Tutte le domande

QUESITO:

Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentarepotenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.

 

RISPOSTA:

Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implementoimplementabileimplementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.

 

RISPOSTA:

Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccoglieresi deve raccoglierloun gesto simile lo si vede fareun gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche civilalile) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarrese lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?

 

RISPOSTA:

Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burratamozzarellacrescentina
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?

 

RISPOSTA:

In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se la preposizione “a“ davanti a “cui“ può essere sempre omessa, o se, in determinati casi, l’ellissi possa determinare costruzioni errate.

1) La riflessione (a) cui vorrei portarti è questa…
2) La signora (a) cui ho chiesto un favore è tua sorella.

Sono molto curioso circa l’origine della regola, e soprattutto mi chiedo per quale ragione si applichi esclusivamente, se non vado errato, a questa preposizione semplice e non anche ad alcune delle altre.

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette (cui / a cui) perché nei due esempi cui assume la funzione di complemento di termine. L’oscillazione risale alla forma latina cui che significa ‘al quale’; a causa della possibile ambiguità generata dalla mancanza della preposizione, si è sentita l’esigenza di accostare al pronome cui la preposizione tipica del complemento di termine, cioè a. Per queste ragioni, la forma senza preposizione è considerata più formale di quella con la preposizione.
L’omissione riguarda anche la preposizione di in frasi come “Maria la cui bravura è proverbiale”, dove cui, posizionato fra l’articolo e il sostantivo, ha valore di complemento di specificazione (la frase, altrimenti, dovrebbe essere tradotta così: “Maria, la bravura della quale è proverbiale”). In casi come questo, fino all’Ottocento, la preposizione di era ammessa in una costruzione ormai uscita dall’uso, cioè il di cui.
Raphael Merida

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QUESITO:

Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?

 

RISPOSTA:

L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffapavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guidala guardiala persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaioarchitettoil presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?

RISPOSTA:

In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un quesito forse un po’ singolare suscitato dall’aver letto da qualche parte che Francis Scott Fitzgerald avesse dei problemi con l’ortografia. Volevo sapere: è davvero possibile? Inoltre, qual è il rapporto dei grandi scrittori con la grammatica? Ogni grande autore, o quasi, è un grammatico? Si trovano imperfezioni nei libri dei grandi autori o si sono trovati nei loro manoscritti? Se ne parla poco ma io lo reputo un discorso molto interessante.

 

RISPOSTA:

Non è questa la sede per discutere dell’ortografia di Francis Scott Fitzgerald; non è, però, inconcepibile che uno scrittore stenti ad adattarsi alle regole della grammatica. Gli scrittori non sono grammatici; piuttosto è la grammatica che trova la conferma delle sue regole negli scrittori. Sul versante della lingua, infatti, gli scrittori svolgono almeno tre ruoli: ne sono utilizzatori privilegiati, tanto da riuscire a costruire con essa interi mondi; sono fonti autorevoli delle sue forme allo stato attuale; sono innovatori, ovvero promotori del cambiamento di quello stesso stato. A seconda della personalità e della formazione del singolo scrittore, il peso di un ruolo può essere predominante sugli altri. In italiano ci sono stati, addirittura, scrittori scarsamente alfabetizzati, come Vincenzo Rabito, autore di Terramatta; ovviamente scrittori di questo tipo svolgono soltanto il ruolo di costruttori di mondi di parole, e non possono essere presi a modello né per la lingua attuale, né per la lingua del futuro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»

 

RISPOSTA:

L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?

 

RISPOSTA:

Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.

In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.

Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.

Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):

 

  1. quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
  2. in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
  3. prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
  4. davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.

 

Raphael Merida

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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Il mio dubbio riguarda il verbo riapparire alla terza persona singolare del passato remoto.
Infatti, in luogo dei correntemente usati riapparve/riapparse, vorrei poter usare anche riapparì, che in certi casi mi suona più gradevole. Sarebbe un errore oppure è ammissibile?

 

RISPOSTA:

Decisamente troppo desueto, letterario, al punto da risultare errato, se usato fuori contesto (cioè fuor di letteratura volutamente arcaizzante).
Delle tre forme di passato remoto di apparire l’unica comune, e dunque l’unica consigliabile, è apparve, come suggerisce lo Zingarelli, mentre apparì è marcato come letterario e apparse come raro.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..

 

RISPOSTA:

Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei esporvi queste frasi:
1)Roma,  che è capitale d’Italia, è una città vicina al mare.
2)Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali.
Sia il primo inciso (che è capitale d’Italia) che il secondo (se non salderà il suo debito), qualora vengano sottratti, permettono alla frase di avere un senso compiuto (Roma è una citta vicina al mare / le rendo noto che passerò a vie legali).
Nella prima frase, però, l’inciso dà informazioni irrilevanti rispetto al senso della frase, nella  seconda, invece, l’inciso fornisce informazioni sostanziali (io passerò a vie legali solo se si realizzerà una ben precisa condizione: il suo mancato pagamento).
Mentre il primo inciso va posto sicuramente fra le virgole, il secondo non lo porrei fra di esse, perché le virgole farebbero risultare l’affermazione ” se non salderà il suo debito” come marginale, anziché di centrale importanza.

 

RISPOSTA:

Va distinta la funzione di inciso da quella di parentetica. Una parentetica contiene di solito, come dice lei, un’informazione marginale (“che è la capitale d’Italia”). Per inciso, invece, si intende semplicemente la collocazione dell’informazione tra due pause, o virgole, ma non la sua marginalità. Le virgole che isolano la protasi del periodo ipotetico nell’esempio “Le rendo noto che, se non salderà il suo debito,  passerò a vie legali” sono necessarie (e dunque se le eliminasse commetterebbe un errore!), perché indicano la spezzatura del rapporto assai vincolante tra reggente e completiva (…rendo noto che passerò…) mediante l’intromissione della protasi del periodo ipotetico. La posizione di inciso, cioè la segnalazione di tale intromissione, non implica in alcun modo la minore importanza della protasi. Aggiungo che, qualora non vi fosse stata intromissione, e vi fosse dunque stato soltanto il periodo ipotetico, si sarebbe potuta usare la virgola oppure no (“se non salderà il suo debito[,]  passerò a vie legali”) senza alcun cambiamento di significato. La virgola, infatti, in questo caso è un semplice retaggio del passato, quando si soleva separare quasi sistematicamente la premessa dalla conseguenza.
In generale, faccia attenzione a non caricare la punteggiatura di valori logicistici che le sono estranei: la virgola non indica quasi mai una riduzione di importanza (tranne, e non sempre, nel caso delle parentetiche di cui sopra), bensì denota una frattura sintattica (in molti casi), una transizione di piano testuale o informativo (cioè il passaggio da un’informazione all’altra, in molti altri casi), la riproduzione di una piccola pausa o curva intonativa (più raramente e soltanto nei testi mimetici del parlato), la messa in evidenza di un’informazione (e dunque l’esatto contrario di quel che dice lei, cioè conferisce maggiore importanza a qualcosa: “Mario, ho incontrato, non Luca”, con focalizzazione di Mario), oppure uno stilema (stile di un certo autore, consuetudine scrittoria ecc.).

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Gradirei sapere perché il plurale della parola assassinio risulta essere assassinii, mentre il plurale della parola guscio o della parola occhio risulta essere (almeno da quello che ho avuto modo di notare in alcuni scritti) gusci occhi, anziché guscii occhii. Vorrei sapere se c’è una regola in proposito.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano contemporaneo i nomi che al singolare finiscono in -io al plurale mantengono la i se essa è accentata (addio > addii), la perdono se non è accentata (occhio > occhi). Le forme occhiigusciibivii ecc., rispettose della forma della parola, ma non del suono, visto che la sequenza ii del plurale si pronuncia come un’unica i, sono attestate fino a metà Novecento, per poi divenire rare o essere completamente abbandonate.
La i non accentata del singolare si mantiene al plurale nella parola assassinio soltanto per distinguere nello scritto questo nome dall’omofono (nonché omografo) assassini, plurale di assassino. Si noti che questa motivazione è molto debole, infatti il plurale assassini per assassinio è anche possibile, così come il plurale omicidi per omicidio è più comune di omicidii, a dispetto dell’esistenza dell’omofono e omografo omicidi, plurale di omicida.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono ESSERE improbabili, bensì quelli differiti”. Volendo scegliere questa linea espressiva è corretto l’ uso di quel essere?

 

RISPOSTA:

La costruzione delle proposizioni oggettive e soggettive con l’infinito e senza alcuna preposizione introduttiva ricalca quella delle proposizioni infinitive latine, che avevano proprio la funzione delle completive italiane. Tale costruzione è ancora contemplata in italiano, sebbene fosse più diffusa nei secoli passati e sia oggi rara e adatta allo scritto tecnico-scientifico e burocratico. Più comunemente si direbbe che dicono siano improbabili (si noti che anche con questa costruzione il che introduttivo della oggettiva è preferibilmente sottinteso per evitare la ripetizione).
Normalmente, la completiva con l’infinito richiede l’espressione del soggetto (corrispondente al soggetto in accusativo delle infinitive latine): “Gli antichi greci pensavano il fulmine essere un attributo di Zeus”. Nel suo caso, però, il soggetto è assorbito dal pronome relativo precedente, divenendo superfluo. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il termine compagno deriva dal latino miedevale companio (“cum panis”) come è riportato nell’Etimologico Cortellazzo-Zolli della Zanichelli e in altri dizionari. Tuttavia mi piacerebbe sapere se è noto quando esattamente è stato introdotto nel Medioevo e le eventuali fonti più antiche conosciute dove compare la parola. 

 

RISPOSTA:

Le consiglio di fare lei stesso questa ricerca, usando lo straordinario TLIO, a cui può accedere a questo indirizzo: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Vedrà che la parola è ben attestata già dalla metà del XIII secolo, quindi dagli albori della scrittura in volgare, in testi di varia provenienza. 
Se, invece, a lei interessa non la prima attestazione in un volgare romanzo del territorio italiano della parola compagno, ma la prima attestazione in latino medievale della parola conpanio, il luogo da lei cercato è questo: 
 

Si quis in hoste de conpanio de conpagenses suos hominem occiderit, secundum quod in patria si ipso occidisset conponere debuisset in triplo conponat.

Si tratta di un articolo delle novellae della lex salica, di cui è difficile stabilire il periodo di redazione ma il cui terminus ante quem è l’inizio del IX secolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Perché si dice maschera per la persona che lavora nel cinema? Le maschere hanno portato o messo delle maschere un tempo in passato? E se sì, perché?

 

RISPOSTA:

L’etimologia della parola maschera è discussa: l’ipotesi più accreditata è che la parola base sia il latino tardo MASCA ‘strega’. Il significato originario di ‘finto volto che nasconde i veri lineamenti della persona’  già nel Cinquecento si allarga per indicare anche la persona che porta una maschera. A questo significato risale quello di ‘inserviente di un teatro o di un cinema che svolge vari servizi di accompagnamento degli spettatori’. Nel Settecento, soprattutto a Venezia, infatti, tali inservienti portavano una maschera (quindi erano delle maschere) per nascondere la propria identità e potere quindi decidere con libertà a quale spettatore dare ragione in caso di dispute (in un periodo in cui i teatri erano ambienti meno regolati e formali di oggi).
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.

 

RISPOSTA:

La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimomeno acerrimoil più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con piùpiù/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?

 

RISPOSTA:

L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare fortetenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunistamangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?

 

RISPOSTA:

Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo teneturbeati monoculi in terra caecorumcarpe diemest modus in rebusrisus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qualche giorno fa ho sentito durante un servizio televisivo, questa frase: “Le nostre abitudini devono continuare come se niente fosse, anche se in un momento come questo ci fanno stare PIÙ MALE del solito”.
Vorrei sapere se l’espressione in lettere maiuscole è corretta; io avrei utilizzato PEGGIO del solito, ma vorrei capire se e perché è corretta la forma utilizzata dalla giornalista.

 

RISPOSTA:

Troviamo esempi letterari di più male almeno dal Cinquecento: “E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n’erano contrari, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto più male diremmo quando fossimo fuor di quella” (Giovan Battista Ramusio, Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez, ca. 1557). Si noti che, comunque, qui più male si giustifica perché riprende anaforicamente male appena precedente.
Quasi tutti gli esempi di più male fino a oggi figurano all’interno delle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male. Queste espressioni sono parzialmente cristallizzate, come delle unità polirematiche (sentirsi male = soffrire), per cui è innaturale, ma non per questo sbagliato, modificarle sostituendone una parte, male, con un’altra del tutto diversa, peggio. Nel caso di sentire male ‘provare dolore’, invece, male è un sostantivo, quindi non può essere graduato (non si può dire *sento peggio).
Di là da queste espressioni, non ho trovato esempi diastraticamente alti di più male. Non si può escludere che ce ne siano, ma si tratta comunque di un uso marginale.
Parzialmente significativi sono gli esempi, pure rari (per esempio in Pasolini), di stare sempre più male, perché qui più si confonde tra i sintagmi sempre più e più male. Il solo stare più male, senza sempre, del resto, appare spesso in espressioni come non voglio stare più male, nelle quali più è certamente unito a stare, non a male. Esiste ovviamente anche stare più male con il significato di ‘stare peggio’, ma si tratta di un uso informale.
In conclusione, nelle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male la forma più male è accettabile anche in contesti di media formalità. In stare più male va considerata poco formale; in altri casi, va considerata trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Storia della lingua
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QUESITO:

Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?

 

RISPOSTA:

Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Recentemente mi è sorto un dubbio per quanto riguarda i punti e le virgole alla fine dei dialoghi. I casi sono i seguenti (alla fine di ogni frase vi è un capoverso):
1. «Sono curiosa, di cosa si tratta?», chiesi.
2. «Non sembro la moglie di un miliardario?».
3. «Interessante argomentazione» disse con tono solenne «Sono sicuro che farà faville durante la presentazione».
Nel primo caso il mio dubbio riguarda la virgola dopo le prime virgolette, la ritengo superflua, ma vorrei sapere se si tratta di un vero e proprio errore o se può essere usata a discrezione dell’autore.
Il secondo caso è una citazione da un romanzo edizione Newton, il mio dubbio riguarda il punto alla fine, vista la presenza del punto interrogativo: è corretto o no?
Terzo e ultimo caso, il punto alla fine fuori dalle virgolette e non dentro. È accettato?
La posizione del punto è a discrezione dell’autore o vi è una regola?

 

RISPOSTA:

La punteggiatura in prossimità delle virgolette del discorso diretto è del tutto convenzionale; non ha quasi mai, cioè, una funzione testuale che la motivi. Questo comporta che in questo campo ci siano forti oscillazioni, dovute al gusto dello scrivente e alle convenzioni invalse nel periodo storico. Per questo bisogna essere molto cauti nell’individuare obblighi.
Facendoci guidare dal criterio dell’equilibrio tra chiarezza ed economia di segni, possiamo suggerire i seguenti usi.
1. Nel caso in cui il discorso diretto finisca con un punto esclamativo o interrogativo è bene segnalarlo prima delle virgolette. In questo modo si evita di riferire la domanda alla cornice (come, ad esempio, in: Non sei stanco di dire “Sono stanco”?). Se la frase continua dopo le virgolette, ferma restando la necessità di segnalare il punto emotivo all’interno delle virgolette, è necessario anche inserire la punteggiatura richiesta dopo. Se il discorso diretto non finisce con un punto emotivo e la frase continua dopo le virgolette, qualsiasi segno di punteggiatura può essere messo soltanto una volta dopo le virgolette.
2. Nel caso in cui il discorso diretto finisca con un punto esclamativo o interrogativo e la frase si interrompa dopo le virgolette, è bene segnalare entrambe le funzioni, come nel suo esempio.
3. Se la frase si chiude con la fine del discorso diretto (che non finisce con un punto emotivo), il punto fermo può essere messo una sola volta dopo le virgolette. Non c’è ragione di inserirlo sia dentro che fuori le virgolette, mentre inserirlo soltanto dentro le virgolette non chiarirebbe che esso va riferito a tutta la frase e non soltanto al discorso diretto. Certo, se la frase coincide con il discorso diretto, si può anche scegliere di mettere il punto fermo soltanto dentro le virgolette, ma per omogeneità consiglierei di metterlo sempre soltanto fuori.
Un caso problematico è quello in cui sia il discorso diretto sia la cornice necessitino di un punto emotivo: non sei stanco di chiedere “Mi ami?”?. Per quanto curiosa, questa forma è consigliabile perché chiarisce tutte le funzioni salienti. Si può evitare trasformando il discorso diretto in indiretto: Non sei stanco di chiedermi se ti amo?.
Nel suo esempio 3 si presenta un ulteriore problema: l’interpunzione dell’inciso. In presenza di un inciso ci sono diverse soluzioni possibili; vediamone alcune: 
3a. «Interessante argomentazione», disse con tono solenne. «Sono sicuro…»;
3b. «Interessante argomentazione – disse con tono solenne -. Sono sicuro…»;
3c. «Interessante argomentazione – disse con tono solenne. – Sono sicuro…».
Si noti che la soluzione del suo esempio non è tra quelle che ho suggerito: ha, infatti, il difetto di non segnalare l’interruzione del periodo tra il primo pezzo di discorso diretto e il secondo. Che il periodo si interrompa è, del resto, evidente per via della sintassi. Nelle soluzioni proposte, non a caso, è sempre presente un punto fermo prima del secondo pezzo del discorso diretto.
Una precisazione: i trattini delle proposte 3b e 3c sono da considerarsi lunghi, equivalenti alla sequenza di due trattini corti (–). 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Si dice appassionarsi a o appassionarsi di?
È corretto dire: “Ci può portare a trascurare noi stessi e ad appassionarci di cose che non ci riguardano”?  
Non si può usare la preposizione a?

 

RISPOSTA:

La preposizione a è molto più comune, ma di non è esclusa; per esempio: “Studiò al Liceo classico di Formia e cominciò ad appassionarsi di letteratura” (dalla scheda Pietro Ingrao del Dizionario biografico degli italiani Treccani, 2017). Possibile, ma uscito dall’uso, anche appassionarsi per; per esempio: “Un grande desiderio della cultura […] lo portò ad appassionarsi per le questioni religiose del suo tempo” (dalla scheda Fanino Fanini, sempre dal Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1932).
La scelta tra le tre opzioni dipenderà dallo stile personale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo su un giornale a diffusione nazionale, nell’articolo di fondo: “… non prendeteci in giro, che non siamo ragazzini …”. Quel che non dovrebbe essere accentato ed avere quindi valore di perché poiché? Altrimenti, come definire quel che?

 

RISPOSTA:

Uno dei tratti più caratteristici dell’italiano contemporaneo è la diffusione nello scritto del che polivalente, ovvero di usi del connettivo che non facilmente inquadrabili nella classificazione grammaticale tradizionale. Si tratta di usi ben noti alla tradizione dell’italiano, ma fino a qualche decennio fa tipici del parlato. Tipici, ma non esclusivi, come dimostrano, per fare un esempio tanto antico quanto illustre, i tanti passi danteschi nei quali la funzione di che è indecidibile (per una disamina di questi passi si può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata proprio a che). Il più famoso è probabilmente il verso 3 dell’Inferno: “ché la diritta via era smarrita”, che nell’edizione Petrocchi (qui riprodotta) appare come ché, ma sul quale ci sono parecchi pareri discordi che vorrebbero la restituzione di che (secondo la lezione di molti codici). Il valore del connettivo nel passo, infatti, può sì essere causale, ma non si possono escludere il valore consecutivo (= tanto che la diritta via era smarrita), quello semplicemente aggiuntivo (= e la diritta via era smarrita), quello che alcuni definiscono modale (= in modo tale che / sicché la diritta via era smarrita) e addirittura, ma si tratta dell’interpretazione meno accreditata, quello relativo (= nella quale la diritta via era smarrita). Tra gli usi del che polivalente, infatti, rientra anche quello di relativo generico, che può sostituire cui e tutti gli altri casi (in cuiper cui ecc.). 
Questi usi sono rimasti ai margini della tradizione scritta fino a qualche decennio fa; anche le occorrenze dantesche sono da interpretare come tentativi di imitare il parlato o occasionali abbassamenti di tono. L’avvicinamento relativamente recente tra lo scritto e il parlato ha portato a una sempre maggiore accoglienza di tratti come questo nello scritto, a partire ovviamente da testi di bassa formalità (famoso il verso della canzone di Jovanotti perché non c’è niente che ho bisogno) o brillanti, come certi articoli giornalistici di commento. Lo scritto mediamente formale ancora rifiuta questi usi, ma è possibile che essi si diffondano sempre di più in futuro. Già oggi, per esempio, il che pseudorelativo all’interno della frase scissa (“È lui che ho visto”) è pienamente accettato. Sulla frase scissa, in particolare, si possono leggere diverse risposte nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Spesso, nei dizionari, taluni termini (solitamente, verbi e aggettivi) sono associati, per così dire, a limitazioni d’uso che ne riducono i contesti di applicazione. Per esemplificare: sardonico (detto di viso o risata), flebile (detto di voce o suono), effluire (detto di gas o liquido). La letteratura (e non solo) ci insegna che ogni sistema linguistico, nel tempo, si è modificato, allargando tanto la disponibilità di vocaboli quanto le accezioni a essi ascrivibili. Mi viene in mente l’aneddoto legato alla parola bagnasciuga intesa come sinonimo di ‘battigia’ o ‘bàttima’. Fu Benito Mussolini, se non sbaglio, a impiegarla per la prima volta con questo significato (che, adesso, mi risulta essere il più diffuso, a discapito di quello originario).
Tornando all’oggetto dell’interrogativo, vi domando se in un periodo – tendenzialmente fantasioso – quale
 

Vidi quell’uomo misterioso, cupo: il suo approccio sardonico mi inquietava, anche per la circospezione con cui si muoveva nella stanza. Sentii effluire dal mio corpo l’energia che avevo raccolto fino a quel momento: e la già flebile speranza che la situazione potesse volgere a mio favore si esaurì all’istante…

i tre termini citati in precedenza (sardonicoflebileeffluire), che si allontanano dalle limitazioni d’uso indicate dai vocabolari, sono inaccettabili se sviluppati in tali accezioni, oppure le costruzioni che determinano possono dirsi corrette, anche in un’ottica metalinguistica, all’interno di uno scritto di stampo narrativo.

 

RISPOSTA:

Il cambiamento semantico delle parole è un fenomeno tanto ineluttabile quanto imprevedibile. Una delle cause possibili di cambiamento semantico è la paretimologia, ovvero la convinzione errata dei parlanti che una parola abbia una certa etimologia, da cui derivi un certo significato. Il caso di bagnasciuga si può interpretare proprio come un caso di paretimologia. La parola, infatti, sembra perfetta per descrivere la zona in cui la terra incontra il mare, soggetta al continuo andare e venire delle onde. Sappiamo che la parola ha un’origine diversa, perché nacque nel Settecento per designare la linea di galleggiamento delle navi, ma ben presto (certamente prima del famoso discorso del bagnasciuga del 1943 di Mussolini) fu usata con il significato ancora oggi corrente.
Un altro principio che muove il cambiamento semantico è l’assonanza, probabilmente alla base dell’evoluzione di flebile. Originato dal latino FLEBILEM (a sua volta dal verbo FLEO ‘piangere’), ha significato storicamente ‘piagnucoloso, lamentoso, che induce al pianto’, ma oggi significa anche  ‘debole, leggero, evanescente, appena percepibile’. A mio parere, l’assonanza con fiato e afflato, ma anche con fioco e persino fioresfiorare e simili, ha promosso questo spostamento, ulteriormente favorito dalla tipica associazione di questo aggettivo con oggetti effettivamente appena percepibili come il canto degli uccelli.  Addirittura, se flebile ancora conserva anche il significato originario, il suo allotropo popolare fievole ha soltanto il significato secondario. 
Anche l’uso figurato di un termine ne può determinare l’ampliamento semantico, fino a far dimenticare il significato originario. Un caso del genere è l’aggettivo cattivo, che deriva il suo significato attuale dall’uso figurato nell’espressione captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’, diffusosi nella Chiesa delle origini. In latino, infatti, CAPTIVUS significa ‘prigioniero’ (mentre cattivo si dice MALUS o IMPRŎBUS) e mai sarebbe potuto passare al significato di ‘cattivo’ senza il tramite dell’espressione figurata. Un uso figurato è anche alla base del caso di palinsesto di cui ci siamo occupati nella risposta n. 2800425 dell’archivio di DICO. Qui, addirittura, abbiamo un ampliamento del significato sulla base di un significato già figurato, legato alla programmazione televisiva. Se risaliamo indietro al significato originario del nome palinsesto, infatti, scopriamo che è ‘antico manoscritto di pergamena, il cui primo testo è stato raschiato via e sovrascritto’. 
Venendo alla sua proposta, nel caso di flebile non ci sono difficoltà, visto che flebile speranza è un’espressione già comunissima. Neanche approccio sardonico è originale. In rete se ne trova qualche decina di esempi, letterari ma anche di contesto medio, come questo: “L’inviato cult Valerio Staffelli, con il suo consueto approccio sardonico e dissacrante, ha consegnato nelle mani del rapper, come da rituale, il famigerato Tapiro d’oro” (ilgiornale.it, 2019). Effluire è effettivamente usato tipicamente in relazione a gas o liquidi, ma la rappresentazione figurata dell’energia come una sostanza fluida è piuttosto credibile, tanto da giustificare, sulla scorta del principio dell’uso figurato, questo ampliamento di ambito.
In conclusione, i suoi tre esempi di ampliamento di ambito d’uso lessicale, con conseguente cambiamento del significato, sono perfettamente accettabili, tanto che due su tre sono già usati. Il cambiamento semantico è davvero tumultuoso, accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’; 
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masutmazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iotanon valere uno / una iotaun / uno pneumatico.

 

RISPOSTA:

​Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginsengun megahertz molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acquasalemercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domanimenodopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iotauno iotauna iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Volevo chiedere se sbaglio omettendo la congiunzione se nel testo della mia poesia che vi riporto qui sotto, oppure se è indifferente:

…è ricamata col verde, e scintilla
di quelle che all’occhio sembrano gemme
(se) non fosse per la sinfonia di profumi
che orchestrano l’arancio e il limone…

 

RISPOSTA:

L’omissione è consentita: il congiuntivo preceduto da non veicola sufficientemente il senso dell’eccezione (se non o, qui, se non fosse = ‘tranne che’). L’omissione della congiunzione conferisce al verso una vaghezza che è stata apprezzata nella lirica tradizionale e oggi è un tratto di arcaicità o aulicità: 

“E tanto li agradisce il vostro regno / che mai da voi partire non dé’ ello, / non [‘tranne che, a meno che’] fosse da la morte a voi furato” (Bonagiunta Orbicciani, S’eo sono innamorato e duro pene, XIII sec.).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei ricevere, se possibile, alcuni chiarimenti circa i rapporti che il passato prossimo stringe con gli altri tempi verbali.

Primo caso: passato prossimo e trasformazione da discorso diretto a indiretto.

“L’ho visto e gli ho domandato: ‘Come va?’”
1a) L’ho visto e gli ho domandato come va. (Accettabile per indicare l’attualità dell’interrogativo.)
1b) L’ho visto e gli ho domandato come vada. (Mantiene l’attualità dell’interrogativo ma ne aumenta la formalità.)
1C) L’ho visto e gli ho domandato come andava. (Costruzione nel rispetto della consecutio.)
1d) L’ho visto e gli ho domandato come andasse. (Consecutio e formalità.)

Nel caso le mie annotazioni siano corrette, mi chiedo se le opzioni 1C e 1D siano applicabili anche in quei contesti in cui, come nelle prime due varianti, si voglia o si debba sottolineare che l’evento è “presente”.
In altre parole, scrivendo o dicendo “gli ho domandato come andasse/andava” si sottintende esclusivamente la contemporaneità con l’azione espressa dalla reggente che, in quanto al passato prossimo, attiene alla sfera del passato, oppure si mantiene comunque un possibile legame con il presente?

Il secondo caso è di simile natura. Mesi addietro lessi su un noto testo grammaticale i seguenti esempi:

“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia.”

“Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica.”

Le costruzioni dimostrano il nesso sintattico e semantico tra passato prossimo e azione presente; ricollegandomi al quesito esposto sopra, mutatis mutandis, vorrei sapere se la sostituzione del congiuntivo presente con il congiuntivo imperfetto cambierebbe tale nesso.

La frase: “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”, ad esempio, escluderebbe la contemporaneità tra la subordinata e l’enunciazione?

Vi ringrazio sinceramente per la vostra disponibilità e per la vostra cordiale attenzione.

Seguo i vostri post su Facebook e sono orgoglioso di promuovere, nel mio piccolo, tra amici, colleghi e familiari, l’attività di DICO.

 

RISPOSTA:

Premetto che tutte le alternative da lei formulate sono valide, in italiano. Facciamo qualche piccola precisazione e distinzione, dunque, soltanto per amore di precisione e di speculazione (nel senso nobile del termine) metalinguistica.
Come giustamente osserva lei, la differenza d’uso tra indicativo e congiuntivo, nelle completive, è più che altro una differenza diafasica, cioè di livello di formalità, senza alcun cambiamento di significato. Qualcosa in più si può dire sull’uso del tempo, invece.
 “L’ho visto e gli ho domandato come va” e “come vada” non sono del tutto rispettose della consecutio temporum, perché, a rigore, quel che conta, nel discorso indiretto, non è il momento dell’enunciazione (essenziale, invece, nel discorso diretto), bensì il rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità rispetto al verbo reggente, vale a dire quello che introduce il discorso indiretto (“ho domandato”). Dunque in questo caso è come se ci fosse una mescolanza tra due piani deittici (cioè di riferimento temporale), quello del passato e quello del presente, cioè quello del discorso indiretto e quello del discorso diretto. Ma, a rigore, la domanda “come va” si presume sia stata fatta nel passato (quando cioè “gli ho domandato”), e non nel presente (o meglio, non troppo tempo dopo l’azione del domandare), e dunque la scelta migliore è senza dubbio “come andava” o, più formalmente, “come andasse”.
Diversi sono gli altri due casi da lei citati, il primo dei quali (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”) attribuibile ad Annibal Caro, cioè un autore del Cinquecento (e dunque tenga presente che i rapporti di consecutio temporum, almeno fino all’Ottocento, erano un po’ più elastici di quanto non siano nell’italiano odierno, o comunque non del tutto e non sempre assimilabili a esso).
I due esempi da lei citati (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”; “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica”) non sono a rigore esempi di discorso riportato (non sono, infatti, introdotti da un verbo di dire o simili). Inoltre, prima avviene l’azione di raccomandarsi a Dio, o a Cristo, e poi quella di esser soccorso, o di dire.
Dato che la distanza temporale tra il rivolgersi a Dio ed averne la grazia, e simili, si suppone ben esigua, di fatto l’uso del presente o dell’imperfetto cambia davvero poco o nulla, in questo caso, e pertanto direi che sarebbe di identico significato anche: “Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorresse della sua grazia” e “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”.
Diverso sarebbe il caso, poniano, di “Cristo mi ha detto che io vi dicessi”, che a quel punto rientrerebbe perfettamente nel discorso riportato, di cui sopra, e che dunque sarebbe senz’altro preferibile a: “Cristo mi ha detto che io vi dica” (o, più semplicemente, “mi ha detto di dirvi”), a meno che non si voglia supporre una notevole distanza cronologica tra “Cristo mi ha detto” e il mio “dirvi”.
Come ho già osservato in apertura, si tratta comunque di minuzie, qui sceverate soltanto per amor di precisione e di riflessione metalinguistica.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi è capitato di entrare in più palestre della mia città e trovare il termine palinsesto per indicare il programma annuale di tutte le attività di fitness. Vorrei sapere se l’uso è improprio o no. visto che dovrebbe riferirsi al campo radiotelevisivo.

 

RISPOSTA:

​L’uso di una parola tende a cambiare nel tempo, accumulando, talvolta, alcune estensioni semantiche. La parola palinsesto nasce in àmbito filologico per indicare un manoscritto in cui la scrittura è stata sovrapposta a un’altra precedente raschiata o cancellata. L’idea di cancellare per sovrascrivere è connessa ad altri contesti d’uso: come già osservato da lei, palinsesto è normalmente associato alla sfera radiotelevisiva per indicare lo schema grafico delle trasmissioni previste in programmazione (che vengono modificate di giorno in giorno). È del tutto prevedibile, quindi, che la parola sia usata per identificare anche altri tipi di programmi che cambiano molto spesso, come quello di un’attività sportiva; non a caso, il dizionario Zingarelli 2020 attribuisce alla parola anche il significato di ‘programma, catalogo’, senza specificare il contenuto dello stesso.
Raphael Merida

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

L’avverbio di luogo ci sostituisce il luogo. Ad esempio: “- ti trovi bene a Firenze? – Sì, mi ci trovo bene”.
Coniughiamo le prime tre persone: Io mi ci trovo beneTu ti ci trovi beneLui / lei ci si trova bene.
Come vede, alla terza persona il ci precede il si, mentre nella prima e seconda persona l’avverbio di luogo è posto dopo i pronomi.
Possiamo affermare che questo “capovolgimento” è dovuto ad una questione di natura fonetica?
E ancora: per la prima persona plurale, credo nessuno dica e tanto meno scriva Noi ci ci troviamo bene. Come ovviare? Usare la variante vi al posto di ci, renderebbe la frase ancora più bislacca: Noi vi ci troviamo bene.
E allora? Come sostituire il ci ci?

 

RISPOSTA:

L’inversione dell’ordine dei pronomi (ci è un pronome, non un avverbio, per quanto abbia la funzione di indicare un luogo) alla terza persona è dovuta probabilmente alla concorrenza di una struttura simile, che ha avuto il sopravvento. Su lui si ci trova ha influito la forma impersonale del verbo pronominale corrispondente a trovarsi, ovvero trovarci ‘riconoscere’, in cui ci fa parte del verbo stesso e si è il pronome che rende il verbo impersonale. Il fenomeno non riguarda questo verbo in particolare, ma si è prodotto su tutti i verbi analoghi allo stesso modo: metterci ha influito su mettersifarci su farsivederci su vedersi ecc.
Anche all’infinito è evitata la forma che dovrebbe essere regolare, trovarsici, in favore di quella analoga ai verbi con ci, quindi trovarcisi
Tale adattamento è antico: non ho trovato esempi di si ci in testi letterari più recenti di questo: “Ad alcuni reggenti, in questo primo anno, dispiacque la novità per gl’incomodi che s’immaginavano dover soffrire, ma dapoi ben si ci accomodarono” (Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo, 1740 ca.). Per la verità, ho trovato attestazioni anche contemporanee di si ci, in discorsi parlati o scritti trascurati di provenienza siciliana, come questo, tratto da un’intercettazione di due malavitosi della provincia di Palermo: “Allora Vicè, fagli sapere se lui si ci può mettere” (livesicilia.it, 2019), quest’altro, tratto da una dichiarazione del mafioso Giovanni Brusca: “Dopodiché gli dico: ‘Fagli sapere a Totò Riina che ho commesso l’omicidio di Vincenzo Milazzo’, perché lui si ci vedeva tutti i giorni” (repubblica.it, 2019), o questo, da un blog sportivo catanese: “Lui si ci mette sempre l’impegno necessario per se e per la squadra” (ilblogdialessandromagno.it, 2014). Quest’ultimo esempio è davvero notevole, perché il verbo qui usato è metterci ‘impiegare’, non mettersi ‘sistemarsi’ (come nell’esempio precedente), quindi si non è richiesto dalla costruzione, ma è inserito perché lo scrivente si adegua a un modello per lui forte.
Non escludo, quindi, che si ci rimanga ancora oggi come regionalismo popolare siciliano o al massimo meridionale.
Per quanto riguarda la seconda domanda, comunemente si ovvia al problema della ripetizione di ci alla prima plurale con l’eliminazione del ci di luogo (noi ci troviamo bene). Se è necessario sottolineare il luogo, è possibile trasformare il secondo ci in lì / là, che va anteposto o posposto: noi lì / là ci troviamo bene, o noi ci troviamo bene lì .
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Leggevo in un giornale: “è anni che il marito la tradisce”. E’ accettabile, oppure è corretto scrivere solamente: “sono anni che il marito…”

 

RISPOSTA:

Il costrutto da Lei segnalato “è anni che” è detto, in linguistica, frase scissa, ed è molto frequente (almeno a partire dal Settecento) e molto studiato. Serve a dare maggiore rilievo, a mettere in evidenza, a focalizzare, la parte dell’enunciato subito dopo il verbo essere. Benché si possa trovare in ogni tipo di lingua, è chiaro che, al pari degli altri costrutti di sintassi marcata, la frase scissa sia più frequente, e appropriata, in quei tipi di testo in cui sale l’esigenza di coinvolgere l’attenzione dell’interlocutore, o anche in quelli in cui è necessario ripristinare la coesione riagganciandosi a quanto già detto. Pertanto, il regno delle frasi scisse saranno, per esempio, i testi giornalistici e anche alcuni tipi di testo più informali, più vicini alla mimesi del parlato. Ma, a differenza di altri costrutti marcati (come le dislocazioni a destra o gli anacoluti), le frasi scisse si trovano anche in testi letterari e molto formali, proprio come tecnica di coesione e di focalizzazione. Proprio perché il verbo essere e il che sono, per dir così, abbastanza desemantizzati e grammaticalizzati, cioè utili al fenomeno della focalizzazione (si tratta infatti di un che pseudorealtivo, e non relativo puro, come dimostra l’impossibile sostituzione con il quale), non è infrequente, nell’italiano di ieri e di oggi, incontrare l’accordo di è singolare con un soggetto plurale, perché, come ripeto, il verbo serve qui a introdurre qualcosa da focalizzare (focus), indipendentemente dal suo ruolo sintattico. Per es., nelle quattrocentesche lettere di Alessandra Macinghi Strozzi (nel CD della Biblioteca italiana Zanichelli) leggo: “ma egli è anni che tu cominciasti a fare delle cose non ben fatte”. È chiaro che la forma senza accordo (“è anni che”) sia da intendersi come la soluzione meno formale, meno adatta a un testo scritto ufficiale, ma comunque possibile e non scorretta tout court.
Ciò detto, possiamo provare a istituire una sorta di scala di formalità, dal più al meno formale, per esprimere un concetto analogo:
1. il marito la tradisce da anni
2. sono anni che il marito la tradisce
3. è anni (o anche “è da anni”) che il marito la tradisce.
Aggiungo in coda che recentemente m’è capitato di studiare un fenomeno analogo, sempre sul terreno del labile accordo nelle frasi scisse. Il verso, splendido, è nella conclusione del Falstaff di Verdi/Boito: “Son io che vi fa scaltri”. In questo caso ci si aspetterebbe l’accordo “faccio”, ma proprio la natura della focalizzazione pseudorelativa consente di considerare quel che come una ripresa neutra, svincolata da quanto riprende. In verità, il discorso sarebbe ben più complesso, ma questa è un’altra storia.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

È possibile utilizzare il termine  discorsivo nell’ambito di un attività dove la percezione del tempo risulta discorsiva( nel senso di scorrevole)? esempio: una coda discorsiva.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano antico, il termine discorso (da dis-correre, cioè ‘correre qua e là, muoversi, spostarsi’ e simili) aveva una quantità di significati anche non legati al parlare, cioè al significato moderno, bensì agli spostamenti nel tempo e nello spazio. Pertanto, erano possibili espressioni quali “in discorso di tempo”, cioè ‘con il passar del tempo’; “in discorso d’anni” (Ariosto) ecc. (citazioni tratte dal Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Garzanti).
L’aggettivo discorsivo, che è termine un po’ meno antico, è più legato al discorso come lo intendiamo noi, per cui i riferimenti all’etimo originario dello spostarsi nel tempo o nello spazio sono più difficili, ma comunque sempre possibili, a patto di evitare le ambiguità. In assenza di un contesto maggiore, per esempio, io non potrei che interpretare il suo coda discorsiva come ‘fine di un discorso, in coda a un discorso’. Ma, come ripeto, nulla vieta, magari per amor d’arcaismo e di significati peregrini, di intenderlo, nel dovuto contesto, come ‘la fine dello scorrere del tempo’ e simili.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?

 

RISPOSTA:

Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista: 
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.

Fabio Rossi

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QUESITO:
So che in italiano le singole lettere vengono pronunciate come quando si dice l’alfabeto: la (‘bi’), la (‘ci’), la (‘effe’). In alcuni casi ho dei dubbi: la c si pronuncia ‘c’; ma non dovrebbe essere accompagnata dalla i?. La pronuncia alfabetica riguarda anche i digrammi e trigrammi: la gl (‘gi elle’), la gn (‘gi enne’), la ch (‘ci acca’), la gli (‘gi elle i’). Come mai anche i digrammi si pronunciano separatamente?

 

RISPOSTA:

​Il concetto di lettera è ambiguo, perché può riferirsi a un oggetto fonetico, il fonema, e a uno grafico, il grafema. Ricordiamo che le lingue nascono parlate, quindi sono composte prima di tutto dai fonemi, i suoni che i parlanti di una determinata lingua riconoscono come distinti e autonomi. I grafemi sono tentativi di “tradurre” i suoni in segni grafici, per dare un corpo visibile ai suoni, in modo da poterli scrivere. 
L’alfabeto di una lingua è fatto di grafemi, che sono tipicamente in numero minore rispetto ai fonemi propri di quella lingua. Questo avviene perché alcuni grafemi sono usati per rappresentare più di un fonema (ad esempio in italiano c rappresenta sia il fonema /ʧ/, come in cena, sia il fonema /k/, come in cane) e alcuni fonemi mancano del tutto (ad esempio in italiano /ɲ/ di gnocco non è rappresentato nell’alfabeto, ma è rappresentato dal digramma gn). Si noti che lo stesso fonema può essere rappresentato in modo diverso negli alfabeti di lingue diverse: è il caso, per esempio, proprio di /ɲ/, che in spagnolo è presente nell’alfabeto con il segno ñ.
Una volta creato l’alfabeto, i grafemi divengono nomi comuni, quindi si pone il problema del genere da attribuire loro. Alcuni sono stati nella storia stabilmente femminili, perché terminanti per -aazetaacca; gli altri hanno sempre oscillato tra il maschile e il femminile fino a pochi decenni fa (si pensi all’espressione idiomatica mettere i puntini sulle i, nota anche nella variante mettere i puntini sugli i), per fissarsi generalmente sul femminile negli ultimi tempi (ma in realtà ancora oggi sono accettabili entrambi i generi, e le lettere dell’alfabeto greco sono considerate maschili). Tale oscillazione è dovuta alla possibilità di sottintendere, accanto al nome del grafema, tanto segno quanto, appunto, lettera.
L’alfabeto, dunque, è una costruzione altamente convenzionale, soggetta a molte spinte analogiche. Non devono stupire, pertanto, alcune incongruenze al suo interno, come la mancanza di alcuni suoni, la confusione di più suoni in un solo segno, e persino la mancanza di alcuni segni che pure si usano nella lingua (nell’alfabeto italiano, per esempio, mancano jkxyw).  
Per quanto riguarda la pronuncia dei nomi dei grafemi, le consonanti necessitano di una vocale di appoggio, visto che, come è noto, le consonanti “suonano”, cioè producono un suono, solamente quando sono accompagnate da una vocale. La vocale di appoggio nella storia dell’italiano è stata inizialmente la e, ma poi i parlanti hanno preferito la i (probabilmente perché è la vocale percepita come la più debole). Ci sono alcune eccezioni, dovute all’intento di evitare potenziali confusioni: effeemmeenne per esempio, non sono fimini per evitare la confusione con le omonime lettere dell’alfabeto greco. Questo, però, non ha indotto a cambiare il nome della p (identico al pi greco) in *eppeAcca ha un’etimologia incerta, elle e esse servono a evitare la confusione con li e sierre probabilmente è nato per evitare un nesso difficile da pronunciare: il ri
​Dovendo scrivere il nome di una consonante, si può scegliere se riportare il singolo grafema, ad esempio p, oppure rappresentare fedelmente la pronuncia, segnando anche la vocale di appoggio, ad esempio pi. Tradizionalmente, però, questo secondo modo è riservato alle lettere dell’alfabeto greco, per distinguerle dai grafemi latini, che si scrivono da soli.
I digrammi si possono pronunciare riportando la rappresentazione grafica al fonema corrispondente, oppure scandendo le componenti grafiche separatamente. La prima soluzione ha il difetto di risultare molto artificiosa, perché bisogna evitare di pronunciare la vocale di appoggio, altrimenti si crea un trigramma. Siccome questo è impossibile, si deve optare per la sostituzione della i con la vocale [ə], detta schwa, inesistente nel repertorio dell’italiano standard (ma esistente in molti dialetti). I trigrammi gli e sci sono più facili da pronunciare foneticamente, perché contengono la vocale i alla fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È notorio che con i verbi modali, accompagnati da essere avere, si debba utilizzare l’ausiliare che si concilia con l’infinito. Faccio un esempio: “Ho voluto mangiare da solo”. In effetti si dice ho mangiato. Ancora: “Sono dovuto partire improvvisamente”, in effetti si dice sono partito e non ho partito. Ci sono però alcuni casi in cui sorge qualche dubbio. Esempio: “Non ho voluto venire con voi”. In questo caso, secondo me, non ho voluto è accettabile in quanto denota meglio la mia ferma volonta di non venire. Certo, si può anche dire “Non sono voluto venire con voi”, e forse è più corretto, ma reputo non ho voluto quasi più efficace.

 

RISPOSTA:

​La scelta dell’ausiliare con i verbi modali è meno rigida di quanto lei creda. Se non ci sono dubbi su avere con i verbi transitivi (nessun parlante nativo direbbe mai *sono voluto fare), con i verbi intransitivi l’oscillazione tra essere e avere è un fatto antico e ben radicato anche in letteratura. Ecco alcuni esempi di avere + modale + infinito di verbo intransitivo: 
 

“Come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d’Aristotile, coi cui princìpi ne hanno amendue ragionato!” (Giovan Battista Vico, Principi di scienza nuova, 1744);

“Guarda dal parapetto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco – diceva Giovanni tabaccone – non avrebbe potuto cadere in terra” (Arrigo Boito, Il demonio muto, 1883); 

“Egli avrebbe voluto alzarsi e camminare nel gabinetto, per vincere l’emozione che gli cresceva nel cuore, ma si accorgeva che la fanciulla non aveva ancora finito” (Alfredo Oriani, La disfatta, 1896).

“Ma avrebbero potuto andare avanti e indietro senza timore di svegliarli, scavalcandoli tutti, tanto dormivano in pace” (Elio Vittorini, Le donne di Messina, 1949).

La ragione dell’oscillazione non è di natura espressiva, come sospetta lei per il suo esempio, ma dipende dalla costruzione sintagmatica verbo modale + infinito, che è molto solidale, tanto che il modale può essere percepito come autonomo rispetto all’infinito, ma anche come un tutt’uno con l’infinito. Nel primo caso, l’ausiliare è selezionato dal modale, che formalmente è il verbo con il quale l’ausiliare entra in composizione (ho dovuto | andare); nel secondo caso, l’ausiliare è selezionato dal verbo all’infinito (sono dovuto andare). Questo spiega anche perché non ci sia la stessa oscillazione con i verbi transitivi: ho dovuto | fare = ho dovuto fare
Attenzione: il verbo essere preferisce l’ausiliare avere a essere. L’autorevolissima Grammatica italiana di Luca Serianni (UTET, 1988), anzi, la considera l’unica scelta corretta. Io non sarei così drastico, e mi limiterei a considerare essere + modale + essere una scelta trascurata, ma pur sempre ammissibile in contesti informali (non credo che molti parlanti sarebbero disturbati da frasi come “Nonostante la malattia, lo zio è voluto essere presente alla laurea della nipote”). In ogni caso, bisogna rilevare che l’uso vivo propende decisamente per avere + modale + essere: la ricerca di sarebbe potuto essere nell’archivio di Repubblica per l’anno 2019 restituisce appena 15 attestazioni, a fronte di 99 per avrebbe potuto essere
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi son venuti dei dubbi leggendo un libro di esercizi. Leggo:
1. Tradurre dall’italiano al tedesco.
2. Tradurre Platone in italiano.
3. Tradurre le parole nella tua lingua.

A me sembrano la stessa struttura: “tradurre a una lingua”. Ma perché si usa una volta a e altre volte in? O sono intercambiabili?

 

RISPOSTA:

L’uso delle preposizioni è legato a fattori solo in parte logici. A volte a pesare è la storia della lingua o anche altre ragioni difficili da riconoscere. Si pensi, per fare un esempio tra mille, alla preposizione di, che è richiesta tanto da un aggettivo come degno (“Degno di lode”) quanto dal secondo termine di paragone (“Meglio di niente”), può esprimere provenienza se segue il verbo essere (“Sono di Atene” = “Vengo da Atene”), ma anche un certo momento della giornata in alcune espressioni (“Ci vediamo di pomeriggio”).
Il verbo tradurre regge di norma la preposizione in, come dimostrano le sue frasi 2 e 3. L’assenza dell’articolo nella 2 è dovuta alla idiomaticità dell’espressione in italiano (che si comporta come in casain bancain classe…). Nella frase 1, la presenza della lingua di provenienza, introdotta dalla preposizione da, configura l’azione del tradurre come uno spostamento fisico di un corpo da un luogo a un altro: questo favorisce l’uso, altrimenti sbagliato (non si può *”tradurre a una lingua”) della preposizione a. Rimane comunque possibile usare in anche quando sia esplicitata la lingua da cui si traduce: “Tradurre dall’italiano in tedesco” è corretto, sebbene meno comune.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO: 

È corretta la frase “Incontro persone che so aver opinioni diverse dalle mie”, con l’infinito alla latina anziché la forma esplicita con l’indicativo?
Penso di no, ma non ne sono certissimo, perché il soggetto della completiva dovrebbe coincidere di norma con il soggetto della reggente. Forse i toscani usano questo costrutto arcaico. 

 

RISPOSTA:

​La costruzione della frase è corretta e ancora a suo agio nell’italiano contemporaneo, anche di media formalità, senza coloriture regionali; ho trovato, per esempio, un costrutto simile in un account Facebook: “Come faccio a segnalare una persona che so avere un profilo falso ma mi ha bloccato?”. A darle la sensazione di arcaicità è forse l’apocope di aver, che suona un po’ letteraria, sebbene sia anch’essa piuttosto comune.
Ha ragione a ricordare la norma della conservazione del soggetto per l’infinito. Questa, però, non è assoluta e, in questo caso, viene infranta con buone ragioni (nonché sulla base di un modello molto antico). La costruzione sintattica superficiale della frase nasconde una costruzione logica bimembre: da una parte “Incontro persone”, dall’altra “so che queste persone hanno opinioni diverse dalle mie”. Il pronome relativo consente di fondere le due costruzioni logicamente autonome in modi diversi, per esempio così: “So che le persone che incontro hanno opinioni diverse dalle mie”. Se, però, per ragioni informative, vogliamo isolare a sinistra della frase “Incontro persone”, si crea un corto circuito tra la sintassi e la logica, perché la proposizione dipendente dal verbo sapere è a metà strada tra una oggettiva e una relativa. Nella frase “Incontro persone che so che hanno opinioni diverse dalle mie”, cioè, il parlante rimane incerto se interpretare “che hanno opinioni diverse dalle mie” come una relativa dipendente da “Incontro persone” (come se “che so” fosse, in realtà, una incidentale tipo ” – e lo so -“) o come una oggettiva dipendente da “che so”. La costruzione con l’infinito elimina la difficoltà.
Si noti, a questo proposito, che il soggetto dell’infinito in quest’ultima costruzione non può che essere l’oggetto del verbo della reggente. Se il soggetto fosse lo stesso della reggente sarebbe richiesta la preposizione introduttiva di: “So di aver opinioni diverse”; nel caso specifico, però, il risultato sarebbe incoerente, visto che la frase completa diverrebbe *”Incontro persone che so di aver opinioni diverse dalle mie”.
Avvicinerei questo caso agli altri comunemente considerati le eccezioni più evidenti alla norma dell’identità del soggetto tra la reggente e la subordinata implicita, le frasi con un verbo di comando o licenza e quelle con un verbo di percezione nella reggente, nelle quali il soggetto della oggettiva è senz’altro l’oggetto (diretto o indiretto) del verbo della reggente, non il soggetto: “Ti ordino / permetto di fare ì compiti” = “Ordino / permetto che tu faccia i compiti”; “Ti ho visto uscire” = “Ho visto che tu uscivi / sei uscito”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia si distingue solamente al singolare, ed è sempre lei (terza persona). Ad esso corrispondono le particelle pronominali la per il complemento oggetto e le per il complemento di termine.
Esempi: “Sa che le [complemento di termine] dico? Lei [soggetto] è proprio una brava persona”; “Ho chiamato lei [complemento oggetto] per avere un aiuto”; “La ho (l’ho) [complemento oggetto] chiamata per avere un aiuto”; “Voglio regalare a lei [complemento di termine] questa penna”; “Le [complemento di termine] voglio regalare questa penna”.
Si noti che lei come pronome di cortesia si concorda al femminile se si riferisce a una donna, al maschile se si riferisce a un uomo: “Le dispiace essere più chiarasignora Bianchi?”; “Le dispiace essere più chiarosignor Bianchi?”.
Al plurale, il pronome di cortesia coincide con il pronome voi. In alcune regioni d’Italia, soprattutto al Sud, voi si usa anche per il singolare: “Posso parlarvisignor Bianchi?”.
Fino a qualche decennio fa, e ancora oggi in un registro estremamente formale, era ed è possibile usare, come pronome di cortesia per il plurale, il pronome loro: “(Loro) non abbiano timore: siano certi che fugherò i loro dubbi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è l’accordo corretto del participio passato?

 

RISPOSTA:

Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sto preparando un breve articolo per la rubrica di cultura locale di UniversoMe (il giornale gestito dagli studenti dell’Università) riguardo al ruolo di Messina nella storia della lingua italiana. Pensavo di trattare degli scrittori nati a Messina legati alla scuola siciliana e accennare al periodo messinese di Pietro Bembo. Altri suggerimenti? Grazie.

 

RISPOSTA:

Oltre ai riferimenti da lei ricordati, le suggerisco di nominare l’ignoto autore nascosto sotto lo pseudonimo Partenio Zanclaio che pubblicò nel 1647 il poemetto Cittadinus maccaronice metrificatus, un galateo in latino maccheronico con inserti in dialetto messinese, in napoletano, in italiano e in spagnolo. Inoltre grande importanza per la storia della lingua italiana a Messina riveste l’accademico dei Pericolanti settecentesco Pippo Romeo, che in una sua cicalata, intitolata I pregi dell’ignoranza (1800), simula questo dialogo con un amico, che difende il dialetto contro la “moda” di parlare italiano:

– Romeo) Chiunque ha fior di senno, ed è di mente sana…
– Amico) E in quale lingua reciti?
– In lingua italiana…
– Eccu lu primu erruri supra cui ti piscu;
Rispunnimi: in Girmania, si predica un tidiscu
a tutti ddi mustazzi in lingua missinisa,
tu non lu chiami pacciu? E non saria un’offisa,
anzi un insultu massimu a tutta la nazioni,
quannu la propria lingua pi’ un’estira pusponi?
[…]
– Ma non è tanta oscura
la lingua italiana: non si può diri estrania;
cc’è differenza massima chidda di la Girmania…

Infine una menzione merita Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme e autore di Horcynus Orca, romanzo scritto in una lingua che sfrutta materiale dialettale all’interno di un italiano personalissimo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Su un testo di Mengaldo trovo l’aggettivo “stupendissimo” e la parola sconcordanza, che sembra proprio cacofonica. Ma è lecito usare questi termini? Grazie

 

RISPOSTA:

Per essere lecito è lecito, per entrambi. Le ragioni foniche (cacofonia) non sono mai un valido motivo per giustificare la possibilità d’uso delle parole, se dal piano del gusto personale (dove ognuno è liberissimo di preferire le parole che crede, sempre che esistano) si passa a quello della grammatica e dell’uso comune. Vediamone dunque altre ragioni, di due tipi: storiche e grammaticali.

1a) Dal punto di visto storico, stupendissimo è attestato, e anche recentemente: quindi è possibile. Del resto, anche l’etimologia lo consente: stupendo vuol dire ‘che suscita stupore’ e, dunque, qualcosa che suscita molto stupore può ben essere definito stupendissimo.

2a) Dal punto di vista della grammatica attuale, in effetti stupendo è avvertito già come una sorta di superlativo di bello e pertanto stupendissimo stride un po’ (come se dicessimo bellissimissimo, questo sì scorretto). Morale: si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

1b) Sconcordanza esiste (anche nei vocabolari attuali) ed esisteva, dunque può essere usato.

2b) Grammaticalmente, è ben formato, cioè con la s- privativa. Tuttavia, dato che è molto più frequente discordanza, è una sorta di doppione meno comune. Morale:si può usare, ma io lo eviterei, con buona pace di Mengaldo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Storia della lingua
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se mi trovo dinanzi un edificio pubblico o privato è più corretto dire al o il? Es. “Mi trovo dinanzi al o il museo”?

 

RISPOSTA:

La forma più comune è dinanzi a (al pari di davanti a ); l’uso senza a, attestato nella storia della lingua italiana, non è escluso, ma è da giudicarsi ormai antiquato (al pari di davanti senza a ).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.

 

RISPOSTA:

Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?

 

RISPOSTA:

I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiorefabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, fluttoflorealeflagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano

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