella frase, le due parti del periodo ipotetico sono “Se dovessi sapere” e “ci rimarrei male”. La prima, detta protasi, presenta la condizione che potrebbe provocare una conseguenza; la seconda, detta apodosi, presenta la conseguenza che potrebbe essere provocata dalla condizione. Nella protasi del periodo ipotetico si può usare il modo indicativo o il congiuntivo, mentre nella apodosi, che è una proposizione indipendente, possiamo trovare tutti i modi verbali, compreso il condizionale. 
La terza proposizione contenuta nella sua frase (si tratta di una proposizione oggettiva), “che mia figlia avrebbe anche lei questi comportamenti”, si viene a trovare in mezzo tra le due parti del periodo ipotetico, e questo può farci pensare che sia parte dell’apodosi. Essa, invece, dipende dalla protasi e non ha un rapporto diretto con l’apodosi. Il modo verbale da usare all’interno di questa proposizione, quindi, segue le regole comuni delle proposizioni oggettive, ovvero può essere l’indicativo o il congiuntivo. La scelta tra i due modi dipende sia dal grado di formalità che si vuole usare, sia dal grado incertezza che si vuole attribuire all’evento: “che mia figlia ha anche lei questi comportamenti” è meno formale e presenta l’evento come più realistico; “che mia figlia avesse anche lei questi comportamenti” è più formale e presenta l’evento come più incerto. Il fatto che l’oggettiva sia dipendente da una proposizione al congiuntivo, comunque, deve far propendere per la scelta del congiuntivo.
In generale, le proposizioni oggettive possono avere anche il condizionale, anche in dipendenza da una protasi di periodo ipotetico, ma solo quando presentano un evento futuro rispetto a un altro passato (“Se avessi saputo che tu saresti voluto andare in vacanza, avrei prenotato”), oppure un evento contemporaneo, con una sfumatura di futuro (“Se sapessi che mia figlia avrebbe un vantaggio a seguire un corso di informatica, la iscriverei subito”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“(Se tu fossi qui), non sapresti con chi ti toccherebbe parlare” è giusta o sarebbe meglio preferirle soluzioni come “(Se tu fossi qui), non sapresti con chi ti tocchi/tocca parlare” o “(Se tu fossi qui), non sapresti con chi ti toccherà parlare”?

 

RISPOSTA:

L’unica soluzione possibile è la prima, per ragioni non strettamente grammaticali, ma prima di tutto logiche: la situazione configurata dal periodo ipotetico (“Se tu fossi qui, non sapresti”) che fa da premessa alla interrogativa indiretta (“con chi ti toccherebbe parlare”), infatti, impedisce di immaginare come fattuale, quindi all’indicativo (presente o futuro), la presenza della persona con cui il soggetto dovrebbe parlare. Anche nel caso di “non sapresti con chi ti tocchi parlare”, in realtà, emerge lo stesso problema, visto che il congiuntivo presente rappresenta la variante più formale dell’indicativo, a cui aggiunge una sfumatura di eventualità ininfluente sull’accettabilità della forma.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedervi la cortesia di analizzare il periodo “È caduto, facendosi male”. Il mio dubbio riguarda il valore da attribuire a “facendosi male”. Grazie anticipatamente della vostra risposta.

 

RISPOSTA:

Il periodo da lei proposto è formato da una proposizione principale (“È caduto”) e da una proposizione subordinata di tipo modale, che indica la conseguenza della caduta (“facendosi male”). Potremmo concedere alla subordinata anche un valore di tipo consecutivo (“facendosi male” = “così da farsi male”).

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nel discorso diretto si dice:  “Il mio capo mi ordinò: lavora di più”. Ora, nel discorso indiretto è preferibile dire: “Il mio capo mi ordinò che lavorassi di più” oppure “Il mio capo mi ordinò di lavorare di più”?  E comunque, sono entrambe corrette?

 

RISPOSTA:

​Entrambe le varianti sono corrette, ma la seconda è preferibile. Quest’ultima, infatti, si giova del fatto che i verbi di comando, permissione, divieto (ordinarepermetterevietare…) richiedono la subordinata implicita nel caso in cui il suo soggetto coincida con il destinatario del comando, del permesso, del divieto (e, al contrario, non la ammettono se il soggetto coincide con il soggetto della reggente, che è l’emittente del comando ecc.); ad esempio, nella frase “Il padre ha vietato a Luca di uscire la sera”, il soggetto di uscire è senza dubbio Luca, che è il destinatario del divieto, non il padre, che è il soggetto della reggente e l’emittente del divieto.
Si tratta di una eccezione alla regola generale secondo cui il soggetto della proposizione subordinata implicita coincide sempre con quello della reggente; per questo motivo, in “Sogno di andare in vacanza” il soggetto di andare non può che essere io, ovvero il soggetto di sogno; al contrario, se il soggetto della proposizione subordinata non coincide con quello della reggente, la proposizione implicita deve essere sostituita da una esplicita: “Sogno che i miei vicini di casa vadano in vacanza”.
Con i verbi d comando ecc. la reggenza esplicita è fortemente innaturale, e accettabile solamente per alcuni, come ordinare (ma non, ad esempio, vietare: *”Il padre ha vietato a Luca che uscisse la sera”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho notato che in italiano non si fa praticamente mai uso dell’articolo determinativo davanti ai nomi propri di organizzazioni, laddove in inglese (e forse in altre lingue) ciò è previsto e a volte richiesto: Agenzia delle Entrate (non “L’Agenzia delle Entrate”); Chiesa cattolica (non “La Chiesa cattolica”), ma “The Church of England”, “The Church of Jesus Christ of Latter-day Saints”, “The Association of Commonwealth Universities” ecc.
Sembra che questo The dia un’immagine di unicità, autorevolezza o veridicità all’organizzazione — non si tratta cioè di A Church of… (UNA Chiesa di…), bensì di THE Church of… (LA Chiesa di…) — pur non esistendo altre organizzazioni con nome identico (il che forse potrebbe essere un motivo valido per usare un articolo determinativo al posto di uno indeterminativo e distinguere tra l’originale e la “copia”).
In italiano mi sembra che non sia necessario, o perlomeno che non ci sia questa abitudine. Grammaticalmente, inoltre, darebbe adito a innumerevoli problemi a causa dell’esistenza (a differenza dell’inglese e di molte altre lingue) delle preposizioni articolate, che renderebbero arduo mantenere un nome proprio contenente un articolo determinativo. Infatti, non avendo il solo, unico e onnipresente the, l’italiano riuscirebbe a fatica a usare in articolo determinativo davanti al nome proprio di un ente o di un’organizzazione, a meno di non scegliere la forma preposizione+articolo, credo sconsigliata: “Appartengo a ‘La Chiesa di…'”, “Sono diventato parte de ‘La Chiesa di…'”. “Mi è arrivata una lettera da ‘L’Agenzia delle Entrate'”. Ciò, ovviamente, sarebbe un problema solo dell’italiano scritto, dato che nel parlato useremmo comunque la preposizione articolata, a meno di non voler sembrare pedanti…
C’è un motivo, storico o grammaticale, per la “regola” di non usare articolo determinativo come parte del nome proprio di un’organizzazione o di un ente, nella lingua italiana? Ci sono eccezioni?

 

RISPOSTA:

La sua curiosità non mi pare trovi conferma nell’uso reale dell’italiano; come dimostrano gli esempi da lei riportati (“Appartengo a ‘la Chiesa di…'”, “Sono diventato parte de ‘la Chiesa di…'”. “Mi è arrivata una lettera da ‘l’Agenzia delle Entrate'”), l’articolo determinativo è richiesto anche davanti ai nomi di organizzazioni, a meno che queste non siano designate da titoli assimilati a nomi propri (ad es.: “A Natale sarà presentato il nuovo telefonino di Apple”, che non esclude, comunque, l’articolo), oppure non sia necessario distinguere il nome dell’organizzazione dal sintagma comune (ad es.: “Medici senza frontiere ha lanciato una campagna”, non “I medici senza frontiere hanno lanciato una campagna”). Per quanto riguarda le preposizioni articolate, tra l’altro, non c’è alcun problema nello scrivere dell’Agenzia delle Entratedella Chiesa evangelica o simili, visto che l’articolo non fa parte del nome dell’organizzazione. Diversamente, qualche dubbio possono suscitare le preposizioni che entrano in conflitto con articoli integrati nei nomi, come avviene, ad esempio, nei titoli di romanzi o altre opere. In questo caso, alcuni propendono per la separazione tra la preposizione e l’articolo: “Ho letto un saggio su I promessi sposi“; si tratta, però, di un’operazione artificiosa, che produce un’inesistente sequenza preposizione + articolo. Risulta, pertanto, preferibile sacrificare l’unitarietà del titolo unendo, come di norma, la preposizione e l’articolo: “Ho letto un saggio sui Promessi sposi“. Tale consiglio vale per tutti i casi del genere: “Ho ascoltato un disco dei Nomadi” ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Preposizione
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

​Nella seguente frase, “La prossima estate prendi poco sole, così può essere che due neuroni ti rimangono in vecchiaia”, è più corretto usare il congiuntivo (rimangano) o l’indicativo (rimangono)?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. Bisogna precisare che l’alternanza tra indicativo e congiuntivo contrassegna i diversi contesti d’uso: nell’esempio proposto, si presume una profonda familiarità con la persona, quindi un contesto informale, che induce all’uso dell’indicativo. La scelta del congiuntivo, invece, è da preferire in contesti di alta formalità (ma raramente si direbbe questa frase in un contesto formale).

La invito a interrogare l’archivio delle domande di DICO con le parole chiave congiuntiv e indicativ, per vedere altri esempi a cui abbiamo risposto nel tempo.

Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Salve, si può dire “Le cose andranno come dovranno andare” oppure si è obbligati al “…come devono andare”? 

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette, ma quella con i due futuri è più formale e più precisa, perché circoscrive il secondo evento al caso specifico; quella con il presente nella proposizione comparativa è più approssimativa grammaticalmente (ma comunque non scorretta) e più generica.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si dice comunemente, ad esempio: “E’ mezzogiorno e un quarto”. Dato che la congiunzione designa un soggetto plurale, la concordanza non stabilirebbe l’uso del verbo “sono”?
“Sarebbe bello incontrarci” o “incontrarsi” nel senso di “sarebbe bello che noi ci incontrassimo”?

 

RISPOSTA:

Mezzogiorno e un quarto è considerato un’entità unica, anche se è identificata linguisticamente da un’espressione con la congiunzione e: per questo si concorda con il verbo al singolare. Espressioni che si comportano allo stesso modo sono pane e formaggio, tira e molla e simili.
“Sarebbe bello incontrarci” e “sarebbe bello incontrarsi” sono varianti della stessa frase che non hanno la stessa accettabilità: il primo caso è meno corretto, perché incontrarci, essendo infinito, richiede identità di soggetto con la proposizione reggente, che è, invece, impersonale. Il secondo caso, al contrario, mantiene correttamente l’impersonalità anche nella subordinata all’infinito.
Bisogna comunque considerare che la variante incontrarci ha il vantaggio di specificare chi si dovrebbe incontrare, risultando più amichevole, laddove incontrarsi è più distaccata, per via dell’impersonalità. In un contesto colloquiale, pertanto, la variante più scorretta sarà preferita e, tutto sommato, accettabile; in un contesto più formale e sostenuto, invece, è preferibile quella sintatticamente corretta.
Una terza alternativa, personale ma corretta, è la seguente: “Sarebbe bello che ci incontrassimo”; tale costruzione articolata, però, rischia di essere ancora meno apprezzata in un contesto colloquiale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “continuerai a farti scegliere” si può considerare una forma passiva?

 

RISPOSTA:

La costruzione farti scegliere non è passiva, bensì causativa o fattitiva. La invito a interrogare l’archivio delle domande di DICO con la parola chiave fattitiv per vedere altri esempi a cui abbiamo risposto nel tempo.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Premettendo che mi riferisco a situazioni informali e colloquiali (discorsi a voce o messaggi whatsapp ad esempio), e non a situazioni quali temi scolastici, relazioni di lavoro o comunque elaborati scritti, vorrei porvi il seguente quesito: frasi come “Abbiamo fatto tardi, meglio che non c’eri”, o “Pensa se non nascevi”, o “L’accordo era che tu venivi sabato e io ti sostituivo lunedì” sono corrette o comunque utilizzabili in luogo del sicuramente più opportuno congiuntivo, o anche nelle situazioni più easy non vanno usate?

RISPOSTA:

​L’uso dell’indicativo imperfetto in luogo del congiuntivo trapassato (“Pensa se non nascevi” = “Pensa se tu non fossi nato”) e del condizionale passato (“L’accordo era che tu venivi sabato e io ti sostituivo lunedì” = “L’accordo era che tu saresti venuto sabato e io ti avrei sostituito lunedì”) è molto comune nella lingua comune ed è da considerarsi accettabile in contesti di parlato informale e anche mediamente formale. Nello scritto anche mediamente formale, invece, è preferibile usare la struttura standard.
Le faccio notare che nella frase “Meglio che non c’eri” l’indicativo imperfetto è effettivamente il tempo richiesto; non sarebbe possibile sostituirlo con ci fossi stato.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Eventualmente ti avverto io”, l’avverbio eventualmente che valore ha sul piano dell’analisi logica? Qual è la funzione logica degli avverbi di valutazione (ovviamentecertamente ecc.)?
Nella frase “La data del mio esame coincide con quella del mio compleanno”, con quella che complemento è?

RISPOSTA:

​L’avverbio eventualmente non è inquadrabile in una categoria di complementi, perché modifica non il predicato verbale o un predicato nominale contenuti nella proposizione, bensì l’intera proposizione. Gli avverbi che hanno questa funzione sono detti frasali, nel senso che appartengono al rango della frase, non a quello della proposizione. Non a caso, eventualmente può essere trasformato in una proposizione reggente: “È possibile che ti avverta io”. Lo stesso si può dire per gli altri avverbi che modificano il valore di verità dell’enunciato espresso dalla proposizione (ovviamentecertamenteforse ecc.).
Nel secondo esempio, con quella è assimilabile a un complemento di paragone; la frase, infatti, equivale a “La data del mio esame è la stessa di quella del mio compleanno”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Spettabile redazione, mi piacerebbe approfondire l’uso dei verbi che accompagnano “prima che”. Sono abituata a usare esclusivamente il congiuntivo imperfetto, quando nella principale noto un tempo passato, ma recentemente ho letto questa frase: “Era scesa dall’auto prima che avesse chiuso lo sportello”. È giusta o sarebbe meglio “chiudesse lo sportello”?
A mano a mano che scrivo sono sopraffatta da altre incertezze:
“Sarebbero trascorsi anni prima che avessero trovato (o trovassero) un lavoro”?
“Trascorreranno anni prima che troveranno (o trovassero o trovino) un lavoro”?

RISPOSTA:

​Partiamo da una indicazione implicata dalla sua domanda, anche se non risolve il suo dubbio: le subordinate con identità di soggetto con la reggente preferiscono, e a volte richiedono obbligatoriamente, l’infinito. Quindi, la forma migliore per la prima frase è “Era scesa dall’auto prima di chiudere lo sportello”. Detto questo, mettiamo il caso che il soggetto della subordinata temporale sia diverso da quello della reggente (ad esempio “Era scesa dall’auto prima che lo sportello si fosse chiuso”), il congiuntivo trapassato è corretto al pari dell’imperfetto (“Era scesa prima che lo sportello si chiudesse”). Del resto, anche nella versione con l’infinito è ammessa la variante “Era scesa dall’auto prima di aver chiuso lo sportello”. La consecutio temporum vorrebbe in questo caso l’imperfetto (e l’infinito presente) nella subordinata, visto che l’evento della reggente e quello della subordinata sono contemporanei nel passato (contemporanei grosso modo, ma sufficientemente per rientrare in questa fattispecie). Il trapassato, però, svolge qui una funzione non solo temporale, ma anche aspettuale, perché sottolinea il completamento dell’evento o dell’azione; con il trapassato, cioè, si sottolinea che l’evento riferito dalla subordinata non si era ancora concluso quando era avvenuto l’altro evento riferito nella reggente, o, in altre parole, l’evento della principale era avvenuto prima che quello della subordinata si fosse concluso. Nel suo esempio, la donna era scesa dall’auto prima che la portiera avesse finito di chiudersi.
La seconda frase è ben formata in entrambe le versioni; per comprenderla pienamente, però, è bene esplicitare la reale principale, qui implicita, che giustifica il condizionale passato sarebbero trascorsi. La frase potrebbe essere, per esempio, “Disse / sapemmo / pensai / sembrò che sarebbero trascorsi anni prima che avessero trovato / trovassero un lavoro”. In questo caso, con il trapassato non solo si sottolinea la mancata conclusione dell’evento (chiamiamolo evento 2), ma si mantiene la prospettiva del momento dell’evento (evento 1): il trovare lavoro (evento 2), cioè, è visto in relazione al passare degli anni (evento 1); con l’imperfetto, invece, si torna alla prospettiva del momento dell’enunciazione, per cui trovassero è contemporaneo nel passato a disse.
La forma migliore per la terza frase è “Trascorreranno anni prima che trovino un lavoro”, perché prima che richiede sempre il congiuntivo e questo modo usa il presente per designare eventi futuri. Le altre varianti sono scorrette.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo un breve elenco di frasi che mi è capitato di leggere o sentire in TV. Ho inserito tra parentesi le mie varianti. Vi sarei grata se per ognuno dei casi proposti mi esponeste la vostra opinione.
1. Peccato tu non abbia comprato il costume: avresti potuto indossarlo quando fossi andata al mare.
2. Se verrai a trovarmi, potresti fermarti a pranzo. (Se venissi a trovarmi, potresti fermarti a pranzo oppure Se verrai a trovarmi, potrai fermarti a pranzo.)
3. Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sono/saranno aperti. (Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sarebbero stati aperti.)
4. Se fossero stati amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più. (Se fossero amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più.)
5. Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi finiranno. (Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi saranno finiti.)
6. I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, anche in antologia o su piattaforme online. (I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, neppure in antologia né su piattaforme online.)
7. Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 o alle 7 (Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 né alle 7 oppure […] non debba presentarmi né alle 6 né alle 7.)
8. Se venisse qui, non saprebbe neppure con chi avrebbe a che fare.

RISPOSTA:

​Nell’ordine:
1. è ben formata. Interessante è la congiunzione quando, qui equivalente a qualora, che introduce una proposizione temporale-ipotetica, coincidente con la protasi del periodo ipotetico composto insieme all’apodosi “avresti potuto indossarlo”.
2. Le tre varianti sono tutte valide. La prima è descrivibile come periodo ipotetico misto, con l’apodosi al condizionale passato e la protasi all’indicativo. I tre tipi “canonici” di periodo ipotetico, realtà, possibilità, impossibilità, non devono essere considerati gli unici possibili: l’incrocio tra essi è una risorsa sfruttabile al fine di esprimere varie sfumature di significato. In questo caso specifico, l’apodosi al condizionale, invece che all’indicativo, serve a formulare un invito, mentre la variante “potrai fermarti a pranzo” esprime solamente l’astratta possibilità che ciò avvenga e suona meno accogliente. Il periodo ipotetico della possibilità (“se venissi… potresti fermarti”), invece, mantiene l’aspetto di invito dell’apodosi, ma sposta la protasi dall’indicativo al congiuntivo, rendendola più dubbiosa. Questa formulazione indica che l’emittente non vuole sbilanciarsi riguardo alla possibilità che l’evento si realizzi, o perché non ci tiene, o perché vuole lasciare piena libertà di scelta al ricevente (quindi come forma di cortesia).
3. Vanno bene entrambe le varianti. Quella con il presente è meno formale.
4. Vanno bene entrambe le varianti. La prima (“Se fossero amici… avrebbero parlato di più”) è un periodo ipotetico misto; la protasi al congiuntivo imperfetto esprime una sfumatura di dubbio riguardo al fatto che le due persone siano effettivamente amici, e che, quindi, non si siano parlate per qualche ragione ignota. Diversamente, la protasi al congiuntivo trapassato dà per presupposto che i due non siano amici.
5. Dicasi lo stesso che per la frase 3. Qui il futuro semplice è meno formale. Mi concentrerei, però, su “entro tutto il mese prossimo”, che sostituirei con “entro la fine del mese prossimo”.
6. La variante da lei proposta è migliore, perché più chiara, sebbene non si possa dire che l’altra sia errata. L’italiano tollera bene la doppia negazione, e la preferisce in casi ambigui, quindi per coordinare una proposizione negativa a un’altra pure negativa è preferibile neanche o neppure, rispetto a anche. Una volta sostituito anche con neanche o neppure, la congiunzione o può rimanere oppure essere sostituita da .
7. Qui non è in gioco la coordinazione, quindi la prima frase va bene. Anche la seconda va bene: come detto per la frase 6, se la negazione della proposizione è chiara, o e  sono quasi intercambiabili. Nella terza, la doppia negazione “a meno che non debba presentarmi né alle 6…” suona eccessivamente esplicita: la eviterei.
8. Ben formata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Egregi linguisti, vi sottopongo alcune proposizioni temporali per ricevere, se possibile, relativi chiarimenti.

“Vi invito a tacere finché non sarà stato scoperto il colpevole”.

Vi domando se le costruzioni con il futuro semplice (scopriremo), con il congiuntivo passato (sia (stato) scoperto) e il passato prossimo (abbiamo scoperto) sarebbero comunque corrette.

“È diventato ipocondriaco dopo che è stato ricoverato in ospedale”.

Al riguardo vi domando se la subordinata temporale introdotta dalla congiunzione dopo che non richieda, a prescindere dal contesto, un tempo verbale anteriore rispetto a quello che regge la principale. In tal caso, l’esempio succitato sarebbe scorretto.

RISPOSTA:

​Per quanto riguarda la prima frase, tutte le forme verbali proposte sono accettabili: i futuri si giustificano in rapporto al momento dell’enunciazione, che è presente (come abbiamo scritto più volte – la invito, in proposito, a guardare le risposte etichettate con consecutio temporum nell’archivio di DICO –, il futuro anteriore è oggi sostituibile sempre con il futuro semplice quando ha valore temporale); i tempi passati, congiuntivo e indicativo, invece, si giustificano in rapporto al momento dell’azione del tacere, che è successivo a quello dello scoprire. La consecutio temporum ci consente di scegliere tra le due opzioni senza che si possa dire quale sia la più corretta o la più formale. La formalità entra in gioco nella scelta tra il futuro semplice (meno formale) e anteriore (più formale) e tra il congiuntivo passato (più formale) e l’indicativo passato prossimo (meno formale).
Il problema con la seconda frase riguarda prima di tutto il modo, non il tempo. Quando la proposizione reggente e la subordinata hanno lo stesso soggetto è quasi sempre preferibile, e in alcuni casi obbligatorio, costruire la subordinata con l’infinito. La forma migliore per la frase è, infatti: “È diventato ipocondriaco dopo essere stato ricoverato in ospedale”; in questo modo si evita l’ambiguità del soggetto del verbo della subordinata: se lasciamo “dopo che è stato ricoverato” il lettore è portato a pensare che la persona ricoverata non sia la stessa che è diventata ipocondriaca. In questo modo si risolve anche il problema della consecutio, perché l’infinito passato instaura un rapporto di anteriorità rispetto al verbo della reggente. Se, invece, manteniamo l’indicativo, ipotizzando una frase in cui non c’è identità di soggetto (“Luca è diventato ipocondriaco dopo che la moglie è stata ricoverata in ospedale”), dobbiamo fare i conti con la semantica del passato prossimo in questa specifica frase, che indica uno stato iniziato nel passato, ma persistente nel presente. Data l’indeterminatezza tra passato e presente di questo stato di cose, siamo portati a mantenere anche l’altra azione sullo stesso piano temporale. Si potrebbe dire che questa indeterminatezza fa subentrare il punto di vista del momento dell’enunciazione, che è presente, rispetto al quale lo stato della reggente e l’azione della subordinata sono sullo stesso piano, a metà tra passato e presente.
Diversamente, se avessimo usato il passato remoto, che indica il momento in cui avviene l’azione o insorge lo stato, la consecutio temporum sarebbe stata più netta: “Luca divenne ipocondriaco dopo che la moglie era stata ricoverata”. Anche in questo caso, comunque, l’uso dello stesso tempo nella reggente e nella subordinata, governato dal punto di vista del momento dell’enunciazione, è legittimo: “Luca divenne ipocondriaco dopo che la moglie fu/venne ricoverata”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Tra gli impieghi dell’indicativo imperfetto ne troviamo uno analogo a quello del passato prossimo di tempo deittico, ovvero che indica l’anteriorità rispetto al tempo della principale?
A tal proposito, riporto di seguito due passi letterari che gradirei portare alla vostra attenzione critica; in essi si evidenziano scelte sintattiche diverse per enunciare la contemporaneità di due o più azioni nel futuro:
1. Peccato che sia saltato il programma: io avrei letto sotto l’ombrellone mentre (usato con valore temporale e non avversativo, ndr) tu ti saresti abbronzata al sole.
2. Ci sarebbero state battute goliardiche e ciniche, mentre la vittima, non l’assassino, finiva sotto processo e ogni aspetto della sua persona, del suo modo di vita, veniva esaminato.
Senza presunzione di sapienza, ritengo che spesso si assista a una sopraffazione del futuro anteriore da parte del passato prossimo e che sia proprio questo a generare degli equivoci interpretativi.
Cito alcuni esempi:
1. Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo ho letto.
A mio modesto parere, la frase genera delle difficoltà a livello comunicativo, che sarebbero invece fugate dalla scelta del futuro anteriore:
2. Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo avrò letto.
In questo caso, si avrebbe infatti la certezza che i libri, al momento dell’enunciazione, non sono stati ancora letti (perché lo saranno in un prosieguo di tempo).
Stessa riflessione per il seguente costrutto:
3. Se ogni sei mesi ti sottoponi (o sottoporrai) all’esame, tra un anno potrai presentare al medico tutti i referti che hai/avrai raccolto.
Con il passato prossimo, i referti in questione potrebbero essere già stati raccolti; se, per contro, ci si vuole riferire a referti non ancora presenti, non scorgo, malgrado i tentativi, nessuna valida alternativa al futuro anteriore.
Mi rendo conto di aver fatto l’apologia di un tempo verbale che, nell’uso moderno, è di frequente scartato, anche quando – come stabilito da ogni grammatica – è prezioso per determinare l’anteriorità rispetto al futuro semplice.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima parte della sua domanda, relativa agli usi dell’imperfetto, la risposta, anticipata dagli eloquenti esempi da lei stesso addotti, è sì: l’imperfetto, tempo particolarmente versatile, può fare le veci del condizionale passato per indicare il futuro nel passato. Si tratta di una scelta meno formale, ma che semplifica la frase, quindi particolarmente adatta al parlato. Per capirci, “Ha detto che veniva” è equivalente, ma meno formale, di “Ha detto che sarebbe venuto”.
La sua sensazione riguardo al progressivo abbandono del futuro anteriore è corretta: i parlanti sono solitamente disposti a sacrificare la sfumatura di significato che questo tempo veicola (ma che è quasi sempre ricavabile dal co-testo) in favore della maggiore semplicità del futuro semplice o del presente indicativo (“Se arrivi entro le cinque mi trovi in casa” è più pratico di “Se arriverai entro le cinque mi troverai in casa” e decisamente più pratico di “Se sarai arrivato entro le cinque mi troverai in casa”).
Niente vieta, ovviamente, di preferire il futuro anteriore, soprattutto in contesti di alta formalità, oppure quando il co-testo lasci spazio per ambiguità. Questo non è il caso del suo esempio “Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo ho letto”, nel quale l’avverbio nel frattempo (che fa parte del co-testo, appunto) esclude che ho letto sia passato rispetto al momento dell’enunciazione e indirizza il ricevente a interpretarlo come passato rispetto al tempo della reggente, ovvero rispetto al futuro (potremmo dire che è un passato nel futuro). Senza accorgersene, quindi, lei stesso ha costruito la frase in modo da prevenire la potenziale ambiguità generata dal passato prossimo in questo contesto.
Diversamente, l’esempio “Se ogni sei mesi ti sottoponi (o sottoporrai) all’esame, tra un anno potrai presentare al medico tutti i referti che hai/avrai raccolto” sarebbe ambiguo con il passato prossimo e più chiaro con il futuro anteriore. Si tratta, comunque, di una ambiguità minima: il significato complessivo della frase consentirebbe facilmente di inferire la funzione specifica del tempo verbale anche qualora si usasse il passato prossimo. Questo non deve sorprendere: il progressivo abbandono del futuro anteriore è causato proprio dalla sua scarsa funzionalità, ovvero dalla sua sostituibilità quasi in ogni contesto con altri strumenti (avverbi o altri tempi verbali).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno, sono straniera e ho un dubbio: vorrei sapere se è un pleonasmo dire: “sono sicuro e certo”. Secondo me sì, perché è una esagerazione: chi è sicuro è certo! Comunque una mia amica italiana dice di no, dice che è una endiadi. Non sono d’accordo perché sono due aggettivi e non due sostantivi.
Grazie!

RISPOSTA:

Il pleonasmo e l’endiadi non si escludono a vicenda, anzi possono coincidere: l’ampliamento di un concetto attraverso l’uso coordinato di due sinonimi può essere inquadrato in entrambe le categorie.  La scelta dell’una o dell’altra dipende dall’intenzione del parlante: se la costruzione coordinata è fatta per ottenere una sfumatura di significato o anche solamente per far suonare la frase in un certo modo, si parlerà di endiadi, se, invece, la costruzione è frutto di distrazione o trascuratezza si interpreterà come pleonasmo. Entrambe le funzioni, semantica (ottenere un certo significato) e “poetica” (ottenere un certo suono), sono presenti nelle endiadi cristallizzate nell’uso, come sano e salvofuoco e fiammecasta e pura. Dagli esempi appena fatti si nota, tra l’altro, che l’endiadi si può fare con i nomi, gli aggettivi, come anche con i verbi e gli avverbi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Luca si distingue da Paolo” da Paolo che complemento sarebbe?

RISPOSTA:

Complemento di allontanamento o separazione.

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

a) “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” oppure “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dicesse/dica cosa fare”?

b) “Non è concesso astio” o “Non è concessa rabbia”?

c) “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo ti avvicinerai a me…” o “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”?

d) “Non è venuto Mario, né i suoi genitori” o “Non è venuto Mario, né sono venuti i suoi genitori”?

e) “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia poteva determinare” oppure “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia avrebbe potuto/potrà/potrebbe determinare”?

f) “Se (domani) non fossi stato impegnato, ti avrei accompagnato io (domani) al concerto”.

g) “Potrai consumare i ticket quando metterai di nuovo piede in quel locale” oppure “Potrai consumare i ticket quando mettessi di nuovo piede in quel locale”?

 

RISPOSTA:

a) La frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” è corretta, perché la proposizione relativa introdotta da che è attratta nello stesso modo (condizionale) della reggente (“non ci sarebbe nessuno”). La proposizione relativa restrittiva rappresenta un’espansione che qualifica in qualche modo il referente (in questo caso nessuno): è normale, quindi, che venga costruita con lo stesso modo della reggente quando quest’ultima proposizione è all’indicativo o al condizionale.
La variante con il congiuntivo presente, e persino quella con l’indicativo presente, nella relativa non sono scorrette, sebbene suonino innaturali per via della forte attrazione del condizionale della reggente. La relativa, infatti, può effettivamente prendere il congiuntivo per esprimere una qualche sfumatura semantica, per esempio epistemica (se chi parla non è certo di ciò che sta dicendo: “Non c’è mai nessuno che mi aiuti quando mi serve”). Nella frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dica cosa fare” il congiuntivo esprime una sfumatura volitiva rispetto alla situazione reale, come se fosse “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece, per mia fortuna, c’è, che mi dica cosa fare”. Rispetto a questa frase, l’indicativo esprimerebbe la fattualità della presenza del consigliere: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece c’è, che mi dice cosa fare”. Il significato cambia pochissimo rispetto alla versione con il congiuntivo presente, ma la costruzione è meno formale.
Il congiuntivo imperfetto, a sua volta, esprimerebbe una volizione più ipotetica: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come io vorrei, che mi dicesse cosa fare”. La frase così costruita suggerisce che il consigliere non c’è, diversamente dalle altre varianti, che danno il consigliere come esistente.

b) Tanto “Non è concesso astio” quanto “Non è concessa rabbia” sono combinazioni libere, cioè non cristallizzate nell’uso (come, ad esempio “guardare con astio” o “sfogare la rabbia”); le due varianti, pertanto, vanno considerate ugualmente valide e la scelta dell’una o dell’altra va valutata in base alla sfumatura di significato che distingue i due sinonimi astio e rabbia, ma anche in base al fatto che astio è meno comune, più ricercato di rabbia.

c) Sicuramente da preferire la sua variante. Nel caso di più soggetti di terza persona uniti dalla congiunzione o, il verbo può concordare con uno solo oppure con tutti: “Se Luca o qualcun altro si avvicina/si avvicinano mi metto a urlare”). Nella sua frase, però, il cambio di persona tra il primo e il secondo soggetto rende molto forzata la concordanza con uno solo dei due, che esclude l’altro. La concordanza alla seconda persona plurale risolve il problema: “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”.

d) La ripetizione del verbo ogni volta che cambia la persona del soggetto è la scelta più corretta e formale; un’altra alternativa ugualmente corretta, che permette di risparmiare la ripetizione, è “Non sono venuti né Mario, né i suoi genitori”, che riunisce entrambi i soggetti nella terza persona plurale (allo stesso modo della frase precedente “Se Luca o qualcun altro si avvicinano mi metto a urlare”). Molto comune è, comunque, la concordanza implicita con solo il primo dei soggetti, favorita dalla correlazione tra le congiunzioni né… né, che non lasciano dubbi sul fatto che il secondo sintagma nominale abbia la stessa funzione del primo (sia, quindi, un altro soggetto). Questa soluzione è più sbrigativa, ma, ovviamente, meno formale.

e) La variante corretta e più formale è il condizionale passato (avrebbe potuto), che esprime il futuro nel passato. La variante con l’imperfetto indicativo (poteva) è anche corretta (perché l’imperfetto ha, tra le sue funzioni, anche quella di esprimere il futuro nel passato), ed è di gran lunga la più comune, ma è meno formale. Le altre non sono valide.

f) Se ho ben capito, questa domanda riguarda il posto migliore nel quale inserire l’avverbio di tempo. Le due varianti sono ugualmente ben formate e quasi identiche in quanto al significato. Sarebbe superfluo, invece, ripeterlo in entrambe le proposizioni.

g) Le frasi sono ben formate, ma non equivalenti per il significato. Se manteniamo tutto all’indicativo il periodo risulta costruito con una proposizione principale e una subordinata temporale. Se, però, inseriamo il congiuntivo nella subordinata, la funzione di quando passa da temporale a ipotetica (la congiunzione diviene, cioè, assimilabile a se), trasformando tutta la frase in un periodo ipotetico. La proposizione principale, “Potrai consumare i ticket”, diviene, pertanto, l’apodosi, e “quando (tu) mettessi/metta di nuovo piede in quel locale” diviene la protasi. L’apodosi all’indicativo di solito richiede il congiuntivo presente nella protasi, che, infatti, risulta l’opzione migliore anche in questo caso: “Potrai consumare i ticket quando tu metta di nuovo piede in quel locale”. Il congiuntivo imperfetto è possibile, ma un po’ forzato: “Potrai consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale” indicherebbe che la possibilità remota del ritorno del soggetto nel locale comporterebbe la certezza della consumazione dei ticket. Con il congiuntivo imperfetto, infatti, sarebbe più atteso il condizionale nell’apodosi: “Potresti consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale”.
Si noti che davanti alla seconda persona del congiuntivo presente e imperfetto va sempre esplicitato il soggetto tu, altrimenti il ricevente è indotto a credere che il verbo sia alla prima o alla terza persona: nel congiuntivo presente, infatti, le prime tre persone coincidono; nell’imperfetto coi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“La meglio gioventù”. Non si dovrebbe dire “La migliore gioventù”?

RISPOSTA:

L’espressione grammaticalmente corretta è la migliore gioventù; l’uso dell’avverbio meglio al posto dell’aggettivo migliore è un tratto dell’italiano popolare, e va evitato in contesti anche di media formalità, specie nello scritto.
L’espressione è, ovviamente, ammissibile come citazione del titolo della raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini del 1954, appunto La meglio gioventù. Con quel titolo sgrammaticato, il poeta intendeva imitare il parlato popolare, come ad anticipare il carattere dimesso e intimistico delle sue poesie. Il titolo è stato, come è noto, ripreso da un film di Marco Tullio Giordana del 2003.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho cercato un sinonimo di una parola sul Dizionario dei sinonimi e dei contrari della lingua Italiana di Michele Giocondi e ho trovato come risposta dei sinonimi che però ho trovato solo in alcuni vocabolari ma non in altri. È possibile che alcuni dizionari non contengano tutti i sinonimi di una parola, ma solo alcuni?
E se trovo un sinonimo di una parola in alcuni dizionari ma non in tutti, posso considerare valido questo sinonimo?

 

RISPOSTA:

Non deve sorprendere che i dizionari differiscano tra loro. Ognuno offre risposte ispirate a una certa visione della lingua e al tipo pubblico a cui è indirizzato. Se non ci fossero differenze del genere, del resto, non avrebbe senso pubblicare tanti dizionari diversi. Ne consegue che è utile fare una ricerca più ampia, usando più di uno strumento, sia cartaceo sia on line. Un ottimo dizionario dei sinonimi disponibile gratuitamente in Internet, ad esempio, è quello Treccani.
Ci si può, in genere, fidare dei dizionari, anche se differiscono tra loro. Un sinonimo registrato in uno o in alcuni, e non in altri, può essere considerato valido; solo in astratto, però; bisogna sempre assicurarsi che quel sinonimo sia adatto al contesto nel quale serve, perché i sinonimi non coincidono mai perfettamente tra loro: hanno sfumature di significato e ambiti d’uso specifici. Per farle un esempio riguardo al significato: carino è un sinonimo di bello, ma non posso dire “Oggi il tempo è proprio carino”, mentre posso dire “Oggi il tempo è proprio bello”. Viceversa, non posso dire “Luca è stato bello ad accompagnare Maria a casa”, mentre posso dire “Luca è stato carino ad accompagnare Maria a casa” (anche se sarebbe meglio dire gentilecortesegeneroso o simili). Per quanto riguarda gli ambiti d’uso, prendiamo buco e foro: in astratto sono sinonimi, ma foro è più tecnico di buco, infatti di solito “si fa un buco nel muro” (con martello e chiodo), ma “si pratica un foro nel muro” (con uno strumento di precisione) e i proiettili hanno un foro d’entrata e uno d’uscita (non un buco). Nelle frasi idiomatiche, poi, buco è molto più produttivo di foro: si può scoprire un buco nel bilancio (ma un *foro nel bilancio), si può vivere in una casa molto piccola, che è un buco (non un foro) e così via.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Qual è la differenza tra nascere ed essere nato? Non riesco a trovare una regola che ne giustifichi l’uso. Perché è corretto dire “Il bambino nascerà domani” e non “Il bambino sarà nato domani”? Invece non ci sono dubbi sulla correttezza di “Il bambino sarà già nato quando arriverà mio padre”. E che dire di “In primavera nasceranno nuove rose” e “In primavera saranno nate nuove rose”? Perché “È nato per fare il matematico” funziona, mentre “Nasce per fare il matematico” sembrerebbe avere poco senso?
Ho la sensazione che la differenza risieda nell’uso di certi tempi verbali.
Grazie.

 

RISPOSTA:

Nascere può essere classificato tra i verbi trasformativi, al pari di morirearrivareaccorgersipartiresvegliarsi e altri. Questa categoria di verbi ha due tratti semantici caratterizzanti: la non-duratività e la trasformatività. Indica, cioè, un cambiamento di stato che è il risultato di un processo; quando il bambino è nato, infatti, il processo della nascita, che ha avuto una certa durata, ha prodotto un cambiamento di stato nel bambino.
Questi verbi tollerano i tempi imperfettivi (posso dire, per esempio, “mentre Luca nasceva, io ero all’aeroporto in fila”), ma in questo caso non implicano che il processo sia effettivamente arrivato a compimento (sebbene nel caso di nascere la comune conoscenza della natura lasci prevedere che il processo, una volta cominciato, non possa che concludersi). A maggior ragione, questi verbi possono essere coniugati senza difficoltà al futuro e al futuro anteriore, nel caso in cui l’evento (il risultato del processo) futuro sia precedente a un altro evento.
Venendo allo specifico delle sue domande, quindi, non c’è alcuna difficoltà nell’esempio “Il bambino sarà nato domani”, che, ovviamente, viene interpretato come nell’esempio che lei stesso fa subito dopo: “Il bambino sarà (già) nato (domani,) quando arriverà mio padre”. Lo stesso vale per l’esempio sulle rose: “In primavera (, quando tornerò a casa,) saranno nate nuove rose”.
Per quanto riguarda, infine, la stranezza di “Nasce per fare il matematico”, essa dipende dal significato specifico del verbo nascere; L’azione del nascere non permette di attribuire alcuno scopo ulteriore all’evento: si nasce per nascere e basta.
Non a caso, l’espressione “essere nato per” è idiomatica, è una frase fatta iperbolica, che non va presa alla lettera, e che non si può modificare in nessuna delle sue componenti; un po’ come “ha il bernoccolo per gli affari”, che non allude affatto a una protuberanza sulla testa del soggetto, e che non può diventare *”ha avuto il bernoccolo per gli affari”, o *”domani avrà il bernoccolo per gli affari”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Qual è la differenza tra AFFERENTE ed EFFERENTE, ovvero se sono afferente vado verso qualcosa, faccio e se sono efferente sono ricettivo e ascolto? Nella comunità Osteopatia si usano questi termini e secondo me a senso invertito…

 

DOMANDA:

In questo caso l’etimologia è chiarificatrice: il prefisso ad- del verbo latino affero (che in italiano non si è continuato, ma ha lasciato solamente il participio presente con funzione di aggettivo afferente) indica un moto verso un punto nello spazio; ne consegue che afferente è detto di un mezzo che trasporta un contenuto di qualche genere verso una meta. Allo stesso modo, il prefisso ex-, che fa parte del verbo latino effero (anch’esso senza “eredi” in italiano, tranne il participio presente efferente), indica il movimento da dentro verso fuori, con le conseguenze semantiche prevedibili sulla parola. L’interpretazione di efferente come ‘ricettivo’, pertanto, è calzante, perché rispecchia l’idea di un trasferimento dall’interno di un luogo, fisico o metaforico, verso la persona che si sta concentrando su quel luogo, mentre quella di afferente come ‘in movimento verso qualcosa’ è leggermente imprecisa, perché non tiene conto del tratto semantico ‘portare’, ma tutto sommato adeguata, perché per poter portare qualcosa verso un punto bisogna andare verso quel punto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se i quattro periodi elencati di seguito possono essere giudicati corretti (o comunque accettabili) e, tra questi, qual è il più idoneo a un linguaggio sorvegliato:

1. Se domani non sarò a casa per le 8, vorrà dire che mi avranno trattenuto all’allenamento.

2. Se domani non sarò a casa per le 8, vuol dire che mi avranno trattenuto all’allenamento.

3. Se domani non sarò a casa per le 8, vorrà dire che mi hanno trattenuto all’allenamento.

4. Se domani non sarò a casa per le 8, vuol dire che mi avranno trattenuto all’allenamento.

Vi domando inoltre – rimanendo in tema di sintassi – se il seguente periodo ipotetico

Se non ti avessi conosciuto, oggi sarei stato solo,

può essere definito corretto, al pari del più diffuso

Se non ti avessi conosciuto, oggi sarei solo.

In altre parole, quando l’apodosi ha, per così dire, effetti sul presente, si può comunque impiegare il condizionale composto o si è obbligati a scegliere il presente?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla scelta tra vorrà e vuole nella prima domanda. In questo caso, ciò che conta maggiormente è il momento dell’enunciazione, non la relazione con il sarò della protasi: la scelta, cioè, dipende da quando si verifica l’evento rispetto al momento in cui viene prodotto l’enunciato, ovvero nel futuro. Stando così le cose, l’opzione più formale è vorrà, sebbene vuole non sia scorretto (il presente è, anzi, usato comunemente per esprimere il futuro). Per quanto riguarda il tempo da usare nella proposizione oggettiva, la scelta più formale è il passato prossimo (quindi la frase da preferire è la numero 3); il futuro anteriore (frase numero 1) è da alcuni ritenuto inaccettabile, ma io ho una posizione più moderata (può leggere in proposito questa risposta dell’archivio di DICO).
Per quanto riguarda la seconda domanda, entrambe le varianti del periodo ipotetico sono accettabili: nella prima si mantiene il rapporto temporale previsto dal periodo ipotetico dell’irrealtà, congiuntivo trapassato nella protasi, condizionale passato nell’apodosi; nella seconda si dà peso al momento dell’enunciazione, ovvero oggi, che spinge a usare il condizionale presente. Si consideri che il rapporto temporale tra la protasi e l’apodosi può essere vario: spesso dipende da una sfumatura di significato che si vuole esprimere o dal gusto dell’emittente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Salve, prima di porre il quesito che è al centro di due miei dubbi, vorrei riepilogare alcuni casi della trasformazione dal discorso diretto a quello indiretto, augurandomi che la mia esposizione sia corretta.

“Mi ha detto: ‘Verrò da te'” diventa “Mi ha detto che verrà da me” (se l’evento non si è ancora compiuto),  “Mi ha detto che sarebbe venuto da me” (se l’evento si è compiuto: futuro nel passato).
“Mi dice: ‘Verrò da te'” diventa “Mi dice che verrà da me”.

E ora i dubbi:
“Mi dirà: ‘Sono venuto da te'” diventa “Mi dice che sarà venuto da me” oppure “Mi dice che è venuto da me”?
(Personalmente, userei il futuro anteriore, trattandosi di un evento che è precedente a quello dell’enunciazione, espresso al futuro semplice).

“Mi dirà: ‘Vengo da te'”
si trasforma in
“Mi dirà che viene da me” o “Mi dirà che verrà da me?”
(La prima opzione mi appare stonata, con il passaggio dal futuro al presente).

 

RISPOSTA:

La sua prima ricostruzione del discorso indiretto corrispondente a “Mi ha detto: ‘Verrò da te'” non è del tutto esatta; la costruzione con il futuro nel passato, infatti, non permette di stabilire se l’evento si sia verificato o no; serve solamente a indicare che l’evento era programmato nel passato. Sarebbe del tutto coerente, per esempio, una frase del genere: “Mi ha detto che sarebbe venuto da me e lo sto ancora aspettando”. Anzi, l’interpretazione più immediata sarebbe proprio quella secondo cui l’azione non si è verificata; volendo evitare una simile interpretazione, e sottolineare che l’azione si è verificata, un parlante ricorrerebbe a una costruzione marcata come “Me l’aveva detto che sarebbe venuto”.
La differenza tra “Mi ha detto che verrà da me” e “Mi ha detto che sarebbe venuto da me” riguarda il cambiamento del punto di riferimento a partire dal quale si valuta l’azione annunciata. Nel primo caso, quello con il futuro, si assume come punto il momento dell’enunciazione, quindi, in questo caso, il punto di vista del soggetto che riporta il discorso (verrà è futuro rispetto al momento in cui il discorso viene riportato, non rispetto al momento in cui è stato fatto l’annuncio, che è nel passato); nel secondo caso, quello con il condizionale, si mantiene come punto il tempo dell’annuncio, quindi, in questo caso, si assume come punto di vista quello del soggetto che ha fatto l’annuncio. Per questo motivo la frase con il futuro implica che l’azione non si sia ancora verificata, mentre quella con il condizionale è indecidibile: dal punto di vista del soggetto che ha fatto l’annuncio, l’azione poteva verificarsi o no.
Per quanto riguarda il primo dubbio, innanzitutto è ovvio che il verbo reggente rimane uguale nella trasformazione del discorso da diretto a indiretto. A partire da “Mi dirà: ‘sono venuto da te'” la possibilità più immediata è “Mi dirà che è venuto da me'”; quando la principale è al futuro e la subordinata al passato, infatti, il passato prossimo perde la sua funzione deittica (cioè smette di riferirsi al momento dell’enunciazione) e indica esclusivamente anteriorità rispetto al tempo della principale (indica, cioè, in questo caso, che l’azione del venire si è verificata prima di quella del dire, che è futura). Possibile è anche “Mi dirà che era venuto da me”, in relazione a un’altra azione successiva al venire, ad esempio: “Quando lo vedrò, mi dirà che era venuto da me appena prima (che ci vedessimo)”. 
La versione con il futuro anteriore è, secondo la Grande grammatica italiana di consultazione (vol. II, p. 631), inaccettabile, perché il futuro anteriore ha un esplicito valore deittico, quindi mantiene come punto di riferimento tanto il momento dell’enunciazione quanto il tempo della principale. Personalmente non sarei così netto sulla inaccettabilità del costrutto (pur sconsigliandolo), innanzitutto perché frasi come “Domani mi dirà che sarà venuto a cercarmi” non pongono particolari problemi di interpretazione; e poi perché l’inaccettabilità del futuro anteriore riguarderebbe esclusivamente le proposizioni oggettive e quelle soggettive, non le altre subordinate, comprese le interrogative indirette: “Domani sapremo se i nostri investimenti avranno reso poco o tanto” (e allora perché sarebbe inaccettabile “Domani ci accorgeremo che i nostri investimenti avranno reso poco”?).
Per il secondo dubbio, viene è preferibile rispetto a verrà, che è, comunque, accettabile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Dovendo scrivere una frase informale, tipo: “Di più di tutto ho l’orgoglio”, è scorretto inserire di prima di più? Cioè dovrei scrivere “Più di tutto ho l’orgoglio”, oppure si può accettare anche la frase: “Di più di tutto ho l’orgoglio”?

 

RISPOSTA:

La scelta tra più e di più può essere ricondotta a ragioni sintattiche e semantiche. Rispetto a più, di più si usa in modo assoluto (“Ne voglio di più”) o quasi assoluto (“Oggi i voli aerei sono di più di/rispetto a 10 anni fa”). Nel suo caso, la costruzione è una vera e propria comparazione, che non richiede di più, ma il semplice più. Per provarlo, proviamo a escludere dalla sua frase il secondo termine di paragone: “Di più ho l’orgoglio”; come si vede, viene meno il senso. Al contrario, se escludiamo il secondo termine di paragone dall’esempio precedente, “Oggi i voli aerei sono di più”, la frase rimane sensata. Ci sono casi in cui vanno bene entrambi gli avverbi, ma l’uso dell’uno o dell’altro modifica il senso della frase: “Oggi i voli aerei sono più di 10 anni fa”, ad esempio, è ben formata; rispetto alla costruzione con di più, più instaura nettamente il confronto con il secondo termine di paragone, che diviene un completamento necessario (così come di tutto è necessario per completare la costruzione nella sua frase).

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Volevo sapere se, oltre a “fare la spesa al tuo mercato preferito”, si possa dire anche “fare la spesa sul tuo mercato preferito”. Secondo me no, ma ho preferito chiedere. Vi ringrazio.

 

RISPOSTA:

L’espressione non è ben formata, perché non rispetta la funzione associata alla preposizione su; anche volendo ipotizzare una evoluzione di tale funzione, inoltre, l’espressione non è comunque attestata né on line né altrove. Essa va, pertanto, evitata. Il dubbio potrebbe derivare dall’analogia con “fare la spesa su Internet”, che, al contrario, è molto diffusa. Ricordiamo, a questo proposito, che l’espressione su Internet (favorita dall’influenza dell’inglese on the Internet), sebbene non scorretta e accettabile in tutti i contesti, è una variante meno formale di in Internet.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, mi permetto di contattarvi per un piccolo chiarimento. Spiego brevemente il contesto. Uno degli autisti dell’azienda per la quale io lavoro, stamattina ha visto che gli mancava della merce sul camion. Prontamente lui ha avvertito la ditta. Ascoltando il mio collega mentre avvertiva il mio titolare sull’accaduto, noto che lui finisce la frase in questo modo: “Ora c’è da capire perché gli mancasse” ( nel senso che dovevano capire perché quella merce mancava sul camion). Ecco, il mio dubbio era proprio questo: il mio collega aveva ragione nell’uso del congiuntivo oppure era più corretto dire: “Ora c’è da capire perché gli è mancata”?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra congiuntivo e indicativo è soprattutto presente nelle interrogative indirette: la causa di tale fenomeno è da ricercarsi forse nella coscienza dei parlanti, che tendono ad annullare la differenza tra interrogative dirette (sempre all’indicativo) e indirette (“c’è da chiedersi perché mancasse” / “c’è da chiedersi: perché è mancata?”). Nel suo caso, entrambe le frasi sono corrette: esiste però una sfumatura diversa. Nell’interrogativa indiretta, l’anteriorità rispetto alla reggente viene espressa da un passato prossimo (meno frequenti l’indicativo imperfetto, il passato remoto o il trapassato prossimo), o dal congiuntivo passato (meno frequenti congiuntivo imperfetto e trapassato). La frase, a seconda dei contesti, può essere resa nei seguenti modi: – c’è da capire perché gli è mancata [mancava / mancò / era mancata]. – c’è da capire perché gli sia mancata [mancasse / fosse mancata]. La soluzione con il congiuntivo, preferibile in contesti d’uso di alta formalità, è più aderente alla grammatica standard; quella con l’indicativo, adatta a contesti d’uso di media formalità, ha il vantaggio di essere più chiara (non c’è bisogno, infatti, di esplicitare il soggetto). 
Raphael Merida

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Si dice “Tanti auguri Rosalba!” o “Tanti auguri, Rosalba!”, “Tanti auguri, professoressa!” o “Tanti auguri professoressa!”?

 

RISPOSTA:

Il complemento di vocazione è, in questo caso come in tutti gli altri, tematicamente e prosodicamente separato dal predicato, quindi è bene farlo precedere, ma anche seguire, dalla virgola. Tematicamente è separato in quanto rappresenta un’informazione secondaria, un’aggiunta; prosodicamente perché nel parlato lo racchiudiamo tra due pause. Qualche esempio letterario (che rispecchia espressioni molto comuni): “Sicché tanti, tanti auguri, Gigi mio! Salutami la tua mammina e dalle un bacio per me!” (Carlo Emilio Gadda, Novelle dal ducato in fiamme, 1953); “Mo’ me ne devo andare, poi oggi vi faccio venire a spolverare da Assunta, eh? Tanti auguri, papà, e buon anno” (Giuseppe Montesano, Nel corpo di Napoli, 1999);  “Auguri, Federì. Tornò a casa fuori di sé per la gioia” (Domenico Starnone, Via Gemito, 2001).
La mancanza della virgola prima e dopo il complemento di vocazione è una pecca che diminuisce la precisione dello scritto, a meno che non dipenda da una scelta espressiva, ad esempio la mimesi di un’enunciazione concitata in un contesto letterario.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “il libro è un regalo per la città” potrebbe contenere sia un complemento di vantaggio che uno di
limitazione?
Le espressioni come “per gentilezza”, “per piacere” sono complementi di esclamazione oppure complementi di fine?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima frase, l’interpretazione più immediata, e probabilmente quella più aderente all’intento dell’emittente, è di complemento di vantaggio: ‘il libro è un regalo che avvantaggia la città’. Per la città potrebbe essere un complemento di limitazione in un contesto (o meglio co-testo, perché si tratta di un ampliamento della stessa frase) del genere: “Il libro è un regalo per la città, ma un danno per la nazione”; in questo caso, per la città prenderebbe, appunto, il significato di ‘limitatamente alla città’.
Anche per gentilezza o per piacere devono essere valutati in relazione al co-testo, considerando, in questo caso, la forte cristallizzazione delle espressioni: in una frase come “Te lo chiedo per piacere” è ancora attivo il valore di complemento del sintagma; tale complemento si può identificare come di fine (‘ti chiedo di fare ciò perché tu mi faccia un piacere’) o di predicativo dell’oggetto (‘ti chiedo di fare ciò come / in qualità di piacere’). Diversamente, in una frase come “Per piacere, smettila”, lo stesso sintagma ha una funzione quasi del tutto assimilabile a un’interiezione, quindi a un complemento esclamativo, nella quale si scorge una sottile sfumatura finale (‘smettila per farmi un piacere’). Infine, quando l’espressione è usata da sola (“Per piacere!”), per manifestare disappunto o fastidio, il valore di fine si perde del tutto, in favore della funzione esclamativa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Buongiorno,

cortesemente siete in grado di aiutarmi a scoprire se esiste un significato per il nome di una ragazza conosciuta giorni fa? Il nome è MAVILLA; secondo la ragazza significa ‘prediletta’.

 

RISPOSTA:

Mavilla è un cognome italiano, piuttosto raro (ma comunque meno raro del nome proprio), presente soprattutto in provincia di Ragusa e in provincia di Parma. Potrebbe rientrare nel gruppo dei cognomi derivanti da toponimi, di varia origine, composti con villa ‘fattoria, tenuta di campagna’ oppure ‘città’ (nei derivati francesi). Ve ne sono con villa nella seconda parte (AltavillaBiancavillaFrancavilla…) o nella prima (VillanovaVillarosaVillasanta…). Per quanto riguarda il costituente Ma-, troppo facile sarebbe l’identificazione con l’aggettivo francese ma ‘mia’, che darebbe a Mavilla il significato complessivo di ‘la mia città’ (ma ville); in alternativa si può pensare che Ma- sia una deformazione di un costituente originariamente più lungo, che, però, non sono in grado di ipotizzare.
Proprio la difficoltà a identificare l’origine del primo costituente (ma anche il fatto che non risultano città, villaggi o contrade con questo nome) fa pensare che Mavilla non sia da accostare ai cognomi/toponimi con base villa, ma sia, bensì, un’altra delle tante varianti di un cognome molto diffuso in tutta Italia, MabiliaMobiliMobiliaMobilio, attestato fin dal Medioevo come nome proprio di donna, nella forma Mobilia (la o al posto della a può essere l’esito di una dissimilazione provocata dalla vocale finale), e plausibilmente evoluzione del nome latino *AMABILIA, legato all’aggettivo AMABILEM ‘amabile, degno di essere amato’ (vicino al significato supposto di ‘prediletta’). Non ho trovato attestazioni di AMABILIA nel mondo romano antico, ma l’esistenza di Mobilia giustifica l’ipotesi che esistesse un antenato AMABILIA, da cui, con una trafila diversa rispetto a quella che ha prodotto Mobilia, si è sviluppato Mavilla.
L’evoluzione da AMABILIA a Mavilla si spiega con una serie di passaggi: la caduta (aferesi) della vocale iniziale, provocata dalla confusione con la vocale finale delle parole precedenti (casi come cara Amabilia, che si pronuncia caramabilia, hanno prodotto alla lunga cara Mabilia); la spirantizzazione della labiale intervocalica (ovvero la trasformazione della [b], quando si trova tra due vocali, in [v]), come in habere > averedebere > doverecaballum > cavallo). La terminazione -lla invece che -lia (come in Mobilia), infine, può essere stata indotta dall’analogia con il suffisso -illa di altri nomi femminili antichi come CommodillaDomitillaPriscilla, forse rafforzata dalla somiglianza con il suffisso -ella, tipico, per varie ragioni, dei nomi femminili (AntonellaGabriella, Gisella…). Anche Mavilia è, comunque, attestato, soprattutto in Veneto.
Per quanto io parteggi per quest’ultima etimologia, riporto anche una terza possibilità, registrata dal dizionario I nomi di persona in Italia, di Alda Rossebastiano e Elena Papa (UTET, 2005): Mavilla potrebbe essere, secondo questa opzione, una variante del nome non latino (dal significato oscuro) Mavilo, legato, tra l’altro, a un martire cristiano del secondo secolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Maria è più bella oggi di ieri” abbiamo ugualmente un comparativo di maggioranza? Cioè, in questo caso, quali sono i termini di paragone?
Anche la frase “Ha bisogno di più entusiasmo” si può considerare un comparativo? 

 

RISPOSTA:

Nella frase “Maria è più bella oggi di ieri” la comparazione si instaura tra i due avverbi oggi e ieri. Si tratta, a ben vedere, di una costruzione sintetica, che consente di evitare una ripetizione: la frase completa (ma ridondante) sarebbe, infatti, “Maria è più bella oggi di quanto era bella ieri”. Questa espansione ci mostra che i due termini di paragone sono, in realtà, le due proposizioni che formano la frase: la principale “Maria è più bella oggi”, e la subordinata, detta comparativa di maggioranza, “di quanto era bella ieri”. Aggiungo che questa subordinata ammette anche il congiuntivo (“di quanto fosse bella ieri”), come soluzione più formale ed elegante.
La frase “Ha bisogno di più entusiasmo” presenta una situazione simile: il secondo termine di paragone, sottinteso, è riconoscibile in una proposizione come “di quanto ne abbia adesso”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da qualche tempo ho scoperto l’esistenza della parola tendostruttura per indicare ciò che io ho sinora denominato con il termine tensostruttura. Mi dareste una mano a definire l’esistenza di eventuali differenze tra le due espressioni? Oppure possono forse essere utilizzate in modo equivalente?

 

RISPOSTA:

Tensostruttura è presente nel dizionario dell’uso GRADIT (a cura di Tullio De Mauro), che data la sua prima attestazione al 1974; tendostruttura, invece, non è registrata. Entrambe le parole, però, risultano oggi usate in ambito industriale, con una precisa distinzione di significato: la tensostruttura, infatti, è un complesso di tessuti e cavi che rimangono in piedi in virtù della tensione (come suggerisce il prefissoide tenso-); la tendostruttura è un tendone temporaneo, che può assumere forme diverse, costruito con uno scheletro di travi su cui viene appoggiato e fissato un telone. Una spiegazione estesa della differenza tra i due tipi di costruzione si può trovare qui: https://www.macotechnology.com/design/tensostrutture-o-tendostrutture-due-universi-differenti/.
Dal punto di vista strettamente linguistico, il rapporto tra le due parole è tutto da indagare; visto che tendostruttura non è ancora registrata nei dizionari, è plausibile che sia stata modellata, in tempo molto recenti, su tensostruttura per designare quella specifica costruzione, simile alla tensostruttura, eppure con caratteristiche proprie. Non a caso, infatti, il prefissoide (ovvero prefisso con un preciso contenuto semantico) tenso- è più produttivo (tensocettoretensocorrosionetensorecettore…) rispetto a tendo-, che ha prodotto, prima di tendostruttura, solamente tendopoli (ovviamente non vanno considerati i tecnicismi medici relativi ai tendini tendosinovialetendosinovite e tendovaginite).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Questa è una giornata da sogno”, da sogno è complemento di qualità? Può trovarsi un complemento dopo il predicato nominale?
Invece nella frase: “Questa è una giornata da dimenticare”, da dimenticare è una proposizione finale o consecutiva?

 

RISPOSTA:

Se la frase fosse “Questa giornata è da sogno”, da sogno sarebbe parte nominale. Coerentemente, nella sua frase, una giornata da sogno deve essere considerato tutto parte nominale (come se dicessimo una giornata meravigliosa, o splendida, o simili).
Non sono molti i complementi che si possono agganciare al nome del predicato; un complemento che si può trovare in questa posizione è quello di specificazione: “Luca è appassionato di corse”. Più comune è, invece, l’ampliamento del nome del predicato tramite una proposizione relativa, come quella da lei presentata nella sua seconda frase: da dimenticare, infatti, corrisponde a ‘che deve essere dimenticata’, una forma di proposizione relativa implicita con un senso di obbligo (tecnicamente deontico). Con questo costrutto, formato dalla preposizione da + l’infinito, l’italiano recupera una forma verbale-nominale latina scomparsa, il gerundivo, di cui abbiamo conservato solamente qualche relitto nominalizzato: laureando ‘che si deve laureare’, agenda ‘ cose che devono essere fatte, cose da farsi’, nubendo ‘che si deve sposare’, reprimenda ‘cose che devono essere represse, cose da reprimere’ ecc.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Questo vino è per intenditori” origina un complemento di limitazione, oppure si tratta di un complemento di vantaggio? Forse le etichette dei complementi anche in questi casi non possono soddisfare del tutto.

 

RISPOSTA:

Più volte abbiamo lamentato l’inadeguatezza delle categorie dell’analisi logica per spiegare le relazioni sintagmatiche, e soprattutto per spiegare come usarle per comporre il testo in modo chiaro ed efficace. Detto questo, però, cerchiamo di usare al meglio questo quadro interpretativo, ancora dominante nella scuola.

Nessuno dei complementi da lei ipotizzati calza con questo caso. Se considerassimo per intenditori complemento di limitazione la frase significherebbe che il vino esiste solamente per quanto è a conoscenza degli intenditori, qualcosa come “Per gli intenditori, questo vino esiste” (e si noti che senza l’articolo gli davanti a intenditori non è proprio possibile formulare questa ipotesi. Se lo considerassimo complemento di vantaggio avremmo come conseguenza che il vino sarebbe a vantaggio degli intenditori; una bizzarria logica. L’assenza dell’articolo, inoltre, rende difficile anche questa interpretazione._x000D_nBisogna rilevare, invece, che per intenditori equivale a un aggettivo (raffinato ,sofisticato ,complesso o simili): il sintagma va, pertanto, equiparato a un nome del predicato, che, insieme al verbo essere in funzione di copula, forma un predicato nominale. L’assenza dell’articolo davanti a intenditori suggerisce proprio che l’espressione si sia cristallizzata, cioè sia diventata un tutt’uno, quasi una singola parola (i linguisti chiamano queste parole fatte di più parole unità polirematiche ).

Se invece di per intenditori avessimo per gli intenditori, il sintagma sarebbe meglio descritto come complemento di fine, come se la frase significasse ‘questo vino è fatto per essere apprezzato dagli intenditori (e probabilmente solo da loro)’.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Lascialo stare” si può analizzare nel seguente modo:
Tu: soggetto sottinteso;
lascia stare: predicato verbale;
lo: complemento di termine?

 

RISPOSTA:

La costruzione fare oppure lasciare + infinito è detta causativa (e i due verbi sono detti causativi o fattitivi). Tale costruzione comporta che ci siano due agenti coinvolti, uno (che possiamo chiamare iniziatore) che induce l’altro (che possiamo chiamare esecutore) a fare qualcosa. Sebbene la costruzione sia composta di due verbi, essa si comporta come un tutt’uno e va, pertanto, considerata come un’unica proposizione. La prova di questo è nella posizione presa dal pronome clitico che rappresenta l’oggetto del secondo verbo; in una frase come “Faglielo dire”, ad esempio, lo si riferisce all’oggetto del verbo dire, ma, come si vede, si unisce al verbo causativo.
Analizzare costrutti come questo con le categorie dell’analisi logica è difficile, perché il complemento oggetto del primo verbo è allo stesso tempo il soggetto del secondo. Nel suo esempio, ad esempio, lo è il complemento oggetto (non il complemento di termine) di lascia, ma anche il soggetto di stare. Se vogliamo rimanere entro i limiti dell’analisi logica, dobbiamo ignorare questo fatto e considerare lo semplicemente complemento oggetto.
La sua confusione tra complemento oggetto e complemento di termine non è casuale. Quando sia l’esecutore sia l’oggetto del secondo verbo sono espressi, infatti (nel suo caso non sarebbe comunque possibile perché stare non può reggere un complemento oggetto), il primo si costruisce con la preposizione a, come se fosse un complemento di termine (sebbene tecnicamente non lo sia), per distinguerlo dal secondo: si confronti, ad esempio “Lascia vincere Luca” con “Lascia vincere a Luca la partita”.
Per un approfondimento, rimando sia alle altre risposte sull’argomento presenti nell’archivio di DICO (basta inserire il termine causativ* nel campo search) sia all’ottimo articolo di Raffaele Simone nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, consultabile a questo indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/costruzione-causativa_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Il mondiale più tecnologico di sempre”, essendo presente sempre, siamo di fronte ad un superlativo relativo? Non credo sia un comparativo.
Un cordiale saluto. 

 

RISPOSTA:

Il più tecnologico è il grado superlativo relativo dell’aggettivo tecnologicoDi sempre rappresenta l’insieme in relazione al quale opera il superlativo (che per questo si chiama relativo). Possiamo dire che di sempre semplifica un’espressione come “di quelli giocati finora”. Questo costituente sintattico che completa il superlativo relativo viene comunemente associato al complemento partitivo, perché indica la totalità rispetto alla quale l’oggetto qualificato al superlativo emerge come parte.
Un comparativo di maggioranza, invece, si costruisce senza l’articolo determinativo prima di più e richiede un secondo termine di paragone (detto anche complemento di paragone): “Il mondiale di quest’anno è più tecnologico di quello dell’anno scorso”. Come si vede, di quello dell’anno scorso non rappresenta un insieme di cui fa parte l’oggetto qualificato (e rispetto al quale l’oggetto spicca per una qualità superlativa), ma è un oggetto confrontabile con il primo.
Va detto che il superlativo relativo ha senso solamente se ci sono almeno tre elementi in gioco, con uno che emerge sugli altri due. Se, invece, la qualità superlativa è in relazione a un altro solo oggetto, il superlativo finisce per coincidere con un comparativo di maggioranza. Quindi in “Ho tre figli: il maggiore si chiama Luca” abbiamo un superlativo relativo; in “Ho due figli: il maggiore si chiama Luca” abbiamo un comparativo di maggioranza. Per questo motivo, se manca l’insieme (esplicito o inferibile dal contesto) in relazione al quale la qualità posseduta dal soggetto è superlativa, non è possibile decidere se si tratti di un superlativo o un comparativo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “per essere grande di età, sembra più giovane”; ” per essere grande di età “, si può considerare complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

Dato che, nella frase in questione, per regge un verbo, di modo infinito, non si tratta di un complemento, bensì di una proposizione subordinata implicita, in questo caso una concessiva. Infatti, come corrispettivo esplicito, basterebbe pensare a un esempio del genere: “sebbene sia grande di età, sembra più giovane”. Un altro uso simile di per introduttore di concessiva, stavolta esplicita, è il seguente: “per grande che sia di età, sembra più giovane”. Per può introdurre anche le subordinate limitative implicite, ma con altro valore semantico. Per es.: “per essere grande, è grande”. La differenza semantica tra la limitativa e la concessiva è evidente dagli esempi citati: nella limitativa, la principale conferma l’ambito della subordinata (un equivalente, più o meno, con un complemento di limitazione sarebbe il seguente: “quanto all’età, è grande”), mentre, nella concessiva, la principale è in certo qual modo controfattuale rispetto alla subordinata, cioè la smentisce (un equivalente con un complemento sarebbe il seguente: “nonostante l’età elevata, sembra più giovane”).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

“Nel 2012, all’età di 25 anni, era sposato con la donna dei suoi sogni, aveva un ottimo lavoro e una bella casa”.
Mi chiedo: nell’esempio citato, l’imperfetto ha valore narrativo (storico)?
Sia in caso di risposta positiva che negativa, è corretto dire che, senza un contesto più ampio, non si può interpretare la frase in senso univoco, ossia non siamo certi se il soggetto sia ancora sposato, abbia ancora un ottimo lavoro e una bella casa?

 

RISPOSTA:

Gli imperfetti della frase hanno il valore tipico dell’imperfetto, ovvero designano situazioni continuate nel passato. L’imperfetto narrativo, al contrario, è usato in luogo del passato puntuale (passato prossimo o remoto), oppure con verbi che per la loro semantica non ammetterebbero l’aspetto durativo o abituale. Nella seguente frase troviamo un esempio per entrambi i casi: “A 19 anni veniva accolto a Londra come una star, a 22 moriva ucciso dall’abuso di alcol” (repubblica.it, 2011). Come si vede, l’azione dell’accogliere nella frase non è durativa, perché avviene in un momento puntuale (è durativa, o meglio abituale, in una frase come “Gli antichi greci accoglievano i viandanti come persone di famiglia”); il morire, poi, non può essere mai un processo durativo. L’imperfetto narrativo è anche tipico dei verbali di polizia: “Il soggetto si introduceva nell’appartamento e asportava oggetti di valore”.
L’effetto dell’imperfetto narrativo è quello di dilatare l’azione puntuale, dando l’impressione che si sia protratta nel tempo; di conseguenza, avvicina anche l’azione al momento dell’enunciazione, rendendola, quindi, più vivida.
Per quanto riguarda la seconda domanda, è vero che la formulazione della frase non consente di stabilire se la situazione descritta sia ancora valida; il tempo passato, però, suggerisce fortemente che non sia così.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gent.mo DICO,

nella frase “Che  vuoi?”, il pronome interrogativo che svolge la funzione di soggetto. Se dovessi scrivere “Tu che vuoi?” diventa ridondante tu? Oppure cambiano le funzioni nella frase di che?
Un cordiale saluto!

 

RISPOSTA:

Nella sua frase il pronome che funge da complemento oggetto, sia che il soggetto sia espresso, sia che sia implicito. Per interpretarlo correttamente, basterebbe immaginare la risposta alla domanda:
– Che vuoi (tu)?
– (Io) voglio un pallone nuovo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Salve, vorrei sapere se nell’espressione “La scuola è ricominciata” il verbo essere più il participio formano un predicato nominale. Inoltre chiedo: come faccio a capire in modo chiaro quando il participio ha funzione aggettivale o forma, insieme al verbo un predicato verbale?

 

RISPOSTA:

Nella sua frase il verbo è ricominciata è da interpretarsi come predicato verbale, perché esprime il risultato di un processo, come se dicesse ‘la scuola ha concluso il processo di riapertura’, ovvero ‘la scuola ha riaperto’. La funzione verbale del participio è predominante ma non netta in questo caso: è sempre possibile, infatti, ma un po’ forzato, interpretare la frase come ‘la scuola si trova nello stato di essere ricominciata’. Insomma, ricominciata sarebbe identificabile come aggettivo, quindi come parte nominale di un predicato (nominale, appunto), se esprimesse una caratteristica, anche circostanziale, della scuola.
È più facile distinguere tra la funzione nominale-aggettivale e quella verbale del participio con i verbi transitivi, perché ammettono il complemento di agente/causa efficiente. Per esempio, in “Lucia ha i capelli mossi” mossi è un aggettivo e ha la funzione di complemento predicativo, mentre in “Lucia ha i capelli mossi dal vento” si coglie distintamente, grazie al complemento di causa efficiente, la natura verbale del participio. In questo caso, infatti, “mossi dal vento” va interpretata come proposizione relativa implicita, come se fosse ‘che sono mossi dal vento’. Allo stesso modo, in “Il mare è mosso oggi” è mosso è predicato nominale; in “Il mare è mosso dalle onde” è mosso è predicato verbale. Attenzione: se dicessi “Il mare è mosso a causa delle onde”, mosso rimarrebbe comunque aggettivo.
Oltre alla presenza del complemento di agente/causa efficiente, si può stabilire se un participio è più nominale o più verbale provando a sostituire il verbo essere con venire: “Il mare è mosso dalle onde” può ben essere costruita come “Il mare viene mosso dalle onde”, mentre “Il mare è mosso oggi” non funziona bene come “Il mare viene mosso oggi”. Il verbo venire, cioè, rende obbligatoria l’interpretazione del participio come verbale, quindi se dicessi “Il mare viene mosso oggi” implicherei che c’è un agente che lo muove, anche se non lo sto esplicitando. Così “La casa viene abbandonata in questo momento” non lascia dubbi sul fatto che si tratti di un processo in corso (quindi viene abbandonata è un predicato verbale), mentre “La casa è abbandonata in questo momento” può essere interpretata esattamente come la versione con viene, ma anche come ‘La casa si trova in stato di abbandono in questo momento’ quindi è abbandonata può essere tanto predicato verbale quanto nominale.
Come detto, i verbi intransitivi sono più opachi da questo punto di vista: pur senza escludere la fumosità del limite tra verbale e nominale nella natura del participio, però, è sempre possibile, con un’attenta analisi, almeno propendere per l’una o per l’altra funzione. Per aggiungere un altro esempio al suo, si veda questo: “Luca è un creativo: è andato all’accademia d’arte” indica che il soggetto ha compiuto l’azione di andare (è parafrasabile con “Luca ha frequentato l’accademia d’arte”); “Luca è un creativo: è andato di testa” indica che il soggetto si trova in un certo stato (è parafrasabile con “Luca è matto”).
A margine, visto che domande su questo argomento sono già state poste a DICO, le consiglio di leggerle, con le relative risposte, nel nostro archivio, cercando “participio”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Gentili professori/staff di DICO, stavo trascrivendo una poesia degli inizi del Seicento dedicata alla decollazione di San Giovanni Battista. Volevo chiedere se la presenza o assenza della virgola al verso 2, dopo essangue, dia un senso diverso ai versi. “Che muto e freddo langue” si riferisce al precursore di Cristo (il Battista) o al capo esangue?

Prima versione
1 Ecco del precursore
2 Di Christo il capo essangue,
3 Che muto e freddo langue;

Seconda versione
1 Ecco del precursore
2 Di Christo il capo essangue
3 Che muto e freddo langue;

 

RISPOSTA:

Nell’italiano contemporaneo la virgola prima della proposizione relativa ha un peso importante: segnala se la proposizione sia da interpretare come limitativa o come esplicativa. La limitativa non vuole la virgola e contiene un’informazione necessaria per definire il suo referente, che si trova nella reggente; l’esplicativa, invece, separata dalla reggente dalla virgola, contiene un’informazione accessoria sul referente. Prendendo spunto dal suo caso, “ecco il capo esangue che langue” mette in evidenza, insieme al capo, la circostanza in cui questo si trova, ovvero il fatto che sia inerte; “ecco il capo esangue, che langue”, invece, indirizza l’attenzione sul capo esangue, aggiungendo solo in un secondo momento l’informazione della circostanza in cui si trova. In entrambi i casi, comunque, non ci sono dubbi sul fatto che il referente del relativo sia il capo e non del precursore.
La distinzione tra i due tipi di relativa, ripeto, vale per l’italiano contemporaneo; fino a metà Novecento non era così netta. Se andiamo indietro nel tempo, poi, addirittura al Seicento, non possiamo contare sui segni di interpunzione per arrischiare interpretazioni sottili sul senso dei testi, perché i segni erano usati con una certa libertà, e soprattutto con forti differenze stilistiche da autore ad autore. Per i testi antichi, inoltre, c’è il problema della tradizione da considerare: prima di scegliere se mettere o no una virgola dobbiamo accertarci che quella fosse davvero l’intenzione dell’autore, e non una scelta, o un errore, di un copista o di un tipografo invadente o poco attento. Raramente possiamo avere la certezza per dettagli così minuti come le virgole, e ci dobbiamo affidare a congetture o ai testimoni più affidabili. A maggior ragione, quindi, dobbiamo resistere alla tentazione di attribuire significati specifici a questi tratti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Si dice: i cupcakes o i cupcakei muffins o i muffinle coca-cola o le coca-cole?

 

RISPOSTA:

I forestierismi non adattati (cioè che mantengono la forma originaria) sono invariabili, quindi il plurale è uguale al singolare. Non può che essere così, perché i prestiti entrano nel sistema dell’italiano come parole singole, senza derivati. Sarebbe antieconomico, del resto, accogliere il meccanismo di formazione del plurale delle decine di lingue da cui l’italiano ha prelevato prestiti. Ad esempio, quale sarebbe il plurale di burqa o krapfen?

All’abitudine di lasciare i forestierismi non adattati invariabili si oppongono poche eccezioni. Tra queste, le più comuni sono le seguenti (ma si badi: nessuna è obbligatoria, il plurale invariabile è sempre corretto e in alcuni casi il plurale variabile è sulla soglia dell’errore): il plurale di curriculum è spesso curricula (diversamente dagli altri nomi latini che finiscono in –um, ultimatum, referendum, quantum…);il tedesco lied ha di norma il plurale originario li eder; lo spagnolo pueblo preferisce pueblos; i prestiti che finiscono in vocale (e qui torniamo a coca-cola) possono essere percepiti come adattati e quindi funzionare come le parole italiane, quindi gazebo/gazebi (accettato anche dai dizionari) e coca-cola /coca-cole (comune ma da non preferire).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La frase “Non potrà suonare più”, oppure “non ti bacerà più” indica sia la cessazione di qualcosa che prima accadeva sia un fatto che non si verificherà per la prima volta? Cioè è una frase da contestualizzare?

 

RISPOSTA:

Normalmente, tra le funzioni di più c’è quella di indicare, in correlazione con una negazione, la cessazione di un’azione; usando i suoi esempi, quindi, “Non potrà suonare più” può essere riferito a un musicista che si è rotto due dita, mentre “Non ti bacerà più” a una persona che è stata lasciata da un fidanzato e quindi in futuro non riceverà da lui i baci che riceveva in passato. In questi casi, più prende il significato di ‘più a lungo’, quindi ‘ancora’; non a caso, in inglese questa funzione è spesso svolta dalla perifrasi (no) longer, che significa letteralmente ‘(non) più a lungo’: “I will not serve that in which I no longer believe” (‘Non servirò più ciò in cui non credo più’) scrive James Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man.
La funzione di più ‘ancora’, inoltre, opera per la massa, oltre che per il tempo, in frasi come “Non ne voglio più”, ovvero ‘Non voglio una quantità maggiore di ciò’.
Tornando alla dimensione del tempo, più può facilmente essere usato in riferimento ad azioni che non si sono ancora verificate, ma erano state programmate; quindi “Non potrà suonare più” può anche essere riferito a un musicista che avrebbe dovuto esibirsi in un concerto ma ha avuto un incidente. In questo caso la frase è parafrasabile come ‘Non potrà dare seguito alla preventivata azione di suonare’. Lo stesso vale per “Non ti bacerà più”, che può riferirsi a qualcuno che era pronto a impegnarsi in una relazione amorosa e ha cambiato idea prima che questa iniziasse, quindi ‘Non darà seguito alla preventivata azione del baciare’. Quest’uso estensivo di più è da considerarsi meno formale di quello descritto sopra (e infatti è più comune in comunicazioni informali); si può trovare anche in frasi al passato come “Sei più andato a Parigi?” nel senso di ‘Hai poi dato seguito alla preventivata azione di andare a Parigi?’.
In conclusione, come sempre quando è possibile una doppia interpretazione, è meglio contestualizzare l’enunciato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Cadendo dal tavolo la penna ha macchiato il tappeto”: nell’analisi del periodo,”cadendo dal tavolo” è una subordinata modale o strumentale?

 

RISPOSTA:

Il gerundio dipendente può assumere molte funzioni, tra le quali quella modale e quella strumentale sono le più comuni. Questo modo verbale, però, sfugge a una interpretazione univoca: quasi sempre assomma in sé contemporaneamente almeno due funzioni.
Come si evince dal nome, quando ha funzione modale, il gerundio rappresenta la trasposizione verbale di un complemento di modo: “Mi venne incontro sorridendo” (‘… con un sorriso’); quando ha funzione strumentale, invece, il gerundio ricalca un complemento di mezzo: “Mi sono fatto largo tra la folla sgomitando” (‘… per mezzo dello sgomitare’).
Può capitare che le due funzioni siano compresenti nello stesso gerundio; in questo caso si dice che esso ha funzione modale-strumentale: “Mentre il sindaco, Gianni Alemanno, stava parlando dal palco, un gruppo di ragazzi ha iniziato a contestarlo denunciando il mancato coinvolgimento dei comitati di quartiere” (repubblica.it, 2011) (‘…per mezzo della denuncia…’, ma anche ‘… con un atteggiamento di denuncia…’).
Come si può vedere dagli esempi, infine, nel gerundio modale è spesso presente una sfumatura temporale: “Mi venne incontro sorridendo” può anche essere parafrasato con ‘Mi venne incontro mentre sorrideva’.
Venendo al suo caso, “Cadendo dal tavolo” si potrebbe interpretare come strumentale, non modale (‘con la / attraverso la / per mezzo della caduta dal tavolo…’). Più convincente, però, mi sembra l’interpretazione causale, con una sfumatura temporale: ‘A causa del fatto che è caduta dal tavolo…’, ma anche ‘Dopo che è caduta dal tavolo…’. Questo gerundio rappresenta, se vogliamo, quella che in latino era una proposizione narrativa (quella costruita con cum + congiuntivo).
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non ha hobby, fuorché andare a ballare”. A ballare va analizzato insieme ad andare o sono separati? Nel caso in cui andassero analizzati separatamente, a ballare è una proposizione finale?

 

RISPOSTA:

“A ballare” è una proposizione finale, subordinata alla reggente, nella quale figura il verbo andare. Diversamente, l’infinito non sarebbe stato da considerare una proposizione a sé stante se fosse stato parte della perifrasi andare a + infinito, come nell’espressione piuttosto comune “andare a vivere insieme”. In tale perifrasi, il verbo andare perde il suo significato proprio di ‘dirigersi in un luogo’ e assume un valore temporale-aspettuale: conferisce, cioè, al verbo all’infinito una sfumatura relativa alla fase di realizzazione dell’azione da esso espressa. Quale sia questa fase è chiaro: la formula “andare a vivere insieme”, infatti, significa ‘stare per cominciare la convivenza’; la fase, dunque, è quella appena precedente alla realizzazione. Lo stesso vale per la frase fatta “andare a finire”: “Lo sapevo che andava a finire male” significa ‘… che stava per finire male’.
La perifrasi può anche essere imperativa: “Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile” (Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, 1974, p. 110). L’imperativo impedisce l’interpretazione temporale-aspettuale (sarebbe come dire *’stiate sul punto di spiegarlo’) e induce, invece, a interpretare l’espressione come ‘provate a spiegare…’. Questa interpretazione opera anche nell’espressione vattelappesca, ovvero ‘vattelo a pescare’, quindi ‘prova a pescartelo’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Non so come possa ricompensarti per tutto ciò che hai fatto per me”. “Che hai fatto per me”, nell’analisi del periodo, è una subordinata relativa o dichiarativa? Non riesco a capirlo. Grazie in anticipo.

 

RISPOSTA:

La proposizione è relativa. Che è pronome relativo e ciò ne rappresenta l’antecedente. Sarebbe stata una dichiarativa se che fosse stata una congiunzione, collegata al verbo della reggente, non a un pronome: “Non posso tollerare ciò: che tu mi manchi di rispetto”. Più comune di ciò, come pronome che anticipa una dichiarativa, è questo : “Nel rapporto con il mostro, essenziale è innanzitutto questo: che il mostro possiede o protegge o addirittura è il tesoro” (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, 1989, p. 382).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il passato remoto “poté” anziché il congiuntivo imperfetto “potesse”. Lo ritenete corretto o comunque preferibile?

“…Forse tutti quanti, però,
abbiamo escluso o non abbiamo mai desiderato
che Gesù, violento nel riempire di se stesso
ma delicato nel doversi vergognare del seme di Giuseppe,
a braccia aperte sulla croce,
non poté piangere il dolore per quelli che restavano”.

 

RISPOSTA:

In dipendenza da “escludere che” e “desiderare che” l’italiano standard prescrive il congiuntivo: dunque la scelta sarebbe dovuta essere “potesse”, e non “poté”, che è decisamente più informale. Inoltre, se mi posso permettere, l’intero periodo sembra intricato al limite dell’incoerenza (forse voluta, me ne rendo conto, più che per licenza poetica, per i noti paradossi teologici connessi con la figura cristologica). Capisce bene, tuttavia, che l’italiano ha le sue ragioni, non necessariamente coincidenti con quelle della poesia, del cuore, della fede…
A rendere intricata la sintassi è la doppia negazione: “non abbiamo mai desiderato che non potesse piangere”. Quindi: abbiamo desiderato che potesse piangere, giusto? E non sarebbe stato più chiaro?
Inoltre, mettere sullo stesso piano, come coordinate, “abbiamo escluso” e “non abbiamo mai desiderato” rende difficile al lettore il compito della decodificazione. Lei mi dirà che compito della poesia non è quello di essere chiara. Ha ragione, ma forse a volte un po’ di chiarezza e di logica in più non guasterebbero. Si incontrerebbe (e convincerebbe, forse) un numero superiore di persone.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere chiarimenti sull’uso dell’imperfetto. Propongo alcune situazioni a titolo esemplificativo.

1. Sei ingrassato.
2. Mangiavo come un lupo.

(Usando un imperfetto, ritengo che il mio interlocutore capisca che mi riferisco ad un momento particolare del passato oramai concluso – ad esempio, durante le vacanze – e che ora sono tornato a mangiare con più moderazione. Tuttavia mi chiedo se sia necessario fornire un contesto più ampio per giungere alla conclusione da me prospettata. Me lo chiedo perché normalmente l’imperfetto si concentra più sull’aspetto dell’azione / situazione che non sulla sua conclusione o interruzione.)

La giornata era bella, splendeva il sole, ma faceva freddo.

(Pensate che un qualunque parlante italiano interpreterà questa frase in senso univoco, anche in mancanza di contesto? Ossia capirà che si tratta di una giornata qualunque del passato, con momenti conclusisi in quel passato vicino o lontano?)

Mio figlio faceva sempre colazione con pane e burro.

(Si tratta, in questo caso, di un’abitudine risalente al passato ed interrotta, anche se il parlante non ha sentito la necessità di specificare il momento dell’interruzione?)

Mi hanno detto che eri [ma anche: “che sei”] qui e sono venuto.

(E’ coretto dire che in questo caso l’imperfetto non esprime un evento passato ma una situazione che perdura ancora al presente? Infatti l’imperfetto potrebbe essere sostituito dal presente. Si tratta delle cosiddette “frasi completive”?)

1. Mi hanno detto che eri sposato con un’americana.
2. Sì, e lo sono ancora.

(Mi chiedo: se la persona a cui mi rivolto risponde “Sì, e lo sono ancora”, significa che ha percepito dal tono di voce leggermente ascendente sulla secondaria la mia convinzione che non lo fosse più? Altrimenti mi sarei espresso usando il presente: “Mi hanno detto che sei sposato con un’americana”.)

 

RISPOSTA:

La risposta al primo dubbio sull’imperfetto è sì: “Mangiavo come un lupo” è chiaramente un’azione passata; è vero, infatti, che l’imperfetto indichi un’azione durativa, o reiterata, ma pur sempre nel passato. Questo vale quando, come nel suo caso, l’imperfetto abbia valore temporale. Va detto, però, che nell’italiano colloquiale l’imperfetto può avere anche valore modale (funzionare, cioè, come un modo), non temporale, ed essere pertanto svincolato dal riferimento al passato: può rappresentare, ad esempio, un’azione presente come forma di cortesia: “Volevo chiederti un favore”; oppure addirittura un’azione futura, nel caso questa sia stata già decisa: “Te l’ho detto che domani andavo a fare la spesa”.
Anche nel secondo e nel terzo esempio (“La giornata era bella, splendeva il sole, ma faceva freddo” e “Mio figlio faceva sempre colazione con pane e burro”) l’imperfetto ha valore temporale, quindi rappresenta situazioni passate. A proposito di “La giornata era bella…”, aggiungo che la giornata in questione non è una giornata qualunque: l’articolo determinativo, infatti, indica che il parlante ha già introdotto questo tema nel discorso o pensa che l’interlocutore possa recuperarlo nella sua memoria.
Per quanto riguarda “Mi hanno detto che eri [ma anche: “che sei”] qui e sono venuto”, la proposizione “che eri qui” è effettivamente una completiva, e più precisamente una oggettiva (rappresenta il complemento oggetto espanso del verbo dire). Diversamente dagli esempi precedenti, quindi, l’imperfetto si trova in una proposizione dipendente: sostanzialmente, però, la situazione non cambia, perché quando la completiva è all’indicativo la scelta del tempo è scarsamente vincolata alla consecutio temporum. La versione con l’imperfetto rientra nei casi visti sopra: anche qui l’imperfetto indica un’azione durativa nel passato; la versione con il presente, invece, è impossibile, non per il tempo verbale (posso dire, infatti, “Mi hanno detto che sei bravo a cucinare e sono venuto a provare la tua pasta alla carbonara”), ma per il senso generale della frase: una volta vista una persona è illogico ribadire che questa sia nel luogo dove è. Prendiamo un esempio possibile anche al presente: “Mi hanno detto che sei bravo a cucinare e sono venuto a provare la tua pasta alla carbonara” indica sicuramente che la bravura di cui si parla è presente; in questo caso la proposizione coordinata ha senso perché il parlante non può essere sicuro che l’informazione sia veritiera (diversamente dal suo esempio, nel quale il fatto stesso che la conversazione avvenga implica che l’informazione fosse veritiera). “Mi hanno detto che eri bravo a cucinare” indica, invece, che la bravura è venuta meno. In quest’ultima frase l’imperfetto può anche assumere una sfumatura ironica (che emergerebbe solo con una pronuncia ammiccante), come se si intendesse dire: “Mi hanno detto che eri bravo a cucinare e voglio vedere se lo sei ancora”. Anche così, comunque, l’imperfetto manterrebbe il suo valore temporale.
Infine, nell’ultimo esempio l’intonazione non cambia il senso della frase: in ogni caso l’imperfetto indica un’azione passata. In questo caso l’imperfetto potrebbe avere la funzione secondaria di veicolare una sfumatura di cortesia: se il parlante non fosse sicuro del perdurare del matrimonio, con l’imperfetto si metterebbe al riparo dalla brutta figura, come se dicesse: “Mi hanno detto che eri sposato con un americana, ma non sono sicuro che tu lo sia ancora”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Prima che il mio continuo correggere i miei genitori diventi la causa di conflitti a fuoco volevo che mi forniste una prova inconfutabile della correttezza dell’articolo i per il plurale di cioccolatino. È già abbastanza errato non riuscire facilmente a pronunciarlo senza triplicare la t, per non parlare del fatto che sento dire da anni
formule come lo cioccolato / lo cioccolatto la cioccolatta e simili aberrazioni. Anche in questi casi non mi dispiacerebbe poter eventualmente annoverare la vostra spiegazione come prova a mio favore in tribunale 😉

 

RISPOSTA:

L’articolo per cioccolatini è certamente iil cioccolatino / i cioccolatini. Allo stesso modo l’articolo indeterminativo è un. La propensione per *lo cioccolatino / *uno cioccolatino / *gli cioccolatini potrebbe derivare dalla pronuncia della affricata palatale iniziale come fricativa postalveolare, che avvicina cioccolatino a scioccolatino. La ricerca in rete di “lo cioccolatino” restituisce poche decine di risultati, tutte da fonti non autorevoli, commenti di utenti, pagine di social network, siti amatoriali e simili, a dimostrazione che l’oscillazione su questo punto della norma è trascurabile e *lo / uno cioccolatino / *gli cioccolatini sono da considerarsi substandard.
Leggermente più diffuso, soprattutto nel Sud Italia (appare qualche volta anche in Pirandello e Matilde Serao), è *cioccolattino/i, non registrato dal dizionario dell’uso GRADIT. Sebbene questa variante sia oggi esclusa dall’uso e da considerarsi substandard al pari di *lo cioccolatino, va detto a sua difesa che ha una formazione regolare (e non dimentichiamo le occorrenze letterarie). Deriva, infatti, dalle varianti di cioccolato con rafforzamento della consonante postonica intervocalica (un fenomeno tipico dell’italiano: si pensi a LEGEM > leggecioccolattocioccolatte e cioccolatta, normali nei secoli passati e ancora oggi esistenti (delle tre solamente cioccolatta non è registrata nel GRADIT). Il rafforzamento si spiega con l’etimo, che è lo spagnolo chocolate (a sua volta da una parola nahuatl), da cui si è sviluppato regolarmente l’adattamento cioccolatte e le altre due forme, analogiche dei nomi maschili in -o e dei femminili in -a. Probabilmente il francese chocolat ha, in seguito, prodotto cioccolato, che si è imposto sul concorrente più antico.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Sono corretti la seguente frase e il seguente uso di tempi verbali: “Avrei voluto essere lì…”?

 

RISPOSTA:

L’espressione è ben formata: ricordiamo, infatti, che con il verbo servile (volerepoteredovere) seguito dall’infinito del verbo essere l’ausiliare richiesto è avere. Con l’infinito degli altri verbi, invece, bisogna valutare il genere (transitivo o intransitivo):
1. I verbi intransitivi ammettono sia essere sia avere (sono dovuto andare / ho dovuto andare).
2. I verbi transitivi ammettono solamente avere (“ho dovuto fare la fila” / *”sono dovuto fare la fila”).
3. Se l’infinito è accompagnato da pronomi atoni, l’ausiliare è sempre essere con il pronome inserito prima dell’infinito (“Ne sono dovuto uscire subito” / *”Ne ho dovuto uscire subito”), anche con verbi transitivi (“Mi sono dovuto fare la fila” / *”Mi ho dovuto fare la fila”).
4. Con il pronome inserito dopo l’infinito bisogna valutare la relazione tra il pronome e il verbo:
4a. Se il verbo è pronominale (il pronome fa parte del verbo) l’ausiliare è sempre avere: “Ho dovuto farmi la fila” / *”Sono dovuto farmi la fila”, “Ho dovuto fingermi interessato” / *”Sono dovuto fingermi interessato”, “Ho voluto vederci chiaro” / *”Sono voluto vederci chiaro”.
4b. Se il pronome non fa parte del verbo, ma si aggiunge a esso, sono possibili entrambi gli ausiliari: “Sono dovuto uscirne subito” / “Ho dovuto uscirne subito”, “Non sono potuto andarci prima” / “Non ho potuto andarci prima”. Quest’ultimo caso, in pratica, coincide con il caso 1.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Verbo
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QUESITO:

Sto preparando un breve articolo per la rubrica di cultura locale di UniversoMe (il giornale gestito dagli studenti dell’Università) riguardo al ruolo di Messina nella storia della lingua italiana. Pensavo di trattare degli scrittori nati a Messina legati alla scuola siciliana e accennare al periodo messinese di Pietro Bembo. Altri suggerimenti? Grazie.

 

RISPOSTA:

Oltre ai riferimenti da lei ricordati, le suggerisco di nominare l’ignoto autore nascosto sotto lo pseudonimo Partenio Zanclaio che pubblicò nel 1647 il poemetto Cittadinus maccaronice metrificatus, un galateo in latino maccheronico con inserti in dialetto messinese, in napoletano, in italiano e in spagnolo. Inoltre grande importanza per la storia della lingua italiana a Messina riveste l’accademico dei Pericolanti settecentesco Pippo Romeo, che in una sua cicalata, intitolata I pregi dell’ignoranza (1800), simula questo dialogo con un amico, che difende il dialetto contro la “moda” di parlare italiano:

– Romeo) Chiunque ha fior di senno, ed è di mente sana…
– Amico) E in quale lingua reciti?
– In lingua italiana…
– Eccu lu primu erruri supra cui ti piscu;
Rispunnimi: in Girmania, si predica un tidiscu
a tutti ddi mustazzi in lingua missinisa,
tu non lu chiami pacciu? E non saria un’offisa,
anzi un insultu massimu a tutta la nazioni,
quannu la propria lingua pi’ un’estira pusponi?
[…]
– Ma non è tanta oscura
la lingua italiana: non si può diri estrania;
cc’è differenza massima chidda di la Girmania…

Infine una menzione merita Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme e autore di Horcynus Orca, romanzo scritto in una lingua che sfrutta materiale dialettale all’interno di un italiano personalissimo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se dicessi “Io penso che dio esiste”, convinto della sua esistenza, sarebbe corretto? Con verbi come penso e credo posso usare il presente indicativo se affermo ciò di cui non ho dubbi?

 

RISPOSTA:

L’indicativo nella proposizione oggettiva (“che Dio esiste”) è corretto, sebbene meno formale del congiuntivo (“che Dio esista”). La differenza tra indicativo e congiuntivo, in effetti, è soprattutto di natura diafasica, ovvero di maggiore o minore formalità: la sfumatura epistemica (relativa al grado di certezza dell’emittente sull’affermazione) veicolata dal congiuntivo in questa frase è, invece, impercettibile. Per un approfondimento sulla questione, la rimando a questa risposta data alla domanda di un altro utente.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’utilizzo del verbo incidere. Mi chiedo quale sia la forma corretta nel seguente esempio: “il provvedimento amministrativo incide negativamente sulla/nella/la sfera giuridica del privato”.

 

RISPOSTA:

La preposizione più comune con il verbo incidere è su, sia quando il verbo assume il significato di ‘influire profondamente’ (incidere sul carattere), sia quando prende quella specialistica del diritto di ‘gravare negativamente’ (incidere sul reddito). La ricerca di “incidere nella sfera” in Internet con il motore di ricerca Google mostra che l’espressione è piuttosto diffusa, ma solamente in ambito specialistico, mentre “incidere sulla sfera” è di gran lunga preferita nella lingua comune (“Fare l’amore allunga la vita e incide sulla sfera lavorativa”, titolo di un articolo del Giornale del 13 settembre 2015), con diversi esempi anche specialistici. La preferenza per la preposizione su è coerente con la semantica del verbo, che metaforizza una caduta su una superficie; ricordiamo, infatti, che l’etimologia del verbo è IN + CADERE ‘cadere su’. Nel suo caso specifico, poiché il complemento oggetto è rappresentato da un luogo figurato, o meglio ancora da un ambiente figurato, è naturale essere indotti a usare in, perché l’atto dell’incidere si configura, diversamente dal solito, come un ingresso nell’ambiente. 
In conclusione: entrambe le preposizioni sono corrette; tra le due, su è più comune e da preferire nella lingua comune, in è adatta, ma non obbligatoria, all’ambito specialistico.
Da scartare, invece, incidere la sfera, che è frutto della confusione tra i due omografi incidere ‘influire’ e incidere ‘intagliare’. Quest’ultimo, non il primo, regge il complemento oggetto (ad esempio incidere un disco…).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si dice: “Pensavo che Mario avrebbe vinto”, ma si può anche dire: “Pensavo che Mario vincesse”. Ora, io non ravviso nelle due forme una differenza sostanziale. A mio avviso hanno lo stesso significato. In ambedue le frasi s’intende che nonostante pensassi che Mario avesse le capacità per vincere, non ce l’ha fatta. Mi dica, per cortesia, se invece Lei ritiene che ci sia, tra le due frasi, una pur sottilissima differenza

 

DOMANDA:

Il suo dubbio è condiviso da molti utenti di DICO; può trovare una domanda molto simile alla sua, e la risposta, qui. In sintesi, entrambe le soluzioni sono corrette: la differenza, minima, risiede nel fatto che il condizionale passato esprime più nettamente la collocazione dell’evento nel futuro (rispetto al passato di pensavo), quindi fa riferimento al compimento dell’azione del vincere, mentre quella con il congiuntivo imperfetto si riferisce al processo del vincere, che si sviluppa contemporaneamente all’azione del pensare, pur con una sfumatura di anticipazione dell’esito finale.
Il fatto che la frase lasci intendere che l’evento pensato non si sia verificato, si badi, non dipende dalla costruzione della proposizione oggettiva, ma dal senso generale della frase: “Sapevo che Mario avrebbe vinto”, infatti, avrebbe un significato implicito opposto, pur mantenendo la stessa oggettiva. Non a caso, infine, *”Sapevo che Mario vincesse” non è accettabile: è contraddittorio, infatti, dichiarare di conoscere l’esito di un processo mentre sta accadendo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Qual è la frase giusta: “è nato un bambino ieri sera” oppure “ha nato un bambino ieri sera”?

 

DOMANDA:

L’ausiliare del verbo nascere è essere; quindi “è nato un bambino ieri sera”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se sia corretto scrivere extrafondente tutto attaccato e se in una frase del tipo “Per Pasqua ho ricevuto in regalo un uovo di cioccolato extrafondente” la parola extrafondente possa essere considerata come aggettivo qualificativo al grado superlativo assoluto.

 

RISPOSTA:

La grafia extrafondente è pienamente accolta, tanto da essere registrata nel dizionario dell’uso GRADIT. Basta fare una veloce ricerca on line, comunque, per vedere che le alternative extra-fondente e extra fondente sono diffuse tra gli scriventi (difficile stabilire quale sia la preferita). Sono tutte da considerarsi corrette, al pari di extra vergine e extra-amaro.
Questa variabilità grafica, del resto, è prevedibile, visto che i prefissi extra-megamaxi- e simili sono percepiti quasi come parole a sé stanti (possono essere annoverati, infatti, nella categoria degli affissoidi, e in particolare prefissoidi, morfemi a metà tra gli affissi e la parole a tutti gli effetti) e pertanto resistono all’univerbazione, cioè alla fusione con la parola base per formare una nuova parola. Solo quando la nuova parola è del tutto acclimata la grafia univerbata si stabilizza, come in extracomunitarioextraconiugaleextraparlamentare ecc.
Per quanto riguarda il grado dell’aggettivo, è sicuramente superlativo assoluto: i prefissoidi sopracitati rappresentano una alternativa, molto apprezzata nell’italiano contemporaneo, al suffisso -issimo o all’avverbio molto. Nel caso specifico dell’aggettivo fondente, il superlativo fondentissimo è al limite dell’accettabilità, perché la qualità definita dall’aggettivo non si può graduare, un po’ come per iniziale o motorizzatoExtrafondente, infatti, è nato in ambito pubblicitario, nel quale si fanno spesso forzature linguistiche, e si può dire solo della cioccolata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Stamattina ho consigliato per iscritto ad un collega di non sovrappore le immagini che mostra agli allievi. Ho scritto: “Non si deve sovrapporre le immagini…”. Poi ho avuto un dubbio: forse era meglio scrivere “Non si devono sovrappore le immagini…”.
Ora, vorrei chiedere al linguista: sono corrette entrambe le frasi? Oppure la prima è sbagliata?

 

DOMANDA:

Un quesito del tutto sovrapponibile a questo è stato già posto: può leggere qui.  
In breve, quando il verbo preceduto da si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione è assimilata a una frase passiva, nel suo caso “le immagini non devono essere sovrapposte”. Il verbo, pertanto, deve essere plurale.
Questo vale per l’italiano moderno, mentre in passato potevano esistere frasi come “Qui si serve bevande”. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno,  è corretto scrivere “…per parlare di una o più persone” anziché “… per parlare di una o di più persone” a conclusione di una frase, omettendo la seconda preposizione di? Potrebbe dirmi se c’è una regola a cui rifarsi?
Inoltre, posso scrivere “…senza cambiare una nota della tua e della mia voce” anziché “…della tua voce e della mia”, indicando il sostantivo alla fine? In questo caso, poi, è d’accordo sul fatto che la preposizione articolata della non può essere omessa prima del secondo membro, perché altrimenti si capirebbe che ci si riferisce a un’unica voce e non a non due separate (tua e mia)?
 
 

 

DOMANDA:

Nel caso di un unico elenco è preferibile omettere la preposizione, in virtù della presenza della congiunzione, che rende evidente il collegamento logico tra il primo (una) e il secondo membro (più persone) dell’elenco. Lo stesso vale se l’elenco è più lungo e i membri sono separati da virgole: “Parlare di una, due, tante persone”. 
La ripetizione della preposizione, al contrario, indica che i membri fanno parte di elenchi diversi: “Parlare di una o più persone, di uno o più parenti”. Per questo motivo, nel suo caso la ripetizione della preposizione indurrebbe a pensare che i due membri vadano considerati separatamente, ad esempio: “Parlare di una o di più persone non è la stessa cosa”.
Venendo alla seconda domanda, entrambe le costruzioni (“una nota della tua e della mia voce” e “una nota della tua voce e della mia”) sono corrette: la scelta tra le due dipenderà da sfumature semantiche, o anche dall’effetto sonoro, che risultano dalla diversa disposizione delle parole.
Per quanto riguarda la ripetizione della preposizione articolata, questa è necessaria per via dell’articolo, non della preposizione: l’articolo, infatti, non può mancare (tranne rari casi) davanti a un nome singolare che indica un oggetto determinato; dal momento che in questo caso l’articolo si trova unito alla preposizione, è naturale ripetere anche quella. Nel caso specifico, inoltre, la preposizione deve essere ripetuta anche per evitare un’ambiguità: “una nota della tua e la mia voce”, infatti, separerebbe da una parte una nota della tua (voce), e dall’altra la mia voce (senza nota).
In altri casi in cui non si crea ambiguità è sempre possibile omettere la preposizione in un elenco (come ho scritto sopra); quindi vanno bene sia “Sono amico di Luca, Andrea e Carlo” (preferibile perché meno ridondante), sia “Sono amico di Luca, di Andrea e di Carlo”. Ovviamente, la ripetizione della preposizione separa più nettamente i membri dell’elenco, che, però, sono comunque interpretati, con o senza preposizione, come membri distinti di un elenco.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ciao DICO: “Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni?”

 

RISPOSTA:

Il pronome si può assumere diverse funzioni, a volte non facili da distinguere. Nel suo esempio (“Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni”), la funzione potrebbe sembrare quella di rendere il verbo impersonale (sarebbe, quindi, un si impersonale). Si deve rilevare, però, che il verbo vivere è usato qui come transitivo, con il complemento oggetto espresso: per semplicità, potremmo assimilare la frase a “Tutti vivono i propri giorni”. In questi casi (con un verbo transitivo e il suo complemento oggetto espresso), il si impersonale è interpretato in italiano moderno come si passivante, cioè come particella che rende il verbo passivo. A causa di questa interpretazione, il complemento oggetto diviene il soggetto del verbo; la sua frase, pertanto, è assimilata di fatto, più che a “Tutti vivono i propri giorni” a “I propri giorni sono vissuti da tutti”. Ne consegue che, se il complemento oggetto (divenuto il soggetto) è plurale, il verbo deve essere plurale. Per inciso, se il complemento oggetto fosse singolare, la funzione del si rimarrebbe ambigua tra impersonale e passivante: “Si vive una vita sola” potrebbe essere assimilata tanto a “Tutti vivono una vita sola” quanto a “Una vita sola è vissuta”. Ovviamente, però, proprio il fatto che con il complemento oggetto plurale il verbo è interpretato come passivo fa propendere per una interpretazione passiva anche con il singolare.
​Si noti anche che se il complemento oggetto non è espresso (quindi anche con i verbi intransitivi) il si è sempre impersonale (e il verbo, di conseguenza, sempre alla terza persona singolare): “Oggi si muore di caldo”, ma anche “Si vive una volta sola”, in cui una volta sola è un complemento di tempo determinato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase seguente è corretto o no usare questa espressione (che unisce trapassato congiuntivo col verbo servile potere e una forma riflessiva): “se si fossero potuti fidare di me”?
La frase completa è: “Quei profondi occhi castani, che si puntavano dritto nei miei, sembrava volessero scrutarmi nelle profondità del mio essere per capire se si fossero potuti fidare di me”.
Non ho volutamente usato l’imperfetto congiuntivo (se potessero fidarsi), perchè intendevo dare alla frase il senso non già della contemporaneità, bensì della posteriorità o del futuro (se si fossero potuti fidare di me di là in avanti). So bene che il trapassato congiuntivo è usualmente usato per esprimere l’anteriorità rispetto a un tempo passato, ma in questo specifico caso è corretto o no l’uso del tempo trapassato visto che c’è anche di mezzo il verbo potere?

 

DOMANDA:

La posteriorità nel passato si esprime con il condizionale passato, dunque, a rigore, la forma corretta del periodo da lei segnalato è la seguente: “Quei profondi occhi castani, che si puntavano dritto nei miei,
sembrava volessero scrutarmi nelle profondità del mio essere per capire se si sarebbero
potuti fidare di me”, o, in alternativa, “se avrebbero potuto fidarsi di me”, in virtù della doppia possibilità di ausiliare con l’infinito dipendente dal servile potere. Come osserva lei, anche l’imperfetto congiuntivo andrebbe bene (“si potessero fidare”), visto che il rapporto di contemporaneità nel passato non esclude che l’azione si protragga anche nel futuro (del passato).

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Desidererei sapere se le preposizioni “sopra”, “sotto”, “dentro”, “dietro” debbano essere seguite dalla preposizione “a” o dal semplice articolo.

 

DOMANDA:

Le reggenze preposizionali sono spesso non poco oscillanti, in italiano. Vige pertanto la regola aurea di consultare sempre il dizionario, per i casi dubbi. In particolare, nei casi da Lei richiesti, spesso sono ammesse sia la reggenza diretta (sopra la manica), sia la locuzione preposizionale (vale a dire l’avverbio più una preposizione: sopra alla manica). Nei casi di oscillazione, dunque, non si tratta di forma più o meno corretta, bensì di grado di formalità: più o meno formale. In altri casi, invece, una delle due forme è decisamente sbagliata, vale a dire non ancora riconosciuta come accettabile in italiano standard. Più specificamente:
sopra e sotto sono costruite preferibilmente senza preposizioni (sopra la testasotto i piedi), possibili (ma meno formali) anche con a (sopra/sotto alla manica), mentre vogliono di se seguite da pronome personale (sotto/sopra di me) o nelle locuzioni al di sopra/sotto di.
Intercambiabili sono insieme con e insieme a.
Meglio davanti a (spesso scritto davanti + sostantivo: davanti casa, forma decisamente meno formale).
Unica forma corretta: riguardo a qualcosa (e non riguardo qualcosa).
Intercambiabili dietro o dietro a (ma di, se segue un pronome: dietro di te).
Intercambiabili fuori o fuori didentro o dentro a (ma di con i pronomi personali e nell’espressione fuori di testa).
E inoltre, uniche forme corrette sono: in cima anell’intento diper mezzo diin modo daal punto da (più formale rispetto a: al punto di, comunque corretto), ecc. ecc. (come da vocabolario).

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Avrei alcuni dubbi sull’uso della parola stigmatizzare. In particolare volevo chiederle un chiarimento sull’uso di questa parola nella frase riportata di seguito:
 

L’impossibilità  di prevedere l’esito dell’operazione progettuale è paradossalmente stigmatizzata da Eisenman nell’evocazione dell’imprevisto capace di donare un senso.

Si può utilizzare la parola stigmatizzata in riferimento al suo contenuto etimologico di stigma: ‘marcare un carattere distintivo’, invece che intenderne necessariamente il suo significato derivato – sempre da stigma – di ‘criticare, biasimare’?

 

RISPOSTA:

Il problema riguardo al significato del verbo stigmatizzare deriva dalla complessità del concetto espresso dalla parola stigma. Uno stigma non è solamente una caratteristica, ma è il risultato della percezione sociale di quella caratteristica, che distingue fortemente un individuo dalla maggioranza degli altri. Per questo motivo, uno stigma viene sempre imposto dagli altri, e per questo motivo è comunemente inteso come una caratteristica negativa. Il termine stigma, cioè, designa non un difetto in sé, ma un aspetto dell’individuo percepito da chi gli sta intorno come un difetto. Va de sé che spesso lo stigma di un individuo rappresenta non una pecca, ma una virtù, rilevata come pecca dalla società che mal tollera i diversi.
Il verbo stigmatizzare significa ‘attribuire uno stigma’, quindi ‘evidenziare una caratteristica come difetto’: è, quindi, decisamente connotato in senso negativo. Si può certamente contestare il senso che il sostantivo e il verbo da esso derivato hanno assunto, argomentando, per esempio, che è figlio di una società omologante intollerante verso i diversi. Questa, però, è un’operazione che andrebbe fatta esplicitamente, cioè spiegando perché e come si vuole attribuire al verbo stigmatizzare un significato diverso da quello corrente. Al contrario, usare il verbo nel senso di ‘rilevare un carattere, rimarcare’ senza giustificare tale scelta causerebbe certamente un fraintendimento del senso inteso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, nella frase: “Ho pensato che avrei fatto meglio a prendere l’ombrello”, “ho pensato” è la principale, “che avrei fatto meglio” è la subordinata oggettiva, mentre “a prendere l’ombrello potrebbe essere un’altra oggettiva? Grazie.

 

DOMANDA:

La proposizione è una ipotetica costruita implicitamente (cioè con un modo indefinito), parafrasabile con “se avessi preso l’ombrello”. Rappresenta la protasi che completa il periodo ipotetico dopo l’apodosi “che avrei fatto meglio”. Non è insolito, infatti, che l’apodosi di un periodo ipotetico sia a sua volta una proposizione subordinata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ciao dico, ho un dubbio: “non penso che loro sappiano cosa significhino i pasti” oppure “cosa significano i pasti”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni sono corrette. La scelta va fatta in base al contesto d’uso: il congiuntivo risulta più formale dell’indicativo. La stessa questione (la scelta del modo in una completiva dipendente da una subordinata al congiuntivo) è stata discussa, con maggiori dettagli, qui.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, mi è sorto un dubbio sulla concordanza tra soggetto e verbo, la frase: “la sua opera più importante, I Promessi sposi, è/sono il tentativo riuscito di realizzare una letteratura nazionale popolare”.

 

RISPOSTA:

Decisamente meglio il verbo al singolare (è), che si accorda con il soggetto “la sua opera”, mentre “I promessi sposi” è apposizione: “La sua opera più importante, I promessi sposi, è il tentativo” ecc.. Esistono, in italiano, numerosi casi di concordanza a senso, ma sarebbe meglio ridurli al minimo e soprattutto ad ambiti informali. L’ambito d’uso e il registro stilistico di un compito scolastico sono formali, pertanto eviterei esempi come: “la maggior parte delle persone pensano”, “l’opera I promessi sposi sono” ecc.
Fabio Rossi

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Egregi professori, vorrei sapere se l’analisi di questo periodo è esatta: 
Mentre ero solo: sec 1^ gr.;
ho pensato: principale;
Che devo chiarire la questione con te: sec.ogg.1^grado;
Perciò parliamone: coord.alla principale.

 

RISPOSTA:

l’analisi è corretta. Volendo aggiungere qualche dettaglio, possiamo ricordare che “mentre ero solo” è una proposizione temporale e che “perciò parliamone” è coordinata senza congiunzioni, ovvero coordinata per asindeto, oppure giustapposta
Va anche detto che questa proposizione coordinata deve essere congiunta al resto della frase con un punto e virgola (una virgola non sarebbe la scelta giusta), visto il brusco cambiamento di prospettiva comportato dal connettivo conclusivo perciò. In alternativa, la giustapposta si può anche separare dal resto con un punto fermo, trasformandola in un periodo a sé stante (e facendole, così, assumere un maggiore peso informativo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Su un testo di Mengaldo trovo l’aggettivo “stupendissimo” e la parola sconcordanza, che sembra proprio cacofonica. Ma è lecito usare questi termini? Grazie

 

RISPOSTA:

Per essere lecito è lecito, per entrambi. Le ragioni foniche (cacofonia) non sono mai un valido motivo per giustificare la possibilità d’uso delle parole, se dal piano del gusto personale (dove ognuno è liberissimo di preferire le parole che crede, sempre che esistano) si passa a quello della grammatica e dell’uso comune. Vediamone dunque altre ragioni, di due tipi: storiche e grammaticali.

1a) Dal punto di visto storico, stupendissimo è attestato, e anche recentemente: quindi è possibile. Del resto, anche l’etimologia lo consente: stupendo vuol dire ‘che suscita stupore’ e, dunque, qualcosa che suscita molto stupore può ben essere definito stupendissimo.

2a) Dal punto di vista della grammatica attuale, in effetti stupendo è avvertito già come una sorta di superlativo di bello e pertanto stupendissimo stride un po’ (come se dicessimo bellissimissimo, questo sì scorretto). Morale: si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

1b) Sconcordanza esiste (anche nei vocabolari attuali) ed esisteva, dunque può essere usato.

2b) Grammaticalmente, è ben formato, cioè con la s- privativa. Tuttavia, dato che è molto più frequente discordanza, è una sorta di doppione meno comune. Morale:si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Buonasera, vorrei un chiarimento. Nella seguente frase: “L’albero è fiorito”, “è fiorito” è predicato verbale (passato prossimo di fiorire) o è predicato nominale (fiorito participio con valore di aggettivo)? Nelle frasi: “La finestra è chiusa”, “Il quadro è appeso”, “Il vetro è rotto”, il verbo essere
+ i participi passati, intesi come aggettivi, formano un predicato nominale o altro?

 

RISPOSTA:

La sua domanda riguarda un dubbio fondamentale dell’italiano. Tendenzialmente, il participio (che, come ben mostra la sua etimologia, è una forma ibrida, che “partecipa” della natura del verbo e di quella aggettivale-nominale) ha uno scarsissimo peso verbale, a meno che non sia accompagnato da un ausiliare o da un complemento d’agente. In tutti gli altri casi, soprattutto laddove gli usi aggettivali corrispondenti siano frequenti (fioritotruccatoaccesospentorotto ecc.), non avrei grossi dubbi nel rispondere che si tratta di predicati nominali e non verbali.
La questione però, come ripeto, è talmente importante  e di difficile risoluzione, in italiano, da essere stata già trattato in DICO, per es. in questa domanda, che per comodità qui sotto le incollo:
Dato che manca il complemento d’agente, la risposta più economica e prudente alla sua domanda [“il formo è acceso” è predicato verbale o nominale?]  è la seguente: è + aggettivo. In realtà, in casi del genere, ovvero laddove vi è una perfetta identità tra il participio passato e l’aggettivo, non v’è alcuna differenza, dal punto di vista morfologico e sintattico, tra è + aggettivo e forma passiva del verbo. Tuttavia, dato che nella frase da lei citata, se davvero nel contesto non c’era nient’altro (per es.: “il forno era acceso da ore”, “il forno è acceso dal cuoco”, ecc.), nulla sembrerebbe ricondurre l’azione a una componente di agentività, cioè a un qualche tipo di azione compiuta o subita, sembra più prudente interpretarla come copula (verbo essere) più parte nominale (vale a dire l’aggettivo acceso). Si tratta, cioè, di un predicato nominale, anziché di un predicato verbale (come invece sarebbe se la considerassimo forma passiva del verbo accendere).
Sappia, comunque, che il suo dubbio è molto interessante e per niente banale. Anzi, la natura verbale o aggettivale dei participi è un problema ancora non risolto (e forse irresolubile) dai linguisti. La natura del participio è ibrida, tra verbo e aggettivo, e proprio da qui deriva l’etimologia di participio, cioè; ‘che partecipa della natura del verbo e dell’aggettivo’. Quindi, forse, una risposta univoca alla sua domanda non c’è e non può esserci, in assenza di un complemento d’agente o di causa efficiente o di qualche altra specificazione verbale.
Un mio collega, una volta, disse, secondo me a ragione, che chi avesse risolto la questione se il participio fosse più un nome o più un verbo avrebbe vinto il Nobel della linguistica!

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Salve, nella frase il forno è acceso, è acceso è un verbo nella forma passiva oppure acceso è un aggettivo? grazie

 

RISPOSTA:

Dato che manca il complemento d’agente, la risposta più economica e prudente alla sua domanda è la seguente: è + aggettivo. In realtà, in casi del genere, ovvero laddove vi è una perfetta identità tra il participio passato e l’aggettivo, non v’è alcuna differenza, dal punto di vista morfologico e sintattico, tra è + aggettivo e forma passiva del verbo. Tuttavia, dato che nella frase da lei citata, se davvero nel contesto non c’era nient’altro (per es.: “il forno era acceso da ore”, “il forno è acceso dal cuoco”, ecc.), nulla sembrerebbe ricondurre l’azione a una componente di agentività, cioè a un qualche tipo di azione compiuta o subita, sembra più prudente interpretarla come copula (verbo essere) più parte nominale (vale a dire l’aggettivo acceso). Si tratta, cioè, di un predicato nominale, anziché di un predicato verbale (come invece sarebbe se la considerassimo forma passiva del verbo accendere).

Sappia, comunque, che il suo dubbio è molto interessante e per niente banale. Anzi, la natura verbale o aggettivale dei participi è un problema ancora non risolto (e forse irresolubile) dai linguisti. La natura del participio è ibrida, tra verbo e aggettivo, e proprio da qui deriva l’etimologia di participio, cioè; ‘che partecipa della natura del verbo e dell’aggettivo’. Quindi, forse, una risposta univoca alla sua domanda non c’è e non può esserci, in assenza di un complemento d’agente o di causa efficiente o di qualche altra specificazione verbale.

Un mio collega, una volta, disse, secondo me a ragione, che chi avesse risolto la questione se il participio fosse più un nome o più un verbo avrebbe vinto il Nobel della linguistica!

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si legge e si sente: “Vorrei che tu sia etc.”. Non suona bene, è preferibile: ” Vorrei che tu fossi etc.” Ora le chiedo: dopo il condizionale “vorrei” è corretto l’uso del congiuntivo presente? Esempi: “Vorrei che tu venga in orario, vorrei che lui sia puntuale, vorrei che lei possa dormire”. Oppure è obbligatorio il congiuntivo
imperfetto?

 

RISPOSTA:

Ha ragione a considerare “stonata” la costruzione con il congiuntivo presente. Come spiegato dal prof. Luca Serianni: “Il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio, un’aspirazione, una necessità richiede la reggenza tipica dei verbi al passato” (Prima lezione di grammatica, 2006, p. 63); la costruzione corretta, pertanto, è “vorrei che tu fossi”. Una spiegazione di questa “stranezza” è che in questi casi il condizionale della reggente (vorreidesiderereisarebbe necessario ecc.) esprima una certa sfiducia dell’emittente nella realizzabilità dell’evento: da qui il congiuntivo imperfetto, che pone l’evento nel passato.
L’ho definita una stranezza perché, di norma, il condizionale presente regge il congiuntivo presente: “‘Uh, come sei freddo,’ disse Giulia tirandosi indietro e guardandolo con un sorriso, ‘davvero che qualche volta penserei che tu non mi voglia bene.'” (Alberto Moravia, Il conformista, 1951, p. 115). 
Proprio l’eccezionalità della reggenza del congiuntivo imperfetto da parte del condizionale presente induce spesso i parlanti in errore, o almeno nel dubbio. Non si tratta certo di un errore grave, ma in contesti formali, soprattutto scritti, è bene rispettare anche questa regola; così non ha fatto – molti lo ricorderanno – la ministra del MIUR Valeria Fedeli (o un suo collaboratore, come è emerso in seguito) in una lettera inviata al Corriere della Sera il 16 dicembre 2017, nella quale era scritto: “Sarebbe opportuno che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo i percorsi professionali”. Qui la “stonatura” è ancora più evidente, vista la vicinanza tra il congiuntivo presente prosegua e l’imperfetto si fermasse
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

Sublime ha comunemente il significato di ‘eccelso, nobilissimo’; è, quindi, pleonastico farne il superlativo (il più sublime equivale, appunto, a *il più nobilissimo). Quando accompagna alcuni nomi, però, l’aggettivo prende la sfumatura filosofica di ‘relativo al sublime’, cioè legato alla sensazione di elevazione spirituale e intellettuale comunicata da un’opera d’arte o da un’esperienza particolarmente intensa; in questi casi il superlativo relativo è accettabile (il superlativo assoluto, *sublimissimo o *molto sublime, è comunque impossibile). Tra i nomi che accettano il superlativo relativo di sublime ci sono sentimentoattoopera d’artesignificato. Qualche esempio: “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera […] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana” (Giacomo Leopardi, Pensiero LXVIII); “Il pittore o lo scultore, il cui genio è tale che riescono a ritrarre l’anima nel corpo, esprimono senza moti veementi il più sublime dei sentimenti” (Piero Giordanetti e Maddalena Mazzocut-Mis, I luoghi del sublime moderno, 2005, p. 77); “Allora ‘l’opera d’arte più sublime’, quando essa, come dall’altro lato il crimine classico, si avvicina mimeticamente alle cose, rappresenta un medium cognitivo attraverso il quale possono essere acquisite non concettualmente conoscenze sulla realtà” (Axel Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, 1986); “Nel suo significato più sublime, l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità umana” (http://libreriamo.it/arte/che-cose-unopera-darte/, 5 febbraio 2015); “Nell’adorazione, compiamo l’atto più sublime, più miracoloso del creato” (Luca Asprea, Il previtocciolo, 2003, p. 336).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “volevo vedere come lo facessi”?

 

RISPOSTA:

La proposizione interrogativa indiretta (“come lo facessi”) retta da un verbo di percezione affermativo (vedere) è costruita normalmente con l’indicativo. La costruzione più comune della sua frase, pertanto, è “volevo vedere come lo facevi”. 
C’è da dire, però, che la variante con il congiuntivo non è scorretta, bensì insolita: è resa accettabile dalla sfumatura volitiva del verbo reggente; può, dunque, usarla, soprattutto in un contesto scritto e di alta formalità. È bene sottolineare che quando si usa il congiuntivo imperfetto il soggetto di seconda persona va esplicitato, visto che la prima e la seconda persona del verbo coincidono, quindi: “volevo vedere come tu lo facessi”. Il senso di questa frase in particolare rende altamente improbabile che il soggetto di facessi possa essere io, ma casi di possibile fraintendimento sono possibili, quindi è sempre bene seguire questa regola.
In mancanza della sfumatura volitiva, la frase sarebbe stata scorretta: *”Vedevo come tu lo facessi”. Al contrario, se il verbo reggente fosse negativo, il congiuntivo sarebbe la scelta migliore: “non volevo vedere come tu lo facessi” (e anche “non vedevo come tu lo facessi”).
Per quanto riguarda il tempo, l’imperfetto, indicativo o congiuntivo, indica la contemporaneità nel passato; instaura, cioè, un rapporto di contemporaneità con il verbo reggente (in questo caso volevo). Se, invece, l’intento è di instaurare un rapporto di posteriorità rispetto al passato, la scelta più corretta è il condizionale passato: “volevo vedere come lo avresti fatto”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire: “Durante la riunione di Mercoledì pare sia emerso che il sig. Mario sia single. La commissione della mensa ha accusato il sig. Mario di non essere sensibile al menù dei bambini perché non abbia figli”?
Le forme verbali sono corrette?

 

RISPOSTA:

I tempi verbali sono corretti, ma l’ultimo congiuntivo, abbia, deve essere sostituito con l’indicativo ha. La proposizione causale esplicita vuole quasi sempre l’indicativo, anche quando si trovi in dipendenza da un’altra proposizione al congiuntivo o, come in questo caso, all’infinito.
Il congiuntivo nella causale è, al contrario, richiesto quando la proposizione presenta una causa irreale: “Un pezzo di ragazzo non perché fosse alto o grosso, che anzi era solo un ragazzino di dodici anni – un pezzo perché restava solo la testa e il tronco” (Melania G. Mazzucco, Vita, 2003, p. 18). Come nell’esempio, la causa reale spesso viene presentata subito dopo, all’interno di un’altra causale, regolarmente all’indicativo, coordinata a quella al congiuntivo. 
L’indicativo è, comunque, possibile anche nel caso della causa irreale: “Non le aveva detto che nel rifiutarsi a Wolfgang lo aveva ingannato: non perché lo amava senza confessarglielo […] ma perché talvolta lo aveva illuso e spesso lo aveva lusingato” (Enzo Siciliano, I bei momenti, 1998, p. 44). Come al solito, la scelta dell’indicativo in un contesto che di norma richiede il congiuntivo caratterizza il discorso come meno formale. 
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È grammaticalmente corretta la seguente frase: “Vista l’ora, tra il prepararmi e il resto, arriverei lì poco prima che lo sciopero ricominci, per cui poi sarebbe un problema rientrare a casa”?

 

RISPOSTA:

Vista la complessità del periodo, immagino che il dubbio riguardi la consecutio temporum, ovvero il raccordo tra i tempi dei verbi delle proposizioni subordinate. In ogni caso, la frase è grammaticalmente corretta. Il primo condizionale, arriverei, fa parte della proposizione reggente da cui dipende la subordinata causale vista l’ora (equivalente a “siccome l’orario è questo”) e la temporale poco prima che lo sciopero ricominci. Rispetto all’indicativo presente o futuro, il condizionale presente esprime – come suggerisce il nome condizionale – che il verificarsi dell’evento è condizionato dal verificarsi di un altro evento (in questo caso sottinteso: “se venissi”); ai fini della reggenza verbale, però, si comporta esattamente come il presente e il futuro indicativo: quando la subordinata esprime contemporaneità o posteriorità, richiede il congiuntivo presente (“Arrivo/arriverò/arriverei prima che lo sciopero cominci”). In alcuni casi (in dipendenza da alcuni verbi, o con alcune congiunzioni), la subordinata può avere il futuro semplice: “Arrivo/arriverò/arriverei quando sarà buio”.
La proposizione per cui poi sarebbe un problema, coordinata alla principale precedente, ha il condizionale sempre per esprimere incertezza. Questa proposizione regge, a sua volta, la subordinata soggettiva implicita (perché è all’infinito) rientrare a casa. Sulla scelta del tempo dell’infinito c’è poco da dire, visto che questo modo ha solamente due tempi, presente e passato, quindi non dà adito a dubbi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il mio desiderio è che mia mamma dopo l’università mi comprasse o comprerebbe un cane?

 

RISPOSTA:

La forma corretta, secondo le regole della consecutio temporum in italiano, è la seguente: “il mio desiderio è che mia mamma dopo l’università mi compri un cane”. Infatti, dopo una reggente con il verbo al presente, il congiuntivo va al presente, e non all’imperfetto (comprasse). L’imperfetto andrebbe bene in dipendenza da un tempo passato: “desideravo che mi comprasse”. Il condizionale (comprerebbe), in quel contesto, è errato nella subordinata, mentre andrebbe bene nella principale, ma in quel caso la subordinata dovrebbe essere al congiuntivo imperfetto: “il mio desiderio sarebbe… che mi comprasse”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se mi trovo dinanzi un edificio pubblico o privato è più corretto dire al o il? Es. “Mi trovo dinanzi al o il museo”?

 

RISPOSTA:

La forma più comune è dinanzi a (al pari di davanti a ); l’uso senza a, attestato nella storia della lingua italiana, non è escluso, ma è da giudicarsi ormai antiquato (al pari di davanti senza a ).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se è corretto usare il termine “durata”, come sostantivo, al plurale (es. durate diverse).

 

RISPOSTA:

Scorretto non è, nel senso che l’italiano prevede il plurale anche per questo sostantivo. Certo, il più delle volte non c’è ragione di usarlo al plurale, visto che sono gli eventi, semmai, ad essere plurali, più che la loro durata. O le loro durate… Insomma, una qualità astratta mal si presta al numero plurale, sebbene sia sempre possibile intenderla, con una sorta di metonimia, come qualità al posto dell’oggetto o del fenomeno cui si riferisce. Stessa sorte hanno altri sostantivi che esprimono qualità astratte: lunghezza, larghezza, bellezza ecc.: “tronchi di diversa lunghezza”, “donne di diversa bellezza” ecc. Ma posso pur sempre dire: “al mondo vi sono diverse bellezze di donna (o donne)” o “donne di diversa bellezza”.
Insomma, sempre tenendo conto dei contesti (o del contesto…), quasi sempre meglio il singolare, ma il plurale non può essere definito errato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buonasera.
Sono greco e voglio fare una domanda.
La frase “se non ti avevo conosciuto” è giusta o devo usare congiuntivo?

 

RISPOSTA:

La frase è soltanto a metà, quindi proverò a ipotizzare un completamento: “Se non ti avevo conosciuto era meglio”. La proposizione introdotta da se rappresenta una parte (detta protasi) di un periodo ipotetico dell’irrealtà, ovvero di un periodo ipotetico che esprime un evento irrealizzabile (come se dicesse “ormai ti conosco, quindi non è possibile che io non ti conosca”). Questo tipo di protasi si costruisce normalmente con il congiuntivo trapassato, quindi “Se non ti avessi conosciuto”, ma l’indicativo è ammesso come forma più colloquiale, in contesti che non richiedono il rispetto puntuale della norma standard (meglio nel parlato che nello scritto). Bisogna dire che, per esprimere la stessa irrealtà nel registro colloquiale, la forma più comune è l’imperfetto indicativo, non il trapassato prossimo, da lei usato, quindi “Se non ti conoscevo (era meglio)”. Può leggere una nostra risposta a una domanda molto simile alla sua in questa pagina.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è corretta questa frase: “Se desideri cosi tanto che lui faccia questo , forse non avresti dovuto chiederglielo in questo modo.”

 

RISPOSTA:

Sì, è corretta. È un tipico esempio di periodo ipotetico misto, che combina, in questo caso, caratteristiche del periodo dell’irrealtà con quelle del periodo della realtà.
La versione più formale, dell’irrealtà, sarebbe stata: “se avessi desiderato… che lui facesse…”, oppure, molto informalmente: “se desideravi… che lui faceva”. La versione da Lei proposta va benissimo, in quanto combina il verbo dell’apodosi (o reggente) al condizionale passato (“avresti dovuto”, tipico del periodo ipotetico dell’irrealtà), come se fosse definitivamente tramontata l’ipotesi che “lui facesse questo”, e l’atteggiamento del desiderio, ben ancora presente e reale, che lui, con un comportamento diverso del/della richiedente, possa ancora farlo… Morale della favola: non è mai troppo tardi, e gli usi linguistici, talora, rivelano ben più di quanto crediamo sui nostri desideri reconditi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho letto, in una traduzione, la frase “si ha mangiato bene”, e mi chiedo se non sia meglio utilizzare il verbo essere al posto di avere. Oltretutto, se così fosse, si potrebbe considerare questa una forma scorretta o agrammaticale?

 

RISPOSTA:

Se interpreto bene, la frase deriva dal romanzo Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Effettivamente, la variante che l’ha lasciata perplessa è attestata in rete, ma si tratta di un errore: la versione corretta è “ha mangiato bene” (“Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene”), oppure “si è mangiato bene” (“Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si è mangiato bene”). La versione *”si ha mangiato bene”, che unisce indebitamente le due possibili traduzioni, è agrammaticale, perché il sistema dell’italiano prescrive sempre l’ausiliare essere nella costruzione con il si impersonale.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.

 

RISPOSTA:

Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano

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Il nome casa indica al contempo un luogo delimitato e un ambito sociale; per questo motivo, quando è accompagnato da verbi di stato e di moto, può essere costruito con preposizioni diverse, a seconda di quale aspetto vogliamo valorizzare. Con il verbo uscire (ma la doppia costruzione si può trovare, più raramente, con verbi analoghi, come partireallontanarsiscappare), la preposizione da fa pensare al luogo (ed è la scelta più naturale): “‘Vigliacchi! Spudorati! Uscite da casa mia!’, si era messa a urlare” (Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, 1956, p. 260). La preposizione di indica, invece, l’ambito sociale, come se in questo caso casa indicasse le abitudini, le dinamiche, le relazioni che si intrecciano nel luogo (ed è la scelta più carica di forza idiomatica, o più marcata, se vogliamo): “Sarebbe capace di non uscire più di casa, se si accorgesse che tu vai fuori soltanto per farla muovere” (Giuseppe Berto, Il tempo di uccidere, 1947, p. 197). Si noterà che, in linea con quanto detto, quando casa è costruito con di indica obbligatoriamente la casa del soggetto.
Un altro nome che condivide con casa la doppia costruzione è prigione: si può, infatti, uscire dalla prigione (dal luogo delimitato) o uscire di prigione (dall’ambito sociale).
Per quanto riguarda l’articolo, è vero che la costruzione con la preposizione da ne preferisce, e a volte obbliga, l’uso, mentre quella con di lo impedisce: questo dipende dal fatto che le espressioni con una forte valenza idiomatica tendono a cristallizzarsi e a perdere proprio l’articolo. Anche con da, del resto, l’articolo può essere escluso quando l’espressione è molto comune: “Sono uscito da casa di XXX alle sei” (e si veda anche, nell’esempio riportato sopra, da casa mia).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Nella frase: ” ti fa piacere un caffè”; il verbo fare ha funzione di verbo causativo? Cioè “fa piacere” è un unico predicato?

 

RISPOSTA:

Sì, indubbiamente fa piacere è un unico predicato, del resto facilmente parafrasabile con un unico verbo: ti va… ?

I linguisti chiamano i costrutti di questo tipo “a verbo supporto”, ovvero con un verbo generico che regge un sostantivo più specifico, che dà il significato proprio del sintagma. A volte, sono più informali dell’equivalente costrutto con il semplice verbo (fare una fotografia o dare un’occhiata o uno sguardo sono più informali, e nel secondo caso con una sfumatura semantica in più, rispetto al semplice fotografare o guardare/badare a), altre volte più formali (dare aiuto, rispetto ad aiutare).

Non lo definirei, però, un uso causativo, dal momento che, di norma, si parla di verbi causativi o fattitivi per quei verbi che indicano un’azione fatta compiere da/ad altri; per es. “mi hai fatto aspettare per ore”; “ti lascio studiare in pace”.

Naturalmente, anche fare piacere, ma in un contesto e in una struttura del tutto diversi, potrebbe avere valore causativo: “se non ti piace la minestra, tua madre te la fa piacere per forza”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Ho un dubbio molto grande in quanto ogni volta non so se usare “venne” o “fu”. Per esempio: si dice “venne rapita” o “fu rapita”?. Per quello che so io, la forma corretta è “fu rapita”, in quanto il passato prossimo del verbo “fu” è “è stata”, mentre quello del verbo “venne” è “è venuta”, e se la stessa frase si dovesse scrivere con il passato prossimo, diventerebbe “è stata rapita” e non “è venuta rapita”. Ma in un film che ho visto, un personaggio ha detto “venne rapita”, e allora ecco che arriva il dubbio!
Potrei fare altri esempi: “venne accantonata” o “fu accantonata”?
Illuminatemi!

 

RISPOSTA:

Il verbo venire può essere usato al posto di essere in funzione di ausiliare solamente al passivo e nei tempi semplici (non si può dire *io sono venuto chiamato). La scelta tra essere e venire è spesso legata a una preferenza stilistica da parte dell’emittente, ma, in alcuni casi, può esprimere una sfumatura di significato; ad esempio una frase come “I cancelli vengono chiusi alle 8:00” chiarisce che la chiusura dei cancelli avviene alle 8:00, mentre “I cancelli sono chiusi alle 8:00” può essere interpretata come la descrizione di una situazione, successa anche molto tempo prima. In altre parole, venire come ausiliare del passivo conferisce al verbo una sfumatura di dinamicità che manca al verbo essere, più adatto a descrivere i fatti come fermi nel tempo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non ho accordi quadro che modificano quelli in essere” oppure “Non ho accordi quadro che modifichino quelli in essere”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni sono corrette, ma si differenziano perché quella con il congiuntivo aggiunge una sfumatura di significato: nella proposizione relativa, infatti, l’indicativo presenta l’azione o l’evento come un dato di fatto, senza suggerire alcuna valutazione soggettiva dell’emittente; il congiuntivo, invece, attribuisce all’azione una sfumatura di eventualità (che deriva da una valutazione dell’emittente), interpretabile in vari modi. In questo caso “accordi che modifichino” vale “che possano (secondo me) modificare”, quindi “tali da poter modificare”; la proposizione relativa, pertanto, si avvicina a una consecutiva.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Riguardo al sintagma “non è da me”, ho trovato nella grammatica di Serianni la seguente spiegazione: costrutto con valore destinativo-vincolativo, in cui “da” significa ‘che si addice a’.
La mia domanda è questa: non esiste un complemento tipico dell’analisi logica che potrebbe identificarlo?
Mi sembra di capire che per Serianni è solo un costrutto senza etichette di complemento.
Aggiungo una richiesta simile: nella frase “Un comportamento simile non è da lui” il costrutto potrebbe avere un valore di complemento predicativo? Ma come sarebbe l’analisi logica di una frase del genere?

 

RISPOSTA:

Il valore destinativo-vincolativo attribuito alla preposizione da è un modo per spiegare la semantica di questo connettivo usato in costrutti che indicano una qualità che si addice a qualcuno o a qualcosa. Dal punto di vista dell’analisi logica, questi costrutti vanno ascritti al complemento predicativo del soggetto, che completa il significato del verbo essere nella sua funzione di copula, oppure di qualunque altro verbo copulativo (ad esempio nella frase “Questo comportamento non sembra da lui”). Molte grammatiche distinguono il particolare complemento predicativo retto dal verbo essere, chiamandolo parte nominale, con riferimento al predicato nominale formato con la copula. Si tratta di una distinzione non del tutto giustificata dal punto di vista semantico, o, se vogliamo, logico (nonostante il nome diverso, infatti, il complemento è lo stesso), che serve a distinguere il verbo essere, la copula per eccellenza, dai verbi copulativi, che si comportano come il verbo essere. È, questo, uno dei tanti punti discutibili dell’analisi logica, che rendono questa attività cavillosa e spesso ingannevole.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

Buonasera,

vi scrivo per chiedere informazione riguardo all’espressione molte grazie, che è stata oggetto di un’accesa discussione con un signore che sosteneva fosse errata. Secondo codesto signore l’espressione giusta sarebbe molto grazie. Vi chiedo gentilmente se mi potete chiarire la questione.

 

RISPOSTA:

Grazie è un nome (è il plurale di grazia), e come tutti i nomi concorda con l’aggettivo in genere e numero: molte grazietante grazieinfinite grazie ecc. La parola, però, si usa spesso come interiezione, da sola, con un significato del tutto diverso rispetto al singolare: infatti non posso dire *No, grazia. La specializzazione del plurale in questa funzione induce alcuni parlanti a considerare questa parola come un avverbio (al pari, ad esempio, di bene o male) e, di conseguenza, a pensare che debba essere accompagnata solamente da avverbi. Da qui il *molto grazie (sul modello di molto bene) proposto dal suo interlocutore, in realtà scorretto, ma anche il grazie assai, diffuso in alcune regioni meridionali e accettabile solamente in contesti molto informali.
L’uso di grazie come interiezione, quindi, non ha fatto perdere a questa parola la sua natura di nome; tanto che può ancora essere usata in frasi come “Madonna del Bosco – La Vergine che dispensa le sue grazie da un castagneto” (a proposito di una apparizione mariana in un bosco).
Si noti che l’interiezione grazie è una semplificazione dell’espressione rendere grazie ‘restituire benevolenze’ (dal latino gratias agere, dal significato simile). Quando ringraziamo, quindi, dichiariamo di contraccambiare con la benevolenza il favore ricevuto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiederVi, dopo aver letto alcuni articoli in internet che utilizzano questa forma, se è giusto dire “mi hai svoltato la giornata”. Io sarei più propenso ad utilizzare la forma “hai dato una svolta alla mia giornata” ma vedo che in alcuni casi viene utilizzata, quindi mi chiedevo se fosse utilizzabile anche questa forma. 

 

RISPOSTA:

L’uso del verbo svoltare nella frase da lei segnalata è d’ambito gergale, molto comune, almeno nell’Italia centrale, tra i giovani (e meno giovani) da molti anni. In quanto uso gergale, è limitato perlopiù al parlato informale, tra pari, o allo scritto che ne imita le movenze. Sicuramente sarebbe bene evitare simili usi in scritti d’ambito formale o anche nel parlato rivolto a persone che non condividono il medesimo orizzonte socioculturale. L’alternativa  da lei proposta andrebbe benissimo per usi più formali, ma risulterebbe artefatta in un dialogo (o in una chat, per fare un esempio di scrittura informale) tra pari che condividano il medesimo gergo. Svoltare, in gergo, può essere utilizzato sia intransitivamente (ho svoltato, cioè ‘ho riportato un successo’: “Ho svoltato col lavoro”; “Quella ragazza m’ha dato il suo numero di telefono: ho proprio svoltato!”), sia transitivamente, come appunto in “M’hai svoltato la giornata”, cioè ‘hai determinato un esito molto positivo, magari insperato, nella mia giornata’, o ‘hai risolto un problema’ e simili. Naturalmente, può essere usato anche ironicamente, cioè per esprimere l’esatto contrario. Se avessi un incidente d’auto, potrei esprimere il mio disappunto esclamando: “Oggi ho proprio svoltato”, o “Ho svoltato la giornata”, o, rivolgendomi non proprio euforicamente a chi mi ha tamponato: “M’hai svoltato la giornata!”.
In una prospettiva stilistica, può essere utile conoscere l’uso di queste espressioni gergali, per esempio se si sta scrivendo un romanzo d’ambiente giovanile e si vogliono creare dialoghi agili e credibili tra i personaggi.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La domanda riguarda una frase tratta da “Il nome della rosa” di Umberto Eco, all’interno del capoverso: “Ma l’unicorno è una menzogna? È un animale dolcissimo e altamente simbolico. Figura di Cristo e della castità, esso può essere catturato solo ponendo una vergine nel bosco, in modo che l’animale sentendone l’odore castissimo vada ad adagiarle il capo in grembo, offrendosi preda ai lacciuoli dei cacciatori.” Durante la preparazione di un test per la scuola superiore è stato impossibile raggiungere un consenso fra i colleghi sulla subordinata che inizia con “in modo che…”. In particolare alcuni sostengono che si tratti di una proposizione consecutiva, altri che sia una proposizione finale.

 

RISPOSTA:

Uno dei limiti più gravi della tradizionale tipologia delle subordinate e dei complementi nelle grammatiche italiane è la confusione tra punto di vista semantico e punto di vista sintattico. Non v’è dubbio che, dal punto di vista semantico, la subordinata da Lei segnalata (“in modo che l’animale… vada…”) abbia un valore finale. Come, del resto, non c’è dubbio che la forma con cui è espressa la subordinata (“in modo che”) sia quella tipica delle consecutive. E allora? Come spesso accade in linguistica, non è questione di giusto o sbagliato, bianco o nero, ma di punti di vista. Le risposte sono entrambe corrette. Io, personalmente, propenderei per la consecutiva, dal momento che la scelta della locuzione connettiva “in modo che” indica la volontà di sottolineare la conseguenza dell’azione, più che il suo fine (fine che comunque, come ripeto, è una delle conseguenze…). In altre parole, privilegerei la forma (“in modo che”) al significato, visto che lo scopo di riconoscere le subordinate è quello di individuarne la loro funzione sintattica, il tipo di reggenza, il tipo di rapporto con la reggente, il tipo di verbo usato ecc.
A  questo proposito, mi permetto di far rilevare la scarsa utilità di un esercizio siffatto, a scuola. Lo scopo del riconoscimento delle subordinate non dovrebbe essere quello di confondere le idee agli studenti sulle sfumature semantiche, bensì quello di addestrarli ai diversi tipi di reggenza. Pertanto, forse, sceglierei esempi più chiari e netti, meno controversi, di questo. E inoltre mi soffermerei su questioni più formali, come la differenze tra subordinate dirette (oggettive, soggettive) e indirette, tra subordinate che hanno un antecedente nella reggente (come la consecutiva dell’esempio: “in modo”) e altre che non l’hanno e simili.
Soltanto dopo che gli studenti hanno familiarizzato con queste caratteristiche sintattiche, proporrei loro degli esercizi di cloze o di riscrittura, per addestrarli agli aspetti semantici. Per es.: è possibile riformulare la frase di Eco in un altro modo? Ovvero, è possibile utilizzare un altro tipo di subordinata, al posto di “in modo che” ecc., senza alterare il senso generale del periodo?

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei capire meglio come certi sostantivi pur essendo al singolare hanno un significato plurale, esempio:Giovanni 1:29 Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!
Il peccato nel verso sopra indicato pur essendo al singolare, ha un significato plurale, cioé : I peccati.Altro esempio, il frutto! Galati 5:22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.
Anche in questo verso il frutto al singolare ha un significato plurale.Come vengono denominati in italiano questi sostantivi che sono al singolare ed hanno un significato plurale.Vengono denominati forse plurali irregolari?

 

RISPOSTA:

No, in realtà non si tratta di plurali irregolari, perché sono regolari sia nella forma sia nel significato. Si tratta dii un uso estensivo, quasi sempre possibile in italiano, di un singolare inteso in senso collettivo, ovvero dell’uso di un singolare in luogo del plurale, secondo una figura retorica (ma, data la sua frequenza in qualunque tipo di testo, sarebbe forse meglio definirla una strategia comunicativa) detta sinèddoche, che rientra nella più generale figura detta metonìmia. Si ha metonimia ogni qual volta si usi un termine in luogo di un altro di significato contiguo, come, che so, il contenitore per il contenuto (“bere un bicchiere”, che ovviamente si riferisce al contenuto del bicchiere) o l’autore per l’opera (“leggere Manzoni”, che ovviamente si riferisce all’opera di Manzoni). Analogamente, se si usa il singolare per il plurale o il plurale per il singolare, si sta usando la la parte per il tutto, o il tutto per la parte, secondo il particolare tipo di metonimia detto appunto sinèddoche. La sineddoche è molto diffusa nel linguaggio poetico, politico, sentenzioso, oratorio, religioso (da cui i suoi esempi evangelici), ma anche nel discorso comune. I poeti ne fanno un uso frequentissimo, per es. quando Petrarca usa “crin”, ovviamente non intendendo un solo capello ma tutti i capelli, la capigliatura, o quando il libretto della Tosca recita: “Tu azzurro hai l’occhio, Tosca ha l’occhio nero”, riferendosi ovviamente ad entrambi gli occhi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Ho un dubbio sulla locuzione “tutt’e due”.
Cioè, se ho capito bene, se scrivo “tutt’e due gli amici”, il valore è di aggettivo= tutt’e due (aggettivo); se invece scrivo “tutt’e due”senza nessun sostantivo accanto, la locuzione ha valore pronominale.
E’ così?

 

RISPOSTA:

Sì, quanto Lei scrive è corretto. Tutti e due è una locuzione del tutto sinonimica all’aggettivo pronominale  numerale entrambi. Come entrambi, dunque, se non è seguito da un sostantivo, ha valore pronominale. Lo stesso dicasi per tutti i numerali (aggettivi se seguiti da un sostantivo, pronomi se da soli), preceduti o no dall’avverbio tutto, nella locuzione tutti e…tutti e tretutti e quattro ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Nessuna minaccia rilevata”, dal punto di vista dell’analisi logica è corretto dire che minaccia è il soggetto, rilevata il predicato verbale e l’ausiliare è sottinteso?

 

RISPOSTA:

Nella frase così composta il participio rilevata esprime un valore più nominale che verbale; è, in altre parole, più aggettivo che verbo. In assenza dell’ausiliare (“Nessuna minaccia è stata rilevata”), la struttura della frase sembra assimilabile non a un processo, ma alla presentazione di un fatto: “Non c’è nessuna minaccia rilevata”, o anche: “Nessuna minaccia risulta rilevata”. L’analisi, pertanto, è:

nessuna minaccia = soggetto con attributo; rilevata = complemento predicativo del soggetto.

Per un piccolo approfondimento sulla questione della natura del participio, rimando alla risposta data per DICO dal prof. Rossi ad una domanda analoga.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio: è più corretto dire ”ieri mi addormentai” o ”ieri mi sono addormentata”?

 

RISPOSTA:

La variante con il passato prossimo, “Ieri mi sono addormentata”, è la più naturale.
Normalmente, il passato prossimo e il passato remoto esprimono non semplicemente la lontananza, minore o maggiore, di un evento rispetto al momento dell’enunciazione, bensì la partecipazione psicologica che l’emittente vuole dimostrare con l’evento stesso. Ad esempio, la frase “Dieci anni fa mi sono rotto una gamba” risulta molto più naturale di “Dieci anni fa mi ruppi una gamba”, perché è naturale che l’emittente consideri l’evento, benché distante nel tempo, psicologicamente vicino, o, se vogliamo, legato al presente (il momento dell’enunciazione) attraverso le sue conseguenze. Per questo motivo, eventi passati ma ancora vicini al momento dell’enunciazione difficilmente possono essere espressi con il passato remoto, anche se si sono conclusi, perché è prevedibile che le loro conseguenze siano ancora percepibili dall’emittente come presenti; ciò vale ancora di più quando si racconta un evento privato o comunque personale, come nel suo esempio.
Non si può dire in astratto che la variante con il passato remoto sia sbagliata; si tratta, però, di una scelta marcata, cioè insolita, non comune. Tale scelta potrebbe essere frutto di una competenza comunicativa non perfetta: una costruzione del genere, cioè, non stupirebbe in bocca ad un apprendente straniero, ad esempio anglofono o ispanofono, di lingua italiana, come il risultato della sovrapposizione dell’italiano sulla sua lingua madre, nella quale il passato remoto è più usato che in italiano (“Yesterday I fell asleep” e “Ayer me quedé dormido” risultano del tutto normali); oppure in bocca ad un parlante pur italiano che, però, si lascia condizionare dal suo dialetto locale (molti dialetti meridionali non hanno il passato prossimo). In alternativa, la scelta del passato remoto potrebbe dipendere dalla precisa volontà dell’emittente di esprimersi in modo insolito, per ottenere una sfumatura espressiva. Nel seguente esempio, non a caso letterario, le due possibili cause della scelta del passato remoto si confondono:


Ieri mi portò a casa sua. Parlò per molte ore, non so quante, poiché a un dato momento mi addormentai, forse egli voleva che mi addormentassi (Gonzalo Torrente Ballester, Don Juan, traduzione di Angela Ambrosini, 1985).


La traduttrice del romanzo dallo spagnolo lascia al passato remoto i verbi che in originale erano al passato remoto (o meglio pretérito perfecto simple) perché percepisce che il personaggio vuole esprimere una separazione psicologica tra gli eventi narrati e il momento dell’enunciazione.
Bisogna aggiungere, infine, che nell’italiano contemporaneo il passato prossimo sta prendendo sempre più piede rispetto al remoto; siamo portati sempre di più, cioè, a designare gli eventi passati come “prossimi”. C’è ancora spesso, però, la possibilità di scegliere quale passato usare per sottolineare la maggiore o minore vicinanza psicologica all’evento; ad esempio, “La I Guerra mondiale ha provocato la morte di milioni di persone” riflette una maggiore vicinanza emotiva al racconto, mentre “La I Guerra mondiale provocò la morte di milioni di persone” risulta più distaccato e oggettivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È possibile definire sinonimi gli aggettivi manicheo e divisivo?

 

RISPOSTA:

I due aggettivi hanno significati piuttosto distanti e pertanto non possono essere considerati sinonimi. Manicheo (o manicheista) si riferisce specificamente alla corrente religiosa e di pensiero del manicheismo, e solo con una generalizzazione può definire una persona o un modo di pensare che considera la realtà divisa tra due principi opposti e di uguale peso, tra cui non ci può essere accordo né compromesso.
Divisivo ha un significato molto più ampio: può essere sinonimo di divisorio (linea divisivamuro divisivo) o, più comunemente, designare una persona, un comportamento, un evento su cui ci sono interpretazioni diverse e contrastanti. Un esempio d’uso dei due aggettivi nello stesso contesto potrà chiarire la loro distanza semantica:

«Sì, ma la lotta del bene contro il male non può che avere un esito: la vittoria del bene […]». Crocetta ha la capacità di fare un simile proclama manicheo senza ridere. […]
Si capisce perché sia così divisivo, eroe per alcuni […]; bluff assoluto per altri (Goffredo Buccini, Governatori, Venezia, Marsilio, 2015).

Come si vede, manicheo è usato per definire una dichiarazione che parla di scontro insanabile tra bene e male, mentre divisivo ha a che fare con i giudizi contrastanti su un personaggio pubblico.
Pur nella considerazione che la sinonimia non è mai perfetta, aggettivi più vicini ad essere sinonimi di manicheo sono assolutisticocategoricointransigente; al contrario, divisivo, nell’accezione legata all’esempio riportato, si avvicina a controversodibattuto e, meno precisamente (perché contiene una sfumatura più negativa), discutibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase: “Vorrei sapere se sarebbe possibile completare il percorso formativo il prossimo anno, qualora si organizzasse un nuovo corso”, il condizionale nell’interrogativa diretta è corretto? Si può considerare prevalente il valore condizionale, di apodosi di un implicito periodo ipotetico, della frase interrogativa?

 

RISPOSTA:

In questo caso la proposizione introdotta da se non è una protasi di periodo ipotetico, ma una interrogativa indiretta (nella domanda lei l’ha, forse per distrazione, definita diretta ); ammette, pertanto, la costruzione con il condizionale, con il congiuntivo e con l’indicativo (ad esempio: “Vorrei sapere se sei dei nostri o no”). Il condizionale, in particolare, è perfettamente lecito quando la subordinata interrogativa rappresenta non già la protasi, mal’apodosi di un periodo ipotetico(la congiunzione se non deve ingannare). Nel suo caso, per l’appunto, “se sarebbe possibile” è l’apodosi del periodo ipotetico completato dalla protasi “qualora si organizzasse un nuovo corso” (ma si badi: non cambierebbe niente se la protasi fosse implicita).La costruzione con il congiuntivo (“Vorrei sapere se fosse possibile”)accentua il valore di incertezza sulla possibilità espresso dall’emittente.nFabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Negli ultimi test di medicina 2017 è stato posto il seguente quesito: Quali, tra i termini proposti, completano correttamente la seguente proporzione verbale? Esteriore estremo = X : Y. 
La risposta esatta del miur è “X = superiore Y = sommo” Ritengo tuttavia che la risposta “X = alto Y = supremo” è parimenti valida.
Chiedo parere linguistico.
Grazie

 

RISPOSTA:

La sua ipotesi non è corretta: esteriore e estremo sono rispettivamente il comparativo e il superlativo di estero ; allo stesso modo, superiore e supremo (e anche sommo) sono il comparativo e il superlativo di un aggettivo poco usato e letterario: supero (che significa ‘posto in alto’). La proporzione verbale, pertanto, è esteriore: estremo =superiore: supremo (o sommo). L’aggettivo alto, evidentemente, è escluso dalla proporzione, essendo di grado positivo (lo stesso di estero e supero)

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Tra qualche giorno ci sarà una festa nel mio paese e vorrei recitare un monologo scritto da me. È corretto dire: ” …sogniamo di trovare un parcheggio, per la frustrazione di queste minicar che ormai si infilano dappertutto…anche SE AVREBBERO lo spazio per parcheggiare normalmente, solo per farti vedere che loro fanno come gli pare”?

 

RISPOSTA:

Il periodo è costruito correttamente. La congiunzione anche se introduce una proposizione concessiva e richiede di norma il congiuntivo o l’indicativo. Il condizionale è anche una scelta corretta se si vuole, come in questo caso, esprimere un certo grado di incertezza rispetto a ciò che si sta dicendo. Si noti che l’incertezza espressa dal condizionale ha il valore pragmatico di ridurre la perentorietà dell’affermazione; diversamente, la costruzione “si infilano dappertutto anche se hanno lo spazio…” mostrerebbe che chi parla è certo di ciò che sta dicendo e risulterebbe molto più decisa e polemica. Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Si può scrivere in un tema la seguente frase: trucco e parrucco?

 

RISPOSTA:

L’espressione trucco e parrucco è un idiotismo, cioè una costruzione caratteristica di una lingua (dal greco idiotes ‘particolare, specifico’), intraducibile e difficilmente sostituibile con una perifrasi analoga. Gli idiotismi, anche detti espressioni idiomatiche, determinano sempre un abbassamento del tono del discorso, soprattutto se, come in questo caso, contengono parole storpiate al fine di creare un effetto fonico (come, per fare un altro esempio, in il troppo stroppia). L’adeguatezza di simili espressioni va valutata alla luce delle variabili testuali: chi sono l’emittente e il ricevente del testo, e in che rapporto sociale sono tra loro, in quale ambiente è inserito il testo (familiare, scolastico, universitario, lavorativo…), qual è il suo scopo, è scritto (quindi tendenzialmente più formale) o parlato (tendenzialmente più permeabile agli abbassamenti di tono)?
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua e società, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Il servizio regolamenterà i rapporti con i nonni materni con modalità protette, almeno inizialmente, e comunque solo se rispondenti alle esigenze del minore.”
La frase sopra riportata è scritta su un decreto del Tribunale dei minorenni che è oggetto di diverse interpretazioni. La prima sostiene che la precisazione “solo se rispondenti alle esigenze del minore” si riferisca esclusivamente alle modalità protette, mentre la seconda sostiene si riferisca ai rapporti con i nonni materni sia protetti che no.Qual è quella giusta?
Grazie infinite e cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

La frase da lei sottoposta è complicata dalla sintassi molto sintetica, e in particolare dalla possibile doppia concordanza di rispondenti, sia con rapporti, sia con modalità. Una ragione sintattica, comunque, ci induce a ritenere rispondenti certamente concordato con rapporti, non con modalità: la proposizione “e comunque solo se rispondenti alle esigenze del minore”, infatti, è simmetrica al sintagma “con modalità protette”, quindi va messa sullo stesso piano di quest’ultimo, in relazione a rapporti. Vale a dire che i rapporti in questione saranno regolamentati secondo due criteri: la protezione del minore e la rispondenza degli stessi rapporti alle esigenze del minore. Il secondo criterio, inoltre, è da intendersi prioritario rispetto al primo, vista la presenza di comunque
Al contrario, rispondenti risulterebbe concordato con modalità se la frase fosse stata costruita così: “Il servizio regolamenterà i rapporti con i nonni materni con modalità protette, almeno inizialmente, e comunque rispondenti alle esigenze del minore”. In questo modo, rispondenti sarebbe stato simmetrico solamente a protette, quindi in relazione con modalità, non a tutto il sintagma “con modalità protette” (in relazione a rapporti). 
Come conseguenza dell’interpretazione che ritengo corretta, al servizio è attribuito il potere non solamente di regolamentare i rapporti con modalità protetta, ma anche di escludere tali rapporti, se ritenuti non rispondenti alle esigenze del minore. L’interpretazione alternativa, che ritengo non corrispondente alla lettera, ridurrebbe, invece, il potere del servizio alla regolamentazione dei rapporti già legittimati da un’altra autorità.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno,
Avrei bisogno di un riscontro riguardo la correttezza di questa frase: “Se fosse possibile, avrei bisogno di sapere se (il giorno x) il ricevimento avrà luogo”.
Grazie mille.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata. Si noti che la proposizione interrogativa indiretta “se (il giorno x) il ricevimento avrà luogo” può anche essere costruita con il congiuntivo: “se (il giorno x) il ricevimento abbia luogo”. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard, e da preferire in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo futuro, altresì, ha il vantaggio di esplicitare il tempo e risulta, pertanto, più chiara (nonché adatta a contesti d’uso mediamente formali).
Per ulteriori suggerimenti sull’uso del congiuntivo nelle proposizioni subordinate, la invito a interrogare l’archivio di DICO usando la parola chiave “congiuntivo”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno, volevo sapere se infausto e infernale possono essere considerati sinonimi.

 

RISPOSTA:

Il significato dei due aggettivi è decisamente diverso, anche se la coincidenza delle prime lettere, e anche la comune accezione negativa, può far pensare il contrario. Infausto è l’opposto di fausto (collegato al verbo favēre ‘favorire’), e significa ‘malaugurato, che presagisce eventi negativi’. Torquato Tasso, nel canto XII della Gerusalemme liberata, così descrive l’armatura di Clorinda: “Depon Clorinda le sue spoglie inteste / d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, / e senza piuma o fregio altre ne veste / (infausto annunzio!) ruginose e nere”. Tasso, cioè, suggerisce che i colori rosso (rugginoso) e nero delle armi presagiscano il sangue e la morte a cui il pesonaggio sta andando inconsapevolemente incontro. Da qui, il significato dell’aggettivo si è evoluto verso quello più generico di ‘sfortunato’; come in questo esempio, dal romanzo del 2003 Vita di Melania G. Mazzucco (p. 252): “Sua madre gli aveva raccontato spesso l’ultima incursione – che aveva reso infausto il 1860. I corsari erano sbarcati sulla spiaggia di Scauri e da lì saliti a depredare Minturno e i suoi villaggi, ammazzando uomini e bambini fin nei vicoli di Tufo”. 
Infernale è l’aggettivo di relazione di inferno (dal latino infer ‘che sta in basso’). Indica, cioè, qualcosa che ‘ha a che fare con l’inferno’. Da questo significato si è sviluppato quello di ‘malvagio, diabolico’ e poi quello, iperbolico, di ‘terribile, tremendo, insopportabile’ e anche ‘faticosissimo’. Addirittura, nel caso di ritmo infernale, l’aggettivo prende il significato di ‘sfrenato, convulso’.
Fabio Ruggiano

 

 

 

Parole chiave: Etimologia
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere qual è l’analisi del seguente periodo: “Sei stato previdente a non uscire con questo freddo”. Grazie e buona serata.

 

RISPOSTA:

“Sei stato previdente” è la proposizione principale, che regge “a non uscire con questo freddo”, subordinata causale implicita (equivalente a “perché non sei uscito/esci con questo freddo”).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

A sentimento (“fare qualcosa a sentimento”, cioè ‘così come ci viene, a caso’) è un’espressione italiana o tipica siciliana?

 

RISPOSTA:

L’espressione a mio sentimento è ben attestata nell’italiano, anche se caduta in disuso. Ad esempio nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo (edizione Vallardi del 1867), alla voce Opinione si legge:

Nelle faccende dove non si conoscono a fondo le ragioni e gli effetti delle cose, e non si possono esporre o non si vogliono, si dà il sentimento proprio, non il giudizio. A mio sentimento, è più modesto a dire che: a mio giudizio. Ognuno, in certe occasioni, può dire il suo sentimento. Non tutti hanno diritto di dare giudizio.

A sentimento potrebbe essere un’evoluzione di quella espressione, con lo slittamento semantico da ‘secondo me, per come la vedo io’ a ‘secondo il sentimento (e non secondo la ragione), istintivamente’. Nella formazione dell’espressione hanno senz’altro influito sintagmi avverbiali molto diffusi come a casoa vanvera e simili, che possono avere significati affini.
Per quanto riguarda la diffusione quantitativa, un piccolo sondaggio nell’archivio del quotidiano “Repubblica.it” rivela appena due attestazioni dell’espressione negli ultimi 10 anni, a dimostrazione della sua connotazione prettamente parlata, poco accettata nello scritto. Per di più, in entrambe le attestazioni l’espressione è tra virgolette, a rimarcarne l’eccezionalità. Ecco le attestazioni:

“In Italia – osserva Le Pera – secondo le stime di UnionCamere ogni anno almeno 218mila giovani fanno uno stage, settore pubblico escluso. E nel 2006 un’azienda italiana su 10 ha offerto la possibilità di stage e tirocini. Eppure spesso le imprese danno informazioni di base un po’ vaghe, e l’aspirante stagista si trova a scegliere un po’ ‘a sentimento'”(30 maggio 2008).

Inoltre, come da tradizione di famiglia, non mancheranno le tartine fatte con pancarrè, caviale, maionese, burro, cetrioli, funghetti, carciofini e capperi. Il primo e il secondo “a sentimento”, in base al cuoco di turno (21 dicembre 2011).

Sempre grazie ad Internet, scopriamo che Andrea Le Pera, colui che parla nel primo articolo riportato, è un giornalista milanese, mentre Francesca Gugliotta, autrice del secondo articolo, è di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Sembra, dunque, di poter concludere (ma l’esiguità dei dati suggerisce di essere cauti) che l’espressione sia diffusa da Nord a Sud, ma sia attualmente accettata solamente nel parlato e nello scritto brillante.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Salve gentili linguisti, mi sono capitate sotto al naso queste due frasi:

    a.      *Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene!*

*    b.      **Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene              alcune!*

Nella frase (b) è esplicito la parola *“alcune*” che è un quantificatore
indefinito. Ma nella frase (a) non c’è alcun quantificatore esplicito.

Volevo domandare:

1. La frase (a) risulta in pratica più generica rispetto alla frase (b)?
2. C’è differenza di significato tra queste due frasi così come sono?
Nel senso che: in questo caso, nella frase (a), la quantità di paste è
ancora più indeterminata e indefinita rispetto alla quantità di paste
menzionata nella frase (b)?
3. Oppure queste due frasi hanno lo stesso significato?
Perché nella frase (a) il quantificatore indeterminato pur non essendo
presente è sotto inteso?

 

RISPOSTA:

Come abbiamo già più volte risposto (e sviscerato anche in altre sezioni del sito), il ne ha il valore di pronominalizzare sia il partitivo (una parte scelta tra un tutto), sia altri complementi quali argomento (ne parliamo), moto da luogo (ne torno) ecc. Se è chiaro questo concetto, non sarà difficile far rientrare tutti gli altri casi nei casi prototipici già illustrati.
Ma, volendo scendere ancor più nello specifico delle sue ultime domande, possiamo dire che:
1) certamente, anche se manca alcune (come nel primo esempio), il valore partitivo è identico: è come se fosse compramene alcune, e dunque tra le due frasi non c’è alcuna differenza.
2) Compramene, assoluto (cioè senza alcune) è un modo più sorvegliato, in luogo di compramele (dal momento che, in effetti, non si chiede di comprare tutte le paste, ma solo una modica e ragionevole quantità).
Riassumendo: sì, le due frasi sono identiche; no, non c’è alcuna differenza semantica tra le due; sì, nella prima è come se alcune fosse sottinteso. O meglio, dato che nel partitivo ne è già compresa l’idea del partitivo, per l’appunto, non c’è alcun bisogno di alcune, che dunque può esserci come anche mancare.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome
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QUESITO:

La parola riluttante ha come significato esitante, refrattario. Il significato della parola può essere esteso ad inaffidabile Es: è una persona riluttante inteso come una persona poco chiara, di cui non ci si può fidare ciecamente, una persona che non mi convince…

 

RISPOSTA:

Alla base della riluttanza c’è il concetto della lotta (deriva, infatti, dal latino luttare), della resistenza a fare qualcosa, anche a comprendere qualcosa, a collaborare. Ripercorrendone gli usi letterari, spesso a riluttante è assegnato proprio il significato di chi non vuole collaborare, non vuole essere d’accordo, non vuole ascoltare le opinioni e le ragioni altrui, ecc. Il contesto, come sempre, è dirimente: si può essere riluttanti (cioè non voler collaborare) alla chiarezza, cioè volersi ostinare ad essere oscuri, ambigui. Ambiguo, per l’appunto: visto che l’italiano ha un bel termine preciso per esprimere il concetto di cui lei sta parlando (una persona poco chiara, che non mi convince), perché non usarlo? Se il lessico italiano fornisce la parola che esprime esattamente quello che vogliamo esprimere, usiamola, senza ricorrere a complicate metafore, metonimie, sinestesie, ipallagi ecc., e senza far troppo affidamento sulle capacità di comprensione dei nostri interlocutori. I quali, se confusi da termini poco chiari, possono ben essere… riluttanti alla comprensione!

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?

 

RISPOSTA:

I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiorefabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, fluttoflorealeflagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Avrei qualche dubbio sull’uso della particella “ne” e dei pronomi diretti. In una frase come questa: “Vuoi la birra fredda?” La risposta sarebbe: “No, non la bevo.” Qui si usa il pronome “la” perché c’è l’articolo determinativo. D’accordo, e qui credo di non sbagliarmi. Ma se invece la frase fosse: “vuoi una birra fredda?” Le risposte corrette possono essere di due tipi: “no, non ne bevo” “no, non la bevo” Perché in questo ultimo caso la risposta può essere di due…

 

RISPOSTA:

Il pronome ne è usato, in questo caso (e in verità quasi sempre), in funzione di partitivo. Per questa ragione esso si può riferire solamente ad un referente indeterminato non specifico, mentre i referenti indeterminati specifici, e i determinati, sono ripresi con i pronomi clitici di terza persona lolalile.
Un referente indeterminato non specifico è un oggetto indeterminato, quindi che costituisce una classe, senza alcuna preminenza sugli altri oggetti della stessa classe (mentre il referente specifico è sempre indeterminato, ma ha una certa preminenza sugli altri oggetti della stessa classe). Una conseguenza importante di questa distinzione è che gli oggetti indeterminati non specifici sono quasi sempre oggetti massa (panepastazucchero…) oppure sono plurali.
Per chiarire questo concetto vediamo qualche confronto:

1. – Attento, vedi i massi [referente determinato] che si staccano dalla montagna?
– No, Non li vedo.
2. – Attento, cadono dei massi [referente indeterminato specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non li vedo.
3. – Attento, cadono massi [referente indeterminato non specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non ne vedo.

L’articolo è un segnale netto di distinzione tra determinato e non determinato, ma non è l’unico elemento che entra in gioco in questa delicata classificazione; la distinzione tra determinato specifico e non specifico, poi, è ancora meno segnalabile (l’articolo indeterminativo, al singolare, è comune alle due categorie). Per un parlante nativo, comunque, non è un problema capire quando un oggetto sia da intendersi come specifico e quando come non specifico.
Un caso molto significativo di come un parlante nativo possa (istintivamente) modulare la lingua a seconda degli scopi che vuole ottenere è proprio la scelta tra le due possibili risposte alla domanda “Vuoi una birra fredda?”. La risposta (negativa) più immediata dovrebbe essere “No, non la voglio”, perché la presenza dell’aggettivo rende l’oggetto indeterminato specifico (cioè distinguibile dagli altri oggetti della stessa classe). Con questa risposta, l’interlocutore lascia intendere che potrebbe accettare una birra non fredda. La risposta “No, non ne voglio” è possibile, invece, se l’interlocutore vuole trascurare la specifica qualità della birra offerta e vuole lasciar intendere che non accetterebbe alcun tipo di birra. Questa seconda opzione è più marcata rispetto alla prima dal punto di vista pragmatico, cioè ha un carico implicito maggiore, perché forza la grammatica per ottenere uno scopo pratico.
Se la domanda fosse “Vuoi una birra?”, invece, la risposta “Non ne voglio” sarebbe meno marcata, perché una birra è a metà tra specifico e non specifico (può riferirsi tanto al nome massa quanto ad una bottiglia di birra). Anzi, in questo caso “Non la voglio” è la risposta più marcata (lascia intendere che l’interlocutore accetterebbe altro, che, però, non gli è stato offerto).
Chi volesse continuare a riflettere sulla questione, può trovare molti spunti nella Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di Lorenzo Renzi (Bologna, Il Mulino, 1988), volume I, pp. 363-367 e 635-637.
Infine, se nella risposta non appare lo stesso verbo della domanda (“– Vuoi una birra? – Non la bevo/Non ne bevo”), la situazione si fa ancora più complessa, perché entra in gioco il significato del nuovo verbo introdotto, che aggiunge un’altra variabile, non regolata solamente dal rapporto tra specifico e non specifico. In questo caso, bevo aggiunge alla risposta tutta una serie di significati e sfumature rispetto alla ripetizione del verbo volere contenuto nella domanda, perché è ovvio che volere e bere indicano una disposizione diversa del parlante verso l’oggetto. “Non la/ne voglio” comunica che in altre circostanze (di tempo, di luogo, di opportunità) il parlante berrebbe la birra; “non la/ne bevo”, invece, indica che il rifiuto è indipendente dalla volontà, ma dovuto a un ostacolo oggettivo (preferenze di gusto o intolleranze di vario genere). Attenzione, perché la risposta sia “non la/ne bevo” l’ostacolo deve essere percepito dal parlante come invalicabile; se ci fosse in atto un divieto temporaneo o potenzialmente aggirabile, invece, come quello di un medico o di un’altra autorità, la risposta più probabile sarebbe “non ne posso bere” o simili.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Da un libro di grammatica ciò che è tra virgolette. “…Il pronome clitico ne non può rappresentare inoltre una categoria incassata in un sintagma nominale in posizione di soggetto preposto; non possono esserci (204 a-c), se “ne” rappresenta una categoria incassata nel soggetto: (204) a. *La figlia ne ha parlato. b. *Tre ne sono usciti da casa. c. *Una grande ne è bruciata.” Vorrei domandare: cosa significa tutto ciò? Perché le tre frasi sono agrammaticali?Come renderle…

 

RISPOSTA:

Il comportamento del pronome ne è abbastanza complesso, in italiano. Provo a semplificare il più possibile la spiegazione di quanto detto nella sua grammatica in modo un po’ fumoso.
Il ne può sostituire (incassare, incapsulare) di norma o un complemento oggetto, oppure un soggetto, spesso posposto, di verbi, detti inaccusativi (quali andarevenirearrivare ecc.: intransitivi con ausiliare essere), nei quali il soggetto tende a comportarsi come un complemento oggetto. E dunque, per esempio: “io mangio due mele”: “io ne mangio tre” (ne pronominalizza il compl. oggetto mele); “arrivano tre miei cugini”: “ne arrivano tre” (il “ne” pronominalizza il soggetto miei cugini); ma in un esempio come: “due persone mangiano”, io non posso pronominalizzare il soggetto con ne (“ne mangiano due”), perché in questo caso ne lascerebbe supporre la presenza di un oggetto (“ne mangio due, di ciambelle”). Pertanto, negli esempi riportati dalla sua grammatica, il ne non può riferirsi al soggetto, ma soltanto, semmai, ad altre parti della frase. Per es., in “la figlia ne ha parlato”, ne non può pronominalizzare figlia, bensì un complemento di argomento (“La figlia ne ha parlato col padre, di questo problema”).  Nel secondo esempio (“tre ne sono usciti da casa”), il ne con difficoltà può essere riferito al soggetto, mentre del tutto normale sarebbe il riferimento al complemento di moto da luogo: “ne sono usciti tre” (da casa). In realtà, quest’ultimo caso è dubbio, poiché, con i verbi inaccusativi, il soggetto potrebbe essere pronominalizzato da ne sia che sia posposto, sia che sia preposto al verbo: sia in “due treni arrivano” , sia in “arrivano due treni”, il soggetto treni può essere pronominalizzato da ne: “ne arrivano due”.
Per ulteriori chiarimenti sull’uso di ne, veda anche le risposte delle FAQ  il verbo piacere e “Ne voglio” o “la voglio”? di DICO.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

[…]  ho un dubbio sulla grafia
di una parola: qualcunaltro,qualcun’altro o qualcun altro?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è qualcun altroQualcuno si comporta come l’articolo indeterminativo ununouna: dunque vuole l’apostrofo al femminile (perché è elisione di qualcuna), non lo vuole al maschile. Esempi: “qualcun altro”, “qualcun’altra”, “c’è qualcuno che possa aiutarmi?”, “Qualcuna di voi ha visto la mia matita?”.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

[…] ho un dubbio su come coniugare il verbo in
questa frase: La povertà, nonché la guerra, è/sono causa delle migrazioni.

 

RISPOSTA:

Se si usa nonché come inciso, allora il verbo è meglio metterlo al singolare: “La povertà, nonché la guerra, è causa delle migrazioni”. Tuttavia, suggerirei di non usare il nonché, che ha un sapore burocratico, ma di usare direttamente due soggetti, e dunque con il verbo al plurale: “Le due principali cause delle migrazioni sono la povertà e la guerra”. Sempre meglio essere chiari, semplici e lineari: se le cause sono due, meglio dirlo subito, anziché occultarne una dietro un nonché.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

I miei vicini di casa sono sconvolti per un furto”. Sono sconvolti è predicato nominale o verbale?

 

RISPOSTA:

La costruzione della frase suggerisce di interpretare il sintagma sono sconvolti come l’unione di copula e aggettivo, quindi come un predicato nominale. Diversamente, se il complemento di causa fosse un complemento di causa efficiente (“I vicini sono sconvolti da un furto”, e ancora meglio: “I vicini sono stati sconvolti da un furto”), il sintagma sarebbe un predicato verbale. Per maggiori dettagli sulla natura del participio, nominale e verbale allo stesso tempo, la rimando a questo quesito dell’archivio.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Non tutti i dizionari danno una definizione dei termini croccantino e crocchetta come ‘mangime per cani/gatti’: perché? e quale dei due è più corretto?

 

RISPOSTA:

I due nomi condividono l’origine, che è il verbo francese croquer ‘scricchiolare’ (ma in italiano esiste anche il verbo croccare) e sono stati coniati in ambito gastronomico. Fin dal Settecento, il croccante è un dolce di mandorle e zucchero caramellato, mentre ottocentesca è la polpetta di patate o carne impanata e fritta nota come crocchetta. Va detto che la crocchetta non è affatto croccante, ma deriva il suo nome probabilmente dalla forma di un biscotto, chiamato crochetto (quello sì croccante), che esisteva già nel Settecento.
Croccantino, diminutivo di croccante, è recentissimo, addirittura degli anni Duemila (il dizionario Treccani lo ha inserito solamente nel 2016), e designa esattamente il cibo secco per gli animali domestici, oltre che, marginalmente, il gusto di gelato o altro dolce ispirato al croccante.
Entrambi i nomi sono ben formati; dal punto di vista semantico, croccantino è del tutto legittimo (sebbene di recente coniazione), mentre l’uso di crocchetta è curioso, visto che le crocchette tradizionali non richiamano affatto, per forma e consistenza, il cibo secco per gli animali. Si aggiunga che il GRADIT registra sotto il lemma crocchetta solamente quello tradizionale di ‘polpetta’. Per quanto curioso, però, non si può dire scorretto: l’evoluzione della lingua segue spesso dei percorsi non riconducibili solamente alla logica razionale; e nemmeno poco comune: una rapida ricerca in Internet con il motore di ricerca google restituisce molti più risultati per “crocchette per cani e gatti” che per “croccantini per cani e gatti”. I parlanti, quindi, nonostante la poca somiglianza tra le crocchette e il cibo secco per gli animali, sembrano preferire crocchette a croccantini per definire questo alimento. La preferenza dei parlanti è un argomento decisivo per ritenere legittimo anche crocchetta, accanto a croccantino.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se il verbo vivere preferisce l’ausiliare essere o avere. Per esempio: “Spesso mi chiedo se, nel caso in cui il filosofo francese avesse vissuto più a lungo, sarebbe stato per lui possibile un ritorno all’ebraismo”.

 

RISPOSTA:

Il verbo vivere può essere transitivo, anche se con pochi oggetti: vitaesperienzasituazione ecc. In questi casi, ovviamente, l’ausiliare da usare è avere. Può anche essere usato in modo assoluto: “Luca ha vissuto”, nel senso di ‘avere una vita intensa’. Anche in questo caso l’ausiliare è avere (come per lavorare abbaiare). Più frequentemente, però, questo verbo è usato come un comune intransitivo. La regola vorrebbe che in questi casi si usasse l’ausiliare essere; la sua frase, quindi, dovrebbe essere formulata così: “Spesso mi chiedo se, nel caso in cui il filosofo francese fosse vissuto più a lungo…”. Dobbiamo, però, rilevare che l’ausiliare avere si è diffuso, con questo verbo, anche quando questo è usato intransitivamente, probabilmente per influenza degli altri casi in cui avere è pienamente legittimo. Si tratta di un processo già antico e che poggia anche su autori illustri: Torquato Tasso scrive in un’operetta non molto nota del 1585, dal titolo Il Ghirlinzone: “Assai bene ha vissuto colui il quale ha speso ne le nobilissime azioni lo spazio conceduto”.
Si potrebbe tentare di fare una distinzione semantica tra “è vissuto” e “ha vissuto”, intravedendo nel primo costrutto un maggior peso dato alla perfettività, cioè al termine dello stato del vivere, mentre nel secondo si sottolineerebbe la sua durata. Sarebbe, però, una distinzione un po’ capziosa, e in fondo questionabile.
Come orientarsi nella scelta, allora? Come spesso accade nella lingua, non si tratta di distinguere il corretto dallo scorretto, ma di adattare il proprio modo di esprimersi (che tecnicamente si chiama idioletto) ai contesti in cui ci si trova. L’ausiliare essere, più regolare e preferito in letteratura, è più formale e va scelto in situazioni che richiedono una lingua più sorvegliata (ma in realtà va bene sempre); avere è accettabile in contesti di formalità media e bassa (nel parlato probabilmente anche in contesti più formali).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

La maggior parte delle persone sa che l’accento è usato sulla parola “sì” quando quest’ultima è un avverbio affermativo. Sulle lettere maiuscole l’accento non è necessario?

 

RISPOSTA:

Normalmente sui monosillabi l’accento grafico non è segnato, perché è scontato che l’accento cada sull’unica vocale della parola, ma nel caso di  (come di èné), esso è necessario per evitare confusione con monosillabi formalmente uguali, tranne, appunto, che per  l’accento.
Se la parola lo richiede, l’accento va segnato sempre, anche quando la parola è maiuscola, e anche in contesti in cui non ci sia alcun pericolo di confonderla con altre.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buongiorno, vorrei sapere, per cortesia, se ho scritto bene la seguente frase (ho seri problemi con i verbi, pur conoscendoli a volte trovo serie difficolta ad applicarli): “Ti scrivo per chiederti se hai ricevuto l’isee corretto e se ci sono i presupposti per agire via legale chiedendo il gratuito patrocinio”.

 

RISPOSTA:

Cara Marcella, nella sua frase i verbi sono usati correttamente; l’unico appunto che muoverei è su “agire via legale”, che sembra un burocratismo fuori luogo: meglio sarebbe “agire per vie legali”.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua della burocrazia, Verbo
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QUESITO:

Si può irruento/irruenta o solo irruente? Considerando la derivazione della parola da un participio latino e non da un aggettivo, le due forme hanno pari dignità usate nei vari registri della lingua o, magari in determinati contesti, è più corretta la seconda?

 

RISPOSTA:

Le due forme sono perfettamente equivalenti, e dunque entrambe corrette e adatte a tutti i contesti e in tutti i registri. Come giustamente osserva Lei, irruente è più vicina all’etimo latino (participio presente del verbo irruere), mentre irruento ha subito il consueto trattamento della maggioranza degli aggettivi italiani. Irruento è più comune, tanto da essere messa a lemma del Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, laddove irruente è considerata una variante. Se proprio volessimo fare una sottile distinzione, diciamo che irruente piace di più alle persone più tradizionaliste e convinte che una lingua vada valutata solo razionalisticamente (cioè in base a rigide considerazioni etimologiche). A queste persone, ricordiamo tuttavia che ogni lingua è mutevole nel tempo, nello spazio ecc. e che, se così non fosse, parleremmo ancora latino (o, addirittura, protoindoeuropeo, o, per chi ci crede, la lingua di Adamo)!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gentilissimi, Quale tra blu e ble è la forma italiana corretta? Grazie.

 

RISPOSTA:

Le tre forme bleublé e blu sono tutte e tre corrette e possono dunque essere utilizzate liberamente.
Qualche precisazione di storia, stile e opportunità.
1) Tutte e tre derivano dal medesimo etimo, l’antica forma germanica, franca, blao, che diede vita anche all’antico italiano biavo ‘azzurro chiaro’,
2) Il termine blé andrebbe scritto più opportunamente con l’accento acuto ed è considerata variante meno formale e meno comune di blu.
3)  Bleu è un francesismo: dato che sia blu sia blé ne sono gli adattamenti italiani, tanto meglio optare per questi ultimi.
4) Dato che blu è la forma più comune, più diffusa in italiano, e anche avvertita come più formale, o almeno adatta a tutti i registri, meglio optare per quest’ultima, piuttosto che per blé.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase:Dove sei?; il sintagma “dove”, si può considerare un complemento
di stato in luogo? Grazie

 

RISPOSTA:

Sì. Però la forzatura di ricondurre un avverbio interrogativo (dove) a un’espressione lessicalmente più piena ed esplicita del tipo “in quale luogo” giustifica la perplessità che l’ha indotta, immagino, a rivolgerci questa più che legittima domanda. In realtà spesso l’analisi logica è abbastanza… illogica, nel senso che sembra troppo affezionata a una sterile e fantasiosa nomenclatura a metà strada tra il valore semantico (luogo) e quello funzionale (che funzione sintattica e testuale ha dove in una frase?)  e troppo poco attenta al reale funzionamento delle parole nella frase. In altri termini, l’analisi logica tradizionale sembra funzionare bene soltanto nelle frasi assertive canoniche (es.: “Adamo mangia la mela”). Già nelle domande vacilla. Figuriamoci in altre centinaia di esempi reali. Sarebbe più produttivo concentrarsi su altri quesiti sintattici quali: qual è il tema e qual è il rema della frase “dove sei”? (dove in questo caso funge da tema); come si può trasformare in interrogativa indiretta la frase in oggetto (“dimmi dove sei”)?; quali altri valori semantici e sintattici può avere dove in italiano? ecc. ecc. In realtà, la minuziosa casistica dei complementi dell’analisi logica tradizionale serve davvero a poco (spesso è del tutto idiosincratica: fine o scopo? agente o causa efficiente? e simili amenità). Basterebbe concentrarsi sugli argomenti del verbo (o valenze), sulla differenza tra soggetto e oggetto, sulla differenza tra oggetto diretto ed elementi avverbiali ecc. E bisognerebbe inoltre dare molta più importanza all’analisi del periodo. E forse così riusciremmo a migliorare la coscienza metalinguistica dei nostri studenti (anche universitari) e anche le loro competenze, stavolta sì, logiche. Ma logiche sul serio!

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema
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QUESITO:

Il termine ponderato ha come sinonimo oculatoequilibrato: è possibile sostituire in una frase il termine ponderato con il termine parsimonioso (che ha come sinonimi oculato ed equibrato). I due termini (ponderato parsimonioso) possono essere considerati sinonimi o almeno sostuibili in un contesto (per dire oculato, equilibrato, dosato)?

 

RISPOSTA:

Ponderato ha a che fare con la capacità di prendere decisioni in modo equilibrato e in seguito a riflessione, non in modo impulsivo (deriva dal verbo latino pondo ‘soppesare, valutare’). Parsimonioso, invece, indica una persona oculata nello spendere o nell’amministrare i propri beni (deriva dal verbo latino parco ‘risparmiare’). A volte parsimonioso è usato in modo ironico o eufemistico per indicare una persona avara.
Possiamo dire che ponderato sia un iperonimo di parsimonioso, perché ne contiene il significato, oppure, che è lo stesso, che parsimonioso sia un iponimo di ponderato. Ponderato, quindi, può sostituire parsimonioso, ma necessita di una specificazione: “Paolo è una persona parsimoniosa” equivale a “Paolo è una persona ponderata nello spendere”; al contrario, parsimonioso può sostituire ponderato solamente con riferimento alle spese o all’amministrazione dei propri beni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buon giorno, volevo sapere se i termini ponderare centellinare possono essere considerati sinonimi o almeno sostituibili in un contesto (entrambi hanno come sinonimo misuraresoppesaredosare). Nel caso di dosare o misurare una quantità i termini, centellinare ponderare possono sostituirsi?
Ad esempio, posso sostituire il termine ponderare con centellinare nella seguente frase: “Pondera (inteso come giusta misura) bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”/”Centellina bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”? 
Il vocabolario dà come significato di centellinare anche ‘dosare con parsimonia’. 

 

RISPOSTA:

I due verbi in questione hanno un significato molto diverso: ponderare significa ‘valutare con calma tutti gli aspetti di un problema per prendere una decisione al riguardo’, mentre centellinare vuol dire ‘bere a piccoli sorsi’ (un centellino è, appunto, un piccolo sorso), oppure, metaforicamente, ‘distribuire oggetti lentamente al fine di prolungare il piacere, o il valore, proprio degli stessi oggetti’ (si possono centellinare le energie, le informazioni, le parole).
Difficilmente, pertanto, i due verbi possono essere scambiati; per esempio, “Paolo di solito pondera le sue parole” significa che Paolo riflette bene prima di parlare, per non urtare la sensibilità di chi ascolta, mentre “Paolo di solito centellina le sue parole” vuol dire che Paolo ama creare suspense quando parla, per tenere vivo l’interesse di chi lo ascolta.
Nel suo esempio, infatti, ​le due varianti sono possibili, ma hanno significati diversi: “Pondera la quantità” vuol dire ‘rifletti bene sulla quantità’, mentre “Centellina la quantità” significa ‘metti goccia a goccia la quantità”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buon giorno, vorrei sapere se sproloquio può significare ‘pettegolezzo senza malignità’. Ad es. ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ può essere una forma di sproloquio?

 

RISPOSTA:

Il nome sproloquio può essere usato per definire l’azione del ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ solo se si vuole sottintendere una sfumatura di inconcludenza, confusione, scarso dominio dell’argomento di cui si parla. Per ottenere il significato cercato suggerisco di usare, invece di sproloquiochiacchiera, oppure cianciaciarlacicalata cicaleccio (e i relativi verbi chiacchierarecianciareciarlarecicalare).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buona sera, su un testo di grammatica c’è questo esempio di analisi del periodo:
“Il libro è uscito da pochi giorni”: principale;
“e già va a ruba”: coord.alla principale;
“perché racconta una storia vera”: sub. alla princip.
Io avrei considerato quest’ultima una sub. alla coordinata.
Grazie in anticipo per la risposta.

 

RISPOSTA:

La subordinata è certamente collegata alla coordinata: ovviamente “il libro va a ruba perchè racconta una storia vera”, non “il libro è uscito da pochi giorni perché racconta una storia vera”. È vero che la coordinata è sullo stesso piano della principale, infatti la subordinata è di primo grado, ma è comunque bene distinguerla dall’unica proposizione veramente indipendente, che è “Il libro è uscito da pochi giorni”.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, nella frase “Stefania è molto occupata a terminare la relazione”, “a terminare” è da intendersi relativa implicita oppure costituisce un verbo fraseologico insieme a “è occupata”?

 

RISPOSTA:

“A terminare” non è una subordinata relativa, né “occupata a” è un verbo fraseologico o modale (del tipo comincio a, mi metto a, ho intenzione di ecc.), bensì si tratta di una completiva implicita (“a terminare”), retta dal verbo occuparsi, o meglio, in questo caso, dalla forma passiva essere occupato. Le completive sono subordinate che svolgono un ruolo analogo a quello del complemento oggetto, vale a dire che completano il valore del verbo, costituendone l’argomento, cioè l’elemento direttamente retto dal verbo. Sono dette, infatti, anche frasi argomentali. Oltre alle oggettive vere e proprie (“dico di andare”), esistono anche le completive oblique, vale a dire quelle che sono rette da verbi intransitivi: Impegnarsi , occuparsi , preoccuparsi (o essere impegnato, occupato ecc.), cioè da verbi che non possono reggere un complemento oggetto e neppure una completiva esplicita, ma soltanto una completiva obliqua implicita, cioè una subordinata all’infinito retto da una preposizione diversa da di (o a volte anche da di): “mi impegno a fare qualcosa”, “sono impegnato a fare qualcosa”, “sono occupato a fare qualcosa”, “mi preoccupo di fare qualcosa”.

Naturalmente, il valore semantico di queste subordinate può variare, oscillando dal valore causale, a quello finale ecc. Nel caso di essere occupato a fare qualcosa, per esempio, il valore può essere analogo a quello delle finali. Tuttavia, è bene definire questo tipo di frasi come completive, piuttosto che finali, poiché le completive sono frasi argomentali (cioè hanno il ruolo di completare le valenze del verbo, ovvero svolgono al funzione di un complemento oggetto o simile), mentre le finali, le causali ecc. sono frasi avverbiali, cioè hanno un valore analogo a quello degli avverbi, che non servono a completare le valenze (o argomenti) del verbo, bensì ad aggiungervi informazioni accessorie (fine, causa, tempo, modo ecc.).

D’altro canto, mi rendo conto che la differenza tra occupato a fare e sto per fare, o ho intenzione di fare è minima, donde la ragione della sua ipotesi che si tratti di un costrutto modale. In realtà sarebbe meglio limitare la categoria dei verbi modali e aspettuali ai soli verbi che indichino o l’atteggiamento del parlante (voglio, devo, posso, analoghi a ho intenzione di, ho il dovere di, ho la possibilità di e simili), oppure (gli aspettuali) all’aspetto dell’azione (sto per, ho iniziato a, ho finito di ecc.).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Sparlare sproloquiare possono essere considerati sinonimi relativi, almeno sostituibili in un contesto? Dalla ricerca che ho effettuato sul dizionario de Mauro risulta che sparlare ha 2 significati, 1 Parlare con malignità, 2 parlare a sproposito inopportunamente. Per sproloquiare ho trovato come significato sul Treccani ‘parlare a sproposito’. Italwordnet, database semantico, li definisce sinonimi. Secondo voi ci può essere una sinonimia tra questi due termini?

 

RISPOSTA:

In generale, le lingue non amano i sinonimi, perché sono uno spreco di materiale. Per questo, le parole che ci sembrano avere lo stesso significato si sovrappongono solo parzialmente, oppure hanno ambiti d’uso diversi (come comprare, comune, e acquistare, tecnico). Nel caso di sparlare e sproloquiare, i due verbi hanno un significato vicino, ma che rimane distinto. Sparlare significa, secondo il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da Tullio De Mauro), quasi esclusiavamente ‘parlare con maldicenza’, come suggerisce il prefisso s-, che indica in questo caso lo stravolgimento in negativo, la degenerazione, del significato della base. Il prefisso s- di sproloquiare non ha lo stesso significato di quello di sparlare, ma indica la ripetizione dell’azione espressa dal verbo (come in sbatteresfarfalliospennellare…): chi sproloquia, insomma, ripete l’introduzione (proloquium in latino è proprio l’introduzione al discorso) senza arrivare mai a trattare il cuore dell’argomento.
La sfumatura di malevolenza insita nel verbo sparlare, quindi, non appartiene a sproloquiare, che riguarda un modo di fare confuso e prolisso, a volte da fanfaroni, ma non malevolo.
Anche nel significato secondario di sparlare, ‘parlare a sproposito’, si mantiene una certa sfumatura di inopportunità, estranea a sproloquiare (e si consideri anche che il GRADIT classifica questa accezione di sparlare come BU, cioè ‘basso uso’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Chiedo se queste frasi sono corrette:
– quando ho comunicato la decisione ai miei genitori, sono rimasti stupiti della mia scelta e mi hanno detto che si mi fossi impegnata / impegnerò, loro mi avrebbero appoggiata / appoggeranno.
– A te non fa rabbia che tutti ti dicono / dicano quanto siano facili gli esami. 
– Dicono che si può fare / possa fare a meno di queste apparecchiature.

 

 

RISPOSTA:

Le tre frasi sono corrette in entrambe le varianti. La prima presenta, tra le due varianti, una differenza nella rappresentazione del grado di possibilità degli eventi: se mi impegnerò loro mi appoggeranno presenta gli eventi come certi; se mi fossi impegnata loro mi avrebbero appoggiata li presenta come possibili, ma non certi.
Negli altri due casi, la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo va fatta in base al contesto comunicativo. L’indicativo è la variante meno formale, il congiuntivo quella più formale.
Tanto sul periodo ipotetico, quanto sull’alternanza tra indicativo e congiuntivo, l’archivio di DICO contiene decine di domande e risposte. La invito, pertanto, a “rovistarlo” usando il motore di ricerca interno con parole chiave come periodo ipotetico e congiuntivo.
Fabio Ruggiano
 

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “La fanciulla volle sia uccidere che bollire che mangiare la testuggine”, gli infiniti che tipo di proposizione sono?

 

RISPOSTA:

Gli infiniti retti da un verbo servile, o da un verbo modale, possono essere considerati o parte integrante del verbo reggente, quindi rientranti nella stessa proposizione, o dipendenti da esso, nel qual caso fanno parte di una proposizione completiva, in questo specifico caso oggettiva.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

E’ corretto scrivere “Capo Organo” oppure “Capoorgano”? E’ corretto scrivere “Capo Segreteria” oppure “Caposegreteria”? In attesa di una cortese risposta, porgo i più cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Le parole composte, cioè formate da due parole (nomi, aggettivi, verbi, raramente preposizioni e avverbi), come attaccapannicapostazioneterremoto, possono essere scritte senza interruzione, unite dal trattino o separate. La distinzione tra la scrittura congiunta e quella con trattino non è sempre netta. I composti con verbi sono normalmente univerbati (lavapiattiandirivieniviavai); quelli con aggettivi si fondono facilmente (agrodolcebiancospinoverderame); quelli che coinvolgono nomi rimangono spesso separati (tranne quelli formati con verbo + nome), meno spesso prendono il trattino.
Con il tempo, il composto può perdere trasparenza e finire per essere considerato una parola unica. Tale processo può essere lungo, tanto che due versioni, con e senza trattino, o anche separate e univerbate, spesso convivono per molto tempo. Si può arrivare ai casi estremi (rari) di parole di cui esistono le tre versioni grafiche, ad esempio piccolo borghese,piccolo-borghese e piccoloborghese. Il processo può anche essere frenato da ragioni peculiari delle singole parole, come in diritto-doverefranco-austriacoitalo-tedesco, nelle quali opera la necessità di mantenere i due costituenti autonomi.
Insomma, sulla grafia delle parole composte influiscono fattori diversi, legati alla norma ma soprattutto all’uso.
Le parole composte con il costituente capo e indicanti qualifiche professionali sono in continuo aumento, sulla falsariga dell’evoluzione del mondo del lavoro. Capo organo capo segreteria non sono registrate nei dizionari, ma la ricerca on line permette di rilevarne l’uso corrente: capo organo appare quasi sempre nella grafia separata, come era prevedibile, vista la recente formazione, l’uso ristretto e la difficoltà dell’incontro delle due o; capo segreteria, leggermente più acclimata, accoglie anche la grafia caposegreteria. Non sembrano diffuse (ma sono possibili) le varianti capo-organo e capo-segreteria.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In Liguria si usa la parola “Rebecca” per indicare il cardigan. Sapete dirmi qual è l’origine di questa parola, che non credo faccia parte dell’italiano standard? Grazie

 

RISPOSTA:

Il termine rebecca ‘cardigan’, pur comune, non figura, in effetti, nei principali dizionari storici del ligure e del genovese, segno, evidentemente, della relativa modernità del termine, o della sua almeno parziale gergalità. Possiamo, dunque, soltanto formulare delle ipotesi etimologiche. Almeno tre.
1) Dallo spagnolo rebeca, dal nome del personaggio dell’omonimo film di Hitchcock (Rebecca, 1940), che indossava quel capo d’abbigliamento.
2) Dall’etimo ebraico (controverso) del nome proprio Rebecca, che equivale, più o meno, a ‘legame’. E dunque, per transizione, capo d’abbigliamento che si lega, cioè allaccia.
3) Dal francese se rebiquer ‘arricciarsi, rivoltarsi all’insù’, anche riferito a collo di capi di abbigliamento.
Come spesso accade, non è possibile optare con assoluta certezza per l’uno o per l’altro etimo, in assenza di testimonianze dirette e attendibili.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Buonasera,

vorrei sapere qual è la forma corretta tra queste: – semiabbandono – semi abbandono – semi-abbandono. Grazie.

 

RISPOSTA:

Le parole formate con il componente semi- sono considerate derivate, non composte, perché semi- è un prefisso, non una parola a sé stante. Non sono contemplate, pertanto, varianti alla grafia univerbata semiabbandono.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, la maestra di mio figlio usa l’espressione “scendere le valigie”, “scendere gli scatoloni”, ecc. Siccome in Liguria questa espressione non viene usata, vorremmo sapere se è corretta o se appartiene all’area linguistica d’origine della maestra (Sicilia). Grazie

 

RISPOSTA:

L’uso transitivo di alcuni verbi di movimento intransitivi, salirescendereentrareuscire (e possiamo aggiungere anche tornare/ritornare nel senso di ‘restituire’), è uno dei tratti più riconoscibili dell’italiano sovraregionale meridionale e non è accettato nell’italiano standard.
Ricordiamo, per inciso, che salire e scendere possono essere transitivi anche in italiano, sebbene solamente in relazione ad oggetti interni (scalestrademontagne…).
L’uso transitivo con oggetti diversi, come nel suo esempio, deriva da una italianizzazione del dialetto, ma è favorito dall’economia espressiva che comporta: le alternative a questi verbi, infatti, sono o composte (portare/tirare su/giù/fuori/dentro…) o molto formali (sollevarecalareinserireestrarre…). Probabilmente in virtù di questo vantaggio i parlanti abituati a sfruttare tale uso hanno difficoltà ad abbandonarlo, perché sentono le alternative meno funzionali; la resistenza da parte dei difensori della regola, però, rimane salda, il che significa che questa eccezione non sarà accolta in italiano ancora per molto tempo (sempre che lo sia mai). Forse un piccolo segnale di “sfondamento” può essere visto nel botta e risposta, a sfondo ironico, che ha animato i social network (senza limitazioni geografiche) negli ultimi mesi, identificato dal tormentone #escile (https://twitter.com/hashtag/escile?lang=it).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Salve gentili linguisti. Il mio dubbio è: in linguistica che cosa sono i tratti intersegmentali? Potete spiegarmi che cosa riguardano? Che cosa sono? Che ruolo hanno? E la fonotassi ha a che fare con i fenomeni intersegmetali?
E per capire meglio gradirei cortesemente qualche esempio se fosse possibile. Chiedo gentilmente lumi. Grazie mille

 

RISPOSTA:

Più che di tratti intersegmentali, dovremmo parlare di fenomeni intersegmentali. Si tratta di quelle modificazioni subite dai singoli fonemi in relazione al contesto nel quale si vengono a trovare. Sebbene, infatti, sia possibile separare in astratto i fonemi gli uni dagli altri, nella realtà, quando parliamo produciamo una catena fonica continua e ciò ci porta ad adattare i singoli fonemi a quelli che precedono e a quelli che seguono, spostando leggermente il loro luogo di articolazione. Questa caratteristica della fonazione è detta anche coarticolazione, perché l’adattamento dei fonemi dipende dalla propagazione dei tratti articolatori associati ai fonemi ai fonemi circostanti. La coarticolazione è alla base della fonazione, per cui ogni volta che parliamo produciamo esempi di questo fenomeno. Giusto per ricordarne alcuni più evidenti per l’italiano: tutte le consonanti non occlusive sono pronunciate mentre le labbra sono già disposte nella posizione tipica della vocale seguente (si osservi la posizione delle labbra mentre si pronuncia la l di li e mentre pronuncia la l di lo); il luogo di articolazione della nasale [n] si sposta dai denti al velo palatino (differenza che, in italiano, non ha valore fonologico), a seconda che il fonema sia seguito da una consonante dentale, palatale o velare (si consideri la posizione della lingua nel momento in cui si pronuncia la n di interioreingenuoincurabile). Per quanto riguarda l’influsso del fonema precedente sul successivo, si osservi la posizione delle labbra durante la pronuncia della o di nord e durante la pronuncia della [o] di collera: in nord si mantiene la protrusione dovuta alla nasale precedente.
Tutti i fenomeni assimilativi, del resto, possono essere ricondotti alla coarticolazione, che porta due fonemi contigui a coincidere per facilitare l’articolazione della catena fonica continua (si pensi a casi come coctum > cotto o al siciliano vinniri per vendere). Anche nella dissimilazione la coarticolazione può avere un ruolo, anche se in questi casi i fonemi appartengono a sillabe diverse: arborem > alberomilitalis > militaris.
La fonotassi non è intaccata dalla fonetica intersegmentale. Ovviamente, però, avviene il contrario: la fonotassi influenza anche la fonetica intersegmentale, perché indica quali sono le sequenze fonematiche (sillabe, sequenze consonantiche e vocaliche) ammesse in una lingua, quindi indica quali fonemi possono trovarsi in sequenza (e, di conseguenza, interferire tra loro) e quali no.
Per riprendere completamente la sua vecchia domanda (si veda la FAQ  – Fonotassi e fonosintassi), i fenomeni fonosintattici sono sì di natura intersegmentale; il fatto che avvengano non all’interno della parola, ma tra parole è poco rilevante, perché, nella catena fonica, il confine tra le parole è spesso impercettibile.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nell’espressione “il male può annidarsi anche laddove sembri non esistere” è corretta la forma col congiuntivo o andrebbe corretta in “il male può annidarsi anche laddove sembra non esistere”?

 

RISPOSTA:

Nel suo esempio laddove ha il valore di avverbio, del tutto equivalente a là dove. La proposizione introdotta da questo connettivo spesso esclude il congiuntivo: “Laddove un tempo crescevano solo i fiori del male ora sono stati piantati semi di iris, glicine e narciso” (repubblica.it, 2018). Il congiuntivo è ammesso, sebbene non obbligatorio, quando, come nel suo esempio, la proposizione ha una forte sfumatura eventuale. Quando è usato, esso produce anche un innalzamento della formalità della frase.
Oltre che da avverbio, laddove può fungere da congiunzione avversativa (analoga a mentre), costruita obbligatoriamente con l’indicativo (fatta salva la possibilità, sempre valida, di sostituire l’indicativo con il condizionale): “ma in alcuni casi questo stesso vizio può portare all’errore esattamente opposto, decretando la pura e semplice insopportabilità del dolore altrui, laddove invece quel dolore non è affatto insopportabile, o non lo è ancora” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Può, infine, essere una congiunzione condizionale; in questo caso obbligatorio è il congiuntivo (prevedibilmente, visto che quest’uso è raro e altamente formale): “Laddove Luca lo desideri, può raggiungerci più tardi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come si dice: comprare una cassa d’acqua o confezione di bottiglie d’acqua?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono perfettamente equivalenti e vanno bene per tutte le situazioni comunicative. Sicuramente la seconda (“confezione di bottiglie d’acqua”) è più formale (ma anche, direi, eccessivamente pomposa e un po’ burocratica), ma la prima (“cassa d’acqua”) è del tutto corretta e adatta anche agli usi formali. Immagino che il motivo della sua richiesta sia dovuto alla supposizione che la prima espressione (“cassa d’acqua”) possa sembrare a taluni eccessivamente generica, imprecisa e informale, per via del fatto che, materialmente, l’acqua non è disposta in una vera e propria cassa, bensì in bottiglie tenute insieme da un foglio di plastica. Ebbene, tale critica è insussistente, dal momento che la lingua (qualunque lingua, non soltanto quella italiana) non funziona secondo una logica astratta e il rispetto pedissequo dell’etimologia e del significato letterale delle parole, ma in base a usi e funzioni concrete e consolidate. Pertanto, in virtù degli usi figurati (metonimia), così come possiamo dire “ho bevuto un bicchiere di Pinot”, piuttosto che “ho bevuto una certa quantità di vino di tipo Pinot contenuta in un bicchiere”, altrettanto felicemente possiamo dire “cassa d’acqua”, intendendo, per metonimia, con cassa ‘contenuto di una cassa o di contenitore analogo, di forma più o meno di parallelepipedo’, e con acqua, sempre per metonimia, ‘bottiglia contenente dell’acqua’. Se vuole saperne di più sulla metonimia, legga questo quesito.

Purtroppo molti parlanti e scriventi pretendono di guardare alla lingua secondo astratti meccanismi razionalistici, come se le lingue non mutassero nelle forme e nei contenuti in base al tempo, allo spazio, e alle situazioni comunicative. Ma, se così fosse, ancora parleremmo latino, o addirittura la lingua di Adamo!

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

È corretto dire “Andiamo a mangiare al McDonald” oppure “Andiamo a mangiare al McDonald’s”? E infine si scrive “Andiamo a mangiare dal o al…”?

 

RISPOSTA:

I nomi stranieri in italiano tendono ad essere invariabili. A maggior ragione, anche i marchi commerciali sono invariabili, quindi in questo caso si mantiene sempre la forma McDonald’s. Certo, questo marchio è formato con un cognome più la s del genitivo sassone, che è una forma tradizionale per i nomi di ristoranti e negozi inglesi. A questa forma corrisponde in italiano Da più il cognome del proprietario: quindi, in astratto, McDonald’s si tradurrebbe ‘Da McDonald’. Dico in astratto, perché, ripeto, si tratta di un marchio commerciale, e va preso così com’è, a prescindere dalla lingua nella quale è usato.

Per quanto riguarda la preposizione, l’ambiguità è dovuta al fatto che in italiano la preposizione per il moto a luogo, quando il luogo sia rappresentato da una persona (identificata da un nome comune o da un nome proprio), è da : “vado al forno/vado in gioielleria/vado dal fornaio/vado da Gucci” (si noti che per i luoghi non personalizzati si usa tanto a quanto in ). Nel caso del McDonald’s, la maggior parte dei parlanti riconosce nel nome di questo ristorante un cognome (che, però, è McDonald, non McDonald’s), in parte grazie alla pubblicità della catena, che usa la preposizione da (“Succede solo da…”). Questa ambiguità, in realtà, si presenta ogni volta che il nome di un esercizio commerciale di qualunque tipo sia percepito come un nome proprio: “vado al Burger King è più frequente, ma “vado da Burger King” è anche possibile. Non è un caso, tra l’altro, che la pubblicità scelga la preposizione da, perché il nome proprio crea un’atmosfera più familiare e affettivamente vicina, come se il locale portasse davvero il nome di una persona in carne ed ossa.

Si noti che quando il nome proprio esiste nella competenza culturale dei parlanti autonomamente rispetto al nome dell’esercizio commerciale, l’ambiguità è molto improbabile: nessuno, tornando da un viaggio, direbbe “ho soggiornato da Hilton” invece di “Ho soggiornato all’Hilton”, perché lascerebbe intendere di aver soggiornato a casa di un signor Hilton (o della cantante Paris Hilton). Allo stesso modo è difficile che si vada a mangiare da Garibaldi piuttosto che al Garibaldi (a meno che il proprietario del ristorante non sia veramente il signor Garibaldi o che il tipo di conduzione evidenzi la dimensione affettiva e faccia, quindi, dimenticare il nome del patriota).Nel caso in questione, quindi, entrambe le preposizioni sono accettabili: al McDonald’s è ricalcato su al ristorante, da McDonald’s su da Mario.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Salve, mi piacerebbe sapere l’origine della parola “baitta” spesso utilizzata
dai giovani messinesi per identificare una ragazzina altezzosa, troppo sicura
di sé. Purtroppo, facendo una semplice ricerca su internet, non ho trovato
alcuna informazione.

 

RISPOSTA:

Come giustamente dice Lei, il termine (baittu/a, diminutivo di baiu) è praticamente assente da tutte le fonti lessicografiche, italiane e dialettali, a stampa e online. Tranne una: l’ottimo, encomiabile Lessico Etimologico Italiano (LEI) curato dal linguistica tedesco Max Pfister ed edito, a partire dal 1979 e tuttora in corso di stampa, presso l’editore Ludwig Reichert di Wiesbaden. Da questo imprescindibile strumento scientifico, si ricava quanto segue: l’etimo di questa e di moltissime altre forme (da baio a baiocco) è il latino badius/baius dal significato originario di ‘rosso’. Da quest’etimo hanno preso vita migliaia di forme e significati in tutti i dialetti italiani, a indicare animali, vegetali, persone, monete, oggetti vari ecc. Tra i moltissimi lemmi associabili a badius, si ricava il siciliano baiu, che può significare varie cose, da ‘ragazzetto’ a ‘domestico’. È chiaro che il suo baittubaitta è un diminutivo di questa forma. La trafila semantica (metaforica) che può aver condotto da ‘rosso’ a ‘ragazzo’ può essere duplice: 1) baio > cavallo > mulo > soldato, lavoratore, garzone ragazzo ecc.; 2) rosso > carne poco cotta > cosa o persona incerta, che vale poco ecc. (vi sono, nei vari dialetti, esempi molteplici di questi riferimenti alle persone e alle situazioni, da ‘tempo incerto e variabile’ a ‘persona da poco’, da ‘uomo poco virile’ a ‘persona giovane’  ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gliaca, frazione del Comune di Piraino, si pronuncia con la g gutturale o dolce?

 

RISPOSTA:

La pronuncia corretta è [‘λaka], con la laterale palatale (come in scoglio, per intenderci). La pronuncia [‘gljaka], con la occlusiva velare (come in glicemia), si è diffusa probabilmente per la rarità del fonema [λ] ad inizio di parola in italiano.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Salve, vi scrivo per chiedervi gentilmente delucidazioni. Sto conducendo uno studio personale e mi sono imbattuto in questi due termini: “Fonosintassi” e “Fonotassi”. La domanda è : se dico “fonosintassi” e se dico”fonotassi” si intende la stessa cosa oppure sono due cose completamente diverse? Confondo un po’ e mi servirebbe gentilmente un chiarimento. La trascrizione di un suono in parole, ad esempio un cinguettio, il miagolio, l’abbaglio del cane, ecc. fa parte della fonotassi?
Grazie

 

RISPOSTA:

Nonostante il nome simile, i due oggetti sono molto diversi. La fonosintassi è un complesso di processi linguistici che coinvolgono sia la fonetica sia la sintassi, ovvero coinvolgono la fonetica nel momento in cui le singole parole si “toccano” all’interno della frase (questo avviene perché nella pronuncia le parole non sono separate, ma il confine finale della precedente si fonde con quello iniziale della seguente). Per fare qualche esempio, in italiano l’avverbio a volte si pronuncia [a’v:ɔlte], con una [v] intensa, per un fenomeno noto come raddoppiamento fonosintattico (per questo le persone meno abituate a scrivere scrivono l’avverbio *avvolte, riproducendo l’effettiva pronuncia del termine). Un altro processo tipico della fonosintassi italiana è la labializzazione della [n] davanti a un fonema labiale, come in con poco, che si pronuncia [kom’pɔko]. 
La fonotassi, invece, è una branca della fonologia (cioè dello studio dei fonemi caratteristici di una lingua). Questa disciplina indica quali sono le sequenze fonematiche (sillabe, sequenze consonantiche e vocaliche) ammesse in una lingua, e quali non sono ammesse. In italiano, per esempio, non è ammessa una sequenza consonantica del tipo [bll], cioè consonante seguita da consonante geminata. Tutte le parole di una lingua sono soggette alle restrizioni fonotattiche; nelle parole onomatopeiche, in particolare, queste restrizioni, insieme a quelle morfologiche, regolano il processo di trasformazione dei suoni naturali in parole. 
Una nota: il verso del cane in italiano non è l’abbaglio, ma l’abbaio, l’abbaiamento o l’abbaiare. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda l’avverbio sempre. Essendo un avverbio indefinito, quando lo troviamo nelle frasi al futuro, come facciamo a capire se si tratta di una continuità ininterrotta ”con termine di tempo” o ”senza termine di tempo”? Per esempio: “La Terra girerà sempre”, “Ti amerò sempre”…

 

RISPOSTA:

Quando accompagna un verbo al futuro, sempre assume un valore non pienamente temporale, quale invece gli è proprio con verbi al presente e al passato. Con verbi al futuro, sempre ha una sfumatura concessiva (indica che l’azione o la circostanza continuerà a realizzarsi a dispetto di qualunque avversità) , mentre un valore pienamente temporale è assunto da per sempre. Prendiamo, per chiarire questa differenza, una frase come “I genitori perdoneranno sempre gli sbagli dei figli”; difficilmente sarebbe costruita come “I genitori perdoneranno per sempre gli sbagli dei figli”, perché il senso è che qualunque cosa succeda, l’azione continuerà a realizzarsi (e la dimensione temporale è secondaria). È vero che i due avverbi possono avvicinarsi molto nel significato, come nella frase “Rimarrò sempre con te”/”Rimarrò con te per sempre”; anche in questo caso, comunque, si nota la sfumatura più concessiva (quasi a dire nonostante tutto ) di sempre e quella più temporale di per sempre.

Un confronto interlinguistico con l’inglese ci consente di vedere più chiaramente la differenza tra sempre e per sempre: il primo, infatti, corrisponde a always, il secondo a forever; due avverbi del tutto diversi, quindi.

Come ho detto all’inizio, però, sempre ha un valore più chiaramente temporale con verbi al passato (“Sono sempre stato contrario alla caccia”) e al presente (“Chiamo sempre lo stesso idraulico, perché di lui mi fido”). In questo tipo di frasi, per sempre non è accettabile.

Venendo, infine, alla sua domanda, per quanto ne sappiamo, nel mondo fisico tutto ha fine, quindi l’uso dell’avverbio (per) sempre accanto ad un verbo al futuro indica non la reale eternità dell’azione o della circostanza, ma la sua prosecuzione fino al suo termine naturale, che non è noto. In altre parole, la durata dell’azione o della circostanza è intesa non come eterna, ma come indeterminatamente duratura.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Vorrei gentilmente sapere quando i termini “quanto” “questo” e “quale” si
apostrofano. Esempio: quest anno o quest’anno? Qual è o qual’è? E simili.
Grazie.

 

RISPOSTA:

Senza entrare in dettagli tecnici (quali: “l’apostrofo serve per l’elisione, mentre l’apocope, o troncamento, non è segnalata dall’apostrofo, salvo eccezioni”), basta attenersi a questa semplice regoletta empirica: usi l’apostrofo quanto la parola priva della vocale finale (questqual ecc.) non potrebbe stare davanti a parola iniziante per consonante, mentre non usi l’apostrofo in tutti gli altri casi. Dunque: quest’annoquant’è bella ecc. (con l’apostrofo), perché sarebbero impossibili forme come quest manoquant dista ecc. Invece qual è si scrive senza apostrofo perché qual può esistere anche davanti a parole inizianti per consonante, come nel detto “qual buon vento ti porta?”. Per lo stesso motivo, l’articolo indeterminativo un (maschile) non vuole mai l’apostrofo (un amicoun secondo), mentre il femminile una lo vuole (un’amica, ma una sedia). 

Fabio Rossi

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QUESITO:

Occhiali da/di riposo?

Spesso sento molte persone dire “occhiali di riposo”, ma esiste come parola in
italiano?? E soprattutto si dice “occhiali di riposo”, “occhiali da riposo” o
“occhiali riposanti”?
 
 
RISPOSTA:

Sì, esiste, e si dice “occhiali da riposo”, vale a dire, da indossare per far riposare gli occhi, o almeno per non farli affaticare troppo nello sforzo della messa a fuoco. La preposizione “da”, in questo caso, esprime una sorta di complemento di fine o di proposizione finale: “per riposarsi” e simili, similmente a quanto accade in altre locuzioni come “da asporto”, “da passeggio”, “da viaggio”, “da sera” (pizza da asportoabito da sera…) ecc. In genere (ma non è una regola fissa), le locuzioni introdotte da  “di” non indicano tanto il fine quanto la situazione, il luogo ecc., per es. “casa di riposo” (eufemismo per ‘centro per anziani’, ovvero: casa nella quale ci si riposa, o meglio ci si ritira’). “Occhiali riposanti” non sarebbe scorretto, in teoria, visto che esprime lo stesso concetto di “occhiali da riposo”, però non è utilizzato, a differenza di “occhiali da riposo” che è diventato un’espressione comune e anche commerciale (gli ottici che vendono occhiali la usano quasi fosse un’espressione tecnica e insostituibile).  La lingua (non soltanto l’italiana, ma ogni lingua del mondo) non è fatta soltanto di regole grammaticali, ma anche di consuetudini che tendono a stabilizzarsi, dando vita a frasi fatte, dette tecnicamente collocazioni. “Occhiali da riposo” è, per l’appunto, una collocazione, e come tale è difficilmente sostituibile.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Buongiorno! Vi scrivo perché c’è un dubbio che mi attanaglia ogni volta che
ordino le pizze: si dice “2 margherite” o “2 margherita”? Grazie per
l’attenzione. Cordiali saluti

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le forme, dal momento che il singolare si giustifica come nome proprio (“due macchine Panda”), mentre il plurale si giustifica (per metonimia e per antonomasia) come passaggio da nome proprio a nome comune (“due coche”, da Coca Cola). Suggerirei il plurale perché, benché meno formale, è decisamente più comune. Sono abbastanza convinto che il cameriere che si sentisse ordinare “due margherita” rimarrebbe spiazzato al punto da chiederle: “quante? una o due?”.
Un’altra possibilità, anch’essa formale, è: “Due pizze margherita” (migliore di “Due pizze margherite”), magari addirittura con la maiuscola, “Margherita”, che salva capra e cavoli: il plurale e il rispetto del nome proprio.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Alcuni dizionari dicono ”sempre: indica continuità”. Il treccani, invece,
dice ”continuità ininterrotta”. Che differenza c’è tra continuità e
continuità ininterrotta?

 

RISPOSTA:

In effetti è una minuzia. Però, a rigore, anche l’avverbio abitualmente, oppure sistematicamente, ecc. indicano continuità. Tuttavia sempre esclude, o tende ad escludere, che tale continuità abbia interruzioni. Per es.: “Da dieci anni, tra le due e le tre schiaccio abitualmente un pisolino”: vuol dire che potrei anche non farlo, qualche volta. Con sempre, escludo questa eventuale interruzione di continuità.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

analisi logica

di chi sono le chiavi? in questa frase le chiavi è soggetto.. vero? mentre
nelle frasi..quale è il mio ultimo giorno di palestra? e quale colore le sta
bene?quale è il soggetto grazie per il tempo e l’attenzione
 
 
RISPOSTA:

Sì, il soggetto della prima frase è le chiavi. Il soggetto della seconda è quale, e della terza è quale colore, o meglio: quale è attributo (perché in questo caso funge da aggettivo interrogativo, e non da pronome, come nella frase precedente) e colore è soggetto. Sono risposte rigide, che tengono conto della definizione di soggetto come “elemento in base al quale si accorda il verbo”. Il caso più complicato è il secondo, perché, a senso, verrebbe da dire che il soggetto è “giorno”. A rigore, tuttavia, “è il mio ultimo giorno di palestra” è predicato nominale, con è copula e il mio ultimo giorno di palestra parte nominale. Il soggetto di è, per l’appunto, è quale.
In appendice, anche nel suo congedo (“quale è il soggetto?”), quale è soggetto, è copula, il soggetto parte nominale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

salve..nella frase -mi piace la pasta-mi piace è un verbo intransitivo ma la
pasta è un complemento oggetto..cosa sbaglio? grazie per l’ attenzione

 

RISPOSTA:

La pasta è soggetto, mi è benefattivo (più banalmente, complemento di termine), piace è verbo intransitivo e, in quanto tale, non può reggere un complemento oggetto. Volendo essere un po’ più complicati e analitici, si può dire che il verbo piacere è un verbo inaccusativo, vale a dire un tipo di verbo che non può avere un complemento oggetto, ma il cui soggetto si comporta in modo molto simile a  un complemento oggetto. Per questa ragione, la Sua perplessità (nel considerare la pasta come oggetto) è legittima. Una delle peculiarità di questi verbi (tutti quelli con ausiliare essere), tra le altre, è quella di avere, solitamente, il soggetto posposto e che può essere pronominalizzato con ne. Per es.: “mi piacciono le granite: me ne piacciono in particolare due, fragola e caffè”. Solitamente, è l’oggetto ad essere pronominalizzato con ne: “mangio le granite, ne mangio due” e simili. Dunque, già soltanto da queste due caratteristiche (1. soggetto posposto al verbo, 2. soggetto pronominalizzabile con ne), capisce bene come in verbi come piacere il soggetto si comporti in modo molto simile al complemento oggetto. Ma, attenzione: rimane pur sempre un soggetto e non un oggetto!
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Hello Dico, my neighbour in Toscana, an old lady, taught me the following proverb:

Per santo me cresce giorni quant’ il gallo alza il pied
Per Natale quant’ il gallo alza l’ali

I have tried to write what she said, she doesn’t write herself, but I am sure I have mistakes.

I understand that ‘per santo me’ refers to the saints day, 21 December when daylight begins to increase, but I do not understand the reference to ‘il gallo’.

Another version I found is as follows:
S’allunga di quanto  gallo lia lunghe l’ali.
What does ‘lia’ mean?

I would be most grateful if you would help me to understand this country proverb.

 

RISPOSTA:

I don’t know the proverb, but I am sure that, in your second version, “lia” is a mistake for “lla” or “li ha”, that means: “he has”.
Toscan dialect must express the subject, in pronominal form, even when it appears as a noun. Very similar to English language. So the translation is something like: “the cock it has long wings. “Li” or “ll” stands for “egli” that means “he”; “a” stands for “ha” has. Lia > lla or li a = li ha, egli ha ‘he has’.
From a quick check in the web, I found different proverbs in many Italian dialects, that mean: “from the 21 December (or about) the daylight start to get longer and longer”. The most similar to your proverb is “Per San Tommé il giorno allunga quanto il gallo alza il pié”: for Saint Thomas the day becomes longer as much as the cock rises its feet”.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Se lei non è felice quando sarà felice”. In questa frase ci sono due subordinate?

 

RISPOSTA:

Nella frase c’è una proposizione principale (di tipo interrogativo), “quando sarà felice”, e una subordinata condizionale di primo grado, “se lei non è felice”. Le due proposizioni, insieme, formano un periodo ipotetico, nel quale la proposizione interrogativa rappresenta l’apodosi (cioè la conseguenza) e la proposizione condizionale la protasi (cioè la premessa).

Il dubbio può essere provocato dalla presenza, all’inizio della principale, del connettivo quando, che, in questo caso, non è una congiunzione temporale (che introduce una subordinata temporale), bensì un avverbio interrogativo. Il dubbio è favorito anche dalla mancanza del punto interrogativo, che faciliterebbe l’interpretazione interrogativa della proposizione “quando sarà felice?”.

C’è da dire che quando con funzione di avverbio interrogativo può introdurre anche una proposizione interrogativa indiretta, per esempio: “Non so quando arriverò”. In questo caso la proposizione interrogativa è subordinata e il punto interrogativo non è richiesto.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase io ho finito..ho finito è un passato remoto oppure ho è un verbo e
finito un aggettivo? grazie

 

RISPOSTA:

“Ho finito” è un passato prossimo, ovvero un verbo composto dall’ausiliare (avere) più un participio passato. Naturalmente, in altri contesti, finito, che di per sé è participio passato del verbo finire, può anche valere come aggettivo, per es.: “un lavoro finito”, “essere un uomo finito” ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Verbo
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QUESITO:

Sineddoche o metonimia?

Nei versi “ma misi me per l’alto mare aperto/sol con un legno e con quella
compagna” (Dante, Inferno, Canto XXVI, versi 100-101) legno è metonimia o
sineddoche?
 
 
RISPOSTA:

Metonimia. Anche se tra le due figure retoriche c’è spesso, nelle trattazioni, molta ambiguità, e vengono usate ora come interscambiabili, ora come l’una un sottotipo dell’altra, sarebbe bene limitare il valore di sineddoche a uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica di tipo quantitativo (il tutto per la parte o la parte per il tutto, il singolare per il plurale e viceversa: per es. quando si usa “le mie stanze” per ‘camera mia’, o “l’italiano” per ‘gli italiani’); mentre la metonimia indica sempre uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica, però stavolta di tipo qualitativo: l’autore per l’opera (“ho letto Manzoni” in luogo di ‘ho letto I promessi sposi“), il materiale per l’oggetto prodotto (come nel suo esempio legno per ‘barca’, oppure ferro per ‘spada’) ecc. Tuttavia, dato che anche alcuni usi figurati basati sulla contiguità di tipo qualitativo possono essere considerati dal punto di vista quantitativo (cioè procedendo dal più al meno o viceversa), il suo esempio dantesco può essere correttamente definito anche come sineddoche, dal momento che il materiale (legno) è più generico del prodotto (barca), e dunque questa è una sineddoche dal generale al particolare. Insomma: può classificare il suo esempio tanto come metonimia quanto come sineddoche.
Per tentare di fare chiarezza su questi termini e concetti giustamente complicati (la retorica è molto affascinante, perché non si limita a spiegare gli usi poetici, ma tenta anche di spiegare certi meccanismi cognitivi), le suggerisco le ottime voci (metonimiasineddoche e molte altre di figure retoriche, fenomeni linguistici ecc.) dell’Enciclopedia dell’italianoTreccani, ora accessibile anche gratuitamente online nel sito www.treccani.it

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Possibile/Probabile

I due termini si possono usare indifferentemente, o vi sono differenze di
significato?
 
 
RISPOSTA:

I sinonimi perfetti non esistono, in nessuna lingua. E dunque, anche in questo caso, i due termini sono intercambiabili al 90% ma non al 100%. Probabile (dal lat. probare ‘provare’) è ciò che potrebbe avere argomenti a favore ma è privo di certezza assoluta. Possibile (dal lat. posse ‘potere’) è ciò che può esistere, ma non è detto che esista. Dunque, di un fatto si può dire tanto che sia probabile quanto che sia possibile, mentre per un’opinione è più appropriato probabile di possibile. Inoltre, probabile può essere graduato, mentre possibile tende a rifiutare le gradazioni: “è molto/poco probabile che io perda il treno” (ma non si può dire “è molto/poco possibile”, posso solo dire: “è possibile che io perda il treno”). La differenza tra i due aggettivi risulta più evidente dai loro contrari: improbabile e impossibile (e anche dalle espressioni “non è probabile”, “non è possibile”): il primo rende l’idea dell’eventualità che qualcosa accada oppure no (anche se propende per il no), mentre il secondo esclude assolutamente ogni eventualità che qualcosa possa accadere. Inoltre, possibile può essere usato come rafforzativo in espressioni come: “arriverò il prima possibile”, “il miglior prezzo possibile” ecc. (espressioni inesistenti, anzi impossibili… con probabile). In sostanza, possibile ha una gamma di significati e usi più estesa di quella di probabile.
La consultazione di un buon vocabolario (non dei sinonimi), con l’esame attento di tutti gli esempi riportati per entrambi gli aggettivi (probabile e possibile), fa comprendere meglio, significato per significato, tutte le sottili differenze tra i due termini, che sono più numerose di quelle che io ho cercato qui di riassumere e schematizzare. È molto importante leggere gli esempi dei vocabolari, e non limitarsi alle definizioni, perché spesso la differenza tra parole quasi-sinonime non risulta tanto dalla definizione, quanto dalle frasi e dai contesti d’uso in cui quella parola, ma non un’altra, può essere impiegata.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Si può dire afterparty, o esiste la traduzione corretta in italiano per indicare il dopo-festa? Mi è sorto questo dubbio quando, dopo il compleanno di 18 anni, il festeggiato ci ha portato a un bar per bere dello spumante.

 

RISPOSTA:

Caro utente,

Questo termine, di chiara derivazione anglofona, è usato in italiano da pochissimo tempo: l’archivio del giornale Repubblica restituisce la prima attestazione nel 2003 e, fino ad oggi, la parola risulta usata appena 67 volte. In inglese si scrive con il trattino, quindi after-party, ma anche come parola unica. Indica il ricevimento che a volte viene offerto ad una parte selezionata del pubblico dopo un concerto, una rappresentazione teatrale, la prima proiezione di un film, una sfilata o simili. Anche in italiano (a giudicare dall’uso che si fa della parola negli articoli di Repubblicaafterparty indica la festa, di solito ben organizzata ed esclusiva, dopo un evento mondano; ma era quasi inevitabile che il termine ampliasse il suo spettro semantico e finisse per definire qualunque festa o incontro tra amici “in seconda serata”.
L’uso semanticamente esteso, comunque, non è attestato ed è al limite dell’accettabilità. In questa accezione, la parola dovrebbe essere usata o con una sfumatura ironica, derivante dalla promozione di un semplice incontro tra amici ad una festa esclusiva, o per modo di dire (nello scritto andrebbe messa tra virgolette).
Non sembra esistere, in italiano, un termine che possa sostituire afterparty, né nel senso proprio, né in quello esteso. Il suo dopo-festa (che ricalca il noto Dopofestival sanremese), però, mi sembra un ottimo candidato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’espressione “apposta” è accettata anche nella versione “a posta”? Ho sempre usato la prima ma mi è capitato di leggere anche la seconda versione. In effetti “apposta” è omografo del part. pass. di apporre, nonostante il contesto faccia capire se si tratti dell’avverbio o del verbo. Insomma, la lingua italiana accetta entrambe le versioni? Grazie

 

RISPOSTA:

Apposta è la variante univerbata, cioè divenuta un’unica parola, dell’espressione originaria a posta. Entrambe le forme sono oggi accettate, sebbene quella univerbata sia più comune e quella composta abbia, di conseguenza, assunto una sfumatura di alta formalità.

Il processo di univerbazione si è applicato, soprattutto nel Novecento, non solamente a apposta, ma a diverse espressioni, come addosso, invece, sennò, vieppiù ecc. (si noti la presenza, in molte di queste forme, del raddoppiamento fonosintattico). Le varianti così realizzate si sono imposte sulle altre, ma le alternative analitiche sono quasi sempre ancora accettate. Non c’è, però, una regola generale sull’accettabilità; in caso di incertezza, quindi, è sempre bene consultare il dizionario.

Curiosamente, la coincidenza da lei notata tra l’avverbio apposta e il participio passato del verbo apporre non ha bloccato il processo, probabilmente perché il verbo apporre è piuttosto raro nell’uso. All’opposto, proprio la confusione rischiata con il participio passato del verbo avvolgere impedisce l’accettazione dell’univerbazione di a volte. Un altro avverbio che resiste all’univerbazione è d’accordo (sebbene il dizionario dell’uso GRADIT registri anche daccordo): in questo caso non è la confusione con un’altra parola a frenare il processo, ma la tradizione scolastica, che su questo punto è piuttosto rigida.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Si dice “la neve si sta poggiando per terra” o “la neve si sta appoggiando per
terra”?

 

RISPOSTA:

La soluzione migliore sarebbe: “la neve si sta posando a terra”.

Poggiarsi e appoggiarsi, in questo caso, non sono errati, ma lievemente inappropriati, perché lasciano pensare a una volontarietà dell’azione e anche alla presenza di un certo sostegno o appiglio, che sembrano stridere con la leggerezza della neve che cade e si posa a terra senza alcun sostegno o appiglio e senza esplicita e umana volontà.

Inoltre, anche la preposizione per non è del tutto consona al contesto, che richiede preferibilmente a o in : cade a (o in ) terra e simili, a differenza di frasi fatte, come la conclusione del girotondo: tutti giù per terra. Più che un motivo grammaticale vero e proprio, in questo caso, valgono le sfumature semantiche e la consuetudine dell’uso; sia a, sia in, sia per possono indicare, infatti, il complemento di moto a luogo, ma con modalità e consuetudini differenti: andare al mare , andare in montagna , andare per mari e per monti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione
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QUESITO:

Qual è la differenza tra telefono, telefonino e cellulare? La mia professoressa mi ha detto che il telefono è quello fisso di casa, mentre gli altri due sono portatili.

 

RISPOSTA:

Il telefono è quello fisso, mentre il telefonino, o cellulare, è quello che ci mettiamo in tasca e ci portiamo in giro.

Sarà utile aggiungere qualche precisazione: non sarebbe sbagliato chiamare telefono anche il telefonino, visto che quest’ultimo non è altro che un tipo di telefono, ma l’uso vuole che con il termine telefonino ci si riferisca solamente all’oggetto portatile, tanto che il vocabolo telefonino è entrato nel dizionario, fin dal 1990, proprio con questo significato.

Attenzione: anche se telefonino e cellulare sono sinonimi, non dovrebbero essere usati indistintamente. Il primo, infatti, è un termine colloquiale, che va bene nella conversazione informale, mentre il secondo è più preciso, senza essere troppo tecnico, quindi più formale. Ancora più formale, infine, è telefono cellulare.

Questa discussione, comunque, è ormai datata, visto che i nuovi modelli di cellulari sono in grado di fare operazioni del tutto estranee alla trasmissione della voce. Per questo motivo, i nomi che richiamano il telefono (appunto telefonino e telefono cellulare ) sono stati sostituiti dall’anglicismo smartphone (entrato nel dizionario già nel 2003), che rende meglio l’idea della complessità di questi strumenti.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi confondo sempre con questi due termini. Castrato si usa per il gatto maschio e sterilizzato si usa per il gatto femmina?

 

RISPOSTA:

Non è esattamente così. La sterilizzazione è un procedimento che rende un organismo o un ambiente sterile, sia nel senso di ‘incapace di generare prole’, sia in quello di ‘incapace di generare germi, igienico’. Quest’ultimo senso, per essere più precisi, è molto più recente del primo, essendo stato introdotto in italiano, dal francese stériliser, solo alla fine dell’Ottocento, mentre il verbo esiste con il primo significato almeno dall’inizio del Seicento.

Esistono diversi metodi per sterilizzare un animale (compreso l’essere umano), tra cui la castrazione (gli altri più comuni sono la vasectomia e la sterilizzazione chimica). Castrazione deriva dal verbo latino castro, che ha lo stesso significato dell’italiano ed è di solito accostato al verbo greco keá zo ‘fendere’. Il procedimento della castrazione consiste nell’asportazione delle gonadi, e si opera, con le ovvie differenze dovute alla diversa anatomia, tanto sui maschi quanto sulle femmine.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia
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QUESITO:

Ho letto alcuni auguri di buon anno, la maggior parte dei quali dicevano “Buon 2016 a te e famiglia”… e mi sono chiesto: non è più corretto dire “Buon 2016 a te e alla tua famiglia”?

 

RISPOSTA:

La sottrazione dell’articolo (che trascina con sé l’aggettivo possessivo) da famiglia nelle espressioni come quella da lei citata è dovuta a due cause: una è la vicinanza con il pronome personale te, che non ha l’articolo e “attrae” il nome che lo segue nella stessa costruzione; l’altra è l’assonanza di questa espressione con alcune costruzioni idiomatiche o almeno cristallizzate nell’uso, anch’esse prive di articolo, come andare in barca, lavorare in banca, rimanere a casa (in alcune zone d’Italia si dice anche andare a mare ). La perdita dell’articolo sembra proprio essere un effetto della cristallizzazione dell’espressione, dovuta all’uso massiccio che se ne fa.

In definitiva, tra le varianti “a te e famiglia” e “a te e alla tua famiglia”, è senz’altro preferibile la seconda, non perché la prima sia scorretta, ma perché suona come una formula impersonale, cosa che non si addice certo agli auguri.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Pronome
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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

È scritto bene: “Questi due cagnolini sono stati abbandonati e successivamente
trovati nell’abitazione di una signora, la quale non può più tenerli. Se non
viene trovata il prima possibile una soluzione, hanno detto che saranno presi
provvedimenti riguardo la soppressione!”?

 

RISPOSTA:

Il testo è un po’ faticoso, ma può andare, in quanto non presenta errori veri e propri. Se ne potrebbe suggerire una riscrittura più elegante di questo tipo: “I due cagnolini, dopo essere stati abbandonati, sono stati ritrovati nell’abitazione di una signora che non può tenerli. Se non se ne trova presto una sistemazione, i due cagnolini potrebbero essere soppressi”.
Gli elementi meno felici (troppo contorti o ridondanti, ma non del tutto erronei) del primo testo sono i seguenti:
1) “hanno detto”: chi l’ha detto? Se è generico, è meglio eliminarlo.
2 “Riguardo alla” è migliore rispetto a “riguardo la”.
3) L’espressione “saranno presi provvedimenti riguardo la soppressione” è inutilmente involuta e burocratica.
4) Il punto esclamativo finale è ingenuo (in quanto inutilmente enfatico) e non ha alcuna ragion d’essere.

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua della burocrazia
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QUESITO:

Perché alcune regioni hanno l’articolo maschile e altre l’articolo femminile
visto che il sostantivo “regione” è comunque femminile ?? ( es. Il Piemonte,
la Lombardia) Stesso dubbio sui fiumi… il Po, la Senna. Grazie.

 

RISPOSTA:

La scelta dell’articolo dipende unicamente da ragioni storiche e di tradizione etimologica: per es., il Piemonte deriva dal ‘piede del monte’, cioè ai piedi delle Alpi. Il Friuli deriva da ‘forum Iulii’, cioè ‘il foro di Giulio (Cesare)’, antico nome di Cividale. Lo stesso vale per i fiumi e per tutti i nomi di luogo (l’etimologia di Po è assai controversa, ma evidentemente è sempre stata percepita al maschile). In molti casi, sicuramente ha influito anche la desinenza finale: una -a finale incoraggia l’articolo femminile, a differenza della -o finale. Quindi alla base della scelta dell’articolo non c’è il nome generale (regione, o fiume, ecc.) bensì l’etimologia (solitamente latina) del nome di luogo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo, Etimologia, Nome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

C’è un supermercato che si chiama Famila, e vorrei sapere se per dire che sto andando lì, bisogna dire “Sto andando al Famila” o “Sto andando alla Famila”.

 

RISPOSTA:

Il genere dell’articolo dipende, ovviamente dal genere del nome da esso accompagnato. Nel caso di un nome proprio, il genere grammaticale si ricava dal sesso della persona designata dal nome, per questo in alcune varietà di italiano regionale settentrionale si dice il Paolo, la Giovanna ecc. Quando il nome proprio non designa una persona, ma un oggetto inanimato, le cose si complicano: in questo caso l’articolo si accorda con il nome comune sottinteso, quindi il (monte) Cervino, il (mar) Mediterraneo, il (fiume) Tevere, la (autostrada) Torino-Milano, la (corsa) Liegi-Bastogne-Liegi ecc. Nel caso dei supermercati, il nome comune sottinteso è proprio supermercato, per cui l’articolo che accompagna il nome proprio è maschile. Le poche eccezioni a questa regola sono dovute all’interferenza di altri fattori: ad esempio la Coop dipende da la cooperativa, la Rinascente sottintende Italia (il nome fu coniato da Gabriele D’Annunzio associando il grande magazzino alla rinascita nazionale dopo la Prima guerra mondiale). Un altro fattore che può interferire con la regola è l’assonanza del nome proprio con un nome comune femminile, come nel suo caso: famila-famiglia.

Tirando le somme, l’articolo maschile è più fondato e per questo preferibile, ma non è il caso di essere troppo rigidi su questo punto: il femminile, frutto dell’assonanza, è discutibile ma non da censurare.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Si può dire:” Finalmente il Natale bussa alla porta anche in casa Visconti.”?

 

RISPOSTA:

L’espressione è grammaticalmente corretta. Si può anche costruire così: “Finalmente il Natale bussa alla porta di casa Visconti”, eliminando anche, che sembra superfluo, e legando più saldamente porta a casa Visconti.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Frequento un istituto tecnico industriale, e durante questo terzo anno ho iniziato a studiare la materia del mio indirizzo: meccanica, però in inglese. Il mio dubbio è: si dice “Compito in classe di inglese-meccanica” o “di microlingua”?

 

RISPOSTA:

Il termine microlingua, che significa, genericamente, ‘linguaggio settoriale’, non è per niente adatto a definire un compito di Meccanica in inglese. Il modo migliore, invece, è proprio “Compito in classe di Meccanica in inglese”. In alternativa, puoi scrivere tutto in inglese, cioè “Mechanics test”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come possiamo definire, o meglio, come si chiama, colui che ama molto il Natale o ama molto festeggiare il Natale??

 

RISPOSTA:

Non esiste in italiano una parola dal significato da lei cercato: si deve ricorrere, pertanto, ad una perifrasi, come amante del Natale, innamorato/a del Natale, pazzo/a per il Natale o simili. Neologismi correttamente formati, ma dal sapore un po’ ironico, sarebbero natalofilo e natalomane.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi
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QUESITO:

Buongiorno la mia per chiedervi se è corretto un errore che hanno segnato a mio figlio di 11 anni sul tema e cioè lui ha scritto “poi andammo in classe ed i maestri ci spiegarono tutto”, la professoressa ha corretto con “poi andammo in classe ed i professori ci spiegarono tutto”. È un errore scrivere maestro al posto di professore? Vi ringrazio in anticipo della vostra cortese risposta in quanto il bambino è rimasto sbalordito da questa correzione.

 

RISPOSTA:

Immagino che suo figlio frequenti la prima media, giusto? Se ho ragione, allora in effetti il personale docente che insegna alle scuole medie si denomina con l’etichetta di “professore” e non con quella di “maestro”. “Maestro/maestra” è invece la denominazione del personale docente delle scuole elementari e materne. In questo senso, l’insegnante di suo figlio (che infatti lei stessa definisce “professoressa”) ha corretto giustamente l’errore. Naturalmente, non si tratta di un errore di grammatica, bensì di lessico. Ma le lingue sono fatte anche di lessico.
È bene abituare i ragazzi, fin dai primi di anni di scuola, ad usare le parole secondo il loro significato più preciso e più adatto alle situazioni comunicative. Non è che un “maestro” valga di meno di un “professore” (si figuri che in ambito musicale il rapporto è ribaltato: “maestro”  è il titolo che spetta al direttore d’orchestra, mentre “professore” è il titolo degli orchestrali da lui diretti), ma semplicemente la lingua è fatta di convenzioni (anche sociali) e di abitudini. Visto che l’uso odierno dell’italiano assegna un nome per gli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia (maestre e maestri) e un nome per quelli di scuola secondaria e dell’università (professoresse e professori), chi viola tale uso viola una regola della nostra lingua.
Ciò detto, spieghi a suo figlio che non deve certo mortificarsi per la correzione: è in ottima compagnia. Anche mio figlio, di dodici anni (e chissà quante migliaia di bambini italiani!), all’inizio delle medie si confondeva spesso tra “maestra” e “professoressa”. Ma, come si sa, e per fortuna, “sbagliando si impara”.
Un caro saluto

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua e società
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