Tutte le domande

QUESITO:

Mi sembra sempre più frequente il ricorso non solo a parole (o espressioni) ma anche a costruzioni tipiche dell’inglese. Di recente non sono riuscita a spiegare perché la frase “X è conosciuto per produrre Y” è esattamente il calco dell’inglese “X is known for producing Y”. Mi potreste aiutare voi? Secondo me in italiano sarebbe corretto dire “X è conosciuto per la produzione di Y”.

 

RISPOSTA:

La variante della costruzione suggerita da lei è certamente la più tipica in italiano; le altre non possono dirsi scorrette, ma sono, appunto, non tipiche (e per questo risultano strane alle orecchie di molti parlanti). Si può, però, prevedere che si acclimeranno presto. Il modello su cui si basano è chiaramente la costruzione inglese for + forma in -ing del verbo, che viene fatta corrispondere all’italiano per + infinito presente. Si noti che in italiano la variante con l’infinito diventa del tutto accettabile al passato: “X è conosciuto per aver prodotto Y”. Tale costruzione è ovviamente inadeguata se il processo è ancora in corso; in questo caso, oltre al sintagma nominale per la produzione si può usare anche la proposizione causale all’indicativo: “X è conosciuto perché produce Y”.
La struttura sintattica da lei individuata in questa frase è forse penetrata in italiano attraverso la frase “Grazie per non fumare”, che traduce Thank you for not smoking, innovativa rispetto all’espressione italiana “Vietato fumare”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei sapere se il termine qualunquista definisce una persona disinteressata nei confronti dei problemi politici e sociali oppure una persona che, pur interessandosi di queste tematiche, emette giudizi grossolani, banali, da uomo della strada e non da persona competente. Sento usare frequentemente questo termine con il secondo significato, ma, stando al vocabolario, dovrebbe essere usato esclusivamente con il primo significato.

 

RISPOSTA:

Come sempre quando si entra nell’ambito della semantica, non è possibile fissare confini netti. In questo caso specifico, il termine qualunquismo ha subito diversi ampliamenti di significato a partire da quello originario, legato al movimento politico promosso da Guglielmo Giannini negli anni Quaranta. L’obiettivo del movimento era il superamento della democrazia parlamentare in favore di un sistema statale puramente amministrativistico. Tale obiettivo era motivato da una visione critica del parlamentarismo, giudicato corporativistico e contrario agli interessi della classe media, rappresentata simbolicamente dall’uomo qualunque. A partire da questa visione, il termine assunse presto il significato, connotato negativamente, di ‘sfiducia pregiudiziale e generalistica nelle forme, nei riti, nell’organizzazione della politica’. Già questa evoluzione è sorprendente, se si considera che il termine era nato come nome di un movimento politico. Il processo non è, però, finito: una volta associato alla sfiducia per la politica, il termine scivolò gradualmente verso il riferimento al disinteresse e al disimpegno, e nei confronti non solo della politica, ma di ogni ambito della vita sociale e civile. Ecco come si è arrivati al significato attuale del termine.
Veniamo, così, allo specifico della sua domanda: l’atteggiamento di chi si interessa a una questione ma esprime sulla stessa opinioni banali e grossolane può essere definito qualunquista? Certo, perché le opinioni superficiali rivelano che l’interesse è simulato. In altre parole, non c’è differenza sostanziale tra chi non partecipa e chi partecipa, ovvero finge di partecipare, in modo superficiale: entrambe queste persone possono essere definite qualunquiste secondo il significato correntemente associato alla parola.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentarepotenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.

 

RISPOSTA:

Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implementoimplementabileimplementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se la forma mal riscattata (o malamente riscattata) al secondo verso è corretta e se si può usare una forma univerbata malriscattata.
/caparra
mal riscattata
di trenta monete d’argento/

 

RISPOSTA:

Mal riscattata è certamente possibile (come anche malamente riscattata). La variante univerbata malriscattata non è attestata, ma sarebbe in astratto ugualmente possibile e ben formata; in un contesto poetico come è questo, per sua natura incline all’invenzione verbale, è quindi lecito impiegarla.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Neologismi
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QUESITO:

Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?

 

RISPOSTA:

Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burratamozzarellacrescentina
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).

 

RISPOSTA:

Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Vi chiedo se è possibile accettare in uno scritto la forma “stramegafantastico”

 

RISPOSTA:

Dipende dal contesto. Dal punto di vista dello standard, la parola presenta due difetti: l’aggettivo fantastico è considerato già semanticamente superlativo e non accetta, di conseguenza, la forma superlativa; il raddoppiamento del prefisso (stra- + mega) è superfluo. In un contesto “brillante” o giocoso, però, censurarla sarebbe una reazione logicistica e fuori luogo: è evidente, infatti, che la parola sia formata allo scopo di suscitare sorpresa e guadagnare la simpatia dell’interlocutore. Queste funzioni, in alcuni casi, sono importanti tanto quanto la trasmissione lineare di informazioni. 
Per maggiori dettagli sui prefissi (o prefissoidi) stra-mega-maxi- ecc. la rimando alla risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”?dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Neologismi
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QUESITO:

Se esistesse un’interruzione con la c seguita o preceduta dall’h non cambierebbe il suono dolce della c? Mi è venuto questo dubbio per 2 motivi: se la c è in fine di parola (hhhc) è dura e anche quando è seguita da una consonante (cccch). Quelle fra parentesi sono le ipotesi che secondo me sono sbagliate.
Nelle interiezioni l’h divide il suono delle vocali (Ahahah)? Allunga il suono della vocale che la precede o che le sta davanti (hhhhheohhhehhhhi)? Le cose che ho elencato delle interiezioni non riguardano le parole?
In pezzi di parola e acronimi, nel caso dei dittonghi e trittonghi, l’h cambierebbe il suono?: ghnghliglhihgliglihoshci. La c quando è da sola viene considerata più come affricativa? Un esempio è: c’ho.
Le parole composte seguono una regola di lettura diversa da una parola normale? Un esempio di parola composta è scioglilingua e un esempio di parola è glicemia. Il suono della gli in glicemia è duro mentre in scioglilingua è diverso. Le parole composte si pronunciano separatamente?
Una parola composta potrebbe perdere la sua validità in quanto parola composta se si aggiungessero accenti, doppie oppure delle h sparse in modo casuale: sscioglilinguascíoglilinguascioglilinguàscioghlilinguascioglilihngua?
Nel caso di hascisconore si rischia la pronuncia sbagliata per quanto riguarda le parole composte, ma questo a cosa è dovuto? Hashishonore, invece, è più fattibile perché è una parola straniera riconoscibile? Le parole composte con le parole straniere talvolta possono essere complicate per via della riconoscibilità del termine? Per esempio le parole inglesi: Imea e do. Le parole composte seguono uno schema (nome+nome, aggettivo+aggettivo ecc.) oppure le parole possono essere messe a caso (nome+articolo). Le parole composte si potrebbero fare con qualsiasi tipo di parola: Interiezioni, nomi di persona, cognomi ecc.? Sono sempre composte da 2 parole? Le parole macedonia con i casi tipo hascisc non si potrebbero creare? Potrebbero coesistere le parole composte e le parole normali? Es: liberamente (è un avverbio, ma non si potrebbe creare un composto libera+mente?). Se esistesse una parola come ascisconore sarebbe assolutamente infattibile fare un composto come ascisc+onore?

 

RISPOSTA:

Non esistono regole, ma solo consuetudini e analogie, sulla pronuncia di pezzi di parola (quali acronimi o parole inventate o sezioni più o meno riconducibili a parti di parola esistente). Comunemente, se una parola inventata, o un pezzo di parola, o un acronimo, finisce per c (nessuna parola italiana esistente finora può finire per c), la c si pronuncia come velare, e non come affricata, perché la pronuncia velare è quella meno marcata, per così dire, cioè quella più comune, dal momento che le affricate (come la c di cena e la g di gelo, per intenderci) sono fonemi rarissimi, nelle lingue del mondo, e infatti l’italiano è una delle poche lingue a possederle nel proprio apparato fonologico.
Per quanto riguarda le interiezioni e gli ideofoni (cioè parole che indicano rumori), anche qui val più la convenzione, la consuetudine e l’analogia che la regola fonetica (inesistente). E dunque, l’h di solito non modifica la pronuncia né delle vocali né delle consonanti cui si accompagna, con la parziale eccezione per la c e la g, per analogia con le parole italiane: dunque ch e gh non possono che pronunciarsi, almeno in italiano, come velari. Anche hc e hg si pronuncerebbero come velari, sia per il mutismo della h sia per quanto appena detto sulla pronuncia non marcata delle velari. Per quanto riguarda le vocali, una parziale deroga al mutismo della h si ha nell’interiezione (o ideofono) che riproduce la risata, che da taluni (ma non necessariamente) viene pronunciata con una serie di a separate da aspirazione: ahahahah. L’allungamento vocalico delle interiezioni non è, di solito, segnalato dalla presenza o meno della h, bensì dal valore pragmatico, e dunque dal contesto d’uso, di quell’interiezione. E infatti, benché molte (non tutte) le interiezioni siano presenti nella gran parte dei dizionari, non v’è un accordo perfetto sulla loro grafia: chi scrive hm, chi mh, chi hmh, chi hmm ecc. Dicevo che è il contesto d’uso, più che la grafia, a segnalare la lunghezza vocalica (di norma non graficamente segnalata, in italiano, eccezion fatta per alcune interiezioni, per l’appunto, e con notevoli oscillazioni da autore ad autore). E dunque, anche per l’ah di meraviglia, per esempio, e anche a parità di scrittura (ah), ci sarà un caso come: “Ah, che spavento!” (che si pronuncia con una a breve) e un altro caso come “Ah, qui ti volevo! Lo vedi che avevo ragione io?!”, che si pronuncia con una a molto allungata.
D’altra parte, è possibile che talora lo scrivente senta l’esigenza di segnalare graficamente (o con l’h o con la duplicazione della vocale) il diverso valore pragmatico, e dunque anche la diversa pronuncia, delle interiezioni, distinguendo, per es., tra ehi e eeeeehi, o hhhhei o in altro modo ancora. Se, nella letteratura tradizionale, si tendeva a non ripetere stesse serie di grafemi per più di due volte, l’effervescenza grafica, e talora grafomane, incoraggiata dai nuovi media ha immesso in italiano (anche in letteratura) talune interiezioni fatte anche di lunghe serie di vocali e/o di h. Se accetta un consiglio, il troppo stroppia sempre, e il ricorso a questi mezzucci grafici è considerato, da taluni linguisti superciliosi come chi le scrive, un modo di scrivere assai cheap.
La prima parte della domanda sui pezzi di parola e gli acronimi non ha senso, perché MANCA una regola fonetica per la pronuncia delle parole inventate, dei pezzi di parola, degli acronimi, quindi i casi da lei elencati possono pronunciarsi come si vuole. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, la pronuncia affricata (affricativa non esiste, esistono le fricative, ma sono un’altra cosa) della c isolata in c’ho è la classica eccezione che conferma la regola della pronuncia velare di c in isolamento. In effetti, dato che la grafia c’ho (non a caso da taluni contestata e riflettente un caso di lingua parlata trascritta) contrassegna la caduta della i per elisione, allora lì la pronuncia permane quella affricata, come se la i rimanesse: ci ho.
La pronuncia dei composti non cambia, di norma, rispetto a quella delle parole componenti, tranne, talvolta, per questioni di accento (nel senso che tende a perdersi, anche come accento secondario, quello del primo elemento) o di raddoppiamento fonosintattico: per esempio, caffè + latte = caffellattecosì + che = cosicché.
Nel caso di scioglilingua, la pronuncia è quella normale, con l palatale, della parola sciogli. È semmai glicemia l’eccezione (come glicine e altre), nel senso che la pronuncia non palatale del nesso gl dipende dal fatto che quella parola deriva dal greco, lingua in cui la laterale palatale non esisteva (su quest’argomento può vedere la FAQ Pronuncia di Gliaca dell’archivio di DICO).
Benché l’italiano, a differenza dell’inglese, sia una lingua che segue l’ordine determinato + determinante, sono numerosi i composti (soprattutto dal greco o dall’inglese) che seguono l’ordine inverso: agopuntura, psicoterapia ecc., motivo per cui anche hashishonore nel significato di ‘onore dell’hashish’ potrebbe andar bene.
Dopodiché è ovvio che le parole non possano esser messe a caso, né in italiano né in inglese né in nessuna altra lingua, direi, ed è altresì chiaro che bisognerebbe tentare di evitare ambiguità di pronuncia e di senso. La libertà di scelta delle componenti di un composto è lasciata, un po’ come la pronuncia, al buon senso, anche qui tentando di evitare ambiguità: eviterei, per esempio, l’uso delle interiezioni nei composti, e forse anche l’uso degli articoli, nei limiti del possibile. Composti con nomi propri sono possibili, anche qui entro i limiti del buon senso e della comprensibilità. Per es., così come era comune, anni fa, il D’Alema-pensiero, oggi sarebbe possibile il Salvini-pensiero (ammesso che esista…), che tra l’altro segue l’ordine determinante + determinato.
Su libera mente inteso come “qualcosa che libera la mente”, ci hanno già pensato in molti prima di Lei, come scoprirà on line.
Fabio Rossi
Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Neologismi
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QUESITO:

Desidererei sapere se esiste e nel caso il significato della parola antipomeridiano.

 

RISPOSTA:

Da un certo punto di vista, la parola antipomeridiano non esiste, dal momento che non è attestata nei vocabolari. Esiste antimeridiano (dal latino meridies ‘mezzogiorno’), con due significati: 1) mattutino, ciò che accade prima di mezzogiorno; 2) la metà di un meridiano (per es. quello di Greenwich).
Ovviamente ogni lingua è creativa e può avere un numero di parole ben più elevato rispetto a quanto registrato dai dizionari. Basti pensare ai meccanismi di derivazione e composizione di parole a partire da una forma data: dalla parola pomeriggio, per es., io posso ben creare antipomeriggiopomerigginopomeriggiaccio ecc., e il fatto che non compaiano nei dizionari non le rende parole impossibili né scorrette. Sono, per dir così, parole virtuali, vale a dire possibili, anche se non attestate, secondo il sistema fonomorfologico (cioè delle regole di pronuncia, di grafia e di formazione delle parole) della lingua italiana.
Pertanto, possiamo anche coniare antipomeridiano, in certi contesti. Non certo nel significato di ‘mattutino’, visto che antimeridiano già assolve perfettamente a quella funzione; ma magari nel senso di ‘contrario alle attività del pomeriggio’, Per es. in un testo del genere: “io odio lavorare o studiare il pomeriggio, perché dopo pranzo mi viene una gran sonnolenza e tutto quel che riesco a fare è dormire almeno dalle 3 alle 6. In questo senso mi definirei un antipomeridiano”.
Se proprio vogliamo segnalare la natura neologica (cioè di parola nuova) di antipomeridiano, possiamo, eventualmente, scriverlo tra virgolette. Ma non è obbligatorio.
La creatività delle lingue, anche nella formazione delle parole nuove, è una risorsa straordinaria e una delle principali cause dell’arricchimento e dell’evoluzione lessicale. È anche il motivo per cui non è possibile rispondere con certezza alla domanda: “quante parole esistono in una determinata lingua”?
Come sempre, tuttavia, negli usi linguistici, l’importante è la consapevolezza. Se usassimo antipomeridiano nel significato di antimeridiano, perché ignoriamo quest’ultimo termine, commetteremmo un errore. Mentre, se il neologismo antipomeridiano è consapevolmente usato con il valore di ‘contrario alle attività pomeridiane’ (o, perché no, in altri possibili significati), non soltanto non commettiamo nessun errore, ma mostriamo addirittura una vivacità e un’originalità (sempre salutari) nell’uso linguistico, allontanandoci da triti stereotipi.
Molti neologismi nascono proprio così e, con un po’ di fortuna, attecchiscono stabilmente nel sistema lessicale. Basti pensare a regista o autista, coniati, nel 1932, dal linguista Bruno Migliorini, quali (fortunatissimi) sostituti dei termini francesi régisseur e chauffeur.
Fabio Rossi

Parole chiave: Neologismi
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QUESITO:

Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.

 

RISPOSTA:

​Il verbo non è registrato né nello Zingarelli 2019, né nel Devoto-Oli 2019, i due dizionari dell’uso più diffusi e sensibili all’aggiornamento lessicale. Non si trova neanche nella banca dati dell’Osservatorio neologico della lingua italiana (http://www.iliesi.cnr.it/ONLI/), né nella aggiornatissima pagina del sito Treccani dedicata ai neologismi (http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/neologismi/).
La ricerca on line attraverso il motore di ricerca Google restituisce circa millecinquecento risultati, decisamente pochi (molti sono, per giunta, falsi positivi). Alcune attestazioni, però, risalgono anche a 15 anni fa, e si trovano in blog, giornali, persino libri specialistici di case editrici di rilevanza nazionale; ecco un esempio giornalistico del 2006, dalla pagina http://www.ilgiornale.it/news/aaa-laureato-cercasi-purch-senza-master.html: “Molti di questi corsi post-laurea sono semplicemente dei parcheggi per signorini viziati che pensano di «masterizzarsi» per poi entrare con più titoli nel mondo del lavoro ed evitare la gavetta in azienda”.
Dal punto di vista morfologico, masterizzarsi ‘conseguire un master’ è formato sul modello di diplomarsi ‘conseguire un diploma’, laurearsi ‘conseguire una laurea’, addottorarsi ‘conseguire un dottorato’, specializzarsi ‘conseguire una specializzazione’. È un verbo di cui il sistema ha bisogno, per designare un’esperienza sempre più diffusa anche in Italia. In teoria, quindi, ha piena legittimità d’uso; a scoraggiarne la diffusione, però, malgrado la sua coniazione risalga a più di dieci anni fa, è la coincidenza con il verbo masterizzare ‘copiare dati su un CD’ (da master ‘registrazione originale digitale da cui derivano le copie’), che lo rende semanticamente ambiguo.
È possibile che, con il progressivo tramonto della tecnologia dei CD, l’ambiguità tra masterizzare e masterizzarsi venga meno, i parlanti abbandonino le remore a usare il verbo e, di conseguenza, i dizionari lo accolgano. Fino a quel momento, il verbo rimane rischioso da usare (non a caso, nelle attestazioni rinvenute nel Web, il termine è spesso virgolettato, perché sentito come non ufficiale), perché non pienamente autorizzato né dall’uso vivo né dalla lessicografia: un buon compromesso è usarlo, anche senza virgolette, in contesti specialistici sul tema dell’istruzione; metterlo tra virgolette altrove.
A margine, sottolineo che masterizzarsi, al pari di laurearsi ecc., rientra nella categoria dei verbi intransitivi pronominali (come innamorarsi o accorgersi), non in quella dei verbi riflessivi, perché indica non un’azione che il soggetto compie su sé stesso (il soggetto non laurea, masterizza ecc. sé stesso), bensì l’ottenimento o il raggiungimento di uno stato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi, Verbo
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QUESITO:

Da qualche tempo ho scoperto l’esistenza della parola tendostruttura per indicare ciò che io ho sinora denominato con il termine tensostruttura. Mi dareste una mano a definire l’esistenza di eventuali differenze tra le due espressioni? Oppure possono forse essere utilizzate in modo equivalente?

 

RISPOSTA:

Tensostruttura è presente nel dizionario dell’uso GRADIT (a cura di Tullio De Mauro), che data la sua prima attestazione al 1974; tendostruttura, invece, non è registrata. Entrambe le parole, però, risultano oggi usate in ambito industriale, con una precisa distinzione di significato: la tensostruttura, infatti, è un complesso di tessuti e cavi che rimangono in piedi in virtù della tensione (come suggerisce il prefissoide tenso-); la tendostruttura è un tendone temporaneo, che può assumere forme diverse, costruito con uno scheletro di travi su cui viene appoggiato e fissato un telone. Una spiegazione estesa della differenza tra i due tipi di costruzione si può trovare qui: https://www.macotechnology.com/design/tensostrutture-o-tendostrutture-due-universi-differenti/.
Dal punto di vista strettamente linguistico, il rapporto tra le due parole è tutto da indagare; visto che tendostruttura non è ancora registrata nei dizionari, è plausibile che sia stata modellata, in tempo molto recenti, su tensostruttura per designare quella specifica costruzione, simile alla tensostruttura, eppure con caratteristiche proprie. Non a caso, infatti, il prefissoide (ovvero prefisso con un preciso contenuto semantico) tenso- è più produttivo (tensocettoretensocorrosionetensorecettore…) rispetto a tendo-, che ha prodotto, prima di tendostruttura, solamente tendopoli (ovviamente non vanno considerati i tecnicismi medici relativi ai tendini tendosinovialetendosinovite e tendovaginite).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come possiamo definire, o meglio, come si chiama, colui che ama molto il Natale o ama molto festeggiare il Natale??

 

RISPOSTA:

Non esiste in italiano una parola dal significato da lei cercato: si deve ricorrere, pertanto, ad una perifrasi, come amante del Natale, innamorato/a del Natale, pazzo/a per il Natale o simili. Neologismi correttamente formati, ma dal sapore un po’ ironico, sarebbero natalofilo e natalomane.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Neologismi
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