QUESITO:
Vi presento due costruzioni su cui verte il mio dubbio di accordo delle parti variabili.
- «Ogni dubbio e ogni perplessità è lecita» (accordo con l’ultimo nome, femminile) / «sono leciti» (accordo con entrambi i nomi).
- «Entrarono nella stanza un uomo e una donna tristi».
Relativamente al primo esempio, quale delle due forme è corretta? Relativamente al secondo, chiedo se la regola secondo la quale in presenza di nomi di genere misto e di numero plurale il maschile prevale sul femminile valga anche se si tratta di “persone” invece che di “cose”.
RISPOSTA:
Nel primo esempio, sarebbe meglio concordare verbo e aggettivo al plurale, col soggetto: «Ogni dubbio e ogni perplessità sono leciti» o «Sono leciti ogni dubbio e ogni perplessità», per evitare l’equivoco che sia lecita solo la perplessità ma non il dubbio, sebbene forme di concordanza col solo ultimo termine, ancorché si ci si riferisca a entrambi, siano frequenti e non bollabili come scorrette. Ma la chiarezza è il primo fine comunicativo. Il maschile sovraesteso (tristi), riferito a cose maschili e femminili è pacifico, in questo caso, trattandosi appunto di cose e non di persone.
Il secondo esempio è senz’altro corretto, dal momento che la lingua italiana prevede il maschile sovraesteso, in quanto genere grammaticale non marcato, sempre, anche per le persone. È sempre bene distinguere il genere grammaticale dal sesso, o, meglio, dal genere inteso in senso psico-socio-biologico (legga anche questa risposta di DICO). Tuttavia, è evidente che alla base stessa del concetto di ‘maschile sovraesteso’ o ‘maschile non marcato’ vi sia un’ideologia maschilistica (cristallizzata nei millenni), oggi giustamente messa al centro dell’attenzione critica. Come uscirne? Con l’equilibrio, il buon senso e il rispetto per tutti e tutte, come al solito. Quindi, evitiamo lungaggini inutili a meno che non ci si stia rivolgendo direttamente (o quasi) alle persone; in quest’ultimo caso, la ripetizione del maschile e del femminile è auspicabile, come ho fatto io poco fa parlando di «tutte e tutti» (o viceversa), per non discriminare nessuno. Ma, nel caso da lei proposto, scrivere «Entrarono nella stanza un uomo triste e una donna triste» sarebbe inutile e ridicolo, dal momento che non ci si sta rivolgendo direttamente né a quell’uomo né a quella donna.
Non mi voglio nascondere dietro un dito: sono consapevole che esistano altri modi di discutere, su questi argomenti, ed esistano anche soluzioni totalmente inclusive (o ampie) quali l’adozione dello schwa o dell’asterisco come desinenze inclusive di tutti i generi (oltre il binarismo). Il fatto che io non adotti tali caratteri extra-alfabetici e non violi così il sistema morfologico italiano non significa che non condivida, e in larga misura rispetti, le istanze sociali e ideologiche che sono alla base di quelle proposte di riforma ortografica e morfologica. Riforma che, in futuro, potrebbe anche attecchire in italiano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei porre un quesito relativamente alla costruzione di frasi contenenti verbi servili/fraseologici. Nei manuali di scuola ho l’impressione che i verbi servili e i verbi fraseologici siano liquidati in poche parole e restino confinati in gruppi piuttosto riduttivi rispetto alla realtà. Per farla breve, in genere questo si trova: verbi servili: dovere, potere, volere (poi si aggiunge, in modo discreto, ma non mi pare che ci sia intesa unanime, che anche altri verbi possono essere tali: solere, sapere, desiderare, osare, preferire).
Verbi fraseologici: esprimono tentativo, imminenza, inizio, continuazione, fine di un’azione.
Finché si resta nel seminato tutto bene; mi chiedo però come vadano interpretate espressioni come:
1) riuscire a + infinito?
Ad esempio la frase «Luca non riesce a capire il teorema di Pitagora» è, a mio avviso, molto simile a «Luca cerca di capire il teorema di Pitagora», e quindi vedrei una costruzione fraseologica in entrambe. In qualche grammatica però mi è capitato di leggere che «riuscire a» regge una subordinata oggettiva. Quindi la mia idea sembra non corretta.
2) Andare/venire + infinito?
Le frasi «vieni a vedere» o «vai a controllare» contengono un’espressione fraseologica o sono da dividere in reggente e sub. finale? A me sembra che il senso sia «controlla» e «guarda» e quindi semplificherei.
3) Pensare di + infinito
Di solito «pensare» vuole un’oggettiva, ma nella frase «penso di uscire» io vedo il significato «ho intenzione di uscire» e quindi direi fraseologia per azione imminente.
4) Così poi ce ne sarebbero tante altre poco chiare al momento di fare l’analisi del periodo, come «divertirsi a giocare, decidersi a parlare, dimenticarsi di cenare» e simili. Nelle grammatiche per stranieri mi pare che venga messo tutto nello stesso calderone dei verbi fraseologici.
Invecchiando vedo che i dubbi aumentano anziché diminuire.
RISPOSTA:
Partiamo dal presupposto che avere dubbi sulla lingua è indizio di una sana inclinazione alla riflessione metalinguistica e alla riflessione in generale: il dubbio è pertanto una pratica salutare (solo i cretini non hanno mai dubbi), critica e naturalmente propria dell’età adulta. Quindi vivano i suoi dubbi! Ha ragione anche quando dice che le grammatiche più che fare chiarezza fanno confusione, sulla questione dei verbi che creano un unico predicato insieme con gli infiniti che li accompagnano. Va però detto che simili ripartizioni della realtà (cioè le classificazioni presenti nei libri di grammatica) sono, per l’appunto, classificazioni, cioè frutto del punto di vista, del metodo, dell’idea e dell’ideologia di chi le pratica. Quindi raramente esistono classificazioni giuste e sbagliate, bensì classificazioni più o meno utili secondo lo scopo prefisso. Se lo scopo di classificare i verbi che costituiscono un unico aggregato con l’infinito è di natura prevalentemente semantica, allora possono andar bene (ma non del tutto, come spiegherò tra poco) sia le attuali classificazioni (in verbi servili e fraseologici ecc.) della grammatica tradizionale, sia quelle da lei proposte (di natura, però, esclusivamente semantica: desiderare è sinonimo di volere, quindi va classificato come volere, e simili considerazioni). Se invece, come preferisco io, l’obiettivo della classificazione è quello di spiegare la sintassi della frase, la funzione dei sintagmi e il funzionamento della lingua, allora debbo ammettere che tanto la classificazione tradizionale quanto quella da lei adombrata fanno acqua da tutte le parti, mentre la classificazione proposta dalla grammatica generativa (anche nella sua versione più semplificata) è decisamente più utile e convincente. E ora spiego perché, semplificando al massimo un discorso che è in realtà molto complesso e può essere studiato, tra le altre sedi, nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi e Cardinaletti, vol. 2, alle pp. 513-522.
Vi sono alcuni casi in cui il complesso verbo + infinito va analizzato come un unico predicato e altri casi in cui il suddetto complesso va analizzato come due frasi (o meglio proposizioni), cioè proposizione reggente + proposizione subordinata implicita. Che cosa consente di riconoscere le due categorie? Non certo motivi semantici, dato che vi sono verbi dal significato simile che appartengono a categorie diverse (come volere e desiderare, potere/provare a da un lato e osare dall’altro ecc.). Soltanto un elemento sintattico consente la distinzione, e precisamente la posizione del clitico, o particella pronominale atona. Tutte le volte che il clitico si trova davanti al verbo che regge l’infinito, allora siamo in presenza di un unico predicato (verbo + infinito). Viceversa, tutte le volte che il clitico (o l’oggetto in forma non pronominale) si trova dopo l’infinito, siamo in presenza della struttura bifrasale reggente + subordinata. Pertanto: «Riesco a incontrare Luca», «Riesco a incontrarlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo riesco a incontrare» è una struttura monofrasale. «Vado a vedere il film», «Vado a vederlo», «Posso vedere il film», «Posso vederlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo vado a vedere», «Lo posso vedere» sono monofrasali. «Penso di comprare il pane» può essere soltanto bifrasale, dato che è impossibile (o agrammaticale) dire «Lo penso di comprare». Tutti gli altri esempi da lei citati al punto 4 («divertirsi a giocare», «decidersi a parlare», «dimenticarsi di cenare») possono essere soltanto bifrasali, per i motivi già spiegati: naturalmente, lo si capisce con un verbo transitivo con oggetto espresso: «Dimentico di prendere la medicina» ma non «La dimentico di prendere». Tirando le somme, questa classificazione (bifrasale/monofrasale) serve, l’altra (verbi servili, fraeologici ecc.) non serve quasi a nulla e a nessuno. Se vogliamo conservarla, allora limitiamo l’etichetta di verbi servili a quei soli verbi che consentono la ristrutturazione, cioè la risalita del clitico che determina la trasformazione della struttura da bifrasale a monofrasale (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]). Chiamiamo fraseologici gli altri verbi, perlopiù a reggenza preposizionale, che consentono la stessa ristrutturazione, oltre ai cinque elencati: tentare di, riuscire a ecc. Oltre a quanto detto, dobbiamo ricordare che anche i verbi causativi e fattitivi (fare, lasciare + infinito) costituiscono strutture monofrasali: «Lo lascio fare», «Lo faccio fare» (sono impossibili «Lascio farlo» ecc.).
Se vogliamo invece fare una classificazione prevalentemente semantica, sarebbe meglio classificare i 5 verbi (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]) come modali, perché attribuiscono al verbo che reggono lo stesso valore di possibilità, volontà e simili espresso dal modo verbale: posso andare = andrei. Mentre chiamiamo alcuni degli altri aspettuali, perché indicano l’aspetto, cioè il modo in cui avviene l’azione: «Comincio a studiare» fotografa l’azione come incipiente, «Finisco di studiare» come terminale ecc.
Che cosa non funziona della corrente classificazione grammaticale, dell’analisi logica tradizionale e dell’analisi del periodo tradizionale? Il fatto che mette in un unico calderone oggetti diversi senza mai preoccuparsi di chiarire se li sta identificando per ragioni semantiche oppure per ragioni sintattiche. Col risultato che il parlante comune rimarrà per tutta la vita con i dubbi (più che legittimi) che ha lei. Quindi, da questo si deduce che lo studio della grammatica a scuola serve moltissimo e va rafforzato, ma anche rinnovato, alla luce delle acquisizioni della linguistica, tenendo conto di classificazioni utili, produttive e intelligenti come quelle che abbiamo qui sinteticamente cercato di illustrare. Mentre andrebbero via via abbandonate le altre classificazioni, che alla verifica dei fatti non servono a niente o sono addirittura dannose. Naturalmente la scuola evolve molto lentamente e dunque passerà ancora qualche decennio almeno, temo, prima che si verifichi un tale aggiornamento.
Sottolineo infine che tutto quello che ho appena detto a proposito della grammatica a scuola è stato detto, già decenni fa e molto più autorevolmente, da Tullio De Mauro, vale a dire uno dei più illustri linguisti del Novecento, il quale ha sempre invitato allo studio attivo della grammatica a scuola come strumento di linguistica democratica e di pensiero critico. È triste e gravissimo, invece, che proprio in questi giorni esponenti del mondo accademico e addirittura preposti all’aggiornamento dei programmai scolastici abbiamo attribuito proprio a Tullio De Mauro l’invito a liberarsi della grammatica. Un’accusa falsa e infamante, come può verificare facilmente chiunque abbia mai letto anche soltanto pochi righi dell’enorme e tuttora preziosissima produzione del compianto professor Tullio De Mauro.
Fabio Rossi
QUESITO:
I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:
«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?
«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?
«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?
RISPOSTA:
Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel libro «La piscina» scritto da Giacomo Papi, l’autore usa molto il condizionale. Mi ha fatto pensare a due esempi che mi pesano da un po’. Ho provato a trovare una spiegazione nel libro «Le facce del parlare» (che il prof. Rossi mi ha suggerito un paio di anni fa) senza successo.
a) Mia moglie non FAREBBE mai niente di male a nessuno della nostra famiglia.
b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile.”
DOMANDA 1
Nei due esempi (a) e (b) mi sembra simile la ragione per cui viene usato il condizionale. Per me nella frase a) l’uso del condizionale FAREBBE attenua la frase che è un’opinione personale o un giudizio/supposizione sulla moglie. Nell’esempio b) volevo seguire il modello di a), ma quando dico sarebbe molto difficile invece di potrebbe essere molto difficile, i miei amici italiani mi correggono.
Potrebbe spiegarmi qual è la differenza nell’uso del condizionale tra l’esempio a) e l’esempio b)? Come mai è necessario impiegare il servile potere nell’esempio b?
DOMANDA 2
Nel libro referito ho trovato due esempi con lo stesso verbo:
a) «Delle tue responsabilità per le morti dello zio Klaus e di Magnoni possiamo discutere, questo invece SI QUALIFICHEREBBE come un furto bell’e buono».
b) «Invece per la morte di Mario Spini questo video SI QUALIFICHEREBBE come istigazione al suicidio per lapidazione».
Come mai potere non è necessario (rispetto a sarebbe difficile)?
Tutte e due le frasi esprimono opinioni personali/supposizioni?
RISPOSTA:
La risposta è semplice: tutte le frasi proposte (con uso del condizionale potenziale) sono corrette e d’uso normale, in tutte l’uso del verbo potere è soltanto opzionale ma mai necessario (dato che esprime esso stesso possibilità) e i suoi amici sono ingenuamente e inutilmente prescrittivi. In particolare:
-
«Mia moglie non farebbe / potrebbe fare mai niente di male a nessuno della nostra famiglia».
-
«Potrebbe essere / sarebbe molto difficile».
-
«questo invece si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come un furto bell’e buono».
-
«questo video si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come istigazione al suicidio per lapidazione».
In tutti e quattro gli esempi, come al solito nell’uso del condizionale, la carica potenziale è analoga a quella dell’apodosi di un periodo ipotetico, per questo in tutte e quattro le frasi è come se ci fosse sottintesa una protasi:
-
Se se ne presentasse l’opportunità
-
Se lo studiassi
-
Se avvenisse
-
Se fosse girato il video.
Il motivo per cui la 2 sembra più naturale col verbo potere (ma ciò non giustifica l’inutile purismo dei suoi amici) è dovuto forse alla parziale complicazione posta dal verbo volere nella domanda, tanto che la protasi potrebbe mettere in dubbio la volontà piuttosto che la difficoltà del cinese.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?
RISPOSTA:
Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entro: entro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?
RISPOSTA:
L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffa, pavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guida, la guardia, la persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaio, architetto, il presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?
RISPOSTA:
Il verbo bisognare (e analoghi: è necessario, richiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.
Fabio Rossi