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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Una scelta la cui logica gli sfuggiva” è equivalente alla costruzione “una scelta della quale gli sfuggiva la logica”? Inoltre, la frase “Nei suoi occhi vidi una certa paura: quella di cui non immaginavo che lui potesse essere preda” è ben costruita?

 

RISPOSTA:

Le due varianti della prima frase sono equivalenti, sebbene la prima, che contiene il relativo cui preceduto dall’articolo determinativo, sia più formale. La seconda frase presenta una relativa embricata o a incastro, in cui l’antecedente del pronome relativo (quella) è un argomento della proposizione completiva dipendente dalla proposizione relativa. Tale costruzione è ben attestata in italiano fin dall’antichità e non può dirsi scorretta; è, però, certamente intricata, per cui può essere utile evitarla in contesti che richiedono la massima chiarezza, sostituendola con soluzioni giustapposte, come “Nei suoi occhi vidi una certa paura: non immaginavo che lui potesse essere preda di una paura di quel tipo” (che, però, risulta meno efficace, per via della ripetizione).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi che seguono, tratte dalla fiaba di Cappuccetto Rosso, è corretto l’uso del congiuntivo, dell’indicativo o di entrambe le forme? le proposizioni sono interrogative indirette?

1. Il lupo le chiese cosa stesse facendo.

2. Il lupo le chiese cosa stava facendo.

 

RISPOSTA:

La proposizione cosa stava / stesse facendo è una interrogativa indiretta, che rientra nel gruppo delle completive (insieme alle oggettive, le soggettive e le dichiarative). In queste proposizioni è quasi sempre possibile usare sia il congiuntivo, sia l’indicativo, senza che il significato della frase cambi. La differenza tra i due modi in questi casi è diafasica, cioè legata al registro: il congiuntivo è più formale; l’indicativo è proprio di un registro medio.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere quale delle tre soluzioni proposte è la più corretta: “Se io pensassi che tu fossi (sia o sei) incompetente, non ti affiderei questo compito”.

 

RISPOSTA:

Nella frase, la proposizione reggente ha il congiuntivo imperfetto perché è vincolata dalla semantica del periodo ipotetico; il momento di riferimento, invece, deve essere considerato presente. La consecutio temporum richiede che la contemporaneità nel presente si esprima con il presente (indicativo o congiuntivo a seconda di ragioni stilistiche e sintattiche): nella subordinata oggettiva, quindi, si possono usare sia (più formale) e sei (meno formale). Il congiuntivo imperfetto fossi, per quanto grammaticalmente ingiustificato, può essere comunque considerato un errore veniale, vista la forte attrazione esercitata da pensasse della reggente.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Invito un amico ad una festa per l’indomani. Mi risponde che non può partecipare. Al che gli dico:
1 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi venuto.
(Ma non è giusto, così sembra che la festa sia già passata, mentre avrà luogo in futuro).
2 – Mi sarebbe piaciuto se tu potessi venire.
(Neanche qui è giusto. L’amico ha già detto che non verrà).
3 – Mi sarebbe piaciuto se tu saresti venuto.
(Credo che sia totalmente sbagliata).
4 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi potuto venire.
(Qui ho dei dubbi: perchè in effetti la festa non ha avuto ancora luogo).
Naturalmente, nel linguaggio informale potremmo dire
5 – Mi sarebbe piaciuto se potevi venire.
(Ma mi sembra una forma un po’ sciatta).

 

RISPOSTA:

La variante 1 è legittima: che la festa non sia avvenuta è ininfluente; quello che conta è che l’amico ha già dichiarato che non parteciperà, quindi la sua mancanza deve essere rappresentata come avvenuta. Proprio per questa ragione è impossibile se tu potessi venire (come anche se tu venissi, non presente tra le alternative): c’è una incoerenza interna in questa frase tra mi sarebbe piaciuto, che presenta lo stato d’animo come condizionato da un evento irrealizzabile, e la protasi con il congiuntivo imperfetto, che presenta l’ipotesi come possibile. L’alternativa “Mi piacerebbe se tu venissi” (o potessi venire), del resto, risulterebbe incoerente con il contesto, visto che, come si è detto, la partecipazione è stata già esclusa. La 3 è impossibile, perché la proposizione ipotetica non ammette il modo condizionale. La 4 è equivalente alla 1, con la sola aggiunta del verbo servile, che non modifica la costruzione generale della frase. La 5 è la variante informale della 4.
Aggiungo anche un’ulteriore variante: “Mi sarebbe piaciuto che tu venissi (o potessi venire)”. Con la sostituzione di_se_ con che la proposizione subordinata diviene soggettiva; al suo interno il congiuntivo imperfetto non indica l’ipotesi possibile ma la contemporaneità nel passato con proiezione nella posteriorità rispetto alla reggente. In questo modo la reggente esprimerebbe ancora il dispiacere condizionato da un evento non realizzabile (la partecipazione dell’amico alla festa), ma tale evento sarebbe lasciato implicito, mentre la subordinata descriverebbe semplicemente l’argomento del dispiacere. Possibile sarebbe anche “Mi sarebbe piaciuto che tu fossi venuto (o fossi potuto venire)”, che rappresenterebbe il venire come precedente al dispiacere, sottolineando il rapporto di causa-effetto tra i due eventi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si scrive “Non so chi tu sia”, “Non so tu chi sia” o “Non so chi sia tu”? la prima sembra l’opzione più comune.

 

RISPOSTA:

La forma più naturale della frase è la prima, con la proposizione principale, non so, che regge una subordinata interrogativa indiretta al congiuntivo introdotta da un pronome interrogativo, chi tu sia. La seconda versione si spiega con l’intento del parlante di tematizzare il soggetto, cioè sottolineare, anticipandolo, che esso rappresenta l’informazione sulla quale verte il contenuto del pezzo di frase seguente. Con questo movimento, si noti, si crea una forzatura sintattica, perché il soggetto della subordinata viene a trovarsi all’interno della reggente (non so tu | chi sia) oppure la subordinata è costruita in modo anomalo (tu chi sia). Per questa ragione questa versione è adatta al parlato ma non allo scritto.
Anche la terza versione è il risultato di un intento pragmatico, come la seconda: in questo caso il soggetto della proposizione subordinata è focalizzato attraverso lo spostamento a destra. Tale sfumatura pragmatica, che nel parlato è accompagnata da un innalzamento del tono della voce, lascia intendere che ci sia un confronto con un altro soggetto. Per la verità, questa formulazione sembra più teorica che concreta: non è facile immaginare un contesto in cui potrebbe essere effettivamente usata; se ne può immaginare una variante inserita in una conversazione del genere:

  • Non so più chi sei.
  • No, io non so chi sia tu.

Lo spostamento a destra del soggetto non produce forzature sintattiche: la frase così formata è, quindi, comunque più adatta al parlato che allo scritto (in quanto marcata), ma nello scritto non determina un abbassamento stilistico.
Fabio Ruggiano

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Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.

2. (…) la seguente questione pregiudiziale:

se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:

  1. l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
  2. l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.

 

Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …

Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:

“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.

Nel secondo caso avremo:

“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.

Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho delle incertezze circa l’uso del termine struttura. Questo termine può essere usato in modo generico per definire qualunque cosa anche semplice, cioè non formata da più parti macroscopiche interagenti fra di loro (es. un sasso o un oggetto non definibile ma comunque non articolato) oppure deve essere usato esclusivamente per definire un oggetto complesso (es. un televisore, un computer)?

 

RISPOSTA:

La risposta alla sua domanda non è semplice, come tutte le questioni relative alla semantica, perché i significati delle parole sono in continua rinegoziazione negli usi dei parlanti, con sfumature ora metaforiche, ora metonimiche, ora ironiche ecc. Sarebbe meglio limitare struttura a oggetti (più o meno concreti) costituiti dall’interrelazione tra più elementi. La struttura, come un edificio, implica che tutti gli elementi coinvolti siano necessari gli uni agli altri e anche l’alternazione di uno solo di essi compromette l’insieme, cioè la struttura stessa. Per la minuta casistica e l’esemplificazione rimando al Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro, consultabile gratuitamente nel sito di internazionale.it. In linea di massima, a meno che non ci si riferisca proprio all’interrelazione e all’intelaiatura di qualcosa (la struttura di un discorso, di un edificio, di un’azienda, della mente, della lingua, di uno stato, dell’economia ecc.) sarebbe meglio non abusare di un simile termine, troppo spesso (nei media) usato per imbellettare il discorso economico, burocratico o politico. Chiaramente anche un sasso è formato di elementi (cellule, atomi ecc.), pertanto nulla vieterebbe, in ambito scientifico, di definirlo una struttura, ma eviterei di farlo nel discorso comune. Così come, fuor dall’ambito tecnico-scientifico, potrei pure riferirmi alla struttura di un televisore o di un computer, ma mai e poi definirei un computer o un televisore come una struttura.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome, Registri, Retorica
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QUESITO:

Gradirei sapere se l’affermazione «non vorrei apparire tautologica ma le ripeto che eccetera» è corretta o meno. Mi viene il sospetto che l’aggettivo tautologico non possa essere applicato ad una persona; d’altro canto mi sembra piuttosto arzigogolato ricorre ad affermazioni del tipo

«non vorrei usare una affermazione tautologica o esprimermi in modo tautologico eccetera» per veicolare lo stesso concetto.

 

RISPOSTA:

Secondo i dizionari e gli usi correnti tautologico può essere riferito a concetti, espressioni, ragionamenti e simili, non a una persona. Però la lingua funziona anche grazie a questi piccoli slittamenti semantici (metafore, metonimie), per cui, nell’uso meno formale, non mi parrebbe un errore così grave riferire tautologico a una persona che fa uso di tautologie.

Forse, per maggior precisione, in riferimento a una persona si potrebbero utilizzare termini non proprio sinonimi ma contigui alla sfera semantica della tautologica. Per esempio: Non vorrei apparire pleonastica, ridondante, puntigliosa, ripetitiva, didascalica…

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Registri, Retorica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1) Sara, tu sei vicina allo stadio

2) Sara, tu stai vicino allo stadio

3) Noi siamo lontani da te

4) Noi stiamo lontano da te

5) Ti sono vicina, credimi!

6) Ti sto vicino in teatro

…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…

 

RISPOSTA:

Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) Credo che tizio sappia che caio è un ragazzo simpatico.
2) Immagino che tizio pensi che caio sia intelligente.
3) Ritengo che tizio creda che caio sia bugiardo”
4) Ritenevo che tizio credesse che caio fosse bugiardo”

Vorrei sapere se l’analisi logica delle frasi seguenti è corretta. Nella prima credo è la principale; che tizio sappia è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio è (e non *sia) un ragazzo simpatico è una subordinata oggettiva di secondo grado all’indicativo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo dichiarativo, che ammette l’indicativo. Nella seconda immagino è la principale; che tizio pensi è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di opinione, giudizio, conoscenza, pensiero ed opinione; che caio sia (e non *è) intelligente è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Nella terza ritengo è la principale; che tizio creda è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio sia bugiardo è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo presente, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Sempre nella terza frase stiamo esprimendo contemporaneità al presente. Nella quarta frase il discorso è il medesimo, ma al passato, con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto perché stiamo esprimendo contemporaneità al passato.

 

RISPOSTA:

L’analisi del periodo (non è analisi logica, che, invece, riguarda la sola frase semplice) da lei proposta è corretta. Si possono aggiungere due particolari: quando sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo, il secondo è l’opzione più formale; un tempo verbale instaura un certo rapporto temporale con il tempo del verbo della proposizione reggente. Nella terza frase, quindi, creda è contemporaneo rispetto a ritengo e sia lo è rispetto a creda; allo stesso modo, nella quarta credesse è contemporaneo nel passato rispetto a ritenevo e fosse è contemporaneo rispetto a credesse.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

È preferibile dire: “Nel periodo ellenistico sorsero città importanti di cultura greca fuori dalla Grecia”, oppure “fuori della Grecia”?

Fuori è costruito preferenzialmente con da quando la preposizione è articolata (come nel suo caso); nei pochi casi in cui la preposizione non è articolata (quindi in espressioni cristallizzate), invece, è preferita difuori di casafuor( i ) di dubbiofuori di testafuori di séfuori d’ItaliaFuori seguito da di articolata è possibile, ma si tratta di una variante ricercata da limitare a contesti molto formali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1) “Ci sono due ampi armadi vetrati, dietro ai quali / dietro a cui si trovano due ripiani ideali per i piatti”.
2) “Sono dei componenti intorno ai quali / a cui è possibile costruire molti tipi diversi di servizi digitali”.
Quali sono le forme più corrette? Immagino che siano intercambiabili. In più, per quanto riguarda la forma a cui, la a può essere omessa (dietro cui e intorno cui)? E in aggiunta, la forma cui è invariabile e vale, dunque, per il maschile e il femminile, sia al singolare sia al plurale (come negli esempi)?

 

RISPOSTA:

Dietro ai qualidietro a cui e dietro cui sono equivalenti; tra le tre varianti vige un rapporto diafasico: la prima è adatta a tutti i contesti, la seconda è più formale, la terza è raffinata. Lo stesso vale per intorno, con la precisazione che intorno cui, per quanto in astratto corretta, è talmente rara da risultare peregrina. Cui è invariabile, come che.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.

 

RISPOSTA:

La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vi sottopongo un dubbio sorto sull’uso del congiuntivo in una frase presa da un articolo di giornale:
“Non dobbiamo più dire che gli uomini debbano comportarsi come uomini”.
Chiedo se sia o no obbligatorio l’uso dell’indicativo (per la tipologia di verbi nella reggente) oppure se l’uso del congiuntivo sia giustificato da una scelta che vuole marcare una sorta di incertezza all’intera frase.

 

RISPOSTA:

L’indicativo è una scelta sistematica (sebbene non ci sia una regola che la renda obbligatoria) nelle oggettive dipendenti dal verbo dire quando quest’ultimo è affermativo (per esempio: “Dobbiamo dire che gli uomini devono comportarsi…”). Quando, invece, il verbo dire è negato, il congiuntivo nell’oggettiva diviene possibile, come nel suo esempio. Come sempre avviene quando è possibile l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, quest’ultimo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un articolo online della Zanichelli dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro», ho notato che sono state riportate indifferentemente queste 2 frasi come corrette dall’autore dell’articolo: A) Mario e Luca si aiutano l’un l’altro; B) Mario e Luca si aiutano l’uno con l’altro.

Ora, la mia domanda è: qual è la regola grammaticale che stabilisce che tra “l’uno” e “l’altro” va bene il “con” quando c’è il verbo transitivo “aiutare” nella frase? È forse un’eccezione grammaticale? Oppure viene usato il “con” come rafforzativo?

Insomma, è la stessa cosa se dicessi “Marco e Luca si sopportano l’un l’altro” oppure “Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro”?

Devo ammettere che le due frasi della Zanichelli mi hanno mandato un po’ in confusione. Potete aiutarmi? Grazie.

P.S. Anche in un articolo dell’Accademia della Crusca dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro» ho notato che viene usato il “con” tra “l’uno” e “l’altro” quando c’è il verbo transitivo “aiutare”. Infatti, più o meno, alla fine dell’articolo vi è la seguente frase: “Marco e Giuseppe si aiutano l’uno con l’altro”.

 

RISPOSTA:

Se andiamo a guardare la norma (intesa come convenzione sociale) della lingua e anche il funzionamento grammaticale dei costrutti, senza dubbio l’unica forma pienamente corretta è «Mario e Luca si aiutano l’un l’altro», poiché il verbo aiutare è transitivo. Tuttavia, dal momento che la lingua dell’uso non risponde soltanto a logiche grammaticali e a norme sociali, ma prende anche altre pieghe, sia nel parlato sia nello scritto, in effetti esempi come «aiutarsi gli uni con gli altri» e simili sono comunissime. E, dato che ogni uso (se non idiosincratico) ha sempre una sua spiegazione, cioè una sua regola, più che sanzionare siamo interessati a capire e a trovare queste regole. È probabile che nel caso specifico abbiamo agito due forze, a favore dell’uso di con. La prima è l’interferenza del verbo pronominale aiutarsi, che ha un significato e una costruzione differenti da aiutare: «aiutarsi con le mani», «aiutarsi con qualche farmaco» ecc. L’altra forza è data dal senso del verbo aiutare (e aiutarsi), che fa leva cioè sulla collaborazione, sullo stare insieme, cioè “con” qualcuno: ecco che scatta dunque la funzione del “con” in «aiutarsi gli uni con gli altri», che non è da considerarsi un rafforzativo, né un’eccezione, ma proprio un uso alternativo (senza dubbio ancora avvertito come meno formale, in quanto non tradizionale: esiste comunque fin dal ’300, se ne legge un esempio in Villani nel Battaglia) rispetto a «aiutarsi gli uni gli altri». Lo stesso vale per «Marco e Luca si sopportano l’un l’altro» oppure «Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro». Non c’è dubbio che la costruzione più formale (in linea con la tradizione) sia la prima; tuttavia la seconda, sebbene meno frequente (si ricerchino le occorrenze in Google), è comunque ben attestata in italiano e come tale non può essere respinta né come errata né come eccezionale. Anche qui, ha senza dubbio agito il senso del verbo sopportare: sopportare, così come aiutare, è un’azione che si fa in (almeno) due persone, addirittura reciproca, negli esempi citati, ovvero è qualcosa che si fa “con” qualcuno, nei confronti di qualcuno.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«La maggior parte del tempo la/lo passa in quel paese». Volevo chiedere se l’accordo del pronome si fa al maschile, e quindi “lo” accordato con “del tempo” o al femminile, e quindi “la” accordato con “La maggior parte”. Io penso, ditemi se sbaglio, che in questi casi si possa parlare di “concordanza grammaticale” (valida, in generale, immagino non solo per il singolare/plurale, ma anche per il maschile/femminile) se l’accordo di “la” fosse con “La maggior parte”; e di “concordanza a senso” se l’accordo di “lo” fosse con “del tempo”.

 

RISPOSTA:

Sì, la sua risposta è corretta. Aggiungerei che la concordanza a senso, pur comune nel parlato quanto al numero («la maggioranza delle persone pensano», comunque da evitare nello scritto), è da evitare sempre nel genere. E dunque un esempio come «La maggior parte del tempo lo passa in quel paese» susciterebbe una reazione negativa anche nella gran parte degli ascoltatori.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.

 

RISPOSTA:

Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del padre» oppure «di suo padre». Vorrei sapere quale delle due opzioni è consigliata e se, tra esse, ve ne sia una errata.

 

RISPOSTA:

Le due opzioni sono entrambe corrette. Sebbene si debba spesso evitare l’uso pleonastico dei possessivi, talora indotto da calco dall’inglese per influenza del doppiaggio («devo lavare le mie mani» è decisamente da evitare rispetto a «devo lavarmi le mani»), in certi contesti può essere utile il possessivo per evitare ambiguità. Pertanto, se nel caso specifico può esservi il dubbio che «la stessa malinconia del padre» venga riferito a un altro padre, piuttosto che a quello della ragazza, è allora meglio essere precisi scrivendo: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia di suo padre». In realtà, anche in quest’ultimo caso potrebbe sussistere l’ambiguità sul padre di qualcun altro, ambiguità che soltanto l’uso di «proprio» (riferito alla ragazza) potrebbe evitare: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del proprio padre», che però sarebbe davvero pesante, e dunque da evitare, anche a costo di una piccola ambiguità sicuramente poi sanabile nel resto della narrazione.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».

I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?

 

RISPOSTA:

Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».

Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».

 

RISPOSTA:

«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: , infatti, significa ‘e non’.

Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché , come già detto, significa già ‘e non’.

Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è preferibile?

«Non credete a quello che raccontano».

«Non crediate a quello che raccontano».

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono pressoché equivalenti (ma la seconda risulta quasi troppo letteraria, come vedremo), dal momento che sia il congiuntivo esortativo, sia l’imperativo servono per esprimere un ordine, un’esortazione e simili. Il congiuntivo esortativo supplisce l’imperativo nei casi di allocuzione di cortesia, cioè quando si dà del Lei a qualcuno che si vuole esortare, dal momento che l’imperativo ha due sole persone (la seconda singolare e la seconda plurale), mentre il congiuntivo ha anche la terza, necessaria per il Lei. Quanto appena detto vale anche per l’imperativo negativo, costruito con non + l’infinito per la seconda persona singolare, con non + l’imperativo affermativo per la seconda persona plurale. Dato che nella frase in questione, alla seconda persona singolare, non c’è alcun bisogno di sostituire l’imperativo con il congiuntivo esortativo, la scelta dell’imperativo («Non credete») è la più normale e consigliata in tutti i contesti, mentre quella al congiuntivo, comunque possibile e corretta, come già detto, risulta quasi ipercorretta, nella sua formalità (come se chi la usa temesse d’esser tacciato, ingiustamente, di non conoscere il congiuntivo).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei conoscere qual è la forma corretta: “Dite loro che volete loro bene” o “Dite loro che gli volete bene”?

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette: gli è ormai pienamente accettato nella funzione di pronome complemento indiretto di terza persona plurale (quindi si potrebbe anche dire “Ditegli che gli volete bene”. Il pronome loro è ancora percepito come più formale, ma in questa frase conviene non ripeterlo a così breve distanza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale delle due seguenti frasi è preferibile:
1. “Vorrei sapere se sarebbe possibile ricevere quanto prima questo documento”.
2. “Vorrei sapere se fosse possibile ricevere quanto prima questo documento”.
Credo che la prima frase sia preferibile; ma la seconda è sbagliata ?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono possibili, anche se nessuna delle due è davvero preferibile. La proposizione interrogativa indiretta retta da vorrei sapere può essere costruita con il condizionale, il congiuntivo e l’indicativo (sarebbe possibile anche “Vorrei sapere se è possibile…”). Il condizionale non è davvero necessario, visto che la richiesta è resa già cortese dal condizionale nella reggente; il congiuntivo imperfetto, a sua volta, non è una scelta ideale, perché nella consecutio temporum l’essere possibile è contemporaneo nel presente rispetto al sapere, quindi il tempo davvero richiesto è il presente: “Vorrei sapere se sia possibile ricevere…”. Il congiuntivo imperfetto, in astratto scorretto, diviene accettabile (ma comunque non preferibile) perché è motivato dal modello soggiacente vorrei che fosse (sul quale può trovare un approfondimento qui).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Il padre di Marco, da giovane, era molto bello, e anche la sua fidanzata di allora era tale”.
Tale = ‘era molto bella’ e sostituisce quindi una forma declinata al maschile. L’utilizzo, in questo caso, è comunque corretto, o si sarebbe dovuto impiegare una costruzione diversa che escludesse al suo interno tale?

 

RISPOSTA:

In astratto il rimando anaforico presenta una forzatura dell’accordo, ma l’aggettivo dimostrativo tale è abbastanza generico da tollerare bene una discrepanza di genere rispetto al sintagma ripreso. Lo stesso succederebbe con il pronome lo (… anche la sua fidanzata di allora lo era). Vista la forzatura grammaticale, comunque, bisogna considerare una soluzione di questo genere non adatta a testi molto formali. Un’alternativa del tutto corretta (ma per forza di cose un po’ ridondante) sarebbe … e la sua fidanzata di allora era, a sua volta, molto bella.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?

 

RISPOSTA:

La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?

 

RISPOSTA:

La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?

 

RISPOSTA:

In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto il seguente periodo: “Sfido chiunque adesso mi sta leggendo e leggerà questi racconti, a non desiderare una simile avventura”. Non dovrebbe essere chiunque adesso mi stia leggendo…Chiunque regge sia il congiuntivo che l’indicativo, ma in questo caso è pronome sia indefinito che relativo (= ‘qualunque persona che’).

 

RISPOSTA:

Il pronome relativo indefinito chiunque richiede effettivamente il congiuntivo; la scelta dell’indicativo è molto trascurata. Immagino che sia stata influenzata dall’indicativo futuro leggerà subito successivo, che è l’unica forma possibile per esprimere il futuro in questa frase, per cui è accettabile anche nello scritto di media formalità (l’alternativa con il congiuntivo non potrebbe assolutamente veicolare l’idea del futuro, a meno che non venga aggiunto un avverbio di tempo: chiunque adesso mi stia leggendo e legga in futuro questi racconti).
La frase presenta un’altra scelta infelice: la virgola tra la reggente (Sfido) e la completiva oggettiva (a non desiderare…). Le completive, escluse le dichiarative, non devono essere separate dalla reggente con alcun segno di punteggiatura (tranne che non ci sia in mezzo un’incidentale), allo stesso modo in cui, nella frase semplice, il verbo non deve essere separato dal complemento oggetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.

Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?

 

RISPOSTA:

Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.

1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».

2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).

 

RISPOSTA:

No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».

Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.

 

RISPOSTA:

Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccoglieresi deve raccoglierloun gesto simile lo si vede fareun gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche civilalile) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarrese lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.

 

RISPOSTA:

La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?

 

RISPOSTA:

In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:

“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,

– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)

– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”

– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.

 

RISPOSTA:

Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.

Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.

Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.

Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In vita ho sempre detto indistintamente:

  1. A) Lunedì prossimo.
  2. B) Il lunedì prossimo.
  3. C) Il prossimo lunedì.

Mentre ho sempre visto come errore:

  1. D) Prossimo lunedì.

Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.

Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).

L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.

Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio, Nome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

  1. A) Gli ho assicurato/accertato che non era così.

(complemento di termine + completiva oggettiva diretta esplicita)

  1. B) Gli ho assicurato/accertato la buona riuscita del progetto.

(Complemento di termine + complemento oggetto)

  1. C) Li ho assicurati/accertati che non era così.

(complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)

  1. D) Li ho assicurati/accertati della mia innocenza.

(complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])

Sul web mi sono imbattuto su discussioni che riguardavano i due verbi in questione.

Ho letto di gente che dava come corrette solo le costruzioni con complemento di termine, ritenendo scorrette frasi come C e D, visto che si andava in contro ad un paradosso, cioè due complementi oggetti connessi fra loro, paradosso che, a pensarci bene, potrebbe riguardare anche un verbo come “informare”, visto che quest’ultimo ammetterebbe costruzioni come in C e D, col quale però certe costruzioni sono del tutto normalizzate e idiomatiche.

Io penso che le costruzioni di C e D siano corrette, solo poco comuni, anche perché queste ultime sono altrettanto corrette nella loro forma riflessiva:

  1. E) Mi assicuro/accerto che tutto vada secondo i piani.

(Complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)

  1. F) Mi assicuro/accerto della tua innocenza.

(Complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])

Detto questo, mi interessava sapere cosa ne pensasse un esperto in materia, un linguista, in modo che potessi avere le idee più chiare.

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei: la presenza del complemento oggetto nella reggente non impedisce affatto la presenza di una completiva dipendente dal medesimo verbo che regge il complemento oggetto: “ho rassicurato i miei genitori che sarei tornato presto”. La subordinate completive, pur comportandosi similmente a un oggetto (o a un soggetto) non possono essere considerate del tutto equivalenti a un complemento oggetto, come dimostrano le completive indirette, le quali, se trasformate in sintagma, richiederebbero una preposizione anziché un complemento diretto: “li ho rassicurati che verrò” > “li ho rassicurati della (o sulla) mia venuta; “informo Luca che arriverai” > “informo Luca del tuo arrivo”.

Quello che non va, in alcune delle frasi da lei citate a esempio, è il complemento; infatti non tutti i verbi ammettono il complemento oggetto o il complemento di termine della persona nel modo da lei (o dalle sue fonti) espresso, e questo indipendentemente dal fatto che vi sia anche una completiva o no. In particolare: “accertare qualcuno” (e non “a qualcuno”); “assicurare qualcuno” (oppure “rassicurare qualcuno”), non “a qualcuno”. Assicurare e accertare, insomma, non possono reggere il complemento di termine della persona che si assicura/accerta, ma soltanto il complemento oggetto (nelle accezioni qui commentate). Inoltre, “accertare qualcuno” appartiene comunque a un registro elevato e raro (“di basso uso” lo definisce il Gradit di De Mauro) che sarebbe meglio evitare, tant’è vero che l’italiano comune usa accertare soltanto in riferimento a fatti, non a persone: “accertare la morte”, “una notizia” e simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.

 

RISPOSTA:

In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

I prefissi come super-arci-iper-ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?

 

RISPOSTA:

Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutinomensilearchitettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendofantasticomeraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimosupermeravigliosoiperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimofantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro

 

RISPOSTA:

Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

A) Se ci fosse un libro che mi intrattenesse, lo comprerei.
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe, lo comprerei.
C) Se ci fossero delle persone che mi aiutassero, sarei loro riconoscente a vita.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero, sarei loro riconoscente a vita.

Le frasi col congiuntivo (A e C) mi sembrano senza dubbio corrette.
Il mio dubbio riguarda le frasi B e D, cioè quelle al condizionale.
Secondo me, però, potrebbero avere una loro correttezza grammaticale, immaginando che quel condizionale abbia una protasi implicita:
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe (se lo leggessi), lo comprerei.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero (se mi trovassi in difficoltà), sarei loro riconoscente a vita.

 

RISPOSTA:

Le frasi B e D sono effettivamente scorrette: il condizionale, infatti, non si giustifica in nessun modo, mentre il congiuntivo delle frasi A e C è attratto dal congiuntivo delle proposizioni reggenti. Anche in presenza di protasi al congiuntivo imperfetto, le proposizioni relative, che sarebbero le apodosi di questi (arzigogolati) periodi ipotetici, sarebbero costruite comunque al congiuntivo. Possibile, invece, l’indicativo, che abbassa leggermente la formalità delle frasi: Se ci fosse un libro che mi intrattieneSe ci fossero delle persone che mi aiutano.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?

 

RISPOSTA:

L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesseavrebbe volutovoleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.

  • Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;

  • L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?

 

RISPOSTA:

Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio quesito è duplice. Mi farebbe piacere sapere se nella frase “Non feci in tempo a scansarmi che l’uomo in bicicletta mi travolse” ci troviamo di fronte a un caso di che polivalente. Io lo percepisco come tale e mi sentirei di segnalarlo e correggerlo in un tema. Non trovo però una forma valida con cui sostituirlo senza intervenire su tutta la struttura della frase, ad esempio “L’uomo in bicicletta mi travolse senza che potessi fare in tempo a scansarmi”. Più in generale mi chiedo spesso se i tratti di italiano neo-standard vadano corretti o accettati in ambito scolastico.

 

RISPOSTA:

In frasi come la sua il connettivo che è usato con una funzione esplicativo-consecutiva, che rientra tra quelle raggruppate sotto l’etichetta di che polivalente. La stessa funzione può essere ravvisata in frasi come “Tu esercitati, che prima o poi avrai successo”, o “Vieni che ti spiego tutto”. Quest’uso è certamente tipico del parlato di formalità medio-bassa (come suggerisce il senso stesso delle frasi esempio); la sua accettabilità nello scritto di media formalità, invece, oscilla in relazione alla sensibilità dei parlanti e alla costruzione dell’intera frase. Nella sua frase, per esempio, l’uso ha un’accettabilità più alta che negli esempi fatti da me, perché non fare in tempo che è un costrutto quasi cristallizzato (un costrutto pienamente cristallizzato di questo tipo è fare in modo che). Per la verità, un’alternativa del tutto standard (e per questo meno espressiva) alla costruzione che non richieda lo stravolgimento della frase esiste: “Non feci in tempo a scansarmi: l’uomo in bicicletta mi travolse”. La variante sintattica, si noti, rivela che il che polivalente è spesso un “riempitivo” coesivo per un collegamento logico che altrimenti rimarrebbe implicito; anche nei miei esempi, infatti, il che si può semplicemente eliminare (con l’effetto secondario di elevare il registro).
Anche per altri tratti del neostandard l’accettabilità dipende oltre che, ovviamente, dal contesto, dalla sensibilità dei parlanti e dalla costruzione dell’intera frase. Per esempio, una dislocazione a sinistra come “Questo argomento lo tratteremo la prossima volta” è più accettabile di “Di questo argomento ne parleremo la prossima volta”, perché anche se in entrambe le frasi la tematizzazione del costituente rafforza il collegamento con la frase precedente, nella seconda la ripresa pronominale non è necessaria.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta: “Sarà difficile che ti ricorderai di me” oppure “sarà difficile che ti ricordi di me”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Un evento futuro espresso con una proposizione completiva dipendente da una reggente al futuro o al presente può essere descritto con il congiuntivo presente (qui ricordi) o con l’indicativo futuro (qui ricorderai). Il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più adatta al parlato e allo scritto medio-basso. Per un approfondimento della questione si veda questa risposta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.

 

RISPOSTA:

In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Espressioni come ne consegue ne deriva , o anche se ne desume, reggono il congiuntivo? Oppure l’Indicativo? O entrambi? In genere, quando scrivo preferisco, a livello di suono, il congiuntivo, non credo però ci sia una forma necessaria. Quale potrebbe essere più corretta?

 

RISPOSTA:

Queste espressioni impersonali reggono una proposizione soggettiva, che può essere costruita con l’indicativo o il congiuntivo. Il modo scelto non modifica il significato della frase, ma influisce sul registro: il congiuntivo è più formale e più adatto allo scritto medio-alto; l’indicativo è meno formale, quindi più adatto al parlato e allo scritto trascurato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.

 

RISPOSTA:

L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentaremostrareessere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice «ha constatato che il sig. X fosse presente» o «ha constatato che il sig. X era presente»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: quella al congiuntivo è più formale, ma quella all’indicativo è più comune. Nelle subordinate completive l’indicativo e il congiuntivo sono intercambiabili, sebbene con gradi di accettabilità differenti a seconda del verbo reggente e anche del fatto che vi sia o no la negazione, oltre che in base al grado di formalità. Con la negazione, per esempio, il congiuntivo è sempre preferibile: «Non ha constatato se X fosse presente». Con la negazione, tra l’altro, la completiva non è un’oggettiva, bensì una interrogativa indiretta, introdotta da se. Nelle frasi affermative, vi sono verbi che ammettono, e quasi prediligono, l’indicativo, quali constatare, appurare, dire, vedere, sentire (una frase come «sento che Luca sia affannato», ancorché non erronea, è al limite dell’inaccettabile, in un italiano comune); e verbi che invece preferiscono il congiuntivo (la maggior parte: volere, temere, credere, pensare, ritenere, dubitare, sognare…). In linea di massima, i verbi che esprimono una percezione diretta della realtà prediligono l’indicativo (tranne che con la negazione), mentre i verbi che esprimono un’ipotesi, un timore, una volontà e simili prediligono il congiuntivo. Oltre che dal grado di formalità, la presenza dell’indicativo o del congiuntivo nelle subordinate, dunque, non dipendono tanto dal grado di certezza (come erroneamente spesso si dice), quanto dalla percezione più o meno diretta. Se dipendesse dalla certezza, allora frasi come le seguenti sarebbero impossibili: «credo fermamente che Dio esista»; «ho sognato che volevi uccidermi», mentre invece sarebbero poco naturali «credo fermamente che Dio esiste» e «ho sognato che volessi uccidermi». Questo perché sognare si riferisce comunque al frutto di una percezione diretta, mentre il verbo credere (così come avere fede), pur non mettendo in dubbio il frutto di quanto viene creduto, lo esprime comunque con un verbo che indica una elaborazione del pensiero (come pensare).  

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».

Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.

La frase, parafrasata, sarebbe questa:

«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».

Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nel linguaggio, spesso frettoloso e trascurato, della messaggistica, ho ravvisato esempi del genere:

1) Visto due film, stasera: spettacolari.

2) Fatto. Comprato pane e marmellate.

Si tratta evidentemente di due casi in cui si è scelto di omettere l’ausiliare coniugato.

(Ho) visto due film. (Ho) comprato pane e marmellate.

Innanzitutto, vi domando se le costruzioni così presentate sono corrette.

Se si volesse unire l’economicità della comunicazione, che sembra essere fondamentale in questo contesto, con il rispetto della sintassi, si potrebbe optare, secondo voi, per il compromesso di flettere il participio passato secondo il genere e il numero?

Dal punto di vista della brevità (e dell’immediatezza) non ci sarebbero differenze.

3) Visti due film, stasera: spettacolari.

4) Fatto. Comprati pane e marmellate.

 

RISPOSTA:

Entrambe le costruzioni (visto/visti, fatto/fatti) sono corrette, ma non v’è dubbio sulla maggiore formalità della seconda, che dunque è da preferire. Infatti, mentre nel primo caso («visto due film», «comprato pane e marmellate») l’unico modo per giustificare la presenza del participio passato è quello di ricorrere all’ellissi dell’ausiliare, col risultato di ottenere una frase telegrafica e, in quanto tale, traballante, assolutamente da evitare nello stile anche di media formalità, nel secondo caso, invece, il participio passato al plurale, e cioè accordato col soggetto di una frase passiva («sono stati visti due film», «sono stati comprati pane e marmellate»), è perfettamente standard e adatto a qualunque contesto, interpretabile come costrutto implicito, senza bisogno di invocare l’ellissi dell’ausiliare. Tant’è vero che le stesse proposizioni potrebbero trovarsi come subordinate implicite: «visti due film, sono poi andato a letto»; «comprati pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione». La stessa possibilità è negata al participio singolare maschile, che in questo caso sarebbe agrammaticale: *«visto due film, sono poi andato a letto»; *«comprato pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione»

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho un dubbio su questa frase: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e app».

È corretto indicare «altri» al maschile anche se app è al femminile? Oppure è meglio dire: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e le altre app»? Qual è la regola grammaticale al riguardo?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda è più formale. L’italiano prevede il maschile sovraesteso in caso di due o più elementi di genere diverso. Certamente, però, la forma «gli altri servizi e le altre app» è preferibile, soprattutto perché, nel caso di due soli elementi, non allunga troppo il testo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».

La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.

La costruzione è corretta?

 

RISPOSTA:

No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È possibile dire «Vorrei che faccia» invece che «Vorrei che tu facessi»? È corretto pensare che il congiuntivo presente dia al mio desiderio una sfumatura di maggiore cogenza, un senso imperioso? Normalmente, da quello che trovo anche nelle grammatiche, si usa il congiuntivo imperfetto nella subordinata, poiché l’evento è dato come realizzabile solo se si attua il mio desiderio. Ma nel caso in cui io parlante intenda il mio vorrei come ‘obbligo’, e usi il condizionale solo in quanto formula di cortesia, è accettato il congiuntivo presente? In sintesi: è un vero e proprio errore usare il congiuntivo presente nella frase citata in apertura, o si tratta di una forma poco usuale, ma in alcuni casi prevista e possibile? Si tratta di un problema di grammatica o di semantica?

 

RISPOSTA:

Come spesso accade, di errori veri e propri nella lingua ve ne sono pochi; il più delle volte si tratta di varietà, improprietà, sfumature. In questo caso, se non errato, l’uso del presente congiuntivo in associazione col condizionale presente, possibile in astratto, è improprio e decisamente minoritario (nelle persone colte), sia per ragioni semantiche, sia per ragioni grammaticali, o per meglio dire di analogia con altri costrutti che associano congiuntivo a condizionale. Dal punto di vista semantico, come giustamente ricorda lei, la spiegazione che si dà al condizionale è che il parlante/scrivente «mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63). Può trovare approfondimenti al riguardo in numerose altre domande di DICO, riassunte qui. Quel che più conta, però, è l’uso dei parlanti e degli scriventi, più che le loro eventuali intenzioni recondite. Nell’uso comune, quando compare il condizionale presente nella reggente, scatta quasi sempre l’uso combinato del congiuntivo imperfetto. Perché? Evidentemente per via del costrutto che più d’ogni altro (come frequenza d’uso) combina i due modi e tempi, vale a dire il periodo ipotetico del secondo tipo (il più frequente dei periodi ipotetici): «verrei se potessi» (e non «se possa»!). Per questa ragione, i parlanti e gli scriventi colti (e conseguentemente le grammatiche) associano all’uso combinato di condizionale presente più congiuntivo presente un valore di estrema trascuratezza, prossimo all’errore. La giustificazione che lei dà dell’opzione del congiuntivo presente è ineccepibile, ma logicistica: le lingue non funzionano con astratte logiche a posteriori, bensì in base a consuetudini consolidate.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Iniziò tutto un anno fa: ero solo e lei venne a parlarmi. Quest’inverno lei mi è stata vicina».

Non sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo visto che questo legame continua?

 

RISPOSTA:

L’esempio è ben scritto sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Con il passato remoto il livello stilistico si innalza: non a caso, il passato remoto è il tempo tipico dei testi narrativi letterari (racconti, romanzi ecc.). È senza dubbio vero che il passato prossimo, a differenza del remoto, serve a indicare una conseguenza dell’azione nel presente, tant’è vero che sarebbe quasi inaccettabile una frase come «Quest’inverno lei mi fu vicina», poiché ci si aspetta una conseguenza di quella vicinanza (per esempio lo sbocciare di una storia d’amore, il consolidarsi di un’amicizia e simili), ancor più evidente per via del deittico questo. Diverso sarebbe «Lo scorso inverno mi fu vicina»: da una frase del genere non mi aspetto le conseguenze dell’evento. È vero altresì che non è bene passare dal passato remoto al passato prossimo (o viceversa), senza un’effettiva necessità. Tuttavia, l’attacco del periodo («Iniziò tutto un anno fa») e anche il suo seguito immediato («venne a parlarmi») sembrano qui indicare un evento preso nel suo isolamento, anche indipendentemente da quel che segue. Nella frase successiva è come se il discorso riprendesse da capo. Se si vuole ottenere una maggiore contiguità tra gli eventi si può volgere tutto al passato e al trapassato prossimo: «È iniziato (o Era iniziato)… è venuta (o era venuta)». Devo dire però che il passato remoto ben si presta, come già detto, allo stile letterario e a quel distacco temporale tipico dell’incipit dei romanzi e dei racconti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla seguente frase: “Non vorrei che dopo siamo in troppi”. È preferibile usare il congiuntivo imperfetto, ma la frase è comunque corretta, oppure è sbagliata?

 

RISPOSTA:

In questa frase agiscono due ragioni contrarie: da una parte ci si aspetta “Non vorrei che dopo fossimo in troppi”, perché i verbi di desiderio al condizionale presente richiedono il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva (per un approfondimento su questa norma si veda qui); dall’altra l’avverbio dopo sottolinea la posteriorità dell’essere rispetto al volere, e questo rinforza la legittimità del congiuntivo presente con funzione di proiezione nel futuro. Da queste premesse si può ricavare, come soluzione ragionevole, che l’imperfetto è comunque la soluzione oggi considerata preferibile, ma il presente è giustificabile (anche se sarebbe visto con sospetto da molti parlanti, quindi dovrebbe essere riservato a contesti informali).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?

 

RISPOSTA:

A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se entrambe le soluzioni riportate di seguito sono corrette, oppure se ve ne sia una meno formale rispetto all’altra:
È una sfumatura semantica che risulta difficile cogliere.
È una sfumatura semantica che risulta difficile da cogliere.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono possibili e praticamente equivalenti dal punto di vista semantico; la prima, però, ha una costruzione sintattica intricata, per quanto del tutto comprensibile e ammessa dalla grammatica.
L’intrico dipende dalla natura della proposizione che cogliere, contemporaneamente relativa e soggettiva; da una parte, infatti, che riprende il sintagma una sfumatura semantica (quindi introduce una relativa), dall’altra la proposizione funge da soggetto di risulta difficile (quindi è una soggettiva). Per evidenziare questa sovrapposizione di funzioni, potremmo parafrasare questa parte della frase con cogliere la quale risulta difficile.
La seconda frase è più lineare dal punto di vista sintattico: che è il soggetto della proposizione relativa che risulta difficileda cogliere è una proposizione completiva assimilabile a una oggettiva, retta dall’aggettivo difficile. Non è facile associare le due frasi a determinati registri: in linea generale, mentre la seconda è adatta a tutti i contesti, la prima è più adatta a contesti medio-alti, soprattutto scritti, per via della complessità della costruzione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?

 

RISPOSTA:

In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi diservirsi di, contare suobbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Marioil cancello della scuolal’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcunoobbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.

L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.

 

RISPOSTA:

Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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QUESITO:

Leggendo in rete questa frase: “Michelangelo disegnava la lista della spesa siccome la sua domestica era analfabeta”, mi sono imbattuto in un commento che criticava l’uso della congiunzione causale (siccome può essere usato soltanto a inizio frase). Dal momento che mi sembra una vera e propria regola fantasma, approfitto del portale per chiedere se ciò sia vero o meno.

 

RISPOSTA:

Possiamo definirla una regola fantasma per due ragioni: 1. non c’è una vera e propria restrizione dell’uso di siccome in tutte le posizioni, per quanto questa congiunzione in contesti formali preferisca una certa posizione; 2. la posizione preferita della congiunzione non è a inizio frase, cioè prima della principale, ma prima della reggente, anche quando quest’ultima segue la principale (si pensi a una frase come “Sono stanco di sentire che siccome sono basso non posso giocare a pallacanestro”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una comunicazione e scritta e meglio usare il presente o il futuro per riferirsi al futuro? Ad es. “I genitori possono/potranno partecipare all’iniziativa organizzata per domani, recandosi… Se per esigenze particolari non si riesce/non si dovesse riuscire a rispettare l’orario indicato, si può/potrà avvisare telefonicamente….”.
Chiedo anche se la punteggiatura va bene.

 

RISPOSTA:

Per descrivere un evento futuro si può ovviamente usare l’indicativo futuro; si può, però, usare anche il presente, specie in contesti informali e, nel parlato, anche mediamente formali. Il presente al posto del futuro è accettabile soprattutto nei casi in cui la nozione di futuro è affidata ad elementi esterni al verbo, per esempio espressioni di tempo (come domani nella prima parte della sua frase). Nella proposizione ipotetica della stessa frase, l’alternativa dovrebbe essere tra si riesce e si riuscirà (si dovesse riuscire è ovviamente possibile, ma non è né presente né futuro, quindi non c’entra con la domanda). Anche in questo caso, come anche nella proposizione reggente che segue l’ipotetica, la scelta del presente è possibile ma abbassa il registro.
In quanto alla punteggiatura, l’unico suggerimento che si può fare è di eliminare la virgola prima della proposizione al gerundio (domani, recandosi); tale proposizione, infatti, dovrebbe essere interpretata come strettamente connessa alla reggente, visto che presenta lo strumento con cui può realizzarsi l’evento in essa descritto (partecipare all’iniziativa).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali delle seguenti costruzioni sarebbero da evitare perché troppo, o troppo poco, formali?

1) Lascio intendere che si vuole / voglia.

2) Con quelle parole gli fece capire che cosa stava / stesse succedendo.

3) Ho compreso perché tu lo hai / abbia fatto.

4) Constatò fino a che punto riuscivano / riuscissero a mentire i suoi colleghi.

5) Gli spiegò chi era /  fosse.

6) Ero a conoscenza di che cosa voleva / volesse.

7) Prendo atto che la mia scelta ha / abbia generato critiche.

8) Secondo te non mi sono accorto che lei è / sia bella?

9) Mi fece sapere che cosa era / fosse accaduto.

10) Mi basta capire che lei è / sia una brava dottoressa.

11) È questo il motivo per cui l’uomo lo aveva / avesse aggredito.

12) Ho specificato che cosa aveva / avesse detto.

13) Vorrebbe davvero affermare che sua moglie è / sia stata insultata?

14) Gradirei che mi confermaste che tutto è / sia a posto.

15) La tua affermazione mi fa capire che cosa è / sia accaduto.

16) Capivo dove voleva / volesse andare a parare.

17) Avete constatato che ogni oggetto era / fosse al proprio posto?

18) Rivelò a chi era / fosse rivolto il prodotto.

 

RISPOSTA:

Gli esempi da lei proposti sono ugualmente ben costruiti nelle due varianti (tranne il numero 11), con la precisazione che il congiuntivo è più formale dell’indicativo, quindi la scelta tra l’una e l’altra variante va fatta in base allo stile personale e al contesto comunicativo. Va, comunque, precisato che la proposizione interrogativa indiretta è, tra le completive, quella costruita più naturalmente con il congiuntivo. Nell’esempio 11 la proposizione subordinata non è una completiva, ma una relativa; questa proposizione si costruisce di norma con l’indicativo, ma può prendere il congiuntivo per assumere una sfumatura consecutivo-finale (che qui sarebbe fuori luogo).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale di queste due espressioni è corretta:

“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.

 

RISPOSTA:

Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.

 

RISPOSTA:

La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vaiseppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Mi fai sentire come (ipotesi) un insegnante del dopoguerra che rimproverasse (presente o passato?) un alunno che si comporta / comporti / comportasse male”.
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato?

“Che il castigo, se al giuramento vengo / venissi / venga meno, ricada sulla mia testa”.
Le varianti sono tutte legittime?

“Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta, tu che cosa risponderesti?”.
Di nuovo, con l’imperfetto ci si riferisce al passato?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il congiuntivo imperfetto rimproverasse rappresenta correttamente l’evento come passato. La proposizione costruita intorno a rimproverasse è una subordinata di tipo relativo, che si colorisce di una sfumatura eventuale per via del congiuntivo. Le forme si comporta / comporti / comportasse sono tutte possibili: con il congiuntivo imperfetto si rappresenta l’evento del comportarsi come passato, sullo stesso piano di rimproverare; con il presente si sposta il punto di vista al passato per rappresentare l’atto del comportarsi come fosse attuale. La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente in questo caso dipende dal grado di formalità che si vuole conferire alla frase. Sarebbe possibile anche si era comportato / si fosse comportato, per collocare l’atto del comportarsi prima di quello del rimproverare.
Nella seconda frase la subordinata è ipotetica: in questa subordinata il tempo del verbo determina il grado di realtà dell’evento: l’indicativo presente rappresenta l’evento come fattuale, il congiuntivo imperfetto come possibile, il congiuntivo trapassato come controfattuale, ovvero non più realizzabile. In questa proposizione il congiuntivo presente non si usa.
Nella terza frase la parte su cui ci si concentra (Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi) è una sequenza di due ipotetiche coordinate. Come detto sopra, in questa proposizione la forma del verbo esprime il grado di realtà dell’evento; questa funzione è indirettamente collegata al tempo, perché la fattualità (espressa dall’indicativo presente) è legata al presente o al massimo a un futuro già programmato; la possibilità è legata ugualmente al presente o al futuro; la controfattualità è legata al passato. Per quanto riguarda l’interrogativa diretta (quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta), la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente dipende dal registro, come per si comporta / comporti. Il condizionale in questo caso non è giustificato, perché non è indicata nessuna ipotesi tale da condizionare la qualità dell’altezza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se una persona è defunta in quale maniera ci si riferisce “all’essere” della stessa: “Non credo che tutti sappiano chi lei sia / fosse / fu”?

 

RISPOSTA:

Tutt’e tre le alternative sono corrette. Il congiuntivo imperfetto fosse è ineccepibile; il passato remoto fu è legittimo, ma è più informale del congiuntivo. Anche il congiuntivo presente sia, pur insolito, potrebbe andar bene in questo contesto: per un fattore psicologico e affettivo, ci si potrebbe riferire al defunto come a una persona ancora viva nei nostri pensieri.

Raphael Merida

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

I verbi essere e stare sono intercambiabili?

Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?

C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?

Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?

RISPOSTA:

La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.

Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).

Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:

Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.

La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.

 

RISPOSTA:

La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»

 

RISPOSTA:

L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nell’esempio il presente indicativo del verbo potere è corretto: “Va in ospedale, dove incontra Virginia che gli chiede se può avere il fine settimana libero”.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Se può avere è un proposizione interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro.
Può approfondire l’argomento inserendo come parole chiave “interrogativa indiretta” all’interno dell’Archivio di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?

RISPOSTA:

Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

 

“Mai che qualcuno dica” o “dicesse la verità”?

Quale delle due va bene? E di che tipo di costruzione si tratta?

 

RISPOSTA:

 

L’alternativa con il congiuntivo presente è certamente preferibile, quella con il congiuntivo imperfetto sarebbe corretta nell’italiano standard per riferirsi al passato: «mai che qualcuno dicesse la verità quando frequentavo quelle persone»; può, però, valere anche per riferirsi al presente: «mai che qualcuno dicesse la verità quando gli chiedi spiegazioni». Questo secondo uso è di provenienza regionale ed è substandard (cioè ancora non del tutto corretto), ma sempre più accettato e diffuso nella lingua parlata.  

Il costrutto mai che + congiuntivo, di recente diffusione, è sicuramente informale perché il che è polivalente (come nei costrutti, ugualmente di recente diffusione, mica che, solo che, certo che…). Sui vari usi di che la rimando alla risposta Un che, tante funzioni dell’Archivio di DICO.

Raphael Merida

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QUESITO:

1) Sarebbe stato meglio che tu fossi andato via.

2) Sarebbe stato meglio che tu andassi via.

Parliamo di due frasi corrette, anche se credo sia preferibile la a.

Io ho sempre visto, in questi contesti, l’imperfetto congiuntivo e il congiuntivo trapassato come due opzioni altamente interscambiabili, ma forse è una mia percezione erronea.

C’è invece qualche differenza tra la prima e la seconda frase da un punto di vista semantico?

 

RISPOSTA:

Le due frasi hanno significato diverso. La frase 2 indica un rapporto di contemporaneità tra il momento di riferimento (quello dell’essere meglio) e il momento dell’azione (quello dell’andare); il momento dell’andare, cioè, era lo stesso in cui l’azione sarebbe stata preferibile. La frase 1, invece, esprime un rapporto di anteriorità del momento dell’azione rispetto a quello di riferimento. La differenza si capisce meglio se allarghiamo il contesto:

  1. Grazie per aver fatto la spesa, ma sarebbe stato meglio che ci fossi andato io.
  2. Sei stato imprudente: sarebbe stato meglio che tu non parlassi così apertamente durante l’intervista.

Anche se la 2 è legittima, essa viene sfavorita dalla sovrapposizione di questa costruzione con quella del periodo ipotetico, per cui a un condizionale passato nell’apodosi di solito corrisponde un congiuntivo trapassato nella protasi (sarebbe stato meglio che tu fossi andatosarebbe stato meglio se tu fossi andato). In seguito a questa confusione, la 1 viene usata sia nel suo valore proprio (anteriorità dell’azione rispetto a un momento di riferimento passato), sia in quello che sarebbe proprio della 2 (contemporaneità dell’azione con un momento di riferimento passato).

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

(1) Chiedo alle persone che conoscessero già la risposta di restare in silenzio.

(1a) Volevo confermare che nella proposizione relativa possiamo sostituire conoscessero sia al congiuntivo presente conoscano sia all’indicativo conoscono senza cambiare la semantica della proposizione.  In altre parole, il valore del congiuntivo (sia all’imperfetto sia al presente) è diafasico, giusto? La proposizione relativa è propria, giusto? È soltanto una questione del registro.

 

Prendiamo un’altra frase che mi sembra strutturalmente simile:

(2) Possono iscriversi al primo anno tutti coloro che abbiano passato l’esame di amissione.

(2a) La struttura della frase sembra uguale alla frase dell’esempio 1 nel senso che c’è un requisito o una limitazione, giusto?

(2b) Possiamo sostituire avessero passato e avevano passato per abbiano passato senza cambiare la semantica della frase? Anche qui i diversi modi dei verbi sono soltanto una cosa del registro e i valori sono diafasici?

(2c) Come possiamo capire che il pronome relativo che non può essere sostituto per esempio con “tale che” per darle una sfumatura di una proposizione consecutiva.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi 1 e 2 si può sostituire il congiuntivo con l’indicativo senza alcun cambiamento di significato; la scelta tra i due modi è un fatto che determina il maggior o minor grado di formalità. Sulla scelta fra presente e imperfetto congiuntivo la rimando alle seguenti risposte nell’archivio di DICO: Congiuntivo e consecutio nella proposizione relativa e Relative improprie.

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QUESITO:

La frase di partenza viene da Moravia:

(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.

Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:

(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).

 

Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?

 

(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:

“Mi ci faceva credere”.

Per me, il pronome mi ha valore di “a me”.  Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.

 

RISPOSTA:

Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.

L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.

Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Tante di cose” o “tante di persone”, come dice Lei, sono agrammaticali, ma in caso di ripresa nominale, cioè col “ne” come ripresa pronominale in aggiunta al “di” partitivo (“Ne vede tante di cose/persone”), sarebbero legittime.

Se non si vuole utilizzare il pronome di ripresa “ne” allora bisognerebbe modificare il nome “cose”:

“Ogni giorno vede tante di queste cose/persone”.

Secondo lei, se cambiassimo ”vede tante di cose/persone” in “Vede tante di cose/persone interessanti” cambierebbe qualcosa o si resterebbe nell’agrammaticalità?

 

RISPOSTA:

Secondo me sì, sarebbe agrammaticale; accettabile, forse, soltanto in uno stile molto informale. L’indefinito tanto può reggere il partitivo, ma in contesti in cui sia chiara la ripartizione di un sottogruppo: «tanti dei miei amici non sono laureati», oppure: «vedo qui presenti tante delle persone che ho conosciuto al corso di francese» o simili. Invece, nel suo esempio («vede tante di persone interessanti») non c’è questa ripartizione, perché «tante persone» indica genericamente un numero elevato di persone e non un sottogruppo nell’ambito di un gruppo più ampio o di una totalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“È arrivato il momento che il proprietario venga a ritirare la macchina”. La frase è corretta o si dovrebbe scrivere con in cui?
“È arrivato il momento in cui il proprietario venga a ritirare la macchina”.
Perché mi suona meglio la prima?

 

RISPOSTA:

Subordinate come quella da lei presentata si collocano a metà strada tra le relative, le temporali e le soggettive. Se la consideriamo una relativa dobbiamo costuirla con in cui, perché un evento succede in un momento; se la consideriamo temporale la costruiremo con quando; se la consideriamo soggettiva useremo la congiunzione che (in questo caso è il momento che viene assimilato a è il caso che o simili). I parlanti sfavoriscono decisamente l’opzione temporale e oscillano tra la relativa e la soggettiva, per via della somiglianza tra le due costruzioni (non a caso il che usato in casi come questi rientra nella casistica del cosiddetto che polivalente), preferendo, di solito, la seconda. Quest’ultima è da considerarsi del tutto regolare e utilizzabile in ogni contesto. A conferma della vicinanza di questa subordinata alle soggettive, se il soggetto della subordinata è impersonale essa si costruisce con di + infinito, proprio come le soggettive: “È arrivato il momento di andare”. Va detto, però, che la costruzione relativa diviene preferibile se il momento non è all’interno di un costrutto presentativo, per esempio “Nel momento stesso in cui l’ho visto ho provato una forte emozione”. In questo caso la costruzione con che è percepita come più trascurata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è la più corretta e formale?

1) serve un sacco di cose

2) servono un sacco di cose

Io personalmente credo che la prima sia la più formale in quanto richiama una concordanza grammaticale, mentre la seconda più diffusa nel linguaggio confidenziale sembra accordata “ad orecchio”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio la prima è più formale e ineccepibile, dal punto di vista grammaticale, dato che «un sacco», testa del sintagma, è singolare. Il secondo è un caso normalissimo (e ormai accettato anche dall’italiano standard) di concordanza a senso, in cui la concordanza del verbo al plurale si spiega con il fatto che l’intera espressione «un sacco di X» indica una molteplicità, del tutto equivalente a «molti X». Inoltre, dato che è la stessa espressione «un sacco di» ad essere informale e colloquiale, e dato che essa si è del tutto lessicalizzata come pressoché assoluto sinonimo di «molti», la concordanza “grammaticale” col verbo al singolare appare in questo caso un’inutile, e un po’ goffa, pedanteria. Si può aggiungere, infine, che talora al Nord può essere preferita la prima forma (col verbo al singolare) non in quanto più formale, bensì in quanto più vicina ad analoghi casi (ma stavolta non standard) di italiano regionale con verbo al singolare accordato a soggetto plurale, come per esempio «ce n’è molti».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su una frase: “avrei bisogno di sapere se potessi sostenere l’esame (giorno x)”. Non mi suona male ma mi è stato fatto notare che non era così corretta e che dovrei dire invece “se sia possibile(…)”. Potreste aiutarmi? Vanno bene entrambe?

 

RISPOSTA:

In effetti, non si giustifica l’imperfetto, perché in questo caso il rapporto temporale tra le due proposizioni non è di contemporaneità nel passato, bensì di posteriorità o di contemporaneità nel presente, quindi la scelta migliore è il congiuntivo presente, oppure l’indicativo presente: «… se posso sostenere… / se è possibile sostenere…». Inoltre, è sbagliato (o quantomeno troppo informale e regionale) «giorno 12» (per es.), perché la forma dell’italiano standard prevede l’uso dell’articolo, cioè «il giorno 12».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La ringrazio per aver chiarito il mio dubbio sulla questione delle proposizioni causali/finali.

Lei ha però sollevato la questione del tema del controllo, su cui non avevo mai fatto più di tanto caso.

Nella frase “spero di redimermi” vi è una oggettiva implicita, che si lega al verbo sperare, il cui soggetto è “controllato” dal soggetto della reggente.

Ci sono casi in cui, però, la subordinata implicita più che essere legata direttamente al verbo, fa da modificatore di un sintagma nominale, quest’ultimo legato direttamente al verbo:

  1. a) Non dimenticherò mai il fatto di essere sempre stato leale con tutti voi.
  2. b) Pensavo che questa fosse l’occasione per potermi pentire.

Queste due frasi sono molto idiomatiche, ma da un punto di vista puramente grammaticale (sempre riallacciandoci alla questione che la subordinata implicita non ha un contatto diretto col soggetto della reggente, ma piuttosto tale subordinata è parte del sintagma nominale) possono essere viste come corrette?

In queste due frasi, può effettivamente il soggetto della reggente (io) essere il controllore della subordinata implicita?

C’è poi un ulteriore costrutto grammaticale, a mio modo di vedere molto idiomatico e utilizzato:

  1. c) Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore, molto spesso sottovalutate.

In questa frase, abbiamo nuovamente una subordinata implicita (introdotta da “per” o “di”) e che si lega al sintagma nominale, come nei due casi precedenti.

La vera differenza la fa lo stesso sintagma nominale, che è il soggetto grammaticale della reggente.

Quindi ci sarebbe da chiedersi: Perché si lega il soggetto della implicita alla seconda plurale “voi”?

Forse l’aggettivo “vostro” controlla il soggetto della subordinata implicita? Secondo lei, potremmo quindi vedere tale aggettivo come soggetto logico della reggente? Il soggetto logico, secondo le grammatiche, può controllare il soggetto della subordinata implicita, in quanto è colui che materialmente fa qualcosa:

“Mi sembra di aver capito”.

“Mi” equivale a “io”, che sarebbe riformulabile in tal modo:

“Io penso di aver capito”.

Cosa ne pensa lei di questi particolari casi?

 

RISPOSTA:

Certamente le frasi da lei riportate sono corrette (e non sono idiomatiche, né colloquiali, ma del tutto normali in qualunque registro dell’italiano standard). Anche quando le subordinate espandono un sintagma nominale, cioè dipendono da un nome, un aggettivo o un pronome anziché da un verbo (e troverà numerosi esempi di questo sempre nella solita Grande grammatica italiana di consultazione), il soggetto è controllato da un elemento della reggente. Nelle prime due frasi da lei citate, infatti, il soggetto della subordinata è controllato dal soggetto della reggente (io).

Molto giusta la sua intuizione sulle altre frasi: il soggetto della subordinata può essere controllato anche da altri elementi della reggente, ivi compreso un soggetto logico, a senso, generico ecc.:

  1. c) «Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore»: il controllore è sicuramente vostra.
  2. d) «Mi sembra di aver capito»: il controllore è mi (cioè il benefattivo o esperiente, chi prova una determinata esperienza, ovvero il soggetto logico, in questo caso).

Ma ci possono essere anche casi più complessi sintatticamente, per esempio:

«Ti ho dato la scusa per/di andartene»: il soggetto della subordinata (tu) è controllato dal complemento di termine della reggente (ti).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Non sempre riesco a trovare la preposizione giusta, proprio come nel caso dei verbi e aggettivi seguenti:

discutere di politica so che é corretto ma va anche bene ´discutere di Carlo o su Carlo´?

parlare di musica o sulla musica

persuado Ines a iscriversi…

sono persuaso di o a

mi sono persuaso di o a

convinco Ines di o a

mi convinco di o a

mi sono convinto di o a

fortunato di o a 

sono d´accordo di o a

badare di non cadere o a non cadere

sono deluso di o per aver perso

Come ci si comporta quando non si riescono a trovare le giuste preposizioni per un verbo, un aggettivo … nel dizionario?

 

RISPOSTA:

La scelta della preposizione è tutt’altro che semplice, anche per i madrelingua. In caso di dubbio, i vocabolari migliori aiutano quasi sempre, perché di solito specificano le principali reggenze preposizionali soprattutto dei verbi, talora anche dei sostantivi e degli aggettivi. I dizionari più utili in questo senso sono il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera), il GRADIT di Tullio De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito internazionale.it) e il Nuovo Devoto Oli. Vediamo ora i suoi casi specifici.

«Discutere di politica», «di Carlo» vanno benissimo. Si può anche discutere su qualcosa, però è sicuramente una scelta più formale o adatta a una discussione più specifica, non per parlare del più e del meno, per cui «discutere su Carlo», ancorché corretto, suonerebbe un po’ strano.

«Parlare di musica» è la scelta migliore. Se si sta parlando a un convegno si può dire anche «fare una conferenza sulla musica di Chopin». Su presuppone un parlare più specificamente, mentre di ha un uso esteso a tutte le situazioni.

«Persuado Ines a iscriversi»: benissimo.

«Sono persuaso di» va bene, ma è possibile anche a, che accentua il fine: «mi persuasi ad ascoltarlo», «sono persuaso di volerlo fare».

«Convinco Ines di o a» vanno bene entrambi, ma, se il contesto sottolinea il fine, allora è meglio a, come per persuadere: «Convinco Ines a venire a cena con me», «sono convinto di volerla invitare a cena».

«Fortunato di» è meglio di «fortunato a», se segue una proposizione infinitiva, ma se segue un nome si può usare solo a: «sono fortunato di giocare a tennis con te», ma «sono fortunato al gioco», «a carte». Ma è possibile anche di in alcuni casi: «fui fortunato del risultato». Ed è possibile anche in: «fortunato in amore». Dipende dal contesto: in certe espressioni è meglio a, in altre di, in altre in: in casi simili la consultazione del vocabolario è indispensabile.

«Sono d’accordo» può reggere sia di sia a. «Sono d’accordo di finire prima», «è d’accordo a vendermi la moto». Per l’argomento su cui si è d’accordo si usa su: «essere d’accordo su qualcosa».

«Badare di non cadere» o «a non cadere» vanno bene entrambi, il primo è più comune.

«sono deluso di» o «per aver perso» vanno bene entrambi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1.Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

2.Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare:

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

3.Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Quello che penso è che nel caso della preposizione “per” sia necessario il complemento oggetto, a quel punto avremmo due interpretazioni differenti:

a = soggetto coreferente

b = soggetto generico introdotto nella subordinata.

Con la preposizione da è diverso, perché se si inserisce il complemento oggetto, l’interpretazione (a) diventa quella che vede due soggetti coreferenti, mentre se non si usa alcun complemento oggetto, parliamo di un interpretazione (b) che ha un valore passivo/impersonale.

Seguendo questa logica se io dicessi:

4.Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare”, potrei voler dire:

Interpretazione a = il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Frase decisamente irrealistica, in quanto è impensabile come frase, ma è giusto per far capire la differenza)

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poter sopportare:

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poterlo sopportare:

Interpretazione a) il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Come la quarta nella interpretazione “a”)

Sono corretti il mio ragionamento e le mie interpretazioni?

Cioè che la preposizione “per” richiede il complemento oggetto e può avere doppia interpretazione, a e b, generando magari ambiguità.

Mentre la preposizione “da”, in dipendenza dalla presenza o assenza del complemento oggetto, può avere una sola delle due interpretazioni.

 

RISPOSTA:

No, la sua interpretazione non è corretta. È vero che da + infinito di un verbo transitivo indica un valore passivo, cioè qualcosa che deve essere fatto: da fare, da comprare, da vedere ecc. In quanto tale, il clitico è pleonastico e comunque, sia che ci sia, sia che manchi, non muta il significato della frase: «il dolore è troppo forte da sopportare/sopportarlo» può voler dire soltanto ‘…troppo forte per essere sopportato’. La versione col clitico è decisamente informale e da evitarsi in uno stile sorvegliato.

La finale implicita con per + infinito, così come da + infinito, impone l’obbligo dell’identità del soggetto della subordinata e di quello della reggente. Quindi:

  1. «Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare». L’unica interpretazione possibile è: ‘Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò’. Se invece si vuole esprimere che Mario viene sopportato allora bisogna rendere esplicita la subordinata ed esprimere il soggetto: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare».
  2. «Mario era abbastanza tranquillo da (poter) sopportare». Benché sia possibile l’interpretazione ‘da essere sopportato’, la frase suscita comunque ambiguità, pertanto sarebbe meglio renderla esplicita: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare». Al limite, informalmente, si potrebbe usare il si passivante: «Mario era abbastanza tranquillo da sopportarsi/potersi sopportare», cioè «essere/poter essere sopportato».
  3. «Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare»: è possibile soltanto l’interpretazione ‘Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare qualcosa’.

Quindi: se non c’è identità di soggetto chiara tra reggente e subordinata implicita, è sempre meglio trasformare la subordinata in esplicita ed esprimere il nuovo soggetto.

  1. «Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare»: soltanto il senso consente di evitare l’interpretazione assurda ‘il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno’. La frase è comunque imperfettamente formata e dunque sarebbe meglio cambiarla in: «il dolore era troppo grande per essere sopportato».
  2. «Il dolore era troppo grande da poter sopportare»: la frase è mal formata per le stesse ragioni della precedente e della n. 2; pertanto è meglio cambiarla in «il dolore era troppo grande per essere sopportato», oppure, informalmente, «da sopportarsi».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?

2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?

3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?

4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?

5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?

Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?

La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.

Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:

6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene

6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*

A pensarci  bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.

È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?

 

RISPOSTA:

La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):

– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).

Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:

1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».

2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.

3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.

4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.

5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.

6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.

6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le soluzioni sotto indicate sono sintatticamente possibili?

In caso di risposta affermativa, tra esse ce ne sono alcune che potrebbero essere giudicate illogiche?

(Personalmente, mi sentirei di scartare soltanto la numero 4; mentre la numero 1, con i due congiuntivi invertiti, mi pare tutto sommato coerente.)

1) Mettiamo che il giornalista che si interessasse al caso ci faccia domande scomode…

2) Mettiamo che il giornalista che si interessasse al caso ci facesse domande scomode…

3) Mettiamo che il giornalista che si interessi al caso ci faccia domande scomode…

4) Mettiamo che il giornalista che si interessi al caso ci facesse domande scomode…

 

RISPOSTA:

Sì, vanno tutte bene: la relativa impropria (con valore epistemico-eventuale) può essere espressa sia con il congiuntivo presente (a rigore il tempo più adatto, trattandosi di contemporaneità al presente: si suppone infatti che il giornalista se ne interessi adesso e ci faccia delle domande adesso), sia all’imperfetto (adatto proprio per il valore eventuale: se si interessasse, ci farebbe… se ci facesse delle domande…).

lo stesso vale per «ci faccia / ci facesse delle domande».

Come giustamente osserva lei, la 4 sembra non funzionare, perché presenta uno scollamento tra il presente (il giornalista se ne interessa ora) e l’imperfetto; anche se, in teoria, sarebbe sempre possibile che ci si riferisse a un evento passato: il giornalista al caso si interessa tuttora e ieri, mentre ci intervistava, ci faceva delle domande scomode. Al di fuori di quest’eventualità (comunque equivoca, se non vengono fornite esplicite coordinate temporali), il numero 4 risulterebbe mal formato.

La frase migliore, comunque, e dunque più adatta a uno stile formale, proprio perché non suscita alcun equivoco, è la n. 3; sarebbe altrettanto corretta e formale con una relativa propria: «Mettiamo che il giornalista che si interessa al caso ci faccia domande scomode».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“In Norvegia non ci sono mai stato”. Quel “ci” può essere accettato anche in un linguaggio formale, pur essendo un pleonasmo, oppure è preferibile dire: “In Norvegia non sono mai stato”?

 

RISPOSTA:

Sicuramente il pleonasmo è evitabile nel registro formale, a condizione, però, di modificare l’ordine dei costituenti: «Non sono mai stato in Norvegia». Infatti la tematizzazione (o topicalizzazione), cioè la collocazione del tema in prima posizione, richiede la ripresa clitica (dislocazione a sinistra): «In Norvegia non ci sono mai stato». Se eliminasse il «ci» l’enunciato verrebbe interpretato come focalizzazione, anziché come tematizzazione, ovvero: «In Norvegia non sono mia stato [mentre in Svezia sì]».

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il quesito a cui volevo sottoporre la sua attenzione è quello di frasi che apparentemente sembrano delle relative, o che forse lo sono in parte.

Questo tipo di frasi contiene spesso un che, che potrebbe forse trattarsi di un che polivalente.

Proporrei qualche frase che secondo me possono rientrare in questa definizione:

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo.
  3. Ho finito che sono diventato povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso.
  5. L’ho trovato che dormiva beato.
  6. Sono qui che aspetto.

Le frasi in questione, per quanto contengano il pronome relativo che, mi sembrano abbiano tutt’altra funzione.

Per esempio, da 1 a 5 direi che quel che sia molto vicino ad un complemento di tempo.

Nella sesta il che mi sembra abbia valore finale: «Che aspetto» = per aspettare/ad aspettare.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, sono relative improprie, ovvero il che in esse usato può rientrare nell’ampia tipologia del che polivalente. Proviamo a spiegarne alla svelta l’uso caso per caso.

  1. Sono arrivato qui che ero piccolo: valore temporale, ma in uno stile meno informale può essere risolto anche con un complemento predicativo del soggetto: sono arrivato qui da piccolo.
  2. Ho iniziato che ero ricchissimo. Come sopra.
  3. Ho finito che sono diventato povero. Qui l’equivalente meno informale sarebbe più o meno un verbo aspettuale o fraseologico: ho finito per (o col) diventare povero.
  4. L’ho conosciuto che non era ancora così famoso. Questa e la frase successiva rientrano nella tipologia delle relative con verbi di percezione (o simili): l’ho visto che dormiva / l’ho visto dormire.
  5. L’ho trovato che dormiva beato. Come sopra.
  6. Sono qui che aspetto. Valore finale: sono qui ad aspettarti, ma anche: ti sto aspettando qui.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei sapere se dopo le classiche affermazioni poste a fine lettera, per esempio «distinti saluti», «cordiali saluti», «grazie per l’attenzione» eccetera, è bene far seguire un punto prima del nome (per esempio: «Distinti saluti.

Mario Rossi») oppure se questo può essere omesso (per esempio: «Distinti saluti

Mario Rossi»), oppure se si può ricorrere anche alla virgola (per esempio: «Distinti saluti,

Mario Rossi»).

 

RISPOSTA:

La sua domanda affligge molti scriventi, evidentemente ormai disavvezzi alla corrispondenza tradizionalmente intesa. Nella quale sono ammesse tutte e le tre le soluzioni da lei prospettate, anche se quella con il punto è decisamente la più moderna e mai, o quasi mai, contemplata in passato. Quindi è anche da ritenersi la meno formale, in quanto meno in linea con la tradizione. Per il resto, oggi si tende all’uso maggioritario della virgola, che è anche la soluzione suggerita da vari manuali di bon ton scrittorio (per es. quelli della fortunata coppia di linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota). Invece in passato (fino almeno alla metà del Novecento) la tradizione escludeva qualunque segno di punteggiatura, tra i saluti e la firma, giacché il solo a capo con spazio bianco costituiva una evidente separazione tra le due sezioni. E quindi:

Cordiali saluti

Fabio Rossi (senza né virgola, né punto, ma con un solo a capo seguito o no da uno spazio bianco).

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Me l’hai preso tu il libro che stavo leggendo?». La frase sopra riportata è corretta? La parola libro è una ripetizione?

 

RISPOSTA:

Sì, la frase è corretta, benché sia appropriata a un contesto informale e soprattutto parlato, meno appropriata (con qualche eccezione) nella lingua scritta e formale. Il costrutto si chiama dislocazione a destra (oppure a sinistra, se è rovesciato: «il libro me l’hai preso tu») e prevede la ripetizione, come dice lei, dell’oggetto, che, nel caso della sua frase, compare sia in forma piena (il libro), sia nella forma pronominale (l’). I motivi che inducono a scegliere un costrutto siffatto sono di solito legati all’esigenza di dare maggiore o minore rilievo a determinate informazioni della frase. Nel caso specifico, per esempio, si mette in rilievo l’azione e chi la compie (hai preso e tu) e si dà quasi per scontato il libro, come se fosse (come in effetti è) già ben presente nell’orizzonte comunicativo degli interlocutori; il libro, comunque, acquista esso stesso un suo particolare rilievo, perché diventa il tema su cui verte l’intero atto comunicativo. Delle dislocazioni abbiamo più volte discusso, nella banca dati di DICO. Può vedere, per esempio, la domanda/risposta “Dimmelo tu cosa sono le dislocazioni”.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Queste due alternative sono corrette?

1. Sei cieca se pensi che sia inutile.

2. Sei cieca se pensi che è inutile.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette entrambe le frasi. La prima è formata con il congiuntivo presente e rappresenta l’opzione più formale, in una subordinata completiva; la seconda è all’indicativo e costituisce l’opzione meno formale ma comunque corretta.

Per approfondire l’argomento, molto presente all’interno del nostro Archivio, la rimando a questa risposta: Indicativo o congiuntivo nelle completive.

Raphael Merida

 

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QUESITO:

Visto che sapere regge l’indicativo, ma in frase negativa anche il congiuntivo, queste alternative sono tutte corrette?
“So che è possibile che sia sia rotto”
“So che è possibile che si è rotto”

“Non so se sia possibile che si sia rotto”
“Non so se è possibile che si è rotto”
“Non so se sia possibile che si è rotto”
“Non so se è possibile che si sia rotto”

 

RISPOSTA:

Le alternative sono tutte corrette. Si consideri che nel secondo gruppo le varianti con il congiuntivo sia nella subordinata di primo grado (se sia possibile) sia in quella di secondo grado (che si sia rotto) sono le più formali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:

1) Mario era  troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.

2) Mario era  troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.

3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.

Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era  troppo grande perché lo si capisse”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A) Ci sono degli studenti, molti dei quali non si impegnano abbastanza.
B) Ci sono degli studenti, di cui molti non si impegnano abbastanza.

La A ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma nominale, come per esempio:
‘Molti di quelli che vedi non si impegnano abbastanza’.
La B invece ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma verbale, come per esempio:
‘Di quelli che vedi molti non si impegnano abbastanza’.
È un’analisi corretta la mia? Se così fosse, non ci sarebbe nessuna differenza d’uso tra A e B?

 

RISPOSTA:

L’unica differenza tra A e B è la forma del pronome relativo (di cui / dei quali). A prescindere dalla forma, la funzione del relativo è sempre quella di introdurre una proposizione relativa, che è un modificatore di un sintagma nominale (in questo caso gli studenti). Per quanto le due varianti del relativo siano funzionalmente identiche, quella analitica, formata dall’articolo determinativo e quale, è meno comune e più formale di quella sintetica, formata dal solo cui. Va aggiunto che la proposizione relativa richiesta qui è certamente limitativa, cioè contenente informazioni che identificano l’antecedente; questo tipo di proposizione relativa non va separato dalla reggente con alcun segno di punteggiatura e preferisce senz’altro la forma sintetica del relativo. Diversamente, la relativa esplicativa, che contiene informazioni aggiuntive sull’antecedente, va separata e può essere costruita con entrambe le forme (per esempio: “Quest’anno ho una classe con molti studenti, molti dei quali / di cui molti non si impegnano abbastanza”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.

1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.

Cerco di contestualizzare.

Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:

“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).

Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:

“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.

 

RISPOSTA:

L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).

A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.

In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La preposizione di può  essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.

Esempio:

“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.

Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:

“il panettone si mangia sempre di dicembre /  Natale” = ‘ogni dicembre /  Natale’.

In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:

“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.

Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.

Ecco una frase tratta da un dizionario:

“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.

Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:

“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).

 

RISPOSTA:

La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.

I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tutte queste frasi e alternative sono corrette?

“Mi ha chiesto che cosa significasse quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significhi quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significherebbe quel gesto”

“Mi ha chiesto che cosa significa quel gesto”

 

“Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia(,) imparerebbe tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli”.

 

“Un amico che diffami / diffama / diffamasse non è / sarebbe un buon amico”.

 

Attenendomi, per esempio, a queste tabelle della “Treccani”, una frase del genere sarebbe agrammaticale: “Credo che l’avesse visto”?

A che attenersi per sapere se si sta (o stia?) costruendo una frase che rispetta (o rispetti?) la concordanza dei tempi verbali?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti dei tre gruppi sono corrette. Nel primo gruppo la subordinata è una interrogativa indiretta, che è strettamente vincolata alla consecutio temporum; non tutte le varianti presentate, però, hanno a che fare direttamente con il sistema della consecutio. Le varianti con significa / significhi sono semanticamente equivalenti; in questo caso la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo è di tipo diafasico, cioè di registro (lo stesso vale per sta / stia e rispetta / rispetti della frase finale della sua domanda). Quella con il condizionale contiene, ovviamente, una sfumatura di condizionalità; presuppone, cioè, che ci sia una condizione (espressa altrove o implicita) per l’avverarsi dell’evento del significare (per esempio “…che cosa significherebbe quel gesto se lui lo facesse“). In alternativa (ma la corretta interpretazione dipende dal contesto), il condizionale può essere interpretato come un segnale di cortesia, ovvero come una variante indiretta di significa. Per quanto riguarda la consecutio temporum, queste tre varianti esprimono tutte la contemporaneità con il presente; il passato prossimo (qui ha chiesto), infatti, può funzionare da passato ma anche da presente, se descrive un evento che è ancora in corso (ha chiesto comporta che la domanda è ancora valida nel momento in cui l’emittente parla). Diversamente da queste tre, la variante all’imperfetto esprime (anche qui l’interpretazione dipende dal contesto) la contemporaneità con il passato, l’anteriorità rispetto al presente o anche l’anteriorità rispetto al passato; per esempio “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (contemporaneità con il passato) il nostro incontro”; “L’ho appena incontrato e mi ha chiesto (domanda ancora valida = presente) che cosa significasse il mio discorso di ieri (anteriorità rispetto al presente)”; “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (anteriorità rispetto al passato) il mio discorso del giorno prima”.

La seconda e la terza frase contengono subordinate relative, che non sono strettamente legate alla consecutio temporum; le varianti legge / legga funzionano come significa / significhi del gruppo precedente; leggesse qui non è interpretabile come passato, per via del verbo della reggente (imparerebbe), che è presente; esso va, quindi, interpretato come una variante di legga favorita dalla sovrapposizione del modello del periodo ipotetico: che leggesse …imparerebbe = se leggesse …imparerebbe. Si noti che se il verbo della reggente fosse passato, leggesse sarebbe interpretato come passato (per esempio “Un bambino che cinquant’anni fa leggesse per bene una enciclopedia avrebbe imparato…”).

Per “…tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli” vale quanto appena detto, tranne che qui è ammesso sia il congiuntivo imperfetto, con la stessa sfumatura ipotetica della prima relativa, sia il condizionale presente (non ammesso nella prima relativa per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico), attratto dal condizionale della proposizione reggente. A margine sottolineo che la virgola tra enciclopedia e imparerebbe non va inserita, perché si configurerebbe come virgola tra il soggetto (Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia) e il verbo.

Per la relativa della terza frase vale tutto quello che è stato detto per la prima relativa della seconda. Chiaramente, se si opta per diffamasse la reggente prenderà il condizionale sarebbe per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico.

La frase “Credo che l’avesse visto” non è affatto agrammaticale, ma descrive una situazione in cui un parlante riferisce di un evento passato precedente un altro; per esempio “Luca ieri è rimasto a guardare il film per pura gentilezza; credo che l’avesse già visto”. Lo schema presentato nella pagina a cui lei rimanda contiene soltanto i casi più comuni di relazione temporale tra reggente e subordinata completiva; i tanti casi non contemplati non sono esclusi, ma solo tralasciati per brevità. Sulla consecutio temporum in generale rimando alle tante risposte dell’Archivio di DICO che contengono la parola consecutio; in particolare la scelta dei tempi nelle relative è al centro di questa.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In rete si trovano liste di alcuni verbi che reggono l´indicativo e liste di altri che vogliono il congiuntivo. Come ci si deve comportare qualora il verbo che si vuole adoperare non rientrasse in queste liste? Per quale modo dobbiamo propendere? I verbi che reggono l´indicativo vogliono il congiuntivo in domande e frasi negative? Ad es.

Non sapevo che tu sapessi che io sapessi.

Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore (è una domanda indiretta?)

Deve dirmi quale sia la versione migliore.

Deve decidere chi abbia ragione.

Mi pare di aver capito che voglia venire

Mi pare di aver capito che non voglia venire.

 

RISPOSTA:

Le risposte dell’archivio di DICO che contengono la parola congiuntivo sono più di 320: da questo numero si capisce che la scelta del modo verbale nelle proposizioni subordinate completive (come quelle dei suoi esempi) è un problema aperto per i parlanti, nativi e, ovviamente, non nativi. Per orientare questa scelta possiamo dire che:

1. l’alternanza è possibile per quasi tutti i verbi. In questo caso il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più informale;

2. alcuni verbi richiedono l’indicativo: dire, sapere, scrivere, leggerevederesentire (ma non è possibile fare una lista completa);

3. i verbi di pensare (pensare, ritenere, immaginare) preferiscono il congiuntivo. Con questi verbi, l’indicativo nella subordinata risulta una scelta trascurata;

4. le soggettive rette da verbi di sembrare (sembrare, apparire + aggettivo, parere) preferiscono decisamente il congiuntivo. Con questi verbi l’indicativo nella subordinata risulta una scelta molto trascurata;

5. quando il verbo è negativo o inserito in una espressione impersonale (quindi la subordinata è soggettiva) il congiuntivo è quasi sempre preferibile;

5a. alcuni verbi che richiedono l’indicativo, come diresapere, ammettono, come scelta più formale, il congiuntivo nel caso descritto al punto 5: “Non dico che Luca sia un ritardatario”; “Si dice che Luca sia un ritardatario”, “Non so se Luca è / sia un ritardatario”, “Si sa che Luca è / sia un ritardatario”;

5c. in generale, le soggettive ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive;

6. le interrogative indirette ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive: “So che Luca è un ritardatario” / “Sai se Luca è / sia un ritardatario?”, “Deve dirmi quale sia la versione migliore”, “Deve decidere chi abbia ragione”;

7. le completive subordinate di secondo grado preferiscono il congiuntivo: “Non sapevo che tu sapessi che io sapessi“, “Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore” (la proposizione sottolineata è una oggettiva), “Mi pare di aver capito che voglia venire“, “Mi pare di aver capito che non voglia venire“.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Bisogna attenersi a quanto affermato dal “Sabatini”: «Se l’elemento negato è anteposto al verbo, questo rifiuta il non: neanche io so come fare»?

«Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» sono le uniche possibilità corrette? Tuttavia mi è capitato di leggere esempi contradditori con quanto appena affermato anche in La luna e i falò.

E se l’elemento di negazione è posposto al verbo: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più»?

 

RISPOSTA:

Sebbene l’italiano richieda, o ammetta, la doppia negazione in alcuni casi («non voglio niente»), la rifiuta in altri, precisamente quando un elemento (avverbio, congiunzione, aggettivo o pronome, a seconda dei casi) di negazione come neanche, neppure, nemmeno, niente, nessuno è anteposto al verbo. Come giustamente osserva Serianni nel cap. VII, par. 193, della sua Grammatica, «questa norma va oggi osservata scrupolosamente, almeno nello scritto formale. Tuttavia, nell’italiano dei secoli scorsi e anche in quello contemporaneo non mancano le deflessioni in un senso o nell’altro», dovute per esempio a forme regionali, di italiano popolare, di trascuratezza, di espressività. Tra le deflessioni, troviamo addirittura Manzoni: «Una di quelle donnette alle quali nessuno, quasi per necessità, non manca mai di dare il buongiorno». Deflessioni, tra i moltissimi altri, in Pavese: «Neanche tra loro non si conoscevano», «neanche qui non mi credevano». Cionondimeno, ciò non altera la norma dell’italiano. Pertanto, «Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» vanno bene, mentre «Neanche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» va evitato. Quando l’elemento di negazione è posposto al verbo, la doppia negazione è ammessa: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più» va altrettanto bene quanto «Non sarebbe un problema anche se dovessimo aspettare di più».

Fabio Rossi

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QUESITO:

I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.

Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:

«Mi mangio la mela»: uso intensivo.

«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.

Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?

 

RISPOSTA:

Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.

Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).

«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».

Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.

«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.

«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.

«Mi vesto»: riflessivo

«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.

Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?

Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?

In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?

Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”

 

RISPOSTA:

La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.

C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».

Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Tutte e tre le varianti sono ammissibili?

“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).

Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?

“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.

La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.

Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase (1) “Possono candidarsi al concorso solo persone che abbiano compiuto i 18 anni di età”, la relativa è definita da alcune fonti condizionale-restrittiva. L’uso del congiuntivo in questo tipo di proposizione relativa è diafasico?

Mi domando se sia anche possibile considerarla una proposizione relativa impropria consecutiva? Volevo provare a modellare altre frasi di questo genere:

(2) Gli anziani che abitino nella zona 5 possono vaccinarsi domani.

(3) Le persone che abbiano paura dei vaccini possono parlare con il rappresentante regionale della sanità. 

(4) Gli anziani che abbiano paura del covid dovrebbero vaccinarsi.

Non sono sicuro se le frase 3 e 4 funzionino con il congiuntivo e sembrano un po’ diverse dalla prima, ma non riesco a descrivere come mai.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa in 1 non è di tipo consecutivo; il congiuntivo al suo interno ha un valore diafasico, ovvero innalza lo stile rispetto all’indicativo. Se sostituiamo abbiano con hanno il significato complessivo non cambia. Bisogna, ovviamente, considerare che i parlanti associano al congiuntivo una sfumatura di eventualità; a ben vedere, però, persone che abbiano compiuto e persone che hanno compiuto descrive esattamente la stessa circostanza. Lo stesso vale per le proposizioni relative nelle altre frasi; queste frasi, però, risultano più forzate perché l’antecedente del relativo è determinato, quindi in contrasto con la sfumatura eventuale associata al congiuntivo.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le proposizioni completive introdotte dalla locuzione “il fatto che” (ma anche da “la notizia che”, “la circostanza che”, “la teoria che” e simili) possano essere costruite tanto con il congiuntivo quanto con l’indicativo, riconducendo la scelta alle preferenze del parlante o al livello di formalità che lo stesso voglia ascrivere all’espressione.

Domando questo perché, effettuando alcune ricerche su internet – anche all’interno di siti attendibili –, mi sono imbattuto in una “indicazione d’uso” secondo la quale tale scelta debba invece essere legata non già alle motivazioni sopra segnalate, bensì al predicato della reggente.

Nel tempo, lo ammetto, non mi sono mai posto questo problema, e il predicato della reggente non mi ha mai condizionato circa il modo da impiegare per costruire la subordinata: ho sempre, e sottolineo sempre, optato per il congiuntivo; ma a questo punto mi chiedo se, talvolta, con questa tendenza possa aver sbagliato.

Negli esempi che mi sono permesso di raccogliere più sotto entrambi i modi sono ammissibili?

1)        Il fatto che in Italia si legga/legge poco, è un dato allarmante che si conferma da anni.

2)        Non ho dubbi sul fatto che tu ti sia/ti sei impegnato.

3)        Il fatto che la squadra sia riuscita/è riuscita a vincere la gara, ci dimostra che l’allenatore sa fare il proprio lavoro.

4)        Non le sfuggì il fatto che anche questa volta fosse stata/era stata la sorella a ingannarla.

5)        Ho compreso il fatto che lui voglia/vuole più tempo per sé.

6)        Il fatto che tu ti sia/ti sei preparato per il colloquio, ti dà maggiori probabilità di ottenere il posto.

 

RISPOSTA:

In tutti gli esempi da lei riportati entrambi i modi sono ammissibili e la differenza tra il congiuntivo e l’indicativo è solo diafasica, ovvero il congiuntivo è più formale, senza alcuna influenza del verbo reggente. Il verbo reggente può spiegare la preferenza per l’indicativo o il congiuntivo, ma in altre completive, non in quelle (dichiarative) da lei segnalate, anche perché le dichiarative dipendono da un sostantivo (fatto, notizia ecc.) non da un verbo. In altre subordinate, come per es. le oggettive, le soggettive e le interrogative indirette, il verbo reggente può determinare la preferenza per il congiuntivo (per es. spero, temo, mi auguro) oppure per l’indicativo (so, si sa). Frasi come «spero che tu vieni» o «so che oggi tu vada al cinema» sono al limite dell’inaccettabile, proprio a causa della violazione del modo atteso dal verbo reggente. A volte addirittura basta una negazione a far scattare la scelta di un modo diverso: «sapevo che eri uscito» / «non sapevo che fossi uscito»; «si sa chi è stato» / «non si sa chi sia stato».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette

1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre

2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre

 

RISPOSTA:

Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.

Le pongo qualche esempio:

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.

In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:

Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.

Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.

Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.

Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.

Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.

Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.

Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.

Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?

 

RISPOSTA:

L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.

  1. a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
  2. b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
  3. c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
  4. d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
  5. e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
  6. f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
  7. g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
  8. h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
  9. i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho sempre visto come corrette delle frasi come «sarebbe impossibile / difficile che tu ce la faresti» o «sarebbe stato impossibile / difficile che tu ce l’avresti fatta».

In particolare la prima venne posta come quesito sul Treccani e tale frase venne giudicata scorretta: https://eur01.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Ft.ly%2FcAH1&data=05%7C01%7Cdico%40unimeit.onmicrosoft.com%7C6e16b9f793c349bff4b108db1c545e1f%7C84679d4583464e238c84a7304edba77f%7C0%7C0%7C638134920903056748%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C3000%7C%7C%7C&sdata=ksgYbWZ1G3CzalQb%2FG%2BomQ7%2Fa%2BcHdSo%2Fl88W%2F%2BRGhhU%3D&reserved=0.

Sinceramente, pensandoci e ripensandoci, non ne capisco il motivo, perché:

-Penso che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).

-Penserei che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).

-Pensavo che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).

-Avrei pensato che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).

Per lo stesso motivo riterrei corrette anche:

-È impossibile / difficile che tu ce la faresti (protasi implicita nella soggettiva).

-Era impossibile / difficile che tu ce la avresti fatta (protasi implicita nella soggettiva).

Seguendo la stessa logica, anche le due frasi iniziali mi sembrano corrette.

Lei cosa ne pensa?

 

RISPOSTA:

Come giustamente spiegato nella risposta del sito Treccani, la protasi implicita («se ci provassi» o «se ci avessi provato») è dipendente dall’apodosi «sarebbe (stato) impossibile / difficile», non certo da «che tu ce la facessi», che dipende, come completiva soggettiva, dall’apodosi stessa. Quindi la frase da lei proposta, al condizionale, è sbagliata, poiché in dipendenza da «è difficile / impossibile» le uniche alternative possibili sono il congiuntivo o, informalmente, l’indicativo: «sarebbe (stato) impossibile / difficile che tu ce la facevi».

In tutti gli altri casi, in cui la completiva è oggettiva e non soggettiva, la protasi sottintesa («se ci provasse / avesse provato») dipende dall’oggettiva stessa, e non dalla proposizione da cui l’oggettiva dipende («penso» ecc.), ecco perché, in questi ultimi casi, il condizionale è ammesso, mentre nei casi da lei proposti no, perché, come ripeto, l’apodosi non è rappresentata dalla soggettiva bensì dal verbo da cui la soggettiva dipende, cioè «sarebbe impossibile / difficile», che infatti è regolarmente al condizionale. Il suo errore è pertanto duplice: 1) nel credere che l’apodosi sia costituita dalla soggettiva (anziché dalla proposizione che regge la soggettiva) e 2) nell’estendere indebitamente il condizionale (già esistente) nell’apodosi alla completiva che ne dipende.

Dunque il condizionale in dipendenza da una soggettiva è sempre impossibile? No, è raro, ma non impossibile. Per es. in dipendenza da verbi che indicano certezza o conoscenza: «È certo / noto che tu potresti farcela», perché in questo caso, effettivamente, la protasi sottintesa dipende dalla completiva: «se ci provassi [è certo che] ce la faresti / potresti farcela». Perché? La risposta, non semplicissima, risiede nel differente statuto semantico-strutturale di verbi impersonali come è noto, è sicuro ecc. rispetto a verbi (con un diverso grado di impersonalità) quali è difficile e simili. Infatti posso trasformare in personale «è noto» con «qualcuno sa» (trasformando dunque la soggettiva in oggettiva), mentre l’unico soggetto possibile di «è difficile» è la stessa cosa che è difficile. Tant’è vero che «è difficile» (e simili) ammette una dipendente implicita («È difficile riuscirci»), mentre «è noto» (e simili) no (*«È noto riuscirci» è inammissibile in italiano).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Trattandosi di una interrogativa indiretta, la correttezza circa gli usi del condizionale e dell’indicativo è fuori discussione: «Vorrei sapere se sarebbe […]».

Il congiuntivo imperfetto è possibile soltanto nel caso in cui si voglia riferirsi al passato, e non esprime quindi contemporaneità: «Vorrei sapere se fosse – tempo addietro, anni prima – […]». Mentre il congiuntivo presente attenua il tono diretto della richiesta espressa tramite l’indicativo.

Ma, se sapere non regge il congiuntivo, come fanno questi ultimi modi a essere leciti?

 

RISPOSTA:

L’interrogativa indiretta implica comunque una non certezza (cioè una modalità epistemica), che autorizza quindi sempre il congiuntivo. Anzi, le grammatiche più tradizionaliste suggeriscono di utilizzare sempre il congiuntivo in tutte le interrogative indirette. Ecco spiegato come mai sapere, che pure di solito regge l’indicativo, nelle interrogative indirette possa reggere (o regga preferibilmente) il congiuntivo. Come al solito, inoltre, il congiuntivo ha comunque un grado di formalità superiore rispetto all’indicativo. Inoltre, non è vero che il congiuntivo imperfetto si possa usare soltanto al passato (o meglio, per la contemporaneità nel passato), perché, nel caso del verbo volere, come spiegato più volte da Luca Serianni e anche nelle nostre risposte di DICO, l’imperfetto congiuntivo è preferibile per via del fatto che l’oggetto del volere subisce una sorta di proiezione al passato (tanto lo vorrei che lo considero già come avvenuto). Tant’è vero che si dice, come nella traduzione italiana del capolavoro dei Pink Floyd, «Vorrei che tu fossi qui» e non «Vorrei che tu sia qui». È vero che ciò accade perlopiù quando volere è usato come verbo autonomo, e non come servile. Tuttavia anche come servile il congiuntivo imperfetto è ammissibile, se non preferibile, con volere. Come opportunamente osserva lei, inoltre, il congiuntivo (e spesso ancor più il congiuntivo imperfetto, con una carica di potenzialità maggiore rispetto al presente, dovuta all’uso nel periodo ipotetico della possibilità) attenua il tono diretto della richiesta, rispetto all’indicativo. Quindi: «Vorrei sapere se fosse disposto ad aiutarmi» oppure «se sia disposto ad aiutarmi», oppure «se sarebbe disposto ad aiutarmi», oppure (più informalmente e un po’ troppo direttamente) «se è disposto ad aiutarmi» o «se era disposto ad aiutarmi». Come vede in quest’ultimo caso, informale, comunque l’imperfetto (sebbene stavolta all’indicativo) serve ad attenuare l’azione proiettandola nel passato.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi hanno sempre insegnato che la congiunzione “semmai“, quando ha valore condizionale, regge il congiuntivo e, talvolta, l’indicativo futuro.
Mi sono recentemente trovato a scrivere, di getto, il periodo seguente:
“Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?“
Magari è un mio limite, ma incontrerei molta resistenza nel sostituire quel trapassato prossimo con il trapassato del congiuntivo (fosse stato).
La grammatica che cosa dice in proposito?
Vi domando inoltre se questa congiunzione ammette tutti i verbi del congiuntivo – quindi anche il presente e il passato –, se il futuro semplice possa essere considerato una variante meno formale – ma ugualmente corretta – del congiuntivo presente e se, infine, il futuro anteriore, al di là della “regola“ cui accennavo più sopra, possa essere incluso nei verbi compatibili, quale alternativa al congiuntivo passato.
Elenco alcuni esempi per illustrare la mia richiesta multipla:
1) Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità.
2) Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia.
3) Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno.
4) Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza.

 

RISPOSTA:

Semmai è un connettivo ipotetico o condizionale (usato anche, qualche volta, come avverbio o per meglio dire segnale discorsivo, col significato di ‘eventualmente’, ‘caso mai’: «Semmai non preoccuparti, ci vedremo un’altra volta») che regge perlopiù il congiuntivo e che si comporta sostanzialmente come la congiunzione ipotetica da cui deriva, cioè se. Come osservato da grammatiche (per es. quella di Serianni) e dizionari (per es. il Sabatini-Coletti nel sito del Corriere della sera), può reggere anche l’indicativo (soprattutto futuro), che rappresenta la scelta meno formale ma comunque sempre corretta.

La sua frase («Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?») va benissimo all’indicativo, e condivido la sua resistenza a volgerla al congiuntivo trapassato, decisamente troppo ricercato e anche meno adatto alla sintassi meno legata e più colloquiale dell’inciso nel quale semmai si trova.

L’uso dei tempi nei verbi retti da semmai dipende dalla consecutio temporum esattamente come se, pertanto sia il presente sia il passato congiuntivo, sia il futuro, vanno bene. Sicuramente l’imperfetto e il trapassato congiuntivo sono i più frequenti, in virtù della loro frequenza nei costrutti che esprimono eventualità: «Semmai avessi tempo potresti passare a trovarmi», «semmai ti fossi ricordato ti passare sarei stato molto contento» ecc. (ma si veda comunque sotto sulla preferibilità accordata a costrutti più semplici e retti da se piuttosto che da semmai).

Il futuro semplice è dunque corretto (ancorché meno formale del congiuntivo), e in determinati contesti anche il futuro anteriore (per indicare anteriorità nel futuro), che però risulta sempre un po’ innaturale, motivo per cui spesso si preferisce il presente (indicativo o congiuntivo) o addirittura il passato prossimo, con proiezione del punto di vista al passato: «Semmai avrai preso un bel voto, ti porterò a Londra», che nella lingua spontanea sarebbe «Semmai prendi un bel voto ti porto a Londra» o «Se/Semmai hai preso un bel voto ti porto/porterò a Londra».

Per quanto riguarda gli altri esempi da lei proposti:

1) «Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità»: entrambi corretti, con una terza possibilità: «… semmai ce ne fosse…», o, ancor più naturale: «Chiamami, se possibile» o «Chiamami se puoi» (quest’ultima è la scelta migliore, più semplice e comune in un italiano sciolto, snello e comprensibile).
2) «Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia». Come sopra. In italiano comune: «Puoi ascoltare la musica, se ti va».
3) «Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno». Come sopra. In italiano comune: «Ti vengo a prendere, se serve».
4) «Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza». In base a quanto già detto, vanno bene entrambe le forme, ma quella al futuro anteriore è abbastanza forzata. La scelta più naturale sarebbe al presente indicativo: «… se/semmai ha lo slancio…».

Tendenzialmente, se è quasi sempre preferibile a semmai, sempre nell’ottica di un italiano fluido e snello. Perché ricorrere a semmai se nella lingua comune (e anche in quella formale) se è molto più comune? Tutti gli esempi da lei fomiti funzionerebbero molto meglio con se. La semplicità nei costrutti è quasi sempre da preferirsi, e non soltanto nell’italiano parlato e familiare. A maggior ragione negli esempi da lei forniti, che si muovono tutti nell’ambito comunicativo della quotidianità: un conto è la (sublime) sintassi arrovellata di Marcel Proust per scandagliare i meandri interiori e sociali, un altro conto è l’inutile complicazione di situazioni normalissime come l’incontrarsi, l’ascoltare musica, il dare un passaggio a qualcuno e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quando si dice “fammi sapere come è andata, come va, come andrà”, quel presente “fammi” è corretto? Tecnicamente l’unico modo corretto non dovrebbe essere “mi farai sapere come andrà”? Un po’ come dire: “Domani vado a correre”. “Andrò”, non “vado”.

 

RISPOSTA:

Fammi non è presente indicativo, bensì imperativo presente e come tale è la forma migliore per formulare una richiesta. Se si vuole rendere la richiesta meno perentoria e più mitigata si possono utilizzare molte forme alternative, una delle quali è il futuro, oppure una perifrasi di questo tipo: «Ti sarei grato se mi facessi sapere come va», «Ti dispiacerebbe farmi sapere come andrà?» e simili.

Tutt’altro discorso è quello del presente indicativo in luogo del futuro, anch’esso perfettamente corretto e da sempre previsto in italiano, in casi come «Domani vado a correre», in luogo di un più formale «Domani andrò a correre», nel quale peraltro il futuro è addirittura ridondante, dal momento che l’avverbio di tempo già colloca inequivocabilmente nel tempo l’evento. Tant’è vero che gran parte delle lingue del mondo non ha il futuro, o lo forma in modo perifrastico (come l’inglese). Anche in italiano, infatti, il futuro è in netto regresso, quasi sempre sostituito dal presente. Per inciso, anche l’origine del futuro in italiano è perifrastica: amare habeo (cioè ‘ho da amare’, ‘devo amare’) > amerò.

In «[Fammi sapere] come è andata / come va / come andrà» tutte e tre le alternative sono corrette, con un crescendo di formalità dal presente (che è la soluzione più informale) al futuro (più formale). Benché apparentemente controintuitivo e controfattuale, anche il passato va bene, perché il locutore, mettendosi nei panni di chi gli darà informazioni quando l’evento sarà già concluso (dicendogli: «è andata bene/male»), lo proietta direttamente nel passato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Ci sono dei casi in cui è possibile usare sia l´imperfetto che il passato prossimo? Ad esempio, come si comportano questi tempi verbali nelle frasi sottostanti? Grazie.

Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte.

Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati.

 

Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato.

Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato.

 

Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva.

Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto.

 

Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici.

 

Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava.

Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore.

 

Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare.

 

Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica , da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola.

 

Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo.

 

RISPOSTA:

La differenza di massima tra imperfetto e passato prossimo è nell’aspetto, ovvero nel modo in cui l’azione e il tempo vengono espressi dal verbo. In questo senso, mentre il passato (prossimo o remoto) indica soltanto che l’evento si è concluso (sebbene le sue conseguenze possano essere ancora presenti e determinanti: ho capito, ho ricordato, ho imparato ecc.), l’imperfetto invece qualifica l’azione come in continuo svolgimento o abituale, sia pur sempre nel passato. L’imperfetto, inoltre, può assumere anche molte sfumature modali (indicando, dunque, l’atteggiamento del parlante/scrivente su quanto sta dicendo/scrivendo), che lo rendono una delle forme verbali più usate in italiano e tale da sostituirsi spesso anche ad altre, come per es. al congiuntivo: «Se mi aiutavi facevamo prima» (equivalente, ma più informale, a «Se mi avessi aiutato avremmo fatto prima»). Fin quei la regola e la giustificazione del fatto che l’imperfetto sia molto diffuso, anche al posto di altre forme verbali. Nell’uso, poi, le cose sono sempre più sfumate, rispetto alle regole rigide. Ecco perché, in molte delle sue frasi, la differenza tra i due tempi verbali (imperfetto o passato prossimo) è minima o quasi nulla, perché quello che cambia è una sfumatura aspettuale (cioè un modo di guardare all’evento) talmente piccola da annullarsi o quasi. Quindi la risposta alla sua domanda è sì, spesso si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo. Analizziamo ora caso per caso per vedere che cosa cambia nell’una e nell’altra opzione.

«Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte»: meglio il passato prossimo, perché l’indicazione di tempo centinaia di volte comunque circoscrive l’evento. L’imperfetto è comunque possibile, perché sottolinea l’abitualità e la ripetitività dell’azione, sebbene il suo uso sia più naturale con un’espressione di tempo che ne indichi, per l’appunto, la ricorsività, per es. tutti i giorni, dieci volte al mese ecc.

«Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati»: il significato è praticamente identico; il far caldo è un evento che si protrae nel tempo (mentre tuffarsi è puntuale), e dunque ben si presta all’uso anche all’imperfetto.

«Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato / Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato». Meglio il passato prossimo (sono tutte azioni puntuali), a meno che non si trasformi all’imperfetto anche «cucinavo uno stufato» e si aggiunga però un’espressione al passato che rappresenti l’evento che si è verificato mentre lei faceva tutte quelle altre cose (espresse all’imperfetto, cioè con continuità mentre si è verificato l’evento); per es.: «Ieri facevo il bucato, pulivo casa e cucinavo uno stufato, quanto è arrivato Gianni e finalmente mi sono riposata».

«Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva / Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto»: pressoché identici: potere, avere le capacità di fare qualcosa ben si prestano ad un uso continuato nel tempo.

«Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici»: decisamente meglio l’imperfetto, dato che l’azione di abitare è continuata e abituale, non certo puntuale.

«Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava»: meglio il passato prossimo, per via dell’espressione di tempo specifica oggi pomeriggio. Andrebbe bene l’imperfetto se seguisse un evento puntuale: «Oggi pomeriggio aspettavo all’aeroporto (cioè: stavo aspettando), quanto mi hanno rubato la borsa».

«Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore»: l’imperfetto non si può usare, perché arrivare è un’azione momentanea: l’aereo è arrivato in un momento specifico. Sorvolo sulle eccezioni in cui anche arrivare potrebbe assumere  una sfumatura continua (per es. «Quando ero piccolo la fine dell’inverno non arrivava mai»).

«Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare»: meglio l’imperfetto (ma il passato è comunque possibile), perché l’essere previsto e l’essere chiuso sono eventi continuati nel tempo e non momentanei.

«Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica, da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola»: è preferibile il passato prossimo perché, anche se il convincersi e l’essere (riferito al fatto) possono essere fotografati nel loro svolgersi continuo nel tempo, in questo caso c’è un singolo elemento (il fatto che l’amica non lavorasse in quel periodo) che ha convinto a prendere la decisione di andare.

«Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo»: vanno bene entrambe le forme, ma il senso della frase cambia lievemente; all’imperfetto indica che queste azioni avvenivano abitualmente, mentre al passato prossimo si suggerisce l’idea di qualcosa di limitato in un tempo. Chiaramente si potrebbe anche aggiungere un elemento temporale al passato: «Per tutto il mese siamo andate in spiaggia dove abbiamo alternato letture e chiacchierate. Con lei è (o era) possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo». E anche altre sfumature di differenza possono essere colte in un testo del genere, che conferma quanto detto all’inizio sulle numerose sfumature aspettuali (e modali) dell’imperfetto. Per es. questo mi mancava molto sottolinea che manchi ancora, mentre in questo mi è mancato molto potrebbe anche darsi che sia mancato fino a questo momento ma che ora non manchi più (dato che le due amiche si sono riviste o si stanno per rivedere). Ma, come ripeto, sono davvero dettagli minimi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle seguenti affermazioni è corretta?

1) penso che loro stanno bene

2) penso che loro stiano bene

Sono più propenso nel linguaggio formale a ritenere corretta la seconda frase, tuttavia la prima può essere usata nel parlato informale confidenziale.

 

RISPOSTA:

È esattamente come osserva lei: nelle completive dipendenti da pensare il congiuntivo è la scelta preferenziale, in quanto più formale, ma l’indicativo non è scorretto, bensì più informale, pertanto possibile in situazioni, come il parlato o lo scritto che si avvicina al parlato, meno sorvegliate.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il quesito di cui vorrei parlare in questo filone è la questione della protasi e apodosi del periodo ipotetico dell’irrealtà all’interno di un’oggettiva / una soggettiva.

Ciò che penso per quanto riguarda le seguenti 3 frasi è che l’unica soluzione corretta è col condizionale, ma a me è capitato di sentire soluzioni differenti dal condizionale:

A-Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto.

B-Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto.

C-Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa.

Sono soluzioni con l’imperfetto indicativo, l’imperfetto congiuntivo e l’infinito.

Io, per logica, come già detto, direi che l’unica possibilità sia quella del condizionale, visto che si parla di una situazione non realizzata (periodo ipotetico dell’irrealtà), ma a pensarci bene, ragionando sui tempi presenti, le possibilità mi sembrano molte di più e tutte (più o meno) accettabili:

-Non penso di pentirmi se lo facessi.

-Non penso di pentirmi se lo faccio.

-Non penso che Mario si arrabbi se passassi.

-Non penso che Mario si arrabbi se passo.

-So che lui arriva se ci fosse pure gli altri.

-So che lui arriva se ci sono pure gli altri.

Che ne pensa delle tre frasi in questione?

Quella che mi lascia più perplesso è la B, che ho sentito in televisione, di sfuggita, in una serie americana doppiata in italiano.

La frase era “non pensavo ti desse fastidio se lo facevo”.

 

RISPOSTA:

Cercando di semplificare il più possibile la casistica da lei presentata, diciamo subito che anche nel periodo ipotetico dipendente vale il divieto di utilizzare il condizionale nella protasi, possibile (ma non obbligatorio) soltanto nell’apodosi. Vediamo ora di commentare alla svelta tutte le frasi.

  1. A) Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto: come al solito, l’indicativo è possibile, ma più informale del congiuntivo.
  2. B) Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto: come sopra. Entrambe le completive di A e B sono possibili anche con il condizionale in quella che di fatto è l’apodosi del periodo ipotetico: «Non pensavo che mi sarei pentito…»; «Non pensavo che ti avrebbe dato fastidio…».
  3. C) Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa: come sopra: indicativo possibile ma meno formale del congiuntivo. Anche qui è possibile il condizionale in apodosi: «… che non saresti dovuta rimanere da sola…».

– Non penso di pentirmi se lo facessi: va bene.

– Non penso di pentirmi se lo faccio: non solo è meno formale, ma implica anche una probabilità maggiore di farlo: se lo faccio non mi pento.

– Non penso che Mario si arrabbi se passassi: non funziona. O si mette il condizionale in apodosi («Non penso che Mario si arrabbierebbe se passassi») o il presente in protasi («se passo»), come nella frase successiva.

– Non penso che Mario si arrabbi se passo: va bene, come pure «…si arrabbierebbe…».

– So che lui arriva se ci fossero pure gli altri: non funziona. O si usa il condizionale in apodosi («…lui arriverebbe…») o si usa il presente in protasi come nella frase successiva.

-So che lui arriva se ci sono pure gli altri: va bene.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Un mio amico mi ha detto che non ci sarebbe stato al mio compleanno, ma che avrebbe voluto esserci. La risposta corretta è: «sarà come tu ci fossi» oppure «sarà come tu ci sia»?

 

RISPOSTA:

Si presume che la festa non ci sia ancora stata, pertanto la risposta, con il verbo reggente al futuro, richiederebbe, in teoria, il presente e non l’imperfetto, che invece implicherebbe un riferimento al passato. Del resto, il futuro è allineato al presente nella consecutio temporum, e se il verbo reggente fosse al presente avremmo il congiuntivo presente nella subordinata: «(adesso) è come se tu ci sia» (o, informalmente, «come se tu ci sei»). Tuttavia, le comparative ipotetiche (introdotte da come se, con possibile ellissi di se) hanno per l’appunto una forte componente ipotetica che rende pienamente giustificabile (e tutto sommato preferibile) anche l’alternativa al congiuntivo imperfetto, in analogia con quanto avviene nel periodo ipotetico della probabilità: «se tu ci fossi sarebbe bello». Proprio per la carica epistemica (comunque tu non ci sei), dunque, qui anche l’imperfetto congiuntivo è corretto, e anzi preferibile: «è come (se) tu ci fossi», «sarà come (se) tu ci fossi».

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.

«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».

C’è qualche regola da seguire?

Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.

Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».

 

RISPOSTA:

In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).

Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.

«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».

«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nelle frasi sotto riportate, l’articolo e la proposizione, a seconda dei casi, posti tra parentesi, sono facoltativi (e quindi corretti) oppure errati?

La loro presenza nel testo, specie nel caso dell’articolo dei primi due esempi, modifica, anche lievemente, il senso generale del messaggio; oppure non c’è differenza tra le frasi complete e quelle ellittiche?

1) (Il) pensarti mi fa star bene.

2) (Il) leccarsi le ferite è un inutile atteggiamento di autocompatimento.

3) Mi spiace (di) non essere venuta alla festa.

4) Cerco (di) te.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte ben formate, sia con l’articolo (o la preposizione), sia senza. Nessuno dei quattro casi è però configurabile come ellissi, perché si tratta di costrutti alternativi e dotati di loro autonomia senza dover ipotizzare la caduta di un elemento. Nei primi due casi, addirittura, la trafila storica è esattamente al contrario: prima nasce la forma senza articolo, poi quella con articolo.

1) e 2) È sempre possibile trasformare un infinito in un infinito sostantivato, mediante l’aggiunta dell’articolo. Non c’è alcuna apprezzabile differenza semantica tra l’interpretazione come infinito sostantivato e l’interpretazione come completiva soggettiva; stilisticamente, la variante con l’infinito sostantivato è un po’ più pesante, dunque meno adatta a un contesto formale.

3) Le due frasi sono del tutto equivalenti. In molti casi l’italiano presenta alternative nella reggenza verbale, con o senza preposizione. La forma senza preposizione è la più antica (cioè come il latino, che non ammetteva la preposizione davanti all’infinito), mentre quella con la preposizione è più recente; quella con la preposizione è meno formale.

4) La forma con di è decisamente rara e ha anche una sfumatura semantica diversa: ‘chiedere di qualcuno’: «cercano dell’avvocato Rossi», cioè chiedono se c’è l’avvocato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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QUESITO:

All’epoca, dopo che era avvenuta quella disgrazia, eravamo come foglie che il vento…

  1. a) portasse via
  2. b) portava via.

Suppongo che entrambe le soluzioni siano valide.

Mi chiedo però se la differenza tra l’una e l’altra sia di tipo (come insegnate voi) diafasico, oppure se essa sia di tipo semantico.

 

RISPOSTA:

Come al solito, la differenza è essenzialmente di tipo diafasico (più formale il congiuntivo, meno formale l’indicativo), ma, come spesso avviene, le ragioni diafasiche non escludono quelle sintattiche e/o semantiche. In questo caso, in virtù della frequente associazione del congiuntivo (soprattutto imperfetto) a contesti ipotetici quali la protasi del periodo ipotetico, la versione al congiuntivo conferisce al periodo da lei segnalato una sfumatura epistemica (cioè di probabilità o possibilità), quasi a sottolineare che il vento può portare via (o anche non portarle) quelle foglie. Ricordo che le relative al congiuntivo possono assumere sfumature varie (finali, consecutive, epistemiche ecc.). Nel caso specifico, però, c’è davvero bisogno di indicare che il vento può portare o non portare via le voglie? Non è in certo qual modo ovvio dal contesto semantico complessivo? Occorre sempre chiedersi se il congiuntivo sia necessario o no, magari se sia un mero sfoggio di “bello stile” (in realtà retaggio di certe malintese pseudonorme scolastiche). Inoltre, sempre a proposito di stile, non sarebbe molto meno faticoso il periodo senza proposizione relativa? Cioè così: «…eravamo come foglie al vento».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho diverse domande sull’uso dei modi nelle subordinate.

1. L’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo ha una valore diafasico nelle completive?

2. Per quanto riguarda la proposizione relativa, nelle frasi seguenti il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo senza cambiamento di significato?

a. E poiché il denaro, in America come altrove, si guadagna in mille modi ma difficilmente con lo studio delle lettere e delle arti e alle lettere si dedicano volentieri soprattutto i facoltosi che vi siano inclinati (Soldati, America primo amore).

b. La stazione della vecchia Delhi di notte è uno di quei posti dove un viaggiatore che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).

c. Per un professionista sessantenne, che a suo tempo abbia fatto buoni studi superiori ma poi si sia occupato di altro – poniamo di import-export o di ortopedia –, la storia sarà probabilmente la disciplina che si interessa di guerre… (Serianni, Prima lezione di grammatica, p. 3).

d. Ho sentito storie da favola su tante notti passate all’aperto, non un problema che sia uno, tutto liscio come nei film (Daniele Mencarelli, Sempre tornare, p. 34).

e. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (Corriere della Sera, 31 gennaio 2023, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?).

f. Era l’unico che avesse la qualità per farlo.

3. Nella frase “Ho trovato qualcuno che potrebbe / può aiutarci” il congiuntivo possa non va bene. È vero?

4. Nei prossimi esempi la scelta tra il congiuntivo e l’indicativo è libera?

I ragazzi che non studino / studiano bene la lingua italiana non riusciranno a lavorare come giornalisti.

Un ragazzo che non studi bene….

5. Nella seguente frase è possibile sostituire pigliassero con pigliavano senza cambiare la semantica?

Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo (Pavese, La luna e il falò, p. 109).

6. In questi esempi la relativa è investita di un senso ipotetico di improbabilità?

Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia.  (Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, p. 46).

Un viaggiatore armato di binocolo che si trova / si trovi a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia (frase da Ammaniti modificata).

 

RISPOSTA:

1. Nei casi in cui l’alternanza è possibile (quindi esclusi i casi in cui è obbligatorio usare o l’indicativo o il congiuntivo) essa ha valore diafasico: la variante con il congiuntivo è più formale di quella con l’indicativo.

2. Nelle proposizioni relative a-d il congiuntivo ha ancora valore diafasico. Nell’esempio e la relativa è consecutivo-finale (un’intelligenza artificiale che possa prendere = un’intelligenza artificiale tale da poter prendere); la variante all’indicativo presenterebbe il poter prendere come fattuale. L’esempio f presenta una relativa apparentemente consecutiva, ma in cui, invece, il congiuntivo ha valore diafasico (avesse = aveva). Consecutivo-finale sarebbe una frase come “Era l’unico che avesse la possibilità di farlo; mentre, infatti, la qualità è certamente posseduta dal soggetto, e non può essere rappresentata come un’acquisizione possibile, la possibilità è per definizione un’acquisizione possibile.

3. Nella frase l’uso del congiuntivo è impedito dal verbo trovare al passato, che presenta l’antecedente qualcuno come certamente reale. Si noti che la relativa consecutivo-finale al congiuntivo sarebbe possibile se al posto di trovare ci fosse, per esempio, pensare (“Ho pensato a qualcuno che possa aiutarci”) e anche se il verbo trovare fosse presente (“Trova qualcuno che possa aiutarci”), perché in quel caso qualcuno non sarebbe certamente reale, ma sarebbe ipotetico.

4. Nella frase con l’antecedente i ragazzi la relativa al congiuntivo è molto innaturale, perché l’antecedente è determinato e complessivamente la frase è di formalità media. In quella con l’antecedente singolare si possono usare entrambi i modi, perché l’antecedente è indeterminato; in questo caso non sarebbe facile stabilire se il congiuntivo avrebbe valore diafasico o la funzione di rendere la relativa consecutiva: le due funzioni si sovrapporrebbero.

5. L’indicativo si può sostituire al congiuntivo, ma cambia il significato della frase. Il congiuntivo, infatti, è attratto dalla proposizione finale reggente (per non avere i sergenti che mi pigliassero in giro = affinché i sergenti non mi pigliassero in giro); l’indicativo darebbe, invece, alla relativa la funzione di qualificare fattualmente l’antecedente.

6. Nella frase originale che si trovasse = se si trovasse; nella frase modificata l’alternanza ha un valore simile a quello della seconda frase dell’esempio 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.

– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.

– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)

– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile

– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.

– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.

– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.

– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.

– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.

– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).

– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.

– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.

– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.

– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.

 

RISPOSTA:

Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:

– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.

Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.

 

– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).

In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.

 

– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.

L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.

 

– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.

Esclusa fosse.

 

– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.

Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.

 

– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.

Tutte le forme sono possibili.

 

– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).

Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).

 

– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.

Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.

 

– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.

In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).

 

– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.

La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.

 

– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.

Impossibile avessimo trovato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un discorso racconto o poesia,  passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?

 

RISPOSTA:

In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:

«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?

«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»

O ancora:

«Perché non si è intervenuto/i prima?».

 

RISPOSTA:

Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.

I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nel mio lavoro da copywriter, creo spesso delle campagne pubblicitarie per i social, la carta stampata e le affissioni.

Nelle “headline” (i titoli delle campagne pubblicitarie) io non metto mai il punto, a meno che non sia un punto interrogativo o esclamativo.

Tantissimi altri miei colleghi invece lo fanno.

Ad esempio nella headline “La colazione dei campioni” secondo me il punto non ci va. Mentre altri lo mettono.

Ho ragione io, hanno ragione i miei colleghi, o è una scelta stilistica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei: nei titoli di norma il punto non va. È pur vero che, soprattutto nella testualità online, lo stile la fa da padrone, come anche l’espressività, le consuetudini scrittorie (mutate) e le attese dei lettori. Motivo per cui taluni argomentano sostenendo che il punto può conferire maggiore perentorietà, sicurezza, affidabilità (come a dire: punto e basta, so quello che dico e che offro). Per queste ragioni, all’opposto, in altri tipi di testo il punto viene bandito anche fuor dai titoli: se ha esperienza di testualità nei social, sa come un punto alla fine di un post di fb o di un messaggio whatsapp può rompere amicizie e amori (è successo più volte veramente), perché viene interpretato come una chiusura all’altro, un atto di violenza, una rottura del rapporto.

Cionondimeno, da affezionato tradizionalista alla testualità analogica, mi sento di suggerirle di rimanere fedele alla nostra vecchia e amata norma di non mettere mai il punto fermo alla fine di un titolo. Punto (ma sia qui detto e scritto senza alcuna ostilità, anzi…)

Fabio Rossi

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QUESITO:

Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.

Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli  è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza?

Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.

Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.

 

RISPOSTA:

I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta  piacergli la pizza.

In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».

Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Causa la mia ignoranza vorrei sapere con certezza se in questo slogan pubblicitario la mancanza del congiuntivo sia da considerarsi errore (da bocciatura) o se invece è corretto così com’è per quanto possa forse suonare male o poco abituale:

NON VOGLIAMO CHE TU INVESTI. VOGLIAMO CHE INVESTI MEGLIO.

Ora, INVESTA, suonerebbe meglio; ma non è forse anche artificioso, o comunque non obbligatorio, nel senso: questa frase, la cui reggente è all’indicativo, non richiederebbe, nella subordinata, sempre l’indicativo? In considerazione anche del fatto che la frase sì esprime una speranza, un desiderio, ma la sua forma però è assertiva, imperativa. La forma con cui non avrei dubbio alcuno se usare il congiunto sarebbe la seguente e la più corretta (ma per nulla adatta allo slogan): NON VORREMMO CHE INVESTISSI TANTO. VORREMMO CHE INVESTISSI MEGLIO.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta, ma non per una questione di suono, bensì di sintassi e di stile. Senza dubbio la versione al congiuntivo è più formale, ma il significato di entrambe le frasi è identico. Nelle subordinate completive (come quelle dipendenti da voglio) sono ammessi tanto il congiuntivo (più formale) quanto l’indicativo (meno formale). Per il resto, la sua spiegazione non è corretta: non c’entra (quasi) nulla il modo verbale della reggente. Decisamente da preferire il congiuntivo nella seconda frase: «Vorremmo che investissi…». Altresì giusta la riflessione che l’indicativo nella prima frase renda forse meglio la decisa volontà che le persone investano. Però, ripeto, a governare l’uso del congiuntivo è più il registro di formalità che la semantica, per cui, per evitare di sentirsi dare dell’ignorante dai puristi, le suggerirei comunque la forma al congiuntivo «vogliamo che investa».

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo è corretto l’uso dei verbi e della punteggiatura: 1) «Ci siamo incontrati al corso di musica quando avevano tre o quattro anni: al primo impatto volevo stargli alla larga, perché era scatenato quasi come le persone che entrano in campo da calcio durante una partita. Con il passare delle lezioni capii (ho capito) che era un bravo bambino ed è da lì che diventammo (siamo diventati) amici».

Inoltre è meglio scrivere: 2) «oltre ad essere/oltre a essere»; 3) «io sto/sono simpatico a lui e viceversa»?

 

RISPOSTA:

1) Tutto corretto, sia al passato remoto sia al prossimo, e con la giusta punteggiatura. In alternativa ai due punti si possono usare il punto e virgola o il punto. 2) Del tutto equivalenti. 3) Sono è la scelta più formale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Premetto che sono un cantautore e si tratta di una frase di un nuovo testo di una canzone. Non riesco a capire se è corretta o meno, ho chiesto anche a mia moglie diplomata al liceo classico e laureata in lingue…

La frase è la seguente: «Direi, anche una frase ti direi se la ricorderai».

Per questioni di metrica deve essere così, il dubbio è se grammaticalmente devo usare necessariamente «se la ricordassi». Il significato non vuole essere retorico, ovvero non voglio dire che non ti dico una frase perché poi non te la ricordi ma è quasi interrogativa, ovvero se tu mi prometti, o mi dici che la ricorderai allora quasi quasi ti direi anche una frase…

 

RISPOSTA:

Il verso va benissimo, è corretto e anche efficace: l’indicativo nel periodo ipotetico è sempre possibile, ancorché meno formale del congiuntivo. Inoltre, in questo caso, oltre ai motivi metrico-poetici (già validissimi di per sé, in una canzone), c’è anche una ragione semantico-pragmatica, cioè la (quasi) certezza, la garanzia, del ricordo: devi proprio promettermi «me la ricorderò».

Fabio Rossi

Parole chiave: Lingua letteraria, Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette e ben scritte, e se non lo sono, perché. Tra parentesi inserisco i punti che mi interessano:

1) Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre, ecc. (necessaria)

2) Chi è senza, non usa le dovute maniere. (La virgola).

3) Piuttosto che: “Il lavoro nobilita l’uomo”, dovresti dire ecc. (Il “piuttosto che” con discorso diretto)

4) La scuola non solo ti insegna tante cose, ma ti dà la possibilità di conoscere tante persone. (Nessuna virgola dopo “scuola”).

5) Gli uomini hanno costruito le strade per spostarsi. (Hanno costruito).

6) Nel mondo di oggi la vita è pervasa da ecc. (L’assenza della virgola dopo “oggi).

 

RISPOSTA:

Su alcune si queste abbiamo già pubblicato una risposta, ma la ripetiamo in sintesi.

1) Necessario: qui l’accordo non è con amica, ma con avere un’amica.

2) La virgola può andare, per segnalare l’ellissi, che tuttavia è strana (per l’ellissi e per l’adiacenza senza non), quindi sarebbe bene evitarla (l’ellissi e conseguentemente anche la virgola) prima di aver nominato l’oggetto in forma piena. Per esempio: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarne uno», in questo caso senza virgola, per non separare il soggetto dal predicato.

3) Va bene ma elimini i due punti, perché non è né un vero e proprio discorso diretto (piuttosto la citazione di un proverbio) né un elenco, sibbene una frase linearizzata, senza bisogno di staccarne i costituenti.

4) Senza dubbio senza virgola: mai separare il soggetto dal predicato.

5) Corretta. Costruite sarebbe ridicolmente pomposo e arcaico.

6) Senza virgola, per carità: mai separare il soggetto…

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Mi sorge un dubbio. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? Questi è mio cugino oppure questo è mio cugino?

Se dico: mio cugino fa il falegname. Questi è molto bravo nel suo lavoro.

Oppure si deve usare questo?

 

RISPOSTA:

Questo è più informale, questi è molto formale. Tuttavia nel suo esempio sono inappropriati entrambi, perché non c’è alcun bisogno di ribadire il soggetto nominato tre parole prima. Quindi l’unica frase adatta è la seguente: «Mio cugino fa il falegname. È molto bravo nel suo lavoro» (oppure «ed è molto bravo…»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio riguardo l’utilizzo del congiuntivo nella frase che riporto qui sotto:

«ci vediamo domenica per chi ci fosse».

In un gruppo di persone che si ritrovano ogni fine settimana per delle gare sportive c’è una di queste che, dando appuntamento per la domenica successiva, dice «ci vediamo domenica per chi ci fosse».

Non è più corretto «per chi ci sarà»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, quella al congiuntivo è più formale. Trattandosi di una relativa con sfumatura potenziale/ipotetica (alcune persone possono esserci oppure non esserci) il congiuntivo sottolinea proprio questa eventualità, che però è lievemente ridondante, visto che la semantica della frase esprime già di per sé (visto che nessuno può prevedere il futuro e che non ci si può vedere con chi non c’è) il fatto che le persone possono esserci o no. Alla base della scelta del congiuntivo imperfetto è il seguente periodo ipotetico soggiacente alla semantica dell’intera frase: se ci foste (domenica prossima), ci vedremmo, altrimenti non ci vedremmo. Che però, in uno stile lievemente meno formale, può essere espresso anche così: se ci siete (o sarete) ci vediamo (o vedremo).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Molti amici italiani mi dicono che non devo dire frase (1) quando fissiamo un appuntamento per fare un’altra chiacchierata nella settimana prossima.

(1)     Se non riuscissi a parlare (nella data fissata) ti scriverei.

Volevo usare questo tipo di ipotesi per indicare che è improbabile che non ci sia. è sbagliato?

So che posso esprimere (1) come

(1a) Nel caso in cui non riuscissi a parlare ti scriverò.

Domanda 1: Quale potrebbe essere il problema con il mio uso della frase (1)?

Nel Corriere della Sera (29/10/22), ho trovato questo esempio che sembra non seguire le regole del periodo ipotetico:

(2) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……

Capisco che vuol dire

(2a) Nel caso in cui i dati  del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……

Domanda 2:  l’uso del l’imperfetto del congiuntivo in (2) permette il futuro nella frase conseguenza?  Non trovo nessun esempio nei miei libri.

Domanda 3 Se (2) viene scritta come (2b) cambia il significato?

(2b) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterebbe la liberta delle persone……

 

RISPOSTA:

 

1) La frase va bene. Anche 1a va bene: la 1 è leggermente più formale ed entrambe lasciano aperta la possibilità che lei non possa riuscire a parlare nella data stabilita, oppure che possa.

2) Stessa cosa: le frasi vanno tutte bene sia col condizionale (che è la scelta più canonica per il periodo ipotetico della possibilità), sia col futuro, che contamina la possibilità con la realtà (è cioè un periodo ipotetico misto). Le sfumature sono molto sottili e non da tutti percepite allo stesso modo. Diciamo che, in linea di massima,  in entrambi i casi del gruppo 1 e del gruppo 2, la scelta del futuro sembra rendere più probabile il verificarsi dell’ipotesi e quindi della conseguenza, mentre viceversa il condizionale sembra rendere molto più improbabile sia l’eventualità del non riuscire a parlare, sia quella del peggioramento dei dati del Covid. La presenza di anche (anche se), inoltre, esclude in ogni caso che il governo limiti la libertà, sia col futuro sia col condizionale.

Rilegga bene Serianni e gli altri libri di grammatica: casi di periodo ipotetico misti sono sempre ammessi, in italiano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».

«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.

Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?

 

RISPOSTA:

Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla coniugazione del verbo mangiare.

Se dico parlando di me stesso: se pensi che (io) non mangi il dolce ti sbagli…

È corretto riferendomi a me stesso dire “non mangi” o bisogna dire “non mangio”?

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le forme. Non mangi è congiuntivo e costituisce dunque l’opzione più formale, in una subordinata completiva; non mangio è indicativo e costituisce dunque l’opzione meno formale ma comunque corretta.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

E’ giusto scrivere: “Quadri orario o quadri orari” , “Moduli orari o moduli orario”?
 

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le soluzioni, in italiano. L’una, più tradizionale (quadri orarimoduli orari), tratta il secondo termine come aggettivale e dunque lo accorda col sostantivo precedente, mentre l’altra (più sul modello inglese, e dunque forse meno apprezzata in uno stile più tradizionale) tratta orario come sostantivo con ellissi della preposizione reggente: cioè quadro orario = quadro dell’orario. I sintagmi con omissione della preposizione (come anche, ad es., monte ore), ancorché ammissibili, hanno spesso un sapore tra il tecnologico e il burocratico sgradito ai palati più raffinati e pertanto, se possibile, potrebbero essere utilmente sostituiti dai costrutti più tradizionali (quadri orarimoduli orarimonte orario ecc.).

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quando il verbo essere viene usato in una costruzione tipo il fatto è che, dato che essere è un verbo copulativo, non è possibile che la proposizione introdotta dal pronome che sia un’oggettiva, è vero? Il fatto diventa il predicato nominale? 
Prendiamo questo esempio: “Sono contento che sia andata così”. Qui abbiamo il verbo copulativo essereIo è il soggetto, giusto? Contento sembra un predicato nominale, giusto? La proposizione dopo il che non può essere una soggettiva anche se il verbo nella prima frase è essere: come mai? È a causa del predicato nomiale contento o a causa del soggetto io? O è qualcos’altro? 
Prendiamo questo esempio dal libro Il francese di Massimo Carlotto:

Si era convinto che quella bella ragazza non POSSEDESSE altro che il suo corpo (p. 9-10).
 
Sembra un’altra proposizione oggettiva (dopo che). Non riesco a capire come mai non è scritto “Si era convinto del fatto che quella bella ragazza non possedesse altro che il suo corpo”. Quale tipo di proposizione segue il che nella frase scritta da Carlotto?

 

RISPOSTA:

La copula non può reggere il complemento oggetto, quindi se la reggente è il fatto è o espressioni simili la subordinata è soggettiva. In effetti questa subordinata potrebbe rappresentare sia il soggetto del verbo essere (per esempio “Il fatto è che non voglio venire” = “Che non voglio venire è il fatto”), sia il completamento del predicato di cui fa parte il verbo essere (che non potremmo chiamare predicato nominale, visto che sarebbe formato dalla copula più un’intera proposizione); per semplicità, comunque, la consideriamo soggettiva (e in nessun caso oggettiva). Nella frase “Sono contento che sia andata così” la proposizione subordinata non può fare da soggetto del verbo essere: in questo caso il soggetto della reggente non può che essere io e il predicato nominale è sono contento. L’aggettivo contento può essere completato da un argomento preposizionale (che prende il nome di oggetto obliquo), per esempio sono contento del risultato, oppure da una proposizione argomentale (ovvero completiva) oggettiva. L’aggettivo convinto ha la stessa costruzione di contento: può reggere un argomento preposizionale (per esempio sono convinto della mia opinione) o una proposizione oggettiva, come nel suo esempio. Nella variante della frase sono convinto del fatto che… l’aggettivo convinto è completato dall’argomento preposizionale del fatto, il quale, a sua volta, regge una proposizione argomentale. Questa proposizione può essere classificata ancora come oggettiva, se consideriamo convinto che equivalente a convinto del fatto che, oppure (come farei io) dichiarativa, visto che è retta non da un verbo, ma dall’argomento di un verbo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi una frase la cui correttezza mi è stata contestata a torto, secondo il mio parere: “Che sia la prima e l’ultima volta che vi permettete di agire in questo modo”. La frase corretta sarebbe: “Che
sia la prima e l’ultima volta che vi permettiate di agire in questo modo”.
Quest’ultima formulazione a me pare inaccettabile, comunque ci terrei molto a conoscere il vostro parere a riguardo.

 

RISPOSTA:

Come giustamente dice lei, la sua frase è corretta e non richiede affatto la sostituzione dell’indicativo col congiuntivo, che è tuttavia possibile. Essa, oltre, come la solito, a innalzare il livello diafasico della frase, le conferisce un valore potenziale: “che vi permettiate”, nel senso di ‘qualora pensaste di potervelo permettere un’altra volta’… Dato il senso della frase, tuttavia, questa sfumatura potenziale è del tutto superflua, perché di fatto “ve lo siete già permesso”.
Insomma: la sua è la versione migliore della frase e chi gliel’ha corretta mostra di non avere le idee chiarissime sul funzionamento dell’indicativo e del congiuntivo in italiano.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato.  (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
 Le ho risposto:  Spero che tu CI abbia portato dei soldi.    
Intendevo “a Madrid” per CI.     E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano.  Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male.   E’ una questione del verbo?  E’ locuzione?  Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire).  Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”  
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?

 

RISPOSTA:

Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario. 
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.

Fabio Rossi 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Di che tipo sono le seguenti proposizioni introdotte da che, e come mai la prima è costruita con l’indicativo e la seconda con il congiuntivo?
(1) Il lato positivo è che è andata bene
(2) Ciò che conta è che io riesca a uscire di casa.  

 

RISPOSTA:

Le due proposizioni sono soggettive; possono essere interpretate, infatti, come il soggetto del verbo essere della reggente. La scelta del modo verbale in queste proposizioni, come anche nelle altre completive, è legata a ragioni prima di tutto stilistiche: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. Entrambe le proposizioni possono, infatti, essere costruite con l’indicativo e il congiuntivo: “Il lato positivo è che sia andata bene”; “Ciò che conta è che io riesco a uscire di casa”. Oltre alla ragione stilistica, altri fattori possono spingere a usare l’indicativo o il congiuntivo. Primo fra tutti è la cristallizzazione dell’uso, cioè l’abitudine dei parlanti di costruire una certa costruzione tipica sempre allo stesso modo: nella prima frase, per esempio, il lato positivo è che somiglia alla costruzione tipica è che o il fatto è che, che normalmente sono seguite dall’indicativo. Il congiuntivo, inoltre, può veicolare, in alcuni casi, una sfumatura di non fattualità, ovvero di eventualità, possibilità, incertezza: nella seconda frase, per esempio, che io riesco a uscire sarebbe facilmente interpretato come la constatazione del fatto che il parlante può effettivamente uscire; che io riesca a uscire, invece, sarebbe interpretato come la proiezione della possibilità nel futuro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Da giorni mi tormenta l’analisi di questo periodo:
“Quanto più egli ha fatto al di là del proprio merito, tanto più è ritenuto degno
di ammirazione”.
È corretto dire che si tratta di due principale legati dalla correlazione “quanto
più… tanto più “?
 

 

RISPOSTA:

Sì, sono due proposizioni coordinate dalla coppia di congiunzioni correlative quantotanto.

Fabio Rossi 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se l’espressione “credo che Dio esiste” in sostituzione di “credo che Dio esista” (che ritengo esatta) è corretta o meno. Nel primo caso (“credo che Dio esiste”)quel “credo” non ha il significato di “suppongo”, ma quello di “sono fermamente convinto” e quindi mi sembrerebbe che anche questa via espressiva possa essere accettata.

 

RISPOSTA:

Su questo problema del congiuntivo/indicativo in dipendenza da credo, e anche sull’esempio specifico, può leggere un libro che dirime la questione in modo chiaro: S. C. Sgroi, Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet, 2013. In breve: l’indicativo può sempre sostituirsi al congiuntivo, in italiano. La differenza non risiede nel valore di dubitatività del congiuntivo, rispetto a quello di certezza dell’indicativo, bensì nel maggior grado di formalità del congiuntivo rispetto all’indicativo.
Quindi credo che Dio esiste/a sono entrambe frasi corrette e non hanno nulla a che vedere con l’ipotesi o la certezza. Nel senso che il verbo credere può valere tanto ‘essere sicuri’, quanto ‘ipotizzare’ indipendentemente dal modo verbale che segue, ma solo in base al contesto.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi introdotte da “non è un caso che“ si possono costruire anche con il modo indicativo? Personalmente, ho sempre e soltanto adoperato il congiuntivo, ma effettuando una consultazione in rete, ho riscontrato che l’indicativo spopola, anche in seno ad autori di indubbia fama.

Vorrei inoltre domandarvi se questo sintagma accetta tutti i tempi del congiuntivo, oppure se sussistano delle limitazioni d’uso.

  • Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.

  • Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.

  • Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.

A proposito di quest’ultimo esempio, quale dei due tempi è da preferire? Potrebbero essere ammessi entrambi?

 

RISPOSTA:

Come quasi sempre accade in italiano, le ragioni per preferire il congiuntivo all’indicativo solo esclusivamente di tipo diafasico, non sintattico. Detto in parole più semplici: l’indicativo al posto del congiuntivo va quasi sempre bene, fin dalle origini dell’italiano, solo che conferisce al testo un livello di formalità più basso rispetto al congiuntivo. Pertanto, in tutti i suoi esempi retti da non è un caso che (o se) va bene anche l’indicativo, che è però più informale.
Le regole della consecutio temporum sono sempre le stesse: presente per contemporaneità nel presente tra le due proposizioni, imperfetto per contemporaneità nel passato, passato per anteriorità dipendente dal presente, trapassato per anteriorità dipendente dal passato. Questo a rigore, anche se poi in questo come in altri casi è ammessa una certa flessibilità, data anche dalla reggente che di fatto si comporta quasi come un avverbio o un complemento (si è cioè quasi grammaticalizzata: non è un caso che/se = non a caso).
Veniamo ora al commento dei suoi casi specifici uno per uno.

  • Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.

    Come già detto, risieda rappresenta la scelta più formale, risiede quella meno formale ma altrettanto corretta.

  • Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.

    parlasse formale, parlava informale. Per quanto riguarda il tempo verbale, l’imperfetto in questo caso non si motiva per la contemporaneità nel passato, visto che siamo qui in regime di anteriorità in dipendenza dal presente, bensì dalla natura continuativa, e non puntuale dell’azione: lo parlava abitualmente, non una volta soltanto. Infatti se usassimo il passato (abbia parlato / ha parlato) il senso della frase cambierebbe: lo ha parlato una sola volta, in un momento specifico.

  • Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.

    Meglio abbia sconfessato (anteriorità, in dipendenza dal presente: non è un caso), ma avesse sconfessato non può dirsi scorretto. Il trapassato (sia indicativo sia congiuntivo) oggi sempre più spesso può sostituirsi al passato, per motivi non semplicissimi da individuare.

    Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In quali casi è corretto il SE con il condizionale?
Es. ‘Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere’ è corretta?
Come si chiama, in questo periodo, la subordinata introdotta dal SE?

 

RISPOSTA:

Di norma, se + condizionale si usa nelle interrogative indirette per esprimere un rapporto di posteriorità, cioè quando l’oggetto della domanda è futuro rispetto alla richiesta. Per es.: “Mi chiedo se mi daresti una mano”; Mi chiedevo se mi avresti dato una mano”.
In rari casi il condizionale dopo se si può usare anche nelle ipotetiche, come quella da lei segnalata, che però, di fatto, sembra un’ipotetica ma in realtà è un avversativa:
“Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”, che in uno stile più formale sarebbe espressa con mentre: “Mentre potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
In questo caso (cioè in una ipotetica con valore di avversativa), l’imperfetto congiuntivo (cioè il tempo e il modo corretti se fosse stata un’ipotetica pura) sarebbe scorretto:
*”Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
Se fosse un’ipotetica pura sarebbe per es. così:
“Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, probabilmente lo faremmo”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo

Marco non era a casa
Marco non c’era a casa

Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?

 

RISPOSTA:

“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Propongo questa frase: “Qualora ciò dovesse accadere, per la presenza di un fanatico che agisce (o agisse?) in modo sconsiderato, sarebbero guai”. A me sembra più corretto dire agisse perché, nell’ambito dell’ipotesi (l’esistenza del fanatico), l’azione sconsiderata non è del tutto scontata. Comunque, non essendo certo di ciò, ci terrei a conoscere il suo parere al riguardo.
 

 

RISPOSTA:

Sono possibili sia agisce sia agisse. Il presente indica semplicemente che il fanatico agisce nel presente (con una proiezione nel futuro). Si può anche sostituire l’indicativo con il congiuntivo agisca, che eleva il registro. L’imperfetto agisse ha un significato ambiguo: può avere valore temporale o può dipendere dall’attrazione dell’imperfetto dovesse della proposizione reggente. Nel primo caso esso indica che il fanatico agiva nel passato; nel secondo caso si riferisce al presente e assume la stessa sfumatura ipotetica di dovesse. La prima interpretazione è un po’ forzata, considerando la costruzione di tutta la frase: se il fanatico agiva nel passato, è preferibile descrivere questa situazione con l’indicativo imperfetto (… per la presenza di un fanatico che agiva in modo sconsiderato…).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta la frase “non so se sarei capace di farlo”?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta: la proposizione se sarei capace di farlo è una interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro richiesto dall’occasione comunicativa.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

(1) C’è un modo per controllare se le informazioni scritte sul sito per i DVD sono siano sbagliate?
Il congiuntivo presente viene anche accettato? Qual è la ragione grammaticale se siano viene accettato?

(2) E come spiegare che un Nero su cinque abbia votato Trump? (Rampini, Fermare Pechino, p. 269).
È una proposta soggettiva e questa è la ragione per cui il congiuntivo va bene nella proposizione principale? È uguale a E come si spiega che

 

RISPOSTA:

Nella prima frase vanno bene sia l’indicativo sia il congiuntivo; il secondo è la soluzione più formale. Nella seconda frase nella principale non c’è un congiuntivo ma un infinito (spiegare). La presenza dell’infinito si spiega con l’omissione del verbo servile potereE come si può spiegare…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto questa frase e vorrei approfondire l´uso dei verbi in presenza di un pronome indefinito.
“L’otto febbraio era prevedibile da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Mi stavo chiedendo quale sarebbe il significato assunto dal congiuntivo trapassato, forse di evento passato ipotetico ed eventuale?
Se invece dicessi da chiunque aveva assistito, l´evento é passato è avvenuto?
Potrei anche usare il condizionale passato (da chiunque avrebbe assistito) per esprimere il futuro nel passato? Sarebbero possibili altri tempi?

 

RISPOSTA:

Le proposizioni relative introdotte da pronomi indefiniti reggono preferibilmente il congiuntivo; l’indicativo, però, è corretto: “L’otto febbraio era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”. La differenza tra le due forme è che l’indicativo è meno formale: il significato delle frasi rimane uguale. Il condizionale passato non può essere usato in questa relativa, perché il ventitré gennaio precede l’otto febbraio, quindi non si giustifica la posteriorità rispetto al passato. La struttura standard della proposizione non ammette altre forme verbali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Propongo questa frase: “Oggi sto bene, a differenza di ieri che avevo 38 di temperatura”. Quel che può essere accettato o è indispensabile sostituirlo con quando

 

RISPOSTA:

Si tratta di un che polivalente (sul quale può leggere la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO), molto frequente nella varietà di lingua usata comunemente nel parlato e nello scritto informale. In una frase come questa, quindi, è accettabilissimo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase seguente:
“A proposito di quello che si insegna nelle aule di medicina e CHE né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano esserne a conoscenza”
ovviamente sarebbe stato meglio scrivere di cui al posto di che: ma è proprio sbagliato?

 

RISPOSTA:

Nella frase il pronome relativo indiretto è sostituito dalla forma base che; la funzione sintattica persa a causa della sostituzione è recuperata inserendo il secondo pronome, ne, nel corpo della frase (esserne). La variante standard, quindi, richiede in cui al posto di che e essere al posto di esserne…e di cui né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano essere a conoscenza.  
Costruzioni come questa sono sempre più comuni nell’italiano contemporaneo (la persona che te ne ho parlato = di cui ti ho parlatola festa che non ci sono andato = alla quale non sono andatoil collega che ci ho pranzato insieme ieri = con cui / insieme a cui ho pranzato ieri ecc.), favorite dal vantaggio di usare i pronomi che e tutti quelli personali, ad alta funzionalità, quindi più facili da ricordare e scegliere correttamente per i parlanti, al posto delle forme indirette del pronome relativo, a bassa funzionalità, quindi più complicate. Non solo non sono previste dallo standard, ma comportano un uso dei pronomi contrario alle regole della sintassi; per questo sono da considerarsi trascurate e da evitare in contesti anche di media formalità.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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QUESITO:

Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?

 

RISPOSTA:

Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Due amiche si incontrano di domenica. Una vuole organizzare una festa per il sabato seguente e l’altra le confermerà la sua partecipazione o meno il giorno dopo, dicendole: “Te lo dirò domani, se verrò o meno alla tua festa”. Purtroppo non dice nulla il lunedì. Si incontrano poi il martedì e viene pronunciata questa frase: “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere ieri se saresti venuta sabato alla festa”.   

Potrebbe essere corretta? Oppure sarebbero preferibili altri tempi verbali? Per esempio “Mi hai detto che me lo avresti fatto sapere ieri se vieni / venivi / verrai / fossi venuta sabato alla festa”.

In aggiunta, sono corrette queste altre frasi?

Te lo avrei detto, se sarei venuta o meno.

Te lo avrei detto, se fossi venuta o meno

 

RISPOSTA:

La frase “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato saresti venuta alla festa” è corretta (anche se un po’ complicata). In questa frase la proposizione se sabato saresti venuta alla festa è una interrogativa indiretta; questo tipo di proposizione richiede il condizionale passato se descrive un evento successivo a un altro evento passato, proprio come in questa frase. Anche la proposizione che lunedì me lo avresti fatto sapere ha la stessa caratteristica, e infatti è correttamente costruita con il condizionale passato. Quindi: Domenica mi hai detto [= dire è un evento passato] che lunedì me lo avresti fatto sapere [= fare sapere è un evento successivo a dire, ma è comunque passato] se sabato saresti venuta alla festa [= venire è un evento successivo a fare sapere]. Il condizionale passato può essere sostituito dall’indicativo imperfetto (non dal futuro verrai né dal congiuntivo trapassato fossi venuta): “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato venivi alla festa”; e persino “Domenica mi hai detto che lunedì me lo facevi sapere, se sabato venivi alla festa”. Per scegliere se usare l’indicativo imperfetto o il condizionale passato bisogna considerare che il significato della frase rimane uguale con entrambe le forme verbali, ma l’indicativo imperfetto è più informale, cioè adatto a contesti privati. Aggiungo che la frase così costruita indica che se saresti venuta alla festa è un argomento già toccato in precedenza nella conversazione, perché è anticipato dal pronome lo. Se, invece, le due amiche si sono appena incontrate, quindi non hanno ancora parlato dell’argomento, la frase sarà costruita così: “Domenica mi hai detto che lunedì mi [non me lo] avresti fatto sapere se sabato saresti venuta alla festa”.

Per quanto riguarda le ultime due frasi, la prima è analoga a quella che abbiamo commentato adesso, quindi è corretta alle stesse condizioni. La seconda è anche corretta, ma ha un significato diverso: in questo caso la proposizione introdotta da se non è una interrogativa indiretta, ma una ipotetica e indica che la persona non è andata alla festa (che è già passata) e che, se fosse andata, avrebbe avvisato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?

 

RISPOSTA:

Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Il mio dubbio riguarda il verbo riapparire alla terza persona singolare del passato remoto.
Infatti, in luogo dei correntemente usati riapparve/riapparse, vorrei poter usare anche riapparì, che in certi casi mi suona più gradevole. Sarebbe un errore oppure è ammissibile?

 

RISPOSTA:

Decisamente troppo desueto, letterario, al punto da risultare errato, se usato fuori contesto (cioè fuor di letteratura volutamente arcaizzante).
Delle tre forme di passato remoto di apparire l’unica comune, e dunque l’unica consigliabile, è apparve, come suggerisce lo Zingarelli, mentre apparì è marcato come letterario e apparse come raro.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale  ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?

 

RISPOSTA:

Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o compratauna casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.  

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle due costruzioni riportate, è preferibile il congiuntivo o l’indicativo, oppure, anche in questi casi, la scelta è libera?
– Le confermo che le cose sono/siano andate così.
– Lei davvero mi conferma che le cose sono/siano andate così?

 

RISPOSTA:

Ancorché tendenzialmente più formale, come al solito, la scelta del congiuntivo, in questi casi, è al limite dell’inaccettabile, dal momento che un verbo come confermo, soprattutto nella prima frase, preferisce di gran lunga l’indicativo (la seconda, essendo interrogativa, mette in dubbio la certezza della conferma): “Ti confermo che hanno vinto la partita”. Sarebbe davvero strano “Ti confermo che abbiano vinto la partita”, anche se non scorretto.

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Vorrei inoltrarvi due quesiti.
Il primo di questi riguarda la negazione “né”.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato negli uffici, né (che) abbia subito modifiche.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né (che) sia stata presentata ad altri uffici?
– Senza essere stato nominato né aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere?
Le tre costruzioni sono corrette dal punto di vista sintattico? I “che” indicati tra parentesi nelle prime due sono consigliati, errati o a discrezione dello scrivente?

 

RISPOSTA:

 significa letteralmente ‘e non’, quindi si può usare soltanto in frasi che richiederebbero, se non coordinate, un non inziale. Senza non equivale a non, sebbene esprima, ovviamente, l’idea negativa della privazione. Dunque se a senso, e nell’italiano informale, le alternative da lei proposte sono accettabili, non lo sono a rigore secondo l’italiano atteso in un testo formale. Eccone le possibili riscritture, che tengono conto anche della richiesta sull’uso di che e di altri fattori.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato prima negli uffici e senza che abbia subito modifiche. In questo caso andrebbe aggiunto un prima, forse: se la notizia può essere diffusa, come potrebbe non circolare? Inoltre, l’intera frase è davvero molto faticosa (anche a causa di quel sia circolato, che tra l’altro andrebbe preferibilmente cambiato in abbia circolato). Eccone una possibile variante più elegante, più chiara e meno burocratica: La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana; prima di allora, non potrà circolare negli uffici né essere modificata.
–  Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né [il che non si ripete quasi mai, in coordinazione a precedente proposizione con che] sia stata presentata ad altri uffici (oppure: e che non sia stata presentata ad altri uffici). Questa frase è davvero strana: perché mai una domanda non dovrebbe contenere richieste specifiche, dal momento che è, per l’appunto, una domanda, cioè una richiesta? Insomma, il primo requisito di un testo è che dica cosa sensate, non senza senso, di là dalla forma in cui è scritto.
– Senza essere stato nominato e senza aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere? Anche qui si può esprimere lo stesso concetto in modo più chiaro, elegante e meno faticoso: Un autore che non abbia presentato domande ad altre competizioni può presentare le sue opere?

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..

 

RISPOSTA:

Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi capita spesso  di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?

 

RISPOSTA:

Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmimi sto preparandomi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Chiedo, cortesemente, se il seguente testo va bene: “Gent.mo Dirigente F,
sono con la presente per comunicarLe che nel mese di giugno mi ha contattato/sono
stata contattata il Dirigente S. e mi ha comunicato/ che mi ha comunicato  che il
prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato
anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga
conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “
 

 

RISPOSTA:

Diciamo che lo stile burocratico come al solito è sgradevolmente quanto inutilmente pomposo, e la sintassi delle alternative che propone non sempre è corretta. Ecco una possibile riscrittura, con le relative varianti.
“Gent.mo dirigente F.,

nel mese di giugno mi ha contattato il dirigente S. [oppure: sono stata contattata dal dirigente S.] e mi ha comunicato che [oppure: il quale mi ha comunicato che; oppure: comunicandomi che] il prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “

Fabio Rossi

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QUESITO:

Grazie. Questo uso dell’imperfetto nella lingua parlata per attenuare una cosa –
in quale parte della grammatica viene specificata?  Ho una ventina di libri i
grammatica e non l’avevo mai visto.  C’e’ una citazione da Serianni o
qualcun’altro?
Dice che e’ simile a una cosa che ho trovato anni fa quando un amico mi ha
scritto.
“Avrei gia’ preso un appuntamento a quell’ora  per attenuare l’atto di dirmi che
non e’ stato possibile parlarmi e soddisfare la mia richiesta?”   L’esempio non e’
lo stesso, ma l’uso qui dell condizionale composto viene usato per attenuare una
cosa di questo tipo (l’ho trovato nella grammatica di Serianni).
 

 

RISPOSTA:

Si tratta di valore modale (o più specificamente epistemico, o attenuativo) dell’imperfetto, studiato da decenni da numerosissimi linguisti quali Carla Bazzanella, Le facce del parlare (La Nuova Italia), oppure alle pp. 82-83 della Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi e Cardinaletti, volume secondo (il Mulino), oppure anche nei nostri volumi Rossi-Ruggiano, Scrivere in italiano, oppure L’italiano scritto (Carocci). E moltissimi altri autori che non sto qui a elencarle. Per usi del genere, le consiglio di rivolgersi a studi più specialistici piuttosto che alla pur ottima (ma tradizionale, scolastica e generale) Grammatica del mio maestro Luca Serianni.
Sì, ha ragione, gli usi modali ed epistemici, o semplicemente attenuativi (come definiti a p. 82 del secondo volume del Renzi-Salvi-Cardinaletti) dell’imperfetto sono simili a quelli del condizionale, in certi contesti.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica

QUESITO:

Ho trovato quest’esempio nel libro <>, p271, casa di editrice  La nave
di Teseo, scritto da Sandro Veronesi:
– Dov’eri?
– Da uno che abita qui di fronte.
– Hai un amico che abita proprio qua? Che culo.
– No, l’ho conosciuto solo oggi. Tu, piuttosto: che ci fai qui?
– Niente, passavo ……
– OK, sono venuta per via della telefonata di prima. Vorrei sapere perché mi hai
chiesto quelle cose.
– Quelle sul disco?
– Te l’ho detto: era una sciocchezza, una curiosità  
La mia domanda è, come mai ha scelto l’imperfetto invece di “è stata una
sciocchezza”?  Qual è la sfumatura qui? Come cambia la semantica tra il passato
prossimo e l’imperfetto?  Il passato prossimo sarebbe sbagliato?  Secondo me
riferisce a un’azione completa nel passato, cioè la telefonata, non una cosa che
durava.
E’ possibile che Veronesi ha scelto l’imperfetto per indicare che la sciocchezza
dura ancora nel presente?   Pensavo che si può fare una cosa del genere soltanto
in una costruzione con una proposizione completiva, ad esempio <<Ho sentito che
eri a Roma>>  (dove eri potrebbe indicare  Ho sentito che sei (il presente) a Roma
in questo momento).

In Treccani e’ spiegato:
<<b. In senso concr., azione, parole da sciocco, cosa fatta o detta in modo
sciocco, senza adeguatamente riflettere: ho fatto la sc. di fidarmi di loro; è
stata una vera sc. aver rifiutato la sua offerta; non dire sciocchezze!
 

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla fine della sua richiesta. In questo caso sciocchezza non vale come “cosa da sciocchi”, bensì come “cosa da nulla”, cioè di nessuna importanza, uso comunissimo nell’italiano colloquiale.
Qui l’imperfetto non indica assolutamente l’aspetto dell’azione né tantomeno la sua durata, ma è uso modale tipico del parlato, con valore di attenuazione. E’ come se dicesse: “E’ solo una sciocchezza, è giusto una sciocchezza”. Quindi sarebbe andato bene anche il presente. Non va bene, invece, il passato prossimo, perché lascerebbe quasi intendere una collocazione al passato che invece non è appropriata al contesto, in cui non importa il quando (se una cosa è priva di importanza lo è sempre, non solo in relazione al tempo in cui è avvenuto l’evento che si definisce senza importanza).
Per capire bene la differenza, consideri questo esempio analogo:
Ti ho chiamato ieri ma tu non hai risposto. Comunque non preoccuparti, perché non è/era nulla di importante”. Sarebbe anomalo (e quindi sbagliato, nel senso di “non naturale in italiano”) dire “non è stato nulla di importante”, perché, come ripeto, l’essere poco importante è una constatazione generale svincolata dal tempo.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Siamo studenti di italiano e ci stiamo imbattendo in una questione riguardante l’evoluzione dei dialetti italiani. Sappiamo che l’italiano standard evolve quotidianamente mentre ci chiediamo se anche i dialetti subiscano influenze. Dunque, vorremmo sapere se e come i diletti possono essere influenzati.
Inoltre ci stiamo chiedendo se nella frase sopra sia corretto usare o meno il congiuntivo: subiscono o subiscano.

 

RISPOSTA:

I dialetti sono lingue come l’italiano, il francese o il cinese. La differenza tra una lingua e un dialetto non è nel funzionamento, ma nell’ampiezza d’uso: i dialetti sono usati da comunità ristrette che hanno anche un’altra lingua, l’italiano, con la quale comunicano a un livello più ampio e in contesti ufficiali.
Anche i dialetti evolvono, quindi, e subiscono l’influenza dell’italiano e delle altre lingue (e in misura ridotta influenzano l’italiano e persino le altre lingue). 
I rapporti tra l’italiano e i dialetti sono molto complessi, tanto che vengono scritti diversi libri ogni anno su questo argomento: non è possibile, quindi, sintetizzare la questione in una breve risposta. In generale possiamo dire che l’italiano si è diffuso tra tutta la popolazione, anche come lingua del parlato informale, non solo per lo scritto ufficiale e letterario, a partire dalla seconda metà del Novecento. Da allora i dialetti hanno cominciato a perdere funzionalità, ovvero a essere usati sempre meno anche in famiglia e tra amici. Questo processo ha rallentato l’evoluzione dei dialetti, impoverendone il lessico e riducendo il numero dei parlanti nativi di queste lingue, ovvero delle persone che nascono in famiglie in cui queste lingue si parlano spontaneamente (anche se la situazione è diversa da regione a regione e tra le città e le zone rurali). Da qualche decennio si nota un nuovo interesse per i dialetti: sono nati movimenti e associazioni che vogliono salvare queste lingue dalla morte. Queste iniziative potrebbero portare, in futuro, a recuperare non solo la conoscenza dei dialetti, ma anche l’uso.
Per quanto riguarda la seconda domanda, nella vostra frase vanno bene sia subiscono sia subiscano. Il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ovvero più adatto a contesti ufficiali, specialmente scritti: in questo contesto, quindi, è preferibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito della frase

“La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA / DOVREBBE essere”,

qual è la forma più diffusa, debba o dovrebbe? Dipende dalla regione? C’è una differenza nella semantica tra l’una e l’altra? C’è una condizione non espressa quando si usa dovrebbe? Possiamo esplicitarla?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra congiuntivo e condizionale nella proposizione comparativa non dipende dalla regione di provenienza del parlante, ma dal registro e dalla semantica. Da una parte, infatti, il congiuntivo è la scelta più formale, dall’altra il condizionale veicola l’idea che il parlante si aspetterebbe una situazione diversa, quindi rimarca la sua posizione di contrarietà. Potremmo esplicitare la condizione sottintesa così: “La lingua italiana è più complessa di quanto dovrebbe essere (se le cose andassero come mi aspetto / in un mondo ideale)”. La capacità del condizionale di far risaltare l’atteggiamento emotivo del parlante favorisce ulteriormente l’uso di questo modo rispetto al congiuntivo in contesti colloquiali; è ragionevole, pertanto, supporre che il condizionale sia più comune del congiuntivo, almeno in contesti informali. Per esserne certi, però, si dovrebbe fare uno studio statistico sulla base di un grande corpus.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho avuto modo di leggere questo periodo: “Tu, all’epoca, eri un bambino: avresti dovuto avere cinque o sei anni”.
Ho attribuito al predicato avresti dovuto avere valore dubitativo, come se l’autore non fosse certo dell’età dell’interlocutore. Vi domando se la scelta di ricorrere al condizionale (composto) sia legittima; oppure, per tale finalità comunicativa, si sarebbe dovuto propendere per l’indicativo.
Mi si sono presentate alla mente due soluzioni che vorrei confrontare con quella sopra indicata: quale tra le tre vi sentireste di suggerire, sempreché tra esse ve ne sia almeno una rispondente all’interpretazione che ho dato alla frase d’origine?
1. Dovevi avere cinque o sei anni.
2. Avevi, se non sbaglio, cinque o sei anni.

 

RISPOSTA:

La sua interpretazione della frase è corretta: il verbo dovere è usato qui con valore epistemico (quello che lei definisce dubitativo), cioè per esprimere l’incertezza dell’emittente circa la verità di quello che sta dicendo. Dal momento che l’evento, o meglio lo stato, di cui l’emittente non è certo è passato, ci si aspetta che egli usi l’imperfetto, come nel suo esempio 1. La scelta del condizionale passato non è impossibile, ma in questo contesto sembra un po’ pleonastica, perché aggiunge alla sfumatura di incertezza già presente nel verbo servile dovere quella condizionale propria del modo. Il suo esempio 2, infine, è pure corretto e tutto sommato equivalente agli altri due: in questo caso l’espressione dell’incertezza è affidata non al verbo dovere ma alla proposizione incidentale se non sbaglio. In termini di registro, quest’ultimo esempio è il più formale, visto che l’uso epistemico del verbo dovere è proprio di un contesto colloquiale, anche se non trascurato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Secondo diverse fonti l’uso del congiuntivo in una proposizione comparativa è normale. Volevo confermare come cambi la semantica nelle frasi:
(1a) La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare (congiuntivo presente).
(1b) La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare (indicativo presente).
(2a) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettassi.
(2b) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettavo.
Molte fonti non distinguono tra il congiuntivo e l’indicativo, ma secondo Treccani “è di regola il congiuntivo, che serve proprio a segnalare la frustrazione dell’attesa; l’indicativo è tuttavia attestato nei registri di media e bassa formalità; il condizionale può comparire occasionalmente con valore ipotetico”.
Per quel che sappia, un verbo al condizionale è anche ammesso per dare una sfumatura ipotetica alla frase. Volevo sapere se le mie interpretazioni sono corrette:
(3a) La metro funziona peggio di come avrei potuto immaginare.
Per me vuol dire che non ci ho pensato prima, cioè con la condizione se ci avessi pensato sottintesa.
(3b) La metro funziona peggio di come avessi potuto immaginare
funziona anche ma non è ipotetica. Stavo pensando a quello prima di averla presa.
Siamo arrivati al mio domandone:
Come mai gli italiani con cui parlo dicono che queste frasi siano sbagliate:
(4a) La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA essere.
(4b) La lingua italiana è più complessa di quanto POSSA essere.
Molti mi dicono che devo usare dovrebbe potrebbe. Non riesco a capire quali siano  la condizioni. Per me (4a e b) esprimono la mia opinione… ma ovviamente se DEBBA non è ammesso sbaglio io. Sono quasi sicuro che abbia a che fare con il verbo dovere (e anche con potere).

 

RISPOSTA:

Comincio dalla fine, confermando che le frasi 4a e 4b sono corrette nella forma da lei usata, e sarebbero corrette anche con il condizionale e con l’indicativo. Non so perché i suoi amici le abbiano definite sbagliate, ma è piuttosto comune che i parlanti confondano il proprio uso e il proprio stile con le regole della lingua. Allo stesso modo, sono corrette tutte le altre frasi che lei porta come esempi, come già confermato dalla citazione del sito Treccani. Rispetto a quest’ultima, sottolineo soltanto che il senso di frustrazione associato al congiuntivo è soggettivo: la frase “La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare” non comunica necessariamente maggiore frustrazione di “La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho comprato il libro scritto da Professor Ruggiano, Uno sguardo sul verbo: forme, usi, varietà, e non trovo un esempio dell’uso dell’infinito come viene usato in esempio (a).
(a) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava – e io immaginavo il fiume là sotto RUGGIRE al buio, GONFIARSI fino a ESODARE dai tombini.  (Le Otto Montagne scritto da Paolo Cognetti)
(1) Posso trasformare la frase in modo esplicito cosi’ (almeno lo penso):
(a1) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava — e io immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
(2) L’uso dell’infinito nella prima frase (a) è “standard”?   (a1) e’ corretta?
Ho trovato in altri siti esempi dell’uso dell’infinito (non trovato nel libro di Prof Ruggiano)  con i pronomi relativi preceduti con una preposizione:  
(b) Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto.  
(2) Come posso trasformare la frase (b) in una frase esplicita.
 

 

RISPOSTA:

Il primo caso da lei sottoposto è quello, molto comune e del tutto corretto in ogni livello di italiano, dell’infinito retto da verbi di percezione, che può essere reso con due strutture equivalenti: 1) una relativa, 2) una completiva:
1)  immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
2) Immaginavo […] che il fiume là sotto ruggisse […].
Anche l’altro uso dell’infinito da lei segnalato è del tutto comune e corretto in ogni livello di italiano. Si tratta di un uso ellittico:
“Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto”
Sta per:
“Cerco una ragazza a cui possa regalare la mia vecchia moto”, che è ovviamente una subordinata relativa esplicita. Nel primo caso, il verbo servile è sottinteso, o ellittico.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le sarei molto grato se mi chiarisse un dubbio relativo a questa frase: “Era sempre solo. Amici non ne aveva”. Quel “ne”, che sento usare regolarmente in frasi di questo tipo, mi suona bene, però  mi lascia
perplesso perché dovrebbe stare per “di amici”, ma allora la frase diventerebbe: “amici non di amici aveva”. Una affermazione insensata. Gradirei sapere se quel “ne” è da considerarsi corretto.
 

 

RISPOSTA:

Il costrutto, tipico dell’italiano informale e colloquiale e dunque non scorretto in assoluto  ma sicuramente inadatto all’italiano formale, si chiama “tema sospeso” e consiste nel riportare il tema, o topic, dell’enunciato all’inizio per poi riprenderlo mediante un clitico, ovvero particella pronominale atona. Naturalmente il clitico è pleonastico e il tema qui non ha valore di soggetto bensì di complemento oggetto (duplicato da ne). Molto prossimo a questo costrutto è un altro, sempre di anticipazione del tema, o topicalizzazione, denominato “dislocazione a sinistra”: “di amici non ne aveva”.
Il corrispettivo formale, o quantomeno non informale, delle due espressioni è “non aveva amici”.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

sare il verbo “vedere” nel senso di “accorgersi di qualcosa” seguito da DI+infinito (anziché CHE+indicativo) è un errore? Es. “Ho visto di aver dimenticato il pane in macchina”.

 

RISPOSTA:

No, la frase è perfettamente corretta; sicuramente è più adatta a una situazione informale piuttosto che a una formale, ma in nessun caso la frase citata può essere considerata scorretta, dal momento che non viola alcuna regola grammaticale della lingua italiana.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta e perché l’altra non lo potrebbe essere? E se fossero entrambe corrette, che diverso significato acquisirebbero nel relativo contesto?

1) se fossi certo che (così facendo) tutto finirebbe allora approverei senza dubbio.
2) se fossi certo che tutto finisse allora approverei senza dubbio.

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva che tutto finirebbe / finisse ammette entrambe le costruzioni, senza una percepibile variazione di significato. L’unica differenza è di registro: la variante con il congiuntivo è più formale. Al limite della trascuratezza, sebbene possibile, sarebbe la costruzione se fossi certo che tutto finisce…
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il c’è presentativo, come nella frase “c’è da fare”, si può ritenere proposizione principale?
 

 

RISPOSTA:

A rigore le proposizioni sono due, come due sono i verbi. Pendiamo una frase un po’ più credibile: non c’è niente da fare. Da analizzarsi come segue:
Non c’è niente: principale
da fare: subordinata soggettiva.
In altri termini, la struttura è del tutto omologa a: non bisogna fare niente. Non bisogna: principale; fare niente: soggettiva.
Da un punto di vista più elastico, però, essendo il costrutto col c’è presentativo del tutto cristallizzato in italiano, possiamo anche considerare l’intera espressione come un’unica proposizione.
Oltretutto, a favore di quest’ultima interpretazione, remano anche frasi con verbi modali che costituiscono un’unica proposizione: non è da fare (= non deve essere fatto), non va fatto (= non deve essere fatto), non ho da fare (non devo farlo) ecc., in cui il primo verbo funziona come modale o servile e dunque non costituisce proposizione autonoma bensì parte del predicato di un’unica proposizione.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
 

 

RISPOSTA:

Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologicoMario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malatoMario ha questa malattia ecc.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Quando si scrive una lettera o una mail (come questa ad esempio), dopo l’intestazione, andando a capo io sono abituato a scrivere la parola successiva con prima lettera in minuscolo.
Tuttavia vedo che molti nelle lettere altamente formali procedono mettendo la lettera maiuscola.
Es:   Gentile Rossi Mario,
        Con la presente sono ad informarLa…

Anche in Cordiali Saluti molti mettono entrambe le parole maiuscole…

 

RISPOSTA:

Poche sono le regole certe sull’iniziale maiuscola; il suo uso è legato soprattutto a convenzioni più o meno stabili e deduzioni ragionevoli. A proposito delle e-mail formali, che possiamo assimilare alle lettere cartacee, iniziare il corpo della lettera, subito sotto l’intestazione, con la lettera miniscola è coerente con la presenza, alla fine dell’intestazione, della virgola, che non è seguita di norma dalla lettera maiuscola. C’è da considerare, però, l’a capo che separa l’intestazione dal corpo della lettera, tipicamente seguito dalla maiuscola. Tra le due motivazioni direi che più forte è la virgola, che implica l’iniziale minuscola; non mi sentirei, però, di condannare come scorretta l’iniziale maiuscola. Per quanto riguarda la doppia maiuscola in Cordiali Saluti (senza considerare l’eventuale precedenza del punto fermo, che ovviamente richiederebbe la maiuscola per Cordiali), siamo di fronte a un uso enfatico di questo tratto grafico, del tutto soggettivo e legato allo stile personale; si tratta di una scelta non impossibile (proprio perché l’uso della maiuscola è poco regolato), ma difficilmente giustificabile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti frasi ci sono proposizioni relative; in tutte e tre le frasi c’è la sfumatura di eventualità (e forse ipotetica nella prima):
“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
“Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
“Non mi piacerebbe un cagnolino che non mi venisse incontro quando rientro a casa”.
Le mie domande:
1. il pronome relativo che in tutte e tre le frasi è improprio?
2. Quando troviamo una proposizione relativa che con un verbo al congiuntivo, il relativo è sempre considerato improprio?
3. Se la risposta è sì, penso che ci siano soltanto due possibilità: valore finale o valore consecutivo. Giusto?
Ho delle difficoltà a individuare una che improrio con valore consecutivo: è più facile per me individuare un valore finale. Quindi mi domando:
1. quando c’è un congiuntivo nella proposizione relativa, non è possibile considerare il che un relativo proprio? 
2. Quando una proposizione con un che relativo ha il verbo al congiuntivo e sicuramente non ha valore finale, posso concludere che è una consecutiva?
3. Se la risposta è sì, possiamo concludere che le relative in queste due frasi hanno valore consecutivo?
“Non c’è niente che tu possa fare”.
“Marco è il ragazzo più simpatico che io conosca”.

 

RISPOSTA:

Innanzitutto bisogna ricordare che il pronome che non è mai detto improprio. In tutte le frasi da lei proposte (tranne l’ultima, come vedremo alla fine) ha sempre la funzione di pronome relativo, e tale funzione non può che essere propria. Sono, piuttosto, le proposizioni relative nel loro complesso a essere definite da alcuni improprie quando assumono un significato non esattamente relativo, ma assimilabile a quello di altre proposizioni. L’etichetta improprio, si noti, non è precisa, perché fa pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nella costruzione di queste proposizioni, che invece sono del tutto regolari. Le proposizioni relative con un significato vicino ad altre proposizioni possono essere:
consecutive (cerco un centro di gravità permanente che [= tale che] non mi faccia mai cambiare idea, cantava Franco Battiato nella canzone Centro di gravità permanente);
causali (ho prestato a Luca il libro che mi [= perché me loaveva richiesto con insistenza);
concessive (Luca, che [= anche se] non voleva venire, alla fine si è divertito.
Per quanto riguarda il significato finale, esso è di solito contemplato nelle grammatiche, ma, come dice lei, è quasi indistinguibile da quello consecutivo. Per semplicità, si può parlare di significato consecutivo-finale.
Come si può vedere, l’interpretazione speciale della proposizione relativa non è collegata al modo congiuntivo: le relative con significato causale e consecutivo, infatti, richiedono l’indicativo. Inoltre, l’uso del congiuntivo nella proposizione relativa non produce necessariamente un significato speciale, ma a volte serve soltanto a elevare il registro della frase. È il caso della prima delle sue ultime frasi, nella quale il significato non cambia se sostituiamo il congiuntivo con l’indicativo (“Non c’è niente che puoi fare”), anche se l’antecedente indefinito niente fa propendere senz’altro per il congiuntivo nella relativa. L’ultima frase, invece, contiene non una proposizione relativa, ma una comparativa, che serve a esprimere il secondo termine di un paragone ed è introdotta dalla congiunzione (non dal pronome) che. Per la precisione, anche nella proposizione comparativa il congiuntivo serve a elevare il registro; se lo sostituiamo con l’indicativo il significato non cambia: “Marco è il ragazzo più simpatico che conosco”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

vi scrivo per chiedervi aiuto per aggiungere qualche dettaglio ulteriore a un testo che ho scritto, senza che questo diventi troppo dispersivo. In più, volevo chiedervi gentilmente se si può eliminare qualche piccola sbavatura o ripetizione. 

Il testo è il seguente:

“Per un po’ mi tieni dentro la tua bocca; poi mi sputi fuori, facendomi finire tra le lenzuola del tuo letto. Poco dopo lasci cadere attorno al mio minuscolo corpicino diverse cascate della tua bianca e densa saliva: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano. 

Volevo scriverlo di nuovo aggiungendo che la ragazza alterna momenti in cui lascia colare la saliva mentre tiene le labbra socchiuse e altri mentre tira fuori ed estende la lingua lungo il mento, solo che non so come inserirlo: temo che spendendo 4/5 frasi in più si possa appesantire il periodo. Oltre a ciò, volevo sapere se attorno al mio corpicino fosse posizionato correttamente nella frase, così come conoscere dei sinonimi per dire attorno a me oppure attorno al mio corpicino
Avevo pensato a questa variante, però non so se possa risultare pesante da leggere: 

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri mentre estendi / allunghi [non so quale dei due termini sia più appropriato] la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.

 

RISPOSTA:

La seconda versione del testo è ben scritta e non pesante da leggere. Per quanto riguarda attorno al mio corpicino, è ben posizionato e può essere sostituito da varianti come intorno al mio piccolo / minuscolo corpo o simili. Espressioni sostitutive più sofisticate sono sempre possibili (il corpo può essere metaforizzato variamente, oppure al posto del corpo si possono nominare, metonimicamente, le braccia, le gambe, la testa), ma sono scelte che modificano lo stile e in parte anche il significato del testo, per cui sono di pertinenza dell’autore. Anche la scelta tra estendi e allunghi non è decidibile su base grammaticale, ma riguarda la semantica e lo stile: estendere è proprio di ambiti tecnico-specialistici e in questo contesto sembra un po’ forzato, ma potrebbe essere scelto proprio per questo valore lievemente straniante. Per la sintassi, suggerisco la seguente correzione, che elimina la difficoltà del collegamente tra altri e mentre:

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri in cui estendi / allunghi la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In un post di un’economista ho trovato questa frase che mi ha creato molti dubbi.
“Nonostante tutto quello che si scriva e che si dica, sono orgogliosa di come l’Italia e gli italiani abbiano reagito”.
Questa frase è corretta?
Si possono sostituire tutti i congiuntivi con l’indicativo? Per me è più naturale dire sono orgogliosa di come hai risolto la situazione o hai reagito, perché è un dato oggettivo. Avrei usato l’indicativo anche dopo nonostante tutto quello che, anche se so che dopo nonostante ci vuole il congiuntivo.

 

RISPOSTA:

Nella frase che lei ha letto i congiuntivi si scriva e si dica sono effettivamente al limite dell’accettabilità; sarebbe meglio sostituirli con le forme equivalenti dell’indicativo. Questi verbi non sono, infatti, inseriti in proposizioni concessive introdotte da nonostante (nonostante tutto quello è un sintagma nominale che fa parte della reggente), ma si trovano all’interno di proposizioni relative (che si scrive e (che) si dice), che qui, come nella maggioranza dei casi, richiedono l’indicativo. Al contrario, il congiuntivo abbiano reagito all’interno della proposizione interrogativa indiretta è del tutto corretto; l’indicativo hanno reagito sarebbe una variante ugualmente legittima, ma meno formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

vorrei farvi una domanda relativa al congiuntivo trapassato e al trapassato prossimo dell’indicativo.
Se non sbaglio, questi tempi necessitano di un altro passato al quale agganciarsi per essere giustificati (a meno di non essere usati in frasi autonome, nel caso esclusivo del congiuntivo).
La domanda è questa: annullando lo stacco temporale che stabilisce cosa è avvenuto prima di cosa, sarebbe possibile sostituire il congiuntivo trapassato con il passato e il trapassato prossimo con il passato prossimo, oppure queste sostituzioni confliggerebbero con la sintassi?

1) Sono convinta che lei
a) fosse uscita
b) sia uscita,
prima che lui arrivasse.

2) Penso che lei
a) avesse sbagliato
b) abbia sbagliato
a tacere, quando lui le chiese di parlare.

3) Prima di uscire,
a) aveva salutato
b) ha salutato
tutti gli amici.

 

RISPOSTA:

Innanzitutto bisogna ricordare che il trapassato si può usare anche se non c’è nella frase un altro tempo passato, perché quest’ultimo può essere sottinteso. Una frase come “Sono convinta che lei fosse uscita”, per esempio, sarebbe del tutto corretta. 
Fatta questa premessa, la risposta alla sua domanda è sì: il trapassato può essere sostituito con il passato senza provocare un errore sintattico. Il significato della frase in alcuni casi rimane sostanzialmente uguale con entrambi i tempi, in altri cambia. Nella sua frase 1, fosse uscita chiarisce che l’evento precede un altro evento passato, identificabile con arrivassesia uscita, dal canto suo, pone l’evento genericamente nel passato, non esplicitamente in un momento del passato che precede un altro evento. La proposizione temporale introdotta da prima che, però, è sufficiente a recuperare questa informazione: in questo caso, quindi, le due frasi hanno lo stesso significato, per quanto quella con il trapassato sia più precisa.
Nella sua frase 2 la situazione è completamente diversa: qui il rapporto nel passato è tra avesse / abbia sbagliato e chiese. Se volessimo sottolineare il rapporto temporale tra i due eventi dovremmo rappresentare il tacere, quindi lo sbagliare a tacere, non come precedente, ma come successivo al chiedere, quindi scriveremmo “Penso che lei avrebbe sbagliato a tacere, quando lui le chiese di parlare”. Possiamo, però, rappresentare i due eventi come contemporanei, collegati da un rapporto non temporale, ma consequenziale (e solo implicitamente anche temporale): per far questo useremo il passato: abbia sbagliato. In entrambi i casi il trapassato non è un’opzione corretta.
Nella frase 3 la scelta del tempo del verbo della reggente dipende da quale sia il momento di riferimento. Se esso è il momento dell’uscire allora l’evento del salutare può essere rappresentato come semplicemente passato, ma ovviamente precedente all’evento dell’uscire per via della congiunzione prima di, oppure come esplicitamente precedente a quello dell’uscire. La differenza sta nel grado di precisione. Se, però, viene introdotto un diverso momento di riferimento passato, ha salutato diviene impossibile (o almeno molto trascurato); per esempio: “Mi dissero che aveva salutato (non ha salutato) prima di uscire”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali delle seguenti frasi, è corretta da un punto di vista grammaticale?
Non ci ho voglia
Non c’ho voglia
Non ciò voglia
 

 

RISPOSTA:

“Non ci ho voglia” e “Non c’ho voglia” sono entrambe corrette, sebbene entrambe informali (la seconda più della prima) e adatte più al parlato che allo scritto, per via della presenza del ci attualizzante, rispetto al più formale “Non ho voglia”. La seconda, inoltre, genere problemi di pronuncia, poiché, per la mancanza di una vocale palatale, indurrebbe l’erronea pronuncia “kò”.
“Non ciò voglia” è un grave errore, perché confonde “ci ho” con il pronome “ciò”, solo per via del fatto che la pronuncia delle due forme è identica. Naturalmente la forma “non ciò voglia” non ha alcun senso e dunque è annoverabile tra le forme di italiano popolare, oppure di interlingua, ovvero una forma tipica di chi non conosce bene o affatto la lingua italiana.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase “Non avevo visto che STESSE piovendo” è corretta o si dovrebbe dire “Non avevo visto che STAVA piovendo”? Quale è la differenza?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette; in questo caso la differenza tra congiuntivo e indicativo non è semantica (il significato non cambia), ma solo di registro: l’indicativo è più adatto al parlato, ma anche allo scritto di bassa e media formalità; il congiuntivo è adatto allo scritto di media e alta formalità
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nella frase “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA desiderano…” è scorretto l’uso del verbo al plurale.

 

RISPOSTA:

Il soggetto della frase è L’istituto comprensivo, quindi il verbo va concordato al singolare. La concordanza al plurale è accettabile soltanto in un contesto informale (quale non sembra essere quello in questione). Attenzione: bisogna anche chiudere il complemento incidentale con una virgola, pertanto:  “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA, desidera…”
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Volevo chiedervi se questo testo è ben scritto: 

“La ladra conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto da diverso tempo. Ha pianificato tutto nei minimi dettagli, con tanto di lunghi sopralluoghi volti a individuare il momento giusto per entrare in azione. In breve, lei è già pronta per entrare in azione”.

Volevo sapere se la seconda frase è scritta in maniera comprensibile o se ci fosse un altro per formularla, magari anche con altri termini. Ho usato il tempo presente e anche il passato. Volevo sapere se è corretta l’espressione “sopralluoghi volti a individuare” oppure se era meglio un altra locuzione, come “sopralluoghi per individuare”. Io ho omesso quest’ultima per evitare di ripetere la parola “per”, perché da quanto so le ripetizioni possono stonare o risultare sgradevoli al lettore. Un’altra cosa che volevo domandarvi è se l’ultima frase ci sta e si collega bene al resto del discorso.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista grammaticale, il testo non contiene errori; anche se due punti sono migliorabili. Si tratta della finta elencazione della prima frase (conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto) e del soggetto dell’ultima frase (lei).
Per quanto riguarda l’elencazione, le sue abitudini è un secondo complemento oggetto retto da conosce, mentre progetta… è una seconda proposizione giustapposta alla prima. I tre elementi, quindi, devono essere sistemati in modo da distinguere il diverso rapporto reciproco; per esempio così: conosce bene la vittima e le sue abitudini, e progetta di fare il furto.
Il soggetto pronominale dell’ultima frase dovrebbe essere omesso, perché coincide con quello della frase precedente (quindi In breve, è già pronta…). Se lo si esprime, sembra che rimandi a qualcun altro.
Per il resto, i sui dubbi riguardano scelte stilistiche che dipendono dal gusto personale e dal registro scelto. Per esempio, volti a è più formale di per, mentre l’espressione entrare in azione è un po’ trita.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto il futuro andrò o bisogna usare il presente vado per esprimere il futuro, se nella frase tutti gli altri verbi sono al presente?

 

RISPOSTA:

Per descrivere un evento futuro si può sempre usare l’indicativo futuro; si può usare anche il presente, che è adatto a contesti informali e mimetici del parlato. Se in un testo si sceglie di usare il presente per esprimere il futuro, passare al futuro può risultare artificioso (e viceversa); è sempre possibile, però, passare dal presente al futuro e viceversa per modulare il registro, per esempio se ci sono due personaggi che parlano, oppure si vuole dare l’idea di un cambiamento (improvviso o graduale) nel modo di esprimersi di un personaggio. A maggior ragione, questa possibilità si può sfruttare in un testo che cura l’aspetto estetico, come una poesia, perché in questi casi bisogna valutare anche la forma e il suono delle parole.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Le forme “buona sera” e “buonasera” sono entrambe corrette, ma quale è maggiormente indicata nelle comunicazioni formali?

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che oggi le due forme sono del tutto equivalenti sul piano diafasico, ovvero entrambe sono perfettamente adatte sia al registro formale, sia a quello informale. E lo stesso valga per le analoghe coppie buon giorno / buongiornobuona notte / buonanotte.

Sicuramente, visto che le forme univerbate nascono da quelle staccate, cioè dalle locuzioni buona sera ecc., è chiaro che oggi le forme staccate siano meno frequenti e d’origine più antica, pertanto abbiano un sapore più ricercato (staserei per dire lezioso, in certi casi).

I dizionari di solito non prendono posizione: per es. né il Gradit di De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito del periodico Internazionale.it) né il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera) distinguono tra le due forme, riportate come del tutto equivalenti.

Il Treccani, invece (treccani.it), sostiene che le forme staccate (buona sera ecc.) siano più comuni di quelle univerbate, benché questa valutazione sia smentita dai corpora (come vedremo tra un attimo). Ho il sospetto che, come spesso accade, il tendenziale purismo del vocabolario Treccani dica “più com.” laddove vorrebbe invece dire “più elegante perché più antico e raro”.

E veniamo ai corpora. Grazie alla preziosa funzione di calcolo delle frequenze agganciata a Google libri, denominata N-Gram Viewer (liberamente accessibile in https://books.google.com/ngrams) possiamo appurare quanto segue:

– buonasera sorpassa le frequenze di buona sera nel 1973, e da lì in poi l’impennata della prima forma è progressiva rispetto alla caduta della seconda forma;

– analogamente per buonanotte e buona notte (il sorpasso della prima forma inizia nel 1992) e per buongiorno e buon giorno (il sorpasso della prima forma inizia nel 1961). I dati sono ricavati dall’immensa mole di testi presenti in tutto Google libri dal 1500 al 2019.

Insomma, le forme staccate buona serabuona notte e buon giorno sono destinate a scomparire, così come sono scomparse per cheper ciòsopra tutto ecc. Il suggerimento è di usare, in tutti i contesti, le forme univerbate, per evitare di esporci alla critica di essere troppo retrogradi.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non so quale delle tre soluzioni sia da preferire e se ognuna di queste possa essere valutata corretta.
1) La promessa, da parte del direttore, che sarei stata ricontattata è stata disattesa.
2) La promessa, da parte del direttore, di essere stata ricontattata è stata disattesa.
3) La promessa che il direttore mi avrebbe ricontattata è stata disattesa.
Inoltre:
4) Il direttore mi ha assicurato di ricontattarmi
oppure
5) Il direttore mi ha assicurato che mi avrebbe ricontattato?

 

RISPOSTA:

Tra le prime tre opzioni la seconda è impossibile, perché non è sensato promettere di aver già fatto un’azione; la frase diverrebbe ben formata con l’infinito presente, che si proietta nel futuro: “La promessa, da parte del direttore, di essere ricontattata è stata disattesa”. In questa forma, la frase avrebbe lo stesso significato della 1.
Tra la prima e la terza c’è una differenza di significato: nella prima il direttore ha promesso che qualcuno (probabilmente il direttore stesso) avrebbe ricontattato il parlante; nella terza qualcuno ha promesso che il direttore avrebbe ricontattato il parlante.
Tra la 4 e la 5 c’è lo stesso rapporto che c’è tra la 1 e la 2 riformulata con l’infinito presente: stesso significato, ma la 5 ha la subordinata esplicita e la 4 ce l’ha implicita. In astratto la variante con la subordinata implicita è considerata più formale dell’altra, visto che il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente; anche l’altra, però, sarebbe accettabile in contesti di media formalità anche scritta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

sto aiutando la mia nipotina che frequenta l’ultimo anno della scuola secondaria di I grado a svolgere degli esercizi di grammatica. Riconosco di essere un po’ arrugginita, ma ritengo che le frasi proposte siano difficili. La professoressa ha proposto delle situazioni comunicative con frasi da completare con il modo e il tempo adatti. Ha anche spiegato teoricamente come scegliere i tempi in base alle regole della lingua italiana, ma le incertezze restano. Riporto solo alcune delle frasi e aggiunto le proposte mie e di mia nipote.

1. Un gruppo di amici decide di andare in vacanza: qualcuno sceglie di partire in treno, qualcuno in auto, qualcuno in aereo. A causa di uno sciopero, la compagnia aerea cancella il volo. Uno dei membri della comitiva dice: “Se qualcuno di voi… (prendere) l’aereo, pazienza! Verrà con me in auto”___ AVREBBE PRESO oppure AVESSE PRESO?

2. Carla si lamenta sempre con la mamma perché ogni pomeriggio deve svolgere una marea di compiti. Stanca di ciò dice: ” Mi piacerebbe una scuola in cui non ci … (essere) compiti”____ SIANO o FOSSERO?

3. Dopo un litigio, Rocco riceve un messaggio minatorio anonimo. Per giorni pensa a chi possa averglielo inviato, ma non riesce proprio a capire. Rocco afferma: “A distanza di un mese, sembra che io non … (avere) ancora compreso da chi… (venire) questo  terribile messaggio”. ____ ABBIA; VIENE/VENIVA/VENGA/VENISSE?

Potreste spiegarmi brevemente il perché delle risposte corrette, soprattutto per la frase 3, in cui mi sembrano possibili così tante risposte?

 

RISPOSTA:

L’esercizio è certamente creativo anche se impegnativo, perché punta l’attenzione sull’uso vivo della lingua, sulla sua variabilità in base alla situazione e sulle tante sfumature di significato rese possibili dalla scelta dei verbi.
La frase più problematica è la prima, nella quale troviamo una proposizione ipotetica, che non ammette il condizionale, ma che non può per logica accettare altra forma verbale che il condizionale passato (o l’indicativo imperfetto, che è funzionalmente equivalente, ma decisamente trascurato). Il dilemma si risolve rilevando che se avrebbe preso è una costruzione sintetica per se aveva pensato che avrebbe preso; essa, cioè, condensa una proposizione ipotetica (se aveva pensato) e una oggettiva (che avrebbe preso), legittimamente al condizionale passato, per esprimere il futuro nel passato. Una simile costruzione non è grammaticalmente impeccabile, ma ha il vantaggio di semplificare un giro di parole ben più lungo ed è, inoltre, non ambigua. Per questi motivi, la sconsiglierei nello scritto e nel parlato formale, ma la considererei adeguata a un contesto informale come quello descritto. Ribadisco, comunque, che nessun tempo del congiuntivo può sostituire il condizionale passato nella proposizione così costruita (se qualcuno avesse preso l’aereo, pazienza esprimerebbe il rammarico del parlante per la possibilità che qualcuno avesse preso l’aereo, che non avrebbe senso nella situazione descritta, nella quale è noto che nessuno ha preso l’aereo): l’alternativa senz’altro corretta è se qualcuno aveva pensato di prendere (preferibile anche a se qualcuno aveva pensato che avrebbe preso, visto che il soggetto della reggente e quello della oggettiva coincidono). Se qualcuno aveva pensato, infine, è preferibile anche a se qualcuno avesse pensato, perché pone l’accento sulla precedenza temporale dell’evento del pensare, non sulla sua scarsa probabilità, che in questo contesto è di secondaria importanza.
Nella seconda frase sono ammissibili entrambi i tempi del congiuntivo da lei suggeriti, per ragioni diverse. Il presente è il tempo richiesto dalla consecutio temporum, visto che lo stato dell’essere è contemporaneo nel presente allo stato del preferire; l’imperfetto, invece, è il tempo preferito nella subordinata completiva quando nella reggente c’è un verbo di desiderio (preferire equivale a ‘volere maggiormente’). Ovviamente, qui la subordinata non è oggettiva, ma relativa, ma la costruzione una scuola in cui non ci fossero è quasi inevitabilmente assimilata a che nella scuola non ci fossero
Nella terza frase non ci sono dubbi su abbia per il primo spazio da riempire. Nel secondo spazio sono ammissibili senz’altro i presenti, che presentano il venire come contemporaneo al momento dell’enunciazione, per sottolineare l’attualità della lettera (il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ma semanticamente non cambia niente tra i due modi). Gli imperfetti sono scelte meno felici, perché presentano il venire come precedente al momento dell’enunciazione in modo indeterminato, dando l’impressione che l’evento non abbia ripercussioni nel presente (mentre invece ne ha, visto che il soggetto si sta ancora sforzando di capire). Ammissibili al pari dei presenti sono il passato prossimo è venuto e il congiuntivo passato sia venuto, che sottolineano l’anteriorità del momento della ricezione della lettera rispetto al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?

 

RISPOSTA:

Il verbo bisognare (e analoghi: è necessariorichiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ieri mi sono trovata a formulare questo costrutto durante una conversazione telefonica in ambito professionale.
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei (in quell’occasione) mi aveva chiesto di interpellare…

La mia perplessità gravita attorno al salto dal passato prossimo al trapassato prossimo: le due azioni, infatti, sono contemporanee.
A mente fredda ho ipotizzato due soluzioni alternative, che però non mi convincono.
La prima consisterebbe nel passato remoto:
[…] la scorsa settimana parlammo a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi chiese di interpellare…
Per due eventi accaduti da pochi giorni e i cui effetti si prolungano nel presente, il passato remoto non mi parrebbe adatto.
La seconda soluzione consisterebbe nel passato prossimo per entrambi i predicati:
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi ha chiesto di interpellare…
Non so bene risalire alle motivazioni di carattere semantico, ma il secondo passato prossimo (mi ha chiesto), pur sintatticamente ineccepibile, nel caso non venisse accompagnato da una locuzione avverbiale o un avverbio (come, ad esempio, in quell’occasione, allora, eccetera).
Approfitto inoltre del tema introdotto per porvi un’ultima domanda.
Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore.
Questa composizione è corretta? Come se ne spiegherebbe la scelta da parte di un parlante?
 

 

RISPOSTA:

La differenza tra passato prossimo e remoto non risiede, nonostante gli aggettivi fuorvianti (prossimo e remoto) nella maggiore o minore vicinanza rispetto al momento dell’enunciazione, bensì rispetto alle maggiori (prossimo) o minori (o nulle: il passato remoto è un po’ come l’aoristo greco: un passato visto nella sua assolutezza, del tutto svincolato dal presente e dal futuro) conseguenze che l’azione ha sull’enunciatore (o altri partecipanti all’azione) e sul momento dell’enunciazione. In altre parole, il passato remoto (comunque in forte regresso in tutt’Italia, e ormai anche al Sud) non può essere usato (in italiano standard) in espressioni che implicano conseguenze sul momento presente, quali, per es., “hai capito?”, “mi hai sentito?” ecc. (possibili, naturalmente, in dialetto: “capisti?”, “sentisti?” ecc.). È proprio per questo motivo, come con estrema sensibilità linguistica coglie Lei, che spesso, se il verbo è accompagnato da elementi circostanziali quali alcuni complementi avverbiali, sembra più naturale del passato remoto e viceversa: “La settimana scorsa abbiamo parlato”; un aggettivo come scorso ancora inevitabilmente l’azione al presente.

Veniamo ora al trapassato prossimo, che ha sempre un valore anaforico, cioè di riferimento anteriore a un’altra azione. Non sempre, tuttavia, questo riferimento è esplicito. Spesso si tratta di un quadro di riferimento generico, sfumato e inferibile dal contesto. Nel caso della prima frase da Lei citata (e la cui prima versione, guarda caso proprio quella effettivamente pronunciata e non ricostruita a posteriori a tavolino, è la più corretta),  la richiesta di interpellare qualcuno (“mi aveva chiesto di interpellare”) è giustamente interpretata dal locutore come anteriore al passaggio di proprietà di cui si stava discutendo, dal momento che il passaggio di proprietà non è ancora avvenuto e, anzi, proprio dell’eventualità o meno di farlo si sta discutendo. Quindi, con eccesso di razionalità a posteriori (ma la lingua non funziona mai così…), possiamo certo dire che l’azione del discutere e la richiesta di interpellare sono contemporanee, ma nella coscienza dei parlanti una gerarchia cronologica c’è ed è chiarissima: prima si interpella qualcuno e poi si decide (almeno nel contesto enunciativo da Lei fornito).

Dunque non c’è alcun salto indebito tra le due frasi e l’uso del passato prossimo e del trapassato prossimo, nel caso specifico, sono le scelte migliori.

Non sarebbero scorretti peraltro né “mi ha chiesto di interpellare”, né “mi chiese di interpellare”, ma sarebbero comunque meno felici del trapassato prossimo (“mi aveva questo di interpellare”). Il passato remoto è il meno adatto, non soltanto perché non modula finemente (a differenza del trapassato prossimo) sul rapporto tra i due eventi, come già detto, ma perché in realtà l’azione dell’interpellare non è aoristica (cioè svincolata dal presente), bensì fortemente ancorata alle conseguenze presenti e future: presumo, infatti, che da quell’interpellazione discenderà la decisione su se, come e quando procedere al passaggio di proprietà in questione.
Veniamo infine all’ultimo esempio: “Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore”.

Aveva aperto non va bene, perché non ha alcun riferimento di anteriorità (addirittura in quel momento focalizza proprio la contemporaneità dei due eventi). Pertanto va mantenuto lo stesso tempo del contesto, cioè il passato remoto: “Fu in quel momento che aprì per la prima volta le porte del suo cuore”. Oppure, eliminando la frase scissa, qui in po’ ridondante: “Aprì allora per la prima volta…”.

Fabio Rossi 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1a) Se fossi certa che lui non mi risponda male, gli parlerei apertamente.
Sono stata corretta da una collega per aver pronunciato questa frase. Avrei dovuto dire, secondo lei, o “rispondesse” o “risponderebbe”.  Sul condizionale sono d’accordo. Ma non vedo perché il congiuntivo imperfetto sia da preferire al presente. La mia collega ha fatto riferimento al fenomeno dell’attrazione modale che, seppur attestata in letteratura, no so fino a che punto sia valida dal punto di vista della consecutio.
2a) Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piova/piovesse.
Entrambe le forme sono corrette?
 

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che nessuna delle frasi da lei riportate può dirsi del tutto scorretta, perché si tratta di sfumature comunque previste dal nostro sistema verbale.
Nella prima frase, non parlerei di attrazione modale (visto che sempre di modo congiuntivo si tratta), ma al limite di attrazione temporale. Il congiuntivo imperfetto è lievemente preferibile dal momento che le due azioni (essere certa / rispondere) sono, se non proprio contemporanee, trattate come parallele. E dunque, per uniformità: sono certa che mi risponda (al presente) / ero certa che mi rispondesse (al passato). Diciamo dunque che la proiezione nel passato della reggente (cioè in questo caso l’ipotetica) all’imperfetto (fossi certa) fa da traino all’imperfetto della completiva (che lui non mi rispondesse). Ancorché meno adeguato, anche il presente può andare, addirittura all’indicativo (ancora più informale): “se fossi certa che lui non mi risponde”. Questo perché la proiezione al passato (fossi) non indica tanto il passato dell’azione bensì l’eventualità del periodo ipotetico.
Nel secondo caso, mi paiono del tutto innaturali, e dunque parimenti da evitare, sia il congiuntivo presente, sia il congiuntivo imperfetto. Va usato l’indicativo: “Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piove”, o, ancora meglio (perché più semplice, lineare, chiaro, naturale, non artefatto) “in un giorno di pioggia”. Non c’è alcun bisogno di rendere l’eventualità della pioggia, già perfettamente inferibile dal contesto di per sé eventuale (Bisognerebbe ecc.).
Sugli usi del congiuntivo imperfetto rispetto al congiuntivo presente o passato può vedere anche altre FAQ di DICO   Trapassato nel futuro, Congiuntivo presente o imperfetto in dipendenza da vorrei, Modi e tempi richiesti da “vorrei”.

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumasse” o “Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumava”?

 

RISPOSTA:

La scelta del modo verbale per le subordinate relative non è sempre scontata, perché può dipendere da diversi fattori, tra cui il significato del verbo contenuto nella relativa, la forma dell’antecedente del pronome relativo (cioè del nome a cui il pronome si riferisce), possibili sfumature che l’emittente vuole conferire all’enunciato.
Nella sua frase, la variante con l’indicativo da una parte è quella più naturale, in considerazione del fatto che il fumare è un’azione non opinabile: il ragazzo o fumava o non fumava. Diversamente, il congiuntivo sarebbe stato molto più adatto ad una frase come “Era da tanto tempo che non leggevo un libro che mi piacesse”, proprio perché l’azione, o meglio la sensazione, del piacere è del tutto opinabile.
D’altro canto, non si può dire neanche che il congiuntivo sia scorretto, perché l’indeterminatezza del referente un ragazzo conferisce all’azione del fumare un certo grado di opinabilità. Il congiuntivo sarebbe stato inaccettabile, al contrario, in una frase come: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che *fumasse” (forma corretta: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che fumava”), nella quale il referente quel ragazzo è, appunto, determinato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un grande dubbio. Quale frase è corretta?
– Il numero delle preferenze ottenute / Il numero delle preferenze ottenuto.
– Il numero dei voti ottenuti, conseguiti, raggiunti / Il numero dei voti ottenuto, conseguito, raggiunto.

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni sono corrette: i participi possono concordare sia con il sintagma nominale che fa da testa del sintagma complesso (il numero delle preferenze | ottenuto, ovvero il numero ottenuto | delle preferenze), sia con quello che lo determina (il numero delle preferenze ottenute). Diversamente, il verbo deve concordare con il sintagma che fa da testa, che rappresenta il soggetto della frase, quindi, per esempo:
– Il numero delle preferenze ottenute / ottenuto è stato 1000 (e non sono state 1000). 
Anche per il verbo, comunque, l’accordo con il sintagma che determina è oggi tollerato in molti casi (è un fenomeno noto come accordo a senso) e va evitato soltanto in contesti scritti formali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sono imbattuto nella seguente frase: “Passione e dedizione di cui tutti dovremmo farne tesoro”. A me sembra che la formulazione corretta dovrebbe escludere la particella ne e si dovrebbe pertanto scrivere “passione e dedizione di cui tutti dovremmo fare tesoro”. Mi sbaglio?

 

RISPOSTA:

Non si sbaglia affatto. La duplicazione della particella pronominale, comune e tutto sommato accettabile in contesti parlati informali, nei quali assolve alla funzione di richiamare il tema rafforzando il poco trasparente pronome relativo di cui, non trova giustificazione nello scritto, specie formale o specialistico, e deve pertanto essere evitata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

orrei chiedere se queste frasi con il pronome NE ma senza la quantità e con la  concordanza del participio sono giuste o no:

Hai comprato del vino?              Sì, ne ho comprato.
Hai comprato della pasta?         Sì, ne ho comprata.
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati.
Hai comprato delle mele?         Sì, ne ho comprate.

 

RISPOSTA:

Sì, sono corrette e sono migliori e più formali rispetto alle rispettive forme non accordate (cioè: ne ho comprato, per tutte e cinque i casi).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali verbi sono corretti tra le proposizioni seguenti? 
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si arrabbiava/sarebbe arrabbiato e distruggeva/avrebbe distrutto tutto”.

 

RISPOSTA:

Come al solito l’uso del congiuntivo/condizionale oppure dell’indicativo nel periodo ipotetico della possibilità e dell’irrealtà non attiene tanto alla correttezza, quanto alla formalità della frase. L’uso del congiuntivo/condizionale è più formale (e dunque sempre suggeribile), mentre quello dell’indicativo è limitato ai discorsi più informali. Nel suo caso, inoltre, si tratterebbe, con l’indicativo nella sola apodosi, di un periodo ipotetico misto, con la soluzione formale (congiuntivo) nella protasi e quella informale (indicativo) nell’apodosi. Tale mistura, ancorché attestata e possibile nei casi più informali, è decisamente da evitare. Pertanto, nel periodo ipotetico dell’irrealtà da lei proposto, è da preferire senza dubbio alcuno la soluzione seguente:
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si sarebbe arrabbiato e avrebbe distrutto tutto”.
Aggiungo che, essendo il soggetto riferito a qualcuno che nella proposizione è un complemento oggetto (lo), sarebbe meglio non lasciare sottinteso il soggetto, ma esprimerlo esplicitamente o con un pronome (lui) o con una forma piena (l’uomo ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se devo chiedere ad una persona quanto bene vuole a loro, quale delle seguenti due domande è corretta?
Quanto li vuoi bene?
Quanto gli vuoi bene ?
Se è riferito a lui sono quasi sicuro che che vada bene la seconda domanda, ma se è riferito a loro forse va bene la prima domanda
 

 

RISPOSTA:

Gli = a lui
le = a lei
loro o a loro = a più persone (plurale), nella lingua formale
gli = a più persone (plurale), nella lingua informale
li = solo per il complemento oggetto. Es.: “li vedo” (cioè vedo loro, quelle persone là), o, al femminile, “le vedo”.
Quindi, dato che volere bene (a qualcuno) regge il complemento di termine e non il complemento oggetto, si può usare soltanto “loro” o “a loro”, nello stile formale, oppure “gli” nello stile informale.
In conclusione, sia per il plurale sia per il singolare:
“li vuoi bene” è errato
“gli vuoi bene” è corretto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il futuro anteriore nella sua funzione temporale (non quando è investito del valore epistemico), come insegna la consecutio, è strettamente collegato con il futuro semplice: “Una volta che sarò riuscito a parlargli, ti farò sapere”.
Quest’ultimo tempo, specie nell’italiano medio, è talvolta sostituito dal presente dell’indicativo: “Tra due ore ti chiamo”.
Vorrei quindi sapere se frasi del tipo:
“Se entro domani sera non ci saranno stati sviluppi, non ti aggiorno”;
“Ti aggiorno, dopo che / quando / una volta che mi saranno stati comunicati gli sviluppi del caso”
sono formalmente valide, anche in un registro non colloquiale, oppure ci si debba sempre attenere alla coniugazione al futuro semplice (aggiornerò).

 

RISPOSTA:

Le frasi sono corrette e del tutto accettabili. La scelta di usare il futuro anteriore nella stessa frase in cui il futuro semplice è sostituito dal presente è insolita ma possibile, specie in un contesto parlato, in cui il parlante può passare repentinamente da un registro a un altro sulla scorta di variabili circostanziali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se nel mezzo di un periodo scrivo, usando le virgolette, frasi tipo “il lavoro nobilita l’uomo”, devo preferire la maiuscola o la minuscola?

 

RISPOSTA:

Sia che si riferisca all’articolo il, sia che si riferisca a uomo, la variante da usare è la minuscola; non c’è, infatti, nessuna circostanza che giustifichi l’uso della maiuscola.
La maiuscola dopo le virgolette è convenzionalmente usata all’inizio di un discorso diretto (… disse: “Domani pioverà”). Sempre possibile è la maiuscola enfatica per uomo, per dare risalto all’universalità del riferimento. Una scelta del genere, si badi, sarebbe propria di uno stile ampolloso.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sulla seguente frase: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo accompagnava”. Secondo il mio dilettantistico parere, questa espressione è la più corretta per creare una contemporaneità fra il non essersi recato a Roma del soggetto in questione e la mancata presenza dell’amico come accompagnatore. Le persone con cui mi sono consultato, tra le quali c’erano anche degli specialisti, almeno stando alle qualifiche, sostenevano che la contemporaneità poteva essere ottenuta solo usando il trapassato prossimo e non l’imperfetto (“Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo aveva accompagnato”). Ciò mi pare errato, in quanto se usassi il trapassato prossimo per ottenere la contemporaneità fra i due eventi, cosa dovrei usare per ottenere l’anteriorità? In questo contesto l’anteriorità non avrebbe senso, ma, cambiando di poco la frase, potrebbe averlo. Per esempio: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non era venuto da lui il giorno prima della partenza, essendo rimasto bloccato nella sua città per problemi familiari”.

 

RISPOSTA:

La sua riflessione è corretta, ma arriva alla conclusione sbagliata: il trapassato prossimo esprime sempre anteriorità rispetto al passato; nella frase in questione tale anteriorità è neutralizzata dall’immediato riconoscimento del rapporto di causa-effetto tra non lo aveva accompagnato e non si era recato. A causa di questa relazione logica, il secondo trapassato viene interpretato come sullo stesso piano del primo, quindi come se fosse dipendente non dal primo, ma direttamente da disse. L’anteriorità del trapassato, però, emerge più chiaramente in una frase in cui il secondo evento sia meno direttamente collegato al primo (come nella sua seconda frase).
Detto questo, la scelta del trapassato prossimo aveva accompagnato è corretta, non perché il trapassato indichi contemporaneità, ma proprio perché indica anteriorità. L’evento che rappresenta la causa è, infatti, precedente a quello che ne rappresenta l’effetto. L’imperfetto, al contrario, è una scelta meno felice, proprio perché rappresenta il non accompagnare come contemporaneo al non essersi recato, quando è chiaro che il primo evento precede il secondo. L’imperfetto ritorna accettabile se si intende dare alla frase un significato leggermente diverso; questo tempo può, infatti, essere interpretato come un condizionale passato (non l’avrebbe accompagnato), quindi come una proiezione dal passato verso il futuro. Questa interpretazione regge se si immagina una proposizione al trapassato sottintesa: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico (gli aveva detto che) non lo accompagnava / avrebbe accompagnato” (oppure perché aveva saputo che il suo amico non lo accompagnava / avrebbe accompagnato). Ovviamente, la variante avrebbe accompagnato è più formale di accompagnava.
Diverso sarebbe il caso in cui il rapporto non sia tra due eventi, ma tra un evento e uno stato: “Mi disse che non era andato a Roma perché non c’era il suo amico”. In questo caso l’imperfetto assume effettivamente la funzione di esprimere la contemporaneità nel passato; descrive, infatti, uno stato di cose che si verificava nel momento in cui l’evento (non) era avvenuto. 
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nonostante nel vostro archivio delle domande siano molteplici le occasioni di chiarimento riguardo al “si passivante” e al “si impersonale”, la recente lettura delle frasi seguenti ha risvegliato in me una certa esitazione.

a) Quando ti si elenca tutti i difetti che hai, ti irrigidisci.
b) Quando si vanno a toccare questi argomenti delicati, è normale che chi ne è chiamato in causa reagisca male.

Esempio “a”: avrei coniugato il verbo “elencare” alla terza persona plurale (elencano)  in funzione del si passivante.
Avrei scelto la soluzione migliore, oppure anche la frase che mi è capitato di leggere è accettabile? Quale preferire tra le due?
Esempio “b”: a rigor di grammatica (se ho ben interpretato le vostre indicazioni), non si sarebbe dovuto coniugare il verbo alla terza persona singolare (quando si va a toccare questi argomenti delicati)? Il verbo “andare” mi pare che regga tutta la frase, a partire dal sintagma “a toccare”, e che non si leghi direttamente all’oggetto plurale (gli argomenti delicati); allora perché trasformare l’oggetto in soggetto?

 

RISPOSTA:

Sia in a) sia in b) vanno bene entrambi i costrutti, con verbo sia al singolare sia al plurale. Entrambi, cioè, son prodotti “a rigor di grammatica”.
In a), la forma plurale lascerebbe classificare senza dubbio il “si” come passivante, mentre con il verbo al plurale si tratta di un costrutto, tipico del fiorentino ma anche dell’italiano, pressoché identico al “si” impersonale, ma in Toscana possibile anche per la prima persona plurale: “noi si va al cinema stasera”.
Di fatto, entrambi i costrutti (“si elenca” e “si elencano”) producono il medesimo significato e il medesimo livello di media formalità.
Il secondo esempio è più interessante. Nel caso di verbo fraseologici come “si va a + infinito” è possibile il “sollevamento” dell’oggetto in soggetto. In questo caso è un po’ come se la frase fosse al passivo: “si vanno a toccare”  = “vanno (o vengono) a essere toccati”. Donde il plurale del verbo e il passaggio dall’oggetto al soggetto. Peraltro, questo passaggio dall’oggetto al soggetto si verifica anche in altri casi di verbi fraseologici, come quelli di percezione: “ti vedo mangiare” = vedo te (oggetto) che (soggetto) mangi.
Anche in questi casi, come nel caso a), siamo di fronte a significato pressoché identico e a stesso livello di formalità.

Fabio Rossi

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QUESITO:

è corretto dire “Se non ti ho stufato, vorrei chiederti un’altra cosa”?

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. Naturalmente, il verbo “stufare” è informale, ma è senza dubbio corretto, ancorché più indicato in un contesto familiare che in uno pubblico e formale.
L’uso dell’ipotetica per chiedere scusa (o simili) è tipico dell’italiano, e anche di altre lingue, quasi ad attenuare la “colpa” commessa. In altre parole, si sposta sul piano dell’ipotesi anche ciò che a volte può essere una certezza. Pensi a una frase, normalissima in italiano, come “scusa se ho fatto tardi”: il fatto che io abbia fatto tardi è una certezza, non certo un’ipotesi, ed è proprio per questo che ti chiedo scusa. Però esprimo il concetto, attenuandolo, come se fosse un’ipotesi.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se una proposizione completiva collegata a un’apodosi al condizionale presente può reggere, oltre ai modi congiuntivo e indicativo, anche il condizionale.
Se domani piovesse a dirotto, ci sarebbero scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
Costruendo il periodo con l’indicativo, le soluzioni a e b mi sembrerebbero comunque valide; mentre la c, no.
Se domani piove/pioverà a dirotto, ci sono/saranno scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
 

 

RISPOSTA:

La terza possibilità è da scartare in entrambi i casi. Il fatto dirimente non è tanto che la completiva dipenda da un’apodosi, quanto che il verbo che regge la completiva indichi di per sé stesso un dubbio. In casi del genere quindi la scelta migliore (e la più formale) è il congiuntivo, la più informale (ma comunque possibile) è l’indicativo, mentre il condizionale è, in questo caso, scorretto, perché pone una condizione (che semmai avrebbe senso, per l’appunto, nell’apodosi di un periodo ipotetico, non certo nella dipendente dall’apodosi) laddove, invece, si sta ponendo un dubbio.
La riprova è che anche in assenza di apodosi, l’erroneità del condizionale rimane invariata.
Possibile, invece, e addirittura da preferirsi, in dipendenza dal condizionale, il congiuntivo imperfetto in luogo del presente:
– è improbabile che domani si giochi / si giocherà
– (dico che) sarebbe/parrebbe improbabile che domani si giocasse / giochi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?

 

RISPOSTA:

La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non  sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttaviabenché,  acconsentiretollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretta la frase “Dire “bello” alle cose o persone o eventi“?

 

RISPOSTA:

Non ho abbastanza elementi per poter rispondere. Ovvero: quella che lei segnala non è una frase ma semmai una parte di frase. Manca il verbo principale (dire è infinito, non può reggere da solo una frase ma solo esserne parte). Poniamo che la frase fosse: “Si può dire ‘bello’ ecc.”, allora potrei rispondere che la frase è abbastanza corretta, anche se un po’ trascurata, per 2 motivi, uno lessicale e l’altro morfosintattico.
1) Lessico: si potrebbe scegliere un’espressione più precisa per esprimere il concetto di ‘attribuire un epiteto a’, quale per es.: “usare l’aggettivo ‘bello’ riferito a”.
2) Morfosintassi: sarebbe meglio creare un parallelismo nell’uso dell’articolo; nel suo caso, dato che manca davanti a persone e eventi, e dato che ci si sta riferendo e cose, persone o eventi in generale, sarebbe meglio eliminarlo anche davanti a “cose” e scrivere dunque: “a cose, persone o eventi”.
In conclusione, supponendo che il verbo reggente dell’infinito dire fosse si può“, una versione migliore della frase sarebbe la seguente:
“Si può usare ‘bello’ riferito a cose, persone o eventi?”.
E la risposta a quest’eventuale domanda sarebbe: certamente sì, anche se in uno stile formale sarebbe opportuno scegliere aggettivi più specifici e meno generici e banali di bello (basta consultare un buon dizionario dei sinonimi). Per le cose: gradevolepiacevole, gustoso (se si tratta di cibo o bevanda), confortevole (se si tratta di luogo) ecc.; per le persone: affascinantesensuale, attraente ecc.; per gli eventi: interessantepiacevole, rilassante, rinfrancante (a seconda del tipo di evento e del contesto) ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Mi trovo davanti a una frase di questo tipo: “Si continuarono a tenere le lezioni”. Dovrebbe essere piuttosto “Si continuò a tenere le lezioni”? E se sì, qual è la motivazione grammaticale?

 

RISPOSTA:

Il clitico, o particella pronominale atona, si può avere più usi:
1) passivante: in tal caso l’accordo col soggetto plurale è al plurale: “si tengono lezioni” = “le lezioni vengono tenute”; ovviamente con il verbo aspettuale o fraseologico continuare a vige comunque l’accordo: “si continuarono a tenere”.
2) Impersonale: verbo al singolare o al plurale a seconda del contesto. Nel suo caso, vanno bene entrambe le forme: si continuò a tenere / si continuarono a tenere. Il confine tra 1 e 2 è molto fluido ed è più una sfumatura semantica che altro: qualcuno continuò [impersonale] / le lezioni continuarono ad essere svolte da qualcuno (sia impersonale, sia passivo, ma con una maggiore attenzione all’agentività dell’azione, sia in presenza, sia in assenza di compl. d’agente o di causa efficiente).
3) Per esprimere la prima persona plurale: uso prettamente toscano e dell’italiano ricercato: “noi si andò tutti insieme al mare”; “noi si continuarono a tenere le lezioni”.
Insomma, “si continuarono a tenere” è frase perfettamente corretta e direi preferibile, se si vuole esprimere l’idea che le lezioni continuarono a essere svolte.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Se voglio esprimere il concetto di “Prendo a loro dei biscotti”, qual è la frase corretta?
Gli prendo dei biscotti o li prendo dei biscotti?
Se uso gli la frase potrebbe essere ambigua.
Inoltre, per esprimere “Se prendo loro li arresto”, si dice
Se li prendo gli arresto o li arresto?
Se mi riferisco a “loro”, la seguente frase è corretta?
Li ho detto che va bene. (A loro)

 

RISPOSTA:

Li = loro (complemento oggetto);
gli = a loro (complemento di termine).
Quindi:
– Gli prendo dei biscotti = prendo dei (cioè alcuni) biscotti a (o per) lui (o loro);
– li prendo dei biscotti = prendo dei biscotti; è una dislocazione a destra, cioè un costrutto pleonastico normale nel parlato, un po’ troppo informale nello scritto, che duplica l’oggetto biscotti con il pronome li.
– Se prendo loro li arresto  = se li prendo li arresto: la prima frase è molto forzata, la seconda è perfetta e preferibile;
– Se li prendo gli arresto o li arresto? Come mostrato subito sopra, soltanto la seconda frase è corretta: li (cioè loro, compl. oggetto) e non gli (= a loro).
“Li ho detto che va bene” non va bene, perché li può sostituire soltanto un compl. oggetto e non un compl. di termine.
Quindi ho detto loro = ho detto a loro = gli ho detto (e non li).
Tenga però presente che, ancorché assai comune, la forma gli per loro/a loro è adatta più al parlato e allo scritto di media formalità che a quello molto formale, in cui è preferibile la forma loro o a loro.
Può usare li soltanto nei casi in cui abbia valore di complemento oggetto, come per esempio: li ho incontratili ho aiutati ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome, Registri, Sintassi marcata
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QUESITO:

Quale affermazione è corretta? Ho indicato in grassetto i dubbi.
Penso che il meglio deve ancora avvenire/venire
Penso che il meglio deva ancora avvenire/venire
Penso che il meglio debba ancora avvenire/venire

 

RISPOSTA:

Cominciamo con il rapporto tra congiuntivo e indicativo: come al solito, in casi analoghi, la soluzione con l’indicativo è sempre corretta, anche se meno formale. Pertanto, in uno stile formale, è sempre meglio debba piuttosto che deve. L’alternativa tra il tema deb- e il tema dev- è pressoché  sempre possibile (nelle persone in cui è ammessa: nella 1a persona singolare e nella 3a persona plurale dell’indicativo e nella 1a, 2a e 3a singolari e nella 3a plurale del congiuntivo presente), anche se deb- è avvertito come più formale, e dunque più appropriato al congiuntivo. Infatti, da una banale ricerca di frequenza in Google, mentre all’indicativo devono è moto più frequente di debbono, al congiuntivo debba e debbano sono molto più frequenti di deva e devano.
Quanto alla scelta tra avvenire e venire, in teoria i due verbi nella frase in questione sono equivalenti, sul piano semantico. Tuttavia la frase è quasi una frase fatta, cioè pressoché immodificabile (quasi fosse una citazione o un proverbio), ormai cristallizzata nella forma venire (e non avvenire).
Quindi, riassumendo, delle sue molte alternative la migliore è: “Penso che il meglio debba ancora venire”

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Ci vediamo quando starai bene”.
Non dovrebbe essere quando stai bene o “Ci vedremo quando starai bene”.

 

RISPOSTA:

È preferibile usare soltanto il presente (scelta meno formale) o soltanto il futuro (scelta più formale); entrambi gli eventi, infatti, sono futuri e, essendo nella stessa frase, non c’è motivo di cambiare registro. La sbavatura, comunque, non è grave. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei presentarvi quattro quesiti sul punto interrogativo.
1) Quando vi sia una sequenza di domande, in particolare se queste siano connesse tra di loro, è possibile usare la minuscola dopo il nostro segno, oppure è obbligatoria la maiuscola?
1a) «Hai mangiato? hai bevuto? ti sei riposato un po’?»
1b) «Hai mangiato? Hai bevuto? Ti sei riposato un po’?»

2) Quando in una frase vi siano più domande riconducibili, per così dire, a un’unica struttura logico-sintattica, il punto interrogativo può essere posto soltanto una volta a fine frase, o è possibile anche la scelta opposta?
2a) «Che cosa è successo di così importante, puoi dirmelo?»
2b) «Che cosa è successo di così importante? puoi dirmelo?»
2c) «Lui come sta adesso, si sa qualcosa?»
2d) «Lui come sta adesso? si sa qualcosa?»
2e) «Che cosa vuoi fare: parlargli o ignorarlo?»
2f) «Che cosa vuoi fare, parlargli o ignorarlo?»
2g) «Che cosa vuoi fare? parlargli o ignorarlo?»

3) Quando in una frase interrogativa si propongano più alternative, il nostro segno può essere collocato alla fine, o è meglio spezzare la frase?
3a) «Si può parlare apertamente? Oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»
3b) «Possiamo parlare, oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»  

4) Dal punto di vista della punteggiatura, qual è la forma migliore per sintagmi come «perché no», «che so io», «che ne so» e simili, quando questi si trovino in date frasi sotto forma di inciso?
4a) «Vorrei parlare e, perché no, anche scrivere»
4b) «Vorrei parlare e, perché no? anche scrivere»
4c) «Vorrei parlare e, perché no?, anche scrivere»
5a) «Si può, che so io, contattarlo?»
5b) «Si può, che so io? contattarlo?»
5c) «Si può, che so io?, contattarlo?».

 

RISPOSTA:

I casi da lei prospettati non sono codificati, ma ammettono in teoria tutte le varianti, perché ognuna è giustificabile sulla base di una certa finalità espressiva. Ci sono, però, delle tendenze d’uso. Nella frase 1 è senz’altro più comune la lettera maiuscola, perché il punto interrogativo è assimilato al punto fermo. La lettera minuscola può essere usata per sottolineare che il punto interrogativo serve soltanto a indicare un’inflessione della voce, ma sintatticamente la frase va avanti. Per esempio, la lettera minuscola potrebbe essere usata nelle frasi 4b e 5b. Rimanendo sulle frasi 4 e 5, va comunque detto che le forme più comuni sono la 4a e la 5a, perché l’intento interrogativo emerge chiaramente anche senza punto interrogativo, e per evitare proprio di inserire un punto interrogativo in mezzo alla frase. Le frasi del punto 2 sono tutte possibili: la preferenza per l’una o l’altra variante dipenderà dallo stile personale (per esempio, la sequenza ravvicinata di due o più punti interrogativi potrebbe essere giudicato inelegante). Lo stesso vale per le frasi del punto 3.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggendo un testo narrativo ho evidenziato un uso molto largo da parte dell’autore del verbo dovere, talvolta, a mio avviso, coniugati in maniera un po’ trascurata.
Vi riporto quattro esempi che ne ho ricavato:
– Se i due fratelli non erano nella stanza, dovevano esserne usciti da poco.
– Se gli interrogati non avessero detto la verità, lui doveva saperlo.
– Pensò che doveva…
– Era il segno che doveva parlare.
Vorrei sapere se le frasi avrebbero potuto essere scritte diversamente, alzando il grado di formalità.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle occorrenze può dirsi trascurata, sebbene nelle ultime due frasi l’indicativo imperfetto possa essere sostituito dal condizionale passato, elevando la formalità della costruzione. La sostituzione non è possibile nella prima frase, perché produrrebbe un significato illogico; nella frase, infatti, l’imperfetto non è modale, ma ha valore temporale. In altre parole, erano non sta per fossero stati, ma indica proprio che l’evento è continuato nel passato; coerentemente, dovevano è l’unica forma possibile, anch’esso con valore di temporale, perché non c’è una condizione rispetto alla quale esprimere una conseguenza.
Nella seconda frase la sostituzione è possibile, ma cambierebbe il significato complessivo. L’indicativo imperfetto, infatti, indica che il soggetto imponeva a sé stesso di venire a sapere una circostanza; il condizionale passato, invece, sarebbe interpretato come conseguenza ipotetica della condizione descritta nella protasi (se gli interrogati non avessero detto la verità). Si noti che nella costruzione avrebbe dovuto saperlo il verbo dovere, a dispetto del suo significato di base, assume automaticamente la sfumatura di incertezza tipica di espressioni come devono essere le cinque (= ‘forse sono le cinque’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei un ragguaglio circa il parallelo tra l’indicativo presente e il condizione presente.
Ai fini della consecutio, apprendo, i due tempi si comportano allo stesso modo (anche quando vanno a formare sintagmi e locuzioni).
Penso che = penserei che
Può darsi che = potrebbe darsi che
Sono sicura che = sarei sicura che
Mi domando se tutti i verbi che attuano le secondarie introdotte dall’indicativo potrebbero essere selezionati, a prescindere, anche per la forma omologa al condizionale:
a) Suppongo/Supporrei che ci voglia un bel po’ di coraggio
b) Immagino/Immaginerei che potrebbe essere dura
c) Ho paura che/Avrei paura che non ci riuscirebbe.
Inoltre, in questi esempi rappresentativi, il congiuntivo e il condizionale sono uguali (o comunque molto simili) sul versante semantico?
Il condizionale, nella secondaria, mi sembrerebbe a suo agio quando vi fosse una sorta di protasi sottintesa:
d) Immagino/Immaginerei che potrebbe (se se ne verificasse il caso) essere dura.
Se quest’ultimo appunto coglie nel segno, domando: con una protasi sottintesa sarebbe possibile adottare anche il congiuntivo presente, oppure si perderebbe l’accenno alla protasi?
e) Immagino/Immaginerei che possa (se se ne verificasse il caso) essere dura.

 

RISPOSTA:

La risposta alla prima domanda è sì: una completiva retta da un condizionale presente si comporta come quella retta da un indicativo presente. Per quanto riguarda il modo della completiva, il congiuntivo è tendenzialmente identico all’indicativo dal punto di vista semantico, ma è preferibile in contesti formali (quindi immagino/Immaginerei che possa… = immagino/Immaginerei che può…). Il condizionale aggiunge il senso della condizionalità, quindi è collegato per forza a una condizione, espressa o non espressa, come suggerisce lei nella frase d). Il congiuntivo non esclude che ci sia una condizione, come non lo esclude l’indicativo. Se la condizione non è espressa, però, difficilmente sarà ipotizzata; se, invece, è espressa, i parlanti tenderanno a costruirla con l’indicativo presente se il congiuntivo della completiva è presente, sul modello del periodo ipotetico del primo tipo: “Immagino/Immaginerei che possa essere dura se se ne verifica il caso”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

«Se ci fosse stato qualcuno che:
1) mi avesse parlato
2) mi avrebbe parlato
3) mi parlasse
4) mi parlava
di te, avrei ascoltato ogni sua parola».
Vorrei sapere se le mia disamina sui quattro casi della relativa dipendente dalla protasi sia calzante:
a) tutte e quatto le soluzioni sono possibili;
b) la soluzione numero 2 indica posteriorità  rispetto alla protasi;
c) le soluzioni numero 3 e numero 4, invece, sono contemporanee all’azione della protasi; il congiuntivo risulta più formale dell’indicativo (differenza di tipo diafasico);
d) la soluzione numero 1 può indicare anteriorità rispetto alla protasi, ma anche un’eventualità  improbabile; da questo punto di vista, l’azione espressa con questo tempo verbale non è necessariamente anteriore alla protasi («Se ci fosse stato qualcuno che (l’indomani) mi avesse parlato di te, avrei ascoltato ogni sua parola»).

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa è di norma autonoma rispetto alla consecutio temporum; questa proposizione, quindi, può essere costruita con una varietà di modi e tempi non strettamente legati alla necessità di esprimere l’anteriorità , la contemporaneità, la posteriorità  rispetto all’evento della reggente (anche se spesso la forma verbale scelta coincide con quella che sarebbe stata scelta nel quadro della consecutio temporum). Nel caso specifico, inoltre, bisogna ricordare che la dipendenza da una proposizione ipotetica al congiuntivo attrae la relativa nell’orbita dell’ipotesi, e questo sfavorisce fortemente il condizionale passato. Tale forma, per la verità , è sconsigliata anche per ragioni di logica. La posteriorità  dell’evento della relativa rispetto a quello della reggente è altamente improbabile: se ieri ci fosse stato qualcuno che l’indomani mi avrebbe parlato di te…; risulta una formulazione cervellotica, difficilmente davvero realizzabile da un parlante.
Ancora, la proposizione reggente qui rappresenta una formulazione allargata, presentativa, di un unico concetto esprimibile con una sola proposizione: se ci fosse stato qualcuno che mi avesse parlato; se qualcuno mi avesse parlato. La forma verbale più attesa è quindi, il congiuntivo trapassato, che rispecchia quello della reggente ipotetica. Il congiuntivo imperfetto è possibile perchè indica un evento passato e viene a coincidere con il tempo della contemporaneità nel passato. L’indicativo imperfetto è anche possibile, come alternativa meno formale del congiuntivo imperfetto (parlava= parlasse), nel quale, però, è anche presente il senso modale (parlava=avesse parlato).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Se nel contratto fosse stato scritto che lei, prima della firma, doveva aver già fatto una certa cosa, allora avrebbe dovuto farla, altrimenti non avrebbe potuto firmare”, quel doveva aver già fatto al posto di un avrebbe dovuto fare o di un aveva dovuto fare è corretto?

 

RISPOSTA:

L’imperfetto è corretto, in quanto questa forma può essere usata in tutti i contesti al posto del condizionale passato. Ovviamente, il condizionale passato sarebbe la variante più formale. Si noti, inoltre, che si potrebbe usare anche il congiuntivo trapassato (che lei avesse dovuto fare), visto che l’evento è precedente a un altro passato (fosse stato scritto). L’indicativo trapassato, invece, sarebbe una scelta piuttosto trascurata.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vedendo un film, mi sono imbattuta in questa frase: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre suonavo il piano”.
Questa frase mi sembra sintatticamente scorretta, almeno per quanto riguarda quel suonavo. Io direi, a seconda che voglia marcare o meno il concetto di ipoteticità: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre (nel momento in cui) avrei suonato (oppure avessi suonato) il piano”. Queste due soluzioni da me proposte sono entrambe corrette?

 

RISPOSTA:

Le sue alternative sono corrette, così come la versione originaria della frase. L’indicativo imperfetto è una forma verbale molto versatile: può, per esempio, riferirsi al futuro sostituendo a tutti gli effetti il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato (ovvero di evento successivo a un altro evento passato). Si tratta di una scelta meno formale del condizionale passato, ma del tutto accettabile nel parlato non sorvegliato, come sembra essere quello della battuta del film.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Come hai lasciato il bambino?” “Piangendo”. L’uso del gerundio può essere qui grammaticalmente accettato (in riferimento al bambino) oppure crea ambiguità?

 

RISPOSTA:

L’uso è scorretto, perché il gerundio presuppone in questo caso che il soggetto della proposizione coincida con quello della reggente, quindi che la persona che ha pianto sia quella che ha lasciato il bambino, non il bambino. L’alternativa verbale grammaticalmente migliore sarebbe “Che piangeva”, che, però, ha il difetto di contenere un pronome (che) collegato a un nome inserito in una frase sintatticamente autonoma. Per aggirare anche questa forzatura si dove optare per una costruzione nominale, come “In lacrime”, che instaura un riferimento implicito con il referente più vicino (quindi il bambino), per quanto non si possa escludere (ma sarebbe una scelta forzata) che si riferisca alla persona che ha lasciato il bambino. Inoltre, in lacrime è un’espressione piuttosto formale, quasi letteraria, che potrebbe risultare inappropriata in un contesto familiare (ancora più straniante da questo punto di vista sarebbe un’altra alternativa, pure grammaticalmente corretta: piangente).
Insomma, piangendo, per quanto scorretta, è una soluzione economica, quindi difendibile in un contesto comunicativo poco sorvegliato. Essa, infatti, consente di veicolare il concetto evitando troppi giri di parole e senza troppi danni per la comprensione: un interlocutore al corrente della situazione, infatti, riuscirebbe facilmente a riferire piangendo al bambino invece che alla persona che ha lasciato il bambino, anche se la grammatica vuole il contrario.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La forma corretta è: “Vuoi che ti chiami?” oppure “Vuoi che ti chiamo?”?

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva (come quella retta da vuoi nel suo esempio) può essere costruita sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Tra i due modi, l’indicativo è più informale e adatto al parlato, il congiuntivo più formale e adatto allo scritto. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se questa frase è corretta: “Mandali a farsi curare”. Io ritengo di sì, comunque tale frase mi è stata contestata e mi è stata consigliata al suo posto quest’altra: “Mandali dal medico affinché possano curarsi”. Ci terrei molto ad avere un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

La sua frase è ben costruita: il verbo mandare è usato qui come verbo di comando e può reggere, pertanto, una proposizione all’infinito il cui soggetto coincide con l’oggetto del comando. Mandare, insomma, si comporta come ordinareti mando a farti curare = ti ordino di farti curare. Per quanto riguarda la costruzione fattitiva (fare o lasciare + infinito), essa è usata correttamente: farsi curare = ‘fare in modo di essere curati’.
Si può forse obiettare che l’espressione sia un po’ scortese, al limite violenta, ma questa considerazione va rapportata alla situazione: tra persone che sono in confidenza la frase è appropriata; in una conversazione tra persone che non si conoscono risulterebbe straniante. Attenzione, però: la versione emendata risulterebbe inutilmente dettagliata e pomposa in un contesto informale, ma sarebbe comunque bizzarra in un contesto formale: la schiettezza di mandali, infatti, contrasta con la ricercatezza della finale esplicita, per giunta introdotta dal raro affinché. Una possibile riformulazione di questa versione formale della frase potrebbe essere “Consigliagli di andare dal medico”, o, volendo essere ancora più distaccati, “Consiglia loro di consultare un medico”.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Specie nel linguaggio parlato, ricorrono frasi come questo lo sodimmelo tu cos’è e simili.
Tali espressioni sono un esempio di costruzione enfatica, di pleonasmo o di ridondanza, dato che in esse, se non sbaglio, vi sono delle ripetizioni a livello pronominale?
Immagino che siano comunque accettate nella lingua anche di media formalità, ma in scritti maggiormente controllati si potrebbe scegliere forme come so quello/ciò che mi hai dettosono a conoscenza di questo/ciò e sim. per quanto riguarda il primo esempio; e dimmi tu cos’è/che cos’è. Ho ragione?

 

RISPOSTA:

Lei ha ragione: le costruzioni come quelle da lei presentate, note come dislocazioni a sinistra (questo lo so) e a destra (dimmelo tu cos’è), sono ricorrenti nel parlato e sono accettabili anche in contesti di media formalità. Nello scritto di media formalità, invece, sono meno appropriate, perché sono ridondanti, in quanto ribadiscono due volte lo stesso elemento (questo lo so = so questo questodimmelo tu cos’è = dimmi tu cos’è cos’è). Ovviamente, tale ripetizione non è vuota, come può sembrare a prima vista, ma ha una funzione comunicativa: nella dislocazione a sinistra serve a richiamare il tema, cioè l’argomento in questione, che potrebbe essere non immediatamente presente all’interlocutore; nella dislocazione a destra serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore lo abbia identificato. Nello scritto si può fare a meno di tali funzioni, oppure si possono usare altri costrutti più complessi per realizzarle: a proposito di questo, a tal riguardoper quanto riguarda questo
Per saperne di più sulle dislocazioni può consultare l’archivio di DICO usando le parole chiave dislocazione e dislocazioni.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Ho sentito da una persona che si esprime sempre molto correttamente la forma io riappargo. Si tratta di un uso attestato, seppur raro, oppure è un lapsus?

 

RISPOSTA:

La forma è attestata soltanto nell’italiano popolare e in testi molto trascurati; non è, pertanto, considerabile una variante accettabile neanche nel parlato informale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

vorrei sapere se il testo che riporto di seguito è corretto.

Egregio Dirigente Scolastico C. V.,
sono  R. L. ;  docente che ha avuto un giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità. Comunico che mi sono sottoposta alla prima dose del vaccino anti-COVID e il 16 maggio farò la seconda dose. Chiedo la revisione del giudizio da parte del Medico Competente per tornare in servizio in presenza.
Distinti saluti.

 

RISPOSTA:

Nel testo non ci sono errori; suggerisco, però, alcuni aggiustamenti che lo renderebbero più appropriato. La maiuscola di Dirigente è comprensibile, sebbene non necessaria: ingiustificate e da eliminare, invece, sono quelle di ScolasticoMedico e Competente.
Insolito è l’inserimento del nome del destinatario (sempre che C. V. siano le iniziali del nome) dopo il titolo del ruolo; si può senz’altro eliminare il nome, anche perché in questo modo si segnala che ci si rivolge alla funzione, non alla persona. Sempre a proposito del destinatario, l’aggettivo egregio è pomposo e al limite dell’appropriatezza in una comunicazione formale ma tra due persone che, immagino, si conoscano personalmente. Più adatto alla situazione sarebbe Gentile
All’inizio del testo non è necessario presentarsi, come se si parlasse al telefono; è sufficiente a questo scopo inserire la firma in calce. Eliminato il riferimento personale, rimane in primo piano, come è giusto che sia, il motivo della comunicazione, che potrebbe essere formulato così: in relazione al giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità di cui sono stata oggetto, comunico…
Infine, l’aggettivo Distinti associato a saluti è distaccato e asettico; in questo contesto potrebbe essere sostituito da Cordiali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Spesso, nelle vostre spiegazioni è stato citato il valore epistemico del futuro anteriore, per indicare un fatto di cui non si sia completamente certi. In proposizioni oggettive che siano incardinate su sintagmi quali essere sicurocertoconvinto ecc. è ammissibile scegliere il futuro anteriore, oppure si verrebbe a creare una contraddizione logica (se sono convinto di qualcosa, per quale motivo dovrei costruire la frase con un tempo che indica l’opposto?).
“Sono certo che Michele avrà capito ogni cosa”.
Per concludere, indipendentemente dall’adeguatezza del futuro anteriore in costruzioni del genere, vorrei domandarvi se, in questi casi, sia possibile usare tanto il congiuntivo quanto l’indicativo, con propensione verso il primo dei due quando si voglia aumentare il livello di formalità. Il tema è affrontato di frequente nelle vostre risposte; tuttavia, mi pare che in letteratura (e in essa includo anche autori blasonati) vi sia una netta prevalenza (per non dire una quasi esclusività) del modo indicativo. In altre parole, in anni di lettura difficilmente mi sono imbattuta in esempi quali “Sono sicuro che Tizio sia a casa”; “Ero certa che Caio non volesse parlarne”, ecc. Nelle frasi negative, invece, le occorrenze con il congiuntivo sono indubbiamente meno insolite, anche se, mi pare, inferiori rispetto a quelle con l’indicativo.
Personalmente, ho sempre preferito il congiuntivo e continuerò a preferirlo, nonostante, alle volte, abbia l’impressione che questa scelta sia percepita dagli altri come un errore.

 

RISPOSTA:

Una oggettiva con il futuro anteriore retta da essere sicuro o simili è sintatticamente possibile e semanticamente giustificabile se il parlante intende l’essere sicuro retoricamente, ovvero come equivalente a sperare. Ecco un esempio letterario:
“Vi renderete conto da voi stesso come il mio lavoro sia stato pressante, senza tregua, senza respiro, e m’abbia preso tutto. Sono sicuro che avrete capito e agito di conseguenza” (Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli, 1948).
Per quanto riguarda la scelta del modo in proposizioni rette da espressioni come essere sicuro e simili, la sua percezione della preferenza per l’indicativo, anche in letteratura, corrisponde probabilmente al vero, sebbene io non disponga di dati statistici a sostegno di tale opinione. Condivisibile è anche l’idea che la frequenza del congiuntivo aumenti se l’espressione reggente è negata. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Quale affermazione è corretta tra “Puoi scegliere cosa fare” e “Puoi scegliere che cosa fare”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono perfettamente corrette. Che cosa è più tradizionale e formale. Un’ulteriore alternativa accettabile è che fare, che sarebbe la variante più informale tra le tre. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Quando si scrive una lettera formale Cordiali Saluti va scritto con le lettere iniziali maiuscole oppure no?
Ad esempio: 
“Le porgo cordiali saluti” oppure “Le porgo Cordiali Saluti” ?

 

RISPOSTA:

Non c’è una regola precisa sull’uso delle maiuscole in italiano. In generale è frequente che la maiuscola venga usata con nomi comuni come PresidenteDirettore / DirettriceSindaco / Sindaca e tutti gli altri che identificano cariche pubbliche e posizioni di potere. Sulla base di questo uso si potrebbe credere che la maiuscola renda un’espressione come Cordiali Saluti più ossequiosa, quindi più formale, ma ritengo che questo sia un eccesso e si possa tranquillamente evitare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

È vero che la frase “a me non me ne frega niente” suona male, ma l’ho trovata in molti libri e volevo sapere se fosse totalmente errata.

 

RISPOSTA:

La frase è molto comune e non si può dire totalmente scorretta, sebbene al suo interno riconosciamo alcune forzature grammaticali. Innanzitutto notiamo la ridondanza pronominale a me… me, dovuta alla dislocazione a sinistra del sintagma preposizionale a me con conseguente enfatizzazione dello stesso. Il sintagma, cioè, risalta, è più “forte”, perché è sistemato all’inizio della frase (a sinistra) e può essere pronunciato con una intonazione particolare e una pausa che lo separa ulteriormente dal resto. Una seconda forzatura riguarda il verbo fregarsene. Questo verbo è formato sulla base di fregare, a cui si aggiungono i pronomi si (nella forma se) e ne. L’unione di queste parti produce un cambiamento non solo della forma, ma anche del significato del verbo base: fregarsene, infatti, ha un significato completamente diverso da fregare. I verbi come fregarsene (andarsenecavarselaintenderseneintenderselavederselamettercivolerci…), detti procomplementari, sono un po’ ai margini della grammatica ufficiale, perché i pronomi che ne fanno parte hanno una funzione non chiara, e perché hanno significati “espressionistici”, nel senso che veicolano forti sfumature emotive (si pensi alla forza espressiva di me ne vado rispetto a vado via o a quella di me la sono cavata rispetto a ho superato quella difficoltà).
Le forzature abbassano il livello di accettabilità della frase, quindi la rendono particolarmente adatta a contesti comunicativi privati, in cui è più importante manifestare le emozioni che seguire passo passo le regole grammaticali standard. Al contrario, in contesti pubblici, specie scritti, si può usare una variante come non sono affatto interessato / interessata o simili.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice: “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andava” oppure “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andasse”?

 

RISPOSTA:

Si può dire in entrambi i modi: normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo, ma quando dipende da una proposizione al congiuntivo può essere “attratta” nell’orbita del congiuntivo. Non c’è nessuna differenza semantica tra le due varianti, ma quella con il congiuntivo è più formale dell’altra (come sempre avviene nei casi in cui sia possibile usare sia l’indicativo sia il congiuntivo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Registri
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QUESITO:

Quale affermazione è corretta?
“Di cosa si tratti”.
“Di cosa si tratta”.
E in questo caso?
“Basta poco, massimo 2 minuti”.
“Basta pochi minuti”.
“Bastano pochi minuti”.
“Bastano poco minuti”.

 

RISPOSTA:

Riguardo alla prima richiesta, se la frase è autonoma, quindi è per forza una interrogativa diretta, il modo da usare è senz’altro l’indicativo: “Di cosa si tratta?”. Se, invece, è una interrogativa indiretta il congiuntivo è una scelta più formale dell’indicativo: “Vorrei sapere di cosa si tratti” (anche corretto, ma meno formale, “Vorrei sapere di cosa si tratta”). Tranne che tale proposizione sia introdotta dal verbo dire, che preferisce sempre l’indicativo: “Dimmi di cosa si tratta”. 
Per quanto riguarda la seconda richiesta, bisogna ricordare che bastare è un verbo, quindi concorda con il soggetto della frase. Nella prima frase il soggetto è il pronome poco, quindi la forma di bastare richiesta è proprio la terza singolare. Ciò che segue, massimo 2 minuti, è una apposizione del soggetto, costruita correttamente, con l’avverbio massimo (andrebbe bene anche al massimo) che accompagna l’aggettivo numerale 2, a sua volta unito al nome minuti. Si noti che se togliamo poco il soggetto diventa massimo 2 minuti, per cui il verbo deve andare al plurale: “Bastano massimo 2 minuti”.
La seconda frase è costruita male, perché il verbo non concorda con il soggetto. Il verbo, infatti, è singolare mentre il soggetto, pochi minuti, è plurale. L’errore è corretto nella terza frase: “Bastano pochi minuti”. Nell’ultima frase, infine, a essere scorretto è l’accordo tra l’aggettivo poco e il nome da questo accompagnato, minuti. Se poco è da solo, infatti (come nella prima frase), è un pronome ed è invariabile; se è accompagnato da un nome è un aggettivo e deve concordare con il nome accompagnato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Voglio sapere che regalo era” il verbo essere risulta coniugato in modo corretto?

 

RISPOSTA:

Il verbo è corretto. Una scelta più formale dell’indicativo sarebbe il congiuntivo fosse. Sulla scelta tra indicativo e congiuntivo nella proposizioni oggettive si possono consultare diverse risposte nell’archivio di DICO, usando le parole chiave congiuntivodiafasiacompletiva.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

“Domani chiamo” o “domani chiamerò”?

 

RISPOSTA:

La differenza è di registro: il presente è più colloquiale; il futuro più formale. Per un approfondimento può consultare la risposta “Presente o futuro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto “Non è vero che è bravo come dice!” oppure “Non è vero che sarebbe bravo come dice!”?

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le frasi. La prima rappresenta lo stato dell’essere bravo come fattuale, la seconda come condizionato a una possibilità non espressa, per esempio “Non è vero che sarebbe bravo come dice (se non lo aiutassero i suoi amici)!”. Equivalente alla prima frase, ma più formale, sarebbe anche “Non è vero che sia bravo come dice!”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “speriamo vengono da noi”, oppure bisogna dire “speriamo vengano da noi”?

 

RISPOSTA:

Il verbo sperare preferisce sempre il congiuntivo nella proposizione completiva. A maggior ragione, se viene omesso il che il congiuntivo è ancora più atteso, perché questa scelta eleva il registro. Per quando non si possa dire che speriamo vengono sia sbagliato, è certamente una costruzione molto trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Parlando col diretto interessato si potrebbe dire “Spero che stai bene”? Oppure ci vuole sempre il congiuntivo?

 

RISPOSTA:

L’indicativo è corretto ma più trascurato: la scelta dipende dal registro che si vuole usare. Per approfondimenti sulla proposizione oggettiva retta dal verbo sperare può vedere anche le risposte “Spero che può, possa o potrebbe” e “Spero che i dati” dell’archivio di DICO.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali forme sono corrette?
Me ne hanno parlato bene di lui / mi hanno parlato bene di lui.
Io penso che il meglio DEBBA ancora avvenire / venire?
Io penso che il meglio DEVE ancora avvenire / venire ?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti di tutte le frasi sono corrette. Ci sono, tra l’una e l’altra, delle differenze semantiche e diafasiche, cioè di registro. Nella prima frase, la seconda variante è del tutto normale; la prima variante, invece, presenta il tema, cioè l’argomento, ripetuto due volte: la prima volta con il pronome ne, la seconda con il sintagma preposizionale di lui. Per un verso, questa ripetizione è un difetto sintattico (per questo motivo questa costruzione è da evitare nello scritto e nel parlato formale); per un altro, in certi contesti può essere utile ripetere due volte il tema, per sottolinearlo. Nella seconda e nella terza frase l’alternanza tra deve e debba è totalmente diafasica; la scelta tra l’una e l’altra forma va fatta in base al registro che si vuole tenere nel discorso: il congiuntivo è più formale, l’indicativo è meno formale. Tra venire e avvenire, invece, c’è una differenza di significato: venire significa ‘arrivare’, avvenire significa ‘succedere’. Entrambi i significati sono perfettamente coerenti con la frase e cambiano di poco il senso generale della frase stessa, quindi entrambi i verbi si possono usare. La frase, comunque, è piuttosto convenzionale ed è costruita quasi sempre con venire.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quando chiedo ad una persona quando ad esempio arriverà qualcuno che tempo verbale si usa?
Faccio subito un esempio… Si dice “a che ora arriva Marco?” oppure “a che ora arriverà Marco?”
Quale delle due affermazioni è corretta?

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambi i tempi: il futuro è la scelta più tradizionale, e dunque più formale, mentre il presente è la scelta più colloquiale ma adeguata a tutti gli usi.

Da decenni ormai il presente sta soppiantando il futuro in quasi tutti gli usi temporali, per cui non è da stupirsi né da gridare alla lesa maestà linguistica. Del resto, il fatto che l’azione si svolga al futuro è ricavabile praticamente sempre dal contesto. In “Il prossimo anno vado in America” non c’è certo bisogno del futuro per far capire che l’azione non si è ancora svolta, dal momento che basta il complemento di tempo “il prossimo anno”.

Il futuro regge invece ancora molto bene negli usi modali, tipici del parlato. Per es.: “Quanti anni avrà Marina?” – “Secondo me avrà sui trent’anni”. In questo caso (e in moltissimi altri simili: “Saranno state le 10 e un quarto” ecc.) il futuro non indica il tempo futuro dell’azione, bensì una possibilità, un’ipotesi. Quest’uso si chiama modale (perché il tempo è trattato alla stregua di un modo, per indicare l’atteggiamento del parlante), oppure epistemico, cioè ‘che ha a che fare con il grado di verità o certezza di quanto viene detto’.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei sapere se l’uso del condizionale è corretto nella seguente relativa all’interno di periodo ipotetico: “non si aspettavano che, se avessero pubblicato il video, tutte le persone che lo avrebbero visto avrebbero riempito di insulti la vittima”; è forse preferibile il congiuntivo avessero visto?

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo è possibile, ma non necessariamente preferibile; da una parte eleva il registro, dall’altra rende possibile l’interpretazione ipotetica della relativa. Con il congiuntivo, cioè, che lo avessero visto rimane a metà tra la relativa e la ipotetica (se lo avessero visto); con il condizionale passato, invece, l’unica interpretazione possibile è relativa. Il congiuntivo trapassato, inoltre, rappresenta l’evento del vedere come precedente a quello del riempire (o come la condizione che determina quella conseguenza se interpretiamo la relativa come ipotetica); il condizionale passato, invece, rappresenta l’evento come successivo al pubblicare al pari del riempire. Le sfumature semantiche sono da valutare attentamente nello scritto formale; in contesti più immediati, invece, emerge soprattutto la differenza di registro tra le soluzioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coesione, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Speriamo che si muova” o “che si muovi qualcosa”? 

 

RISPOSTA:

Il soggetto della proposizione oggettiva, qualcosa, è di terza persona, quindi le alternative sono due, a seconda che si voglia usare l’indicativo (che si muove qualcosa) o il congiuntivo (che si muova qualcosa). Che si muovi non esiste nella coniugazione del verbo muovere e rappresenta un errore piuttosto comune, tra l’altro reso celebre dall’uso di molti personaggi dei film con protagonista il ragionier Fantozzi: mi dii, vadibatti lei (da cui il nome di congiuntivo fantozziano o alla Fantozzi). L’errore è causato dalla confusione tra le forme del congiuntivo presente della prima coniugazione, che finiscono in -i (io amitu amilui / lei ami), e quelle delle altre coniugazioni, che finiscono in -a (io muovatu muovalui / lei muova).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Ho qualche dubbio in merito alla seguente affermazione. Il vogliate che spesso si usa all’interno di questa frase non mi convince:
“Nel caso in cui aveste ricevuto questo mail per errore, vogliate avvertire il mittente al più presto a mezzo posta elettronica e distruggere il…”

 

RISPOSTA:

La forma è pienamente legittima, sebbene adatta a contesti molto formali o burocratici. Si tratta del congiuntivo presente, seconda persona plurale, del verbo volere, qui con la funzione esortativa, ovvero finalizzato a indurre il ricevente a fare una certa azione. Il congiuntivo esortativo è la forma che sostituisce l’imperativo in contesti formali; l’alternativa a vogliate avvertire, infatti, è avvertite, decisamente più diretta e aggressiva.
L’accordo al maschile con il nome mail (ma in realtà dovrebbe essere e-mail, o email) è al limite dell’accettabilità. Il nome e-mail è comunemente femminile, per cui ci si aspetterebbe questa e-mail, non questo mail. Il maschile non si può definire un errore in assoluto, visto che il genere dei prestiti dall’inglese è soggetto a oscillazione, ma visto che questo nome è saldamente femminile, il maschile appare discutibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le proposizioni relative sono, in linea generale, compatibili con i modi indicativo, congiuntivo e condizionale. Per prima cosa gradirei sapere se il modo e il tempo della sovraordinata possano incidere su questo. Mi rimetto al vostro giudizio riguardo alla validità delle seguente costruzioni:
a) Potrai raccontarmi tutto quello che tu voglia / vuoi / vorrai / vorresti.
b) Potresti raccontarmi tutto quello che tu voglia / vuoi / vorrai / vorresti.
c) Servirebbe una panchina dove ci si possa / potesse / può / potrebbe sedere.

 

RISPOSTA:

La funzione dell’indicativo e del condizionale è sempre chiara; è facile cogliere il cambiamento di significato tra, per esempio, che tu vuoi e che tu vorresti. La variante all’indicativo è oggettiva, reale, fattuale; quella al condizionale è potenziale, o meglio condizionata (presuppone, cioè, un evento che renda possibile l’avverarsi dell’evento al condizionale: che tu vorresti se ne avessi la possibilità). Più difficile è stabilire la funzione del congiuntivo, che figura spesso (non sempre) come un’alternativa più formale all’indicativo e non aggiunge nessun significato specifico alla frase. 
Il congiuntivo ha appunto una funzione di innalzamento del registro nelle sue tre frasi; non si apprezza, infatti, alcuna differenza di significato tra che tu vuoi e che tu voglia nelle prime due, né tra dove ci si può dove ci si possa nella terza.
Per quanto riguarda il tempo da usare, la proposizione relativa è particolarmente slegata dalla consecutio temporum; al suo interno i tempi segnalano il momento in cui avviene l’evento, nel presente, nel passato o nel futuro, non quale rapporto temporale ci sia tra questo evento e l’evento della reggente. La relativa che tu vuoi, pertanto, riguarda il presente, la relativa che tu vorrai, invece, riguarda il futuro. Servirebbe… dove si potesse, infine, è incoerente, perché il verbo della reggente (servirebbe) implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale affermazione è corretta? 
– Voglio che stai bene.
– Voglio che tu stia bene.

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette: la prima è di registro informale e adatta a un contesto in cui gli interlocutori sono in confidenza; la seconda è più formale. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Negli esempi seguenti gli imperfetti nelle proposizioni introdotte da se sono per così dire insostituibili, o sarebbe possibile sostituirli migliorando la qualità generale dei periodi?
1) L’orizzonte era limpido: se si guardava bene in profondità, si poteva scorgere l’approdo dell’isola.
2) Se sapeva la verità – ma ha preferito non parlare -, sarebbe stata disonesta.
3) Se c’era qualcuno in grado di tenerle testa, quel qualcuno era lui.
4) Sentì suonare il campanello. Se era Laura, doveva essere uscita prima del previsto.

 

RISPOSTA:

Gli imperfetti nei suoi esempi non sono tutti equivalenti. Si guardava si può senz’altro sostituire con il congiuntivo trapassato, rendendo la frase più formale: se si fosse guardato bene… La sostituzione è possibile anche per poteva nella stessa frase, ma in questo caso la forma equivalente è il condizionale passato: si sarebbe potuto scorgere…
Anche nella frase 4 la sostituzione non crea problemi: se era Laura equivale a se fosse stata Laura.
La seconda frase presenta la difficoltà dell’ambiguità della funzione dell’imperfetto: non è chiaro se sapeva ha una funzione temporale (se, cioè, indica che il sapere riguarda il passato) all’interno di una ipotesi della realtà, o se ha una funzione modale (se, cioè, indica che il sapere è impossibile o molto improbabile) all’interno di una ipotesi dell’irrealtà. Nel primo caso, sapeva non può essere sostituito con il congiuntivo, nel secondo, invece, può diventare avesse saputo. L’ambiguità è causata dagli altri verbi della frase: ha preferito è coerente con l’interpretazione reale dell’ipotesi; sarebbe stata, al contrario, fa propendere per l’interpretazione irreale. Tutte le interpretazioni sono possibili e legittime.
Nella frase 3, infine, era non è sostituibile con il congiuntivo trapassato perché la proposizione ipotetica è certamente della realtà e l’imperfetto indica un evento reale passato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporvi la seguente frase:
“Preferirei che gli regalassero qualcosa che usa / userebbe / usasse volentieri”.
In questa frase possono essere utilizzati tutti e tre i modi verbali in parentesi? Oppure qual è quello giusto da adottare?

 

RISPOSTA:

Tutte e tre le forme sono corrette; ognuna produce un significato diverso, adatto a situazioni diverse.
Normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo se descrive un fatto o il condizionale se descrive un evento condizionato. Nella sua frase, pertanto, usa indica che il qualcosa regalato è effettivamente usato dal destinatario del regalo. Si tratta di una situazione a rigore illogica, perché il destinatario non può usare un oggetto prima che gli sia regalato; a meno che chi parla non si stia augurando (ma non sembra che sia così) che al destinatario sia regalato qualcosa che già possiede. La frase può comunque essere interpretata con meno rigore, attribuendo a qualcosa il significato di ‘qualcosa di un certo genere’: in questo modo l’illogicità sparisce, perché l’emittente si sta augurando che il destinatario riceva un oggetto di un genere che usa volentieri. Ovviamente, l’imprecisione abbassa il livello di formalità della frase, che risulta leggermente trascurata.
Il condizionale userebbe indica che l’uso del qualcosa è, appunto, condizionato dalla ricezione del regalo: … qualcosa che userebbe (se gli venisse regalato). Questa opzione non presenta difficoltà.
Il congiuntivo usasse ricalca il senso dell’indicativo, a cui aggiunge una sfumatura consecutivo-finale che fa sparire automaticamente l’illogicità: … che usasse = ‘che comportasse come conseguenza che il destinatario lo usi’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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QUESITO:

Si dice “Professore volevo dirLE una cosa” o “… volevo dirGLI”?
E poi è corretto “Mi scuso per il ritardo” oppure “Mi scusi per il ritardo”.

 

RISPOSTA:

Quando si dà del lei a qualcuno, si mantiene il lei anche nei complementi indiretti. Quindi è corretto professore, volevo dirle. La variante professore, volevo dirgli significa ‘volevo dire a lui’, quindi rimanda a una ulteriore persona di sesso maschile.
Mi scuso e mi scusi sono entrambe corrette: la prima è all’indicativo, quindi descrive un’azione del soggetto (il soggetto dichiara di scusarsi); la seconda è al congiuntivo, detto esortativo, quindi descrive una richiesta del soggetto all’interlocutore (il soggetto chiede all’interlocutore di scusarlo).
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi sono imbattuto in una conversazione e da questa è scaturito un dubbio inerente al corretto utilizzo del congiuntivo: “Come hai fatto a capire che lui sia mio amico” o “Come hai fatto a capire che lui è mio amico”?
Spero di risolvere questo dubbio e capire perché una forma sia più corretta dell’altra.

 

RISPOSTA:

Quasi sempre, con le proposizioni oggettive (quale è quella introdotta da che nel suo esempio) la variante con l’indicativo e quella con il congiuntivo sono ugualmente corrette, ma quella con il congiuntivo è più formale, quindi più adatta allo scritto e al parlato sostenuto. Il verbo capire, in realtà, propende di norma per l’indicativo (come dire e sapere) ma bisogna valutare caso per caso: qui la costruzione interrogativa della reggente rende il congiuntivo pienamente accettabile, quindi anche in questo caso la variante al congiuntivo è più formale di quella all’indicativo (che è comunque più comune).
Può trovare molte altre risposte su questo argomento nell’archivio di DICO cercando la parola chiave diafasia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le mie domande sono connesse, più o meno direttamente, con il periodo ipotetico. Le prime due riguardano i tempi possibili nelle subordinate dipendenti dall’apodosi.
1) Se avessi programmato le ferie, avresti avuto a disposizione tutto il tempo che avresti voluto / volevi / volessi / vuoi (tutti i tempi sono validi?).
2) Se fossi stata un’insegnante, mi sarei premurata di valorizzare gli studenti che avrebbero mostrato / avessero mostrato / mostrassero delle qualità (a proposito dell’ultimo esempio. Ammettiamo che tutte le scelte siano giustificabili, quella con il congiuntivo trapassato sarebbe inevitabilmente ancorata al rapporto di anteriorità della subordinata con la reggente, oppure potrebbe proiettarsi al futuro – come il condizionale passato – ma con maggiore rilievo al carattere eventuale dell’evento?).
3) Se fossi obbligata a sporgere denuncia perché qualcuno mi ha offesa, mi affiderei poi a un buon avvocato (è valido l’indicativo nella subordinata dipendente dalla protasi del periodo ipotetico? Per aumentare il livello di formalità, si potrebbe optare per il congiuntivo passato o trapassato?).

 

RISPOSTA:

1) Sono valide tutte le forme tranne l’indicativo presente. Quest’ultimo, infatti, non si accorda logicamente con avresti avuto, che è un tempo del passato. Si noti che la proposizione relativa è libera dalla consecutio temporum, ma non dalla logica, per cui non è un problema che l’indicativo presente all’interno della consecutio indichi la contemporaneità rispetto al presente (mentre avresti avuto è passato), ma che la costruzione avresti avuto (nel passato) il tempo che vuoi (adesso) è contraddittoria.
2) Ancora per incoerenza è al limite dell’accettabilità avrebbero mostrato, perché mi sarei premurata àncora l’evento al momento stesso in cui avviene, mentre avrebbero mostrato rimanda al tempo successivo. Diventerebbe pienamente logico se al posto di mi sarei premurata ci fosse, per esempio, mi sarei prefissa l’impegno… Le altre due opzioni vanno bene. Il congiuntivo trapassato non può riferirsi alla posterità; può, bensì, indicare un evento molto improbabile contemporaneo a mi sarei premurata (assumendo la funzione ipotetica), oppure indicare un evento precedente a mi sarei premurata (assumento la funzione temporale). Se attribuiamo al congiuntivo trapassato (o anche all’imperfetto) la funzione ipotetica, la proposizione relativa diviene una relativa impropria ipotetica. Se, invece, intendiamo il trapassato e l’imperfetto come tempi che indicano rispettivamente l’anteriorità rispetto al passato e il passato continuato, la relativa rimane non ipotetica. Si noti che anche così non possiamo dire che la relativa rispetti la consecutio temporum (in contraddizione con quanto affermato sopra), perché i tempi sono usati con il loro significato proprio (l’anteriorità rispetto al passato per il trapassato, il passato continuato per l’imperfetto), che, in questo caso, viene a coincidere con le regole della consecutio.
3) L’indicativo va benissimo nella causale in qualsiasi contesto, anche se dipendente da una ipotetica. Questa proposizione, infatti, non ammette di norma il congiuntivo. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Vorrei sapere se le frasi che seguono sono corrette in contesti formali:
– Da quando era piccola adoravo l’ospedale.
– Come credo già sai / Come credo che tu già sappia.
– Credo che lo stai facendo anche tu  / Credo che lo stia facendo anche tu.
– Da quello che mi ha raccontato mio fratello è una scuola molto bella, dice (oppure mi
dice) che i professori sono molto bravi.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase, visto che il soggetto della subordinata è diverso da quello della reggente è bene esplicitarlo: “Da quando lei era piccola adoravo l’ospedale”.
Nella seconda e nella terza la variante più formale è quella con il congiuntivo.
Nella quarta c’è un problema di punteggiatura: la virgola deve essere sostituita dai due punti o dal punto e virgola (al limite anche da un punto fermo). Inoltre è preferibile sostituire sono con siano (per la stessa ragione della seconda e della terza frase), anche se il verbo dire è costruito più spesso con l’indicativo che con il congiuntivo. Dice o mi dice, invece, non influiscono sul livello di formalità. Quindi: “Da quello che mi ha raccontato mio fratello è una scuola molto bella; dice / mi dice che i professori siano molto bravi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

In questa frase si usano questi e quegli. Non si puo usare questo e quello?

Marco e Gabriele sono molto diversi, questi è più timido e quegli è più espansivo. Inoltre a quello piace lo sport e a questo la musica.

 

RISPOSTA:

Questi e quegli sono pronomi rari nell’uso, che possono sostiture i pronomi questo e quello quando hanno la funzione di soggetto (anche se non è escluso l’uso con funzione di complemento oggetto o altri complementi). L’uso di questi pronomi aumenta il grado di formalità del discorso, ma non è obbligatorio.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coesione, Pronome, Registri
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QUESITO:

Si dice: “Ti chiamano quando li fa comodo” o “quando gli fa comodo”?
 

RISPOSTA:

Il pronome li, corrispondente alla terza persona plurale, può essere usato soltanto nella funzione di complemento oggetto (ad esempio: li chiamo = ‘chiamo loro’). Non può, invece, svolgere la funzione di complemento di termine. Per questa funzione si può usare loro (ti chiamano quando fa loro comodo), oppure a loro (ti chiamano quando fa comodo a loro) o anche gli (ti chiamano quando gli fa comodo), che vale anche per la terza persona singolare maschile. Rispetto a loro e a lorogli è più informale, ma è oggi pienamente accettato anche in contesti di media formalità. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri
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QUESITO:

Se mi rivolgo ad un uomo con la forma di cortesia, dirò: ” La terrò informato” oppure ” la terrò informata”?

 

RISPOSTA:

Lo stile più formale, e anche il rispetto più rigoroso della regola dell’accordo grammaticale, imporrebbero il femminile, dal momento che Lei, anche come allocutivo di cortesia, è femminile e non maschile.
Per taluni, tuttavia, l’affiancamento di un pronome rivolto a un uomo e parole (participi passati o aggettivi) con desinenze femminili pare assai stridente, per cui optano per (o inconsapevolmente adottano) l’accordo al maschile.
A questi ultimi “risentiti”, tuttavia, ricordiamo che una cosa è il genere in natura (o anche nella personale immagine di sé), un’altra cosa è il genere grammaticale. Il pronome Lei rimane femminile (nel genere grammaticale) indipendentemente dal genere (fisico o psicologico) della persona cui si riferisce, 

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Quali sono le soluzioni corrette?
1. Vostra figlia è molto più comprensiva e buona di quello che credete / crediate.
2. Marco Bormolini Doyle, nome completo del giovanotto, è / era un veterinario trentaduenne di Livigno (Inizio a descrivere un personaggio della storia; che tempo devo usare?).

 

RISPOSTA:

Le proposizioni comparative (come di quello che credete / crediate) possono avere il congiuntivo, l’indicativo e anche il condizionale (di quello che credereste). La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo, in queste proposizioni, dipende dal grado di formalità che si vuole attribuire alla frase: il congiuntivo è più formale, l’indicativo meno formale e più comune. Sull’alternanza diafasica (cioè relativa alla formalità) tra indicativo e congiuntivo può trovare decine di altre risposte nell’archivio di DICO usando le parole chiave congiuntivo o diafasia.
La scelta tra è e era nella seconda frase dipende dalla sussistenza della qualità del soggetto nell’oggi del narratore (a prescindere dalla sua coincidenza con l’oggi dell’autore). Se la qualità sussiste si userà il presente; se, invece, è legata al passato, si userà l’imperfetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei cercare di capire bene quando si deve usare il congiuntivo o l’indicativo, in particolare in situazioni simili alla frase che segue: “Solo dopo aver avuto queste informazioni è facile comprendere come solo i gelatai qualificati e formati, che conoscono bene i segreti del mestiere, possano far cambiare i comportamenti dei giovani apprendisti…”.
In questo caso è corretto usare il congiuntivo possano far cambiare oppure è corretto usare l’indicativo possono?

 

RISPOSTA:

Si possono usare sia il congiuntivo sia l’indicativo. In generale il congiuntivo è più formale dell’indicativo e dà alla frase maggiore eleganza; in particolare, le proposizioni introdotte da come preferiscono decisamente il congiuntivo.
Può trovare moltissimi esempi e informazioni sull’uso del congiuntivo nell’archivio di DICO, inserendo la parola chiave congiuntivo nel motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale affermazione è corretta grammaticalmente: “Sembra che le cose peggiorino” o “Sembra che le cose peggiorano”?

 

RISPOSTA:

In italiano la proposizione soggettiva (nel nostro caso che le cose peggiorano / peggiorino) può avere l’indicativo o il congiuntivo. La scelta tra i due modi è di natura diafasica; l’indicativo è più comune e meno formale, il congiuntivo è più ricercato e più formale. Potrà trovare molte risposte riguardanti casi simili nell’archivio di DICO; una di queste che contiene molte informazioni è la FAQ  La soggettività del congiuntivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le frasi “Quando puoi, chiamami, così da poterti spiegare la situazione” e “Quando puoi, chiamami, così posso / potrò, spiegarti la questione” sono equivalenti dal punto di vista del messaggio e sono tutte e due corrette?
Inoltre, la frase “Quando puoi, chiamami, così da essere informato sulla questione” può essere intesa, grosso modo, come “Quando puoi, chiamami, così potrai (affinché tu possa) essere informato sulla questione”?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono simili; ognuna, però, presenta qualche sfumatura di differenza, nella forma o nel significato. La prima ha un difetto sintattico, perché contiene una subordinata finale implicita il cui soggetto (tu) non coincide con quello della reggente (io). Per questo motivo, la seconda frase, con la subordinata esplicita, è preferibile. In questa seconda frase, la scelta tra posso e potrò dipende dalla formalità del contesto: il futuro è più preciso, quindi più formale, del presente. Ancora più formale sarebbe il congiuntivo presente (così che io possa spiegarti…). Un difetto in questa frase, da eliminare senz’altro, è la virgola tra il verbo servile e l’infinito da questo retto. Infine si noti che nella prima frase si parla di situazione, nella seconda (e nelle successive) di questione, che sono ovviamente oggetti diversi.
La differenza maggiore tra la terza e la quarta frase è la presenza, nella quarta, del servile, che sottolinea la potenzialità dell’evento dell’essere informato, laddove la terza lo descrive come fattuale. In altre parole, nella terza si dice se chiami sarai informato, nella quarta se chiami potrai essere informato. Le due frasi possono essere accorpate per sfruttare la costruzione implicita della terza (preferibile vista l’identità di soggetto tra la finale e la reggente) e la sfumatura potenziale: così da poter essere informato. In questo modo si costruisce una finale implicita passiva, particolarmente complessa, quindi adatta a un contesto molto formale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Secondo me il seguente periodo non è ben scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle prossime ore”.
Verbo al passato e aggettivo prossime? Sinceramente, non mi convince. Avrei scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle ore successive / nelle ore a venire / nelle ore che sarebbero seguite”.

 

RISPOSTA:

Ha ragione: il centro deittico (cioè il punto di vista della rappresentazione verbalizzata nella frase) implicato dal verbo stabilì è diverso da quello del qui e ora del parlante. Per questo motivo non è possibile usare l’aggettivo prossimo, che rimanda proprio al qui e ora del parlante, ma bisogna sostituirlo con forme che rimandino a lì e allora. Le sue soluzioni sono tutte valide in tal senso.
Va detto che l’imprecisione non è grave, perché la coerenza è salva, visto che non abbiamo difficoltà a capire il senso della frase. Simili difetti vanno evitati nello scritto di media e alta formalità, ma sono perdonabili nel parlato e nello scritto trascurato.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ricordo bene che in italiano non si dice è il giorno quando…, ma è il giorno in cui…?
Inoltre, che differenza c’è tra le proposizioni relative? Quando che può essere sostituito da il quale (la quale ecc.) e quando no?

 

RISPOSTA:

Ricorda bene: è il giorno quando… non è corretto, mentre si può dire è il giorno in cui (ci siamo visti per la prima volta) e anche è il giorno che (ci siamo visti per la prima volta).
Nelle proposizioni relative che può essere sostituito da il quale quando la relativa è esplicativa. Sulla differenza tra relativa esplicativa e limitativa può vedere la FAQ      “Quel ragazzo che parlava a vanvera” o “Quel ragazzo, che parlava a vanvera”? dell’archivio di DICO; può, inoltre, inserire nel motore di ricerca interno dell’archivio il termine esplicativa per trovare altre risposte sull’argomento. In ogni caso, il relativo il quale oggi è usato soltanto nello scritto formale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) “Quando fosse stato interpellato, avrebbe dovuto dire quanta voglia a) ha / abbia b) avesse di visitare di nuovo la sua città”.
2) “Mi sono domandato spesso per quale ragione io a) scrivo / scriva b) scrivessi” (La selezione del presente, indicativo o congiuntivo, può essere giustificata dall’attualità del fatto, a prescindere dal passato prossimo della reggente? Scegliere, per contro, l’imperfetto, fa decadere il collegamento con l’attualità del fatto: scrivessi = ‘ma adesso non scrivo più’).
3) “Aveva lasciato detto di essere chiamato nel caso a) pervenissero b) fossero pervenuti i documenti che stava cercando da tempo”.
4) “Vorrei che tu partissi all’alba, mentre (usato con valore temporale) il sole a) sorge / sorgerà b) sorga”.

 

RISPOSTA:

Nella frase 1) il presente non è possibile, visto che la proposizione interrogativa indiretta (quanta voglia avesse) descrive un evento contemporaneo nel passato rispetto a quello descritto nella reggente (avrebbe dovuto dire).
Nella frase 2) sono possibili sia il presente sia l’imperfetto. La distinzione tra indicativo e congiuntivo (presente, ma anche imperfetto) è di tipo diafasico, cioè relativa alla formalità: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. La scelta dei tempi, invece, influenza il rapporto temporale con la reggente. Il presente instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con l’evento descritto dalla reggente. Questo è possibile quando la reggente ha il passato prossimo perché questo tempo, pur essendo passato, proietta l’evento nel presente.
L’imperfetto, rispetto al presente, veicola un senso vicino a quello da lei stessa inteso. Come nella prima frase, infatti, l’imperfetto instaura un rapporto di contemporaneità nel passato con la reggente, quindi descrive l’atto di scrivere come avvenuto nel passato, ma non per forza concluso nel presente.
Nella frase 3) sono possibili entrambi i tempi del congiuntivo. La scelta dipenderà dal grado di probabilità che il parlante attribuisce all’evento del pervenire: l’imperfetto rappresenta l’evento come possibile; il trapassato come improbabile.
Nella 4) deve essere usato l’indicativo, presente o futuro. Il congiuntivo, infatti, non è di norma usato nella temporale introdotta da mentre. La scelta tra indicativo presente e futuro dipenderà da quanto il parlante vuole essere preciso sulla collocazione temporale dell’evento del sorgere (che, comunque, è facilmente collocabile nel futuro per logica, anche senza usare il futuro).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste dirmi quale delle due frasi è corretta? Nella prima è presente potrebbe, nella seconda possa.
1. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai?
2. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte possa non accoglierli mai?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Nella proposizione oggettiva (nel nostro caso che il sistema dell’arte potrebbe / possa non accoglierli mai) possiamo trovare sia il congiuntivo, sia il condizionale. Possiamo anche trovare l’indicativo (che il sistema dell’arte può non accoglierli mai), che è equivalente al congiuntivo, ma meno formale.
La scelta tra il congiuntivo e il condizionale è dettata da ragioni semantiche: il congiuntivo rappresente la soluzione più lineare, senza sfumature particolari; il condizionale aggiunge la sfumatura che gli è propria, introducendo una condizione implicita. Nel nostro caso, con il condizionale si può alludere a una condizione, o una concessione, come che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai (anche se riuscissero a diventare dei professionisti).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sono alle prese con un periodo per me ostico: 
“Sarà / Sarebbe opportuno calcolare quanto tempo sarà passato dall’ultima volta che tu lo avrai visto”.
Mi è venuto spontaneo comporlo così. Tuttavia, in un secondo momento si è fatta largo in me anche quest’altra soluzione”:
“Sarà / Sarebbe opportuno calcolare quanto tempo sia passato dall’ultima volta che tu lo avessi visto”.
Consapevole che in quest’ultimo modo il messaggio del periodo cambierebbe completamente, vi chiedo per cortesia se le due soluzioni sono giuste e se la sintassi italiana ne offra altre migliori.

 

RISPOSTA:

La prima variante è corretta; nella seconda il congiuntivo trapassato non è giustificato, ma deve essere sostituito dal futuro anteriore, come nella prima, o dal congiuntivo passato.
Per quanto riguarda sarà passato / sia passato, entrambe le soluzioni sono corrette: la prima instaura un rapporto di anteriorità nel futuro rispetto a sarà / sarebbe, mettendo l’accento sul momento di inizio del tempo intercorso dall’ultimo incontro; la seconda instaura un rapporto di anteriorità nel presente, che per il congiuntivo equivale all’anteriorità nel futuro, visto che il congiuntivo non ha il futuro. Tra sarà passato sia passato, quindi, la differenza è di tipo diafasico: il congiuntivo, cioè, è più formale dell’indicativo. Il terzo evento introduce una complicazione, perché prende come momento di riferimento un passato nel futuro (sarà passato / sia passato), rispetto al quale è precedente. Il parlante, quindi, deve scegliere se rappresentarlo come precedente rispetto al passato (avessi visto) o rispetto al futuro, quindi al presente (avrai visto / abbia visto). La soluzione più logica è la seconda, perché è chiaro che il piano temporale di fondo (definito dal verbo della proposizione principale) è futuro.  
Una soluzione ancora più informale (perché più vaga) del futuro anteriore, ma probabilmente quella che un parlante sarebbe portato a scegliere in un contesto parlato anche di media formalità, è l’indicativo passato prossimo (hai visto), che collocherebbe l’evento nel passato, quindi automaticamente in un momento precedente a sarà passato (ignorando che il piano temporale di fondo è futuro).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La mia prima domanda si riferisce al modo obbligatorio del congiuntivo quando il soggetto delle proporzioni e uguale “Non penso che io possa aiutarti”; va bene questa frase?
La seconda domanda: i siti dove possiamo studiare una lingua possono essere siti linguistici?

 

RISPOSTA:

Quando il soggetto della subordinata completiva coincide con quello della reggente, il modo fortemente richiesto non è il congiuntivo, ma l’infinito. La sua frase, pertanto, dovrebbe essere “Non penso di poterti aiutare”. Sono possibili, comunque, anche il congiuntivo e l’indicativo (ma è la variante più trascurata): “Non penso che ti posso aiutare / che posso aiutarti”. L’infinito è impossibile quando i soggetti non coincidono; in quel caso si può usare il congiuntivo (“Non penso che tu mi possa aiutare / possa aiutarmi”) o l’indicativo (“Non penso che mi puoi aiutare / puoi aiutarmi”). L’indicativo rimane la soluzione più informale.
Non è chiaro che cosa intenda con connettere le due frasi: in ogni caso, con l’infinito o un modo finito (congiuntivo o indicativo) le proposizioni sono connesse.
L’espressione siti linguistici è abbastanza chiara. Per essere più precisi si può usare anche siti per l’apprendimento linguistico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questo caso qual è la forma corretta?
“Quando mi chiederanno quali sono i miei autori preferiti gli risponderò” oppure “Quando mi chiederanno quali siano i miei autori preferiti gli risponderò”.

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette. Il congiuntivo è più formale e adatto allo scritto; l’indicativo è più comune e adatto al parlato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

È corretta l’espressione “Non dimenticherò quello che mi hai detto: mi scrivo tutto”?

 

RISPOSTA:

Sì: scriversi (tutto)mangiarsi (una pizza)farsi (una passeggiata) sono verbi che non avrebbero bisogno del pronome di appoggio, ma lo aggiungono per esprimere una forte partecipazione emotiva all’azione. Rispetto a scrivere, insomma, scriversi significa qualcosa come ‘scrivere con attenzione’.
Chiaramente, in contesti formali scriversi e simili vanno sostituiti con espressioni più precise, come, appunto, scrivere con attenzionemangiare con soddisfazionefare volentieri ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In una chat ho detto “non si capisce quello che vorresti dire” riferita ad una frase di qualche secondo prima. La forma al passato del condizionale, avresti voluto, sarebbe stata più corretta da usare?

 

RISPOSTA:

Non sarebbe stata più corretta, ma semanticamente diversa: vorresti dire rappresenta l’atto del dire come ancora attuale, mentre avresti voluto dire lo riporta al momento in cui è stato detto qualcosa. Nel primo caso, quindi, si considera la cosa detta come rilevante per il prosieguo della conversazione; nel secondo caso la si mantiene nel passato, suggerendo che sia poco rilevante. 
Al posto del condizionale, si può usare il congiuntivo, più adatto a contesti formali: “Non si capisce quello che tu voglia / abbia voluto dire”. Al contrario, l’indicativo è più diretto del condizionale, quindi è adatto a contesti molto informali, perché è privo della cortesia veicolata dal condizionale: “Non si capisce quello che vuoi / hai voluto dire”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale forma è corretta?
Credevo che dovessimo / avremmo dovuto fare una settimana al mare. 

 

RISPOSTA:

Sono corrette entrambe le varianti. Quella con il congiuntivo imperfetto è più formale.
L’alternanza tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato nelle proposizioni completive è oggetto di molte risposte, con diversi esempi, che si possono leggere nell’archivio di DICO usando il motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

in un costrutto in cui il passato remoto sostiene le azioni certe è corretto adottare il congiuntivo passato per indicare un’azione a sua volta conclusa ma di cui il parlante non è pienamente sicuro?
“Lui parlò, mangiò e credo che abbia visto un film”.
Se anche il vedere un film fosse stato un fatto certo, oltreché concluso, si sarebbe detto vide un film.
Ecco: se esiste, qual è l’equivalente al congiuntivo del passato remoto?

Mi capita talvolta di adottare, istintivamente, il congiuntivo passato per subordinate di periodi in cui la reggente sia introdotta da non vorrei che:
“Non vorrei che i tuoi genitori, poc’anzi, si siano offesi per ciò che ho detto”.
Si tratta di un errore?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra indicativo e congiuntivo nelle proposizioni completive non è dovuta alla certezza dell’emittente su ciò che sta dicendo, ma al grado di formalità che vuole adottare. In particolare, in dipendenza da verbi di opinione (che, come capisce bene, esprimono già da sé l’idea dell’incertezza) il congiuntivo è fortemente consigliato, mentre l’indicativo (passato remoto o prossimo) suona un po’ trascurato.
L’uso dei tempi del congiuntivo è regolato dalla consecutio temporum, che attribuisce a ogni tempo il suo ambito.
Il condizionale presente del verbo volere e di tutti i verbi che indicano desiderio, aspirazione, necessità regge di norma i tempi del passato del congiuntivo, quindi imperfetto e trapassato. Le ragioni di questa reggenza passata per un tempo presente sono spiegate nella risposta n. 2800136 dell’archivio.
Il congiuntivo presente in dipendenza dal condizionale presente di questi verbi è considerato errato, ma è comune, e accettabile, in contesti informali. Una frase come “Non vorrei che tu abbia sonno”, insomma, è accettabile tra amici, sebbene più formale sia “Non vorrei che tu avessi sonno”. Allo stesso modo, a “Non vorrei che tu abbia pensato di andare a dormire” si preferisce, in contesti formali, “Non vorrei che tu avessi pensato di andare a dormire”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sempre saputo che il futuro anteriore, nel discorso diretto, diventa condizionale passato nell’indiretto; è possibile che, talvolta, quest’ultimo sia sostituito dal congiuntivo trapassato? Ad esempio, “Marco disse: “Dopo che sarò tornato a casa, tu potrai uscire” può trasformarsi in “Marco disse che dopo che sarebbe tornato / fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire”? È proprio formulando questo esempio che mi rendo conto di quanto sia, per me, stridente il condizionale passato ripetuto, che peraltro annulla le distinzioni temporali marcate dal discorso diretto. Insomma, in questo caso userei il congiuntivo.
Nella frase “Se fossi stato al posto tuo, avrei fatto ciò che mi avrebbero detto” sarebbero giuste anche le varianti avessero detto e dicessero in base al rapporto temporale tra le proposizioni?

 

RISPOSTA:

La premessa non è precisa: il condizionale passato del discorso indiretto esprime il cosiddetto futuro nel passato, ovvero indica un evento successivo rispetto a un altro che è, a sua volta, passato. Per questo motivo, il condizionale passato sostituisce, nel discorso indiretto, non soltanto il futuro anteriore, ma anche il futuro anteriore del discorso diretto.
Venendo allo specifico del suo caso, premetto che la variante con il discorso indiretto è meglio costruita con l’infinito, vista l’identità di soggetto tra la reggente e l’oggettiva (Marco disse che dopo essere tornato a casa…). Volendo, invece, mantenere la forma esplicita, nella sua frase sia sarò tornato sia potrai divengono condizionali passati (sarebbe tornato e saresti potuto) perché entrambi questi eventi sono futuri rispetto a un passato che è rappresentato dal verbo disse. Effettivamente, come lei ha notato, la successione temporale in questo modo si annulla; bisogna, però, rilevare che questo non comporta nessuna ambiguità, perché alla precisione morfosintattica supplisce la logica (nessun parlante avrebbe dubbio sulla corretta ricostruzione della sequenza delle azioni anche di fronte ai due condizionali passati). Non a caso, anche nel discorso diretto si fa spesso a meno del futuro anteriore, confidando nella possibilità di ricostruire la sequenza delle azioni future per logica: “Marco disse: ‘Quando tornerò, tu potrai uscire'” non presenta difficoltà interpretative di sorta.
La sostituzione del condizionale passato con il congiuntivo trapassato è possibile perchè nella consecutio temporum quest’ultima forma esprime anteriorità rispetto a un tempo passato. In questo caso il tempo passato sarebbe saresti potuto (che rimane passato pur essendo futuro nel passato). In questo modo, la prospettiva cambia leggermente, e da due eventi ugualmente futuri rispetto a uno passato si passa a due eventi dei quali uno è futuro rispetto al passato (saresti potuto) e l’altro è anteriore rispetto a quest’ultimo (fosse tornato). 
La struttura con il congiuntivo trapassato e il condizionale passato ricalca quella del periodo ipotetico del terzo tipo (= se fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire); sarebbe possibile, ma non necessario, pertanto, attribuire alla frase così formata una sfumatura ipotetica (la proposizione temporale, quindi, sarebbe temporale-condizionale).
Per quanto riguarda l’esempio finale, le varianti sono possibili. Avessero detto, anzi, è quella più formale. Dicessero si può giustificare nell’ottica della consecutio temporum, in quanto evento contemporaneo nel passato rispetto ad avrei fatto; contrasta, però, con il tempo del congiuntivo della protasi (fossi stato), dal quale è fortemente attratto. 

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nello scritto va bene utilizzare il presente al posto del futuro indicativo; es. “La classe viene / verrà divisa in sei gruppi, ognuno dei quali legge / leggerà un libro. I membri di ciascun gruppo condividono / condivideranno la lettura dello stesso libro e poi…”.

 

RISPOSTA:

Prima che la formalità bisogna valutare la chiarezza espressiva: nel suo esempio è impossibile attribuire al presente il valore di futuro, perché mancano avverbi o altre indicazioni temporali che surroghino appunto l’idea del futuro. Il lettore, pertanto, è indotto a interpretare il presente come atemporale, come se quella da lei presentata fosse la descrizione astratta, decontestualizzata, di un’attività. Diversamente, con un’indicazione temporale il presente può assumere la funzione di futuro: “Nella lezione di domani la classe viene divisa in sei gruppi…”. 
Il presente si presta bene a sostituire il futuro nel parlato e anche nello scritto di media formalità; nel suo caso consiglierei di usare il futuro anche dopo aver inserito l’indicazione temporale, perché il contesto sembra richiedere un tasso di formalità superiore alla media (un docente sta descrivendo per iscritto un’attività ad alcuni studenti). La scelta del presente, comunque, è sempre possibile, se il docente vuole ridurre la distanza sociale tra sé e gli studenti.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivo per chiedere conferma della correttezza della frase che segue, tratta da un verbale:
“Come già detto, la situazione è stata espressamente rappresentata ai componenti dell’assemblea, a cui è stato chiesto, espressamente, se avrebbero firmato l’attestazione con i relativi allegati altrimenti non avremmo mandato avanti la pratica”.
Posto che la forma, nel suo complesso, è poco gradevole, l’elemento critico – oggetto di una discussione tra amici – è l’avrebbero firmato; secondo alcuni, infatti, l’uso del condizionale sarebbe scorretto.

 

RISPOSTA:

Come ha giustamente notato lei, la forma è poco gradevole, o meglio a tratti poco adatta a un verbale, per la ripetizione dell’avverbio espressamente, per il passaggio dalla forma passiva, impersonale, a quella personale (altrimenti non avremmo mandato avanti), per la mancanza della virgola, o del punto e virgola,  prima di altrimenti.
Il condizionale passato non è scorretto, ma, al contrario, serve a esprimere il futuro nel passato (su questo concetto rimando alle tante risposte sul tema nell’archivio di DICO) in una proposizione interrogativa indiretta (non ipotetica, si badi).
Più formale del condizionale passato è il congiuntivo imperfetto (a cui è stato chiesto se firmassero l’attestazione), che, però, appiattisce il futuro sul presente, visto che instaura, con il verbo reggente, una relazione di contemporaneità nel passato proiettata al futuro. Il congiuntivo imperfetto, cioè, indica sia che l’azione sta avvenendo mentre si fa la domanda: a cui è stato chiesto se firmassero (= ‘stessero firmando’) l’attestazione, sia che potrebbe avvenire in seguito; il condizionale passato, invece, restringe l’interpretazione alla posteriorità rispetto al momento della domanda (che deve essere, comunque, nel passato).
Il congiuntivo trapassato, altresì, sposterebbe l’evento della firma a prima della domanda, modificando il senso della frase.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta?
“Il protagonista ritiene che l’unico modo per ottenere il successo sia quello del ricatto…” oppure “Il protagonista ritiene che l’unico modo per ottenere il successo è quello del ricatto…”

 

RISPOSTA:

La proposizione oggettiva dipendente da verbi come ritenere può essere costruita correttamente con l’indicativo e il congiuntivo senza differenza di signficato tra le due scelte. Il congiuntivo è la forma richiesta dalla grammatica standard, quindi è più adatto allo scritto di media e alta formalità; in tutti gli altri contesti si può scegliere anche l’indicativo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Leggo stamane quanto scrive un quotato giornalista italiano in un articolo pubblicato su un giornale a diffusione nazionale: “La sinistra è insorta indignata e non so dargli torto”. Ora, sinistra è femminile, quindi il giornalista avrebbe dovuto scrivere non so darle torto. A meno che il giornalsta non intendesse non so dare torto a quelli di sinistra. Non saprei altrimenti come giustificare questo strafalcione di un giornalista da tutti considerato un vero intellettuale.

 

RISPOSTA:

La distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ è un caposaldo della norma grammaticale italiana contemporanea, sebbene sia molto comune, in contesti informali, usare gli per entrambi i generi. Non c’è dubbio che, in astratto, la sinistra vada pronominalizzato con le, ma, a difesa del giornalista, faccio notare che i pronomi personali luileiglile suonano un po’ male quando sono riferiti a entità non animate. Tra questi pronomi, poi, quelli più stridenti sono proprio quelli femminili, che ci si aspetta rimandino a referenti animati (ci si aspetta, cioè, che il genere coincida con il sesso). Pensi a quanto sia strana una frase come questa: “Non ho visto la porta e le ho dato una testata”. Di solito, il parlante tenta di evitare questa situazione, usando altri pronomi o modificando la frase. Nel mio esempio, potremmo risolvere il problema così: “Non ho visto la porta e ci ho dato una testata”, trattando la porta come un luogo. Con la sinistra non si può usare ci; si potrebbe usare non so dare torto a essa, che, però, suonerebbe artificioso. Ecco, allora, che il giornalista ha optato per quello che gli sembrava il male minore, ovvero gli, che è più accettabile (sebbene non ineccepibile) in riferimento a entità inanimate.
Così facendo, però, ha prodotto un errore per evitare una sbavatura. Per giunta, il referente la sinistra non è del tutto inanimato, quindi non so darle torto non stride troppo.
La sua interpretazione (gli = ‘a loro) è ingegnosa, ma, se anche il giornalista avesse inteso questo, la frase risulterebbe infelice, perché ambigua. Si potrebbe, però, cogliere il suo spunto e superare qualsiasi difficoltà così: “La sinistra è insorta indignata e non so dare torto ai suoi militanti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se dico la grande attenzione e passione con l’intento di rivolgere grande sia ad attenzione che a passione la frase è corretta?

 

RISPOSTA:

In un contesto informale la costruzione andrebbe bene; formalmente, però, l’aggettivo al singolare non può riferirsi a due nomi. Si dovrebbe, allora, riformulare l’espressione con le grandi attenzione e passione, oppure la grande attenzione e la grande passionela grande attenzione e l’altrettanto grande passione o simili.
Fabio Ruggiano

 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

Spesso, specie durante la compilazione di richieste di chiarimenti e simili, ci si imbatte in costruzioni del tipo se sì in luogo di in caso di risposta affermativa. La scelta è corretta? E poi, per enunciare la condizione opposta, si può scrivere se no?
Ad esempio: “Sarebbe possibile parlare con la direzione? Se sì, la pregherei di indicarmi un referente. Se no, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.

 

RISPOSTA:

Le parole  e no sono definite profrasi, perché possono da sole sostituire intere frasi (come i pronomi sostituiscono i nomi):
– Vieni al cinema?
– Sì (= “Vengo al cinema”).
Le profrasi possono essere precedute da una congiunzione, ma con molte limitazioni: 
– le uniche congiunzioni ammesse sono se e perché (ricordo la canzone di Enzo Jannacci “Vengo anch’io / no, tu no / ma perché? / perché no”);
– se no è più comune di se sì (tanto che esiste la variante univerbata sennò, mentre non esiste *sessì).
Quando sono usate con una congiunzione, le profrasi, in quanto singole parole che sostituiscono intere frasi, diminuiscono la precisione espressiva e aumentano il rischio di ambiguità, quindi sono più adatte a contesti informali (come anche quando sono usate da sole). Nello stesso tempo, però, permettono di velocizzare la comunicazione, quindi sono apprezzate in contesti burocratici poco curati, come per esempio i contratti standard, i moduli di richiesta di informazioni da lei descritti e simili. Non si può dire, insomma, che sia scorretto usare se sì e se no in contesti come questi, ma è senz’altro una scelta trascurata. Nella frase da lei proposta, per esempio, espliciterei il primo caso, eliminando la domanda iniziale, e sostituirei se no con un’alternativa anche in questo caso più esplicita: “Se fosse possibile parlare con la direzione, la pregherei di indicarmi un referente. Se non fosse possibile, la pregherei comunque di segnalarmi una modalità per inoltrarvi il reclamo”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

In questa frase dobbiamo inerire il pronome diretto, o siccome si tratta di una costruzione passiva non ci vuole? “In questa citta ci sono dei programmi la visita dei quali non (la) si può perdere”.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nella prima frase è equivalente a la visita dei quali non può essere persa; il sintagma la visita, pertanto, è il soggetto della relativa, e non può essere ripreso con un pronome diretto (che serve a riprendere il complemento oggetto). La ripresa del sintagma con il pronome diretto si può fare se interpretiamo la relativa come impersonale, non passiva. In questo caso il sintagma nominale ha la funzione di complemento oggetto: la visita dei quali non si può perdere, o, con la ripresa pronominale, la visita dei quali non la si può perdere
La doppia interpretazione, impersonale e passiva, della forma del verbo costruita con il pronome si è possibile quando il sintagma nominale che funge da soggetto o da complemento oggetto è singolare; quando è plurale, invece, si propende sempre per il passivo (quindi senza la possibilità di riprendere il soggetto con un pronome): le visite dei quali non si possono perdere = le visite dei quali non possono essere perse.
La costruzione impersonale, anche se rara, è possibile anche al plurale: le visite dei quali non si può perdere. In questo caso, la ripresa è molto favorita: le visite dei quali non le si può perdere.
Si consideri che la ripresa pronominale è una possibilità sintattica marcata, adatta al parlato o allo scritto informale, ma non a contesti formali; la forma standard rimane la visita dei quali non si può perdere
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qualche giorno fa ho sentito durante un servizio televisivo, questa frase: “Le nostre abitudini devono continuare come se niente fosse, anche se in un momento come questo ci fanno stare PIÙ MALE del solito”.
Vorrei sapere se l’espressione in lettere maiuscole è corretta; io avrei utilizzato PEGGIO del solito, ma vorrei capire se e perché è corretta la forma utilizzata dalla giornalista.

 

RISPOSTA:

Troviamo esempi letterari di più male almeno dal Cinquecento: “E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n’erano contrari, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto più male diremmo quando fossimo fuor di quella” (Giovan Battista Ramusio, Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez, ca. 1557). Si noti che, comunque, qui più male si giustifica perché riprende anaforicamente male appena precedente.
Quasi tutti gli esempi di più male fino a oggi figurano all’interno delle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male. Queste espressioni sono parzialmente cristallizzate, come delle unità polirematiche (sentirsi male = soffrire), per cui è innaturale, ma non per questo sbagliato, modificarle sostituendone una parte, male, con un’altra del tutto diversa, peggio. Nel caso di sentire male ‘provare dolore’, invece, male è un sostantivo, quindi non può essere graduato (non si può dire *sento peggio).
Di là da queste espressioni, non ho trovato esempi diastraticamente alti di più male. Non si può escludere che ce ne siano, ma si tratta comunque di un uso marginale.
Parzialmente significativi sono gli esempi, pure rari (per esempio in Pasolini), di stare sempre più male, perché qui più si confonde tra i sintagmi sempre più e più male. Il solo stare più male, senza sempre, del resto, appare spesso in espressioni come non voglio stare più male, nelle quali più è certamente unito a stare, non a male. Esiste ovviamente anche stare più male con il significato di ‘stare peggio’, ma si tratta di un uso informale.
In conclusione, nelle espressioni sentirsi più malefare e farsi più male la forma più male è accettabile anche in contesti di media formalità. In stare più male va considerata poco formale; in altri casi, va considerata trascurata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Storia della lingua
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QUESITO:

Vorrei chiedere dove e come potrei attingere informazioni per capire quando è possibile usare l’espressione e non, come nella frase “Si è servito di strumenti tecnologici e non”.

 

RISPOSTA:

L’avverbio non si usa davanti al sintagma o la frase negata dall’avverbio stesso. In alternativa, può essere usato davanti a un inciso, seguito dal sintagma o la frase negata: “Mario ha 40 anni e non, come lui sostiene, 36”.
Quando, invece, la negazione riguarda il sintagma precedente si usa no
L’espressione e non è usata comunemente, nel parlato e nello scritto, anche al posto di e no. La ragione di questo uso è che il parlante suppone che non sia comunque seguito dal sintagma precedente sottinteso; per esempio: tecnologici e non (tecnologici). Si tratta di una possibilità non necessaria, vista la presenza di e no, ma, visto che è di uso comune, può essere accettata in contesti informali; in contesti formali e ufficiali, invece, è preferibile la forma normale.
Si consideri che la sostituzione di e no con e non è impossibile quando a essere negata è una frase o un verbo: “Vieni o no al cinema?” (*”Vieni o non al cinema?”); “Quello lo conosco, quell’altro no” (*”Quello lo conosco, quell’altro non”).
Una breve illustrazione dell’alternanza tra no e non è nel volume Italiano di Luca Serianni, Milano, Garzanti, 1997, p. 352.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) Ho il dubbio che possa essere scappato / sia scappato.
2) Sospetto che Tizio possa averci ingannato / ci abbia ingannato.

In tutti questi esempi (e immagino che se, al posto di dubbio e sospetto ci fossero stati timorepaura oppure verbi della sfera soggettiva quali, ad esempio, supporreipotizzare ecc., la questione non sarebbe stata differente) il verbo servile potere è facoltativo, ridondante o preferibile? Ho l’abitudine di usarlo in frasi che ricalcano lo schema descritto; tuttavia, non sono certa di essere nel giusto.
Indipendentemente dal servile, le frasi completive costruite con i sopraccitati sostantivi ammettono anche il condizionale in luogo del congiuntivo? Mi è capitato di trovare in un romanzo un periodo del tipo.

3) […] Ora avresti il dubbio che potrebbe aver sofferto.

Non sarebbe stato più indicato possa?

 

RISPOSTA:

Il verbo potere seguito da infinito aggiunge una sfumatura semantica, ovviamente di potenzialità, al verbo retto. Non si può, pertanto, giudicare necessario se non in relazione alle intenzioni comunicative dell’emittente. Certo, in alcuni casi la sfumatura sembra ridondante, perché è già contenuta in altre forme della frase; i suoi esempi 1 e 2 sono casi di questo genere, in cui la potenzialità è già espressa sufficientemente da dubbiosospetto o simili. La ridondanza, però, non è sempre un difetto nella comunicazione umana: girare intorno al concetto, modulare le espressioni, usare più di un congegno di distanziamento sono strategie della cortesia, cioè del meccanismo di protezione sociale che i parlanti applicano per mantenere buoni rapporti reciproci. In altre parole, è possibile (ma bisogna valutare caso per caso) che la ridondanza, semanticamente inutile, serva, comunicativamente, a rafforzare la posizione di incredulità dell’emittente rispetto all’evento.
Per quanto riguarda la frase 3, entrambe le forme, potrebbe e possa, sono possibili. Se non c’è una ragione specifica per l’uso del condizionale, il congiuntivo è la soluzione più formale. Nel parlato (e nella simulazione scritta del parlato), però, non capita spesso di ricercare la formalità, e ci si adatta alle forme più immediate, anche se possono essere un po’ imprecise.
In questo caso, il condizionale è facilitato dalla reggenza condizionale, che attrae nello stesso modo il verbo retto. C’è, inoltre, da considerare che il condizionale configura la proposizione retta come in parte autonoma rispetto alla reggente; se togliessimo ora avresti il dubbio, infatti, potrebbe aver sofferto potrebbe sostenersi da sola; al contrario, il congiuntivo è il modo della subordinazione, che vincola senza alternative la subordinata alla reggente (possa aver sofferto non può reggersi da sola): per questo motivo è preferito nello scritto, che consente di costruire sintassi complesse, ed evitato nel parlato, nel quale la sintassi tende alla semplicità e alla frammentarietà.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quante e quali forme sono valide?
Le donne rammendavano la biancheria fino a che
1a) arrivassero
1b) fossero arrivate
1c) sarebbero arrivate alla quantità desiderata.

 

RISPOSTA:

La forma migliore non è tra quelle elencate: “Le donne rammendavano la biancheria fino ad arrivare alla quantità desiderata“. L’identità di soggetto tra la subordinata e la reggente induce a preferire decisamente la forma implicita della subordinata. Scarterei tutte le altre. Possibile anche la nominalizzazione: “Le donne rammendavano la biancheria fino al raggiungimento della quantità desiderata“.
Nel caso in cui non ci fosse identità di soggetto (per esempio “Le donne rammendavano la biancheria fino a che la quantità…”), le opzioni valide sono le prime due: 
a. fino a che la quantità (non) fosse raggiunta
b. fino a che la quantità (non) fosse stata raggiunta.
Ho sostituito il verbo arrivare con raggiungere perché arrivare non si può volgere al passivo.
L’imperfetto rappresenta il raggiungimento come un processo in corso mentre le donne rammendavano; il trapassato lo rappresenta come avvenuto, osservando la scena dal punto di vista del processo già concluso.
Il condizionale passato (fino a che la quantità sarebbe stata raggiunta) è impedito dalla congiunzione fino a che (o finché) perché proietta il punto di vista verso il futuro rispetto a un momento nel passato, mentre la congiunzione è fortemente ancorata allo svolgimento del processo. L’unico caso in cui fino a che può essere seguito dal condizionale passato è se è retto da una proposizione con il condizionale passato: “Disse che avrebbe continuato fino a che la guerra (non) sarebbe stata vinta”. Anche in questo caso, comunque, è preferibile fino a che la guerra (non) fosse stata vinta (o fosse vinta). 
In un contesto informale, infine, il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo: fino a che la quantità (non) era raggiuntafino a che la quantità (non) era stata raggiunta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Penso che non ce la faccia”;
“Penso che non ce la farebbe”.

Vorrei fare una riflessione sull’alternanza congiuntivo-condizionale nelle completive. Se non vado errato, tali subordinate possono ammettere, in generale, entrambi i modi (con l’aggiunta dell’indicativo, che però non intenderei contemplare in questa sede). Il congiuntivo, in scritti di formalità alta o medio-alta, è da preferire.
Dal mio punto di vista, il condizionale ha però il vantaggio di porre in rilievo una condizione sottintesa che il congiuntivo di norma tenderebbe a trascurare.
In altre parole, il condizionale, in dati contesti, mi pare che consenta di tratteggiare una semantica più precisa, con una correlazione tra causa ed effetto; a differenza del congiuntivo, più propenso invece verso contenuti assoluti.
Recuperando l’esempio di partenza:
“Penso che non ce la faccia” può apparire come un’affermazione senza riferimenti esclusivi a una situazione implicita specifica.
“Penso che non ce la farebbe (anche se dovesse provare a disputare la gara)”.
Gradirei conoscere il vostro parere su questa mia riflessione, che non vuole avere pretese di carattere linguistico. Mi permetto infine di domandarvi se, anche quando vi sia una condizione sottintesa (come quella indicata sopra tra parentesi) possa essere adottato il congiuntivo nella completiva, oppure sia suggerito il condizionale.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda l’alternanza tra congiuntivo e indicativo fa bene a preferire il congiuntivo in questa costruzione, ma non escluderei, in un contesto trascurato, “Penso che non ce la fa”.
Per quanto riguarda il condizionale, invece, questo modo, proprio come arguisce lei, data la sua funzione di modo della condizionalità, implica la presenza di una condizione. In altre parole, usando il condizionale si lascia intendere (sempre che non lo si esprima esplicitamente) che l’evento descritto possa avvenire a patto che ne avvenga un altro, che ne rappresenta la condizione, appunto. Questa condizione è espressa di norma con il congiuntivo e può prendere la forma di una proposizione concessiva (come nel suo esempio), oppure di un complemento concessivo, oltre che di una proposizione condizionale.
Ingiustificata sarebbe una frase come “Penso che non ce la faccia anche se provasse”, perché la concessiva non sarebbe ben collegata con la reggente, di cui dovrebbe rappresentare la condizione. Si potrebbe giustificare soltanto nel parlato come costruzione fatta di due enunciati, il secondo dei quali fosse ellittico: “Penso che non ce la faccia // Anche se provasse (non ce la farebbe)”.
Non mi spingerei a giudicare il condizionale più preciso del congiuntivo perché implica una condizione: direi, piuttosto, che questo modo assolve a una specifica esigenza espressiva, diversa da quella del congiuntivo. Del resto, il fatto che il condizionale richieda un completamento mentre il congiuntivo veicoli un contenuto autosufficiente potrebbe indurre a ritenere quest’ultimo più preciso del primo. Ma, ripeto, etichette come preciso o impreciso sono ambigue quando sono applicate a forme linguistiche e non ci aiutano a usarle correttamente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Qual è la forma migliore per la seguente frase? “Sei la miglior persona che mi è / sia capitata”.

 

RISPOSTA:

La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo coinvolge il registro comunicativo: l’indicativo è più comune e meno formale; il congiuntivo più formale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È sbagliato dire una persona che vogliamo bene? Inoltre, si dice a cui vogliamo bene o cui vogliamo bene?

 

RISPOSTA:

Per essere sicuri di quale funzione sia svolta dal relativo basta fare la prova della reggenza sostituendolo con un pronome personale: nel nostro caso che vogliamo bene diventa le vogliamo bene (non la vogliamo bene), oppure vogliamo bene a lei (non vogliamo bene lei).
Nell’italiano contemporaneo si sta diffondendo il cosiddetto che relativo non flesso, che sostituisce tutte le altre forme del relativo (ovvero cui preceduto da preposizione). Si tratta di un uso trascurato, accettabile soltanto in contesti molto informali e parlati. Per un approfondimento sulla questione si può leggere anche la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO.
Intercambiabili, invece, sono cui e a cui; la variante senza preposizione risulta più ricercata e quindi più formale, quella con preposizione è più comune e comunque valida in tutti i contesti.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo due costruzioni che mi è capitato di leggere:
1. Che futuro offriresti a tuo figlio, se, già prima che nasca, nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici?
2. Se domani non ti telefonassi, vorrebbe dire che avrei avuto un contrattempo.
Sono valide? Vi pongo, inoltre, un paio di interrogativi collaterali.
Esempio 1.
a) È possibile che la proposizione se nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici sottintenda sai giàsei certo che (se, già prima che nasca, sai già / sei certo che ci sarebbero problemi economici), trasformando di fatto la seconda metà della frase in una completiva?
b) Sarebbe possibile sostituire sarebbe con saranno?
Esempio 2.
c) Pur consapevole che cambierebbe la semantica della frase, avrei avuto potrebbe essere sostituito con avrò avuto o ho avuto?
d) Le tre soluzioni sarebbero applicabili anche se al posto di vorrebbe dire ci fosse vorrà dire?

RISPOSTA:

La frase 1 presenta il più classico degli errori di sintassi in italiano, la costruzione della protasi del periodo ipotetico della possibilità con il condizionale presente al posto del congiuntivo imperfetto. La frase corretta è che futuro offriresti… se nella tua famiglia ci fossero… Non è possibile supporre che ci sia una protasi sottintesa (sai giàsei certo o simili) da cui dipenda il condizionale: il ricevente non avrebbe alcun indizio circa l’esistenza di tale elemento implicito.
La frase 2 è possibile: il condizionale passato qui è attratto dal condizionale che lo regge (vorrebbe dire), ma indica semplicemente un passato. Può, quindi, essere sostituito da avrò avuto, nella sua funzione propria di futuro anteriore (perché il contrattempo è futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora, ma passato rispetto al momento in cui non ti risponderò), e anche dal passato prossimo ho avuto, che trascura il tratto del futuro e codifica soltanto il tratto del passato rispetto al momento in cui non ti rispondo. La minore precisione del passato prossimo rispetto al futuro anteriore rende quest’ultimo preferibile in una comunicazione formale. Sostituendo vorrebbe dire con vorrà dire, il condizionale diviene ingiustificato, mentre le altre due forme rimangono valide, con la stessa funzione e valenza diafasica.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Improvvisamente si ricordò di ciò che era accaduto e guardò la donna: poteva essere lei ad aver commesso il delitto”.
Sarebbe possibile sostituire la parte in grassetto con le seguenti soluzioni?
1. poteva essere stata lei a commettere;
2. poteva essere stata lei ad aver commesso;
3. avrebbe potuto essere lei a commettere;
4. avrebbe potuto essere lei ad aver commesso.
Considerando anche la scelta dell’autore, tra le cinque soluzioni quale vi sembra più consona al contesto?
In che modo si declina la differenza tra l’infinito passato, se è giustificato in questo contesto, e l’infinito presente? L’infinito passato indica ad esempio che l’azione è avvenuta prima di quella della proposizione reggente?

 

RISPOSTA:

L’infinito passato esprime proprio l’anteriorità dell’evento rispetto a quello della proposizione reggente. Allo stesso modo, l’infinito presente esprime la contemporaneità e, a certe condizioni, la posteriorità (per esempio: “Mi ha chiesto di andare domani al mare”). 
Questa funzione verbale si intreccia, nella frase in questione, con la stretta relazione tra il verbo servile e l’infinito da esso retto. Si deve considerare, infatti, che dal punto di vista semantico e sintattico poteva essere equivale a forse era e poteva essere stata a forse era stata. Ne consegue che poteva essere lei ad aver commesso equivalga a forse era lei ad aver commesso, che è perfettamente rispondente alla consecutio temporum, visto che poteva è in linea con si ricordò e aver commesso indica un evento anteriore a poteva. Nel caso di poteva essere stata lei a commettere avremmo una situazione diversa, ma ugualmente accettabile, nella quale il verbo reggente (poteva essere stata = forse era stata) è già anteriore a si ricordò, quindi può ben essere contemporaneo a commettere. Si noterà che poteva essere stata proietta il dubbio nel passato, allontanandolo dalla situazione di riferimento, laddove poteva essere lo rappresenta come attuale (relativamente alla situazione).
La terza ipotesi (la seconda variante) presenta una situazione ancora diversa, nella quale il verbo reggente è anteriore a si ricordò e l’evento del commettere è ulteriormente anteriore. Questa costruzione, sebbene non si possa dire sbagliata, è leggermente meno precisa, perché l’anteriorità di aver commesso non rispetta la richiesta della consecutio temporum, ma è attratta per analogia dal passato del verbo reggente.
Per quanto riguarda la diversa costruzione del verbo reggente, avrebbe potuto essere, si tratta dell’alternativa più formale di poteva essere (l’indicativo imperfetto, infatti, svolge comunemente le funzioni del condizionale passato). Si noti che per riprodurre poteva essere stata avremmo bisogno di avrebbe potuto essere stata, una costruzione talmente complessa, per quanto corretta, da essere sconsigliabile in contesti non altamente formali.
Dal punto di vista sintattico, quindi, per avrebbe potuto essere valgono le stesse considerazioni fatte per poteva essere. La variante avrebbe potuto essere lei a commettere, in particolare, è la meno felice, perché corrisponde a forse poteva essere lei a commettere, che veicola un dubbio sul futuro, non sul passato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo le congiunzioni all’inizio delle frasi sono corrette. Inoltre, è preferibile scrivere che quando ARRIVI il momento dei saluti?

Mi piacerebbe scrivere che è tutta la vita che dico addio alle persone, perché amo le frasi ad effetto, ma sarebbe un po’ esagerato. E fa un po’ ridere ma è allo stesso tempo un po’ triste che quando arriva il momento dei saluti io me ne esca con un semplice “ciao”, come se fosse un giorno qualunque, come se fosse tutto a posto. Ma a volte non ci si saluta nemmeno. Nemmeno con un semplice ciao. E allora lo scrivo qui, per quelli a cui capiterà di leggerlo: ciao.

 

RISPOSTA:

Le congiunzioni a inizio frase sono legittime: hanno la funzione di collegare logicamente il pezzo di testo successivo al precedente, in un’ottica transfrastica, cioè che guarda non alle singole frasi come se fossero isolate, ma alla loro cooperazione nell’architettura del testo. In particolare, la e di e fa un po’ ridere… indica che l’enunciato successivo aggiunge una nuova considerazione a quella dell’enunciato precedente. La congiunzione ma di ma a volte capita, a sua volta, ha un significato concessivo; significa, cioè, ‘anche se è vero quanto ho detto finora, è anche vero quello che sto per dire adesso’. Nemmeno è considerato da molte grammatiche una congiunzione, ma è, piuttosto, un avverbio. Il collegamento tra l’enunciato nemmeno con un semplice ciao e il precedente è implicito, ed è di tipo esemplificativo: il nuovo enunciato, cioè, fornisce un esempio di come non ci si saluta. Infine, il significato della e di e allora lo scrivo qui… è chiarito dall’avverbio allora: la relazione tra i due enunciati è di consecuzione.
Per quanto riguarda il congiuntivo nella temporale quando arriva il momento, è un’alternativa possibile. Avrebbe come conseguenza l’innalzamento del livello di formalità (forse in modo eccessivo rispetto allo scopo del testo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito dell’alternanza tra futuro anteriore e futuro semplice e di come questo sia quasi sempre sostituibile a quello in registri di media formalità, è possibile fare questa sostituzione nell’esempio sotto indicato?
1) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato trascorreranno al massimo venti minuti.
2) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato saranno trascorsi al massimo venti minuti.

 

RISPOSTA:

Nella sua frase, prima di tutto scambierei la posizione degli eventi del cominciare e del terminare: “Vedrai che domani, da quando lei avrà cominciato l’esame a quando lo terminerà,…”.
In secondo luogo, confermo che il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice trascorreranno. Con il futuro anteriore si mette in evidenza l’anteriorità del trascorrere del tempo rispetto al termine dell’esame; con quello semplice si rappresenta soltano l’evento come futuro. Non solo il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice, ma anche avrà cominciato (da quando lei comincerà l’esame a quando lo terminerà).
​​​​​​​Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È preferibile usare ugualmente o parimenti?

 

RISPOSTA:

Sono parole quasi equivalenti dal punto di vista linguistico: dal punto di vista semantico, ugualmente è indicato in riferimento tanto a qualità (come la forma di un oggetto) quanto a quantità, cioè a dimensioni graduabili (ugualmente alto), mentre parimenti fa riferimento soprattutto a quantità ed è meno indicato per le qualità. Si tratta, però, di una differenza sfumata, che può essere anche trascurata. 
Da rilevare è anche la percezione diastratica dei due avverbi: ugualmente è più comune, parimenti (anche perché ha un significato leggermente più specializzato) più ricercato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire:
“Non so se la segreteria le abbia già comunicato che in data… rientrerò in servizio”, 
oppure
“Non so se sia a conoscenza che in data… rientrerò in servizio”

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. La scelta dipenderà, quindi, dalle circostanze. In generale, la seconda versione è più distaccata, tanto che potrebbe essere percepita come fredda (ma potrebbe anche essere preferita in un contesto effettivamente molto formale), perché usa un’espressione astratta come essere a conoscenza, mentre nella prima versione viene chiamata in causa la fonte dell’informazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qual è l’analisi di questo periodo?
E se la vita non fosse una cosa seria, alla fine ce la saremo guastata prendendo tutto maledettamente sul serio.
È corretto l’uso di maledettamente?

 

RISPOSTA:

Il periodo è formato da una proposizione condizionale (E se la vita non fosse una cosa seria,), subordinata di primo grado alla principale (alla fine ce la saremo guastata), che regge un’altra subordinata di primo grado, strumentale implicita (prendendo tutto maledettamente sul serio), intrepretabile anche come una causale.
La proposizione condizionale ha una evidente sfumatura concessiva, che potrebbe essere sottolineata o così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo guastata…”, o, in modo ancora più netto, così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo comunque guastata…”
Maledettamente è corretto, ma si deve ricordare che, per il suo significato, abbassa il registro del discorso: deve essere usato, quindi, nel contesto appropriato.
Nella costruzione del periodo vanno sottolineate due particolarità: la prima è la congiunzione e all’inizio del periodo, che collega il periodo stesso al testo precedente, oppure, in assenza di un testo precedente, all’universo del discorso (come se implicasse: oltre a tutto quello che già sappiamo aggiungo cio…).
La seconda è il futuro anteriore ce la saremo guastata, che instaura un rapporto complesso con il congiuntivo imperfetto fosse. Il congiuntivo, infatti, rappresenta la condizione come possibile, mentre l’indicativo rappresenta la conseguenza come un fatto, e in più, per via del tempo futuro anteriore, osserva l’evento dalla prospettiva futura, rispetto alla quale l’evento è già compiuto.
Un’alternativa possibile per la costruzione della principale è il condizionale passato (ce la saremmo guastata). Con esso, la prospettiva sarebbe dal passato verso il presente, con una fattualità sfumata; senza la certezza, cioè, che l’evento si sia davvero realizzato così come descritto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Avremmo dovuto vederci o ci saremmo dovuti vedere… Quale la forma corretta?

 

RISPOSTA:

Sono entrambe corrette. La prima è più formale, la seconda più comune. La cosiddetta risalita del clitico, ovvero lo spostamento del pronome atono (in questo caso ci) da destra (vederci) a sinistra (ci saremmo), è un tratto tipico dell’italiano dell’uso medio, ovvero della lingua parlata oggi comunemente dalla maggioranza degli italiani.
Si noti che soltanto quando la risalita riguarda il pronome ci i verbi che richiedono l’ausiliare avere prendono essere (avresti dovuto vedermi > mi avresti dovuto vedere), come nella costruzione reciproca: ci saremmo visti = ci saremmo dovuti vedere.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nella subordinata dipendente dalla protasi del periodo ipotetico sottoindicato siano ammessi tanto l’indicativo quanto il congiuntivo:
Se qualcuno venisse a conoscenza (o venisse a sapere) che nei prossimi giorni sia / sarà trasmesso il mio film preferito, potrebbe farmelo sapere?
La scelta della forma passiva, inoltre, è da scartare a favore di quella attiva?

 

RISPOSTA:

Sì, sono ammessi entrambi i modi; il congiuntivo in un registro più alto, l’indicativo in uno di media formalità. In un registro leggermente più basso si potrebbe anche dire che nei prossimi giorni viene trasmesso il mio film preferito e, scendendo di un altro gradino, anche che nei prossimi giorni trasmettono il mio film preferito.
La scelta tra attivo e passivo è anch’essa, quindi, legata alla formalità: il passivo è più formale; tanto più che la forma attiva comporta un’ellissi un po’ marcata di un soggetto alla terza plurale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “È impossibile che le abbia studiate”, si potrebbe usare il presente indicativo al posto del congiuntivo, non essendoci incertezza in ciò che dico?
Si può usare il congiuntivo anche quando sono convinto di ciò che dico? Per esempio: “Sono sicuro che Marco sia a casa in questo momento”.

 

RISPOSTA:

L’idea che il congiuntivo sia il modo dell’incertezza deriva dal fatto che questo modo è usato nella proposizione condizionale, quella introdotta da se. Dobbiamo, però, ricordare che tale proposizione ammette anche l’indicativo (“se vuoi possiamo andare al cinema”) e che anche altre proposizioni subordinate ammettono l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, senza una apprezzabile differenza di significato. Un esempio di come l’uso di uno o dell’altro modo non produca differenze di senso è la oggettiva retta da un verbo che indica certezza, come nella sua seconda frase. Una frase come sono sicuro che Marca sia a casa è corretta e dimostra che il congiuntivo non indichi affatto incertezza. Di converso, una frase, ugualmente corretta, come non so se Marco è a casa dimostra che l’indicativo può ben figurare in una proposizione dipendente da un verbo che esprime incertezza. Anche nella sua prima frase, quindi, abbia studiate può essere sostituito da ha studiate (che, però, non è presente, come lo definisce lei, ma passato prossimo).
Qual è la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo, allora? Il grado di formalità: ogni volta che sia possibile usare l’uno o l’altro modo, il congiuntivo rappresenta la scelta più formale, l’indicativo quella più veloce e distratta. Accanto a questa considerazione di massima, inoltre, bisogna ricordare che alcuni verbi rifiutano il congiuntivo nella completiva, come diresapere e i verbi di percezione (vederesentire). 
Per saperne di puù dell’alternanza tra indicativo e congiuntivo, può consultare le tante risposte sull’argomento dell’archivio di DICO, usando le parole chiave indicativo e congiuntivo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho cercato di raccogliere i miei dubbi, che vertono tutti sui tempi del modo congiuntivo da selezionare di volta in volta.
1a) Quando lei abbia la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.   
1b) Quando lei avesse la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.
La soluzione 1a è comunque valida?

2a) Se in precedenza fosse firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2b) Se in precedenza fosse stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2c) Se in precedenza sia stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
2d) Se in precedenza sia firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.    
Il dubbio, come già spiegato, verte sulla scelta del tempo del congiuntivo. Tutte le soluzioni sono valide?
Il modo della principale, indicativo o condizionale, potrebbe incidere al riguardo?

3a) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprima il desiderio. 
3b) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprimesse il desiderio.
Stesso dubbio del caso precedente.

4a) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenessi l’incarico.
4b) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenga l’incarico.  
4c) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu abbia ottenuto l’incarico.  
4d) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu avessi ottenuto l’incarico.  
Anche qui domando se cambierebbe qualcosa, qualora al posto di vorrei avessimo voglio o vorrò.

5a) Nel caso tu non abbia ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.    
5b) Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”. 
5c) Nel caso tu non ottenessi l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.    
5d) Nel caso tu non ottenga l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
Questo caso, a livello sintattico, fa il paio con il numero 4?

 

RISPOSTA:

Visti i molti esempi, e visto che il periodo ipotetico è uno degli argomenti più trattati nelle domande degli utenti, la rimando all’archivio di DICO per ulteriori approfondimenti.

1. Entrambe le frasi sono legittime. Nella 1a la proposizione temporale rappresenta il fatto come certo (dal punto di vista dell’emittente). Il congiuntivo presente è la variante formale dell’indicativo futuro (quando lei avrà la possibilità di pronunciarsi) o presente (quando lei ha la possibilità…), che è quella più trascurata. Il congiuntivo imperfetto di 1b (avesse) fa assumere alla temporale una sfumatura ipotetica, assimilando quando a se: la temporale, in questo modo, indica una condizione incerta, ma realizzabile (non so ancora se parlerà o no).
2. La protasi del periodo ipotetico introdotta da se può contenere l’indicativo presente, futuro, imperfetto e passato prossimo (e trapassato prossimo in un registro molto basso), o il congiuntivo imperfetto e trapassato. Il congiuntivo presente e passato non sono di norma usati in questa proposizione. Le versioni 2c e 2d della frase, pertanto, sono da evitare. Divengono perfettamente regolari sostituendo i tempi del congiuntivo con gli equivalenti tempi dell’indicativo: se in precedenza è firmato è stato firmato l’accordo. Il presente è firmato, comunque, contrasta logicamente con l’avverbio in precedenza; il tempo passato è decisamente da preferire.
La scelta tra indicativo futuro potrà e condizionale presente potrebbe nell’apodosi modifica leggermente il senso della frase: l’indicativo futuro, infatti, sottolinea la certezza che il console parlerà con l’ambasciatore; il condizionale, invece, lascia una sfumatura ipotetica.

3. Nella frase 3a, consideriamo che prima che richiede necessariamente il congiuntivo e si comporta, dal punto di vista della selezione dei tempi, come quando. Con il presente esprima, si costruisce la contemporaneità nel presente, ovvero con il tempo dell’evento della reggente. Non è giustificato, invece, il congiuntivo imperfetto esprimesse, che indica contemporaneità nel passato. L’imperfetto andrebbe bene se nella reggente ci fosse avrei dovuto / voluto regalargilelo.
 
4. Le varianti da preferire sono la 4a e la 4d perché, come detto a proposito delle frasi 2, la proposizione condizionale (la protasi del periodo ipotetico) introdotta da se preferisce il congiuntivo imperfetto ottenessi e quello trapassato avessi ottenuto. La scelta tra questi due tempi dipenderà dal grado di probabilità con cui l’evento avverrà dal punto di vista dell’emittente.
È possibile usare voglio nell’apodosi, per essere molto diretti (rivolgendosi a una persona con cui si ha confidenza); mentre il futuro vorrò sarebbe a metà strada tra il valore temporale (ovvero in futuro vorrò) e quello epistemico (che lo avvicina a forse voglio).

5. Si noti innanzitutto che la protasi introdotta da nel caso chenel caso in cuinel caso richiede sempre il congiuntivo, anche presente e passato. Nel caso tu non abbia ottenuto, quindi, equivale a se tu non hai ottenuto e nel caso tu non ottenga equivale a se tu non ottieni
Le versioni della frase sono tutte corrette, anche se esprimono sfumature diverse dello stesso concetto.
La 5a e la 5d presentano, come visto sopra, lo stesso tipo di protasi, della realtà, e si differenziano per la relazione temporale con l’apodosi: il presente (ottenga) indica contemporaneità con il presente, il passato (abbia ottenuto) indica anteriorità con il presente. L’alternanza tra sarò contretto e sarei contretto è indifferente ai fini della consecutio temporum, perché entrambe le forme valgono come presenti. Su questo si veda quanto detto sulle frasi 4.
La 5b e la 5d presentano una protasi dell’irrealtà (avessi ottenuto) e della possibilità (ottenessi).
Si noti che il congiuntivo trapassato di 5b ammette l’apodosi così costruita soltanto se l’evento dell’ottenere il lavoro è ancora ignoto all’emittente. Se, invece, l’emittente sa già che la condizione non si è verificata, la frase richiede un’apodosi al condizionale passato (sarei stato costretto). Per esemplificare la differenza: “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma ancora non so se l’hai ottenuto), sarei costretto ad approntare il piano b”. Ma “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma io so già che l’hai ottenuto), sarei stato costretto ad approntare il piano b”. In altre parole, nel caso in cui l’emittente non sapesse se l’incarico sia stato ottenuto, starebbe facendo un’ipotesi possibile (sarei costretto), pur ammettendo che la condizione sia improbabile (non avessi ottenuto); nel caso in cui, invece, l’emittente sapesse che l’esito della condizione è stato contrario a quello che avrebbe fatto scattare la conseguenza, l’ipotesi diviene del tutto irrealizzabile (sarei stato costretto). Ovviamente, se l’emittente sapesse che l’incarico non è stato ottenuto, non costruirebbe mai la frase così, ma direbbe “Nel caso tu avessi ottenuto l’incarico, sarei stato costretto…”.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

“Caro amico, hai ragione che sono trascorse tante settimane da quando ci siamo visti”.
Il che quale funzione ha (credo nessuna)? Andrebbe eliminato e magari sostituito con una virgola?

 

RISPOSTA:

Il che ha una funzione completiva: sintetizza riguardo al fatto che o simili. Si può certamente sostituire con una virgola, o ancora meglio con due punti. Così facendo, però, si trasforma una subordinata in una coordinata per asindeto, rendendola sintatticamente più autonoma. Sul piano semantico, la diversa organizzazione sintattica produce qualche effetto: la subordinata si pone come completamento della reggente, che rimarrebbe sospesa se ne fosse privata, come a dire che la ragione è legata al fatto specifico descritto nella subordinata. La coordinata, invece, si pone come aggiunta: con la virgola mette il secondo fatto sullo stesso piano del primo, in una relazione di difficile interpretazione; con i due punti configura il secondo fatto come una spiegazione del primo (i due punti si interpretano come ciò che segue spiega il motivo per cui è stato detto ciò che precede).
Il che che sintetizza o sostituisce altri connettivi, come perchécosicchéil fatto che ecc., prende il nome di che polivalente ed è una scelta da limitare a contesti poco formali. Per un approfondimento di questo argomento rimandiamo alla risposta 2800522 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Nella frase  “Le sera, mi lavo, ceno e mi guardo un bel film”, il mi guardo è un falso riflessivo? È corretto o è preferibile dire guardo un bel film?

RISPOSTA:

Espressioni come mi guardo un film segnalano un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione. Si tratta di casi particolari in cui nell’uso del pronome prevale non il piano logico ma la funzione affettivo-intensiva: queste costruzioni intensive sono affini al dativo etico propriamente detto (sul dativo etico la rimando alla risposta 280012 dell’archivio di DICO). L’uso dei pronomi atoni intensivi (per esempio in espressioni come mi ascolto una canzonemi mangio una mela) fa parte di un registro colloquiale e familiare ed è generalmente ammesso nel parlato ma non negli scritti formali, in cui ci si aspetterebbe la variante guardo un film.
Per ulteriori approfondimenti su alcuni usi dei pronomi atoni può leggere anche questa risposta dell’archivio di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

I seguenti esempi contengono ripetizioni o pleonasmi e sono pertanto da evitare?
1) Il suo commento è di per sé già eloquente.
2) Te l’ho già detto prima.
3) Risolvere definitivamente il problema.
4) L’uomo è un assiduo avventore del locale.
5) Bazzico abitualmente quel circolo.
6) Non so se lei ne sia capace. Ma il fatto che/se lo sia o non lo sia non è rivelante.

 

RISPOSTA:

Le frasi 1, 2, 3 e 5 presentano avverbi o locuzioni avverbiali che non apportano un significato determinante alla frase e servono soprattutto ad arricchirla sintatticamente. Possono, pertanto, essere definiti pleonastici e in uno stile che voglia essere asciutto andranno evitati (sebbene non si tratti di errori da nessun punto di vista). Si noti che, se nello scritto gli avverbi superflui non hanno ragione di apparire, nel parlato possono servire da appendici informative del verbo. Questo si nota soprattutto nella frase 5: se eliminiamo l’avverbio, l’informazione saliente diviene quel circolo (infatti l’accento della frase viene a cadere tutto su questo sintagma), ma l’emittente potrebbe voler puntare l’attenzione sull’azione del bazzicare, non sul luogo. Per questo scopo avrebbe due possibilità: una dislocazione (quel circolo lo bazzico, così come il problema l’ho risolto) oppure, appunto, l’inserimento dell’avverbio semanticamente quasi neutrale che gli consenta di appoggiare la voce non sul sintagma nominale (bazzico ABITUALMENTE quel circolo). Non ugualmente efficace sarebbe, invece, BAZZICO quel circolo, perché la posizione iniziale non marcata del verbo lo configura come tema, ovvero come informazione poco saliente. Per approfondire i concetti di temaremadislocazione e simili può consultare l’archivio di DICO, a partire dalla risposta n. 28009, che rimanda a sua volta ad altre risorse della pagina.
Decisamente non superfluo è l’aggettivo assiduo della frase 4: un avventore, infatti, può non essere assiduo, ma occasionale, oppure essere accompagnato da una proposizione relativa che lo qualifica diversamente. Il secondo periodo della frase 6 deve essere scompartito, perché le due possibili costruzioni sintattiche accorpate non sono equivalenti, ma una esprime un dubbio, l’altra esprime un fatto:
6a. Ma se lo sia o non lo sia non è rivelante.
6b. Ma il fatto che lo sia non è rivelante. / Ma il fatto che non lo sia non è rivelante.
Le varianti b risultano in contrasto logico con il contenuto del primo periodo, che presenta un dubbio. La variante a potrebbe essere semplificata (Ma se lo sia non è rivelante oppure Ma se non lo sia non è rivelante), ma la semplificazione comporterebbe un lieve cambiamento nel senso della frase, perché farebbe propendere il dubbio verso una delle due possibilità, come se l’emittente sospettasse che il ricevente fosse oppure non fosse capace. Neanche qui, insomma, si riscontra un pleonasmo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio riguardo a questa frase: “Se stavi a casa tua, tutto questo non sarebbe accaduto”.
Con il se l’imperfetto è assolutamente vietato? Devo per forza dire se fossi stato?

 

RISPOSTA:

L’indicativo imperfetto può essere usato al posto del congiuntivo trapassato nella protasi del periodo ipotetico dell’irrealtà in un contesto informale. Anche l’apodosi può prendere l’indicativo imperfetto: “Se stavi a casa tua, tutto questo non accadeva”.
La forma è generalmente da evitare nel parlato e nello scritto di alta formalità (sentenze, articoli scientifici, lezioni e relazioni di studio o di lavoro e simili). Nello scritto di media formalità (componimenti scolastici, e-mail di lavoro e simili) è accettabile, ma produce un abbassamento del tono del testo. Nello scritto informale e nel parlato di media e bassa formalità si può usare senza remore. 
Nella scelta, ovviamente, peseranno anche ragioni di stile personale ed esigenze espressive: nello scritto giornalistico, per esempio, l’indicativo può essere preferito per dare al testo un alone di leggerezza ammiccante.
Questo tema è stato oggetto di decine di risposte che può leggere nell’archivio di DICO usando come parola chiave per la ricerca periodo ipotetico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho una perplessità a proposito del tempo – o dei tempi – valido per accordare una proposizione dipendente dall’apodosi di un periodo ipotetico.

“Se non ti fossi sottoposto a questo esame, ora ti domanderesti / ti saresti domandato: ‘Che malattia ho?'”
potrebbe diventare:
“Se non ti fossi sottoposto a questo esame, ora…
1a) “ti domanderesti che malattia hai”
1b) “ti domanderesti che malattia tu abbia”
1c) “ti domanderesti che malattia potresti avere”
2a) “ti saresti domandato che malattia hai”
2b) “ti saresti domandato che malattia tu abbia”
2c) “ti saresti domandato che malattia potresti avere”.
Quali predicati sono ammessi e quale secondo voi è il più indicato?

Rimanendo in tema di subordinate dipendenti da apodosi, in una frase che abbia come protasi “Se avessi seguito il mio consiglio”, l’apodosi potrebbe essere “ti renderesti conto / ti saresti reso conto”, ma un’eventuale subordinata di quest’ultima si dovrebbe costruire con il tempo imperfetto o anche altri tempi e modi sarebbero possibili?
3a) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare era la soluzione migliore”
3b) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare è la soluzione migliore”
3c) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare sia la soluzione migliore”
3d) […] “ti renderesti conto / saresti reso conto che continuare a studiare fosse la soluzione migliore”
3e) […] “ti renderesti conto che continuare a studiare sarebbe la soluzione migliore”
3f) […] “ti saresti reso conto che continuare a studiare sarebbe stata la soluzione migliore”.

 

RISPOSTA:

Partiamo dall’assunto che i tempi dell’indicativo e del congiuntivo si equivalgono nella proposizione completiva (quindi tanto in “che malattia…” quanto in “che continuare a studiare…”); il congiuntivo, rispetto all’indicativo, caratterizza la frase come più formale, ma non ne modifica il senso. Il condizionale presente, a sua volta, coincide con l’indicativo presente (sia che usiamo il condizionale del verbo, sia che affianchiamo al verbo un verbo servile come potere). Rispetto all’indicativo, il condizionale aggiunge una sfumatura di eventualità, suggerendo che ci sia un’altra condizione sottintesa. Per esempio, nella prima frase “ti domanderesti che malattia potresti avere” suggerisce “… che malattia potresti avere se tu fossi malato”. Come si nota, dal punto di vista semantico non cambia molto; il condizionale, infatti, serve qui non per aggiungere informazioni, ma come espediente per attenuare il peso emotivo dell’affermazione.
Per quanto riguarda i tempi, tutte le varianti da lei proposte sono corrette per entrambe le frasi, ma nel passaggio dall’una all’altra cambia leggermente da una parte il rapporto temporale tra la condizione e la conseguenza (l’apodosi), dall’altra il rapporto temporale tra la reggente (che coincide con l’apodosi) e la completiva.
Sul versante del periodo ipotetico, “se non ti fossi sottoposto… ti domanderesti” comporta uno scarto temporale tra i due eventi: la condizione è avvenuta nel passato, la conseguenza è contemporanea al momento dell’enunciazione; “se non ti fossi sottoposto… ti saresti domandato”, invece, rappresenta i due eventi come contemporanei tra loro, ma entrambi passati rispetto al momento dell’enunciazione. La stessa relazione vale per la seconda frase. 
Sul versante della proposizione completiva, vale la regola generale della consecutio temporum: il presente instaura un rapporto di contemporaneità con il verbo della reggente, il passato di anteriorità, il futuro (o il congiuntivo presente) di posteriorità. Quando la reggente è al passato, il futuro si costruisce con il condizionale passato; è il caso della variante 3f) […] “ti saresti reso conto [nel passato] che continuare a studiare sarebbe stata [nel futuro rispetto a quel passato] la soluzione migliore”.
Potrà trovare molti altri esempi e spiegazioni sulla consecutio temporum e sull’uso dei modi nel periodo ipotetico nell’archivio di DICO, scrivendo nel campo search o consecutio temporum o periodo ipotetico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo su un giornale a diffusione nazionale, nell’articolo di fondo: “… non prendeteci in giro, che non siamo ragazzini …”. Quel che non dovrebbe essere accentato ed avere quindi valore di perché poiché? Altrimenti, come definire quel che?

 

RISPOSTA:

Uno dei tratti più caratteristici dell’italiano contemporaneo è la diffusione nello scritto del che polivalente, ovvero di usi del connettivo che non facilmente inquadrabili nella classificazione grammaticale tradizionale. Si tratta di usi ben noti alla tradizione dell’italiano, ma fino a qualche decennio fa tipici del parlato. Tipici, ma non esclusivi, come dimostrano, per fare un esempio tanto antico quanto illustre, i tanti passi danteschi nei quali la funzione di che è indecidibile (per una disamina di questi passi si può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata proprio a che). Il più famoso è probabilmente il verso 3 dell’Inferno: “ché la diritta via era smarrita”, che nell’edizione Petrocchi (qui riprodotta) appare come ché, ma sul quale ci sono parecchi pareri discordi che vorrebbero la restituzione di che (secondo la lezione di molti codici). Il valore del connettivo nel passo, infatti, può sì essere causale, ma non si possono escludere il valore consecutivo (= tanto che la diritta via era smarrita), quello semplicemente aggiuntivo (= e la diritta via era smarrita), quello che alcuni definiscono modale (= in modo tale che / sicché la diritta via era smarrita) e addirittura, ma si tratta dell’interpretazione meno accreditata, quello relativo (= nella quale la diritta via era smarrita). Tra gli usi del che polivalente, infatti, rientra anche quello di relativo generico, che può sostituire cui e tutti gli altri casi (in cuiper cui ecc.). 
Questi usi sono rimasti ai margini della tradizione scritta fino a qualche decennio fa; anche le occorrenze dantesche sono da interpretare come tentativi di imitare il parlato o occasionali abbassamenti di tono. L’avvicinamento relativamente recente tra lo scritto e il parlato ha portato a una sempre maggiore accoglienza di tratti come questo nello scritto, a partire ovviamente da testi di bassa formalità (famoso il verso della canzone di Jovanotti perché non c’è niente che ho bisogno) o brillanti, come certi articoli giornalistici di commento. Lo scritto mediamente formale ancora rifiuta questi usi, ma è possibile che essi si diffondano sempre di più in futuro. Già oggi, per esempio, il che pseudorelativo all’interno della frase scissa (“È lui che ho visto”) è pienamente accettato. Sulla frase scissa, in particolare, si possono leggere diverse risposte nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Facciamo la spesa agli anziani” equivale a facciamogli la spesa o a facciamoli la spesa?

 

RISPOSTA:

La variante corretta tra le due è facciamogli la spesa.
A differenza delle particelle pronominali (tecnicamente chiamate pronomi cliticimitici vi, che possono fungere da oggetto diretto e indiretto (prendimi = ‘prendi me’ e ‘prendi a / per me’), i pronomi clitici di terza persona si distinguono per la varietà delle forme. In funzione di oggetto diretto avremo lo la al singolare e li e le al plurale (prendili = ‘prendi loro’); in funzione di oggetto indiretto, invece, avremo gli le al singolare (prendigli = ‘prendi a / per lui’), e il solo gli al plurale (prendigli = ‘prendi a / per loro). *”Facciamoli la spesa” è, pertanto, impossibile; “Facciamogli la spesa”, invece, significa ‘facciamo la spesa a / per lui’ e ‘facciamo la spesa a / per loro’ (la disambiguazione è affidata al co-testo). L’uso di gli per ‘a loro’ è ormai accettato a tutti i livelli di formalità; è possibile, però, ancora propendere per “Facciamo loro la spesa” in un contesto molto formale.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Se verificassi che la situazione fosse / sia / è sotto controllo mi sentirei più tranquillo.

La subordinata oggettiva che la situazione fosse, a mio avviso è corretta, ma una collega sostiene che occorre il congiuntivo presente sia. Pur considerando corretto anche l’uso dell’ indicativo (volendo dare alla proposizione una natura realistica), quale tempo del congiuntivo è corretto?

 

RISPOSTA:

Come regola generale, sconsiglio sempre di sostenere che una forma o una costruzione sia scorretta. Molto spesso, infatti, l’errore si rivela essere una variante ammessa dalla lingua, magari con qualche restrizione, o addirittura pienamente legittima. In questo caso, per esempio, le tre forme verbali da lei prospettate sono valide, a certe condizioni. In particolare, fosse è addirittura l’unica possibile se la situazione di cui si parla è passata: “Se verificassi (ora) che la situazione (ieri) fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Se, invece, la situazione è attuale, sia è sicuramente la forma più attesa, perché in linea con le regole della consecutio temporum, secondo cui il presente congiuntivo indica contemporaneità nel presente con il verbo della reggente. La forma fosse, però, non è comunque da escludere, perché può essere attratta dalla struttura sottostante: “Se la situazione fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Si tratta di un uso meno preciso, ma che non definirei scorretto. L’indicativo presente, infine, non rappresenta la situazione come realistica, come lei suppone, ma abbassa il registro linguistico. Non c’è differenza tra sia e è dal punto di vista sintattico, ma la prima forma è più formale della seconda.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Con una reggente all’indicativo (presente o futuro), una subordinata introdotta da appena o da quando può essere costruita tanto con il congiuntivo passato quanto con quello trapassato? Se sì, che cosa cambierebbe a livello semantico?
1. Rachele uscirà di casa, appena / quando abbia sbrigato le faccende.
2. Rachele uscirà di casa, appena / quando avesse sbrigato le faccende.
La costruzione
3. Rachele uscirà di casa, appena/quando avrà sbrigato le faccende
è certamente più attesa, ma vi domando se siano possibili anche quelle sopra elencate.

 

RISPOSTA:

Le tre varianti sono legittime e non sono neanche le uniche possibili. Partiamo dal presupposto che le proposizioni temporali al futuro sono per loro natura affini alle condizionali, sia che contengano l’indicativo, sia che contengano il congiuntivo. È chiaro, infatti, che la previsione di un evento futuro porti con sé una certa componente di potenzialità. Questa componente è minima nella versione 3 della frase, per via dell’uso dell’indicativo: quando avrà sbrigato implica sì se avrà sbrigato, ma nello stesso tempo suggerisce che ciò avverrà certamente (per quanto ne sa l’emittente). Nella versione 2, al contrario, la componente di potenzialità è massima, perché il congiuntivo trapassato (avesse sbrigato) ha il ruolo di indicare un’ipotesi improbabile o impossibile. La frase, quindi, suggerisce che, per quanto ne sa l’emittente, Rachele difficilmente riuscirà a sbrigare le faccende in tempo per uscire.
Ci sarebbe una terza versione della frase, con il congiuntivo imperfetto, che rappresenterebbe la condizione come incerta, ma realizzabile: “Rachele uscirà di casa, appena / quando sbrigasse le faccende”.
La versione 1, infine, rappresenta una variante della 3 senza apprezzabile cambiamento di significato, ma posizionata più in alto sull’asse diafasico, ovvero più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Secondo la predizione, ‘Roma esisterà fino a quando esisterà il Colosseo'”.
Se non vado errato, l’esempio è valido; se però volessimo modificarne le sfumature semantiche, si potrebbe procedere come segue?
1. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esista il Colosseo”.
2. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esistesse il Colosseo”.
3. Secondo la predizione, “Roma esisterà fino a quando esista il Colosseo”.
Le tre varianti sono corrette sotto il profilo sintattico?
La seguente, invece, è scorretta?
4. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esisterebbe il Colosseo”.

 

RISPOSTA:

Il primo punto da considerare è il verbo della proposizione Roma esisterà / esisterebbe. La scelta del modo del verbo dipende qui dalla volontà di rappresentare l’esistenza come un fatto certo (indicativo) o come la conseguenza di una condizione (condizionale).
Nel primo caso ci si aspetta che anche la subordinata temporale (che essendo al futuro ha già in sé una sfumatura di potenzialità) sia all’indicativo futuro (versione 1). Così facendo, i due eventi, pur in un rapporto di condizione-conseguenza, sono rappresentati come certi (per quanto sia possibile rappresentare come certi eventi non ancora avvenuti).
Possibile è anche il congiuntivo presente nella temporale dipendente dalla principale all’indicativo futuro (versione 3); si tratta della variante più formale della versione 1.
Con il condizionale nella principale, la subordinata temporale ammette ancora l’indicativo futuro (“Roma esisterebbe fino a quando esisterà il Colosseo”). In questo caso il condizionale è giustificato da un’altra condizione, diversa da quella dell’esistenza del Colosseo, recuperabile dal co-testo, ovvero la veridicità della predizione: “Roma esisterebbe (se fosse vera la predizione) fino a quando esisterà il Colosseo”. Sarebbe un caso di condizionale di distanziamento; lo stesso che usano i giornalisti quando riportano fatti non confermati (per esempio: “L’imputato avrebbe ricattato il vicino di casa”, ovvero “L’imputato avrebbe ricattato se l’accusa fosse vera, il vicino di casa”).
Se, invece, costruiamo la temporale con il congiuntivo imperfetto (versione 2) mettiamo in relazione diretta la condizione del perdurare dell’esistenza del Colosseo e la conseguenza dell’esistenza di Roma.
La versione 4 della frase, infine, è scorretta, perché rappresenta la condizione all’interno della temporale ipotetica con il condizionale presente, che, invece, serve a rappresentare la conseguenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Sfogliando il vostro archivio delle domande, mi sono soffermata sull’alternanza tra congiuntivo trapassato e imperfetto, passato prossimo e futuri dell’indicativo nelle subordinate. Mi piacerebbe conoscere il livello di formalità delle soluzioni sotto indicate.
1) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi fosse passata, dovrei richiamarlo.
2) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, avrei dovuto richiamarlo.
3) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, dovrei richiamarlo.
4) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi è passata, dovrò richiamarlo.
5) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passerà, dovrò richiamarlo.
6) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi sarà passata, dovrò richiamarlo.

 

RISPOSTA:

1) La proposizione condizionale (se entro domani la febbre non mi fosse passata) configura l’oggettiva (dovrei richiamarlo) come l’apodosi di un periodo ipotetico (di cui la condizionale è la protasi). Il congiuntivo trapassato (fosse passata) indica che l’ipotesi è altamente improbabile, inverosimile. Si noti che questa funzione sintattica in questo caso è svincolata dalla consecutio temporum, tanto che il trapassato può essere usato anche in relazione a un evento futuro quale è quello descritto nella frase.
Riguardo alla 2) e alla 3), il congiuntivo imperfetto (passasse) indica che l’ipotesi è verosimile. L’apodosi di questo periodo ipotetico è una proposizione oggettiva (dipendente da ha detto) e tutte le completive (categoria nella quale rientra l’oggetiva) rispettano fedelmente la consecutio temporum. Stando alla consecutio, un evento successivo a un altro presente si indica con l’indicativo futuro, il congiuntivo presente o, in un periodo ipotetico, il condizionale presente; un evento successivo a uno passato (il cosiddetto futuro nel passato), invece, si indica con il congiuntivo imperfetto o il condizionale passato; la scelta del tempo del condizionale, pertanto, dipenderà dal tempo della reggente. Il passato prossimo (ha detto) è ovviamente un passato, ma vale come presente, perché la disposizione del medico è ancora valida nel momento dell’enunciazione e lo sarà anche nel momento in cui l’emittente dovrà chiamarlo. Il passato prossimo, pertanto, richiede preferibilmente il condizionale presente (dovrei), tanto in relazione a una protasi al congiuntivo imperfetto (ipotesi possibile), quanto in relazione a una al congiuntivo trapassato (ipotesi improbabile). Più insolito, ma non impossibile, sarebbe il condizionale passato (avrei dovuto), che rappresenterebbe automaticamente la disposizione del medico come legata al passato e non più valida (circostanza che potrebbe verificarsi se, per esempio, il medico ha in seguito comunicato una disposizione diversa, o se l’emittente ha già deciso che non seguirà la disposizione).
Nella 4) la proposizione condizionale rappresenta l’ipotesi come reale, suggerendo che sia molto probabile che si verifichi. Il passato prossimo (è passata) in relazione a un evento futuro si giustifica immaginando come momento di riferimento domani, rispetto al quale la febbre si è già manifestata come passata o no. L’apodosi all’indicativo futuro è perfettamente in linea con il grado di probabilità di questa ipotesi, ma essa ammette anche il condizionale, che lascia trasparire la possibilità che nonostante la febbre l’emittente possa non chiamare il medico (come se ci fosse una seconda protasi implicita: se entro domani la febbre non mi è passata, dovrei richiamarlo (se lo ritenessi opportuno)).
Dal punto di vista della formalità, quest’ultima versione della frase ammette delle varianti: quella più formale è la 6), con il futuro anteriore nella protasi (se non mi sarà passata) e il futuro semplice nell’apodosi; quella meno formale avrebbe il passato prossimo nella protasi e il presente nell’apodosi (devo chiamarlo). La 5), con i due futuri, si colloca a un livello intermedio: è meno precisa, quindi meno formale, di quella con il futuro anteriore, ma è più precisa, quindi più formale, di quella con il passato prossimo.
Si consideri che il futuro anteriore è usato soprattutto in contesti di alta formalità, o per evitare confusione qualora il co-testo generi ambiguità. Nel tempo, il futuro anteriore ha subito un progressivo abbandono in favore del futuro semplice e del presente indicativo, decisamente più economici.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Qualora vi interessasse un film sulla pandemia che riguardi la quarantena di una città…”: la domanda è: che riguardi o che riguardasse?

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono possibili. Ugualmente possibile sarebbe che riguarda, ma, come sempre avviene, quando c’è la possibilità di scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo, quest’ultimo rappresenta la scelta più formale. E va aggiunto che la scelta del congiuntivo rispetto all’indicativo è motivata (sebbene non sia obbligatoria) anche dal contesto ipotetico in cui si inserisce la proposizione.
Il congiuntivo nella proposizione relativa, però, non è soltanto la scelta più formale; esso connota anche la proposizione come ipotetica, facendo sfumare il pronome che verso la locuzione nel caso in cui. In questo quadro, l’imperfetto rispetto al presente allontana la rappresentazione dello stato del riguardare dalla realtà. In altre parole, la variante con il congiuntivo imperfetto presenta la caratteristica del riguardare come meno probabile rispetto a quanto appaia con il congiuntivo presente. 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Se, nel frattempo, sarà selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
Non sarebbe stato meglio adottare il futuro anteriore per differenziare la collocazione temporale delle due azioni?
“Se, nel frattempo, sarà stato selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
La locuzione nel frattempo in questo esempio, inevitabilmente proiettato nel futuro, è usata in modo improprio?

 

RISPOSTA:

Certamente la costruzione con il futuro anteriore è più precisa, quindi più formale. Non si può, però, dire che la prima variante sia sbagliata: il rapporto temporale tra le due azioni è, infatti, evidente anche senza il ricorso al futuro anteriore. Tale rapporto, per la verità, è quasi sempre recuperabile dal co-testo o ricostruibile per logica, ed è per questo che il futuro anteriore è sempre meno usato nella lingua comune.
In questo caso specifico, un ulteriore motivo che scoraggia l’uso del futuro anteriore e giustifica ancora più fortemente, al contrario, il futuro semplice, è la presenza di un terzo evento, che lei non riporta nell’esempio, ma che è richiamato dalla locuzione avverbiale nel frattempo e con il quale l’evento del selezionare è in rapporto di contemporaneità. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito fosse favorevole sia che fosse contrario”.
Le due proposizioni della frase dovrebbero essere contemporanee; ma se si volesse rendere la subordinata posteriore alla reggente, si potrebbe adottare il condizionale passato o sarebbe sbagliato (rendendo quindi necessario il ricorso al congiuntivo trapassato)?
“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito sarebbe stato favorevole sia che sarebbe stato contrario”.
Se modificassimo la struttura del periodo trasformando sia che in sia se avremmo 2) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia se mio marito sarebbe stato favorevole sia se sarebbe stato contrario”.
Se la subordinata diventasse una concessiva (introdotta da anche se), avremmo 3) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”.
Nelle due varianti modificate cambierebbe qualcosa a livello sintattico?

 

RISPOSTA:

La locuzione correlativa sia che… sia che introduce due proposizioni condizionali, che richiedono il verbo al congiuntivo ed escludono il condizionale. Ammettono, ma in un registro molto trascurato, l’indicativo in sostituzione del congiuntivo: “… sia che mio marito è / era / sarà favorevole sia che è / era / sarà contrario”. 
A riprova della natura condizionale della proposizione introdotta da sia che, potremmo parafrasare che con una perifrasi: “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia nel caso in cui mio marito fosse favorevole, sia in quello in cui fosse contrario”. 
Il congiuntivo non permette di esprimere la posteriorità, se non in modo molto sfumato, con il presente in relazione a un tempo presente, con l’imperfetto in relazione a un tempo passato: “Spero che domani tu venga alla mia festa”; “Speravo che l’indomani tu venissi alla mia festa”. In una completiva è quasi sempre possibile supplire a questa mancanza del congiuntivo con l’indicativo futuro al posto del congiuntivo presente (“Spero che domani tu verrai”) e con il condizionale passato al posto del congiuntivo imperfetto (“Speravo che domani tu saresti venuto”). Si tratta, comunque, di scelte che abbassano la formalità della costruzione. Nella frase 1), invece, il congiuntivo è in una proposizione condizionale retta da una proposizione al passato, che non ammette la sostituzione del congiuntivo imperfetto con il condizionale passato. Ne consegue che, in questa frase, non c’è modo di esprimere la posteriorità dell’evento della subordinata se non in modo lessicale, ovvero inserendo un riferimento temporale esplicito; per esempio sia che poi mio marito fosse favorevole… In alternativa, si può formulare la frase diversamente; per esempio sia che in seguito scoprissi che mio marito era / fosse favorevole (si noti che l’oggettiva qui ammette pienamente l’indicativo per evitare l’insolita sequenza di due congiuntivi imperfetti l’uno in dipendenza dall’altro).
Lo stesso discorso fatto per la 1) vale per la 2): la costruzione sia se mio marito sarebbe stato favorevole… è scorretta, sebbene risulti leggermente più ammissibile della 1) per via dell’attrazione della completiva logicamente (ma impossibile sintatticamente) sottostante: sia (non sapevo) se mio marito sarebbe stato favorevole…
Riguardo alla 3), la proposizione concessiva, specialmente dopo anche se, ammette sia l’indicativo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito era contrario”); sia il congiuntivo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito fosse contrario”); sia il condizionale passato (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”).
La variante con il condizionale passato situa l’evento certamente in un momento successivo a quello della reggente.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito della possibilità che la consecutio e il periodo ipotetico si intreccino, è anche il caso di questi esempi?

1) Comunque andasse, egli sarebbe stato contento.
2) Comunque fosse andata, egli sarebbe stato contento.

Nella soluzione 1 (consecutio), la secondaria con andasse è contemporanea alla reggente?
Nella soluzione 2 (periodo ipotetico), la secondaria con fosse andata potrebbe essere considerata anteriore non solo, è ovvio, alla reggente, ma anche al momento in cui il periodo è stato enunciato? Anche se ipotizzassimo un esempio introdotto da una dichiarativa, secondo me, il suddetto dubbio rimarrebbe:

3) Egli disse che ieri sarebbe stato contento, se ieri l’altro fosse andata bene.

4) Egli disse che l’anno successivo sarebbe stato contento, se fosse andata bene la visita che avrebbe fatto nei prossimi mesi.

In mancanza di opportuni riferimenti, come si fa a stabilire se le azioni sono già avvenute o possano avvenire?

Due ultime cose, non del tutto fuori attinenza dall’argomento. Il periodo

5) Se tu mi tradissi, la nostra amicizia non sarebbe stata sincera

rientra nei casi del periodo ipotetico misto e pertanto è valido?

Infine, in questa risposta vengono proposte due alternative all’esempio sollevato dall’utente: si potrebbe aggiungere anche la forma “Volevo chiederle se sia possibile”?

 

RISPOSTA:

Gli esempi 1 e 2 non si prestano bene a rappresentare la domanda, perché la proposizione introdotta da comunque non è una condizionale, bensì una concessiva, che non entra in relazione con la reggente per formare il periodo ipotetico. In entrambi i casi, quindi, il tempo del congiuntivo è relativo alla consecutio temporum, non al grado di certezza dell’ipotesi. La difficoltà nella scelta del tempo del congiuntivo della concessiva è tutta interna alla consecutio, e riguarda l’individuazione del momento di riferimento, necessariamente passato, rispetto a cui il congiuntivo imperfetto andasse indica contemporaneità e il congiuntivo trapassato fosse andata indica anteriorità. Ci sono, infatti, due momenti di riferimento possibili, sarebbe stato e l’implicito momento del punto di vista rispetto a cui il condizionale passato sarebbe stato indica un momento posteriore. Per rendere più evidente questo momento del punto di vista, possiamo rappresentarlo con un verbo di dire o di pensare al passato: “Disse che comunque andasse / fosse andata, egli sarebbe stato contento”. Andasse e fosse andata, quindi, possono indicare contemporaneità e anteriorità tanto rispetto a disse, tanto rispetto a sarebbe stato. Nel caso di andasse questo non provoca ambiguità, perché l’imperfetto congiuntivo non può che essere contemporaneo (ma proiettato nel futuro) a disse e precedente a sarebbe stato. Il trapassato, invece, può riferirsi a due momenti effettivamente diversi:

1. (Disse che) comunque fosse andata il giorno prima, egli sarebbe stato contento.
2. (Disse che) comunque fosse andata il giorno dopo, egli sarebbe stato contento.

Nel primo caso, il congiuntivo trapassato si giustifica perché indica un momento anteriore rispetto a un altro passato, ma nel secondo caso sembra indicare un momento posteriore rispetto a un altro passato (disse), quindi come si spiega? In questo caso seleziona come momento di riferimento sarebbe stato, che vale comunque come passato, perché è passato rispetto al momento dell’enunciazione (ovvero rispetto a ora, che il momento da cui noi guadiamo tutti gli eventi descritti dalla frase).
Per disambiguare la frase con il congiuntivo trapassato, ci sono due modi: uno è quello appena visto, l’inserimento di una indicazione temporale esplicita; l’altro è sostituire il congiuntivo trapassato con il condizionale passato nella proposizione concessiva, nel caso in cui l’evento della concessiva sia posteriore rispetto alla cornice:

3. (Disse che) comunque sarebbe andata, egli sarebbe stato contento.

In questo modo, non ci sono dubbi che sarebbe andata sia posteriore rispetto alla cornice e, per logica, anteriore rispetto a sarebbe stato (che rappresenta la conseguenza dell’evento della concessiva).
Il condizionale passato con la funzione di indicare il futuro nel passato nella proposizione concessiva introdotta da comunque  legittimo, ma può essere percepito come scorretto perché è chiara la componente condizionale della proposizione concessiva, che ci induce a preferire senz’altro il conguntivo al suo interno.
Si noti che altrettanto legittimo sarebbe il condizionale presente (in una frase riportata al presente) per esprimere un’attenuazione della fattualità dell’evento: “Pensa che comunque andrebbe, egli sarebbe contento”. L’alternativa con il congiuntivo è, comunque, considerata sempre più formale di quella con il condizionale, e decisamente preferibile anche in contesti di media formalità a quella con l’indicativo: “Pensa che comunque va, egli sarà / sarebbe contento”.
Gli esempi 3 e 4 introducono un problema nuovo, che non è la presenza della proposizione sovraordinata con il verbo di dire (che, però, non si può chiamare dichiarativa, perché la proposizione dichiarativa è una subordinata completiva), ma la sostituzione della proposizione concessiva con la condizionale. In questo caso si può dire che consecutio temporum e grado di possibilità del periodo ipotetico interagiscano, ma è anche vero che nelle sue frasi, ben costruite, non vedo alternative possibili, perché la complessa relazione temporale tra gli eventi prende il sopravvento su eventuali sfumature ipotetiche.
Per quanto riguarda la frase 5, il condizionale passato è dovuto alla relazione temporale di futuro nel passato tra il momento in cui si scopre l’insincerità dell’amicizia e lo svolgimento dell’amicizia. Questo è un altro caso di interazione tra periodo ipotetico e consecutio temporum, che produce quello che può essere definito un periodo ipotetico misto. Tale definizione, per la verità, ma non è necessaria, perché l’idea che il periodo ipotetico sia fissato in tre moduli e che le altre costruzioni siano commistioni di due di questi moduli è una semplificazione grossolana: ogni costruzione del periodo ipotetico ha la stessa validità delle altre.
La sua ultima frase, infine, è corretta sia che volevo indichi un momento effettivamente passato, sia che esso sia la forma di cortesia di voglio e si riferisca, quindi, al presente. Per chiarezza, però, va ricordato che qui il periodo ipotetico non è coinvolto, perché la proposizione introdotta da se è una interrogativa indiretta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le frasi seguenti sono corrette nell’uso dei tempi e modi verbali e che tipo di proposizioni sono.
– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca pensarono che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola se non la smetteva con le sue stranezze.

– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo disse a Luca che la compagna se fosse stata “reale” sarebbe / era nei guai.

– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca si dissero che se era una persona “vera”, non sarebbe resistita a lungo in quella scuola.

 

RISPOSTA:

1) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [proposizione indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca pensarono [principale] che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola [oggettiva] se non la smetteva con le sue stranezze [condizionale].
I verbi vanno bene. L’indicativo imperfetto (se non la smetteva) è una variante meno formale del congiuntivo trapassato (se non l’avesse smessa), qui coerente con il tono generale del testo.

2) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo disse a Luca [principale] che la compagna sarebbe stata nei guai [oggettiva], se fosse stata “reale” [condizionale].
Il condizionale presente sarebbe non è un’opzione valida, perché l’evento dell’essere nei guai può essere o contemporaneo a quello del dire della reggente (Leo disse) o successivo. Nel primo caso sarebbe richiesto l’indicativo imperfetto era o il congiuntivo imperfetto fosse (per la verità molto forzato in dipendenza dal verbo dire); nel secondo caso sarebbe richiesto il condizionale passato (che esprime il futuro nel passato) sarebbe stata o, ancora, l’indicativo imperfetto era. Quest’ultima forma, quindi, rimane ambigua tra la contemporaneità e la posteriorità, perché può assumere entrambe le funzioni. Va sottolineato che la presenza della proposizione condizionale (se fosse stata “reale”) configura la proposizione oggettiva come una apodosi di un periodo ipotetico. Anche se la costruiamo con il condizionale passato, però, questo non rappresenta la conseguenza per forza come irreale, perché, lo ricordiamo, ha la funzione di esprimere il futuro nel passato (e lo stesso vale per l’indicativo imperfetto). Possiamo, quindi, avere sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse stata “reale” (periodo ipotetico dell’irrealtà), sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse “reale” (periodo ipotetico della possibilità).

3) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca si dissero [principale], se era una persona “vera” [condizionale], che non sarebbe resistita a lungo in quella scuola [oggettiva]. 
Si noti che la congiunzione che è stata spostata dopo l’incidentale per permettere l’analisi.
In questo caso era è usato al posto del congiuntivo trapassato fosse stata. Si tratta di una variante legittima, ma meno formale.
L’indicativo imperfetto, come si vede, può prendere il posto tanto del condizionale passato quanto del congiuntivo trapassato; è, del resto, quello che succede in una frase come “Se lo sapevo venivo” = ‘Se lo avessi saputo sarei venuto’.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Quanti errori ho commesso?

1) La sua spavalderia non gli permetteva di riflettere, di capire che dare libero sfogo agli istinti giovanili fosse una cosa; che [si può eliminare?] agire con sfrontatezza e leggerezza, invece, sarebbe diventato pericoloso.  
2) Riguardo all’inferno, disse che l’aveva considerato una punizione solo per gli adulti; e se tutte le ragazze che si comportavano come lei fossero finite all’inferno, per stare calde, non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno. 
3) Sapevano che essere genitori comportasse anche subire grandi delusioni e provare forti dispiaceri. 
4) Quando i ragazzi cominciarono a guardarla con interesse, capì che stava andando nella giusta direzione; o meglio, che lei immaginava fosse quella giusta. 
5) Suor Teresa iniziò dicendo che il giorno dopo sarebbe partita per i ritiri spirituali e che [questo che si può togliere?] sarebbe stata assente per due giorni.   
6) Si consolò pensando che l’esame saltato, in definitiva, era / fosse stato una fortuna, anche se dal retrogusto amarissimo: gli aveva permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) In quel momento entrò la sua segretaria che, vedendolo in quello stato, gli chiese preoccupata… [le virgole si possono togliere?] 
8) Lo pestarono senza pietà, peggio di come lui aveva / avesse fatto con l’altro. 
 

RISPOSTA:

1) Il che si può togliere. Facendolo, però, la struttura della frase, e il suo significato, cambiano leggermente, perché sarebbe diventato pericoloso si configura non più come subordinata di di capire ma come coordinata alla principale.
2) Corretta. Qui l’assenza del che introduttivo di non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno non cambia quasi niente, perché la proposizione non può che essere subordinata a disse
3) Corretta. Il congiuntivo imperfetto è usato secondo i modi della consecutio temporum per esprimere contemporaneità nel passato.
4) La seconda parte è poco coesa, perché che rimane a metà strada tra il pronome relativo e la congiunzione correlativa del primo che. Una possibile correzione è la seguente: o meglio, nella direzione che lei immaginava fosse quella giusta
5) Come la 2.
6) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale. Dopo i due punti si potrebbe aggiungere un segnale discorsivo per maggiore chiarezza: gli aveva, infatti, permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) Le proposizioni incidentali, come la gerundiva vedendolo in quello stato, richiedono le virgole di apertura e chiusura.
8) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale.
Raphael Merida 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la forma della frase “Volevo chiederle se sarebbe possibile fare l’esame in forma scritta anziché orale” è corretta, o se invece bisogna usare il se fosse.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Se sarebbe possibile non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una proposizione interrogativa indiretta retta da sapere. In questo tipo di proposizione si può usare il congiuntivo (quindi se fosse possibile), che è, anzi, la variante più formale, ma anche l’indicativo (se è possibile) e il condizionale, che serve ad attenuare la perentorietà della richiesta, rendendola più cortese.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il seguente periodo è ben costruito?
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
In specie, nella proposizione concessiva sarebbe meglio essere più chiari esplicitando il soggetto (lui)?
“Lei non si era opposta a lui quando questo / quest’ultimo / egli / lui, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Oppure:
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, questo / quest’ultimo / lui / egli le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
E comunque, una subordinata può precedere la principale?

 

RISPOSTA:

Una subordinata implicita deve avere sempre lo stesso soggetto della reggente quando sia costruita con il gerundio o l’infinito. Questa regola serve a garantire la riconoscibilità del soggetto laddove il verbo della proposizione non ha tratti morfologici che rimandi a esso. L’eccezione, comunque codificata, delle proposizioni rette da verbi di comando o di percezione, nei quali il soggetto coincide non con il soggetto della reggente, ma con il complemento oggetto o indiretto (“Ti ordino di andare”; “L’ho visto cadere”) è possibile proprio perché mantiene la riconoscibilità del soggetto dell’infinito. 
I participi presente e passato, che pure sono modi indefiniti, possiedono il tratto morfologico della desinenza, che consente di recuperare facilmente il soggetto nel caso in cui ci sia un solo possibile candidato a questo ruolo, come nella sua frase. Quando ci sia questa condizione, quindi, non è necessario esplicitare il soggetto della subordinata. 
Diverso sarebbe il caso se i soggetti possibili fossero più di uno: “Lui non si era opposto all’altro quando, in primavera, benché già sconfitto, gli aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”. Come si può notare, in una frase siffatta non è possibile stabilire chi sia sconfitto ed è, quindi, necessario esplicitare il soggetto di sconfitto in qualche modo, per esempio con un pronome. Si noti che le sue soluzioni non risolvono il problema (ma vanno comunque bene perché nel suo caso il problema non c’è). L’esplicitazione del soggetto, se necessaria, va fatta all’interno della subordinata, che quindi deve essere trasformata in esplicita; per esempio così: “Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché lui fosse già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Tra i pronomi possibili, vanno considerati anche questi, che è la variante più formale di questo e va usato preferenzialmente come soggetto, e costui, molto formale, tanto da suonare affettato in un contesto medio. Ormai antiquato, ma ancora possibile, è egli
Possibile, inoltre, anche sostituire sua con propria, per sottolineare che l’intenzione sia del soggetto.
La posizione delle subordinate, infine, è piuttosto libera per le proposizioni dette avverbiali, di cui fa parte la concessiva. Posposte alla reggente sono di norma le completive (*”Chi era ti ho chiesto”) e obbligatoriamente le relative (*”Ho quasi finito che mi hai prestato il libro”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In un confronto tra due alternative, nessuna delle quali errata, si può usare l’espressione è più corretto per indicare l’opzione che si ritiene più adeguata, quindi preferibile?

 

RISPOSTA:

Certo, in un ambito in cui la correttezza non sia netta, ma graduale, è possibile che un uso sia più corretto di un altro. Nel campo della lingua, per esempio, molte volte le scelte dipendono dai vari gradi di formalità e dai contesti; un uso più corretto di un altro indica, quindi, che entrambe le soluzioni esistono e che una è preferibile all’altra. Riallacciandomi alle sue parole, più corretto equivale a più adeguato o preferibile
Raphael Merida

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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio: è giusto dire io personalmente? Non è una ripetizione? Non basterebbe dire solo personalmente? L’io non è sottinteso?
 

RISPOSTA:

Più che una ripetizione è un rafforzamento del concetto. In contesti comuni è chiaramente sufficiente dire io oppure personalmente. In un contesto scritto burocratico, come un documento, invece, tale rafforzamento si giustifica maggiormente, nel caso in cui io voglia sottolineare che l’atto è compiuto da me personalmente, non attraverso un’altra persona che mi rappresenta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La costruzione potrebbe darsi che, ma anche quella può darsi che, è compatibile con il modo condizionale, specie quando si abbia una protasi ipotetica implicita? 
Esempio: “Potrebbe darsi / può darsi che sceglierei di rimanere a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Sarebbe comunque possibile, anche in questo caso, optare per il congiuntivo, oppure ne risentirebbe il senso generale? “Potrebbe darsi / può darsi che stia a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Rimanendo nell’àmbito del condizionale, tra le tre forme sotto riportate, quale/i consigliate e quale/i no?
1. La domanda che hai appena fatto dovrebbe essere posta a un’altra persona.
2. La domanda che hai appena fatto andrebbe posta a un’altra persona.
3. La domanda che hai appena sarebbe da porre a un’altra persona.

 

RISPOSTA:

La costruzione impersonale può darsi (o potrebbe darsi) regge una proposizione completiva soggettiva che può essere costruita anche con il condizionale: la frase, quindi, va bene tanto con può darsi quanto con potrebbe darsi. Con una protasi al congiuntivo imperfetto (se fosse organizzato uno sciopero), comunemente si avrebbe il condizionale nell’apodosi, perciò “Se fosse organizzato uno sciopero, potrebbe darsi che sceglierei di rimanere a casa”. Possibile, però, anche l’indicativo (“Se fosse organizzato uno sciopero, può darsi che sceglierei di rimanere a casa”), che sottolineerebbe la concretezza della possibilità (in parte prescindente dall’evento dell’organizzazione dello sciopero).
Come si è detto, il condizionale della soggettiva (sceglierei) è previsto dal tipo di proposizione, ma è meno formale della variante al congiuntivo (“Può / Potrebbe darsi che scelga di rimanere a casa”). 
D’altro canto, però, il condizionale è favorito dalla logica, che induce il parlante a considerare proprio sceglierei l’apodosi del periodo ipotetico, trascurando la reggente potrebbe darsi, che in effetti, in quanto al contenuto, è assimilabile a un avverbio: “Se fosse organizzato uno sciopero, forse sceglierei di rimanere a casa”.
Le proposizioni soggettive, oltre al congiuntivo e al condizionale, prevedono anche l’uso dell’indicativo, che certamente è la soluzione meno formale fra le tre: “Può / Potrebbe darsi che scelgo di rimanere a casa”.
Le frasi conclusive sono tutte ben formate e sostanzialmente equivalenti in quanto al senso. Tutte e tre veicolano in modi diversi l’idea di dovere (il verbo modale dovere, il verbo andare con funzione di ausiliare, la costruzione sintattica essere + proposizione relativa implicita).
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella forma di cortesia qual e il pronome indiretto plurale: “Signori, Gli / Vi darò il libro più tardi”?

 

RISPOSTA:

Il pronome di cortesia singolare lei (terza persona) coincide, al plurale, con il pronome voi, e quindi con la particella pronominale vi: “Signori, vi darò il libro più tardi”. Ricordiamo che i pronomi di cortesia possono essere scritti con l’iniziale minuscola o maiuscola; quest’ultima scelta è, ovviamente, più formale.
Fino a qualche decennio fa, voi era molto diffuso anche al singolare, al posto di lei (“Signore, vi darò il libro più tardi”). Oggi quest’uso suona un po’ antiquato, anche se in alcune regioni del Sud è, al contrario, la forma più comune ancora oggi. Fino a qualche tempo fa era anche possibile usare il pronome loro per rivolgersi direttamente a una pluralità di persone (“Signori, loro cosa desiderano?”). Ormai estremamente formale e burocratico, l’uso di loro rimane oggi in uso in alcune formule di cortesia cristallizzate come desiderano? In ogni caso loro, quando è usato come pronome di cortesia, non può essere sostituito da gli nel complemento di termine; quindi: “Signori, ho dato loro un buon consiglio o no?” (non *”Signori, gli ho dato un buon consiglio o no?”).
Per un approfondimento sui pronomi di cortesia (leivoiloro), la invito a leggere la risposta 2800291 dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Pronome, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1. Vorrei chiedere aiuto a proposito delle frasi relative. In questa frase è obbligatorio l’uso del congiuntivo?
“Un insegnante che voglia / vuole essere veramente efficace nel suo lavoro deve anzitutto saper ascoltare”.

2. In quest’altra frase, seguendo le regole del consecutio temporum non si dovrebbe usare l’imperfetto?
“L’insegnante ha convocato i genitori di Mattia perché sappiano / sapessero qual è la situazione scolastica del figlio”.

3. In questa frase e obbligatorio l’uso del congiuntivo passato? Il congiuntivo presente è sbagliato?
“Martina non può uscire prima che il bambino non si sia addormetato”.

4. In questa frase non sarebbe meglio usare il trapassato?
“Abbiamo trascorso una bella giornata e la visita al museo è stata più interessante di quanto ci aspettassimo / ci fossimo aspettati”.

5. In questa frase non capisco l’uso del trapassato. Non sarebbe piu logico con un passato prossimo?
“Frequentando un corso estivo di tedesco in Germania, Carlo *aveva imparato* più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola”.

6. In questa frase che senso hanno i trapassati?
“Nonostante fosse rimasto a casa tutto il giorno, Andrea non aveva studiato”.

7. In questa frase sono corretti sia l’imperfetto sia il trapassato?
“Renè riusciva quasi sempre a prendere il treno, nonostante ______________ (uscire) di casa sempre all’ultimo momento”.

 

RISPOSTA:

1. Sono adatti sia l’indicativo sia il congiuntivo. Nelle subordinate relative, il congiuntivo, oltre a essere la scelta più formale, aggiunge una sfumatura semantica di ipoteticità. Che vuole descrive una qualità posseduta dall’insegnante; che voglia suggerisce che questa qualità può essere posseduta o no. Con il congiuntivo, in altre parole, la relativa si può quasi leggere come la protasi di un periodo ipotetico: un insegnante, qualora voglia… È anche possibile usare il congiuntivo imperfetto, per rendere la possibilità ancora meno concreta: un insegnante che volesse… dovrebbe.
2. Il passato prossimo della proposizione reggente può essere interpretato in due modi, focalizzando il momento in cui l’azione del convocare è avvenuta, nel passato, oppure considerando l’effetto del convocare, che è presente. Nel primo caso la finale prenderà il congiuntivo imperfetto, nel secondo il presente. Si consideri che l’interpretazione più comune sarebbe la seconda.
3. Possono andar bene entrambi i tempi del congiuntivo. Con il presente si sottolinea la contemporaneità tra i due eventi, con il passato l’anteriorità dell’addormentarsi rispetto all’uscire. Nella frase c’è una negazione di troppo; ecco la forma più corretta: “Martina non può uscire prima che il bambino si sia addormetato”. 
4. Come per la 3.
5. Il trapassato è corretto se c’è sottinteso un momento di riferimento passato; per esempio: “Carlo aveva imparato più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola (e per questo superò brillantemente l’esame)”. Senza il momento di riferimento, il tempo da scegliere è il passato remoto (o prossimo).
6. Come per la 5. Ci deve essere un momento di riferimento passato sottinteso rispetto al quale i due eventi sono precedenti.
7. Il trapassato è scorretto perché l’evento dell’uscire è descritto come abituale nel passato; il tempo da inserire, pertanto, è l’imperfetto uscisse. Il trapassato sarebbe adatto in questa frase: “Renè riuscì a prendere il treno, nonostante fosse uscito di casa all’ultimo momento”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’; 
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masutmazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iotanon valere uno / una iotaun / uno pneumatico.

 

RISPOSTA:

​Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginsengun megahertz molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acquasalemercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domanimenodopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iotauno iotauna iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi sotto indicate sono tutte corrette?
1. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorino.
2. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici siano migliorati.
3. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici miglioreranno.
4. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici saranno migliorati.

 

RISPOSTA:

Le proposizioni oggettive esplicite, nelle frasi introdotte da che, ammettono sia l’indicativo sia il congiuntivo. La costruzione della frase, però, ammette soltanto le frasi 1. e 3. La scelta tra le due va fatta in base al contesto comunicativo: l’indicativo (miglioreranno) è la variante meno formale, il congiuntivo (migliorino) quella più formale. Si può anche immaginare una variante ancora meno formale, se non proprio trascurata: “Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorano”.
Le frasi 2. e 4. risultano incoerenti. Il congiuntivo passato (siano migliorati) indica anteriorità rispetto al verbo della reggente; ciò vuol dire che al momento dell’enunciazione il fatto è già accaduto. Potremmo avere la soluzione con il congiuntivo passato in una situazione rivolta al presente (“Spero che i dati economici siano migliorati”), in cui si spera che i dati economici siano migliorati in un momento del passato. 
Il futuro anteriore indica anteriorità rispetto al futuro, mentre nella frase il punto di riferimento del cambiamento è attuale, sebbene proiettato al futuro (da ora alla fine del 2021).
Le frasi 2. e 4. divengono coerenti se posizioniamo il riferimento al futuro, invece che da ora al futuro: “Spero che alla fine del 2021 i dati economici siano / saranno migliorati”. In questo modo, il futuro anteriore assume la sua funzione propria di descrivere un evento precedente rispetto al futuro (la fine del 2021); il congiuntivo passato, a sua volta, diviene possibile perché l’emittente può spostare mentalmente il suo punto di vista alla fine del 2021 e osservare il cambiamento come passato rispetto a quel momento.
Anche con il cambiamento del riferimento temporale le frasi 1. e 3. rimangono valide (“Spero che alla fine del 2021 i dati economici migliorino / miglioreranno”), ma cambiano di significato: passano, infatti, a indicare che il cambiamento è ipotizzato a partire dalla fine del 2021.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le due varianti di ognuna delle coppie di frasi presentate si differenziano a livello di formalità: 
  
1a. Non sono io a dover rispondere. 
1b. Non sono io che devo rispondere.

2a. Lei mi prese la mano.  
2b. Lei prese la mia mano. 

 

RISPOSTA:

​Nella prima coppia, la soluzione con la subordinata implicita è più formale. Essa ha il vantaggio di nascondere il problema dell’accordo del verbo con il soggetto della subordinata (detta pseudorelativa). Se si considera attentamente, infatti, il che che introduce la subordinata è a metà strada tra la prima e la terza persona, come se ci fosse un colui (o quello o simili) sottinteso: “Non sono io (colui) che deve rispondere”. A riprova di questo, se capovolgiamo le posizioni del soggetto e del verbo essere nella proposizione reggente colui diventa obbligatorio, e di conseguenza l’accordo del verbo della subordinata è alla terza persona: “Io non sono colui / quello / la persona che deve rispondere”. La concordanza alla terza persona, che in presenza di colui è obbligatoria, è, però, innaturale senza colui, quindi preferiamo concordare il verbo “logicamente” con io, oppure aggirare il problema con l’infinito.
Nella seconda coppia, la variante con l’aggettivo possessivo è decisamente poco comune e formale, tanto da essere adatta a uno scritto letterario ed essere, invece, da evitare in qualsiasi altra sede. Si pensi a quanto suonerebbe ironica tale costruzione associata a un evento quotidiano: “Il parrucchiere taglia i miei capelli”. Se, però, rendiamo la frase più aulica, ecco che la costruzione diviene accettabile: “Il parrucchiere acconciò la mia chioma con maestria”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?

1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro. 
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata. 
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo. 
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.

 

RISPOSTA:

​Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale. 
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato. 
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Richiedo il vostro parere sulla correttezza di questa frase: “Vi informo che il veicolo, abbia subito un danno”.
Sarebbe più corretto scrivere “Vi informo che il veicolo ha subito un danno”?

 

RISPOSTA:

La frase ha certamente un difetto, che è la virgola prima di che, da eliminare. Si può, inoltre, discutere su quale modo verbale sia meglio usare nella subordinata completiva. Quasi sempre le proposizioni completive ammettono l’alternanza tra indicativo e congiuntivo (penso che tu sei mio amico / penso che tu sia mio amico). In questi casi il congiuntivo si configura come la soluzione più formale, e il senso della frase non è intaccato dalla scelta. Nella sua frase, invece, il senso è talmente oggettivo da preferire senz’altro l’indicativo, in quanto modo della fattualità. Non si può giudicare Vi informo che il veicolo abbia… sbagliata, ma Vi informo che il veicolo ha… è più naturale ed è adatta a tutti i contesti.
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Sono corrette queste frasi?

1. Se rappresentava il compenso per una settimana di lavoro, lo considerava inadeguato; se invece fosse stato un regalo per le sue prestazioni sullo yacht, significava che era stata considerata una puttana. 
2. Se a te fa piacere, sarei felice di invitarti a prendere un gelato o se preferisci, potremmo andare al cinema.
3. Due giorni prima dell’esame, Marco ricordò alla sua ragazza l’impegno che si era preso/a? di accompagnarlo.  
4. Inoltre, vista la mia situazione, un aumento di stipendio era proprio ciò che ci volesse / voleva?
5. Ci vorranno ancora secoli perché tutto questo cambi.

 

RISPOSTA:

1. Corretta; l’alternanza tra un periodo ipotetico con protasi all’indicativo imperfetto (rappresentava) e al congiuntivo trapassato (fosse stato) è ammissibile come scelta stilistica.
2. L’unica sbavatura è la mancanza delle virgole prima della coordinata disgiuntiva (non sempre richiesta, ma in questo caso preferibile perché la coordinata presenta un’alternativa netta rispetto alla prima proposizione), e in apertura dell’incidentale. Quindi, un gelato, o, se preferisci,.
3. l’impegno che si era presa. Il participio passato unito all’ausiliare essere concorda con il soggetto.
4. Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è più formale.
5. Corretta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO

Volevo chiedere se nella frase “Ogni lancetta potrebbe spostarsi più lentamente o accelerare, lasciandoti indietro senza che te ne accorga” è corretto l’uso del congiuntivo o andrebbe meglio l’indicativo accorgi.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo è corretto. L’indicativo, dal canto suo, non è scorretto, ma più informale, adatto al parlato e a contesti scritti trascurati. Molte risposte sull’alternanza tra indicativo e congiuntivo sono contenute nell’Archivio di DICO; sono recuperabili digitando nel motore di ricerca interno la parola congiuntivo.
Fabio Ruggiano

 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In questa frase è meglio usare il passato prossimo?
“Hai visto il giallo di ieri sera? È stato / era fantastico!”

Inoltre vorrei chiedere se a questa domanda tutt’e due le risposte sono giuste: “C’è un supermercato qui vicino?”
“Sì, c’è uno (vicino alla posta)”.
“Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”.

E in ultimo: alla domanda “Quanto vino hai bevuto?” posso rispondere “Non ne ho bevuto niente / nessuno”?

 

RISPOSTA:

La soluzione migliore per la prima frase è il passato prossimo. Il film, infatti, viene considerato come un evento che ha avuto un inizio e una fine, quindi compiuto. Con l’imperfetto, invece, lo si rappresenta come continuato.
La variante corretta per la seconda domanda è “Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”. È necessario, infatti, specificare nella risposta di che cosa ci sia uno, ovvero “Ce ne è (ce n’è) uno” = ‘di supermercati c’è uno’.
La risposta alla terza domanda non è corretta perché l’uso di ne contrasta con i pronomi niente nessuno. Così costruita, la frase corrisponde a “Non ho bevuto niente di vino”, o “Non ho bevuto nessuno di vino”, che non vanno comunque bene, perché “Non ho bevuto niente” non ha bisogno di ulteriori specificazioni, e “Non ho bevuto nessuno” vuol dire ‘non ho bevuto nessuna persona’. Quindi, o si dice “Non ho bevuto niente”, oppure si usa un avverbio: “Non ho bevuto affatto / per niente / assolutamente vino”. Possibile, nel parlato (da evitare nello scritto), anche la dislocazione a destra: “non ne ho bevuto vino”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se voglio scrivere che “i miei amici si preoccupano più quando devono dare un esame di quanto si sono / si siano preoccupati di vivere quegli anni preziosi”, quale scelgo tra indicativo e congiuntivo?
Se dico: “Un cane che non abbaiasse: ecco un animale domestico che non rompe le scatole”, va bene che ci sia l’imperfetto congiuntivo e poi l’indicativo presente?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase vanno bene entrambi i modi; in questo caso il congiuntivo non è necessario, ma è un’alternativa stilisticamente più alta. Nella seconda frase il congiuntivo nella proposizione relativa, oltre a rappresentare un’alternativa più formale come nella prima frase, carica la proposizione di una sfumatura ipotetica; come nel caso della proposizione ipotetica, quindi, l’imperfetto accentua la sfumatura rispetto al presente; potremmo dire che che non abbaiasse è assimilabile a se non abbaiasse, mentre che non abbai è a metà strada tra se non abbaia che non abbaia. Visto, però, che anche il presente veicola un certo senso di eventualità, il valore aggiunto dell’imperfetto appare non essenziale, e dal momento che l’imperfetto stride in correlazione con l’indicativo presente rompe, la scelta più consigliabile è che non abbai.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In una frase come “loro si vestono eleganti”, l’aggettivo, che mi pare un avverbio, si concorda con il soggetto o no?
 

 

RISPOSTA:

La frase “loro si vestono eleganti” è corretta, ma informale. Sarebbe più formale “loro si vestono elegantemente”, con l’avverbio al posto dell’aggettivo (che, infatti, ha funzione avverbiale). Possibile, ma molto informale, anche “loro si vestono elegante”, con l’aggettivo che rimane invariato proprio perché ha la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si può dire: “Ha detto che non veniva”?

 

RISPOSTA:

L’imperfetto può essere usato al posto del condizionale passato, sia in questo caso, cioè quando ha la funzione di futuro nel passato (“Ha detto che non veniva” = “Ha detto che non sarebbe venuto / venuta”), sia quando esprime la conseguenza in un periodo ipotetico: “Se l’avessi saputo non venivo” = “Se l’avessi saputo non sarei venuto”. 
In entrambi i casi si tratta di un uso diffuso ma un po’ trascurato, da riservare al parlato e allo scritto informale. Negli altri casi, è preferibile ricorrere al condizionale passato.
Molte altre risposte sull’uso modale (cioè in sostituzione del modo condizionale) dell’imperfetto si possono leggere nell’archvio di DICO, inserendo nella maschera di ricerca la parola imperfetto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi pongo alcuni dubbi e spero che possiate chiarirmeli.
1. Dire a loro oppure dire loro?

2. “Cara Lucia, come stai? E il piccolo Luca?”
Riguardo a questa frase chiedo se è corretta così com’è scritta.

3. “Scrivere a te che non conosco / ti conosco è bello”.

4. “Mi chiedo perché a ogni saggio qualcuno si rompe / rompa un braccio”.

5. “Una volta che i miei genitori si arrabbiano, solo dopo due giorni gli passa…”.
In questa frase è corretto l’uso di gli è corretto?

6. “A volte di domenica vado agli scout”.
Si può dire agli scout?

7 . “Oh cara / Oh, cara quando mi hai concesso quel ballo ero emozionato”.

 

RISPOSTA:

1. Vanno bene entrambe le soluzioni (la stessa possibilità si ha con cui / a cui).
2. La frase va benissimo in un contesto anche scritto di media formalità. Più formale, perché più precisa, è l’esplicitazione del secondo verbo, visto che cambia la persona.
3. La variante corretta è “Scrivere a te che non conosco è bello”. Il che, infatti, può riferirsi a tutte le persone, anche se è più comune che rimandi a un antecedente alla terza persona singolare o plurale. Da evitare la ripetizione del pronome, che non avrebbe alcuna funzione informativa, ma servirebbe solamente a esplicitare un riferimento già sufficientemente esplicito.
4. Vanno bene entrambe le varianti; quella con il congiuntivo è più formale.
5. Gli per (a) loro è ormai accettato in tutti i registri.
6. L’espressione sintetica è efficace e trasparente, ma adatta a un contesto colloquiale, perché non perfettamente formata secondo le regole standard. In italiano, la preposizione di moto a luogo quando il luogo è rappresentato da una persona è da, non a (per esempio: “Ogni domenica vado dai miei nonni”, non *”ai miei nonni”). Vado dagli scout, però, sarebbe inteso come ‘vado a trovare gli scout’, mentre qui si intende che si va a fare le attività degli scout. Da qui la soluzione abborracciata vado agli scout. Per risolvere la questione in linea con la lingua standard si dovrebbe sostituire scout con un luogo, per esempio: vado alla sede degli scout, oppure con un’azione: vado a partecipare alle attività degli scout, o simili. In questo modo, l’espressione si allunga e diviene faticosa, per cui è ovvio, e legittimo, che parlando tra amici si preferisca la variante sintetica.
7. Vanno bene entrambe le varianti. Obbligatoria, invece, la virgola dopo l’allocuzione (ovvero il complemento vocativo): “Oh cara, quando mi hai…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire “a me mi piace”?

 

RISPOSTA:

​In contesti formali, soprattutto scritti, è da evitare, perché pleonastico (lo stesso pronome è ripetuto, sebbene in forma diversa, due volte). Nella lingua d’uso comune, però, specie nel parlato, il costrutto è molto diffuso e ampiamente accettato, tanto che sarebbe eccessivo sostenere che non si possa dire. 
La ragione del successo di questa costruzione, nota come dislocazione a sinistra, è che chiarisce bene quale sia l’argomento di cui si parla (tecnicamente il tema) e quale sia l’informazione fornita su quell’argomento (tecnicamente il rema). In questo caso il tema è a me, il rema mi piace. Per fare un altro esempio analogo, in una frase come “A te non ti credo più” (nella quale si nota la ripetizione del pronome, prima nella forma a te, poi nella forma atona ti), il tema è a te, il rema tutto il resto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Porto alla vostra attenzione alcune frasi negative, o che includono congiunzioni ad esse riconducibili, su cui vertono i miei dubbi.
 

1. Non si vedeva niente intorno: né ombrelloni e lettini, né bagnanti, né barche o pattini.

La frase è corretta? Si possono collegare con il né elementi che al loro interno abbiano congiunzioni – come eo – e che potrebbero essere intesi come unità inscindibili, oppure sarebbe meglio scegliere altre forme?
 

2. All’uomo non era permesso di bere alcolici, anche / neppure a tavola.

Meglio anche o neppure?
 

3. Il fenomeno mediatico è privo di (non ha prodotto) ricadute positive, neppure / anche minime, per l’indotto.

Meglio anche o neppure?
 

4. Serve niente?

La frase è equivalente a “serve qualcosa”?

 

RISPOSTA:

La prima frase è ben costruita: le congiunzioni e e o operano in un àmbito ristretto rispetto ai membri dell’elenco, uniti da . La seconda frase ammette entrambe le soluzioni: neppure (o neanche) rafforza la negazione, soluzione spesso preferita in italiano, anche se non obbligatoria. Lo stesso vale per la terza frase. 
La quarta frase è molto interessante, perché rivela un comportamento specifico della proposizione interrogativa diretta. In questa proposizione, la negazione iniziale può avere valore retorico, interpretato convenzionalmente come richiesta di una risposta positiva: “Non vuoi venire alla festa?” (sottinteso: ‘certo che vuoi’). La frase “Non serve niente?”, pertanto, potrebbe essere interpretata come un invito a rispondere positivamente; l’eliminazione della negazione iniziale previene questa interpretazione. In questo modo, si noti, si viene a creare una frase agrammaticale; ciò si vede se la confrontiamo, per esempio, con la sua prima frase: “Non si vedeva niente intorno”. Se togliessimo la negazione del verbo (come avviene in “Serve niente?”), questa frase diventerebbe *”Si vedeva niente intorno”, che è inaccettabile. L’impossibilità di “Serve niente?” non preoccupa i parlanti, che interpretano correttamente la frase come ‘serve qualcosa?’, sebbene letteralmente significhi il contrario. È, infatti, come se interpretassimo la frase *”Si vedeva niente intorno” vista sopra come ‘si vedeva qualcosa intorno’. 
Che questa costruzione, certamente propria di un registro colloquiale, valga solamente nelle domande è dimostrato, oltre che dal confronto fatto, anche dalla risposta negativa normale alla domanda “Serve niente?”, che non è *”No, serve niente” (a meno che non si voglia scherzare), bensì “No, non serve niente”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sarò molto grato se Loro potranno aiutarmi e spiegare quando si usano agg. poss. SuaVostraLoro in formule di cortesia e di cerimoniale.
Nel Vocabolario online (http://www.treccani.it/vocabolario/maesta) ho trovato la seguente spiegazione:
 

Maestà… 2. a. Titolo e appellativo spettante in origine all’imperatore, in seguito esteso anche ai re: Sua M. reale e imperiale, o più comunem. Sua M. il Re Imperatore, o meglio la M. del Re Imperatore, espressioni con le quali si indica un re che è anche imperatore; in usi assol.: Sua M., il re o la regina; le Loro Maestà, il re e la regina; nel discorso diretto: Vostra M.le Vostre Maestà

Cioè, se ho capito bene, quando si rivolge direttamente a un Re o Imperatore, si dice: Vostra Maestà (con valore di 2a persona sing.), le Vostre Maestà (con valore di 2a persona pl.). Per es.: “Il sottoscritto chiede alla Vostra Maestà / alle Vostre Maestà”. Quando parliamo di un Re o Imperatore, invece, si dice: Sua Maestà (con valore di 3a persona sing.), le Loro Maestà (con valore di 3a persona pl.). Per es.: “Vorrei parlare con Sua Maestà”; “le Loro Maestà sono occupate e non possono riceverLa”.
Lo stesso principio nell’articolo (http://www.treccani.it/vocabolario/signoria):
 

Signoria… 3. Titolo di grande onore e rispetto attribuito nell’ultimo medioevo ad alti dignitarî, funzionarî e magistrati e a signori di stati assolutistici, esteso poi dal primo Cinquecento, anche per influsso spagnolo, a persone di media condizione: Vostra SignoriaSua S., e, al plur., le Vostrele Loro Signorie

Però nello Zingarelli 2004, p. 1017 trovo:
 

Loro B agg. poss. di 3a pers. pl. … preposto o postposto a un sostantivo si usa in formule di cortesia e di cerimoniale (con valore di seconda persona pl.): le signorie lorole Loro maestàle Loro altezze!

Questo significa che le Loro maestà si può usare come forma equivalente a le Vostre Maestà quando si rivolge direttamente al Re e alla Regina? 
Vorrei anche sapere:
– se il principio spiegato nel Vocabolario Treccani è valido anche per: AltezzaEccellenzaGraziaSantitàSignoriaEminenza?
– Se questi titoli / appellativi si possono usare quando ci si rivolge a una donna (per es. una principessa, una ambasciatrice, una donna autorevole.

 

RISPOSTA:

I pronomi di cortesia e gli aggettivi possessivi che li accompagnano, Lei / Loro (Suo e Loro) e Voi (Vostro), si distinguono soprattutto per il grado di formalità che veicolano: il Voi (quindi l’aggettivo Vostro) è sentito come massimamente rispettoso, mentre il Lei / Loro (con gli aggettivi Suo e Loro) è leggermente meno formale. L’unica distinzione funzionale tra le due persone riguarda le allocuzioni: Vostra Maestà / Signoria / Grazia difficilmente può essere sostituito da Sua Maestà o simili, che suona al limite dell’accettabilità. Fuori da questo contesto, Voi e Lei (e i rispettivi aggettivi possessivi) sono intercambiabili; si può dire, per esempio: “Vostra Signoria, la prego di concedermi il suo perdono”, oppure “Vostra Signoria, vi prego di concedermi il vostro perdono”. Nel caso ci si rivolga a un re, sarebbe più indicata questa seconda soluzione, più ossequiosa.
Si noti che, se è comune scrivere con lettera maiuscola i pronomi di cortesia, meno comune è scrivere con maiuscola anche gli aggettivi possessivi. È, inoltre, possibile sostituire Lei con Ella (quando è soggetto), ma la rarità di questo pronome nell’italiano contemporaneo rischia di caratterizzare il discorso come troppo cerimonioso. 
La possibilità di passare al Lei dopo una allocuzione con il Voi è ben attestata anche nella tradizione; si legga questa lettera di Giacomo Leopardi del 1823:
 

Signoria Illustrissima Padrona Colendissima. Trovandomi sul punto di partire per Recanati mia patria, e non avendo avuto la sorte di poter inchinare Vostra S. Ill. [ovvero Vostra Signoria Illustrissima] nelle due volte che mi sono recato presso di Lei a questo effetto, mi fo coraggio di servirmi della presente per chiedere i di Lei comandi nel mio imminente ritorno alla mia patria, dove sarò disposto e pronto agli ordini di S. Em. [ovvero Sua Eminenza] il Signor Cardinale Segretario di Stato, e attenderò con fiducia gli effetti della sua alta beneficenza. Avrei desiderato e voluto personalmente fare omaggio all’Eminenza Sua, offrirmi umilmente ai cenni della Medesima, e profondamente ringraziarla delle benigne disposizioni che si è degnata di mostrare in favor mio, ma straniero come io sono alla Corte, timido per natura e per abitudine, e persuaso che ciascuno istante rapito alle vaste occupazioni di sua Eminenza sia rapito allo Stato, e al bene de’ sudditi Pontificii, ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta di supplire alla mia insufficienza, rappresentando questi miei umili sentimenti all’Eminenza Sua, ed invocando la benignità della Medesima sulla mia rispettosa ritenutezza. 

Come si vede, Leopardi passa dal Vostra al Lei rivolgendosi alla stessa persona, e in ogni caso usa il verbo alla terza persona singolare quando il soggetto è questa persona (ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta). Quando si riferisce a un terzo personaggio illustre, usa ovviamente il Lei e l’aggettivo sua (sua Eminenza), perché non si tratta di una allocuzione, ma di un riferimento.
Per quanto riguarda il genere, i pronomi e gli aggettivi possessivi di cortesia sono ambigenere: potremmo dire che quando li usiamo ci rivolgiamo e ci riferiamo non alle persone ma ai ruoli politici che ricoprono, quindi non facciamo distinzione tra uomini e donne.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Leggo: “La sua occupazione doveva essere cucinare le castagne che trovava nel bosco”. 
L’impiego dell’imperfetto dell’indicativo credo che sia corretto, in quanto veicola la scioltezza del periodo; per curiosità intellettuale e pignoleria analitica, vi domando se le seguenti alternative siano altrettanto valide:
a) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avesse trovato (aggiunge una sfumatura ipotetica).
b) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avrebbe trovato (la subordinata è posteriore alla principale e si costruisce quindi con il condizionale composto). 
c) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che trovasse (la subordinata è contemporanea alla principale).
Penso che il predicato della principale, qualora si volesse eliminare l’incertezza dell’evento, potrebbe essere sostituito da sarebbe stata o: “la sua occupazione sarebbe stata cucinare le castagne che avesse trovato / avrebbe trovato / trovasse”.
Concludo chiedendo se, in generale, l’imperfetto dell’indicativo, come anticipato poc’anzi, sia la forma “sciatta” del più ricercato (ma talvolta pesante) condizionale passato, in particolare quando si ha a che fare con il verbo potere.
d) La sua paura poteva giocargli un brutto tiro,
benché corretta, non si potrebbe sostituire con 
e) la sua paura avrebbe potuto giocargli un brutto tiro 
senza stravolgere la sintassi della frase (e quindi i rapporti temporali tra reggente e subordinata)?

 

RISPOSTA:

​L’indicativo imperfetto nella frase iniziale può essere interpretato in due modi: come fa lei, oppure con valore epistemico: ‘La sua occupazione era sicuramente cucinare le castagne…”. La parafrasi da lei proposta, con il condizionale passato, annulla questa seconda possibilità e seleziona il valore di futuro nel passato. Ovviamente questa scelta può essere fatta solamente conoscendo il contesto della frase, dal quale si evinca il vero valore dell’imperfetto.
L’imperfetto può avere i due valori appena visti, ma anche quello di ipotesi remota: se lo sapevo = ‘se lo avessi saputo’. Si tratta di valori sfruttati nell’italiano dell’uso medio, ampiamente accettati, non “sciatti” sebbene da non preferire in un contesto formale, specialmente scritto. Innanzitutto perché possono essere ambigui, perché compresenti, come in questo caso. Forse il concetto, che comunque non mi è chiaro, di scioltezza del periodo da lei evocato si riferisce a questa ambiguità?
La stessa ambiguità si trova nella frase d: poteva giocargli può significare ‘a volte gli giocava’ (si noti l’emersione del significato probabilistico del verbo potere, laddove nella prima frase vista sopra il verbo dovere assume un significato epistemico) oppure ‘avrebbe potuto giocargli’. La riscrittura e seleziona solamente quest’ultimo valore.
Le alternative a, b, c per la subordinata relativa modulano il grado di certezza dell’emittente sull’avvenimento del trovare le castagne: il condizionale passato lo rappresenta come futuro rispetto al momento in cui l’occupazione è stata assegnata; i due congiuntivi lo rappresentano non tanto come futuro (che è un tratto implicito), ma come possibile (che trovasse = ‘se le trovasse’) o come improbabile (che avesse trovato = ‘se le avesse trovate’).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere quali forme tra le sottoindicate sono pienamente valide, ai limiti dell’accettabilità e, infine, agrammaticali. I dubbi sono sorti dopo la lettura di un articolo on line sulla cosiddetta attrazione modale.

1a) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremo.
1b) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che ottenessimo.
1c) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremmo.

2) Ci vorrebbe qualcuno che parlerebbe inglese.
(Do per scontato che tutte le altre soluzioni possibili, con relativi gradi di formalità, siano valide: parlasseparliparla).

3a) Se fossi sicuro che viene, gli parlerei a quattr’occhi.
3b) Se fossi sicuro che venga, gli parlerei a quattr’occhi.
3c) Se fossi sicuro che verrà, gli parlerei a quattr’occhi.
3d) Se fossi sicuro che verrebbe (protasi implicita), gli parlerei a quattr’occhi.
3e) Se fossi sicuro che venisse, gli parlerei a quattr’occhi.

4a) Se fossi sicuro che sia stato lui, gliene direi quattro.
4b) Se fossi sicuro che fosse stato lui, gliene direi quattro.
4c) Se fossi sicuro che è stato lui, gliene direi quattro.

5a) Se credessi che lei non mi amerebbe, smetterei di frequentarla.
5b) Se credessi che lei non mi ama, smetterei di frequentarla.
5c) Se credessi che lei non mi ami, smetterei di frequentarla.
(Anche qui do per scontato che la soluzione preferibile sia amasse).

 

RISPOSTA:

Le varianti 1 sono tutte valide. La 1b con la principale all’indicativo futuro suona un po’ forzata, perché pone come certa, all’indicativo, la circostanza dell’impossibilità di rinunciare a privilegi il cui ottenimento è possibile, non certo. Il congiuntivo ottenessimo, infatti, conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica. Molto più atteso è il condizionale potremmo. Per ragioni simili, anche la 1c con l’indicativo è improbabile, perché l’ottenimento dei privilegi è descritto come condizionato (al condizionale), come se ci fosse sottintesa una protasi al congiuntivo: “Non potremo mai rinunciare ai privilegi che otterremmo (se riuscissimo in questa impresa)”. Anche in questo caso è più logico costruire la principale con il condizionale.
La 2 è scorretta. I verbi di volontà o desiderio al condizionale richiedono, nella subordinata, il congiuntivo imperfetto; l’unica variante senz’altro corretta, pertanto, è “Ci vorrebbe qualcuno che parlasse inglese”. Accettabile, in fondo, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parli inglese”, che, però, è comunemente considerata errata. Al limite dell’accettabilità, e solamente in un contesto parlato molto informale, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parla inglese”.
Le varianti 3 sono tutte corrette (con molte riserve sulla 3e, su cui mi soffermerò a parte), anche se non ugualmente accettabili. Quella con il congiuntivo presente è la più formale, quella con l’indicativo presente la più comune. Quella con il condizionale, infine, introduce una ulteriore sfumatura; sottintende, infatti, una protasi (come da lei suggerito): “Se fossi sicuro che verrebbe (se glielo chiedessi), gli parlerei a quattr’occhi”. 
La 3e è, in teoria, scorretta perché contrasta con lo schema della consecutio temporum. Secondo questo, infatti, il congiuntivo imperfetto nella subordinata completiva indica la contemporaneità nel passato con la reggente, ma la reggente (se fossi sicuro) è presente e lo è anche l’apodosi del periodo ipotetico, che è la proposizione principale (gli parlerei a quattr’occhi). Attenzione: il congiuntivo imperfetto della reggente è dovuto alle esigenze del periodo ipotetico, non al fatto che lo stato dell’essere sicuro sia passato; è chiaro, infatti, che tale stato sia presente (= ‘se fossi sicuro adesso’). Questa frase è impossibile solamente in teoria perché, in realtà, esistono, e sono piuttosto comuni, frasi come questa: “Se sapessi che fosse l’ultima volta che ti vedo uscire dalla porta, ti abbraccerei e darei un bacio e poi ti richiamerei per dartene un altro” (trovata attraverso una ricerca on line). Perché i parlanti costruiscono frasi come questa? Per due ragioni concorrenti: perché interpretano l’imperfetto della reggente come passato, quindi usano nella subordinata il congiuntivo imperfetto per instaurare la contemporaneità nel passato (mentre, come abbiamo detto, il congiuntivo imperfetto della reggente esprime, in questo caso, un evento o uno stato presente); perché il tempo della subordinata è attratto da quello della reggente: nel costruire questa frase, cioè, il parlante sovrappone la reggente alla subordinata, perché tende a semplificare il costrutto reggente epistemica ipotetica + subordinata completiva in reggente ipotetica. In questo modo, se fossi sicuro che venga (o se sapessi che sia o simili) si trasforma in se venisse (o se fosse o simili), ma le due costruzioni non si possono escludere a vicenda; si fondono, bensì, insieme, creando se fossi sicuro che venisse
Questa variante, sebbene possibile (e attestata in letteratura, ma lontano nel tempo: “Queste non gle le dò più, se credessi, che mi accoppasse di bastonate”, Carlo Goldoni, Le donne curiose), è frutto di una confusione e va evitata.
Sottolineo, a margine, che il senso generale della frase è oscuro: descrive, infatti, la volontà di parlare a qualcuno solamente nel caso in cui si sia sicuri che questo qualcuno sia presente. Una situazione realistica, invece, sarebbe quella in cui si voglia parlare a qualcuno solamente nel caso in cui questi sia presente (non nel caso in cui si sia sicuri che questi sia presente).
Tra le varianti 4, la 4a e la 4c sono corrette (l’indicativo è meno formale del congiuntivo). La 4b è improbabile, ma possibile se si sottintende un evento a metà strada tra il momento dell’azione compiuta da lui e il momento dell’enunciazione: “Se fossi sicuro che fosse stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”. Anche in questo caso, comunque, sarebbe possibile usare il congiuntivo passato, neutralizzando lo scarto temporale tra i due eventi passati: “Se fossi sicuro che sia stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”.
La frase 5 è identica nella struttura alla 3; la soluzione che lei giudica preferibile, pertanto, è proprio quella più decisamente da evitare.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Nello scritto è possibile iniziare un periodo con “Ma perché…?”. 
È meglio scrivere “Studio la grammatica oppure studio grammatica”. 
​Infine, nei temi i numeri vanno scritti in lettere oppure è possibile anche scriverli in cifre?

 

RISPOSTA:

Ma perché è un attacco perfettamente legittimo in uno scritto dialogico (il tipo di scritto delle chat e dei social network) e in qualunque altro scritto, anche letterario (teatro, romanzo), che imiti l’andamento del parlato: “anzi, macelli e crudeltà a non finire, eppure niente più diluvi, addirittura la promessa di non estirpare la vita dalla terra. Ma perché tanta pietà per gli assassini venuti dopo e nessuna per quelli di prima, affogati tutti come topi?” (Claudio Magris, Microcosmi, 1997). Va bene anche in uno scritto scientifico, o in generale informativo, divulgativo, inteso ad avvicinare il grande pubblico a un argomento difficile. È inadatto a testi scientifici specialistici e a testi normativi.

Studio grammatica e studio la grammatica sono entrambe corrette. La prima rappresenta l’argomento dello studio come non numerabile, sottolineando che si tratta di una disciplina, una materia scolastica; la seconda lo rappresenta come un oggetto di studio tra tanti. Per capire meglio la sfumatura, si può confrontare studio (la) grammatica con faccio ginnastica (impossibile *faccio la ginnastica), ovvero ‘sono nell’ora di ginnastica, a scuola o in palestra’, e pratico la ginnastica (molto innaturale pratico ginnastica), ovvero ‘pratico lo sport della ginnastica’. Si può arrivare a dire (con un po’ di immaginazione) che in studio grammatica (come in faccio ginnastica) lo studio sia rappresentato come passivo, perché parte di un programma imposto, mentre in studio la grammatica si percepisca la partecipazione emotiva dell’emittente nel processo.

In uno scritto mediamente formale, quale può essere considerato il tema scolastico, si preferisce scrivere i numeri con le lettere, perché le cifre non fanno parte dell’alfabeto. Si tratta di una convenzione di secondaria importanza, che può essere applicata con flessibilità, soprattutto nel caso di numeri che richiedano stringhe di testo molto lunghe.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Adoro le lingue straniere perché mi piace l’idea che ovunque io vada / andrò, in giro per il mondo, sia / sarò in grado di parlare la lingua del luogo”, entrambe le versioni mi sembrano corrette, ma ho letto in Internet che ovunque richiede sempre il congiuntivo.

 

RISPOSTA:

Come abbiamo detto in molte altre risposte, ogni volta che l’italiano ammette l’alternanza tra indicativo e congiuntivo l’indicativo rappresenta la variante meno formale e comune nel parlato, il congiuntivo quella più formale e da preferire nello scritto. 
In questo caso l’alternanza riguarda una proposizione completiva, “che sia / sarò in grado…”, e una relativa, “ovunque io vada / andrò…”. Per le completive le suggerisco, se volesse approfondire il caso, di cercare nell’archivio di DICO la parola chiave completiva; la relativa merita un discorso a parte. La congiunzione ovunque contiene una sfumatura di eventualità che avvicina la proposizione da essa introdotta alla protasi del periodo ipotetico. “Ovunque io vada”, cioè, è vicino a “se io vada”, se non, addirittura, a “se io andassi”. Da qui la forte preferenza per il congiuntivo, che, comunque, non può dirsi obbligo. 
In particolare, al presente, al passato prossimo e all’imperfetto l’indicativo risulta molto trascurato, perché può essere sostituito facilmente dal congiuntivo (presente, passato e imperfetto); al passato remoto, però, diviene pienamente accettabile anche nello scritto formale, perché insostituibile: “E ovunque andai, trovai una gioventù avida” (Frank Lloyd Wright, Una autobiografia, trad. it. di Maria Antonietta Crippa e Marina Loffi Randolin, 1985). Al futuro, infine, l’indicativo futuro è sì meno formale del congiuntivo presente, ma non risulta trascurato, perché, rispetto al congiuntivo, ha il vantaggio di rispecchiare più fedelmente l’evento descritto (ovunque andrò, cioè, rispecchia più fedelmente un evento futuro rispetto a ovunque vada), e questo ne legittima parzialmente l’uso. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le quattro costruzioni di seguito indicate sono consentite? Qual è la migliore e quale andrebbe invece evitata o da riservare a uno scritto poco sorvegliato?

1) La frutta e la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
2) Né la frutta né la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
3) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti per (a causa di) la freschezza e il prezzo;
4) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo.

 

RISPOSTA:

​In linea di principio, nessuna delle formulazioni è scorretta. Sempre in linea di principio, la formulazione con una sola negazione sarebbe già sufficiente a chiarire l’idea: “La frutta e la verdura non sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”, oppure “Né la frutta né la verdura sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”. Queste ultime sarebbero le forme più vicine allo standard. Meno felice “La frutta e la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo”, perché in italiano la posizione tipica della negazione è a sinistra del verbo. Comunemente si preferisce, infatti, la costruzione “Nessuno dei miei amici è venuto”, oppure “I miei amici non sono venuti”, ma si evita “È venuto nessuno dei miei amici”, che viene formulata comunemente come “Non è venuto nessuno dei miei amici”, con la doppia negazione (diversamente dall’inglese, nel quale è tipica una costruzione come “I have no money”, ovvero “Ho nessun denaro / ho niente soldi”), oppure, ma è una soluzione rara, “Non è venuto alcuno dei miei amici”. 
Nella lingua d’uso comune, quindi, la doppia negazione (a sinistra e a destra del verbo) è quasi necessaria se gli elementi negati sono a destra del verbo, per cui sono accettabili, anche se meno formali, tanto la prima quanto la seconda variante da lei proposte. La terza e la quarta risultano un po’ strane (ma, ripeto, non scorrette) per l’opposizione di fatto che si crea tra sia… sia e non, che è meglio evitare usando, appunto, né e tornando, quindi, alle varianti di cui sopra.
Per quanto riguarda la scelta tra per a causa di, questa dipende da quanto si vuole essere espliciti; la maggiore esplicitezza allontana dalla lingua d’uso e avvicina allo standard.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Avverbio, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sull’uso del congiuntivo, in particolare nelle seguenti frasi: “Ha gli occhi azzurri, ma è probabile che cambieranno / cambino e diventeranno / diventino verdi”; “L’albero della vita presente nell’ex area Expo rimane acceso 24 ore su 24 e 365 giorni su 365. Io ho pensato a quanta energia c’è / ci sia dietro tutto ciò”.

 

RISPOSTA:

​Le due soluzioni da lei prospettate per le due le frasi sono entrambe accettabili. Per una discussione sui vantaggi e gli svantaggi dell’indicativo futuro e del congiuntivo nelle proposizioni completive può vedere le risposte Indicativo o congiuntivo nella interrogativa indirettaCredo che si debba usare il congiuntivo anche in futuro dell’archivio di DICO.  Molte altre risposte presenti in archivio, inoltre, riguardano il rapporto tra l’indicativo in generale e il congiuntivo nelle completive: può recuperarle attraverso il motore di ricerca interno (che trova in alto a destra) inserendo parole chiave come indicativocongiuntivo o completiva.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se la frase “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2” è corretta perché viene considerata come presente storico oppure no e perché.

 

RISPOSTA:

​Nella comunicazione quotidiana è consigliabile mantenere lo stesso piano temporale nell’ambito della stessa frase, per non generare confusione. Se, pertanto, si sceglie di usare il presente storico, si dovrebbe mantenere il presente storico per tutta la frase; quindi: “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma finisce 2 a 2”, oppure “Io ho giocato una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2”. Inoltre, è preferibile non lasciare il soggetto sottinteso se questo non è stato mai introdotto, altrimenti l’interlocutore è indotto a pensare che il soggetto sottinteso coincida con quello precedente o, se non è possibile, come in questo caso, che coincida con l’ultimo referente possibile (“Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la scommessa finisce 2 a 2″); quindi sarebbe meglio “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la partita finisce 2 a 2”. Questa raccomandazione di massima in questo caso è secondaria, perché si suppone che l’interlocutore sia in grado di recuperare dal contesto il soggetto la partita.
In teoria, è possibile affiancare un presente storico a un passato; ma si dovrebbe limitare questa scelta a contesti letterari, nei quali la scelta si spiegherebbe con l’intento di spiazzare l’interlocutore, presentandogli in rapida sequenza un primo evento come attuale e un secondo come passato. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura

QUESITO:

Spesso vedo scritto “domenica, 5 ottobre 2019, ore 13.30”, altre volte “domenica 5 ottobre 2019, ore 13.30”. Mi piacerebbe sapere qual è la forma giusta.

 

RISPOSTA:

​In una stringa di testo come una data, nella quale i collegamenti testuali sono appena accennati, la punteggiatura assume la stessa funzione che ha in un elenco: separarne i membri. Il punto in cui mettiamo la virgola, pertanto, segna il confine tra un membro dell’elenco e il successivo. La prima soluzione, a causa della separazione tra domenica e 5 ottobre 2019, dà maggiore peso al secondo elemento, e potrebbe essere più adatta al caso in cui 5 ottobre 2019 fosse particolarmente importante; la seconda, al contrario, è adatta al caso in cui si voglia dare pari importanza a entrambe le informazioni del giorno. Se si volesse far risaltare domenica, ancora, si potrebbe optare per “5 ottobre 2019, domenica, ore 13.30”.
In conclusione, entrambe le varianti vanno bene, ma la seconda è quella più neutrale e adatta a tutte le occasioni. 
Faccio notare che la grafia 13.30 non è l’unica diffusa nell’uso: esistono anche 13:30 e 13,30. Tra le tre, quella con la virgola è la meno indicata, perché la virgola si usa in matematica per separare i numeri interi dalla parte decimale, che è una funzione pericolosamente simile a quella di separare l’ora dai minuti: le 11,30, per esempio, rapportate al sistema decimale sono le 11,50 (cioè le 11 e mezzo). Il punto, a sua volta, ha la funzione di separare gli enunciati, mentre le due informazioni sull’ora e i minuti sono sicuramente da tenere insieme; la variante preferibile, pertanto, è quella con i due punti. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Mi è sorto un dubbio in merito alla frase “Indicare il mese nel quale / in cui / durante il quale / durante cui si intende realizzare l’attività”. Vorrei sapere se sono corrette tutte e tre le forme.

 

RISPOSTA:

​Le forme sono tutte corrette; si differenziano sul piano della formalità e su quello della precisione. Le forme con cui sono più formali di quelle con preposizione articolata + quale, ma non modificano la sostanza; durante, rispetto a in, sottolinea che le attività avranno una certa durata. Si tratta di una sfumatura, perché in non esclude che le attività abbiano una durata; lo lascia, però, in secondo piano, facendo risaltare solamente che si svolgeranno nei limiti temporali del mese.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

So che la relativa può essere costruita con indicativo e congiuntivo, a seconda dei contesti.
Una frase come: “Voglio comprare una casa che ABBIA un bel giardino” può essere resa anche come “Voglio comprare una casa che HA un bel giardino” senza che quest’ultima sia considerata “errata”?

 

RISPOSTA:

Una subordinata relativa con il verbo all’indicativo va sempre bene; al massimo, in alcuni casi, potrà essere giudicata meno formale, ma mai sbagliata. Il congiuntivo, in alcuni contesti, può servire a esprimere sfumature finali, eventuali o potenziali, ipotetiche, desiderative o d’altra natura, ma, per l’appunto, si tratta di sfumature.
Nel suo caso specifico, “Voglio comprare una casa che HA un bel giardino” è perfettamente formata e la sfumatura di potenzialità espressa dall’equivalente frase al congiuntivo è davvero trascurabile, dal momento che il sintagma voglio comprare della reggente indica inequivocabilmente che la casa non è stata ancora comprata.
Aggiungo inoltre che, in questo caso, la relativa, sia all’indicativo sia al congiuntivo, è anche lievemente pleonastica, visto che si potrebbe più agevolmente dire e scrivere: “Voglio comprare una casa con un bel giardino”.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei ricevere, se possibile, alcuni chiarimenti circa i rapporti che il passato prossimo stringe con gli altri tempi verbali.

Primo caso: passato prossimo e trasformazione da discorso diretto a indiretto.

“L’ho visto e gli ho domandato: ‘Come va?’”
1a) L’ho visto e gli ho domandato come va. (Accettabile per indicare l’attualità dell’interrogativo.)
1b) L’ho visto e gli ho domandato come vada. (Mantiene l’attualità dell’interrogativo ma ne aumenta la formalità.)
1C) L’ho visto e gli ho domandato come andava. (Costruzione nel rispetto della consecutio.)
1d) L’ho visto e gli ho domandato come andasse. (Consecutio e formalità.)

Nel caso le mie annotazioni siano corrette, mi chiedo se le opzioni 1C e 1D siano applicabili anche in quei contesti in cui, come nelle prime due varianti, si voglia o si debba sottolineare che l’evento è “presente”.
In altre parole, scrivendo o dicendo “gli ho domandato come andasse/andava” si sottintende esclusivamente la contemporaneità con l’azione espressa dalla reggente che, in quanto al passato prossimo, attiene alla sfera del passato, oppure si mantiene comunque un possibile legame con il presente?

Il secondo caso è di simile natura. Mesi addietro lessi su un noto testo grammaticale i seguenti esempi:

“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia.”

“Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica.”

Le costruzioni dimostrano il nesso sintattico e semantico tra passato prossimo e azione presente; ricollegandomi al quesito esposto sopra, mutatis mutandis, vorrei sapere se la sostituzione del congiuntivo presente con il congiuntivo imperfetto cambierebbe tale nesso.

La frase: “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”, ad esempio, escluderebbe la contemporaneità tra la subordinata e l’enunciazione?

Vi ringrazio sinceramente per la vostra disponibilità e per la vostra cordiale attenzione.

Seguo i vostri post su Facebook e sono orgoglioso di promuovere, nel mio piccolo, tra amici, colleghi e familiari, l’attività di DICO.

 

RISPOSTA:

Premetto che tutte le alternative da lei formulate sono valide, in italiano. Facciamo qualche piccola precisazione e distinzione, dunque, soltanto per amore di precisione e di speculazione (nel senso nobile del termine) metalinguistica.
Come giustamente osserva lei, la differenza d’uso tra indicativo e congiuntivo, nelle completive, è più che altro una differenza diafasica, cioè di livello di formalità, senza alcun cambiamento di significato. Qualcosa in più si può dire sull’uso del tempo, invece.
 “L’ho visto e gli ho domandato come va” e “come vada” non sono del tutto rispettose della consecutio temporum, perché, a rigore, quel che conta, nel discorso indiretto, non è il momento dell’enunciazione (essenziale, invece, nel discorso diretto), bensì il rapporto di contemporaneità, anteriorità o posteriorità rispetto al verbo reggente, vale a dire quello che introduce il discorso indiretto (“ho domandato”). Dunque in questo caso è come se ci fosse una mescolanza tra due piani deittici (cioè di riferimento temporale), quello del passato e quello del presente, cioè quello del discorso indiretto e quello del discorso diretto. Ma, a rigore, la domanda “come va” si presume sia stata fatta nel passato (quando cioè “gli ho domandato”), e non nel presente (o meglio, non troppo tempo dopo l’azione del domandare), e dunque la scelta migliore è senza dubbio “come andava” o, più formalmente, “come andasse”.
Diversi sono gli altri due casi da lei citati, il primo dei quali (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”) attribuibile ad Annibal Caro, cioè un autore del Cinquecento (e dunque tenga presente che i rapporti di consecutio temporum, almeno fino all’Ottocento, erano un po’ più elastici di quanto non siano nell’italiano odierno, o comunque non del tutto e non sempre assimilabili a esso).
I due esempi da lei citati (“Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorra della sua grazia”; “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dica”) non sono a rigore esempi di discorso riportato (non sono, infatti, introdotti da un verbo di dire o simili). Inoltre, prima avviene l’azione di raccomandarsi a Dio, o a Cristo, e poi quella di esser soccorso, o di dire.
Dato che la distanza temporale tra il rivolgersi a Dio ed averne la grazia, e simili, si suppone ben esigua, di fatto l’uso del presente o dell’imperfetto cambia davvero poco o nulla, in questo caso, e pertanto direi che sarebbe di identico significato anche: “Mi sono raccomandato a Dio che mi soccorresse della sua grazia” e “Cristo mi ha messo in cuore che io vi dicessi”.
Diverso sarebbe il caso, poniano, di “Cristo mi ha detto che io vi dicessi”, che a quel punto rientrerebbe perfettamente nel discorso riportato, di cui sopra, e che dunque sarebbe senz’altro preferibile a: “Cristo mi ha detto che io vi dica” (o, più semplicemente, “mi ha detto di dirvi”), a meno che non si voglia supporre una notevole distanza cronologica tra “Cristo mi ha detto” e il mio “dirvi”.
Come ho già osservato in apertura, si tratta comunque di minuzie, qui sceverate soltanto per amor di precisione e di riflessione metalinguistica.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Sono abituata a dire e leggere frasi come “Spero che possa esserti utile…” o “Spero che potrà esserti utile …”. È anche accettabile spero con il condizionale, come: “Spero che potrebbe esserti utile….”?

 

RISPOSTA:

​Le proposizioni oggettive esplicite, come quella che nella sua frase è introdotta da che, ammettono l’indicativo, il condizionale e il congiuntivo. È facile, infatti, trovare esempi di credo che potrebbepenso che potrebbeimmagino che potrebbe e simili. Il verbo spero, però, veicola un forte senso di eventualità che rende improbabile, alle orecchie dei parlanti, la reggenza del condizionale e, addirittura, rende anche l’indicativo meno accettabile rispetto a quanto non lo sia con gli altri verbi di pensiero. In altre parole spero che puoi è meno accettabile di credo che puoi
Si tratta di una preferenza nell’uso, non di una regola grammaticale: la costruzione spero che potrebbe non può dirsi errata; in pratica, però, è scartata dalla maggioranza dei parlanti e degli scriventi rispetto a quelle con il congiuntivo (più formale) e con l’indicativo (più trascurata).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella lingua spagnola ci sono i verbi di dire e di pensare che richiedono il congiuntivo solo nella forma negativa. E nell’italiano? Dopo le strutture: non diconon posso direnon sento, non capisconon vedo usiamo il congiuntivo o l’indicativo? 

 

RISPOSTA:

È preferibile il congiuntivo, soprattutto nello scritto; ma l’indicativo è la scelta più frequente nel parlato comune. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO

Non molto tempo fa ho letto su uno spazio di discussione una discettazione sui modi verbali da adottare con le completive oggettive, specie quando queste sono rette da verbi di opinione, percezione e simili.
Più di un utente osservava che in relazione a eventi futuri nella secondaria si debba adottare solo l’indicativo futuro e mai il congiuntivo presente, che è da circoscrivere alla contemporaneità tra reggente e secondaria. Applicando la regola tali frasi sarebbero quindi da penna rossa:

1. Credo che alla festa di stasera non partecipi nessuno.
2. Non penso che in un prosieguo di tempo tuo fratello utilizzi il dizionario.
3. Ipotizzo che entro dieci anni scompaiano del tutto le mezze stagioni.

Che ne pensate?

 

RISPOSTA

L’opinione che nella proposizione oggettiva con un evento al futuro si debba usare obbligatoriamente l’indicativo futuro è infondata. L’indicativo futuro è una variante pienamente accettabile, ma meno formale del congiuntivo presente. In generale, il congiuntivo è sempre il modo da preferire nelle completive in un contesto medio-alto nel parlato e anche medio-basso nello scritto. Bisogna riconoscere all’indicativo futuro una maggiore precisione nel descrivere un evento futuro rispetto al congiuntivo presente; tale vantaggio, però, è poco funzionale, visto che la contestualizzazione futura è ugualmente riconoscibile e, se necessario, ricostruibile attraverso strumenti lessicali come gli avverbi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sarei grato se mi deste alcune indicazioni utili sulla composizione di comunicazioni formali. Innanzitutto vi domando quale formula sia da preferire tra io sottoscritto e il sottoscritto. Mi pare che le due soluzioni convivano. Ho sempre preferito la seconda, malgrado tuttora mi generi una qualche esitazione in termini di concordanza.
Credo che tutte le parti variabili del discorso che sono declinate in base al genere e al numero e siano riferibili al sottoscritto (verbi, aggettivi) debbano muovere dalla terza persona. Tutto ciò alle volte risulta innaturale, considerando che lo scrivente si riferisce a sé stesso.
 

Il sottoscritto xxx intende richiedere che il proprio indirizzo di posta elettronica sia modificato e che ogni messaggio ad egli (?) inviato sia… Il sottoscritto richiede inoltre che i suoi dati personali…
Resta (?) in attesa di un riscontro.
Porge (?) distinti saluti.

Questi sono solo alcuni esempi critici; ma in una comunicazione mediamente lunga i motivi di incertezza possono essere numerosi. 
Domando inoltre se esista un’alternativa alla ripetizione del sostantivo sottoscritto durante la stesura: è possibile usare il pronome egli (o ella in caso di sottoscritta)?
E un’ultima cosa, che prescinde dalla concordanza: nella chiusa delle comunicazioni formali non è raro trovare ringraziamenti per l’attenzione o il tempo dedicati. Quelle di seguito proposte sono tutte e cinque ammissibili?

Grazie per l’attenzione che mi dedicherete/dedicherà.
Grazie per l’attenzione che vorrete/vorrà dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che vogliate/voglia dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che mi avete/ha dedicata.
Grazie per l’attenzione che mi è stata dedicata.

 

RISPOSTA:

​La comunicazione scritta del tipo da lei indagato è talmente formale da essere formalizzata, cioè popolata di espressioni cristallizzate, che la configurano come ingessata e, per certi versi, come inelegante. Il primo punto critico è propio la formula di responsabilità, che, come già rilevato da lei, può essere Il sottoscritto / La sottoscritta + nome o Io sottoscritto / Io sottoscritta + nome. 
La prima variante è quella più tradizionale; fa riferimento alla firma in calce, alla quale si demanda la dichiarazione della responsabilità sul contenuto della comunicazione, come se si dicesse ‘Quel Fabio Ruggiano che ha firmato questo scritto’. Porta con sé, però, la stranezza di dover continuare tutto lo scritto in terza persona, mentre si parla di sé; pena la perdita della coreferenza (*Il sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro…). In realtà questa stranezza è proprio ricercata e fa parte di quel formalismo di cui sopra: parlare in terza persona rende la comunicazione estremamente distaccata e oggettiva, come se lo scrivente non fosse direttamente interessato al contenuto della comunicazione, sebbene abbia dichiarato di esserne responsabile con il rimando alla firma. In questo contesto, che è ovviamente simbolico e non deve dar conto solamente delle esigenze comunicative, continuano ad avere piena cittadinanza forme obsolete nella lingua comune, come i pronomi egli e ellacostui e costeicodesto e codesta
L’innaturalezza della costruzione in terza persona, in un’epoca in cui il formalismo nella comunicazione è quasi sparito in tutti i campi, ha reso insopportabile la formula il sottoscritto / la sottoscritta; gli scriventi hanno, così, deformato appena la formula ottenendo quella che sembrava la soluzione più semplice: Io sottoscritto / Io sottoscritta. Con questo cambiamento minimo, la terza persona diviene prima persona: Io sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro… Inutile dire, però, che il formalismo in questo modo si perde, mentre si mantiene solamente la superficie di una formula a questo punto davvero stantia e grammaticalmente discutibile: Io sottoscritto Fabio Ruggiano dichiaro, infatti, corrisponde a ‘Io Fabio Ruggiano che sono scritto sotto dichiaro’ (senza virgole). Dal punto di vista grammaticale, quindi, la costruzione è sciatta, dal punto di vista logico è ridondante: non c’è motivo, infatti, di rimandare alla firma se si sta già dichiarando la propria responsabilità parlando in prima persona. A questo punto, tanto vale eliminare sottoscritto e mantenere l’essenziale, facendo una scelta di vera semplificazione: Io, Fabio Ruggiano, dichiaro…
In astratto, oggi le varianti Il sottoscritto / La sottoscritta Io sottoscritto / Io sottoscritta sono ugualmente accettabili; la scelta tra le due è una questione di stile, nella quale potrebbero (o no) avere un peso le osservazioni fatte sopra. La variante Io, + nome, (la virgola fa parte della formula) è chiaramente la meno formale ed è attualmente la scelta meno scontata (ma a mio parere perfettamente legittima).
Per quanto riguarda le formule di commiato, infine, tutte le varianti da lei presentate sono valide, ma sono da posizionare in una scala di formalità. Dalla più alla meno formale troviamo: 

Grazie per l’attenzione che vogliate/voglia dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che vorrete/vorrà dedicarmi.
Grazie per l’attenzione che mi dedicherete/dedicherà.
Grazie per l’attenzione che mi è stata dedicata.
Grazie per l’attenzione che mi avete/ha dedicata.

Nell’ultima si consideri anche la possibilità di non concordare il participio passato (che mi avete / ha dedicato). Su questo punto rimando alle tante risposte dell’archivio di DICO che se ne sono occupate.
Riguardo alla prima, sottolineo che in questa forma suona un po’ innaturale, perché la proposizione ipotetica (o in questo caso relativa con sfumatura ipotetica) al congiuntivo presente è rara: al presente si usa quasi sempre l’indicativo. Non la scarterei, però, ma la renderei o ancora più formale, aggiungendo il pronome soggetto (Grazie per l’attenzione che voi vogliate / lei voglia dedicarmi), in modo da allontanarla totalmente dalla lingua comune e configurarla come un’espressione del tutto formalizzata; o più comune, con il congiuntivo imperfetto: Grazie per l’attenzione che voleste / volesse dedicarmi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Locuzioni e congiunzioni che normalmente richiedono il congiuntivo possono talvolta introdurre proposizioni al condizionale – oltreché all’indicativo futuro – specie se assumono, per così dire, un valore simile a quello delle apodosi del periodo ipotetico quando la protasi è sottintesa?
Alludo principalmente a è probabile chepurchéa patto chea condizione chenon è detto chesempre che e simili.

1. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vincerebbe.
2. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) sarebbero abilitati a svolgere questi lavori.
3. Vorrei al caso rivolgermi al professore, a patto che sarebbe propenso a ricevermi.
4. Non è detto che capirà.

Quali elementi devono essere tenuti in considerazione per stabilire in autonomia quando tali usi siano eventualmente corretti? E Inoltre, l’uso del congiuntivo sarebbe comunque valido nei primi tre esempi o
stravolgerebbe il senso generale delle costruzioni?

a. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vinca.
b. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) siano abilitati a svolgere questi lavori.
c. Vorrei eventualmente rivolgermi al professore, a patto che sia propenso a ricevermi.

 

RISPOSTA:

Lei mette insieme due costrutti apparentemente analoghi, ma che, invece, sono diversi e comportano una diversa organizzazione della frase. Da una parte abbiamo costrutti impersonali come è probabile che e non è detto che, che reggono una proposizione completiva soggettiva; dall’altra abbiamo congiunzioni come purchéa patto chea condizione chesempre che, che sono tutte varianti, con varie sfumature semantiche, di se introduttore di una proposizione subordinata ipotetica. 
La proposizione soggettiva può avere il condizionale, la ipotetica no, quindi le frasi 1 e 4 sono ben costruite, la 2 e la 3 sono scorrette. Rispetto alla 1, la variante a è più formale (la variante più formale della 4 sarebbe “non è detto che capisca”), rispetto alla 2 e alla 3, le varianti b e c sono quelle corrette.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del verbo guadagnare con il pronome ci. Perché si dice: “Cosa ci guadagni a comportarti così male?”; perché si usa il pronome ci? È obbligatorio? E cosa significa la frase cosi?

 

RISPOSTA:

​Il pronome atono ci in guadagnarci può avere due funzioni diverse, corrispondenti a due diversi significati del verbo. Può servire a riprendere o anticipare il tema dell’enunciato nel quale è inserito: in “Dalla vendita della casa ci ho guadagnato poco” il tema (dalla vendita della casa) è ripreso da ci; in “Ci ho guadagnato poco dalla vendita della casa” il tema è anticipato. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a sinistra, ripreso da un pronome, o a destra, anticipato da un pronome, è nota come dislocazione e serve a mettere in evidenza proprio il tema; quella a sinistra, in particolare, è utile per collegarlo meglio al co-testo precedente, quella a destra, invece, funziona meglio per creare effetti retorici di ironia o polemica.

Più spesso, però, guadagnarci è un verbo procomplementare; rientra, cioè, in quel gruppo di verbi formati con una o più particelle pronominali che assumono, proprio in forza di queste particelle, dei significati diversi dal verbo base. Tra questi verbi troviamo, per esempio, farcelamettersivedersela e moltissimi altri. Come si può vedere dagli esempi, in questi verbi le particelle sono fuse con il verbo e non hanno una funzione sintattica identificabile; allo stesso tempo, dagli esempi si ricava che questi verbi sono particolarmente appropriati a contesti informali, nei quali rappresentano alternative brillanti a verbi più formali dal significato analogo (per esempio farcelariuscire, mettersi a / iniziare avedersela con / affrontare). Lo stesso vale per guadagnarci, che non è la variante informale di guadagnare, ma corrisponde piuttosto a ottenere; se, infatti, guadagnare riguarda un profitto materiale, guadagnarci si riferisce a un vantaggio astratto. Da questo significato di base, inoltre, guadagnarci ha sviluppato quello relativo all’aumento di valore, che emerge in una frase come “Con la costruzione della fermata della metropolitana la zona ci ha guadagnato”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le soluzioni di seguito avanzate sono tutte consentite? Quale prevale sulle altre in termini di conformità grammaticale?
La paura che Giorgio disse di aver sperimentato…
a) era stata quella di perdere la propria dignità
b) era quella di perdere la propria dignità
c) è stata quella di perdere la propria dignità
d) fu quella di perdere la propria dignità
e) è quella di perdere la propria dignità.

 

RISPOSTA:

Nessuna delle cinque alternative è del tutto inaccettabile, sebbene alcune sembrino un po’ scolastiche e forzate.
Un primo problema è nella complessa reggenza sintattica che disse di… era quella di…, decisamente faticosa. Un secondo problema è nella frase pseudoscissa: “la paura è quella di”, piuttosto che un piano “Giorgio … sperimentato la paura di”. Un terzo problema è nella natura del verbo essere quando non ha un valore pienamente temporalizzabile, ma generico e quasi grammaticalizzato, come appunto accade nelle frasi scisse e pseudoscisse o anche nelle considerazioni di carattere generale e quasi universale.
Commisurando tutti questi problemi, la soluzione a) sembra forse la migliore, perché rende minutamente conto della consecutio temporum. Anche la b) va bene perché la genericità del verbo essere in questo caso giustifica una deroga alla resa minuziosa della consecutio, anche perché la paura di perdere la dignità è una paura di allora come di ora, forse, cioè l’uso del verbo essere è qui quasi acronico, o aoristico, nella generalità dell’affermazione “perdere la dignità”. Per spiegarmi meglio, certe affermazioni hanno una loro valenza di là dal momento contingente: se io dico “dissi che per me la paura è quel sentimento che” ecc. ecc., non avrebbe senso dire “fu quel sentimento”, al massimo potrei dire “era”, ma comunque la considerazione ha valore adesso come allora.
Per questo motivo la c) e la d) sono le soluzioni meno felici, perché forzano a una temporalità troppo rigida la constatazione di carattere generale. La e) invece andrebbe bene quasi quanto la b), se non fosse che l’insistito uso del passato in disse e aver sperimentato rende questo presente un po’ forzato: uno scrittore cavilloso (troppo) potrebbe eccepire: chi ti dice che la paura di perdere la dignità che Giorgio aveva allora ce l’abbia tuttora?
In conclusione, così com’è il periodo non autorizza a escludere che la paura di perdere la dignità sia una paura generale (valida sempre, allora come ora, per chiunque ecc.) o contingente, in riferimento a quel momento specifico della vita di Giorgio.
Ribadisco comunque che l’intero periodo, con qualsivoglia alternativa delle cinque, risulterebbe un po’ faticoso, sia per il verbo sperimentare (perché non provare?), sia per il doppio salto mortale sintattico del dire di avere avuto paura e di specificare che la paura è quella di… Sarebbe auspicabile una semplificazione del tipo: “Giorgio ebbe paura si perdere la dignità. Una paura mai provata prima”, o qualcosa di simile (anche propria è pleonastico: di chi altri sarebbe la dignità se non la sua?).
 
Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si può scrivere: con che macchina, con che faccia, etc….oppure è corretto scrivere: con quale macchina, con quale faccia…. Sono accettabili entrambi?

 

RISPOSTA:

Sì, sebbene che sia lievemente meno formale e meno accetto ai puristi. Con buona pace di questi ultimi, tuttavia, l’aggettivo interrogativo ed esclamativo che, sempre più spesso e in tutti i livelli di lingua, sta sostituendo quale, anche in certe espressioni (quasi) idiomatiche: “quale onore!” > “che onore!”. Ma regge ancora, per esempio, in: “Qual buon vento ti porta?”.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Leggevo in un giornale: “è anni che il marito la tradisce”. E’ accettabile, oppure è corretto scrivere solamente: “sono anni che il marito…”

 

RISPOSTA:

Il costrutto da Lei segnalato “è anni che” è detto, in linguistica, frase scissa, ed è molto frequente (almeno a partire dal Settecento) e molto studiato. Serve a dare maggiore rilievo, a mettere in evidenza, a focalizzare, la parte dell’enunciato subito dopo il verbo essere. Benché si possa trovare in ogni tipo di lingua, è chiaro che, al pari degli altri costrutti di sintassi marcata, la frase scissa sia più frequente, e appropriata, in quei tipi di testo in cui sale l’esigenza di coinvolgere l’attenzione dell’interlocutore, o anche in quelli in cui è necessario ripristinare la coesione riagganciandosi a quanto già detto. Pertanto, il regno delle frasi scisse saranno, per esempio, i testi giornalistici e anche alcuni tipi di testo più informali, più vicini alla mimesi del parlato. Ma, a differenza di altri costrutti marcati (come le dislocazioni a destra o gli anacoluti), le frasi scisse si trovano anche in testi letterari e molto formali, proprio come tecnica di coesione e di focalizzazione. Proprio perché il verbo essere e il che sono, per dir così, abbastanza desemantizzati e grammaticalizzati, cioè utili al fenomeno della focalizzazione (si tratta infatti di un che pseudorealtivo, e non relativo puro, come dimostra l’impossibile sostituzione con il quale), non è infrequente, nell’italiano di ieri e di oggi, incontrare l’accordo di è singolare con un soggetto plurale, perché, come ripeto, il verbo serve qui a introdurre qualcosa da focalizzare (focus), indipendentemente dal suo ruolo sintattico. Per es., nelle quattrocentesche lettere di Alessandra Macinghi Strozzi (nel CD della Biblioteca italiana Zanichelli) leggo: “ma egli è anni che tu cominciasti a fare delle cose non ben fatte”. È chiaro che la forma senza accordo (“è anni che”) sia da intendersi come la soluzione meno formale, meno adatta a un testo scritto ufficiale, ma comunque possibile e non scorretta tout court.
Ciò detto, possiamo provare a istituire una sorta di scala di formalità, dal più al meno formale, per esprimere un concetto analogo:
1. il marito la tradisce da anni
2. sono anni che il marito la tradisce
3. è anni (o anche “è da anni”) che il marito la tradisce.
Aggiungo in coda che recentemente m’è capitato di studiare un fenomeno analogo, sempre sul terreno del labile accordo nelle frasi scisse. Il verso, splendido, è nella conclusione del Falstaff di Verdi/Boito: “Son io che vi fa scaltri”. In questo caso ci si aspetterebbe l’accordo “faccio”, ma proprio la natura della focalizzazione pseudorelativa consente di considerare quel che come una ripresa neutra, svincolata da quanto riprende. In verità, il discorso sarebbe ben più complesso, ma questa è un’altra storia.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Facendo un piccolo ritorno all’uso di NE vorrei chiedere se queste forme sono giuste con l’accordo e se esso *è obbligatorio*:
Come sono i libri di Moravia? Buonissimi!          Ne ho letto uno.
Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni.  // *Ne ho letto due/molti/parecchi… ???*
Non mi piacciono.         Non ne ho letto nessuno.
Non ne ho letto nessuna (delle poesie)
Come sono le banane? Buonissime!       Ne ho presa una. // *Ne ho preso una. ???*
Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune. // *Ne ho preso molte/tante…
???*
Non mi piacciono.       Non ne ho mangiata nessuna. // *Non ne ho mangiato nessuna.  ???*
*E in questo caso e obblagatorio la concordanza o possiamo prescinderne?*
Hai comprato del vino?               Sì, ne ho comprato. /ne ho comprato
Hai comprato della pasta?          Sì, ne ho comprata. /ne ho comprato
Hai comprato dei pomodori?     Sì, ne ho comprati. /ne ho
Hai comprato le mele?                   Sì, ne ho comprato / i due chili.
Alla domanda: Hai mangiato del pane? Hai preparato degni gnocchi?
qual e la risposta giusta?
Si, l’ho mangiato. o : Si, ne ho mangiato.
Si, li ho preparati. o Si, ne ho preparato. / ne ho preparati alcuni.

 

RISPOSTA:

Rispondo caso per caso:
“Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno”: va bene la forma al maschile singolare: uno si riferisce a libroBuonissimi però non è adatto ai libri, ma a qualcosa che si mangia, o altro, ma non ai libri. Meglio Bellissimiinteressantissimiottimi o altro.
“Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni”: l’accordo al plurale è fortemente richiesto, anche se nell’uso informale esiste la variante senza accordo: “Ne ho letto due”.
“Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno”: va bene.
“Non ne ho letto nessuna (delle poesie)”: vale lo stesso che per “Ne ho letto / letti due”, l’accordo al femminile è corretto; la variante senza accordo è ammessa ma meno formale.
“Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una”: va bene con accordo.
“Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune”: va bene accordato.
“Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna”: va bene con accordo.
“Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato”. “Ne ho comprato” va bene, ma andrebbe bene anche: “sì, l’ho comprato”, visto che il partitivo di qualcosa di cui non ci specifica la quantità si presta sempre ad essere interpretato come un intero, a meno che non si specifichi un peso preciso, o una misura ecc., per es.: “Sì, ne ho comprati due litri”, meglio di “ne ho comprato due litri”. Sarebbe scorretto, invece, in questo caso: “L’ho comprato due litri”, appunto perché in presenza di quantità va specificato il partitivo ne.
“Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata”: identico al discorso fatto sopra per il vino: se non si specifica la quantità il partitivo è inutile, e dunque si può rispondere anche: “Sì, l’ho comprata”, ma: “Ne ho comprati due chili”, meglio di “ne ho comprato due chili”. Possibile in astratto, ma rarissima, anche la variante “Ne ho comprata due chili”, con il participio accordato con pasta.
“Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati”: come sopra.
“Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili”. La forma più corretta è “Ne ho comprati due chili”, ma andrebbe bene, in astratto, anche “Ne ho comprate due chili”, con l’accordo con mele. Più informale, ma possibile, “Ne ho comprato due chili”, senza accordo.
Quanto infine alle ultime due domande, entrambe le risposte alla prima sono giuste, per il discorso fatto sopra sulla quantità non specificata. Alla seconda domanda, sono corrette, per lo stesso motivo, tutte le varianti; tra “Ne ho preparati alcuni” e “Ne ho preparato alcuni” la prima è più formale.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Provo a riassumere le cose:
Con l’avverbio NE e obbligatorio la concordanza se c’e solo un pronome indefinito o un numerale:
Delle banane ho comprata una/ho comprate due/ ho comprate molte, parecchie.
Ma se c’e una quantità: pagina, chilo, pezzi, fette: come va l’accordo? Cioè non posso concordare con il soggetto se c’e la quantità come oggetto.
Delle arance ne ho presi due chili. va bene con la concordanza con la quantità.
Ne ho preso due chili. va bene-non è obbligatorio la concordanza, il participio rimane invariato
Ne ho prese due chili. non va bene, non posso concordare con le arance, o rimane invariato il participio o va concordato con la quantità.
Mi scusino per insistere su questo punto, insegno l’italiano e ho spiegato secondo le vecchie regole questo uso e adesso quando mi correggo non voglio sbagliare di nuovo.
Adesso sono nel giusto?

 

RISPOSTA:

I suoi dubbi sono più che legittimi, anche per un madrelingua, dal momento che l’accordo con il ne è uno dei punti d’ombra della nostra grammatica, ovvero uno di quelli poco normati e in cui gli usi valgono più delle regole. Le risposte presenti nell’archivio di DICO sull’argomento (si vedano almeno le domande “Ancora sull’accordo con “ne” e Ancora sull’uso del ne: con o senza accordo del participio passato con l’oggetto? ) riflettono le scelte più comuni e quelle che non destano alcuna reazione negativa nella gran parte dei parlanti. Tutti gli altri usi che cita Lei sono in realtà pure attestati, ma non da tutti condivisi. Pertanto, riassumendo a partire dalle sue parole: tutto vero quello che scrive nella prima parte del suo messaggio. Per quanto riguarda la seconda parte, ovvero in presenza di un quantificatore, la scelta più comune (e dunque da me suggerita) è quella dell’accordo con l’oggetto. Quindi:
“Delle arance ne ho presi due chili” va bene sempre. Le altre due possibilità suscitano qualche perplessità nei parlanti e nei grammatici: “Ne ho preso due chili” (più frequente, ma meno formale) e “Ne ho prese due chili” (più rara).
Fabio Rossi

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QUESITO:

In una conversazione informale può essere accettata una frase come “Se vuoi, domani fammi sapere come è andato il provino”? Come dovrebbe essere formulata la stessa frase in un contesto più formale?

 

RISPOSTA:

La variazione diafasica (cioè le differenze tra ambito formale e informale) non va enfatizzata. A volte, un enunciato va benissimo in entrambi gli ambiti, com’è il caso del suo. Presupposto che vi sia un rapporto tra pari tra gli interlocutori (come testimonia l’uso del Tu in luogo del Lei come allocutivo), l’enunciato non ha alcuna necessità d’esser “sollevato” stilisticamente. Ovviamente, sono sempre possibili alternative, ma che suonerebbero stonate, a mio avviso, come per esempio la sostituzione (qui fuori luogo) dell’indicativo con il congiuntivo: “come sia andato”. Si potrebbe anche eliminare, dandolo per scontato, l’inciso iniziale con funzione di segnale discorsivo incipitario: “Se vuoi”. Si potrebbe anche trasformare l’enunciato da discorso diretto a indiretto (o proiettato, come lo chiamerebbe Halliday), e con sostituzione del presente con il futuro, a rendere meno perentoria la richiesta all’imperativo: “ti prego di farmi sapere come andrà il provino”. E mille altri cambiamenti sono possibili. Ma ripeto: il troppo stroppia. Perché mai accanirsi a modificare (o innalzare) ciò che funziona benissimo così com’è, in tutti gli ambiti?
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si può usare il “perché” in una frase a sé per non fare una domanda, ma per affermare? 
Es.: “Domani non andremo al mare. Perché non ho voglia”.

 

RISPOSTA:

Sì, si può usare. Sicuramente il punto che separa una subordinata dalla reggente è la soluzione meno formale, e più espressiva, adatta per esempio a un articolo giornalistico piuttosto che a un saggio critico, nel quale si opta di solito per una maggiore coesione sintattica. Questo in linea di massima. Per essere più specifici, la subordinata causale è solitamente tra quelle più solidali con la reggente, cioè il cui significato (la causa, la conseguenza di qualcosa, appunto) più delimita il significato della reggente, e per questo motivo si tende a non separare con una virgola la causa dall’effetto. Tuttavia subentra talora l’esigenza di dare pari valore sia alla causa sia all’effetto, e in casi simili il punto aiuta proprio a non mettere in secondo piano, in ombra, la causa rispetto all’effetto. Pare proprio questo il senso dell’enunciato da Lei riportato, nel quale il non aver voglia ha pari importanza, se non addirittura superiore, rispetto al non andare la mare. Lo stesso enunciato senza la virgola conferirebbe meno valore al non avere voglia: “Domani non andremo al mare perché non ho voglia”, in cui la prima parte del periodo ha decisamente più importanza della seconda.
A queste ragioni si aggiunga che talora il perché causale ha in italiano non tanto il valore della causa in sé (cosiddetta causa de re), quanto della causa del dire o pensare una determinata cosa (cosiddetta causa de dicto). Questo secondo valore del perché (causa de dicto), usualmente più comune nel parlato che nello scritto, o nello stile colloquiale piuttosto che in quello formale, è preferibilmente separato da un punto rispetto alla reggente. L’esempio classico del perché de dicto è il seguente: “Piove. Perché prendo l’ombrello”. La causale “perché prendo l’ombrello” non è la causa del piovere (semmai ne è l’effetto), bensì del mio dire, o ipotizzare, che piove.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La congiunzione finché gode della stessa libertà sintattica di appena (come illustrato nel vostro intervento 2800305) e di quando? Includo dati esempi:

aspetterò / aspetto finché venga;
aspetterò / aspetto finché viene;
aspetterò / aspetto finché è venuto;
aspetterò / aspetto finché sia venuto;
aspetterò / aspetto finché verrà;
aspetterò / aspetto finché sarà venuto.

Se il predicato della principale non è di modo indicativo, ma condizionale, sono comunque possibili molte delle soluzioni sopra prospettate?

aspetterei finché venga;
aspetterei finché viene;
aspetterei finché verrà;
aspetterei finché sarà venuto;
aspetterei finché è venuto;
aspetterei finché sia venuto;
aspetterei finché venisse;
avrei aspettato finché fosse venuto;
avrei aspettato finché venisse.

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti dei due blocchi da lei proposte sono accettabili, anche se non ugualmente frequenti. Come sempre, quelle con il congiuntivo sono più formali di quelle con l’indicativo. 
Particolarmente inattese quella con il passato prossimo, che unisce una struttura sintattica sofisticata a una realizzazione superficiale non curata, e quella con la reggente al condizionale passato e la subordinata al congiuntivo imperfetto (piuttosto comune, invece, quella con il congiuntivo trapassato). 
​Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”.  Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (luileite) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Chiedo un chiarimento sulla correttezza dei tempi nella seguente frase:
“È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA/VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
A mio avviso sono entrambi corretti, con la differenza che VOGLIA si riferisce al futuro, mentre VOLESSE indica una contemporaneità. Dico bene?

 

RISPOSTA:

La sua intuizione è in parte giusta, in parte troppo rigida.
Cominciamo dal modo: la scelta del congiuntivo è la più formale, come al solito, ma il suo esempio funzionerebbe perfettamente, e direi anche meglio, all’indicativo: “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VUOLE/VOLEVA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
Sicuramente nel suo caso l’uso del congiuntivo è incoraggiato, oltreché dalla formalità e dal retaggio scolastico (non sempre giustificato) di preferire il congiuntivo all’indicativo (che noi linguisti chiamiamo scherzosamente “congiuntivite”), dalla sfumatura eventuale conferita dall’espressione reggente “mi è capitato di sentire”. Se sostituissimo alla reggente (che è una frase scissa: “è la prima che mi è capitato”) un’espressione più netta e meno eventuale, rispettandone però il tempo al passato, come “ho sentito”, l’indicativo sarebbe di fatto l’unica alternativa possibile, relegando il congiuntivo a un livello di artificiosità quasi irricevibile: “ho sentito che Luigi VUOLE/VOLEVA” ecc. / *“ho sentito che Luigi VOGLIA/VOLESSE” ecc.
Passiamo ora alla consecutio temporum. Esattamente come nell’esempio da me ricostruito all’indicativo, il presente ha un valore non del tutto definito (quasi acronico o pancronico) che va dalla contemporaneità alla posteriorità: quando vuole tornarci? ora? domani? prima o poi? Mentre l’imperfetto ha un valore anch’esso più o meno indefinito dalla contemporaneità all’anteriorità: ci voleva tornare e poi c’è effettivamente tornato? oppure ci voleva tornare e non c’è tornato? oppure genericamente ci vorrebbe tornare prima o poi? Quest’ultimo significato è incoraggiato dal valore modale dell’imperfetto indicativo, che può valere, epistemicamente, come un condizionale: voleva = vorrebbe.
Al congiuntivo accade più o meno quel che accadrebbe all’indicativo:
1) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi vuole tornare nello stesso luogo, forse ci tornerà, ma forse c’è già tornato (anche se quest’ultima eventualità è la più rara).
2) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi voleva (prima), o vuole tuttora, tornare ecc., e non si capisce se ha già realizzato o no la sua volontà.
Nel caso da Lei segnalato, infine, a rendere ancora più sfumato il rapporto tra contemporaneità, anteriorità e posteriorità c’è anche l’uso del verbo modale volere, che conferisce una sfumatura eventuale-desiderativa e una proiezione sulla realizzabilità dell’azione che ben si sposa con l’idea di futuro (cioè di posteriorità), che configge, in certo qual modo, con la dipendenza al passato di “è la prima volta che mi è capitato di sentire”. Ricordo en passant, al riguardo, che l’idea di futuro, in molte lingue del mondo (sicuramente quelle romanze e germaniche) è intimamente legata con quella di volere/dovere, tant’è vero che in inglese il futuro si può costruire anche con will = ‘voglio’ e in italiano con il suffisso -arò ecc. che proviene dall’espressione perifrastica latina con habeocantare habeo = devo cantare = canterò, questo per dire che tra verbi modali e idea di posteriorità c ‘è una forte congruenza.
Morale della favola: nell’enunciato da Lei segnalatoci, sia il presente sia l’imperfetto congiuntivo (o indicativo) sono accettabili, ma non è possibile stabilire in modo univoco i valori di contemporaneità, anteriorità e posteriorità dell’uno e dell’altro. Tendenzialmente, il presente voglia  incoraggia l’interpretazione della contemporaneità-posteriorità, l’imperfetto volesse quella della contemporaneità-anteriorità. Il tutto, poi, relativamente al valore del verbo volere. Ma se ci spostiamo da volere a tornare, cioè il verbo principale retto dal modale volere, il discorso si fa ancora più sfumato, perché, sia per la consecutio temporum sia soprattutto per la sfumatura modale conferita dal verbo volere, è impossibile, in tutti i casi da Lei e da noi qui segnalati, stabilire con certezza se Luigi ci è tornato o no.
Le lingue, e il cervello umano che le crea, son fatte di incertezze e di sfumature: è questo il loro fascino, il loro mistero, il loro miracolo cognitivo. Ed è questo che rende la comunicazione, e tutti gli sforzi per comprenderci gli uni con gli altri, un’attività così creativa e accattivante. Non bisogna mai perdere il gusto e la tenacia di tentare di comprendere sempre i testi (scritti, orali, visivi ecc.) con cui ci confrontiamo, neppure di fronte alla loro inevitabile ambiguità.
Concludo con un’ultima notazione: le anomalie date dal valore modale (a metà tra il volitivo e il desiderativo) del verbo volere giustificano anche un’altra apparente anomalia morfosintattica e semantica di quel verbo, vale a dire il fatto che dal presente condizionale dipenda preferibilmente l’imperfetto congiuntivo, piuttosto che il presente, per esprimere la contemporaneità dell’azione: “vorrei che Luigi tornasse”, piuttosto che “vorrei che Luigi torni” (comunque possibile, ma meno formale, in italiano). Per ulteriori dettagli su quest’ennesima “stranezza” dell’italiano, può leggere la documentata risposta del prof. Ruggiano, con relativa citazione da Serianni, nella risposta di DICO dal titolo “Vorrei che tu…”.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Alcuni giorni addietro ho letto l’articolo 2800333, in cui un utente ha introdotto un argomento, a me caro, che avrei voluto esporre a mia volta. Benché le vostre chiose siano state come al solito chiare e dettagliate, permangono in me punti oscuri sull’alternativa congiuntivo/condizionale nella reggenza di quando.
Già prima di consultare il vostro intervento, avevo condotto svariate ricerche su Internet (Google libri, siti di linguistica, ecc.), ma, in tutta onestà, confesso di non aver ancora afferrato la regola che ne sancisce l’uso. Il setaccio on line ha prodotto, tra le numerosissime occorrenze, anche i seguenti risultati:
“Avrebbe continuato a farlo anche quando lui sarebbe sparito per sempre” (C. Castellaneta).
“Avrebbe potuto irritarla quando avrebbe voluto” (A. Moravia).
“Ti si chiamerebbe quando si fosse finito” (A. Moravia).
“Sapevo che quando sarebbero venuti gli infermieri, non lo avrei mai più visto” (A. Elkann). 
“Parlava di dedicarsi alla scrittura, quando fosse andato in pensione” (autore non identificato).
Aggiungo in calce anche una frase estratta da traduzione di Edgar Allan Poe a cura di Elio Vittorini (si discosta dal pernio dell’argomento, ma anche qui vi è un uso del condizionale in cui, secondo me, si potrebbe scegliere il congiuntivo): “Si decise allora di informare della mia presenza a bordo il primo uomo che sarebbe venuto giù”.
Come già detto, queste sono solo alcune delle occorrenze. In generale, ho riscontrato un’alternanza dei due modi, anche all’interno di quei casi nei quali – se ho ben interpretato la semantica – quando ha un valore paragonabile a quello di ‘nel momento in cui’.
Mi permetto di domandarvi se:
1) Si possa sempre usare il congiuntivo, indipendentemente dalle sfumature che di volta in volta potrebbe assumere quando, oppure ci sono casi in cui è obbligatorio il condizionale?
2) Esistono appunto dei casi in cui si usa solo il congiuntivo e altri in cui invece si usa solo il condizionale (sempre in riferimento a quando ‘nel momento in cui’), oppure i due modi rivaleggiano negli stessi ambiti e la scelta da parte dello scrivente-parlante dipende esclusivamente dal registro (il congiuntivo è più formale del condizionale)?
3) Nel quesito già citato, l’esempio dell’utente è “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. La forma “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sarebbe stata comunque accettabile, anche se meno formale?

 

RISPOSTA:

​1) Il congiuntivo è sempre possibile, sia in un contesto ipotetico, sia in uno di futuro nel passato. In tutti gli esempi letterari da lei proposti, non a caso, si può sostituire il condizionale con il congiuntivo. 
2) Se la proposizione reggente è una apodosi, la proposizione subordinata introdotta da quando richiede il congiuntivo: “Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui fosse venuto” (non *”Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui sarebbe venuto”); se, però, l’evento della proposizione al condizionale passato è futuro rispetto al passato, il condizionale nella subordinata torna a essere accettabile, perché la subordinata si interpreta come una temporale con possibile sfumatura ipotetica: “Pensai che gli avrei detto tutto quando fosse / sarebbe venuto”. In questo caso, in cui sono possibili entrambi i modi, il congiuntivo è la scelta più formale.
Si noti che in questi casi lo scarto tra protasi e temporale è sottile; a distinguerle è spesso solamente il contesto (negli esempi che ho portato sopra, è il tempo del verbo della proposizione principale).
3) Da quanto appena detto discende che “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sia accettabile, sebbene meno formale di “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. In ogni caso, il congiuntivo nella proposizione introdotta da quando non ha valore ipotetico: il giungere dell’alba, infatti, è un fatto ineludibile.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Continuo a non cogliere a fondo determinate funzioni dei modi congiuntivo e condizionale e di come si intrecciano e si alternano nelle varie enunciazioni.
La proposizione qualunque cosa fosse successa all’interno del periodo

a) Qualunque cosa fosse successa, egli sapeva che ella ci sarebbe stata,

ha esclusivamente valore ipotetico o anche ipotetico-temporale, sottintendendo l’adesione dell’azione al passato? In altre parole, quel fosse successa rimanda a ieri, una settimana prima, eccetera?
Per significare un’ipotesi aderente al futuro si potrebbe o si deve obbligatoriamente usare il condizionale composto?

b) Qualunque cosa sarebbe successa, egli sapeva che ella ci sarebbe stata.

Inoltre, il condizionale composto, oltre a svolgere la funzione di futuro nel passato, può indicare anteriorità rispetto al condizionale presente (fatte le dovute distinzioni, sulla stregua del futuro anteriore rispetto al futuro semplice)?

c) Ti chiameremmo quando / se avremmo finito.

d) Se toccasse a me, farei quanto mi avrebbero detto.

Oppure sarebbe meglio scrivere, per indicare, appunto, un’anteriorità incerta rispetto all’altrettanto incerta azione del farei, “se toccasse a me, farei quanto potrebbero avermi detto”? In altre parole, esiste un tempo che permetta al lettore di discernere un’eventualità sicuramente non avvenuta nel passato e un’eventualità che abbia le caratteristiche esposte sopra?

 

RISPOSTA:

​I tempi del congiuntivo usati nella protasi del periodo ipotetico (l’imperfetto e il trapassato, raramente gli altri due) assumono la funzione di indicatori del grado di ipoteticità dell’evento, dovendo mediare tra questo sistema e quello della consecutio temporum, con conseguenze difficili da schematizzare, perché i parlanti incrociano continuamente la prospettiva temporale con quella ipotetica alla ricerca di sfumature illocutive (su questo concetto si veda questa risposta dell’archivio di DICO).
In linea di massima, secondo la consecutio temporum il congiuntivo imperfetto indica la contemporaneità nel passato “Mi avrebbe fatto piacere che tu venissi”; nel periodo ipotetico, invece, indica un evento ancora realizzabile, quindi legato al presente: “Mi farebbe piacere se tu venissi” (= è ancora possibile che tu venga). Se, però, è impossibile, se non in uno stile molto trascurato (o in casi molto intricati), costruire una protasi all’imperfetto con un’apodosi al passato (*”Mi avrebbe fatto piacere se tu venissi”) è, al contrario, possibile far dipendere l’imperfetto dal condizionale presente: “Mi farebbe piacere che tu venissi”. In un caso come questo, è evidente la sovrapposizione tra la costruzione completiva e quella ipotetica.
Nella consecutio temporum, il congiuntivo trapassato indica un evento anteriore a quello della reggente, a sua volta al passato: “Non sapevo che lui fosse venuto alla festa ieri”. Nel periodo ipotetico, invece, indica una eventualità che non può più realizzarsi, o al limite una possibilità remota; questa funzione è assolta tipicamente in composizione con un’apodosi al passato: “Sarei stato felice se tu fossi venuto”, ma può essere richiesta anche con un’apodosi al presente: “Sarei felice se tu fossi venuto” (= non sono felice perché tu non sei venuto).
Nella sua frase a) il congiuntivo trapassato (fosse successa) si inquadra nella consecutio temporum, perché indica un evento precedente a un altro passato, corrispondente a ci sarebbe stata. In questo caso fosse successa indica una possibilità futura, non passata, rispetto a sapeva, perché ciò che preme qui è rappresentare il rapporto reciproco tra fosse successa sarebbe stata.
La frase b), al contrario, sottolinea il rapporto tra sapeva e gli altri due eventi, entrambi proiettati nel futuro (rispetto al passato). Si noti che in questo modo è comunque possibile ricostruire, per logica, che sarebbe successa è precedente a sarebbe stata.
La frase c) non è ben costruita: quando / se avremmo finito è chiaramente una protasi di periodo ipotetico, che non ammette il modo condizionale. Lasciando l’apodosi al condizionale presente, la frase può prendere le seguenti forme: “Ti chiameremmo se finissimo” e “Ti chiameremmo se avessimo finito”, per sottolineare che non abbiamo ancora finito.
Nella d) il periodo ipotetico è formato da se toccasse a me, farei, mentre il condizionale passato è contenuto in una ulteriore subordinata dell’apodosi, di tipo interrogativo indiretto. Escludiamo che quest’ultima proposizione possa descrivere un evento futuro nel passato perché, come detto, il futuro nel passato deve riferirsi a un passato, che qui non c’è (se ci fosse, il futuro nel passato sarebbe legittimo: Avrei fatto quanto mi avrebbero chiesto). Il condizionale presente non è escluso: farei quanto mi direbbero, ma è meno formale del congiuntivo, nonché meno efficace, perché innesca un nuovo periodo ipotetico, ridondante (il condizionale presente, infatti, esprime sempre un’azione in qualche modo condizionata): farei quanto mi direbbero (se ciò avvenisse).
L’opzione migliore per costruire l’interrogativa indiretta è il congiuntivo, scegliendo il tempo in base alla consecutio temporum. Partendo dal presente della reggente (farei) potremmo avere farei quanto mi dicessero, che rappresenta l’atto del dire come contestuale a quello del fare, ma per logica leggermente anteriore, o farei quanto mi avessero detto, che lo rappresenta come avvenuto in precedenza.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così mi attivo per la ricerca”, vorrei sapere se prima di avvisami bisogna inserire la virgola. 
Inoltre, nello scritto è meglio usare la forma Mi sono ricordato, oppure ricordo?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dalla virgola dopo avvisarmi, fortemente richiesta per via della necessità di segnalare la separazione tra due unità informative all’interno di questo enunciato. La prima contiene il periodo ipotetico, la seconda la coordinata alla principale, con valore consecutivo. 
Oltre alla virgola, che è la soluzione più semplice, è possibile anche il punto e virgola, se si vuole enfatizzare l’autonomia dell’atto dell’attivarsi rispetto a quello dell’avvisare. Possibile anche il punto fermo, che renderebbe ancora più autonomo e rilevante l’atto dell’attivarsi. Con il punto fermo, inoltre, il secondo enunciato può assumere due forme: “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così mi attivo per la ricerca” e “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così, mi attivo per la ricerca”. La seconda variante isola così, sottolineando il collegamento logico tra la premessa dell’avvisare e la conseguenza dell’attivarsi
Per quanto riguarda la virgola prima di avvisami, è buona norma separare con la virgola la subordinata preposta alla sua reggente dalla reggente stessa. Tale norma ha a che fare con la sintassi del periodo più che con la sintassi dell’informazione; se la subordinata, al contrario, è posposta, l’inserimento della virgola risponde a ragioni più informative che sintattiche. 
Calando il discorso teorico sui suoi esempi, abbiamo le seguenti soluzioni: “Se ti vengono in mente altre mete, avvisami”, ma “Mi scusi se la disturbo”. Possibile, per la verità, anche “Se ti vengono in mente altre mete avvisami”, perché la subordinata ipotetica (ovvero la protasi del periodo ipotetico) si trova regolarmente prima della reggente (l’apodosi), visto che rappresenta la condizione dell’evento descritto nell’apodosi. La variante senza virgola è particolarmente efficace se la frase continua dopo la reggente con altre proposizioni coordinate o subordinate, perché permette di evitare una proliferazione di virgole (ma è una considerazione da fare caso per caso). È proprio questo il caso di “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così…”.
Per quanto riguarda l’opposizione tra mi sono ricordato ricordo, la variante pronominale del verbo contiene, proprio in forza del pronome, una sfumatura di coinvolgimento emotivo del soggetto nel processo. Per questo motivo è più tipica in discorsi informali, solitamente incentrati su esperienze personali. Sempre per questo motivo, inoltre, ricordo è tipicamente usato con valore fattitivo (su questo concetto si può vedere la risposta n. 280013 nell’archivio di DICO), cioè nel senso di ‘far ricordare a qualcuno’.
Faccio notare che mi sono ricordato può essere confrontato con ho ricordato: “Ieri mi sono ricordato dell’appuntamento / ho ricordato l’appuntamento quando era troppo tardi”, ma anche con ricordo​, in un contesto presente: “Mi sono ricordato / ricordo che Luca ci ha / aveva invitato a pranzo per oggi”. Molto strano sarebbe *”Ho ricordato che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”, a meno che il verbo non sia usato con valore fattitivo: “Ho ricordato a Mario che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda le forme di saluto nello scritto. Si può chiudere una lettera informale con Cordiali saluti? Oppure iniziare una elaborato con Salve? Nel ringraziare, sempre a livello informale, è possibile usare la forma Grazie mille

 

RISPOSTA:

​La rimando a questa risposta  dell’archivio di DICO, data qualche tempo fa, ma sempre valida, dal prof. Rossi a un altro utente riguardo alle formule da usare nelle e-mail. Potrebbe anche trovare utile questa nota, sempre del prof. Rossi, pubblicata in DICO, nella rubrica Lo sapevate che? ciao-arrivederci-e-salve-non-sono-del-tutto-intercambiabili/.
Infine, per quanto riguarda grazie mille, va benissimo in una lettera, o e-mail, informale di ringraziamento. L’informalità dipende dalla posposizione dell’aggettivo, che lo rende più enfatico, e dall’iperbolicità di mille; la variante più formale, non a caso, è molte grazie.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gentile staff DICO,

nonostante la mia lunga esperienza nel mondo accademico, ho sempre avuto alcuni dubbi su come si debba scrivere correttamente una e-mail. Nel mio caso, diretta ai professori universitari, ai quali rivolgo richieste molto comuni (ad esempio fissare una appuntamento nelle loro ore di ricevimento oppure avere chiarimenti in merito a seminari, convegni ecc.). Purtroppo non ho mai trovato una fonte ufficiale (come testi), che mi abbiano fornito le indicazioni, a parte qualcuna.

Vi ringrazio previamente per la Vostra cortesia.
Cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che la sua e-mail è scritta benissimo, e dunque potrebbe ben essere proposta a modello di stesura. Con un’unica omissione: non ha scritto il suo nome e cognome alla fine del messaggio, come invece sarebbe buona norma fare sempre.
Per il resto, sarebbe necessario distinguere sempre tra l’ambito informale (nel quale non vi sono regole particolari da seguire, se non quelle generali dell’italiano) e quello formale, come quello da lei suggerito: vale a dire una e-mail di lavoro, per es. a professori. In quest’ultimo caso, la posta elettronica non differisce molto dalle vecchie lettere cartacee: si inizia con il rivolgersi al proprio destinatario, con i titoli del caso: GentileChiar.mo ecc.
Dopo un a capo, meglio ancora se con un rigo bianco, segue il testo della lettera, che si deve concludere con i saluti e con la firma (nome e cognome).
Si può omettere la data, che è, nella posta elettronica, inserita automaticamente dal sistema. Il soggetto o oggetto (l’argomento) non occorre specificarlo nel corpo del messaggio, visto che c’è l’apposito campo Oggetto nei sistemi di posta elettronica.
Se la e-mail è molto formale, si può anche (non è indispensabile) optare per la maiuscola di cortesia, da utilizzare tutte le volte che ci si rivolge al destinatario: LeiSuoVostra ecc., esattamente come fa lei (io, invece, in questo caso opto per la forma più confidenziale, con l’iniziale minuscola), nella sua (bella) e-mail. L’importante è la coerenza: in un medesimo messaggio, o l’iniziale maiuscola di cortesia si scrive sempre, o mai, non qualche volta sì e qualche volta no, altrimenti si dà l’impressione di trascuratezza e disordine e di essere scriventi inesperti.
Poche, elementari regole, che possono essere reperite, per es., nei manuali di scrittura correnti. Recentemente, l’Accademia della Crusca sta vendendo, tutti i venerdì, insieme con la Repubblica, dei volumetti sull’italiano. La terza uscita era dedicata proprio alla scrittura online, con qualche indicazione anche sulla posta elettronica.
Mi permetto di suggerirle, tra i numerosi manuali di scrittura dell’italiano, il seguente: Fabio Rossi e Fabio Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria, Roma, Carocci, 2013.
Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho sempre avuto la tendenza a usare la congiunzione quando con valore ipotetico, e facendola di conseguenza seguire dal congiuntivo, anche in quei casi in cui sarebbe stato possibile, o forse addirittura obbligatorio, il condizionale con valore temporale. 
In un frase quale

“Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”

Il congiuntivo è valido, nonostante il giungere dell’alba sia una certezza e non un’eventualità?
Questa particolare tendenza deriva in parte dalle mie letture giovanili dell’opera di Hemingway, in cui sono frequenti costruzioni ipotetiche simili a quella portata alla vostra attenzione.

 

RISPOSTA:

​La sua frase rifiuta una interpretazione ipotetica, sia a causa del contenuto della proposizione principale, sia per la costruzione temporale e per il contenuto della subordinata. L’evento del superare il fiume, infatti, appare situato nel futuro (ma dal punto di vista di una situazione passata); in una apodosi di periodo ipotetico al condizionale passato, invece, si presenta un evento situato nel passato (a volte un passato tendente al presente), che sarebbe avvenuto ma che sappiamo già non essere avvenuto, ad esempio: “Quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. Per cogliere con chiarezza la differenza tra costruzione propriamente ipotetica e al futuro nel passato (per un approfondimento di questo concetto si vedano le tante risposte al riguardo presenti nell’archivio di DICO), immagini la sua frase subordinata a un verbo di dire o di pensare al passato, che rappresenta il riferimento passato rispetto al quale l’evento del superare il fiume è futuro: “Il generale affermò che quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”; in questo modo, l’apparente “stranezza” del congiuntivo svanisce.
in un contesto di futuro nel passato come quello della sua frase, il congiuntivo non solo è ammissibile, ma è la soluzione più formale rispetto al condizionale passato nella subordinata temporale, anche se descrive un evento inevitabile come il sorgere dell’alba. La funzione primaria del congiuntivo, infatti, è quella di segnalare, in un registro medio-alto, la subordinazione; esso veicola l’idea dell’eventualità solamente in contesti ipotetici. 
Si noti che il contenuto della frase non sempre è sufficiente per stabilire se la frase sia al futuro nel passato o sia un periodo ipotetico dell’irrealtà; l’esempio fatto sopra è uno di questi casi: se lo manipoliamo allo stesso modo della frase sull’esercito, si trasforma da periodo ipotetico a descrizione di un evento futuro rispetto al passato: “Dissi che quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. In questi casi è il contesto della frase a farci optare per l’interpretazione corretta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

A proposito dell’eterno dualismo si passivante / si impersonale, ampiamente discusso in precedenti occasioni, vi domando se, in presenza di una doppia particella pronominale all’interno di un periodo, si sceglie, di preferenza, l’una o l’altra costruzione: “Da anziani, ci si dimentica / dimenticano le cose”.

 

RISPOSTA:

Dimenticare è un verbo transitivo, che, nella sua frase, regge un complemento oggetto. In questo contesto, il si ha la funzione di rendere il costrutto passivo: “Da anziani si dimenticano le cose” (ovvero “Da anziani le cose sono dimenticate”). Non bisogna confondere questa costruzione con quella del verbo dimenticarsi, che vediamo in un esempio come: “Il mio vecchio zio si dimentica le cose”. In questo caso il si funge da pronome personale atono intensificatore (che, cioè, enfatizza la partecipazione del soggetto al processo designato dal verbo), quindi il verbo concorda con il soggetto (infatti, cambiando soggetto avremo, per esempio, “Io mi dimentico sempre le chiavi nelle tasche delle giacche”).
Se al si aggiungiamo il pronome ci il costrutto diviene impersonale (il soggetto è un noi generico), quindi il verbo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dalla presenza o assenza del complemento oggetto, e a prescindere dal numero del complemento oggetto. Nella sua frase, pertanto, l’unica costruzione corretta è “ci si dimentica le cose”. La costruzione, scorretta, *”ci si dimenticano le cose” è attratta dal già visto “si dimenticano le cose”, ma anche da espressioni del tutto diverse, ma apparentemente identiche, come “e poi ci si mettono anche gli imbecilli del caffè a ridere” (Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, 1960), in cui gli imbecilli non è il complemento oggetto, ma il soggetto del verbo pronominale mettersi e ci è un pronome che possiamo parafrasare come ‘in questa situazione’ (sulla funzione avverbiale del pronome ci rimando a questo articolo di DICO, e soprattutto alla risposta del prof. Rossi al commento di un utente, che si trova in coda all’articolo). Per completezza, va detto che mettercisi può anche essere considerato un verbo procomplementare, ovvero un verbo nel quale l’appendice pronominale (qui -cisi) non ha un significato autonomo, ma conferisce al verbo un nuovo significato: mettere ‘introdurre un oggetto dentro un altro’ / mettercisi ‘darsi a una attività’. Maggiori informazioni sui verbi procomplementari sono fornite in altre risposte presenti nell’archivio di DICO (si trovano inserendo nella maschera di ricerca la parola chiave procomplementare).
La ricerca nel web attraverso Google rivela che le occorrenze di *”ci si dimenticano le cose” sono più numerose di quelle di *”ci si dimentica le cose”: questo fatto indica che i parlanti sono inclini ad accettare la forma scorretta e addirittura a preferirla. Aggiungo che, in letteratura, è attestato l’accordo del verbo impersonale con il complemento oggetto per la costruzione impersonale del tipo noi si va; Luca Serianni, nella sua grammatica (Italiano, Garzanti, 2000), riporta questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Ora queste ragazze andavano alla messa e noi si volevano accompagnare”. L’attrazione esercitata dai costrutti passivanti su quelli impersonali è, quindi, forte, tanto da far passare inosservata la scorrettezza di *”ci si dimenticano le cose”. Ritengo, comunque, che si possa ancora considerarla scorretta, e che si debba scoraggiarne l’uso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale forme sono corrette?

1. Nonostante i nostri atteggiamenti da onnipotenti non potremmo / potremo mai fare a meno degli altri organismi del mondo vegetale e animale.

2. Dedichiamoli pure le attenzioni che meritano; magari come quelle che eventualmente destineremmo / destineremo a nobili personaggi come il Marchesino Eufemio.

3. Se ne sono andati minacciando che dopo questo attacco ne sarebbero seguiti / seguiranno altri.

4. È facile capire che non avremo / avremmo mai la fortuna di vivere realmente questa utopia.

5. Una situazione che farebbe sorgere una domanda legittima: “Chi difenderebbe / difenderà i diritti di coloro che, giustamente, non accetterebbero mai un pregiudicato alla guida di un governo?”

 

RISPOSTA:

​La scelta tra indicativo futuro e condizionale presente nei suoi esempi è una questione non di correttezza, ma di scelta espressiva. Dipende, cioè, da come si vuole rappresentare l’evento, come un fatto che avverrà in futuro, o come la conseguenza di una condizione implicita (tranne che nella frase 3, che discuterò alla fine). 
Nella frase 1, per l’appunto, se usiamo il futuro abbiamo una affermazione al futuro (non potremo mai fare a meno…); se, invece, usiamo potremmo esprimiamo una conseguenza, quindi lasciamo intendere che ci sia una condizione implicita: “Non potremmo mai fare a meno degli altri organismi (se anche ci provassimo)”. 
Nella frase 2, l’avverbio eventualmente suggerisce che l’atto del destinare sia condizionato, quindi favorisce il condizionale (eventualmente equivale a una protasi come “se volessimo” o “se dovessimo scegliere” o simili). Il futuro, però, non è escluso: rispetto al condizionale, pone il destinare come fattuale, certo (nella mente del parlante); eventualmente, del resto, può anche essere interpretato come ‘se vorremo’, o ‘se dovremo scegliere’ o simili. Attenzione, dedichiamoli non è corretto, perché il pronome enclitico li ha la funzione di complemento oggetto: dedichiamoli significa ‘dedichiamo queste persone’. Il senso ricercato, qui, è ‘dedichiamo a queste persone’, che si ottiene con il pronome enclitico gli, quindi dedichiamogli, come soluzione più informale (oggi largamente accettata anche nello scritto di media formalità), oppure con dedichiamo loro o dedichiamo a loro, come soluzione più formale. Si noti che dedichiamo loro è ambiguo, perché significa sia ‘dedichiamo queste persone’, sia ‘dedichiamo a queste persone’: è una piccola stranezza della lingua italiana, che, comunque, si risolve quasi sempre grazie al senso generale della frase.
La frase 4 risponde alla stessa logica della 1 e della 2: la scelta tra indicativo futuro e condizionale presente è legata al senso ricercato, un fatto futuro (non avremo mai la fortuna) o una conseguenza condizionata da un altro evento, implicito, che potrebbe accadere (non avremmo mai la fortuna). Va detto che, volendo usare il condizionale, la costruzione con non avremmo mai la fortuna sarebbe un po’ insolita (ma non scorretta): comunemente le si preferirebbe non potremmo mai avere la fortuna, proprio come nella frase 1.
La frase 6 è analoga alle altre.
La frase 3 presenta una situazione diversa, perché contiene il condizionale (che non a caso qui è passato, non presente) nella funzione di indicatore di futuro nel passato, non di conseguenza di una condizione. In questo caso, la scelta deve dipendere dalla consecutio temporum: il verbo reggente la proposizione in questione è minacciando, a sua volta dipendente da se ne sono andati, che è passato. Per esprimere un evento futuro rispetto a un altro evento passato si usa proprio il condizionale passato: la scelta più regolare è, pertanto, sarebbero seguiti. Il futuro seguiranno non può dirsi scorretto: può essere considerato legittimo se lo mettiamo in relazione non con se ne sono andati, ma con dopo questo attacco, equivalente a in futuro. Una soluzione come questa potrebbe essere giudicata più trascurata, meno precisa, rispetto a quella del condizionale passato, ma potrebbe anche dipendere da una scelta espressiva consapevole, diretta a rappresentare la realtà in modo più vivido.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Porto alla vostra attenzione il seguente brano:

“Mettiamo che il medico voglia approfondire l’origine dei tuoi disturbi. Tra uno o due mesi potrebbe suggerirti un semplice prelievo venoso per controllare i tuoi valori; e se, nel frattempo, fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, potrebbe prescriverti un esame diagnostico più invasivo”.
Apprezzerei la vostra opinione relativamente alla validità di tre aspetti:
1. Il punto e virgola prima della congiunzione e;
2. L’uso del congiuntivo trapassato (fosse maturata), anziché del congiuntivo imperfetto, nella protasi, per introdurre un’ipotesi di cui non si ha contezza al momento dell’enunciazione;
3. L’accordo del sostantivo plurale mesi con l’aggettivo numerale due nonostante il precedente uno avrebbe richiesto il singolare. In questo caso sarebbe stato maggiormente formale ripetere il sostantivo (“Tra un mese o due mesi…”)?

 

RISPOSTA:

​Il punto e virgola è corretto: separa, all’interno di un enunciato complesso, due unità informative, la seconda delle quali è ulteriormente divisa in più unità informative, ben separate da virgole. 
Quello che non convince, piuttosto è il connettivo e dopo il punto e virgola, che introduce quella che si rivela essere un’alternativa. Propongo questa correzione: “… i tuoi valori; oppure, se nel frattempo fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, …”.
Il congiuntivo trapassato è ugualmente corretto: indica che il parlante giudichi l’evento improbabile. Vista la delicatezza dell’argomento, si tratta di una sfumatura fortemente indotta dalle convenzioni della cortesia, per sottolineare che l’ipotesi peggiore è anche quella più remota. Remota, ma sempre possibile, come rivela l’apodosi al condizionale presente (potrebbe prescriverti).
L’accordo di mesi con uno o due, infine, segue la regola dell’accordo al plurale tra referenti di generi diversi e una proforma che li raggruppa. Si pensi a “Ieri ho incontrato i miei amici Laura, Giulia e Andrea”. Tale regola è largamente accettata, anche in contesti formali, perché evita ridondanze come un mese o due mesi, o le mie amiche Laura e Giulia e il mio amico Andrea. Rimane, però, possibile, e tutto sommato più preciso (quindi anche più formale), fare tale distinzione, se il contesto lo richiede.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi viene in mente un problema ricorrente nelle tesi (e non solo) e cioè l’uso di “ne” pronome (col valore di complemento di specificazione, di argomento, partitivo etc.). Soprattutto l’uso pleonastico (per es.: “di questo ne abbiamo già parlato”; “di gelati ne ho mangiati due”; “non ne abbiamo bisogno del tuo aiuto” e simili) è spesso incontrollato, proprio perché viene usato abitualmente in riferimento a elementi della frase già espressi: appesantisce il dettato e credo che nella lingua scritta non debba essere usato.

 

RISPOSTA:

È vero: nei casi come quelli indicati nel quesito, il ne va assolutamente evitato, nel registro formale, in quanto pleonastico. Si tratta, tecnicamente, di casi di dislocazione, dei quali DICO si è già occupato qui.

Come detto in quella sede, tuttavia, non tutti i casi di dislocazione sono condannabili, sia perché alcuni di essi sono ormai perfettamente grammaticalizzati (“infischiarsene di qualcosa” ecc.), sia perché a volte sono un prezioso strumento pragmatico per agevolare la ripartizione del discorso in informazione data (o tema) e informazione nuova (o rema). Vedi, al riguardo, anche questo intervento.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

“Poter dormire accanto a te è una delle cose più belle che la vita poteva regalarmi”. In questa frase é corretto utilizzare la forma poteva, si deve usare la forma potesse, o sono corrette entrambe? 

 

RISPOSTA:

L’indicativo non è scorretto, ma è più informale del congiuntivo, che è la variante standard. In un contesto intimo, pertanto, è appropriato. Nell’archivio di DICO potrà trovare molte altre risposte intorno all’imperfetto e all’alternanza tra indicativo e congiuntivo (per esempio questa).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Tra le frasi sotto riportare quali sono considerabili valide?
1. Prima dei cani, lei si occupava di cavalli.
2. Prima che i cani, lei si occupava di cavalli.
3. Prima che di cani, lei si occupava di cavalli.
4. Oltre ai cani, lei si occupa (anche) di cavalli.
5. Oltre i cani, lei si occupava (anche) di cavalli. 
6. Oltre che (oltreché) di cani, lei si occupa di cavalli.

 

RISPOSTA:

​Le due varianti sostanzialmente corrette, ma non perfette, sono la 3 e la 6, perché in entrambe la proposizione subordinata con il verbo sottinteso (“Prima che di cani” e “Oltre che / oltreché di cani”) mantiene quasi la stessa costruzione della reggente. Non sono perfette perché la forma del verbo sottintesa non è identica a quella contenuta nella principale (“Prima che si occupasse di cani, lei si occupava di cavalli”, “Oltre che / oltreché occuparsi di cani, lei si occupa di cavalli”), quindi non potrebbe essere sottintesa. Preferibile, quindi, esplicitare il verbo anche nelle subordinate. Nel parlato e nello scritto informale e di media formalità, comunque, costruzioni del genere sono molto comuni e pienamente accettabili: il verbo sottinteso, infatti, è facilmente inferibile e non c’è possibilità di fraintendimento sul senso della frase.
Possibili anche “Prima di occuparsi di… lei si occupava di…” e tutte le varianti qui descritte con la sostituzione, nella reggente e nella subordinata, di dei a di (con il cambiamento semantico che consegue all’introduzione dell’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli online è una parola italiana? Policy è una parola italiana? loginwebmasterinternational? Siccome sono tutte presenti in un sito che si vanta di conoscere l’italiano, (addirittura affiliato ad una università) anzi addirittura a suggerire le migliori espressioni da usare in tale lingua, io penso che dovrebbe cominiciare a suggersi una buona lettura di un vocabolario e presentare un sito corretto.

 

RISPOSTA:

Attendevamo una domanda come la sua, dal momento che molti parlanti e scriventi si sentono disturbati dall’eccesso di parole inglesi nella lingua italiana. DICO ha già preso posizioni al riguardo, come lei sicuramente già saprà: infatti, in diverse sezioni del nostro sito abbiamo suggerito, qualora possibile, di evitare l’eccesso di forestierismi, specialmente quando termini italiani equivalenti sono consolidati e a portata di mano.
Ciò premesso, come dice il proverbio, “il troppo stroppia”, le crociate non si addicono alla lingua, né alla convivenza civile, e il tono polemico non aiuta la discussione, né la divulgazione, né l’approfondimento scientifico.
In primo luogo, DICO non ha l’obiettivo di “suggerire le migliori espressioni da usare in” italiano, come scrive lei. Anzi, il nostro obiettivo è proprio quello di mostrare la duttilità di qualunque lingua storico-naturale. Ci prefiggiamo, semmai, lo scopo di mostrare la varietà delle scelte possibili. Piuttosto che puntare il dito, pensiamo sia utile mettere a disposizione gli strumenti possibili per arrivare da soli a un uso consapevole della lingua.
In secondo luogo, gli esempi di anglicismi da lei addotti (onlineloginwebmaster ecc.) sono perlopiù tecnicismi informatici, di fatto imposti dai sistemi in uso in qualunque sito internet. Sostituirli con equivalenti italiani, qualora fosse possibile, genererebbe probabilmente un notevole fraintendimento tra gli utenti, che ormai se leggessero parola d’ordine o parola di passo, faccio per dire, in luogo di password, si sentirebbero di colpo catapultati in ambiente militare o massonico, piuttosto che in un sito di infrarete (già che ci siamo, perché non sostituire Internet con infrarete?).
Il buon uso della lingua passa, sicuramente, anche per le scelte lessicali, ha ragione lei: ma non saranno certo pochi anglicismi informatici a intaccarne l’integrità. Ammesso poi che l’integrità sia un valore, nell’uso linguistico. Se così fosse, che ne direbbe di tornare a parlare latino?
Infine, la inviterei a riflettere su altre violazioni della norma linguistica, come per esempio quella sintattica da lei commessa, nella sua elettrolettera (= e-mail), allorché ci scrive: “ho alcuni dubbi sulla lingua italiana che mi auguro possiate aiutarmi a risolverli”. Quel li pleonastico, ammissibile in una conversazione informale ma non certo in una lettera formale di chi si erge a giudice del buon uso dell’italiano, è il tipico esempio di caduta di controllo nella progettazione del periodo. Per saperne di più al riguardo, potrebbe andare a guardare, questo intervento in DICO, e anche la domanda  in questo quesito dell’Archivio.
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È routine, causa fretta, dimenticarmi le monete nell’auto. Stamane mi viene offerto un caffè e declino in quanto provvisto di monete: “Grazie. Ho arraffato le monete dall’auto poco fa. Se non le avevo te lo chiedevo io…”. Un collega mi riprende: ”Perché usi l’imperfetto? Avresti dovuto dire: Se non le avessi avute allora te lo chiederei”. Mi è rimasto il dubbio. Si possono usare i due verbi consecutivi in tempo imperfetto? L’azione è abituale.

 

RISPOSTA:

Si può usare senza dubbio l’imperfetto indicativo nel periodo ipotetico dell’irrealtà, o misto, come nel suo esempio. È un uso da sempre attestato in italiano, anche in letteratura (numerosissimi gli esempi settecenteschi, tra l’altro, anche in poesia), che i grammatici chiamano indicativo irreale. Sicuramente, si tratta di una forma più adatta allo stile informale e colloquiale che non a quello di elevata formalità, che continua a preferire il congiuntivo. Ma in una conversazione tra amici è più che appropriato!
Tuttavia, la giustificazione dell’imperfetto non risiede tanto nell’abitualità dell’azione, sibbene nella sua ipoteticità. L’imperfetto indicativo, infatti, oltre a valori temporali (passato) e aspettuali (serve cioè a esprimere qualità dell’azione quali la continuatività, la ripetizione, l’abitualità ecc.), possiede anche valori modali epistemici, cioè serve a esprimere un certo margine di dubbio, di ipotesi, di probabilità dell’azione. È proprio da questo punto di vista che viene usato frequentemente in frasi come quella da lei sottopostaci.
Fabio Rossi

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QUESITO:

È più corretto dire a mare o al mare? Comunemente ho notato che si usa al mare quando si risiede in una città lontana da esso o ci si stabilisce in una casa strategicamente vicina, ma queste sfumature non possono avere senso, grammaticalmente. Altra questione annosa: la e negli anni (almeno oralmente) è un errore o solo una mia mortale antipatia?

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda le espressioni al mare e a mare, può leggere il quesito Al mare/a mare/in spiaggia/a spiaggia nell’archivio di DICO.
Sulla congiunzione e nelle date, immagino si riferisca a quella che unisce il mille iniziale alle cifre seguenti, ad es. in mille e novecentodue. Sia nel parlato che nello scritto, sono considerate accettabili, ed effettivamente usate, tanto le forme univerbate (ad es. millenovecentodue) quanto quelle con la congiunzione (che si scriveranno separate, appunto: mille e novecentodue).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi chiedo se i termini utilizzati ormai universalmente dai ragazzi italiani negli SMS o nelle chat (ad esempio xke in luogo di perché) possano essere ritenuti italiano o no. 

 

RISPOSTA:

Le abbreviazioni come quelle usate negli SMS non sono esattamente delle parole nuove, ma sono degli adattamenti di parole già presenti nel sistema della lingua ad un tipo di comunicazione molto veloce. Questi adattamenti sono utili quando il messaggio deve essere scritto in breve tempo e risparmiando spazio, come, appunto, negli SMS. Nella storia della comunicazione, più volte la lingua è stata sottoposta a simili adattamenti al mezzo, ad esempio nelle iscrizioni murarie latine (tanto per fare un esempio: “LEG AVG PR PR” significa ‘Legatus Augusti pro praetore’), nei telegrammi, nella stenografia. 
Simili usi devono, però, essere limitati – e questa è una regola generale che riguarda tutte le scelte linguistiche – ai contesti nei quali sono funzionali. Le abbreviazioni, cioè, sono accettabili (sebbene non obbligatorie: il gusto personale è sempre esercitabile) negli SMS e nelle chat, meno in altri tipi di messaggi, come le e-mail, per niente in scritti dalla struttura distesa (i compiti in classe di italiano, per esempio). E non è solamente il tipo di testo che ammette o esclude queste abbreviazioni, ma anche il livello di formalità atteso per la comunicazione in corso: un SMS ad un amico è diverso rispetto ad uno ad un professore, o ad un superiore con cui non si ha confidenza.
In conclusione, le abbreviazioni, come altre “licenze” diffuse negli SMS, sono paragonabili alla scrittura di getto, utile quando si compila la lista della spesa, ma inadatta a contesti di comunicazione mediamente formali o anche solamente non confidenziali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È meglio dire (o scrivere): “Un gruppo di persone è arrivato o sono arrivate? Quale è la differenza? Meglio considerare un gruppo come il soggetto oppure concordare by proximity e usare il plurale? Cambia in qualche modo il registro?

 

RISPOSTA:

Nello stile formale non c’è dubbio che la soluzione della concordanza con il sostantivo principale del sintagma (la cosiddetta testa) sia la soluzione più appropriata: “Un gruppo di persone è arrivato”. Va tuttavia ricordato che da sempre, in un registro un po’ più rilassato, l’italiano (come del resto già il latino) prevede anche la concordanza a senso, dunque con il senso di collettività espresso dall’intero sintagma: “sono arrivate un milione di persone”, e simili.
Dunque: verbo al singolare nello stile formale, singolare o plurale indifferentemente in quello meno formale.
Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

Perché in italiano esiste l’espressione “Mi sono tagliata i capelli”, quando in realtà l’azione è stata fatta da altri? In inglese esiste la costruzione “I had my hair cut”, cioè ho avuto qualcun altro che ha fatto l’azione per mio conto. In questo caso l’espressione mi farebbe pensare a un’azione subita, decisa dalla volontà di altri e dunque non piacevole. Perché?

 

RISPOSTA:

Nessuna lingua codifica tutte le relazioni e i concetti possibili, né tutte le lingue codificano le medesime relazioni allo stesso modo. Dunque, per es., per esprimere il forte coinvolgimento emotivo del parlante rispetto all’azione compiuta, riportata o subita, il greco antico (e molte altre lingue indoeuropee) aveva a disposizione la diatesi media dei verbi, che in latino, in italiano e nella gran parte delle lingue moderne si è persa.
Ciò premesso, in effetti l’italiano e l’inglese hanno due modi diversi di esprimere il concetto di “Mi sono tagliata i capelli” (e altri analoghi), che probabilmente il greco avrebbe espresso col medio e il latino col dativo etico (si veda la bella voce dativo etico nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, ormai gratuitamente online). L’inglese adotta qualcosa di molto simile al medio-passivo (tant’è vero che ricorre al participio passato con valore passivo).
In effetti quel mi è una sorta di dativo etico, o di benefattivo, che non indica certo né il complemento di termine né un pronome riflessivo (cioè non sono io che li ho tagliati a me stesso, ma me li ha tagliati il parrucchiere). In altre parole, quel mi sono ecc. indica un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione (anche in altri casi più o meno colloquiali si usa il mi: “Mi sono mangiato una pizza”, “Mi sono fatto due birre”, “Mi sono ricordato”, “Mi sono dimenticato” ecc.), o di chi riceve l’azione, ovvero, potremmo anche dire, del soggetto logico (“mi sono tagliato i capelli” = ‘mi hanno tagliato i capelli’), coinvolgimento che già nella tarda latinità poteva essere espresso dal caso dativo (da cui l’estensione del complemento di termine in italiano).
Come giustamente osserva lei, si può aggiungere che l’alternativa più formale non potrebbe essere “Mi hanno tagliato i capelli” (che implicherebbe un’azione contro la mia volontà, mentre, viceversa, la presenza del mi in questo caso indica proprio il mio coinvolgimento), ma, semmai, “Ho tagliato i capelli”. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, si perderebbe il coinvolgimento, per dir così, affettivo all’azione compiuta, o ricevuta.
Insomma, è questa una delle numerose situazioni nelle quali la lingua parlata, o quantomeno meno formale, sembra avere più risorse, rispetto allo scritto formale, per esprimere le più minute sfumature dell’animo.
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho notato che il 90% dei miei studenti abusa dell’aggettivo determinato, usato prevalentemente come pre-modificatore: determinate paroledeterminate personedeterminati momentideterminato gruppo etc. Ha chiaramente un valore indefinito e vago (leggi ‘inutile’) e non indica affatto il significato di ‘prestabilito, prefissato’. Non mi spiego la frequenza d’uso che ha dei valori incredibilmente alti negli elaborati in italiano dei miei studenti e mi chiedo cosa provochi questo (ab)uso.

 

RISPOSTA:

Di norma, gli aggettivi qualificativi assumono una funzione diversa se preposti o posposti al nome a cui si riferiscono: nel primo caso essi sono detti descrittivi e servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome; nel secondo caso sono detti restrittivi e indicano una qualità oggettiva posseduta dall’oggetto, tale da distinguere l’oggetto da altri simili. Così “Il verde prato in cui giocavo da bambino” comunica una partecipazione emotiva all’enunciato, assente in “Il prato verde in cui giocavo da bambino” (al netto del contenuto emotivo complessivo dell’enunciato). 
Alcuni aggettivi assumono, a seconda della posizione rispetto al nome, non solo una funzione, ma anche un significato diverso: “Un caro amico” / “Un amico caro”, “Una vera sorpresa” / “Una sorpresa vera”, “Un povero artigiano” / “Un artigiano povero”. All’interno di quest’ultima categoria, esiste un sottogruppo di aggettivi che, in posizione prenominale, perdono quasi del tutto il proprio significato e assumono la funzione di enfatizzare o intensificare l’oggetto designato dal nome: “Un forte mal di testa” / “Un mal di testa forte”, “Un alto commissario” / “Un commissario alto”, “Una discreta somma” / “Una somma discreta”. Tra questi ultimi facciamo rientrare certo e il sinonimo determinato. Preposti al nome, questi aggettivi sono desemantizzati (come osservato da lei), quindi non aggiungono alcuna qualità al nome, ma ne intensificano, soggettivamente, il valore. Possiamo assimilare l’uso di questi strumenti a quello, altrettanto diffuso, di avverbi del tutto desemantizzati come praticamenteovviamentedi fatto.
Fermo restando che questa funzione dell’aggettivo è codificata e accettata nello standard italiano, bisogna chiedersi come mai un uso che serve solamente a dare enfasi al discorso, senza aggiungere informazioni (e che, pertanto, deve essere limitato al parlato informale e a pochi altri contesti), sia tanto ricorrente nel parlato (e a volte anche nello scritto) dei giovani. È possibile che simili aggettivi funzionino come riempitivi di pause, cioè servano ad allungare l’enunciato in modo da dare il tempo all’emittente di pensare al segmento successivo. Accanto a questa necessità, si può individuare anche l’intento di dare maggior peso, pragmatico, alle parole, per compensare una insicurezza di fondo sul contenuto semantico delle stesse. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È notorio che con i verbi modali, accompagnati da essere avere, si debba utilizzare l’ausiliare che si concilia con l’infinito. Faccio un esempio: “Ho voluto mangiare da solo”. In effetti si dice ho mangiato. Ancora: “Sono dovuto partire improvvisamente”, in effetti si dice sono partito e non ho partito. Ci sono però alcuni casi in cui sorge qualche dubbio. Esempio: “Non ho voluto venire con voi”. In questo caso, secondo me, non ho voluto è accettabile in quanto denota meglio la mia ferma volonta di non venire. Certo, si può anche dire “Non sono voluto venire con voi”, e forse è più corretto, ma reputo non ho voluto quasi più efficace.

 

RISPOSTA:

​La scelta dell’ausiliare con i verbi modali è meno rigida di quanto lei creda. Se non ci sono dubbi su avere con i verbi transitivi (nessun parlante nativo direbbe mai *sono voluto fare), con i verbi intransitivi l’oscillazione tra essere e avere è un fatto antico e ben radicato anche in letteratura. Ecco alcuni esempi di avere + modale + infinito di verbo intransitivo: 
 

“Come se i popoli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovuto andare a scuola d’Aristotile, coi cui princìpi ne hanno amendue ragionato!” (Giovan Battista Vico, Principi di scienza nuova, 1744);

“Guarda dal parapetto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco – diceva Giovanni tabaccone – non avrebbe potuto cadere in terra” (Arrigo Boito, Il demonio muto, 1883); 

“Egli avrebbe voluto alzarsi e camminare nel gabinetto, per vincere l’emozione che gli cresceva nel cuore, ma si accorgeva che la fanciulla non aveva ancora finito” (Alfredo Oriani, La disfatta, 1896).

“Ma avrebbero potuto andare avanti e indietro senza timore di svegliarli, scavalcandoli tutti, tanto dormivano in pace” (Elio Vittorini, Le donne di Messina, 1949).

La ragione dell’oscillazione non è di natura espressiva, come sospetta lei per il suo esempio, ma dipende dalla costruzione sintagmatica verbo modale + infinito, che è molto solidale, tanto che il modale può essere percepito come autonomo rispetto all’infinito, ma anche come un tutt’uno con l’infinito. Nel primo caso, l’ausiliare è selezionato dal modale, che formalmente è il verbo con il quale l’ausiliare entra in composizione (ho dovuto | andare); nel secondo caso, l’ausiliare è selezionato dal verbo all’infinito (sono dovuto andare). Questo spiega anche perché non ci sia la stessa oscillazione con i verbi transitivi: ho dovuto | fare = ho dovuto fare
Attenzione: il verbo essere preferisce l’ausiliare avere a essere. L’autorevolissima Grammatica italiana di Luca Serianni (UTET, 1988), anzi, la considera l’unica scelta corretta. Io non sarei così drastico, e mi limiterei a considerare essere + modale + essere una scelta trascurata, ma pur sempre ammissibile in contesti informali (non credo che molti parlanti sarebbero disturbati da frasi come “Nonostante la malattia, lo zio è voluto essere presente alla laurea della nipote”). In ogni caso, bisogna rilevare che l’uso vivo propende decisamente per avere + modale + essere: la ricerca di sarebbe potuto essere nell’archivio di Repubblica per l’anno 2019 restituisce appena 15 attestazioni, a fronte di 99 per avrebbe potuto essere
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Perot, un uomo che si era fatto da sé e dalla povertà era assurto a diventare uno degli uomini più ricchi d’America…”. È corretto l’uso del verbo assurgere che ho trovato nella precedente citazione tratta da un articolo giornalistico? Normalmente i vocabolari forniscono esempi in cui il verbo è seguito solo ed esclusivamente da sostantivi: “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo” ecc… Può il verbo assurgere essere seguito da un altro verbo?

 

RISPOSTA:

Il verbo assurgere ‘elevarsi a un ruolo, a una funzione’ è effettivamente seguito solitamente dal nome che definisce il ruolo o la funzione assunta. La reggenza proposizionale, però, non è esclusa: l’indagine on line rivela più di 10. 000 attestazioni del solo “assurgere a diventare” (qualcuna in meno di “assurge a diventare”). Sono numeri molto alti, se si considera che il verbo non è di largo uso. Tale costruzione si trova in contesti di formalità media e medio-bassa (molti esempi vengono da giornali locali, blog di vario genere e siti informativi anche specialistici) ; se ne trova una traccia trascurabile, invece, in pubblicazioni monografiche (almeno tra quelle censite da Google Books).

La costruzione deriva probabilmente dalla forte restrizione operata dal verbo nei confronti dei possibili collocati; i sintagmi nominali che seguono tipicamente (quasi esclusivamente) assurgere a, cioè, sono pochi: le combinazioni possibili si limitano a “assurgere a modello”, “assurgere a simbolo”, “assurgere al ruolo di, alla funzione di, alla carica di” e “assurgere al trono”. Anzi, se facessimo una ricerca sull’uso reale, potremmo scoprire che l’elenco è anche più limitato; la restrizione operata da questo verbo, quindi, è probabilmente ancora più forte. In ogni caso, la costruzione “assurgere a uno degli uomini più ricchi d’America”, che sarebbe la variante nominale della frase del suo esempio, per quanto grammaticalmente corretta e preferibile da tutti i punti di vista, potrebbe suonare alle orecchie del parlante medio come non tipica, quindi potenzialmente malformata. Da qui la scelta di inserire un verbo copulativo a completamento; una scelta che non produce un errore sintattico, ma rende la frase meno felice perché in parte ridondante, visto che l’idea di diventare è già contenuta nel significato di assurgere.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Gli esempi sotto riportati sono intercambiabili, nonostante qualche sfumatura di significato tra l’uno e l’altro? E soprattutto sono validi?
Alle volte mi trovo alle prese con tali opzioni e sono indecisa su quale preferire per scrivere costruzioni sintatticamente inappuntabili.

Paolo era sostenuto dai punti di forza del suo lavoro, che…
1) esaltavano la sua indole
2) ne esaltavano l’indole
3) gli esaltavano l’indole.

Marco osservò attentamente Anna:
4) le vide i capelli arruffati
5) ne vide i capelli arruffati
6) vide i suoi capelli arruffati.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase, la soluzione migliore è la 1, che evita qualunque ambiguità, perché l’aggettivo possessivo rimanda con sicurezza a Paolo.
La 2 non è scorretta grammaticalmente, né è da scartare, ma è meno chiara, perché, sebbene il nome indole si adatti soprattutto a un referente umano, quindi a Paolo, il suo lavoro non può essere escluso comereferente (la frase, cioè, potrebbe significare che i punti di forza del suo lavoro esaltavano l’indole del suo lavoro) . Il pronome gli della terza soluzione è da scartare:equivale, infatti, ad a lui, quinditrasforma la frase in “esaltavano l’indole a lui”, inaccettabile. C’è da dire cheesempi del genere sono rinvenibili (ma non per questo devono essere riprodotti) in produzioni poco sorvegliate; derivano probabilmente dall’analogia con espressioni completabili tanto con il complemento di termine quanto con quello di specificazione, come”Gli strinse la mano” / “Ne strinse la mano” (e quindi anche “Strinse la sua mano”) , “Gli toccò la spalla” / “Ne toccò la spalla” (quindi anche “Toccò la sua spalla”) , “Gli allaccia le scarpe” / “Ne allaccia le scarpe” (quindi anche “Allaccia le sue scarpe”) e simili.
Nella seconda frase le soluzioni 5 e 6 sono corrette e non ambigue, quindi la scelta tra l’una e l’altra è una questione di stile. Volendo essere molto precisi, in realtà, le due varianti hanno una sfumatura di differenza sul piano informativo: la prima mette in evidenza il sintagma i capelli arruffati, come se Marco si concentrasse sui capelli di Anna, che erano arruffati; la seconda, invece, pone l’attenzione solo su arruffati, come se Marco notasse non i capelli in generale, ma il particolare dell’aspetto dei capelli.
La soluzione 4 è simile alla 3, con la differenza che vedere, come tutti i verbi di percezione,tollerala doppia costruzione con il complemento di termine o quello di specificazione (succede lo stesso per sentire, come nella tipica frase”Il dottore sente il polso al / del paziente”, o per odorare: “Amo odorare i capelli alla / della mia fidanzata”) . Come si vede dagli esempi, comunque, il complemento di termine retto daiverbi di percezione è una soluzione di registro basso. L’unico verbo semanticamente affine a questo gruppo che ammette entrambe le costruzioni e per il quale il complemento di termine si può considerare d’uso medio è toccare (e sinonimi, sfiorare, colpire, premere…) .Non a caso,esempi di “Le vede i capelli” on line sono quasi assenti (nessuna attestazione, invece, risulta per “le vide i capelli”) , mentre “Le tocca i capelli” conta migliaia di attestazioni.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Navigando in internet mi sono imbattuto in teorizzazioni di natura sintattica che intendo sottoporre al vostro vaglio e in merito alle quali gradirei ricevere la vostra autorevole opinione. 
A) Si sostiene che il se ipotetico, a differenza di qualoranel caso (che) e, in parte, casomai (che), non accetti né il congiuntivo presente né il congiuntivo passato.
B) Si sostiene inoltre che il se ipotetico accetti anche i tempi del modo condizionale, purché sottintenda “è vero che” o espressioni di senso analogo. 
Per effetto del punto A, le seguenti costruzioni determinerebbero un errore: 
1. Ti invito a chiamarmi, se tua madre te ne dia la possibilità.
2. Parteciperò / partecipo all’incontro se la presenza dell’oratore sia stata confermata.
Per quanto inusuali e, forse, da evitare, non mi sentirei di bollare i congiuntivi dei due esempi come scorretti. 
Per effetto del punto B, le seguenti costruzioni sarebbero invece valide: 
3. Se (è vero che) potresti aver ragione nel protestare, dovresti innanzitutto farti un esame di coscienza.
4. Se (è vero che) avrei agito come te al posto tuo, allora è probabile che siamo più simili di quanto crediamo.

 

RISPOSTA:

Concordo pienamente con lei riguardo alla legittimità delle frasi 1. e 2. Non bisogna confondere la rarità con il divieto. Il congiuntivo presente e passato sono evitati nella protasi del periodo ipotetico perché esprimerebbero un’ipotesi reale, nel presente e nel passato (mentre l’imperfetto esprime la possibilità e il trapassato l’irrealtà). Siccome la realtà è associata all’indicativo, i due tempi del congiuntivo vengono sempre sostituiti dai corrispondenti tempi dell’indicativo. Rimane, però, possibile ricorrervi; con cautela e preferibilmente in contesti molto formali: sono, infatti, talmente insoliti che farebbero storcere il naso a molti parlanti.
Anche le frasi 3. e 4. sono ben formale. In questi casi il se regge “è vero”, “tu sostieni”, “ammettessimo” o simili: la protasi, cioè, è “Se è vero”, “Se tu sostieni”, “Se ammettessimo” ecc. Il condizionale, quindi, non è introdotto da se, ma è inserito nella proposizione, soggettiva o oggettiva (a seconda di come è costruita la protasi), retta dalla protasi così formata.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In molte opere narrative ho rilevato l’impiego di aggettivi e avverbi (richiamando alla memoria ricordi scolastici, azzarderei a definirli deittici) che i vari scriventi hanno inserito in contesti passati anziché contemporanei. Gradirei ricevere la vostra autorevole posizione al riguardo, nonché eventuali suggerimenti per affinare le seguenti costruzioni:

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in questa occasione non proferì parola (si sarebbe potuto sostituire questa con quella?).
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e adesso lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma ora notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta un forte malessere (sostituire l’avverbio con in quella occasione o quella volta non sarebbe stato preferibile?).
5) In Michele scintillò la rabbia che, oggi, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto finora (avrei scritto fino ad allora o fino a quel momento).

 

RISPOSTA:

​Le espressioni che lei ha correttamente definito deittiche servono a indicare una persona, un luogo o un momento presente nella realtà extralinguistica. Tra le più comuni riconosciamo i pronomi personali e i dimostrativi, gli avverbi di tempo e di luogo; anche i tempi verbali, però, possono svolgere questa funzione: se dico, ad esempio, “Sto lavorando”, è chiaro che l’azione sta avvenendo adesso. I deittici hanno la caratteristica di mutare di senso al mutare della situazione extralinguistica. L’enunciato “Sto lavorando” pronunciato da Luca il 19 maggio 2019 alle 20:30 a casa ha un significato diverso da “Sto lavorando” pronunciato da Maria il 20 maggio alle 9:00 in ufficio. I due enunciati, cioè, indicano (deissi significa proprio ‘indicazione’) due situazioni completamente diverse.
Vista la loro relazione con la situazione extralinguistica, i deittici sbagliati provocherebbero un senso di straniamento nell’interlocutore e potrebbero inficiare la comprensione. Ad esempio, se un amico chiedesse a Luca: “Che stai facendo?” e lui rispondesse “Ieri ha lavorato”, l’amico rimarrebbe molto perplesso (a meno che non conoscesse dettagli della vita di Luca che spiegassero una simile risposta).
In realtà, è rarissimo che un parlante nativo abbia dubbi su quale deittico usare per descrivere la situazione a cui sta pensando: è una competenza che si acquisisce fin da piccolissimi.
I problemi possono insorgere quando il parlante deve proiettarsi in un centro deittico diverso da io-qui-ora. Quando, cioè, deve parlare non di sé adesso, ma di sé nel passato, o di altri nel presente, nel passato o nel futuro, il centro deittico, il centro da cui si dipartono le coordinate personali e spazio-temporali, lo può indurre in errore. L’errore consiste quasi sempre (è così in tutti i suoi esempi) nella confusione tra quel centro deittico altro con quello relativo a io-qui-ora; ne deriva la sovrapposizione della situazione contingente, quella in cui l’emittente sta interloquendo con il ricevente, con quella riportata: quest’ultima viene riportata a qui-ora e a volte anche a io (si pensi a casi tipici della lingua poco sorvegliata come “Io sono una persona che sono sempre generoso”, ovviamente detto da un uomo), e viene, pertanto, descritta con i deittici propri della contingenza. Alcuni casi sono talmente comuni che possono essere considerati normali, almeno nel parlato poco sorvegliato e nello scritto dialogico; penso a stavolta della sua frase 4, a ora in una frase come questa: “Aveva provato di tutto e ora era rimasto senza alternative” (ora nella sua frase 3, invece, mi sembra più difficile da accettare, probabilmente perché accompagna un passato remoto, non un imperfetto), e casi simili.
Bisogna anche considerare che lo slittamento di piani indessicali può essere dovuto non alla confusione dei centri deittici ma al preciso intento, di natura letteraria, di sovrapporli. Si consideri un esempio come questo (dagli Indifferenti ​di Alberto Moravia): “il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco: egli era dovunque così: sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa”. L’aggettivo dimostrativo questa è ovviamente fuori luogo in un racconto al passato, e andrebbe sostituito con quella. L’autore, però, non si è confuso: ha volutamente giocato con le possibilità della lingua per catapultare per un attimo il personaggio nell’io-qui-ora del lettore, che se lo vede quasi davanti, per poi riportarlo al suo centro deittico naturale.
Visto che i deittici fuori luogo dei suoi esempi potrebbero essere voluti dagli autori, suggerire correzioni potrebbe essere un eccesso di zelo. In ogni caso, volendo rispettare le regole standard della grammatica, ecco come si potrebbero emendare le frasi (in alcuni casi non faccio che applicare i suoi suggerimenti, che sono corretti):

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in quella occasione non proferì parola.
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e allora lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma allora / in quel momento notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta / quella volta un forte malessere.
5) In Michele scintillò la rabbia che, quella volta / in quella occasione, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto fino ad allora / fino a quel momento.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Pronome, Registri, Verbo
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QUESITO:

Le costruzioni implicite con l’infinito presente possono sostituire anche le coniugazioni al futuro delle costruzioni esplicite o sono invece contestualizzabili solo nella contemporaneità?
“Credo di venire” corrisponde all’agrammaticale “credo che io venga” o a “credo che verrò”?
Quindi: le due costruzioni sotto riportate sono equivalenti e ugualmente accettabili?
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto”;
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”.

RISPOSTA:

I modi indefiniti hanno il “difetto” di avere solamente due tempi, presente e passato. Non è un caso che l’italiano abbia operato questa semplificazione rispetto al latino (ricordiamo, infatti, che in latino il participio e l’infinito avevano anche il futuro; il gerundio, invece, era molto diverso da quello italiano, quindi non si può confrontare). Il futuro è il tempo meno funzionale tra quelli codificati, perché può essere facilmente assorbito dal presente. Anche tra i modi finiti, del resto, condizionale, congiuntivo e imperativo non hanno il futuro (l’imperativo lo aveva in latino, sebbene fosse raramente usato). Il futuro, pertanto, è appannaggio del solo indicativo; e anche nell’indicativo notiamo nell’italiano contemporaneo la tendenza del presente a svolgere le funzioni del futuro, come in questo esempio letterario di discorso diretto: “- Alle tre ho un appuntamento, ma appena finito prendo la macchina e vengo. -” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
La perdita del tempo futuro non danneggia affatto la comunicazione (altrimenti i parlanti non la avrebbero permessa): il ricevente è sempre in grado di riportare l’azione al presente o al futuro grazie alle informazioni cotestuali o alla sua enciclopedia mentale (ovvero, semplificando, al buonsenso). Di conseguenza, “Credo di venire” può significare tanto ‘Credo che io venga adesso’ quanto ‘Credo che verrò più tardi’. Sottolineo che, sebbene in questo caso la costruzione implicita sia fortemente richiesta, le varianti esplicite, al congiuntivo presente e all’indicativo futuro, non sono agrammaticali (cioè non contemplate dal sistema della lingua): la prima è al limite del substandard, la seconda è decisamente accettabile in contesti di media formalità parlata, proprio perché giustificabile per la volontà dell’emittente di sottolineare la temporalità dell’azione. Decisamente substandard, ma comunque non agrammaticale, è “Credo che vengo”, che emerge in contesti molto trascurati, come questo (dalla pagina Instagram del cantante Nek): “Nek credo che vengo al tuo concerto a Napoli Io saro’ quella che urlera’ a pazza”.
La variante esplicita al futuro ha anche il vantaggio di esprimere la persona del soggetto, utile se l’emittente voglia enfatizzarla; si pensi alla differenza tra “Preciso che non sono stato ancora pagato”, o ancora più chiaramente “Preciso che io non sono stato ancora pagato”, e “Preciso di non essere stato ancora pagato”.
Questo stesso dettaglio può rendere preferibile “Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto” rispetto a “Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”. D’altro canto, però, nella variante con il condizionale passato c’è una sgradevole ripetizione di che, a fronte di uno scarsissimo guadagno semantico. Si dovrebbe, pertanto, ma è una questione di stile, preferire comunque la variante implicita.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

Nelle proposizioni completive (come la soggettiva retta da succede nel suo esempio), il congiuntivo è preferito in contesti di media formalità (richiesto in contesti di alta formalità), specie nello scritto. Le faccio notare che il suo dubbio non ha toccato abbandonino, nella seconda soggettiva, istintivamente coniugato al congiuntivo. Per maggiori dettagli, le consiglio di interrogare l’archivio di DICO inserendo la parola chiave congiuntivo nel motore di ricerca interno).
Eviterei di usare cose per intendere ‘persone’: difficilmente il lettore potrebbe intendere tale assimilazione; meglio sarebbe: “Traslocando succede che ci si portino dietro alcune cose e persone, e se ne abbandonino altre”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Apprezzerei la vostra consulenza per ricevere innanzitutto eventuale conferma della correttezza dei seguenti enunciati:

1. Ringrazio il cielo che mio figlio abbia/ha un lavoro.
2. Il problema è che un Paese come il nostro non abbia/ha una vera politica di incentivazione culturale.
3. Essi hanno commentato che si tratti/tratta di un errore.

Come avrete certamente notato, per ognuno dei tre esempi ho inserito sia il congiuntivo sia l’indicativo, poiché – confrontando vari dizionari e interrogando siti internet ad hoc – ho riscontrato entrambi i modi.  Ho notato che, al di fuori di DICO, sono molti gli addetti ai lavori (o sedicenti tali) che, a proposito dell’alternanza dei modi congiuntivo e indicativo sostengono che i cosiddetti verba dicendi reggano solo il secondo dei due; mi sono inoltre imbattuto in presunte regole, per me alquanto bizzarre, per le quali certe costruzioni verbali (come, tanto per citarne una, “essere convinto che”) coniugate al passato o alla terza persona (sia plurale sia singolare) possono reggere il congiuntivo “perché indicano una certezza soggettiva altrui”, ma in caso di azioni presenti o con coniugazioni alla prima persona, l’indicativo sarebbe obbligatorio “perché se si è certi di ciò che si dice non si può scegliere il congiuntivo” (scrivere “Sono convinto che X abbia disputato una bella prestazione” sarebbe quindi un errore imperdonabile). Se non vado errato, negli articoli reperibili all’interno del vostro archivio e accomunati dalla chiave completive si parla invece di una scelta tra i due modi che muove dagli intenti di registro e quindi comunicativi: formale = congiuntivo; informale = indicativo. Se ho ben assimilato le lezioni e prescindendo dall’adeguatezza contestuale, giudico valide in assoluto costruzioni quali

Sostengo che abbiano parlato troppo.
Dico che possa ancora farcela.
Non posso ignorare che egli abbia sbagliato.
Mi è giunta voce che lei non si sia presentata.
Si accorse che i suoi amici non fossero vicino a lei.
Sono giunto alla conclusione che si possa partire.
La legge stabilisce che sia garantita la libertà d’espressione.
 

malgrado le varianti all’indicativo siano di norma ben tollerate e certi risultati con il congiuntivo siano un po’ stridenti.
Domanda finale, di forse difficile risoluzione: se la grammatica è una, come si spiega questa varietà di interpretazioni di certe sue disposizioni?

 

RISPOSTA:

La funzione primaria del congiuntivo è di modo della subordinazione (non esclusivo: l’indicativo ha sempre avuto la funzione di modo di alcune subordinate, come le relative, le causali, le temporali). Esso non ha, di base, una precisa sfumatura semantica. Nel tempo, però, si è colorito di una sfumatura di eventualità per via dell’associazione con la proposizione ipotetica, con la concessiva e simili. È divenuto, per questo, il modo del dubbio, dell’eventualità, della incertezza. Nello stesso tempo, l’indicativo ha allargato la sua funzionalità a quasi tutte le subordinate, entrando in concorrenza con il congiuntivo. Di fronte all’avanzata dell’indicativo nella subordinazione, per giustificare l’esistenza del congiuntivo i parlanti hanno sfruttato la sua sfumatura semantica, che gli ha, quindi, donato una nuova ragion d’essere. Quando noi diciamo che il congiuntivo sia più formale dell’indicativo ci ricolleghiamo alla natura propria del congiuntivo, quella di modo della subordinazione: nelle proposizioni che ammettono entrambi i modi, ad esempio le completive, il congiuntivo è la scelta più in linea con la tradizione; l’indicativo è quella più innovativa. Si badi che non scoraggiamo l’uso dell’indicativo nelle completive: ne rileviamo, invece, la reale differenza rispetto alla scelta del congiuntivo. Ho più volte sottolineato che in un contesto parlato familiare è proprio il congiuntivo a rischiare di essere “stonato”.
Chi sostiene che il congiuntivo indichi incertezza, in contrapposizione alla fattualità dell’indicativo, non sbaglia completamente, ma si concentra sull’aspetto secondario dell’opposizione tra questi due modi. In ragione di ciò, arriva a conclusioni impressionistiche, come la convinzione, molto diffusa, che “Credo che tu sia…” indichi incertezza, mentre “Credo che sei…” indichi certezza. Bisogna comunque ammettere che la sfumatura semantica del congiuntivo sia percepita sempre più distintamente dai parlanti, mentre sempre meno riconosciuta sia la funzione sintattica di questo modo; è possibile che questa situazione porti in futuro al rafforzamento dell’aspetto secondario, e all’indebolimento di quello primario, così che si instauri una contrapposizione tra indicativo e congiuntivo totalmente su base semantica.
Attualmente, è ancora possibile difendere l’opposizione sintattica, per cui tutte le sue frasi sono ben formate, nonché più formali (più “fedeli alla funzione primaria del congiuntivo”) rispetto alle, possibili, varianti con l’indicativo.
Come si vede dalla riflessione qui svolta, le diverse interpretazioni dei fenomeni grammaticali derivano dalla storicità della lingua, che muta nel tempo, nonché dalla libertà che i parlanti hanno di spiegare a sé e agli altri come funziona la loro lingua, arrivando a conclusioni a volte impressionistiche ma che, se accolte dalla maggioranza, possono trasformarsi in regole.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di €…… Incluse le eventuali spese per motivi aggiunti.

2. È come se gli stessimo dicendo:”non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”

RISPOSTA:

Le frasi sono sintatticamente ben formate. Ho sostituito aggiunti con aggiuntivi e qualche altro dettaglio grafico. Per quanto riguarda € …, infine, la sequenza “ + importo” è di stampo burocratico, quindi adatta a comunicazioni istituzionali; in una comunicazione ufficiosa come quella qui considerata, è preferibile “importo + “, o anche “importo + euro“.
Ecco il risultato:

1. Proporrei di fargli direttamente un bonifico di … euro / €, incluse le eventuali spese per motivi aggiuntivi.

2. È come se gli stessimo dicendo: “Non fare più nulla perché siamo disposti ad aderire al ricorso”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio sull’interpretazione della locuzione “a seconda dei casi” nel seguente testo:

“Cerchiamo di essere particolarmente consapevoli della sensazione prodotta dal passaggio dell’aria attraverso il naso, dove la percepiamo con maggiore intensità. A seconda dei casi, potrà trattarsi del punto di primo contatto dell’aria con le narici, o un po’ più all’interno, o ancora più in alto, nel seno nasale”.

“A seconda dei casi” significa ‘a seconda delle persone’ oppure ‘a seconda del momento in cui avviene l’evento’?

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a) e 1b) sono corrette. L’indicativo accentua la fattualità, quindi la concretezza dell’evento; il condizionale lo esprime come possibile, ma maggiormente soggetto all’avverarsi della condizione implicitamente contenuta nel sintagma in tal caso.
Anche le tre varianti proposte in 2a) e 2b) sono tutte valide. La scelta di costruire l’apodosi di 2a) con il presente, effettivamente più marcata rispetto alle altre, veicola una sfumatura di attualità atemporale per l’evento del trovare, come se il parlante volesse sottolineare l’assolutezza della situazione, la sua validità a prescindere da qualsiasi imprevisto.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

​QUESITO:

Curiosando in rete mi sono imbattuta in una discussione circa le seguenti costruzioni:
1. Se non vieni perché non te la senti è un discorso; se invece vorresti venire ma ti senti in imbarazzo, sbagli.
2. Se hai rifiutato perché non ne hai bisogno, posso capire; se invece avresti voluto accettare ma qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo.
Gli utenti intervenuti si sono divisi tra sostenitori della conformità ai dettami sintattici e sostenitori del contrario. Voi che cosa ne pensate?

 

RISPOSTA:

Il condizionale in una proposizione introdotta dalla congiunzione se è sempre visto con sospetto, perché è un errore molto comune sostituirlo al congiuntivo imperfetto nella protasi del periodo ipotetico (*”Se vorresti potresti farlo” al posto del corretto “Se tu volessi potresti farlo”).
Nella prima frase da lei proposta, la difficoltà sta nel contrasto tra l’apparente violazione della regola appena esposta e la sensazione che il risultato “suoni bene”. E in effetti la frase è corretta, perché la regola non viene affatto violata. Per accordare la sensazione con la regola basta reintegrare un pezzo di frase che è stato sottinteso: “se, invece, vorresti venire ma non vieni perché ti senti in imbarazzo, sbagli”. La protasi che funge da ipotesi di sbagli non è, quindi, “se vorresti venire”, che sarebbe mal formata (*”Se vorresti venire sbagli”) e non rispecchierebbe il senso inteso dal parlante (lo sbaglio non è voler venire, ma, al contrario, non venire), bensì “se vorresti venire ma non vieni”, ovvero “se non vieni pur volendo venire” (che sarebbe la costruzione della frase più formale e adatta allo scritto), oppure “se non vieni anche se vorresti venire”. La costruzione coordinata con ma della protasi, insomma, nasconde una struttura semantica subordinativa con una concessiva.
Per la verità, anche senza reintegrare “se non vieni” il ragionamento vale lo stesso: “se ti senti in imbarazzo pur volendo venire / anche se vorresti venire”; bisogna, però, riconoscere che l’ipotesi è senz’altro “se non vieni”. Nella mente del parlante, cioè, il rapporto di ipotesi-conseguenza è questo: “Sbagli se non vieni”. Le altre informazioni, “ti senti in imbarazzo” e “vorresti venire”, hanno semanticamente un ruolo di sfondo rispetto al nucleo dell’enunciato.
I motivi per cui il parlante non dice chiaramente quello che pensa (“Sbagli se non vieni”) possono essere due; la variatio sintattica rispetto alla costruzione del primo pezzo della frase, oppure, più probabilmente, la cortesia: normalmente, infatti, quando comunichiamo costruiamo percorsi linguistici alternativi, più lunghi e indiretti, rispetto a quello che rispecchia più fedelmente il nostro pensiero, se quest’ultimo ci sembra troppo violento o invadente. Lo facciamo soprattutto quando dobbiamo ordinare qualcosa (invece di dire “Apri la finestra” diciamo “Potresti aprire le finestra?”); quando esprimiamo un’opinione non pacifica (invece di dire “La filatelia è un ottimo passatempo perché…” diciamo “La filatelia mi rilassa molto, mi aiuta a concentrarmi e mi fa scoprire tanti fatti storici”); quando, similmente, critichiamo qualcuno, come nel caso della frase in questione.
Possiamo applicare lo stesso ragionamento fatto per la prima frase anche alla seconda: “se, invece, avresti voluto accettare ma non hai accettato perché qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo” (ovvero “se non hai accettato pur avendo voluto…”). In più, questo secondo caso offre un interessante incrocio sintattico: il verbo di dire nell’apodosi avvicina tutto il resto della frase, compresa la protasi (ma esclusa l’eventuale causale) a una interrogativa indiretta: “ti prego di dirmi se avresti voluto accettare ma (non hai accettato perché) qualcuno te l’ha impedito”. L’interrogativa indiretta è normalmente costruita con il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato.
​Per maggiori informazioni sul futuro nel passato suggerisco di consultare l’archivio di DICO inserendo nel motore di ricerca interno il termine consecutio temporum.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Enuncio (ora): i gentili professori di DICO mi hanno invitato (ieri) a consultare dopodomani (futuro rispetto all’enunciazione) l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (in un tempo intermedio tra ieri e dopodomani) … è stato / fosse / sia stato / era stato / fosse stato pubblicato il quesito”.
Quale tempo determina al meglio l’azione dell’eventuale pubblicazione del quesito?
Che cosa cambierebbe se riformulassi la frase così: “Ieri l’altro, i gentili professori di DICO mi hanno invitato a consultare stamattina / poche ore fa / ora l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”?

 

RISPOSTA:

La scelta nel primo caso è tra sia stato pubblicato e sarà stato pubblicato (o al limite, ma solo in un contesto informale, e meglio se nel parlato, è stato pubblicato). Le uniche coordinate rilevanti per stabilire la consecutio sono il momento dell’enunciazione, che è sempre ora, il momento di riferimento, ovvero dopodomani, e il momento dell’azione del pubblicare, che è successiva rispetto a ora, ma precedente rispetto a dopodomani. Il momento di ieri non è rilevante: anche se l’invito fosse fatto domani, non ieri, la consecutio rimarrebbe uguale: “I gentili professori di DICO mi inviteranno (domani) a consultare dopodomani l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo sia stato / sarà stato / è stato pubblicato il quesito”.
Chiarito questo, diventa evidente che il tempo dell’azione è il futuro anteriore, ma, se scegliamo il modo congiuntivo, più formale, opteremo per il tempo che in questo modo, privo di futuro, sostituisce il futuro anteriore, ovvero il passato. L’indicativo passato prossimo può svolgere la stessa funzione del congiuntivo passato, ma in un registro informale. Dal momento che l’indicativo ha il futuro anteriore, il passato prossimo produce, rispetto al congiuntivo passato (che è obbligato), uno slittamento del centro deittico (per una spiegazione di che cosa sia si veda l’archivio di DICO) dal momento dell’enunciazione a quello di riferimento (nel nostro caso dopodomani); il parlante, cioè, semplifica la situazione, che ha tre coordinate, considerandone solamente due: il momento dell’azione e quello di riferimento. Rispetto al momento di riferimento, l’azione diviene, appunto, passata (sparisce il tratto del futuro).
L’imperfetto congiuntivo (fosse pubblicato) indica contemporaneità nel passato, quindi non può essere usato in questo contesto. Allo stesso modo, inadeguati sono il trapassato indicativo e congiuntivo, che indicano anteriorità rispetto a un evento passato.

La riformulazione della frase sposta l’evento nel passato, quindi esclude il futuro anteriore come possibilità. Rimane, invece, valido il congiuntivo passato, sia stato pubblicato (meno formale l’indicativo, è stato pubblicato), che ignora il momento di riferimento (in questo caso ieri l’altro) e considera solamente il momento dell’enunciazione, rispetto al quale l’azione è passata. Se, invece, “triangoliamo” le tre coordinate, l’azione del pubblicare si configura come futura rispetto al passato, quindi prende la forma del condizionale passato, sarebbe stato pubblicato.
Non è finita: possiamo anche valorizzare la sfumatura ipotetica veicolata dalla proposizione interrogativa indiretta “se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”, come se la frase intendesse dire ‘nel caso in cui nel frattempo (?) pubblicato il quesito’. Questa operazione cambierebbe la prospettiva e renderebbe valido il congiuntivo imperfetto, fosse pubblicato (ipotesi possibile), e anche il congiuntivo trapassato, fosse stato pubblicato (ipotesi improbabile). Da scartare, in questo caso, le varianti all’indicativo, era pubblicato e era stato pubblicato.
Il trapassato unisce al valore ipotetico quello di anteriorità, che il ricevente interpreta come anteriorità rispetto al momento dell’enunciazione; l’imperfetto esprime contemporaneità, quindi oscura la relazione tanto con il momento di riferimento, quanto con il momento dell’enunciazione (tranne per il fatto che è un tempo passato) e fa risaltare, invece, la fase intermedia, descritta con l’avverbio nel frattempo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vivo all’estero e mi risulta difficile spiegare ai miei amici tedeschi i motivi per cui si fa uso del congiuntivo in certe frasi della nostra lingua. Alcuni esempi: “È bello che tu sia venuto”; oppure: “È importante che si veda il film dall’inizio”; “È deprecabile che Mario arrivi sempre in ritardo”. Nella lingua tedesca, ma anche in altre lingue, in frasi analoghe si usa l’indicativo. Perché noi usiamo il congiuntivo? Quale spiegazione dare?

 

RISPOSTA:

​Il congiuntivo è una risorsa che l’italiano ha sviluppato per segnalare la subordinazione. Il nome stesso del modo allude alla sua funzione di collegare le proposizioni, ma ricordiamo che in passato per designarlo era usato anche il termine soggiuntivo (ancora oggi in inglese esso è definito subjunctive), ancora più esplicito riguardo alla funzione di aggiungere parti della frase subordinate alla proposizione principale. 
In astratto, quindi, il congiuntivo è il modo delle subordinate, o almeno di quelle esplicite, visto che le implicite usano i modi indefiniti. In effetti, se osserviamo il panorama delle proposizioni subordinate, vediamo che molte richiedono obbligatoriamente o facoltativamente il congiuntivo (finali, completive, ipotetiche non del primo tipo, relative improprie, concessive, comparative di minoranza e maggioranza, eccettuative), e quando è prevista la possibilità di scegliere tra il congiuntivo e l’indicativo, il primo rappresenta la variante più formale. 
Se molte subordinate richiedono il congiuntivo, alcune, al contrario, lo rifiutano: le causali (ma non le causali irreali, sulle quali si veda questa risposta dell’archivio di DICO: https://bit.ly/2XpQU1x), le temporali, le relative proprie, le consecutive, le ipotetiche di primo grado (del tipo “Se sei tanto sicuro, fallo”), le comparative di uguaglianza e di analogia. Questa distinzione tra subordinate al congiuntivo e subordinate all’indicativo non deve sorprendere: le lingue non sono meccanismi perfetti. Il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma l’indicativo non è escluso da questa funzione. 
Del resto, lo stesso congiuntivo può figurare in proposizioni indipendenti, al posto dell’indicativo (che, come si sa, è il modo per eccellenza della proposizione principale), come in “Volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “Mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “I volontari facciano un passo avanti” e simili. In realtà, se osserviamo bene, le proposizioni principali al congiuntivo sono subordinate ad altre proposizioni all’indicativo, che rimangono implicite: “(Vorrei che) volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “(Lascio che) mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “(Ordino che) i volontari facciano un passo avanti”. 
La selezione dell’indicativo da parte di alcune subordinate, invece, è dovuta allo stretto legame logico esistente tra queste subordinate e la principale, ma anche alla tradizione e all’uso (non sempre è possibile ricondurre le strutture sintattiche a ragioni logiche). È possibile fare una graduatoria tra le subordinate in base al criterio della aderenza logica con la principale. Le più aderenti sono quelle proposizioni che richiedono l’indicativo anche quando sono dipendenti da proposizioni a loro volta al congiuntivo, come le consecutive, le relative proprie, la causali: “Dicono che Luca fosse tanto stanco che dormì per due giorni“; “Non sapevo che tu avessi conosciuto il ragazzo di cui ti avevo parlato tanto“; “Vorrei che tu venissi perché lo vuoi, non perché tu sia costretto” (sulle causali irreali si è detto sopra). Più incerto il comportamento delle comparative di uguaglianza: “Andrea si comporta sempre come ci si aspetta da lui“, ma “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetti da lui“. Ovviamente, però, è anche possibile “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetta da lui“.  Anche in questi casi, come in tutti quelli in cui è possibile l’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo, vale la norma non scritta che il congiuntivo rappresenti la soluzione più formale. Come si è detto, l’aderenza logica alla reggente non può spiegare tutti i casi: le completive, per esempio, tanto legate alla reggente da essere necessarie (una frase come “Sono convinto che tu mi stia imbrogliando” non avrebbe senso compiuto se togliessimo “che tu mi stia imbrogliando”) sono quasi sempre costruite con il congiuntivo.
La specializzazione sintattica del congiuntivo nella segnalazione della subordinazione ha finito per assegnargli la sfumatura semantica di modo della ipotesi, dell’eventualità, della possibilità, della controfattualità. Questa sfumatura, sviluppatasi secondariamente rispetto alla funzione sintattica primaria, è oggi percepita come il carattere preminente del congiuntivo. È opinione comune, per esempio, che “Credo che tu sei un buon amico” esprima certezza, mentre “Credo che tu sia un buon amico” esprima dubbio; la differenza, invece, è, come detto, di natura diafasica: la prima variante è meno formale della seconda, ed è, coerentemente, tipica del registro medio-basso nello scritto e del registro medio e medio-alto nel parlato. Lo stesso vale per “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettavo” e “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettassi” e, ribadisco, per tutti gli altri casi di possibile alternanza. 
Certo, una convinzione così radicata come quella che il congiuntivo sia il modo dell’eventualità non può essere trascurata: anche se si tratta di una interpretazione secondaria, oggi essa è attiva nella percezione dei parlanti, quindi va registrata. Possiamo dire, quindi, che il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma veicola anche, secondariamente e non sempre, una sfumatura semantica epistemica: il parlante, usandolo, esprime incertezza sulla fattualità di ciò che sta affermando.
La relazione tra indicativo e congiuntivo è al centro di molte domande poste a DICO nel tempo: una delle ultime risposte sull’argomento si può leggere qui: https://bit.ly/2GnQ1zH, ma consiglio anche di interrogare l’archivio inserendo nel motore di ricerca interno la parola chiave congiuntivo
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Entrò in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato”: tale frase è un esempio di scissa o pseudoscissa?
Vi domando, poi, se il congiuntivo trapassato o il passato prossimo sarebbero stati ugualmente validi:
“Entrò in camera, come uno che avesse corso a perdifiato”.
“Entrò in camera, come uno che ha corso a perdifiato”.

 

RISPOSTA:

​La prima frase ricalca l’ordine sintattico naturale dell’italiano, Soggetto, Verbo, Oggetto (ovvero ampliamenti vari, visto che al posto dell’Oggetto qui troviamo un complemento di moto a luogo e poi un complemento predicativo del soggetto). La versione scissa della sua frase sarebbe: “Fu lui a entrare in camera trafelato…” (la seconda parte è implicita perché il suo soggetto coincide con quello della reggente); quella pseudoscissa “A entrare in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato, fu lui”.
Il congiuntivo passato della proposizione comparativa può essere sostituito con il trapassato, con la differenza che il rapporto temporale tra reggente e subordinata cambia. Il passato esprime anteriorità rispetto al presente, quindi rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero ora: ne consegue che la descrizione della persona è riferita non alla situazione specifica narrata, ma ha valore generale (la persona somigliava a chiunque abbia corso a perdifiato). Il trapassato esprime anteriorità rispetto al passato, quindi viene riferito al momento dell’azione dell’entrare: ne consegue che la descrizione riguarda la situazione specifica narrata (la persona sembrava aver corso a perdifiato).
La sostituzione con l’indicativo passato prossimo è anche possibile: in questo caso non cambia la relazione temporale, ma il livello di formalità (più basso con l’indicativo).
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Una volta che può avere sia valore ipotetico che temporale, come quando? Le possibilità riportate più sotto, nonostante i distinguo di carattere semantico, sono valide?
“Una volta che avreste / abbiate / avrete ricevuto la comunicazione, vorrei essere messo al corrente”.

 

RISPOSTA:

Tutti i connettivi temporali assumono una sfumatura ipotetica quando introducono un evento futuro, proprio perché il futuro comporta automaticamente un certo grado di incertezza. Questa sfumatura è accentuata, nella percezione dei parlanti, dal congiuntivo (sebbene in astratto il congiuntivo sia solamente più formale dell’indicativo; su questo punto può leggere una recente risposta nell’archivio di DICO). Quindi, “Una volta che abbiate / avrete / avete ricevuto…” sono tutte varianti possibili, tra cui la più formale è abbiate ricevuto (sul passato prossimo in costrutti ipotetici si può leggere questa altra risposta nell’archivio di DICO). Possibili anche “Una volta che riceveste…” (congiuntivo imperfetto) e persino “Una volta che aveste ricevuto…” (congiuntivo trapassato), che designano l’evento rispettivamente come possibile e improbabile (accentuano, quindi, la sfumatura ipotetica del connettivo).
Scorretta, invece, nel suo caso, *”Una volta che avreste ricevuto…”. Il condizionale passato è possibile solamente se ci si trova in un contesto di futuro nel passato, come in questa frase: “Vi avevo chiesto di avvisarmi subito una volta che avreste ricevuto la comunicazione”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le seguenti costruzioni sono corrette in tema di rapporti tra i tempi verbali? 
– Lavorerai domattina – domanda l’uno.
– Sì, di pomeriggio – risponde l’altro.
– Pensavo che lavorassi di mattina. 
(Mi domando se il congiuntivo imperfetto possa sostituire il condizionale passato).

– Mi stai dicendo che tu domani saresti stato disposto a partire di casa alle 6 di mattina? – domanda la donna. 
(Il condizionale passato, pur collegandosi a un evento futuro al momento dell’enunciazione, può essere accettato per sottolineare la definitiva conclusione della condizione?)

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo imperfetto può estendere la sua funzione di indicatore di contemporaneità nel passato inglobando anche l’espressione del futuro nel passato, propria del condizionale passato. Usando il congiuntivo imperfetto, il parlante rappresenta l’evento come contemporaneo al momento in cui lo ha pensato o comunicato, conferendogli una sfumatura di certezza, a dispetto della sua collocazione nel futuro. Per questo motivo, con verbi di comando il condizionale passato è quasi impossibile: “Ordinò che io l’indomani partissi” (non *”Ordinò che io l’indomani sarei partito”), mentre è il congiuntivo imperfetto molto strano con verbi di dire privi di sfumature volitive: “Mi disse / comunicò che l’indomani sarei stato arrestato” (non *”Mi disse / comunicò che l’indomani fossi arrestato”). Con verbi di pensiero, le due opzioni sono generalmente valide; il congiuntivo è la scelta meno formale, sebbene non si possa dire trascurata, adatta a un registro medio, come dimostrano gli esempi letterari: “Lei stava ai fornelli, si è girata al rumore dei passi. Pensavo che aprisse le braccia. Ho detto: ‘Mamma, sono qui!'” (Susanna Tamaro, Per voce sola, 1991). Si vedano, su questo argomento, le tante risposte a domande analoghe nell’archivio di DICO; per esempio questa.
Il condizionale passato nella seconda frase lascia intendere che l’azione futura non si avvererà, perché è intervenuta una condizione ostativa. L’emittente, cioè, sa già che la persona con cui sta parlando non dovrà partire. Si noti che non siamo in un contesto di futuro nel passato, perché il momento di riferimento è presente e coincide con il momento dell’enunciazione (nel futuro nel passato, invece, il momento di riferimento è passato, mentre quello dell’enunciazione è, come sempre, presente). Il condizionale passato, pertanto, si configura come l’apodosi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, che suggerisce, come detto, la controfattualità dell’espressione verbale. Diversamente, “Mi stai dicendo che tu domani saresti disposto a partire…” indicherebbe che l’azione potrebbe ancora avverarsi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi pare che le relazioni di consecutio temporum che qui di illustro non siano mai state prese in esame.

1) Domani pomeriggio ricordati di chiamare il centralino, se entro la fine della mattinata (di domani)…
a) non avrai ricevuto/riceverai aggiornamenti.
b) non ricevessi aggiornamenti.
c) non avessi ricevuto aggiornamenti.
N.B. Nella variante a) ho unito i due tempi del futuro perché leggendo i vostri articoli ho capito che si differenziano quasi esclusivamente per il livello di formalità.

2) Se nel frattempo fosse stata chiarita la situazione, il dirigente già domani…
a) potrebbe adottare misure restrittive.
b) potrà adottare misure restrittive.

 

RISPOSTA:

Nei suoi esempi la costruzione del periodo ipotetico si intreccia con la consecutio temporum.
La frase 1) presenta i tre modelli canonici della protasi del periodo ipotetico. La soluzione a) coincide con la protasi di un periodo ipotetico della realtà, costruita con l’indicativo. L’evento condizionante, quello che provoca come conseguenza l’altro (ricordati), espresso nell’apodosi, è situato nel futuro rispetto al momento dell’enunciazione, cioè adesso (dal punto di vista di chi parla). La scelta del tempo da usare per questo evento è molto ampia: sono possibili li futuro semplice (se non riceverai), il futuro anteriore (se non avrai ricevuto), il presente (se non ricevi) e anche il passato prossimo (se non hai ricevuto). Tra queste, il futuro anteriore è la più lineare, perché esprime tanto la posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione quanto l’anteriorità rispetto alla conseguenza; il futuro semplice è, nell’italiano contemporaneo, sempre sostituibile a quello anteriore, come variante semplificata, che lascia implicito il rapporto di anteriorità rispetto alla conseguenza, facilmente inferibile per logica. Il presente, a sua volta, è quasi sempre sostituibile al futuro con funzione temporale: sarebbe questa, probabilmente, la variante preferita in una conversazione tra pari. Il passato prossimo è l’esito di uno slittamento, pienamente ammissibile, di piani temporali: con esso, il parlante sposta il suo centro deittico per un attimo a domani, mettendosi nei panni della persona che deve ricordarsi di chiamare. In quel momento, l’evento della protasi è, appunto, nel passato.
La soluzione b) rappresenta una protasi di un periodo ipotetico della possibilità: esprime l’evento della mancata ricezione di aggiornamenti come possibile invece che come reale, suggerendo che secondo il parlante esso sia un po’ meno probabile rispetto a quanto lo sarebbe stato se lo avrebbe espresso con l’indicativo.
La soluzione c), infine, rappresenta una protasi dell’irrealtà, che suggerisce l’improbabilità dell’evento.
La frase 2) mostra due casi apodosi rispetto a una protasi con il trapassato (se fosse stata chiarita). La soluzione a), al condizionale presente (potrebbe adottare), da un parte designa l’evento come possibile, dall’altro sottolinea la necessità che l’evento della protasi si sia concluso prima che l’evento dell’apodosi, l’adozione di misure, possa avvenire. Nella soluzione b), l’indicativo designa la conseguenza come reale, sottolineando il pieno potere del dirigente (se non, addirittura, l’intenzione già formata) di metterla in atto. Si può, ovviamente, aggiungere anche in questo caso una terza soluzione per l’apodosi, quella che rispecchia la costruzione canonica dell’irrealtà: “avrebbe potuto adottare misure restrittive”. Con questa, la conseguenza è data, appunto, per irreale: si completa, in questo modo, la costruzione di una ipotesi di cui si conosce già l’esito controfattuale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

 

QUESITO:

In un paragrafo incluso in una grammatica, leggo, a proposito dell’accordo del participio passato, il seguente esempio: “Non si è vinta la partita”.
Domanda: la costruzione “Non si è vinto la partita”, anche se non riconducibile alla regola cui si riferisce l’esempio precedente, sarebbe corretta quale forma impersonale, equivalente a “Noi non abbiamo vinto la partita”?
Accordo con negazione .
Leggo la frase: “Né io né tu né lei né gli altri sanno…”.
Domanda: non sarebbe stato più giusto coniugare il verbo alla prima persona plurale: “Né io né tu né lei né gli altri sappiamo”? O esiste oppure una terza coniugazione più appropriata?
Ultimo caso: congiunzione disgiuntiva o. Leggo che quando si presenta una scelta netta, il verbo si accorda al singolare (se ovviamente lo sono anche i soggetti). Evinco che la regola decada se i soggetti siano di numero misto: “O io o loro andremo”.
Domanda: il verbo può essere accordato al plurale anche se i soggetti sono singolari e se il primo di essi non è preceduto dalla congiunzione: “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi”?

 

RISPOSTA:

Quando il verbo costruito con il si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione si considera non impersonale ma passiva; la forma corretta nel suo caso è, pertanto, “Non si è vinta la partita” (equivalente a “la partita non è stata vinta”). La variante “Non si è vinto la partita” non è impossibile, però: viene a coincidere con il tipo di costruzione impersonale tipica del toscano e della tradizione letteraria, quindi non proprio comune (ma comunque legittima), noi si fa qualcosa (e noi si fa alcune cose). Si considerino, per un confronto, questi due esempi giornalistici: “Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo” (la Repubblica, 27 gennaio 2018); “Dare la colpa a qualcuno che per una volta si è vinto le elezioni: non è ancora successo, ma dal PD possiamo aspettarci anche di peggio” (l’Espresso, 11 giugno 2013). Nel secondo esempio “si è vinto le elezioni” sottintende un soggetto noi, ovvero “noi si è vinto le elezioni”. Si consideri, comunque, che anche la forma impersonale del tipo noi si fa alcune cose si può costruire come se fosse passivante: noi si fanno cose (si veda l’esempio letterario riportato  in questa risposta dell’archivio di DICO).
In una frase con soggetti multipli, se è presente io il verbo va alla prima persona plurale, come da lei suggerito (se ci fosse tu senza io, il verbo andrebbe alla seconda plurale). La versione da lei letta è scorretta; in essa il verbo è accordato “per prossimità” con l’ultimo soggetto introdotto, come si farebbe nel parlato poco sorvegliato.
“O io o loro andremo” è corretto (rappresenta un caso sovrapponibile a quello appena discusso). Il verbo va comunemente alla terza plurale anche con soggetti di terza persona singolare uniti da o. Può andare al singolare quando i soggetti stanno tra loro in un rapporto di alternativa: “Verrà a chiamarti un mio amico o mio fratello”. Niente vieta, però, di concordare il verbo alla terza plurale anche in questo caso: “Fu stabilito che, nei giorni seguenti, lui o la governante mi avrebbero portato da mangiare” (Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970).
Infine, la presenza della seconda o correlativa non cambia niente ai fini dell’accordo; quindi “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi” è ben formata, come anche “Il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì” o “O il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì”. Possibili anche, ricollegandoci alla questione appena discussa, “(O) il prof. Rossi o il prof. Verdi riceverà i genitori venerdì” e “Riceverà i genitori (o) il prof. Rossi o il prof. Verdi”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali forme verbali vanno usate in queste frasi?
1. Luca gli chiede se è / sarebbe / sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
2. Ho detto loro che non avessi / avevo idea di cosa accadeva / accadesse a René quando urlava.
3. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva / sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
4. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi / fossi stato uno di loro.
5. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può / potrebbe / potrà mettere a disposizione un pulmino
6. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva / avvenisse all’interno del deposito.
7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi / si fosse presentato un baratro.
8. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva / sarebbe accaduto.
9. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo / averlo meritato o guadagnato.
10. Aveva più amici di quanti lui stesso avrebbe / avesse mai potuto immaginare.
11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino potesse / possa immaginare e sopportare.
12. Chiamo e chiedo se è / sarebbe / sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
13. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse / fosse uscito completamente
dalla stazione.
14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che / come, nonostante sorprese ed emozioni, siamo / fossimo riusciti comunque a fare una bella dormita.
15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire avesse / abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
16. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa / farebbe accendere la sigaretta.
17. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto / abbia spinto / avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse / desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
18. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha / aveva / abbia / avesse ricevuto comunicazioni.
19. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano / sono / fossero conosciuti.
20. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei / avrei sospettato che l’acuto finale te lo fossi / lo avessi preparato per l’occasione.
21. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi / desideravo metterla contro mia madre, rispose…
22. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva / avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. 

 

RISPOSTA:

​La scelta del modo e del tempo verbale nelle frasi da lei proposte non è quasi mai obbligata, ma, piuttosto, dipende dalla sfumatura semantica ricercata, dal grado di formalità richiesto dalla situazione o dalla consecutio temporum. Visto il gran numero di esempi, non mi dilungo in spiegazioni, ma rimando all’archivio di DICO, nel quale ci sono già molte risposte che trattano dei fenomeni qui coinvolti. Riscriverò, di seguito, le frasi corrette:
1a. Luca gli chiede se è ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1b. Luca gli chiede se sarebbe ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1c. Luca gli chiede se sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
Tutte le tre frasi 1. vanno bene: quella con l’indicativo è più diretta, quella con il condizionale è più cortese (e fa emergere il punto di vista interno del soggetto, avvicinandosi al discorso indiretto libero), quella con il congiuntivo è più formale.

2a. Ho detto loro che non avevo idea di cosa accadeva a René quando urlava.
2b. Ho detto loro che non avessi idea di cosa accadesse a René quando urlava.
Anche in questo caso, la scelta del modo dipende dal grado di formalità atteso.

3a. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
3b. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
La versione con il condizionale passato è più formale. In teoria l’imperfetto è più generico e può far riferimento alla vita in generale, non per forza alla vita futura, ma il verbo della reggente, avvertire, impone un’interpretazione futura. Possibile anche potesse.

4a. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi uno di loro.
4b. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi stato uno di loro.
La variante con l’imperfetto indica che l’amicizia era o non era in corso mentre lei pensava; quella con il trapassato sottolinea che l’amicizia si era o non si era conclusa in un momento precedente a quello in cui lei si era trovata a pensare.

5a. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può mettere a disposizione un pulmino.
5b. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrebbe mettere a disposizione un pulmino.
5c. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrà mettere a disposizione un pulmino.
Come per la 1., l’indicativo è più diretto. Il futuro aggiunge una precisazione temporale rispetto al presente, per cui è più facile ricondurlo a un evento specifico, mentre il presente rimane ambiguo tra “può mettere a disposizione sempre” e “può mettere a disposizione per una specifica occasione”. Aggiungerei anche una quarta versione, con possa, che risulterebbe la più formale.

6a. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva all’interno del deposito.
6b. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avvenisse all’interno del deposito.
Come per la 1., è una questione di formalità.

7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi un baratro.
Impossibile si fosse presentato, perché il trapassato esprime l’anteriorità rispetto al tempo della reggente, quindi contrasta con il fatto che il soggetto non sapeva che ci fosse un baratro. Possibile, e più formale, si sarebbe presentato.

8a. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva.
8b. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi sarebbe accaduto.
Anche qui l’indicativo è meno formale (e più comune), il condizionale passato più formale.

9a. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo meritato o guadagnato.
9b. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di averlo meritato o guadagnato.
Qui la scelta è tra meritare (ausiliare avere) e meritarsi (ausiliare essere), ovvero tra il verbo nella sua forma neutrale, più formale e distaccata, e lo stesso verbo nella versione pronominale, che gli conferisce una sfumatura emotiva, di partecipazione del soggetto (come se intendesse meritare per sé).

10. Aveva più amici di quanti lui stesso avesse mai potuto immaginare.
La variante con il condizionale passato è al limite dell’illogico, perché descrive una situazione in cui il soggetto non può immaginare che si sia realizzato uno stato (avere tante amicizie) dopo che lo stesso si è effettivamente realizzato e lui non può che esserne pienamente consapevole.

11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino possa immaginare e sopportare.
Non c’è nessuna ragione per usare il congiuntivo imperfetto in questo contesto.

12a. Chiamo e chiedo se è possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12b. Chiamo e chiedo se sarebbe possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12c. Chiamo e chiedo se sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
Si veda l’esempio 5.

13a. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse completamente dalla stazione.
13b. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno fosse uscito completamente dalla stazione.
La scelta del tempo dipende da una sfumatura: l’imperfetto esprime la contemporaneità tra l’azione del treno e quella di lui; il trapassato sottolinea che il treno era completamento uscito prima che lui lasciasse il binario.

14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che, nonostante sorprese ed emozioni, siamo riusciti comunque a fare una bella dormita.
Visto il contenuto analogo delle due oggettive coordinate, non c’è ragione per non mantenere la stessa costruzione per entrambe. La sostituzione del secondo che con come è possibile, ma non cambia la costruzione della proposizione.

15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
Non c’è ragione per usare il trapassato congiuntivo in questa frase.

16a. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa accendere la sigaretta.
16b. Tornata la calma gli chiedo anche se mi farebbe accendere la sigaretta.
Si veda la 1. Possibile anche la variante più formale con faccia.

17a. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17b. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17c. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17d. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17e. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17f. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
Come si vede, tutte le varianti sono possibili. I vari tempi del congiuntivo instaurano di volta in volta rapporti diversi (di anteriorità o contemporaneità) tra il momento dell’azione che essi stessi esprimono e gli altri momenti configurati nella frase: quello dell’enunciazione, ovvero ora, quello della chiamata e quello dell’insorgenza della volontà di comunicare con l’amico.

18a. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha ricevuto comunicazioni.
18b. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se aveva ricevuto comunicazioni.
18c. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se abbia ricevuto comunicazioni.
18d. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni.
Le varianti più attese sono quelle con il passato prossimo indicativo (meno formale) e il passato congiuntivo (più formale). Quelle con il trapassato (per le quali vale sempre la differenza di formalità tra indicativo e congiuntivo) presuppongono la presenza di un tempo di riferimento intermedio tra quello dell’enunciazione e quello della ricezione delle comunicazioni. In realtà, questo tempo intermedio dovrebbe coincidere con quello della domanda del Colonnello, ma il fatto che il soggetto usi il presente (sento) pone questo evento sullo stesso piano temporale del momento dell’enunciazione, appunto il presente. La situazione sarebbe più chiara se sento fosse un presente storico, che ammette senza difficoltà (ma con cautela) lo slittamento dei piani temporali tra il presente e il passato. In alternativa, si può pensare che ci sia un altro evento intermedio, non introdotto esplicitamente, tra la domanda e la ricezione delle comunicazioni; ad esempio “Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni prima dell’arrivo degli ordini ufficiali“.

19a. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano conosciuti.
19b. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si sono conosciuti.
19c. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si fossero conosciuti.
Anche qui l’indicativo è la variante più diretta, meno formale e più comune. Per il trapassato valgono le stesse considerazioni fatte a proposito dell’esempio 18.

20a. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale te lo fossi preparato per l’occasione.
20b. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale lo avessi preparato per l’occasione.
Non c’è motivo (sebbene non sia impossibile) di usare il condizionale passato (avrei sospettato) quando si specifica che l’azione avviene ora e la protasi del periodo ipotetico ha il congiuntivo imperfetto (fosse). Il passato funzionerebbe bene se la protasi fosse al trapassato (“Se non fosse stato per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora avrei sospettato…”). Per quanto riguarda la scelta tra preparare e prepararsi si veda l’esempio 9.

21a. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desideravo metterla contro mia madre, rispose…
21b. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi metterla contro mia madre, rispose…
Il congiuntivo è più formale.

22a. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva fatto uso di sostanze stupefacenti.
22b. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non avesse fatto uso di sostanze stupefacenti.
Come per l’esempio 21.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il seguente periodo è ben costruito o contiene invece un errore madornale?
“Se, qualora diventassi ricco, farei del bene al prossimo, significa che, di base, la mia natura è buona”. Alludo chiaramente alla frase con il condizionale: nel caso fosse valida, vi domando se la specificazione della protasi (nell’esempio di riferimento “qualora diventassi ricco”) sarebbe obbligatoria o facoltativa.

 

RISPOSTA:

La frase non è ben formata. La proposizione ipotetica incidentale “qualora diventassi ricco” non è la protasi del periodo ipotetico, ma è subordinata alla protasi (e non sintatticamente necessaria), che è “Se facessi del bene al prossimo”. Quindi, innanzitutto, il condizionale farei va sostituito con il congiuntivo imperfetto facessi. Noto anche che la protasi con il congiuntivo imperfetto è subordinata a una apodosi con l’indicativo presente, significa. Questo non può essere considerato un errore, ma è certamente una scelta insolita, visto che l’indicativo esprime la certezza del parlante su quanto sta dicendo, mentre la protasi al congiuntivo imperfetto esprime la possibilità che qualcosa avvenga. Insomma, il modello sottostante alle frase così formulata è: ‘se si verificasse un evento ciò comporta una conseguenza’. La formulazione più comune in questo caso sarebbe, invece, “Se, qualora diventassi ricco, facessi del bene al prossimo, significherebbe che, di base, la mia natura è buona”; con il condizionale significherebbe si esprime con chiarezza che la conseguenza è, appunto, condizionata dalla possibilità che si verifichi l’evento indicato nella protasi. La proposizione oggettiva “che, di base, la mia natura è buona”, infine, può essere costruita anche con il congiuntivo (“che, di base, la mia natura sia buona”), se si vuole elevare il registro dell’intera frase.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Spesso, specie nel parlato, si registra una preponderanza di frasi costruite con il presente dell’indicativo, anche in presenza di avverbi e congiunzioni che potrebbero ammettere tempi diversi.
Gli esempi di seguito sono accettabili nel linguaggio sorvegliato o sarebbe meglio modificarli?
1) Quando finisci di lavorare, torna.
2) Appena posso, vengo da te.
3) Finché non arriva lei, non mi muovo da qui.

 

RISPOSTA:

L’estensione del presente indicativo a usi che logicamente sarebbero propri del futuro (l’espressione di eventi o azioni future) è un tratto tipico della varietà della lingua detta neostandard, divergente dalla norma tradizionale, ma accettata da tutti i parlanti nella maggior parte dei contesti comunicativi.
Le frasi come quelle proposte da lei, in particolare, sono appropriate a una conversazione, o uno scritto, di media formalità, o anche familiare; è possibile anche in questi casi usare il futuro, ma una simile scelta potrebbe conferire all’eloquio del parlante una patina di artificiosità. Volendo aderire allo standard, anzi, si dovrebbe usare anche il futuro anteriore in due dei tre esempi: “Quando avrai finito di lavorare, torna”; “Finché non sarà arrivata lei, non mi muoverò da qui”.
Il futuro, semplice e anteriore, è, comunque, ancora la scelta più appropriata in contesti comunicativi molto formali.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette: 
“Anita non sa neanche cosa dica”, 
“La pedagogia speciale propone metodi educativi che rispondano / rispondono ai bisogni degli educandi”,
“Il filosofo preferisce una scienza che parta / parte dal dubbio”,
“Mi ha chiesto se io abbia dormito bene”.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette, comprese entrambe le varianti per la seconda e la terza. La prima e la quarta contengono una proposizione interrogativa indiretta, introdotta in entrambi i casi da se, che preferisce il congiuntivo. L’indicativo non sarebbe scorretto (“Anita non sa neanche cosa dice”, “Mi ha chiesto se ho dormito bene”), ma sarebbe meno formale.
​Nella seconda e nella terza frase la situazione è diversa: le subordinate sono relative, che normalmente richiedono l’indicativo (quindi rispondono e parte) quando indicano una qualità posseduta dal referente o uno stato di fatto, ma possono prendere il congiuntivo se si vuole aggiungere al verbo una sfumatura di eventualità e di auspicio. “Che rispondono ai bisogni degli educandi”, cioè, descrive i metodi che la pedagogia effettivamente propone; “che rispondano ai bisogni degli educandi” fa risaltare la speranza che la pedagogia ripone nella possibilità che i metodi rispondano ai bisogni degli educandi. E lo stesso vale per la terza frase.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti costruzioni, ricavate da brani narrativi e di cui la letteratura abbonda, siano valide nelle loro ellissi verbali:
“Appoggiato a una delle cabine di ferro del portico era un uomo in attesa, le braccia incrociate”. 
“Riposò lentamente il ricevitore, restando poi immobile, gli occhi sul telefono”.
“Era Annetta, la cuoca, gli occhi rossi, la testa imbacuccata nello scialle”.
“Donato, nude le braccia, in canottiera, i fianchi stretti da una sciarpa, se ne stava accovacciato in un angolo”.
“Federica ora parlava piano, la testa china, i capelli sul viso”.
In quest’ultimo esempio vi è inoltre un impiego particolare dell’avverbio ora: è legittimo in un enunciato al passato?

 

RISPOSTA:

Quelle da lei messe in evidenza sono apposizioni modali-associative, ovvero nomi seguiti da aggettivi o participi (ma ci potrebbero essere anche proposizioni relative), apposti a un nome introdotto subito prima, di cui rappresentano un dettaglio. Il costrutto è a suo agio in letteratura, ma alcuni di questi sintagmi, divenuti routinari, si sono diffusi anche nella lingua comune; ad esempio le braccia conserte o le gambe penzoloni. Nella lingua comune, per la verità, si trova più frequentemente la variante sintatticamente legata di queste strutture: con le braccia consertecon le gambe penzolonicon le dita incrociate ecc., che viene a coincidere con un complemento predicativo (“Si fermò con le braccia alzate”) o di unione (“Si presentò con le scarpe tutte infangate”).
Queste apposizioni rientrano nella categoria delle strutture assolute, ovvero quelle strutture legate logicamente ma non sintatticamente al resto della frase di cui fanno parte. Una disamina completa delle strutture assolute, compreso il cosiddetto accusativo alla greca, è qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/strutture-assolute_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.
Per quanto riguarda ora usato all’interno di un discorso riportato al passato, si deve innanzitutto ricordare che questo avverbio è comunissimo, e accettabile nello scritto di media formalità, anche con il significato di ‘in quel momento’ (il dizionario GRADIT dà addirittura questo uso come FO, ovvero fondamentale: “per indicare contemporaneità nel passato, in quel momento: il pericolo era cessato, o. poteva  fermarsi“). Lo scrivente, però, potrebbe averlo usato come tratto del discorso indiretto libero (il breve estratto non consente di decidere a quale significato sia riconducibile l’uso specifico). Se, infatti, attribuiamo a ora il significato tradizionale di ‘in questo momento’, questo avverbio sposta per un attimo il centro deittico dal piano diegetico al piano mimetico. In altre parole, ora interrompe la narrazione in terza persona, che è costruita dall’esterno e da una coordinata temporale diversa rispetto ai fatti (chi narra, cioè, è una persona diversa da chi agisce, e si trova in un tempo diverso, tanto che riporta le azioni al passato) per portare il discorso al piano della realtà, proiettandoci per un attimo nella linea temporale, quindi nel punto di vista, del protagonista della storia.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi pongo un quesito relativo alla declinazione dei pronomi reciproci l’un l’altro e derivati. Quando ci si riferisce a soggetti maschili, il problema, almeno per me, non sussiste; la questione si complica in presenza di soggetti femminili o misti.
Le frasi:
“Le ragazze si stimano le une le altre”,
“Lucia e Paolo si amano l’una l’altro” (laddove non fosse possibile invertire le posizioni dei soggetti),
“I bambini e le bambine giocano gli uni con le altre”
sono valide?
Sarebbe inoltre possibile usare soluzioni, per così dire, “al maschile”, come se fossero cristallizzate, quando il genere è misto?
“Lucia e Paolo si amano l’un l’altro”.

 

RISPOSTA:

Il pronome reciproco l’un l’altro è soggetto all’accordo di genere e numero con i nomi a cui si riferisce. Le forme senza identità di genere tra i due membri (l’un l’altra, gli uni le altre) sono più rare di quelle “omogenee”, ma ugualmente ben formate. Decisamente rara, sebbene in linea di principio ineccepibile, è l’inversione dei termini, con la precedenza data al membro femminile. Va detto, comunque, che, proprio in virtù della reciprocità, l’accordo funziona a prescindere dall’ordine relativo dei due membri: “Lucia e Paolo si amano l’un l’altra” è corretto nonostante la mancata corrispondenza simmetrica tra i generi dei soggetti e quelli del pronome. “Lucia e Paolo si amano l’una l’altro”, invece, pur non essendo scorretto, risulta sgradito ai parlanti, come dimostra la quasi totale assenza di esempi, tanto on line quanto nell’archivio della BIZ (Biblioteca Italiana Zanichelli). Rari, sebbene attestati, sono, infine, l’una l’altra e le une le altre.

L’alta frequenza d’uso di varianti plurali e con il secondo membro femminile sconsigliano l’uso cristallizzato di l’un l’altro. Vero è che una certa tendenza alla cristallizzazione esiste; essa è, però, attualmente un fenomeno popolare, non accolto nella lingua comune.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi scritte di seguito sono corrette o sarebbe consigliato il congiuntivo? Nell’esempio B, si verrebbe tra l’altro a creare, secondo me, una ripetizione, oltreché una cacofonia. 
a) L’eventualità che potrebbero accadere certi fatti è da tenere in conto.
b) La possibilità che potrebbe succedere mi fa paura.
c) Penserei che sarebbe un pazzo se facesse quello che temi (in riferimento a uno dei vostri esempi FAQ, in cui avevate impiegato sia al posto di sarebbe).
Sempre restando in tema di alternanza congiuntivo/condizionale, gli enunciati con valore concessivo, introdotti da malgradononostante (che) ecc., nonché quelli introdotti da qualunquequale che ecc., possono talvolta ammettere il condizionale composto per rimarcare l’aspetto del futuro del passato o è d’obbligo il congiuntivo a prescindere?
d) Qualunque risposta avrei ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare.
e) Non si sarebbe lasciato convincere facilmente, nonostante avrebbe subito pressioni. 

RISPOSTA:

​Nella frase a), il condizionale nella proposizione oggettiva (o, se vogliamo, dichiarativa) è ammesso, soprattutto se manteniamo il verbo servile potere, che accentua la sfumatura semantica potenziale, funzionale all’uso del condizionale. Se, invece, eliminiamo potere, la frase diviene difficilmente accettabile: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti è da tenere in conto”. In realtà, anche in questo caso il condizionale è giustificabile, se consideriamo l’oggettiva come l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti (se le circostanze lo permettessero) è da tenere in conto”. Il congiuntivo rimane comunque la scelta migliore; con questo modo si può anche costruire l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadano certi fatti (se le circostanze lo permettono / permettano) è da tenere in conto”. Rispetto a questo periodo ipotetico, quello con il condizionale presente e il congiuntivo imperfetto possiede una sfumatura eventuale più spiccata.
La frase b) ha la stessa struttura della a), per cui quanto detto si applica, mutatis mutandis, anche a questa.
Nella frase c) il condizionale sarebbe risponde agli stessi principi esposti sopra: esalta la sfumatura eventuale della frase. In altre parole, “Penserei che sarebbe un pazzo…” punta l’attenzione sul fatto che la concretizzazione della qualità dell’essere pazzo dipende (è, appunto, condizionata) dagli avvenimenti presentati nella protasi. Il congiuntivo, dal canto suo, veicola una sfumatura epistemica, molto meno marcata rispetto a quella eventuale del condizionale: sottolinea, cioè, che quanto detto dall’emittente sia un’opinione, non un fatto (come, del resto, emerge chiaramente dal senso generale della frase).
Per quanto riguarda le frasi d) ed e), il condizionale passato è sempre accettabile. Sostituendo il condizionale con il congiuntivo nella frase d) (“Qualunque cosa avessi ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare”) si accentua la sfumatura epistemica; si sottolinea, cioè, l’incertezza dell’emittente riguardo a quello che avrebbe potuto ricevere e si enfatizza, quindi, l’indeterminatezza di questa cosa, o di queste cose. Tale incertezza è in linea con il significato indefinito dell’aggettivo qualunque; per questo con gli aggettivi e i pronomi indefiniti si preferisce di solito usare il congiuntivo.
Nella frase e) la sostituzione del condizionale con il congiuntivo non cambierebbe solamente una sfumatura semantica, ma il significato complessivo della frase: “… nonostante avesse subito pressioni” si riferisce al passato rispetto al momento di riferimento rispetto a cui “non si sarebbe lasciato convincere” è futuro; diversamente, “… nonostante avrebbe subito pressioni” si riferisce al futuro, che può essere o non essere contemporaneo a quello in cui “non si sarebbe lasciato convincere”, rispetto allo stesso momento di riferimento.
Il condizionale passato nelle proposizioni concessive è usato anche nei giornali. Può servire a esprimere il futuro nel passato: “E invece non hanno seguito le indicazioni di andare a Malta, porto più vicino, nonostante avrebbe costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti” (ilgiornale.it, 19 marzo 2018). Può esprimere, in alternativa, il distacco epistemico del giornalista che non garantisce sulla veridicità di quanto riporta: “Stando alle prime indiscrezioni la rinuncia al trono del re sarebbe un gesto d’amore, nonostante avrebbe mentito sui due mesi di assenza dal suo incarico” (Rainews, 7 gennaio 2019).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Avrei dovuto dare un regalo a Piero stasera, SAI SE VENGA?”. Alcuni dicono sia più corretto SAI SE VIENE.

RISPOSTA:

​Sono entrambe costruzioni corrette. Quella con il congiuntivo è decisamente formale, quindi adatta a contesti scritti e molto seri. In un contesto di comunicazione familiare o con amici, al contrario, può sembrare eccessivamente elaborata. Per maggiori informazioni sulla scelta del modo nelle proposizioni completive (come la interrogativa indiretta, qui rappresentata da se venga / se viene), può consultare questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi chiederei di argomentare la sintassi di certe costruzioni negative, per stabilire se e quando la negazione  possa essere sostituita o dalla congiunzione e o dalla semplice virgola. Nella fattispecie, le frasi sotto indicate sono tutte valide?

1. Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e coloranti.
2. Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti né coloranti.
3. Senza olio di palma né grassi idrogenati né conservanti né coloranti.

4. Uscì di casa senza cappello e guanti.
5. Uscì di casa senza cappello né guanti.
6. Uscì di casa senza né cappello né guanti.

7. Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e coloranti.
8. Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti né coloranti.
9. Il prodotto non contiene né olio di palma né grassi idrogenati né conservanti né coloranti.

E per concludere, la negazione  deve essere preceduta dalla virgola o essa è consigliabile solo in avvio di una proposizione particolarmente complessa (ad esempio: “La donna non parlò, né avrebbe voluto farlo nelle ore successive”)?

RISPOSTA:

​La congiunzione  può essere scomposta in due componenti, e + NEG (‘negazione’). Se ricordiamo tale composizione risulta più facile stabilire quale delle varianti da lei proposta sia ben formata e quale sia ridondante o difettosa. In particolare, la 1., la 4. e la 7. vanno bene, perché la negazione contenuta in senza ed esplicitata nella 7. si applica a tutti gli elementi degli elenchi che seguono, rendendo superfluo ribadirla. La 1. e la 7. andrebbero bene anche sostituendo la e con una ulteriore virgola.
La ripetizione della negazione, comunque, non può essere considerata un errore, vista la tolleranza dell’italiano per la doppia negazione; per questo motivo le frasi 3. e 5. vanno ugualmente bene. Qualche precisazione meritano le altre.
Nella 2. la negazione ripetuta solamente per l’ultimo elemento dell’elenco crea una asimmetria che lo fa emergere sugli altri (ciò è molto meno percettibile, ovviamente, se l’elenco è bimembre, come nella frase 5.). In questa frase tale focalizzazione dell’attenzione sull’ultimo elemento non sembra giustificata, alla luce della natura degli elementi dell’elenco, ma l’emittente potrebbe avere qualche motivo per mettere in evidenza coloranti sul resto degli ingredienti. In ogni caso, più efficace a questo scopo sarebbe una congiunzione più pregnante: “Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e neppure / e neanche coloranti”, oppure la ripetizione di senza, preferibilmente accompagnata dalla virgola: “Senza olio di palma, grassi idrogenati, conservanti, e senza coloranti”.
La stessa riflessione vale per la frase 8., che può essere parafrasata, nella sua composizione attuale, così: “Il prodotto non contiene olio di palma, grassi idrogenati, conservanti e non contiene coloranti”.
La costruzione della 6. (senza né) e della 9. (non + ) è in astratto ridondante, eppure molto comune, quindi generalmente accettabile, tanto nel parlato e nello scritto poco sorvegliato, quanto in letteratura, al fine di mantenere gli elementi di un elenco sullo stesso piano. Un esempio di questo uso è in questo brano dallo Zibaldone di Leopardi: “Ma il giovane senza presente né futuro, cioè senza né beni, attività, piaceri, vita ec.  speranze e prospettiva dell’avvenire, dev’essere infelicissimo e disperato”; un altro è in questo estratto, più recente, dal romanzo Suo marito di Pirandello: “apparve subito chiaro agli occhi di Silvia che cosa egli avesse compreso senza né sdegno  offesa”.
Per quanto riguarda i segni di interpunzione, essi dipendono dall’omogeneità dei membri coordinati. All’interno di elenchi di elementi analoghi, la virgola prima di  non è formalmente richiesta (visto che  “contiene” la congiunzione e), ma è bene inserirla, visto che convenzionalmente gli elenchi sono separati dalle virgole: “Non voglio andare (né) in macchina, né in treno, né in aereo”. Lo stesso vale per elenchi di proposizioni: “Non voglio andare in macchina, né voglio andare in treno, né voglio andare in aereo”. Negli elenchi bimembri si fa più facilmente a meno della virgola, che, però, si può sempre usare: “Non voglio andare (né) in macchina né in treno”; “Non voglio andare in macchina né voglio andare in treno”.
Quando non ci si trova in una sintassi elencativa, ma gli elementi hanno una relazione più complessa tra loro, la presenza della virgola mette in evidenza una separazione tematica. Per fare una riflessione del genere, abbandoniamo l’analisi della frase e prendiamo quella dell’enunciato, cioè osserviamo lo scopo comunicativo della frase. In questo ambito possiamo riconoscere le relazioni semantiche tra gli enunciati e, al loro interno, la presenza di unità tematiche di primo piano e unità tematiche di sfondo. In un enunciato come “Ti ho detto che non voglio andare, né è il caso che lo ripeta”, il segmento introdotto da  non rappresenta il secondo elemento di un elenco, ma è una precisazione rispetto al primo segmento; funge, cioè, da unità tematica di sfondo (mentre “Ti ho detto che non voglio andare” è l’unità tematica di primo piano). In questi casi, la virgola è necessaria. Se, per fare un esperimento, la togliessimo (“Ti ho detto che non voglio andare né è il caso che lo ripeta”) il lettore sarebbe portato a interpretare la seconda parte dell’enunciato come dipendente da ho detto, ma costruita male; come se fosse “Ti ho detto che non voglio andare e che non è il caso che lo ripeta”.
Ancora, nel caso in cui  unisca non due unità tematiche, ma due enunciati, deve essere preceduto non dalla virgola, ma da un punto e virgola, o un punto: “Ti ho detto che non voglio andare; né voglio che insisti a portarmi”; “Ti ho detto che non voglio andare. Né mi piace che continui a insistere”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione, Registri
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Si dice “Ho visto in televisione” oppure “Ho visto alla televisione”?

RISPOSTA:

Alla televisione rimanda alla funzione precipua della preposizione a riferita a luoghi. Rispetto a in, che è pertinente allo spazio, a riguarda gli ambienti, cioè le attività, le procedure, le abitudini, le funzioni svolte tipicamente in determinati spazi. Per questo motivo, di ritorno da un viaggio diciamo “Sono a casa”, intendendo il nostro ambiente privato opposto al mondo esterno, non “Sono in casa”, ovvero nello spazio delimitato dai muri dell’abitazione. Per lo stesso motivo, se sentiamo che qualcuno si trova all’ospedale pensiamo che sia senz’altro malato, perché è ricorso alle procedure mediche tipiche di quell’ambiente, mentre se si trova in ospedale potrebbe essere malato, oppure essere in visita a un parente, o essere un dottore.
Alla televisione, quindi, significa ‘nell’ambiente dei programmi televisivi’, con riferimento alla trasmissione delle immagini, opposta alla testimonianza diretta. L’espressione in televisione si è imposta oggi nell’uso probabilmente per via della confusione tra televisione e televisore ‘elettrodomestico utile a mostrare le immagini trasmesse per mezzo della televisione’. In televisione, cioè, significa quasi ‘all’interno del televisore’, come in vetrinain stanzain ospedale ed è, pertanto, meno preciso. La larghissima diffusione di in televisione, comunque, rende questa espressione pienamente legittima in quasi tutti i contesti, sebbene sia sempre possibile preferire alla televisione, in ossequio alla precisione semantica.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei entrare nel merito dei modi verbali che si possono – o si devono – impiegare nelle subordinate completive, in particolare nelle oggettive. 
Se non sbaglio, in più occasioni avete sottolineato che in un registro formale si possa sempre usare il congiuntivo, benché l’indicativo risulti spesso la scelta più comune e largamente tollerata. Prima di apprendere tali indicazioni, tendevo a suddividere i possibili costrutti di tipo completivo in due categorie: quelli governati da verbi che richiedono l’indicativo e quelli governati invece da verbi che indulgono al congiuntivo. In altre parole, la distinzione che determinavo non seguiva l’asse formalità (congiuntivo) / “colloquialità” (indicativo). 
Pensavo, ad esempio, che la frase “Ho capito che cosa vuoi veramente” fosse preferibile (ma anche più ligia alla grammatica) a “ho capito che cosa tu voglia veramente”, come “affermo che avete regione” anziché “affermo che abbiate ragione” ecc. 
Per concludere, vi sarei riconoscente se mi chiariste questi dubbi: 
1. Con la completive oggettive si può sempre usare il congiuntivo, anche se il costrutto affermativo è retto da verbi dichiarativi o di giudizio o percezione, quali, tra gli altri, constataredirericordarerisponderescriveresostenerevedere ecc.?
2. Se, in determinate soggettive e oggettive, si usasse l’indicativo (ad esempio “È evidente che ha sbagliato”, “Sostengo che ha smesso di lavorare”, “Dico che i colleghi non sono in grado”, “Ha dimostrato che i ragazzi erano scappati” ecc.) si svilupperebbe comunque un registro sintattico medio-alto, adatto anche a contesti sorvegliati? (Mi vengono in mente i tanti “Sostiene Pereira che…” seguiti dall’indicativo che ho sempre ritenuto essere un esempio da manuale).

RISPOSTA:

Confermo che il congiuntivo sia la scelta più formale per le proposizioni completive, sebbene l’indicativo sia più comune, e in certi casi adatto a quasi tutti i contesti. Da rivedere, pertanto, l’idea che sia proprio il congiuntivo la variante meno “ligia alla grammatica”, ovvero meno aderente all’italiano standard.
I casi più favorevoli alla scelta dell’indicativo sono quelli in cui il verbo della proposizione reggente contenga nel suo significato il tratto della certezza (come sapereaffermareconstatare, i verbi di percezione in genere) e la reggente stessa sia affermativa e al presente. Questo avviene perché il modo indicativo veicola una sfumatura di fattività, mentre il congiuntivo è il modo della volizione e dell’eventualità. La semantica, pertanto, si intreccia con il registro e rende accettabili scelte diverse, a seconda di quale ragione l’emittente vuole far prevalere. Ci sono addirittura alcuni casi divenuti quasi canonici, con verbi reggenti dalla semantica ambigua, nei quali la maggioranza dei parlanti concorderebbe per una interpretazione semantica della scelta tra indicativo e congiuntivo: “Credo / penso che tu sei una brava persona” (= ‘ne sono sicuro’) contro “Credo / penso che tu sia una brava persona” (= ‘lo penso anche se non ne ho le prove’). Coerentemente con questa interpretazione semantica, il congiuntivo diventa preferibile al passato: “Credevo / pensavo che tu fossi (molto più sciatto eri) una brava persona”, per la controfattualità che emerge da una simile costruzione, o, per la stessa ragione, se la reggente diviene negativa, anche al presente: “Non credo / penso che tu sia (molto più sciatto sei) una brava persona”. A prescindere dalla convinzione generale, comunque, la ragione diafasica (il grado di formalità) è sempre presente e il congiuntivo rimane la scelta più formale anche con il verbo reggente costruito affermativamente e al presente.
Con verbi reggenti assertivi e di percezione, come detto, il congiuntivo è decisamente marcato verso l’alto, soprattutto quando questi verbi sono costruiti affermativamente al presente: “So / vedo che tu sei (molto formale sia) una brava persona”. Tale preferenza per l’indicativo è più sfumata al passato: “Sapevo / vedevo che tu eri (molto formale fossi) una brava persona”, ma si perde quasi del tutto con la costruzione negativa al passato: “Non sapevo / vedevo che tu fossi (o eri) una brava persona”. Per la costruzione negativa al presente dobbiamo cambiare verbi reggenti (spiegherò il motivo subito sotto) e, come si vede, il congiuntivo è anche qui preferibile o almeno sullo stesso piano dell’indicativo: “Non affermo / sento che tu sia (o sei) una brava persona”.
Con sapere e vedere costruiti negativamente al presente la subordinata oggettiva è innaturale (*”Non so che tu sia / sei una brava persona”). Possiamo, però, trasformarla in una interrogativa indiretta; osserviamo che, così, il congiuntivo diviene un’alternativa ancora più vicina alla medietà: “Non so / vedo se tu sia (o sei) una brava persona”.
In moltissimi casi, comunque, l’indicativo è una scelta talmente diffusa tra i parlanti che deve essere considerata adatta a molti contesti, anche di media formalità. Tra questi rientrano certamente i romanzi rivolti al grande pubblico, come il giustamente famoso Sostiene Pereira da lei citato, che aspirano a un modello di lingua comune. Anche in questo romanzo, non a caso, ci sono casi di congiuntivo in completive rette da verbi al passato; in questo brano, ad esempio, si susseguono una soggettiva e una oggettiva: “gli pareva strano, sostiene, che una persona che aveva formato riflessioni così profonde sulla morte non pensasse all’anima. E dunque pensò che ci fosse un equivoco”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Credo che la frase “Penso che la vicenda non interessi a nessuno” sia corretta; vorrei sapere se lo sia anche quella che si ha volgendo in negativo la reggente e trasformando in affermativa la subordinata: “Non penso che la vicenda interessi a nessuno”. Ho sentito pronunciarla di recente da un personaggio pubblico; personalmente, avrei sostituito nessuno con qualcuno
Vorrei poi sapere, rimanendo sempre in tema di nessuno e simili, se una frase come “durante la mia assenza ti sei intrattenuto con qualcuna?” (sottintendendo qualche donna) possa essere considerata valida oppure sia meglio lasciare il pronome al maschile, come se fosse invariato.

 

RISPOSTA:

​L’italiano ammette la doppia negazione, del verbo e del pronome, sebbene a volte questa abitudine provochi qualche ambiguità. In alcuni casi, anzi, la doppia negazione è senz’altro richiesta; nella sua prima frase, ad esempio, la forma con la sola negazione del pronome (“Penso che la vicenda interessi a nessuno”) sarebbe innaturale, mentre quella con la negazione solamente del verbo (“Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”) sarebbe ben formata, ma molto formale.
Il fenomeno che lei ha notato nella frase “Non penso che la vicenda interessi a nessuno” è quello della “risalita” di un elemento dalla subordinata alla reggente. Di solito la risalita riguarda il pronome clitico in frasi con verbi servili (“Posso capirlo” ma anche “Lo posso capire”), con verbi modali (“Comincio a capirlo” ma anche “Lo comincio a capire”), con verbi di moto (“Vengo a prenderti con la macchina”, ma anche “Ti vengo a prendere con la macchina”). Sono tutti casi in cui sussiste una forte solidarietà tra la reggente e la subordinata, per cui le due proposizioni vengono trattate come una sola. Lo stesso avviene per la negazione. 
La risalita del pronome atono è ormai del tutto acclimata, tanto da non destare l’attenzione di quasi nessun parlante. Quella della negazione è altrettanto comune, e altrettanto accettabile, sebbene produca una frase leggermente diversa rispetto a quella intesa dal parlante: nel suo caso, ad esempio, il parlante sostiene di aver formulato un pensiero (penso che…) riguardo allo scarso interesse per la vicenda, non di non aver formulato un pensiero (non penso che) riguardo a quell’argomento.
La sua proposta di sostituire nessuno con qualcuno (“Non penso che la vicenda interessi a qualcuno”) non è calzante: produrrebbe, infatti, una frase dal significato diverso, equivalente a “Penso che la vicenda non interessi a qualcuno”. Il pronome qualcuno, cioè, suggerirebbe che secondo il parlante ci sia qualcun altro a cui la vicenda interessa. La variante con una sola negazione sarebbe, piuttosto, “Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”, o, al limite, “Non penso che la vicenda interessi ad alcuno”. 
Nella seconda frase, il pronome qualcuna riferito implicitamente a donna è corretto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase
Se non ti disturbo, verrei a trovarti stasera
è tollerabile anche in un linguaggio sorvegliato o il periodo ipotetico tradizionale
Se non ti disturbassi, verrei a trovarti stasera
È sempre consigliato?

 

RISPOSTA:

In questo caso non è tanto in gioco il rapporto tra un registro più formale (con la protasi al congiuntivo) e uno più informale (all’indicativo), bensì una diversa sfumatura semantica dei due costrutti, entrambi perfettamente standard, corretti e adatti anche in uno stile formale. Il primo esempio, tipico caso di periodo ipotetico misto, combina una protasi della realtà con un’apodosi (cioè la principale) dell’eventualità. Usando una frase siffatta, il parlante (o lo scrivente) intende manifestare la propria volontà di andare a trovare l’interlocutore, sfumando, per cortesia e buona educazione, la propria volontà sia mediante l’ipotetica (se non disturbo) sia mediante il condizionale epistemico che attenua la perentorietà di “vengo a trovarti di sicuro”.
La seconda frase, invece, manifesta una maggiore incertezza (in virtù della protasi al congiuntivo, tipica del periodo ipotetico dell’eventualità). In altre parole, chi sente o legge la frase ha la netta impressione che la persona che la usa non andrà a trovare l’interlocutore, vuoi perché è convinta di disturbarlo, vuoi perché non ne ha, poi, tutta questa voglia.
I due periodi oggetto della domanda, dunque, non sono affatto intercambiabili. È sempre bene fare attenzione alle sfumature della lingua, per non incorrere in spiacevoli incidenti diplomatici o simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In alcune delle vostre recenti risposte, avete parlato di costruzione implicita ed esplicita, elencando una serie di casi in cui la prima è obbligatoria. 
“Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo”, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela”, “Non so se io possa partire”, “Credo che mi sia sbagliato” sono da considerarsi sbagliate, anche se la specificazione del pronome, a parte l’ultimo esempio, fuga ogni dubbio riguardo alla persona cui si riferisce il verbo? 
Relativamente alla penultima frase, se sostituissimo il congiuntivo con il futuro indicativo, si migliorerebbe la qualità del linguaggio?
“Non si può escludere di dover prendere provvedimenti” o “Non si può escludere che dovremo prendere provvedimenti”?
“Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” è giusta o anche in questo caso sarebbe meglio la costruzione implicita?
“Non c’è motivo che io parli” o “non c’è motivo per/di parlare”?
“I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”.

 

RISPOSTA:

Riguardo alla sostituzione del congiuntivo con l’indicativo, valga la considerazione generale che quando la costruzione ammette tanto l’indicativo quanto il congiuntivo, il congiuntivo è sempre l’alternativa più formale.
Venendo al problema della costruzione implicita, la proposizione finale che ha lo stesso soggetto della reggente richiede la costruzione implicita, quindi *”Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo” deve essere corretta in “Ho scelto il vestito per poterlo indossare”. All’opposto, in “Non so se io possa partire” la proposizione subordinata è una interrogativa indiretta introdotta da se, che non ammette la costruzione implicita; la frase “Non so di poter partire”, infatti, non sarebbe equivalente a “Non so se io possa partire”, bensì a “Non so che io posso partire”, che ha un significato diverso.
Negli altri casi del primo gruppo, le proposizioni subordinate sono oggettive. Queste proposizioni, introdotte dalla congiunzione che nella forma esplicita, ammettono la costruzione implicita e, anzi, la preferiscono (sebbene non si possa parlare, in questo caso, di obbligo). Quindi a “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” va preferita “Ho dubitato spesso di potercela fare”; a “Credo che mi sia sbagliato” va preferita “Credo di essermi sbagliato”.
C’è, però, una considerazione da fare a proposito dell’opportunità di mantenere la costruzione esplicita anche con queste proposizioni: quando il parlante vuole enfatizzare l’identità del soggetto della subordinata, la costruzione esplicita diventa pienamente giustificata quasi sempre (questo vale persino per la proposizione finale). Pertanto, ferma restando la generale preferibilità della costruzione implicita, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” e “Credo che mi sia sbagliato” sono accettabili se l’intento del parlante è quello di enfatizzare il soggetto io.
Le frasi del secondo gruppo presentano qualche difficoltà in più: la prima ha una costruzione impersonale nella reggente (“Non si può escludere”), che favorisce la scelta della variante personale nella subordinata, nel caso in cui il parlante voglia evitare che tutta la proposizione sia impersonale.
La seconda ha, sempre nella reggente, una costruzione personale, ma deontica (cioè di obbligo: “Non dobbiamo dimenticarci”); tale costruzione rende possibile una doppia interpretazione pragmatica (cioè relativa allo scopo) dell’enunciato: se rimaniamo ancorati al significato del verbo, la subordinata va assimilata alle oggettive viste sopra (quindi preferisce la costruzione implicita, ma ammette quella esplicita, soprattutto per enfatizzare il soggetto); se, invece, diamo maggior peso alla costruzione deontica, la subordinata è assimilata a quelle rette dai verbi di comando (come comandareordinareconsigliaresuggerire ecc.), che sono sempre implicite quando il soggetto coincide con il destinatario dell’obbligo.
In altre parole, “Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” riceve facilmente un’interpretazione informativa; “Non dobbiamo dimenticarci di non sapere mai abbastanza” viene interpretata, piuttosto, come regolativa. Per rendere la differenza ancora più evidente, proviamo a sostituire non dobbiamo dimenticarci con ricordiamoci: “Ricordiamoci che non sappiamo mai abbastanza” suona come un avviso; “Ricordiamoci di non sapere mai abbastanza” è, piuttosto, un ordine.
In “Non c’è motivo che io parli” il soggetto della subordinata non coincide con quello della reggente, quindi la costruzione esplicita è del tutto legittima. La costruzione implicita (“non c’è motivo di parlare”) va anche bene, ovviamente, con la differenza che in questo caso il soggetto della subordinata è impersonale, come quello della reggente. La forma “Non c’è motivo per parlare” è anche possibile, ma in questa frase la proposizione subordinata non è completiva, bensì causale.
In “I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”, infine, la subordinata è relativa, non completiva (qui che ha funzione non di congiunzione, ma di pronome) e le due costruzioni sono ugualmente legittime; come di norma, comunque, anche in questo caso quella implicita è più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho scorto in letteratura questi esempi, scritti peraltro da autori di grande caratura:
“Dopo che fummo usciti dalla stanza, ella si portò in sala da pranzo”.
“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”.
“Dopo che ci eravamo salutati, l’ispettore mi mise a parte di una confidenza”.
“Dopo che eravamo entrati nel locale, ho detto al barman…”
“Dopo che sua moglie fu estromessa dall’eredità, Giulio ha perso la testa”.

Come vedete, ho raccolto con l’aiuto di mio figlio tutti gli incroci (per così dire) possibili, tra passato remoto e passato prossimo nelle principali e i trapassati nelle secondarie. Ho letto le discussioni con cui avete affrontato l’argomento, in particolare la 2800183, ma mi sono permesso ugualmente di avanzare la richiesta di ulteriori chiarimenti. Apprezzerei molto la vostra opinione sui suddetti esempi.
Un’ultima curiosità: in un noto testo grammaticale, per illustrare l’uso di dopo che nelle temporali si trova questo periodo: “di intese programmatiche si discuterà dopo che gli alleati prenderanno atto…”. Do per scontato che il costrutto sia corretto; ma per esemplificare la regola standard, non sarebbe stato meglio propendere al futuro anteriore avranno preso atto?

 

RISPOSTA:

​Le frasi che ha raccolto per esemplificare l’uso del passato remoto, del passato prossimo e dei trapassati prossimo e remoto sono tutte ben formate e mostrano, tra le altre cose, sia che due azioni avvenute nel passato possono essere espresse da due passati, senza il ricorso al trapassato (“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”), sia che il passato prossimo può oggi sostituire il passato remoto in ogni situazione, senza conseguenze semantiche apprezzabili.
Per quanto riguarda il suo appunto sull’esempio usato dalla grammatica scolastica, effettivamente lo standard vorrebbe il futuro anteriore, ma così come si può dire “Dopo che abbiamo parlato” (insieme a “Dopo che avevamo parlato”), anche il doppio futuro semplice è più che legittimo.
Spesso si criticano le grammatiche perché offrono una rappresentazione della lingua troppo lontana dalla realtà: in questo caso gli autori hanno tentato di avvicinarsi un po’ all’uso reale; è una scelta discutibile, ma comprensibile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle risposte ai quesiti, ribadite spesso che l’identità di soggetto tra proposizioni reggenti e subordinate richiede, e a volte impone, la costruzione implicita. Partendo dal presupposto che seguendo questo suggerimento non si cadrebbe mai in errore, quali sono i casi in cui la costruzione esplicita è comunque ammessa (pur essendo sconsigliata) e quelli in cui invece è vietata?
Mi è capitato di leggere o ascoltare frasi quali “Spero che io sia stato chiaro”, “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”. Sono esempi da penna rossa?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra forma esplicita e forma implicita (rappresentata dall’infinito) riguarda le proposizioni subordinate che nella forma esplicita sono introdotte dalla congiunzione che e ammettono, o richiedono, il modo congiuntivo. Tali proposizioni, quindi, sono le completive soggettive e oggettive, le finali, che sono introdotte da perché (per + che) o affinché (al + fine + che), le consecutive e le temporali introdotte da prima che, che vogliono il congiuntivo (non quelle introdotte da dopo che, che vogliono l’indicativo, né, tanto meno, quelle introdotte da quandomentre ecc.).
In quattro casi la forma implicita è obbligatoria:
1. Con la proposizione finale sempre: “Ti parlo per farti capire il mio pensiero” (non *”Ti parlo perché io ti faccia capire il mio pensiero”); “Luca è venuto per studiare con me per l’esame” (non *”Luca è venuto perché studiasse con me per l’esame”); “Verranno per arrestarti” (non *”Verranno perché ti arrestino”).
2. Quando la proposizione soggettiva ha un soggetto che coincide con il soggetto logico della reggente: “A me piace viaggiare” (non *”A me piace che viaggio”); “A Luca è sembrato giusto chiedermi scusa” (non *”A Luca è sembrato giusto che mi chiedesse scusa”); “Domani ti sembrerà di aver agito bene?” (non *”Domani ti sembrerà che hai agito bene?”). In realtà in questo caso l’obbligo è, come spesso accade, in parte elastico; in particolare con il verbo sembrare l’infrazione è meno evidente (qualche esempio di “Ti sembra che hai…” e simili è rinvenibile on line, in sedi non squalificate). Questo avviene probabilmente perché sotto la costruzione con sembrare si insinua quella con pensare e simili, come se nella mente del parlante si creasse una confusione tra il modello “Ti sembra che…” e il modello “Pensi che…”. Con quest’ultimo, come si vedrà tra poco, la costruzione implicita è sì consigliata (“Pensi di aver fatto bene” è preferibile a “Pensi che hai fatto bene”), ma meno rigidamente.
3. Nelle oggettive rette da un verbo di comando, consiglio e simili. Attenzione: in questo caso l’identità che fa scattare l’obbligo non è tra i soggetti, ma tra il soggetto della subordinata e il destinatario del comando, consiglio ecc.: “Ti ordino di sistemare la stanza” (non *”Ti ordino che tu sistemi la stanza”); “Ho consigliato a Giulia di partire presto domani” (non *”Ho consigliato a Giulia che parta presto domani”); “Chiederò loro di aiutarmi con il lavoro” (non “Chiederò loro che mi aiutino con il lavoro). Si badi che nell’ultima frase il verbo chiedere è usato con il significato di ‘richiedere’, assimilabile ai verbi di comando; se, invece, lo usiamo con il significato di ‘domandare’ le cose cambiano: “Chiederò loro che intendono fare riguardo alla mia offerta”. Come si nota, qui la proposizione subordinata non è una oggettiva, ma una interrogativa indiretta, e che non è una congiunzione, ma un pronome interrogativo (infatti può essere sostituito da che cosa).
4. Quando tanto la reggente quanto la subordinata sono impersonali: “Bisogna comportarsi bene” (ma “Bisogna che tu ti comporti bene”); “Si stabilì di partire all’alba” (ma “Si stabilì che partissimo all’alba”); “Prima di agire è bene riflettere” (ma “Prima che tu agisca è bene che tu rifletta”).
Nella maggior parte degli altri casi, la costruzione implicita è consigliata ed è comunque la variante più formale, ma quella esplicita è comune e accettabile in contesti informali e mediamente formali. Il grado di accettabilità del costrutto esplicito non è costante, ma è soggetto alla semantica e alla reggenza del verbo reggente e ad altri fattori circostanziali. Ad esempio, la proposizione oggettiva vista prima: “Pensi che hai fatto bene?” è più accettabile di “Spero che io sia stato chiaro”, decisamente più sciatto di “Spero di essere stato chiaro” (si noti, a margine, che il congiuntivo sia, uguale per le prime tre persone, obbliga qui l’esplicitazione del soggetto pronominale, per evitare la concordanza automatica con un soggetto di terza persona). Anche il secondo esempio da lei proposto: “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”, mi sembra al limite dell’accettabilità; meglio “Prima che uscisse di casa, non aveva salutato nessuno” (e comunque la costruzione più formale è “Prima di uscire, non aveva salutato nessuno”).
La proposizione consecutiva è quella più libera su questo fronte; ammette quasi sempre, infatti, il costrutto esplicito senza un evidente scarto diafasico (ovvero di formalità): “Sono tanto stanco che non voglio uscire per una settimana” è valida tanto quanto “Sono tanto stanco da non voler uscire per una settimana”. Tale peculiarità di questa proposizione è dovuta probabilmente al fatto che contiene necessariamente un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Come si vedrà sotto, proprio questa circostanza avvantaggia la costruzione esplicita su quella implicita.
Va detto che il costrutto esplicito è quasi sempre possibile se il parlante intende enfatizzare il soggetto della subordinata, come in questo esempio letterario: “Facendomi onore mi chiese che collaborassi anch’io” (Vittorio Gorresio, La vita ingenua, 1980). Persino la finale ammette tale possibilità: “Ho lavorato tanto affinché avessi il premio anch’io”. Si noterà che in questi casi il soggetto viene inserito preferibilmente alla fine della subordinata, perché veicola una informazione nuova, che si trova tipicamente nella parte destra dell’enunciato. Anche se lo anticipassimo, ci troveremmo a pronunciarlo (o immaginare di pronunciarlo nella nostra testa) con un’intonazione marcata: “Ho lavorato tanto affinché ANCH’IO avessi il premio”. Più o meno lo stesso avviene quando l’enfasi ha una funzione contrastiva: “Ho pensato che io (e non altri) ho la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto affinché io (e non altri) avessi il premio”​. In questo caso, la novità del soggetto può essere rimarcata dividendo in due parti la subordinata (costruendo quella che viene definita una frase scissa): “Ho pensato che sia io (e non altri) ad avere la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto perché fossi io (e non altri) ad avere il premio”. Come si vede dagli esempi, peraltro, anche nella frase scissa permane la preferenza per la costruzione implicita della subordinata che ha lo stesso soggetto della reggente e che sarebbe introdotta da che se fosse esplicita: “ad avere la responsabilità…” (non *”che ho la responsabilità”); “ad avere il premio” (non *”che io abbia il premio”).
C’è, infine, un caso nel quale, nonostante l’identità di soggetto, è la costruzione esplicita a essere preferibile: quello delle completive che contengono un’azione futura rispetto alla reggente (si tratta della circostanza a cui abbiamo accennato a proposito della proposizione consecutiva). Tale preferenza è dovuta al fatto che l’infinito non ha il tempo futuro in italiano, quindi bisogna ricorrere alla costruzione finita per segnalare che l’evento della subordinata è posteriore rispetto a quello della reggente: “Credo che farò uno spuntino” (“Credo di fare uno spuntino” significherebbe che sono incerto se io stia facendo uno spuntino); “Pensai che avrei fatto uno spuntino” (in questo caso si usa il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato). L’infinito presente, per la verità, può anche esprimere un’azione futura, per cui quasi sempre il costrutto implicito risulta trasparente: “Penso di fare uno spuntino” e “Pensai di fare uno spuntino”, per esempio, sono ben formati, anche se l’azione di fare uno spuntino è posteriore rispetto al pensare. Con il verbo credere il costrutto implicito è meno felice perché credere può significare tanto ‘valutare’ quanto ‘non essere certo’ e può ingenerare confusione.

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quali modi e tempi verbali si devono usare nelle proposizioni introdotte da senza che o dopo che nei periodi che sto per scrivervi?
1) Ho visto il documentario senza che io abbia avuto (avessi / avessi avuto) la possibilità di fare una pausa. (P. S. E se sostituissimo il passato prossimo della principale con il passato remoto, come si costruirebbe la subordinata?)
2) È andato in vacanza senza che io ne fossi stato informato.
3) Finiranno le ferie senza che avrò avuto (abbia avuto) la possibilità di riposare.
4) Gli esperimenti sarebbero eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / sarebbero state) completate.
5) Gli esperimenti saranno eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / siano state / saranno state) completate.

 

RISPOSTA:

La scelta del tempo del congiuntivo migliore per le subordinate nelle frasi da lei proposte dipende in parte dalla consecutio temporum, in parte dalla logica.
Nella frase 1) tutte le varianti sono da scartare, in favore della costruzione implicita: “Ho visto il documentario senza avere / avere avuto la possibilità di fare una pausa”. L’identità di soggetto tra la reggente e la subordinata consiglia, e a volte richiede, tale costruzione. Se, invece, modifichiamo la frase in modo che i soggetti delle due proposizioni siano diversi (ad esempio “Hai cambiato canale senza che io abbia potuto / potessi / avessi potuto chiederti di non farlo”), la situazione cambia completamente e tutte le varianti diventano possibili. La scelta tra l’una e l’altra dipende dal rapporto temporale che vogliamo stabilire tra i due eventi, il cambiamento di canale e la richiesta di non cambiare canale, nonché dall’aspetto che vogliamo attribuire al tempo della richiesta. Il congiuntivo passato stabilisce un rapporto di contemporaneità e attribuisce un aspetto momentaneo alla richiesta, mette, cioè, in evidenza che l’azione si è (o, in questo caso, non si è) verificata in quel preciso momento, contemporaneo rispetto all’azione del cambiare canale. L’imperfetto instaura lo stesso rapporto di contemporaneità nel passato con il verbo della reggente, ma ha un aspetto durativo, quindi comunica che l’azione non si è verificata in un lasso di tempo all’interno del quale è avvenuta l’azione del cambiamento di programma. Il trapassato, più semplicemente, implica che la richiesta non è stata fatta prima del cambiamento di canale (anteriorità nel passato).
Se al posto di hai cambiato mettessimo cambiasti non cambierebbe niente. Lo stesso discorso vale per la frase 2).
Nella frase 3) avrò avuto è da scartare non in quanto tempo, ma in quanto modo indicativo, rifiutato dalla congiunzione senza che. Il verbo reggente della frase è al futuro, che, nell’ambito della consecutio temporum al congiuntivo, si comporta come il presente. I tempi del congiuntivo ammissibili sono, pertanto, il passato per l’anteriorità e il presente per la contemporaneità e la posteriorità. A questo punto, entra in gioco la logica: è chiaro che la possibilità di riposare si sia manifestata prima della fine delle vacanze, non contemporaneamente a essa, né, a maggior ragione, dopo. L’unica possibilità, pertanto, è quella da lei stessa prospettata, con il congiuntivo passato: “Finiranno le ferie senza che abbia avuto la possibilità di riposare”. In una frase dal contenuto diverso, il presente sarebbe stato senz’altro possibile, o addirittura preferibile; ad esempio: “L’allarme suonerà senza che i ladri se ne accorgano”.
Nella frase 4) il verbo reggente è condizionale presente; in questo caso abbiamo due possibilità: se costruiamo il periodo come un periodo ipotetico (quindi assimiliamo dopo che a se), la forma del verbo corretta nella subordinata è il congiuntivo imperfetto fossero completate, proprio della protasi del periodo ipotetico della possibilità. Se, invece, consideriamo il condizionale sarebbero eseguiti come una variante di cortesia dell’indicativo presente, quindi diamo alla congiunzione dopo che pieno valore temporale, per cui sottolineiamo il rapporto temporale di anteriorità dell’evento della subordinata rispetto a quello della reggente, presente, sceglieremo il congiuntivo passato siano state completate, coerentemente con la consecutio temporum.
Per quanto riguarda saranno eseguiti nella frase 5), infine, ribadiamo che il futuro nella consecutio temporum si comporta come il presente, quindi la forma del verbo della subordinata sarà il congiuntivo passato siano state completate (anteriorità rispetto al presente o al futuro). In realtà, dopo che non seleziona obbligatoriamente il congiuntivo (diversamente da senza che, ma anche da prima che): non è da escludere, pertanto, il futuro semplice saranno completate, né quello composto saranno state completate, che instaurano con il futuro della reggente un rapporto di anteriorità o contemporaneità specificamente nel futuro, impossibile da rappresentare al congiuntivo, per la mancanza di un tempo futuro in quel modo. Come sempre, la variante con l’indicativo è più comune, ma meno formale; decisamente sciatta, ma pur sempre possibile, è anche quella con il corrispondente indicativo di siano state completate, il passato prossimo sono state completate​ (lo stesso vale per la frase 4). Le altre forme sono da scartare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

DOMANDA

Gentilissimi professori, sottopongo alla vostra analisi le seguenti frasi lette di recente:

a. Proprio ieri mi hanno domandato se era vero che due mesi fa ho incontrato il mio socio.
b. L’alunno si è ammalato ieri e starà a casa fino alla prossima settimana. È un vero peccato: la prossima settimana sarebbe stato in gita per due giorni.
c. Tutte le donne presenti, a quelle parole, si toccarono la bocca.
d. Quando eravamo piccoli si cantava le canzoni. Oggi si hanno i minuti contati.
Esempio a: non pensate che il secondo passato prossimo ho incontrato debba essere sostituito dal trapassato prossimo? Forse sbaglio, ma mantenerlo, come nell’esempio, non significherebbe situare l’azione di due giorni fa sullo stesso piano temporale di ieri?
Esempio b: se avessimo sostituito sarebbe stato con avrebbe dovuto essere o doveva essere, avremmo ottenuto costruzioni equivalenti e ugualmente corrette oppure no? Qual è, secondo voi, quella preferibile?
Esempio c: una volta per tutte: la frase è corretta o sarebbe stato meglio declinare al plurale anche il sostantivo bocca? Aggiungo: si dice la cima dei monti o le cime dei montila punta delle dita o le punte delle dita? la grammatica ci viene in soccorso con un regola universale per gestire la concordanza oppure ogni caso va analizzato a sé?
Esempio d: se non sbaglio, la prima frase riporta un si riflessivo che sostituisce la prima persona plurale. È sempre tollerato o si tratta di un toscanismo da evitare? La seconda è, invece, sempre se non sbaglio, una costruzione con il si passivante. Come si fa (o fanno???) a conoscere i casi in cui il si riflessivo è da preferire al si passivante e viceversa?

 

RISPOSTA

a. Entrambe le varianti sono possibili; il passato prossimo indica semplicemente che l’incontro è avvenuto nel passato rispetto al momento dell’enunciazione (adesso), il trapassato (avevo incontrato) aggiunge il dettaglio che l’incontro è avvenuto prima rispetto a un momento diverso da quello dell’enunciazione, coincidente con quello in cui è stata fatta la domanda. Proprio per questo motivo, se usiamo il trapassato prossimo, dobbiamo cambiare anche il complemento di tempo relativo a quell’evento, da due mesi fa a due mesi prima: l’avverbio (originariamente una forma verbale) fa, infatti, può riferirsi solamente al momento dell’enunciazione.
Va detto che, sebbene il passato prossimo ho incontrato sia formalmente equivalente al passato prossimo hanno domandato, non bisogna pensare che i due eventi siano rappresentati come contemporanei: essi sono, piuttosto, rappresentati entrambi come passati, senza una relazione reciproca esplicita. Tale relazione, peraltro, si ricava chiaramente dai complementi di tempo, ieri e due mesi fa.
b. La variante con il verbo servile non cambia molto dal punto di vista sintattico, ma aggiunge, ovviamente, una sfumatura semantica potenziale. La costruzione con l’imperfetto del verbo dovere dal punto di vista semantico presenta l’evento della gita come già stabilito, dal punto di vista sintattico è meno formale, sebbene molto comune.
c. Il singolare è la forma più attesa, sebbene il plurale non sia scorretto. Il singolare suggerisce che ognuno dei soggetti toccò la sua bocca; il plurale specifica che le bocche sono più di una, come i soggetti che le toccano (una specificazione, ovviamente, superflua).
Una considerazione simile si può fare per la punta delle dita, con la differenza che le dita sono più di una per ogni persona (diversamente dalla bocca), quindi la specificazione del plurale è meno superflua: la frase idiomatica sarà sempre “si contano sulla punta delle dita”, ma è del tutto giustificata una frase come “Può capitare di sentire le punte delle dita addormentate” (come anche, del resto, “Può capitare di sentire la punta delle dita addormentata”). Il caso di la cima / le cime dei monti è diverso: le due varianti hanno due significati diversi. La cima dei monti indica il punto più alto di una catena montuosa; le cime dei monti indica la cima di ognuno dei monti considerati. Come si può vedere, più che una questione di grammatica, qui è in gioco la logica.
d. La costruzione noi si cantava non è passiva, bensì impersonale; indica, infatti, che l’azione è compiuta da un soggetto imprecisato, non che essa ricade sul soggetto stesso. L’esplicitazione del soggetto di prima persona plurale, tipica della Toscana, ma ben attestata nella tradizione letteraria in italiano, sembra confliggere con l’impersonalità del costrutto, ma in realtà bisogna ricordare che i costrutti sintatticamente impersonali sottintendono sempre un soggetto logico. Anche il secondo si è impersonale, e infatti sottintende il soggetto logico noi: “Oggi si hanno i minuti contati” equivale a “Oggi abbiamo i minuti contati”, oppure a “Oggi tutti hanno i minuti contati”. Anche in “Come si fa a conoscere i casi”, si fa è impersonale (equivalente a facciamo). La costruzione “Come si fanno a conoscere i casi”, pertanto, è scorretta, sebbene molto diffusa in contesti informali; è indotta dall’attrazione esercitata dal complemento oggetto plurale casi sul verbo fare, come se proprio i casi fosse il soggetto di fare (infatti nessuno direbbe mai *”Come si fanno a conoscere il caso”).
La prego, per il futuro, di mandarci una domanda alla volta. Le domande complesse ci mettono in difficoltà perché non si possono classificare con precisione per l’archivio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Cari linguisti, a seguito della lettura di alcune vostre risposte sono sorte in me diverse incertezze che desidererei risolvere con il vostro contributo.
Alla luce di questa risposta, la costruzione “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avrebbe procurato” è giusta oppure sarebbero preferibili “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato” o “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”?
Trasformando il discorso diretto “Disse: ‘Chiunque ti aggredirà, si troverà nei guai'” in indiretto, si ottiene 
“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” oppure “disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”?
Oltre al passato prossimo, esistono altri tempi verbali che sono coinvolti dalla funzione deittica? Potrebbe essere il caso del trapassato remoto nella frase “Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”?
In tale esempio, il trapassato indicherebbe anteriorità rispetto alla principale e non rispetto al momento dell’enunciazione. 
A proposito dell’esempio 4 di questa risposta, spiegate che la soluzione con il congiuntivo è corretta e più formale rispetto a quella con l’indicativo. Non metto in dubbio, sia chiaro, il vostro giudizio, ma trattandosi di una frase positiva, retta da un verbo che indica certezza, non sarebbe addirittura più formale l’indicativo, come nei casi: “Ho capito chi sei”, “So che cosa vuoi”, “Ho notato dove andavi”, “Mi rendo conto che sei brava”?

 

RISPOSTA:

Rispetto alla frase analizzata nella risposta  (“Se tu fossi qui, non sapresti con chi ti toccherebbe parlare”), il suo primo esempio presenta una differenza dirimente: la proposizione introdotta da chi non è una interrogativa indiretta, bensì una relativa. Dal momento che le proposizioni relative sono molto autonome per quanto riguarda la scelta dei modi e dei tempi (mentre le completive, tra cui le interrogative indirette, sono fortemente vincolate), la costruzione con il congiuntivo trapassato (“Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”) è, nel suo caso, corretta. Non solo: la sua frase ha diverse varianti possibili.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo ha procurato”: qui la relativa è costruita come propria, all’indicativo, e presenta l’azione del procurare come passata, quindi automaticamente anteriore rispetto allo stato dell’essere responsabile.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse”: qui la relativa è costruita come impropria, in particolare come una ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse = se qualcuno lo procurasse la responsabilità sarebbe sua).
– Infine, come da lei proposto, “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”: simile alla precedente, presenta l’azione del procurare come fortemente ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato = se qualcuno lo avesse procurato la responsabilità sarebbe sua).
Scorretto (o quanto meno difficilmente giustificabile) è il congiuntivo passato (*”Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”), perché questa forma del verbo non si usa nella proposizione ipotetica, che influenza la scelta del modo congiuntivo nella relativa.
Ragionamento simile vale per questo dubbio (“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” o “Disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”): entrambe le varianti sono corrette. Nel primo caso la subordinata è considerata una relativa propria, equivalente a “Disse che colui che lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai”, con l’azione dell’aggredire posteriore rispetto all’azione del dire, ma pur sempre nel passato. Nel secondo caso è modellata su una ipotetica, come se fosse “Disse che se qualcuno lo avesse aggredito, costui si sarebbe trovato nei guai”.
I tempi deittici sono quelli che situano l’azione, l’evento o lo stato in un momento assoluto, passato, presente o futuro; i tempi anaforici (i trapassati, il futuro anteriore e il condizionale passato nella funzione di futuro nel passato) fanno, invece, riferimento a un’azione, un evento o uno stato diversi rispetto al momento dell’enunciazione. Il passato prossimo è un tempo deittico, non anaforico. Nella sua frase (“Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”), il trapassato prossimo (non remoto) era arrivata indica che l’arrivo della macchina è (o non è) anteriore a un momento nel passato. Tale momento potrebbe essere sia quello della richiesta della chiamata (colui che ha fatto la richiesta, quindi, non sapeva ancora, al momento della richiesta, se la macchina fosse arrivata o no) sia quello della chiamata, perché anche questa, per quanto si sia verificata oggi, precede il momento dell’enunciazione, quindi è passata. Ci sono, quindi, tre piani temporali: quello dell’enunciazione, cioè adesso, quello della richiesta e quello della chiamata, che sono passati, e quello dell’arrivo (o del mancato arrivo) della macchina, che precede i due momenti passati.
Il congiuntivo nelle completive è sempre la scelta più formale; non bisogna confondere, però, formale con comune: è prevedibile, infatti, che la variante più comune sia proprio quella meno formale. Anzi, in dipendenza da alcuni verbi (che esprimono certezza, come essere sicuro), specie all’interno di specifiche costruzioni (frasi affermative al presente), l’indicativo si è imposto quasi come unica scelta; di conseguenza, in questi casi il congiuntivo è oggi percepito come scorretto e il suo uso è sconsigliato se non in contesti di alta formalità. L’opportunità di usare il congiuntivo va, comunque, valutata caso per caso. Nei suoi esempi, la variante con il congiuntivo è quasi sempre possibile, sebbene poco comune: “Ho capito chi tu sia”, “So che cosa tu voglia”, “Mi rendo conto che tu sia brava”. Nell’esempio della risposta (“Sapevo che Marco voleva/volesse parlarle”), il verbo reggente, sapere, preferisce l’indicativo nella subordinata, ma all’imperfetto ammette il congiuntivo. Ecco un esempio letterario a sostegno di questa posizione: “Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco” (Mario Rigoni Stern, Il sergente della neve, 1953, p. 68).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le frasi a seguire, secondo voi, sono corrette? 

1. “Coinvolgi tutto il reparto – avrebbe potuto aver detto il capo in quell’occasione” (la criticità consiste nell’associazione condizionale composto-infinito passato).

2. “Si potrebbe scegliere una destinazione la cui distanza dall’Italia non sia (o fosse?) esagerata”;

3. “Gli spiegò chi fosse (o era?)”;

4. “Sapevo che Marco voleva (o volesse?) parlarle”;

5. “È chiaro/evidente/fuor di dubbio che la nipote non vuole (o voglia?) più studiare”;

6. “Sono sicuro/certo che ogni giorno abbia (o ha?) la sua pena”;

7. “Sono a conoscenza del fatto che abbia (o ha?) discusso con ognuno dei suoi amici”.

 

RISPOSTA:

​La frase numero 1 è ben formata, sebbene la sequenza di due tempi composti la faccia suonare strana. Non a caso, è giustificata solamente all’interno di una situazione insolita: indica, infatti, che in un momento passato rispetto al momento in cui viene enunciata la frase qualcuno abbia concepito il dubbio che il capo in un momento ancora anteriore avesse dato quell’ordine. Diviene più chiara se esplicitiamo il contesto: “Andrea pensò che il capo avrebbe potuto aver detto di coinvolgere tutto il reparto”.
La numero 2 richiede il presente (sia), perché la proposizione relativa richiede di norma il tempo verbale che rispecchia il tempo dell’azione o dello stato designato. In questo caso, lo stato della distanza dall’Italia è ovviamente presente.
Le frasi 3-7 sono ben formate sia con il congiuntivo, sia con l’indicativo: il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più colloquiale (infatti tipica del parlato).
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Congiuntivo: modo il cui perfetto utilizzo non finisce mai di mettermi in ansia esagerata.
1) Non voglia mai il cielo che venissero contestati sia il mio che il vostro titolo.
2) Non voglia mai il cielo che vengano contestati sia il mio che il vostro titolo.
Quale è preferibile?

3) Che importa se quest’uomo era realmente così, se come tale è accettato ancora oggi!
4) Che importa se quest’uomo fosse realmente così, se come tale è accettato ancora oggi!
Quale delle frasi è errata?

 

RISPOSTA:

Tra le prime due frasi, la seconda è quella più aderente alla norma standard. La consecutio temporum, infatti, richiede che in dipendenza da un tempo presente (nel suo esempio voglia) la subordinata al congiuntivo prenda il presente (quindi vengano contestati) se il rapporto tra i due eventi è di contemporaneità (o di posteriorità). Se la reggente avesse il congiuntivo imperfetto (“Non volesse mai il cielo che”), nella subordinata sarebbero ammessi sia il presente (vengano contestati), sia l’imperfetto (venissero contestati).
Tra le seconde due frasi, la prima è meno formale (ma non scorretta); la seconda è più formale, da preferire in contesti scritti e anche parlati non familiari.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

 La frase “Volevo chiederti quando potessi venire da te” può essere considerata corretta?

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il congiuntivo nella proposizione interrogativa indiretta è la soluzione più formale. Corrette sono anche le varianti con il congiuntivo presente (“quando possa venire da te”), che rende l’eventualità più concreta rispetto al congiuntivo imperfetto, e quella con il condizionale (“quando potrei venire da te”), che subordina l’azione del venire a una condizione implicita, quella dell’assenso da parte dell’interlocutore (per esempio “se tu volessi”). Possibile anche l’indicativo presente (“quando posso venire da te”), meno formale ma del tutto appropriato in una conversazione tra pari. Possibile anche, sempre in un registro informale, l’indicativo imperfetto (“quando potevo venire da te”), che, spostando l’azione nel passato, risulta meno diretto del presente.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Incontro un po’ di difficoltà nel completare la seguente frase: “L’arrivo di tua sorella farebbe sì che… salti saltasse salterebbe il programma di domani”. L’espressione fare sì che, se non erro, impone l’uso del modo congiuntivo, come le congiunzioni sebbenebenché eccetera. So, però, che esse accettano talvolta anche il modo condizionale. È forse il caso anche dell’esempio che è al centro del mio dubbio?

 

RISPOSTA:

La forma più corretta sarebbe salti, che rispetta il rapporto di contemporaneità nel presente con il verbo della reggente farebbe (per approfondire questo punto potrebbe consultare le altre risposte dell’archivio di DICO che riguardano la consecutio temporum). Il condizionale salterebbe non è impossibile, per via dell’attrazione da parte di quello della proposizione reggente, che rappresenta l’apodosi di un periodo ipotetico (completato dalla protasi “L’arrivo di tua sorella”, ovvero “Se arrivasse tua sorella”). Si tratta, però, di una scelta meno formale. Non a caso, facendo una ricerca on line, troviamo entrambi i costrutti; quello con il congiuntivo in una fonte più affidabile (e firmata), quello con il condizionale in una meno titolata (e non firmata):

“La pratica consentirebbe semplicemente di ‘mirare’ meglio i messaggi pubblicitari e ciò, oltre a rendere più redditizia la pianificazione delle aziende, farebbe sì che anche la navigazione degli utenti sia più piacevole” (Riccardo Staglianò, in repubblica.it: http://www.repubblica.it/online/tecnologie_internet/privacy/doubleclick/doubleclick.html).

“Per accedere alla pensione anticipata, però, a meno che il governo non blocchi l’aumento dell’età pensionabile di 5 mesi prevista a partire dal 1 gennaio 2019, saranno necessari 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi di contributi per le donne, questo farebbe sì che la sua pensione decorrerebbe a partire dal 2020″ (https://www.notizieora.it/affari/pensione-anticipata-o-quota-100-nel-2019-valutiamo/).

Escluderei, infine, il congiuntivo imperfetto saltasse.
Una piccola nota di stile: vista la frequenza d’uso della parola che, dovuta alle sue tante funzioni, è consigliabile evitare tale parola ogni volta che sia possibile. In questo caso, per esempio, la frase potrebbe essere efficacemente riformulata così: “L’arrivo di tua sorella comporterebbe l’annullamento del programma di domani”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, ho riportato qui sotto alcuni esempi di frasi sui quali nutro dei dubbi circa la lo composizione. Ho usato la barra per separarne le alternative:
“Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”.
“Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”.
“Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema”.
“Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”.
“Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda”.
“Tutti i terzi livello/terzo livello/terzi livelli in seno all’azienda, dovranno presentare formale disdetta”.

 

RISPOSTA:

​Il dubbio relativo alla scelta tra il condizionale e il congiuntivo accomuna le seguenti frasi: “Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”, “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”, “Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Nei tre casi, entrambe le opzioni sono valide: il condizionale rappresenta la scelta richiesta dalla consecutio temporum, visto che il verbo esprime un evento successivo rispetto a un altro evento passato (posteriorità nel passato). In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate. L’evento è quello espresso dal verbo di dire, pensare o simili della proposizione principale, esplicitato nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avrebbero acquistato i biglietti”, sottintesa nelle altre due: “(Dichiarò/pensò che) avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero presentati”, “(Dichiararono/pensarono che) quando sarebbero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Rispetto a questa relazione temporale, quella tra gli eventi delle due subordinate passa in secondo piano e non viene rappresentata al livello morfologico. La sostituzione dei condizionali con i congiuntivi conferisce agli eventi una sfumatura di potenzialità: ad esempio, nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero acquistato i biglietti” si suggerisce che l’acquisto dei biglietti è ancora da decidere e potrebbe non avvenire.
Nella protasi del periodo ipotetico della realtà “Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema” è preferibile l’indicativo presente.
Nella frase “Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda” è preferibile il plurale; il singolare costituisce un caso di concordanza ad sensum, fenomeno largamente accettato, ma da evitare in contesti di media e alta formalità, e soprattutto nello scritto.
Infine, l’unica parola ben formata (tecnicamente si tratta di una unità polirematica) è i terzo livello, che è invariabile perché fa parte di un’espressione più ampia, nella quale la parte variabile è sottintesa: il (soggetto inquadrato / i soggetti inquadrati nel) terzo livello. Si tratta, comunque, di un termine burocratico, da evitare in contesti estranei all’ambito dell’amministrazione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei apprendere la giusta sintassi delle proposizioni reggenti nei casi in cui la subordinata sia introdotta da qualoranel caso chese.
Mi spiego meglio: se non erro, qualora nel caso che pretendono il modo congiuntivo e tollerano i vari tempi di esso; ma non sono certa che le forme riportate di seguito siano tipiche del linguaggio colloquiale e quindi da evitare:
“Qualora volesse, può (oppure potrebbe?) scegliere il libro che preferisce”.
“Qualora voglia, potrebbe (oppure può?) scegliere il libro che preferisce”.
“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò (oppure andrei?) a casa”.
“Se non ci fossero le condizioni, lascerò (anziché lascerei) perdere”.
“Se per te non è un problema, potrei contattarti domani oppure Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani”.

 

RISPOSTA:

La scelta dei tempi verbali per la protasi e per l’apodosi del periodo ipotetico deve tener conto della relazione sintattica che la protasi ha con l’apodosi, ma anche delle possibili sfumature semantiche risultanti da accostamenti insoliti.
La soluzione più comune per il periodo ipotetico detto della possibilità o del secondo tipo è quella con il congiuntivo imperfetto nella protasi e il condizionale imperfetto nell’apodosi. Rispetto a questa, le frasi da lei proposte con il congiuntivo imperfetto nella protasi e l’indicativo presente o futuro nell’apodosi (“Qualora volesse, può scegliere il libro che preferisce” e “Se non ci fossero le condizioni, lascerò perdere”), lungi dall’essere errate, veicolano una sfumatura di certezza che le rende più dirette e adatte a contesti informali. Si veda questo esempio letterario (nel quale si imita un tipo di parlato colto) per il caso del futuro: “Sì e no… Ma soprattutto se è no, rispondermi ti servirà di allenamento, qualora ti trovassi costretto a dire alla Polizia di essere stato a Milano” (Vasco Pratolini, Un eroe del nostro tempo, 1949, p. 199). Questo altro esempio, invece, dimostra che l’indicativo (presente, ma lo stesso si può dire del futuro), con la sua sfumatura fattuale, può essere funzionale anche in un contesto tecnico-scientifico: “né la prospettiva muta, qualora volesse ritenersi che il datore debba comunque edurre il lavoratore a termine delle maggiori esigenze” (Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, 2011, p. 296).
Per quanto riguarda la frase con il congiuntivo presente nella protasi (“Qualora voglia, potrebbe/può scegliere il libro che preferisce”), la soluzione più comune è quella con il presente indicativo nell’apodosi. Si viene, così, a formare quello che viene definito periodo ipotetico della realtà o del primo tipo. Si consideri che, in questo caso, se sostituiamo qualora con se, il congiuntivo presente diviene quasi innaturale, e la costruzione normale prevede l’indicativo tanto nella protasi quanto nell’apodosi. Il condizionale nell’apodosi non è, comunque, scorretto, ma si configura come variante più indiretta e cortese.
Da quanto detto finora consegue che le seguenti frasi, da lei poste come alternative, sono entrambe valide, ma diverse: “Se per te non è un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del primo tipo, con il condizionale di cortesia nell’apodosi; “Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del secondo tipo canonico.
Allo stesso modo, l’ultima frase (“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò/andrei a casa”) può essere interpretata in due modi, entrambi perfettamente validi e ugualmente formali. Se interpretiamo non fosse arrivato come un evento ormai concluso, siamo di fronte a un’ipotesi irreale (perché sappiamo che lui, in realtà, è arrivato), che richiede, nell’apodosi, un condizionale passato (in questo caso sarei andato o sarei andata). In questo modo si viene a costituire un periodo ipotetico dell’irrealtà o del terzo tipo. Se, invece, interpretiamo non fosse arrivato come evento ancora attuale, che presenta l’ipotesi come da verificare (non sappiamo, cioè, se lui sia effettivamente arrivato), rientriamo nella fattispecie del periodo ipotetico del secondo tipo, descritto sopra; in questo caso, quindi, nell’apodosi ci si aspetta un condizionale presente (andrei) o, con la sfumatura di certezza di cui si è detto, un indicativo futuro, o persino presente (se si vuol suggerire che la decisione di andare a casa non ammette deroghe).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il congiuntivo presente rispettino. Lo ritenete preferibile all’indicativo presente rispettano?
Grazie

“…E tu scegli parole che sfiorando le cose
ne rispettino la figura,
tenendosi alla giusta distanza
per non ingannare, per non ingannarsi”

 

RISPOSTA:

​La scelta tra indicativo e congiuntivo nella proposizione relativa è quasi sempre una questione di sfumature, non di correttezza. In generale, ricordiamo che il congiuntivo nelle subordinate rappresenta la scelta più formale, mentre l’indicativo è oggi più comune nel parlato e nello scritto informale. Il congiuntivo, inoltre, conferisce all’azione una sfumatura di eventualità che l’indicativo, modo della fattività, non possiede. La frase così costruita (“scegli parole che… ne rispettino la figura”) suggerisce che il rispetto è possibile, non scontato, per cui né l’emittente né il soggetto della scelta (è difficile distinguere il punto di vista dell’uno da quello dell’altro) possono garantire che la scelta produca l’effetto desiderato. Diversamente, l’indicativo (“scegli parole… che ne rispettano la figura”) suggerisce che il soggetto scelga le parole con la certezza che queste realizzino il suo scopo (sebbene si tratti sempre di una certezza psicologica, non oggettiva, anche in questo caso attribuibile al soggetto stesso o all’emittente, o a entrambi).
Dal punto di vista sintattico, va sottolineato che la costruzione del referente parole senza articolo o altro modificatore (per esempio un aggettivo dimostrativo) rende la scelta dell’indicativo un po’ forzata (ma in un testo poetico questo può anche essere un artificio ricercato consapevolmente), sebbene non scorretta, perché la certezza espressa dall’indicativo è più coerente con un referente determinato.
La questione della scelta tra indicativo e congiuntivo è stata affrontata in molte altre risposte, che può leggere nell’archivio di DICO, usando il motore di ricerca interno (con la parola chiave congiuntivo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

Le consiglio di usare il plurale, che è la forma più rigorosa dal punto di vista grammaticale. Il singolare rappresenterebbe una scelta meno precisa, che potrebbe essere giustificata in un contesto parlato, come una lezione, o scritto di formalità medio-bassa, come un articolo non specialistico o una comunicazione tra non esperti. Va detto che l’attrazione esercitata dall’ultimo referente sull’aggettivo è molto forte, tanto che la sbavatura dell’accordo in “Arte e civiltà etrusca” è poco percepibile; questo è dimostrato, tra l’altro, dal titolo del catalogo di una mostra del 1955: Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, aprile-giugno 1955, Milano, Palazzo reale, Silvana editore.
L’esistenza di questa e di altre attestazioni di ambito specialistico dovrebbe rassicurare sulla legittimità dell’accordo al singolare; la considerazione sul rigore grammaticale, però, rimane: sta, dunque, al parlante valutare l’adeguatezza dell’una o l’altra variante in base al contesto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “Se dovessi sapere che mia figlia avrebbe anche lei questi comportamenti ci rimarrei male”?
Grazie

 

RISPOSTA:

Nella frase, le due parti del periodo ipotetico sono “Se dovessi sapere” e “ci rimarrei male”. La prima, detta protasi, presenta la condizione che potrebbe provocare una conseguenza; la seconda, detta apodosi, presenta la conseguenza che potrebbe essere provocata dalla condizione. Nella protasi del periodo ipotetico si può usare il modo indicativo o il congiuntivo, mentre nella apodosi, che è una proposizione indipendente, possiamo trovare tutti i modi verbali, compreso il condizionale. 
La terza proposizione contenuta nella sua frase (si tratta di una proposizione oggettiva), “che mia figlia avrebbe anche lei questi comportamenti”, si viene a trovare in mezzo tra le due parti del periodo ipotetico, e questo può farci pensare che sia parte dell’apodosi. Essa, invece, dipende dalla protasi e non ha un rapporto diretto con l’apodosi. Il modo verbale da usare all’interno di questa proposizione, quindi, segue le regole comuni delle proposizioni oggettive, ovvero può essere l’indicativo o il congiuntivo. La scelta tra i due modi dipende sia dal grado di formalità che si vuole usare, sia dal grado incertezza che si vuole attribuire all’evento: “che mia figlia ha anche lei questi comportamenti” è meno formale e presenta l’evento come più realistico; “che mia figlia avesse anche lei questi comportamenti” è più formale e presenta l’evento come più incerto. Il fatto che l’oggettiva sia dipendente da una proposizione al congiuntivo, comunque, deve far propendere per la scelta del congiuntivo.
In generale, le proposizioni oggettive possono avere anche il condizionale, anche in dipendenza da una protasi di periodo ipotetico, ma solo quando presentano un evento futuro rispetto a un altro passato (“Se avessi saputo che tu saresti voluto andare in vacanza, avrei prenotato”), oppure un evento contemporaneo, con una sfumatura di futuro (“Se sapessi che mia figlia avrebbe un vantaggio a seguire un corso di informatica, la iscriverei subito”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si dice comunemente, ad esempio: “E’ mezzogiorno e un quarto”. Dato che la congiunzione designa un soggetto plurale, la concordanza non stabilirebbe l’uso del verbo “sono”?
“Sarebbe bello incontrarci” o “incontrarsi” nel senso di “sarebbe bello che noi ci incontrassimo”?

 

RISPOSTA:

Mezzogiorno e un quarto è considerato un’entità unica, anche se è identificata linguisticamente da un’espressione con la congiunzione e: per questo si concorda con il verbo al singolare. Espressioni che si comportano allo stesso modo sono pane e formaggio, tira e molla e simili.
“Sarebbe bello incontrarci” e “sarebbe bello incontrarsi” sono varianti della stessa frase che non hanno la stessa accettabilità: il primo caso è meno corretto, perché incontrarci, essendo infinito, richiede identità di soggetto con la proposizione reggente, che è, invece, impersonale. Il secondo caso, al contrario, mantiene correttamente l’impersonalità anche nella subordinata all’infinito.
Bisogna comunque considerare che la variante incontrarci ha il vantaggio di specificare chi si dovrebbe incontrare, risultando più amichevole, laddove incontrarsi è più distaccata, per via dell’impersonalità. In un contesto colloquiale, pertanto, la variante più scorretta sarà preferita e, tutto sommato, accettabile; in un contesto più formale e sostenuto, invece, è preferibile quella sintatticamente corretta.
Una terza alternativa, personale ma corretta, è la seguente: “Sarebbe bello che ci incontrassimo”; tale costruzione articolata, però, rischia di essere ancora meno apprezzata in un contesto colloquiale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Salve, si può dire “Le cose andranno come dovranno andare” oppure si è obbligati al “…come devono andare”? 

 

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette, ma quella con i due futuri è più formale e più precisa, perché circoscrive il secondo evento al caso specifico; quella con il presente nella proposizione comparativa è più approssimativa grammaticalmente (ma comunque non scorretta) e più generica.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

​Nella seguente frase, “La prossima estate prendi poco sole, così può essere che due neuroni ti rimangono in vecchiaia”, è più corretto usare il congiuntivo (rimangano) o l’indicativo (rimangono)?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. Bisogna precisare che l’alternanza tra indicativo e congiuntivo contrassegna i diversi contesti d’uso: nell’esempio proposto, si presume una profonda familiarità con la persona, quindi un contesto informale, che induce all’uso dell’indicativo. La scelta del congiuntivo, invece, è da preferire in contesti di alta formalità (ma raramente si direbbe questa frase in un contesto formale).

La invito a interrogare l’archivio delle domande di DICO con le parole chiave congiuntiv e indicativ, per vedere altri esempi a cui abbiamo risposto nel tempo.

Raphael Merida

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Premettendo che mi riferisco a situazioni informali e colloquiali (discorsi a voce o messaggi whatsapp ad esempio), e non a situazioni quali temi scolastici, relazioni di lavoro o comunque elaborati scritti, vorrei porvi il seguente quesito: frasi come “Abbiamo fatto tardi, meglio che non c’eri”, o “Pensa se non nascevi”, o “L’accordo era che tu venivi sabato e io ti sostituivo lunedì” sono corrette o comunque utilizzabili in luogo del sicuramente più opportuno congiuntivo, o anche nelle situazioni più easy non vanno usate?

RISPOSTA:

​L’uso dell’indicativo imperfetto in luogo del congiuntivo trapassato (“Pensa se non nascevi” = “Pensa se tu non fossi nato”) e del condizionale passato (“L’accordo era che tu venivi sabato e io ti sostituivo lunedì” = “L’accordo era che tu saresti venuto sabato e io ti avrei sostituito lunedì”) è molto comune nella lingua comune ed è da considerarsi accettabile in contesti di parlato informale e anche mediamente formale. Nello scritto anche mediamente formale, invece, è preferibile usare la struttura standard.
Le faccio notare che nella frase “Meglio che non c’eri” l’indicativo imperfetto è effettivamente il tempo richiesto; non sarebbe possibile sostituirlo con ci fossi stato.
​Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi propongo un breve elenco di frasi che mi è capitato di leggere o sentire in TV. Ho inserito tra parentesi le mie varianti. Vi sarei grata se per ognuno dei casi proposti mi esponeste la vostra opinione.
1. Peccato tu non abbia comprato il costume: avresti potuto indossarlo quando fossi andata al mare.
2. Se verrai a trovarmi, potresti fermarti a pranzo. (Se venissi a trovarmi, potresti fermarti a pranzo oppure Se verrai a trovarmi, potrai fermarti a pranzo.)
3. Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sono/saranno aperti. (Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sarebbero stati aperti.)
4. Se fossero stati amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più. (Se fossero amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più.)
5. Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi finiranno. (Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi saranno finiti.)
6. I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, anche in antologia o su piattaforme online. (I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, neppure in antologia né su piattaforme online.)
7. Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 o alle 7 (Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 né alle 7 oppure […] non debba presentarmi né alle 6 né alle 7.)
8. Se venisse qui, non saprebbe neppure con chi avrebbe a che fare.

RISPOSTA:

​Nell’ordine:
1. è ben formata. Interessante è la congiunzione quando, qui equivalente a qualora, che introduce una proposizione temporale-ipotetica, coincidente con la protasi del periodo ipotetico composto insieme all’apodosi “avresti potuto indossarlo”.
2. Le tre varianti sono tutte valide. La prima è descrivibile come periodo ipotetico misto, con l’apodosi al condizionale passato e la protasi all’indicativo. I tre tipi “canonici” di periodo ipotetico, realtà, possibilità, impossibilità, non devono essere considerati gli unici possibili: l’incrocio tra essi è una risorsa sfruttabile al fine di esprimere varie sfumature di significato. In questo caso specifico, l’apodosi al condizionale, invece che all’indicativo, serve a formulare un invito, mentre la variante “potrai fermarti a pranzo” esprime solamente l’astratta possibilità che ciò avvenga e suona meno accogliente. Il periodo ipotetico della possibilità (“se venissi… potresti fermarti”), invece, mantiene l’aspetto di invito dell’apodosi, ma sposta la protasi dall’indicativo al congiuntivo, rendendola più dubbiosa. Questa formulazione indica che l’emittente non vuole sbilanciarsi riguardo alla possibilità che l’evento si realizzi, o perché non ci tiene, o perché vuole lasciare piena libertà di scelta al ricevente (quindi come forma di cortesia).
3. Vanno bene entrambe le varianti. Quella con il presente è meno formale.
4. Vanno bene entrambe le varianti. La prima (“Se fossero amici… avrebbero parlato di più”) è un periodo ipotetico misto; la protasi al congiuntivo imperfetto esprime una sfumatura di dubbio riguardo al fatto che le due persone siano effettivamente amici, e che, quindi, non si siano parlate per qualche ragione ignota. Diversamente, la protasi al congiuntivo trapassato dà per presupposto che i due non siano amici.
5. Dicasi lo stesso che per la frase 3. Qui il futuro semplice è meno formale. Mi concentrerei, però, su “entro tutto il mese prossimo”, che sostituirei con “entro la fine del mese prossimo”.
6. La variante da lei proposta è migliore, perché più chiara, sebbene non si possa dire che l’altra sia errata. L’italiano tollera bene la doppia negazione, e la preferisce in casi ambigui, quindi per coordinare una proposizione negativa a un’altra pure negativa è preferibile neanche o neppure, rispetto a anche. Una volta sostituito anche con neanche o neppure, la congiunzione o può rimanere oppure essere sostituita da .
7. Qui non è in gioco la coordinazione, quindi la prima frase va bene. Anche la seconda va bene: come detto per la frase 6, se la negazione della proposizione è chiara, o e  sono quasi intercambiabili. Nella terza, la doppia negazione “a meno che non debba presentarmi né alle 6…” suona eccessivamente esplicita: la eviterei.
8. Ben formata.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

a) “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” oppure “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dicesse/dica cosa fare”?

b) “Non è concesso astio” o “Non è concessa rabbia”?

c) “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo ti avvicinerai a me…” o “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”?

d) “Non è venuto Mario, né i suoi genitori” o “Non è venuto Mario, né sono venuti i suoi genitori”?

e) “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia poteva determinare” oppure “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia avrebbe potuto/potrà/potrebbe determinare”?

f) “Se (domani) non fossi stato impegnato, ti avrei accompagnato io (domani) al concerto”.

g) “Potrai consumare i ticket quando metterai di nuovo piede in quel locale” oppure “Potrai consumare i ticket quando mettessi di nuovo piede in quel locale”?

 

RISPOSTA:

a) La frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” è corretta, perché la proposizione relativa introdotta da che è attratta nello stesso modo (condizionale) della reggente (“non ci sarebbe nessuno”). La proposizione relativa restrittiva rappresenta un’espansione che qualifica in qualche modo il referente (in questo caso nessuno): è normale, quindi, che venga costruita con lo stesso modo della reggente quando quest’ultima proposizione è all’indicativo o al condizionale.
La variante con il congiuntivo presente, e persino quella con l’indicativo presente, nella relativa non sono scorrette, sebbene suonino innaturali per via della forte attrazione del condizionale della reggente. La relativa, infatti, può effettivamente prendere il congiuntivo per esprimere una qualche sfumatura semantica, per esempio epistemica (se chi parla non è certo di ciò che sta dicendo: “Non c’è mai nessuno che mi aiuti quando mi serve”). Nella frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dica cosa fare” il congiuntivo esprime una sfumatura volitiva rispetto alla situazione reale, come se fosse “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece, per mia fortuna, c’è, che mi dica cosa fare”. Rispetto a questa frase, l’indicativo esprimerebbe la fattualità della presenza del consigliere: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece c’è, che mi dice cosa fare”. Il significato cambia pochissimo rispetto alla versione con il congiuntivo presente, ma la costruzione è meno formale.
Il congiuntivo imperfetto, a sua volta, esprimerebbe una volizione più ipotetica: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come io vorrei, che mi dicesse cosa fare”. La frase così costruita suggerisce che il consigliere non c’è, diversamente dalle altre varianti, che danno il consigliere come esistente.

b) Tanto “Non è concesso astio” quanto “Non è concessa rabbia” sono combinazioni libere, cioè non cristallizzate nell’uso (come, ad esempio “guardare con astio” o “sfogare la rabbia”); le due varianti, pertanto, vanno considerate ugualmente valide e la scelta dell’una o dell’altra va valutata in base alla sfumatura di significato che distingue i due sinonimi astio e rabbia, ma anche in base al fatto che astio è meno comune, più ricercato di rabbia.

c) Sicuramente da preferire la sua variante. Nel caso di più soggetti di terza persona uniti dalla congiunzione o, il verbo può concordare con uno solo oppure con tutti: “Se Luca o qualcun altro si avvicina/si avvicinano mi metto a urlare”). Nella sua frase, però, il cambio di persona tra il primo e il secondo soggetto rende molto forzata la concordanza con uno solo dei due, che esclude l’altro. La concordanza alla seconda persona plurale risolve il problema: “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”.

d) La ripetizione del verbo ogni volta che cambia la persona del soggetto è la scelta più corretta e formale; un’altra alternativa ugualmente corretta, che permette di risparmiare la ripetizione, è “Non sono venuti né Mario, né i suoi genitori”, che riunisce entrambi i soggetti nella terza persona plurale (allo stesso modo della frase precedente “Se Luca o qualcun altro si avvicinano mi metto a urlare”). Molto comune è, comunque, la concordanza implicita con solo il primo dei soggetti, favorita dalla correlazione tra le congiunzioni né… né, che non lasciano dubbi sul fatto che il secondo sintagma nominale abbia la stessa funzione del primo (sia, quindi, un altro soggetto). Questa soluzione è più sbrigativa, ma, ovviamente, meno formale.

e) La variante corretta e più formale è il condizionale passato (avrebbe potuto), che esprime il futuro nel passato. La variante con l’imperfetto indicativo (poteva) è anche corretta (perché l’imperfetto ha, tra le sue funzioni, anche quella di esprimere il futuro nel passato), ed è di gran lunga la più comune, ma è meno formale. Le altre non sono valide.

f) Se ho ben capito, questa domanda riguarda il posto migliore nel quale inserire l’avverbio di tempo. Le due varianti sono ugualmente ben formate e quasi identiche in quanto al significato. Sarebbe superfluo, invece, ripeterlo in entrambe le proposizioni.

g) Le frasi sono ben formate, ma non equivalenti per il significato. Se manteniamo tutto all’indicativo il periodo risulta costruito con una proposizione principale e una subordinata temporale. Se, però, inseriamo il congiuntivo nella subordinata, la funzione di quando passa da temporale a ipotetica (la congiunzione diviene, cioè, assimilabile a se), trasformando tutta la frase in un periodo ipotetico. La proposizione principale, “Potrai consumare i ticket”, diviene, pertanto, l’apodosi, e “quando (tu) mettessi/metta di nuovo piede in quel locale” diviene la protasi. L’apodosi all’indicativo di solito richiede il congiuntivo presente nella protasi, che, infatti, risulta l’opzione migliore anche in questo caso: “Potrai consumare i ticket quando tu metta di nuovo piede in quel locale”. Il congiuntivo imperfetto è possibile, ma un po’ forzato: “Potrai consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale” indicherebbe che la possibilità remota del ritorno del soggetto nel locale comporterebbe la certezza della consumazione dei ticket. Con il congiuntivo imperfetto, infatti, sarebbe più atteso il condizionale nell’apodosi: “Potresti consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale”.
Si noti che davanti alla seconda persona del congiuntivo presente e imperfetto va sempre esplicitato il soggetto tu, altrimenti il ricevente è indotto a credere che il verbo sia alla prima o alla terza persona: nel congiuntivo presente, infatti, le prime tre persone coincidono; nell’imperfetto coi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, mi permetto di contattarvi per un piccolo chiarimento. Spiego brevemente il contesto. Uno degli autisti dell’azienda per la quale io lavoro, stamattina ha visto che gli mancava della merce sul camion. Prontamente lui ha avvertito la ditta. Ascoltando il mio collega mentre avvertiva il mio titolare sull’accaduto, noto che lui finisce la frase in questo modo: “Ora c’è da capire perché gli mancasse” ( nel senso che dovevano capire perché quella merce mancava sul camion). Ecco, il mio dubbio era proprio questo: il mio collega aveva ragione nell’uso del congiuntivo oppure era più corretto dire: “Ora c’è da capire perché gli è mancata”?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra congiuntivo e indicativo è soprattutto presente nelle interrogative indirette: la causa di tale fenomeno è da ricercarsi forse nella coscienza dei parlanti, che tendono ad annullare la differenza tra interrogative dirette (sempre all’indicativo) e indirette (“c’è da chiedersi perché mancasse” / “c’è da chiedersi: perché è mancata?”). Nel suo caso, entrambe le frasi sono corrette: esiste però una sfumatura diversa. Nell’interrogativa indiretta, l’anteriorità rispetto alla reggente viene espressa da un passato prossimo (meno frequenti l’indicativo imperfetto, il passato remoto o il trapassato prossimo), o dal congiuntivo passato (meno frequenti congiuntivo imperfetto e trapassato). La frase, a seconda dei contesti, può essere resa nei seguenti modi: – c’è da capire perché gli è mancata [mancava / mancò / era mancata]. – c’è da capire perché gli sia mancata [mancasse / fosse mancata]. La soluzione con il congiuntivo, preferibile in contesti d’uso di alta formalità, è più aderente alla grammatica standard; quella con l’indicativo, adatta a contesti d’uso di media formalità, ha il vantaggio di essere più chiara (non c’è bisogno, infatti, di esplicitare il soggetto). 
Raphael Merida

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Volevo sapere se, oltre a “fare la spesa al tuo mercato preferito”, si possa dire anche “fare la spesa sul tuo mercato preferito”. Secondo me no, ma ho preferito chiedere. Vi ringrazio.

 

RISPOSTA:

L’espressione non è ben formata, perché non rispetta la funzione associata alla preposizione su; anche volendo ipotizzare una evoluzione di tale funzione, inoltre, l’espressione non è comunque attestata né on line né altrove. Essa va, pertanto, evitata. Il dubbio potrebbe derivare dall’analogia con “fare la spesa su Internet”, che, al contrario, è molto diffusa. Ricordiamo, a questo proposito, che l’espressione su Internet (favorita dall’influenza dell’inglese on the Internet), sebbene non scorretta e accettabile in tutti i contesti, è una variante meno formale di in Internet.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Preposizione, Registri
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il passato remoto “poté” anziché il congiuntivo imperfetto “potesse”. Lo ritenete corretto o comunque preferibile?

“…Forse tutti quanti, però,
abbiamo escluso o non abbiamo mai desiderato
che Gesù, violento nel riempire di se stesso
ma delicato nel doversi vergognare del seme di Giuseppe,
a braccia aperte sulla croce,
non poté piangere il dolore per quelli che restavano”.

 

RISPOSTA:

In dipendenza da “escludere che” e “desiderare che” l’italiano standard prescrive il congiuntivo: dunque la scelta sarebbe dovuta essere “potesse”, e non “poté”, che è decisamente più informale. Inoltre, se mi posso permettere, l’intero periodo sembra intricato al limite dell’incoerenza (forse voluta, me ne rendo conto, più che per licenza poetica, per i noti paradossi teologici connessi con la figura cristologica). Capisce bene, tuttavia, che l’italiano ha le sue ragioni, non necessariamente coincidenti con quelle della poesia, del cuore, della fede…
A rendere intricata la sintassi è la doppia negazione: “non abbiamo mai desiderato che non potesse piangere”. Quindi: abbiamo desiderato che potesse piangere, giusto? E non sarebbe stato più chiaro?
Inoltre, mettere sullo stesso piano, come coordinate, “abbiamo escluso” e “non abbiamo mai desiderato” rende difficile al lettore il compito della decodificazione. Lei mi dirà che compito della poesia non è quello di essere chiara. Ha ragione, ma forse a volte un po’ di chiarezza e di logica in più non guasterebbero. Si incontrerebbe (e convincerebbe, forse) un numero superiore di persone.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere chiarimenti sull’uso dell’imperfetto. Propongo alcune situazioni a titolo esemplificativo.

1. Sei ingrassato.
2. Mangiavo come un lupo.

(Usando un imperfetto, ritengo che il mio interlocutore capisca che mi riferisco ad un momento particolare del passato oramai concluso – ad esempio, durante le vacanze – e che ora sono tornato a mangiare con più moderazione. Tuttavia mi chiedo se sia necessario fornire un contesto più ampio per giungere alla conclusione da me prospettata. Me lo chiedo perché normalmente l’imperfetto si concentra più sull’aspetto dell’azione / situazione che non sulla sua conclusione o interruzione.)

La giornata era bella, splendeva il sole, ma faceva freddo.

(Pensate che un qualunque parlante italiano interpreterà questa frase in senso univoco, anche in mancanza di contesto? Ossia capirà che si tratta di una giornata qualunque del passato, con momenti conclusisi in quel passato vicino o lontano?)

Mio figlio faceva sempre colazione con pane e burro.

(Si tratta, in questo caso, di un’abitudine risalente al passato ed interrotta, anche se il parlante non ha sentito la necessità di specificare il momento dell’interruzione?)

Mi hanno detto che eri [ma anche: “che sei”] qui e sono venuto.

(E’ coretto dire che in questo caso l’imperfetto non esprime un evento passato ma una situazione che perdura ancora al presente? Infatti l’imperfetto potrebbe essere sostituito dal presente. Si tratta delle cosiddette “frasi completive”?)

1. Mi hanno detto che eri sposato con un’americana.
2. Sì, e lo sono ancora.

(Mi chiedo: se la persona a cui mi rivolto risponde “Sì, e lo sono ancora”, significa che ha percepito dal tono di voce leggermente ascendente sulla secondaria la mia convinzione che non lo fosse più? Altrimenti mi sarei espresso usando il presente: “Mi hanno detto che sei sposato con un’americana”.)

 

RISPOSTA:

La risposta al primo dubbio sull’imperfetto è sì: “Mangiavo come un lupo” è chiaramente un’azione passata; è vero, infatti, che l’imperfetto indichi un’azione durativa, o reiterata, ma pur sempre nel passato. Questo vale quando, come nel suo caso, l’imperfetto abbia valore temporale. Va detto, però, che nell’italiano colloquiale l’imperfetto può avere anche valore modale (funzionare, cioè, come un modo), non temporale, ed essere pertanto svincolato dal riferimento al passato: può rappresentare, ad esempio, un’azione presente come forma di cortesia: “Volevo chiederti un favore”; oppure addirittura un’azione futura, nel caso questa sia stata già decisa: “Te l’ho detto che domani andavo a fare la spesa”.
Anche nel secondo e nel terzo esempio (“La giornata era bella, splendeva il sole, ma faceva freddo” e “Mio figlio faceva sempre colazione con pane e burro”) l’imperfetto ha valore temporale, quindi rappresenta situazioni passate. A proposito di “La giornata era bella…”, aggiungo che la giornata in questione non è una giornata qualunque: l’articolo determinativo, infatti, indica che il parlante ha già introdotto questo tema nel discorso o pensa che l’interlocutore possa recuperarlo nella sua memoria.
Per quanto riguarda “Mi hanno detto che eri [ma anche: “che sei”] qui e sono venuto”, la proposizione “che eri qui” è effettivamente una completiva, e più precisamente una oggettiva (rappresenta il complemento oggetto espanso del verbo dire). Diversamente dagli esempi precedenti, quindi, l’imperfetto si trova in una proposizione dipendente: sostanzialmente, però, la situazione non cambia, perché quando la completiva è all’indicativo la scelta del tempo è scarsamente vincolata alla consecutio temporum. La versione con l’imperfetto rientra nei casi visti sopra: anche qui l’imperfetto indica un’azione durativa nel passato; la versione con il presente, invece, è impossibile, non per il tempo verbale (posso dire, infatti, “Mi hanno detto che sei bravo a cucinare e sono venuto a provare la tua pasta alla carbonara”), ma per il senso generale della frase: una volta vista una persona è illogico ribadire che questa sia nel luogo dove è. Prendiamo un esempio possibile anche al presente: “Mi hanno detto che sei bravo a cucinare e sono venuto a provare la tua pasta alla carbonara” indica sicuramente che la bravura di cui si parla è presente; in questo caso la proposizione coordinata ha senso perché il parlante non può essere sicuro che l’informazione sia veritiera (diversamente dal suo esempio, nel quale il fatto stesso che la conversazione avvenga implica che l’informazione fosse veritiera). “Mi hanno detto che eri bravo a cucinare” indica, invece, che la bravura è venuta meno. In quest’ultima frase l’imperfetto può anche assumere una sfumatura ironica (che emergerebbe solo con una pronuncia ammiccante), come se si intendesse dire: “Mi hanno detto che eri bravo a cucinare e voglio vedere se lo sei ancora”. Anche così, comunque, l’imperfetto manterrebbe il suo valore temporale.
Infine, nell’ultimo esempio l’intonazione non cambia il senso della frase: in ogni caso l’imperfetto indica un’azione passata. In questo caso l’imperfetto potrebbe avere la funzione secondaria di veicolare una sfumatura di cortesia: se il parlante non fosse sicuro del perdurare del matrimonio, con l’imperfetto si metterebbe al riparo dalla brutta figura, come se dicesse: “Mi hanno detto che eri sposato con un americana, ma non sono sicuro che tu lo sia ancora”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Se dicessi “Io penso che dio esiste”, convinto della sua esistenza, sarebbe corretto? Con verbi come penso e credo posso usare il presente indicativo se affermo ciò di cui non ho dubbi?

 

RISPOSTA:

L’indicativo nella proposizione oggettiva (“che Dio esiste”) è corretto, sebbene meno formale del congiuntivo (“che Dio esista”). La differenza tra indicativo e congiuntivo, in effetti, è soprattutto di natura diafasica, ovvero di maggiore o minore formalità: la sfumatura epistemica (relativa al grado di certezza dell’emittente sull’affermazione) veicolata dal congiuntivo in questa frase è, invece, impercettibile. Per un approfondimento sulla questione, la rimando a questa risposta data alla domanda di un altro utente.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ciao dico, ho un dubbio: “non penso che loro sappiano cosa significhino i pasti” oppure “cosa significano i pasti”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni sono corrette. La scelta va fatta in base al contesto d’uso: il congiuntivo risulta più formale dell’indicativo. La stessa questione (la scelta del modo in una completiva dipendente da una subordinata al congiuntivo) è stata discussa, con maggiori dettagli, qui.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Buongiorno, mi è sorto un dubbio sulla concordanza tra soggetto e verbo, la frase: “la sua opera più importante, I Promessi sposi, è/sono il tentativo riuscito di realizzare una letteratura nazionale popolare”.

 

RISPOSTA:

Decisamente meglio il verbo al singolare (è), che si accorda con il soggetto “la sua opera”, mentre “I promessi sposi” è apposizione: “La sua opera più importante, I promessi sposi, è il tentativo” ecc.. Esistono, in italiano, numerosi casi di concordanza a senso, ma sarebbe meglio ridurli al minimo e soprattutto ad ambiti informali. L’ambito d’uso e il registro stilistico di un compito scolastico sono formali, pertanto eviterei esempi come: “la maggior parte delle persone pensano”, “l’opera I promessi sposi sono” ecc.
Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Si legge e si sente: “Vorrei che tu sia etc.”. Non suona bene, è preferibile: ” Vorrei che tu fossi etc.” Ora le chiedo: dopo il condizionale “vorrei” è corretto l’uso del congiuntivo presente? Esempi: “Vorrei che tu venga in orario, vorrei che lui sia puntuale, vorrei che lei possa dormire”. Oppure è obbligatorio il congiuntivo
imperfetto?

 

RISPOSTA:

Ha ragione a considerare “stonata” la costruzione con il congiuntivo presente. Come spiegato dal prof. Luca Serianni: “Il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio, un’aspirazione, una necessità richiede la reggenza tipica dei verbi al passato” (Prima lezione di grammatica, 2006, p. 63); la costruzione corretta, pertanto, è “vorrei che tu fossi”. Una spiegazione di questa “stranezza” è che in questi casi il condizionale della reggente (vorreidesiderereisarebbe necessario ecc.) esprima una certa sfiducia dell’emittente nella realizzabilità dell’evento: da qui il congiuntivo imperfetto, che pone l’evento nel passato.
L’ho definita una stranezza perché, di norma, il condizionale presente regge il congiuntivo presente: “‘Uh, come sei freddo,’ disse Giulia tirandosi indietro e guardandolo con un sorriso, ‘davvero che qualche volta penserei che tu non mi voglia bene.'” (Alberto Moravia, Il conformista, 1951, p. 115). 
Proprio l’eccezionalità della reggenza del congiuntivo imperfetto da parte del condizionale presente induce spesso i parlanti in errore, o almeno nel dubbio. Non si tratta certo di un errore grave, ma in contesti formali, soprattutto scritti, è bene rispettare anche questa regola; così non ha fatto – molti lo ricorderanno – la ministra del MIUR Valeria Fedeli (o un suo collaboratore, come è emerso in seguito) in una lettera inviata al Corriere della Sera il 16 dicembre 2017, nella quale era scritto: “Sarebbe opportuno che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo i percorsi professionali”. Qui la “stonatura” è ancora più evidente, vista la vicinanza tra il congiuntivo presente prosegua e l’imperfetto si fermasse
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “volevo vedere come lo facessi”?

 

RISPOSTA:

La proposizione interrogativa indiretta (“come lo facessi”) retta da un verbo di percezione affermativo (vedere) è costruita normalmente con l’indicativo. La costruzione più comune della sua frase, pertanto, è “volevo vedere come lo facevi”. 
C’è da dire, però, che la variante con il congiuntivo non è scorretta, bensì insolita: è resa accettabile dalla sfumatura volitiva del verbo reggente; può, dunque, usarla, soprattutto in un contesto scritto e di alta formalità. È bene sottolineare che quando si usa il congiuntivo imperfetto il soggetto di seconda persona va esplicitato, visto che la prima e la seconda persona del verbo coincidono, quindi: “volevo vedere come tu lo facessi”. Il senso di questa frase in particolare rende altamente improbabile che il soggetto di facessi possa essere io, ma casi di possibile fraintendimento sono possibili, quindi è sempre bene seguire questa regola.
In mancanza della sfumatura volitiva, la frase sarebbe stata scorretta: *”Vedevo come tu lo facessi”. Al contrario, se il verbo reggente fosse negativo, il congiuntivo sarebbe la scelta migliore: “non volevo vedere come tu lo facessi” (e anche “non vedevo come tu lo facessi”).
Per quanto riguarda il tempo, l’imperfetto, indicativo o congiuntivo, indica la contemporaneità nel passato; instaura, cioè, un rapporto di contemporaneità con il verbo reggente (in questo caso volevo). Se, invece, l’intento è di instaurare un rapporto di posteriorità rispetto al passato, la scelta più corretta è il condizionale passato: “volevo vedere come lo avresti fatto”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire: “Durante la riunione di Mercoledì pare sia emerso che il sig. Mario sia single. La commissione della mensa ha accusato il sig. Mario di non essere sensibile al menù dei bambini perché non abbia figli”?
Le forme verbali sono corrette?

 

RISPOSTA:

I tempi verbali sono corretti, ma l’ultimo congiuntivo, abbia, deve essere sostituito con l’indicativo ha. La proposizione causale esplicita vuole quasi sempre l’indicativo, anche quando si trovi in dipendenza da un’altra proposizione al congiuntivo o, come in questo caso, all’infinito.
Il congiuntivo nella causale è, al contrario, richiesto quando la proposizione presenta una causa irreale: “Un pezzo di ragazzo non perché fosse alto o grosso, che anzi era solo un ragazzino di dodici anni – un pezzo perché restava solo la testa e il tronco” (Melania G. Mazzucco, Vita, 2003, p. 18). Come nell’esempio, la causa reale spesso viene presentata subito dopo, all’interno di un’altra causale, regolarmente all’indicativo, coordinata a quella al congiuntivo. 
L’indicativo è, comunque, possibile anche nel caso della causa irreale: “Non le aveva detto che nel rifiutarsi a Wolfgang lo aveva ingannato: non perché lo amava senza confessarglielo […] ma perché talvolta lo aveva illuso e spesso lo aveva lusingato” (Enzo Siciliano, I bei momenti, 1998, p. 44). Come al solito, la scelta dell’indicativo in un contesto che di norma richiede il congiuntivo caratterizza il discorso come meno formale. 
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buonasera.
Sono greco e voglio fare una domanda.
La frase “se non ti avevo conosciuto” è giusta o devo usare congiuntivo?

 

RISPOSTA:

La frase è soltanto a metà, quindi proverò a ipotizzare un completamento: “Se non ti avevo conosciuto era meglio”. La proposizione introdotta da se rappresenta una parte (detta protasi) di un periodo ipotetico dell’irrealtà, ovvero di un periodo ipotetico che esprime un evento irrealizzabile (come se dicesse “ormai ti conosco, quindi non è possibile che io non ti conosca”). Questo tipo di protasi si costruisce normalmente con il congiuntivo trapassato, quindi “Se non ti avessi conosciuto”, ma l’indicativo è ammesso come forma più colloquiale, in contesti che non richiedono il rispetto puntuale della norma standard (meglio nel parlato che nello scritto). Bisogna dire che, per esprimere la stessa irrealtà nel registro colloquiale, la forma più comune è l’imperfetto indicativo, non il trapassato prossimo, da lei usato, quindi “Se non ti conoscevo (era meglio)”. Può leggere una nostra risposta a una domanda molto simile alla sua in questa pagina.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se è corretta questa frase: “Se desideri cosi tanto che lui faccia questo , forse non avresti dovuto chiederglielo in questo modo.”

 

RISPOSTA:

Sì, è corretta. È un tipico esempio di periodo ipotetico misto, che combina, in questo caso, caratteristiche del periodo dell’irrealtà con quelle del periodo della realtà.
La versione più formale, dell’irrealtà, sarebbe stata: “se avessi desiderato… che lui facesse…”, oppure, molto informalmente: “se desideravi… che lui faceva”. La versione da Lei proposta va benissimo, in quanto combina il verbo dell’apodosi (o reggente) al condizionale passato (“avresti dovuto”, tipico del periodo ipotetico dell’irrealtà), come se fosse definitivamente tramontata l’ipotesi che “lui facesse questo”, e l’atteggiamento del desiderio, ben ancora presente e reale, che lui, con un comportamento diverso del/della richiedente, possa ancora farlo… Morale della favola: non è mai troppo tardi, e gli usi linguistici, talora, rivelano ben più di quanto crediamo sui nostri desideri reconditi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei chiederVi, dopo aver letto alcuni articoli in internet che utilizzano questa forma, se è giusto dire “mi hai svoltato la giornata”. Io sarei più propenso ad utilizzare la forma “hai dato una svolta alla mia giornata” ma vedo che in alcuni casi viene utilizzata, quindi mi chiedevo se fosse utilizzabile anche questa forma. 

 

RISPOSTA:

L’uso del verbo svoltare nella frase da lei segnalata è d’ambito gergale, molto comune, almeno nell’Italia centrale, tra i giovani (e meno giovani) da molti anni. In quanto uso gergale, è limitato perlopiù al parlato informale, tra pari, o allo scritto che ne imita le movenze. Sicuramente sarebbe bene evitare simili usi in scritti d’ambito formale o anche nel parlato rivolto a persone che non condividono il medesimo orizzonte socioculturale. L’alternativa  da lei proposta andrebbe benissimo per usi più formali, ma risulterebbe artefatta in un dialogo (o in una chat, per fare un esempio di scrittura informale) tra pari che condividano il medesimo gergo. Svoltare, in gergo, può essere utilizzato sia intransitivamente (ho svoltato, cioè ‘ho riportato un successo’: “Ho svoltato col lavoro”; “Quella ragazza m’ha dato il suo numero di telefono: ho proprio svoltato!”), sia transitivamente, come appunto in “M’hai svoltato la giornata”, cioè ‘hai determinato un esito molto positivo, magari insperato, nella mia giornata’, o ‘hai risolto un problema’ e simili. Naturalmente, può essere usato anche ironicamente, cioè per esprimere l’esatto contrario. Se avessi un incidente d’auto, potrei esprimere il mio disappunto esclamando: “Oggi ho proprio svoltato”, o “Ho svoltato la giornata”, o, rivolgendomi non proprio euforicamente a chi mi ha tamponato: “M’hai svoltato la giornata!”.
In una prospettiva stilistica, può essere utile conoscere l’uso di queste espressioni gergali, per esempio se si sta scrivendo un romanzo d’ambiente giovanile e si vogliono creare dialoghi agili e credibili tra i personaggi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho un dubbio: è più corretto dire ”ieri mi addormentai” o ”ieri mi sono addormentata”?

 

RISPOSTA:

La variante con il passato prossimo, “Ieri mi sono addormentata”, è la più naturale.
Normalmente, il passato prossimo e il passato remoto esprimono non semplicemente la lontananza, minore o maggiore, di un evento rispetto al momento dell’enunciazione, bensì la partecipazione psicologica che l’emittente vuole dimostrare con l’evento stesso. Ad esempio, la frase “Dieci anni fa mi sono rotto una gamba” risulta molto più naturale di “Dieci anni fa mi ruppi una gamba”, perché è naturale che l’emittente consideri l’evento, benché distante nel tempo, psicologicamente vicino, o, se vogliamo, legato al presente (il momento dell’enunciazione) attraverso le sue conseguenze. Per questo motivo, eventi passati ma ancora vicini al momento dell’enunciazione difficilmente possono essere espressi con il passato remoto, anche se si sono conclusi, perché è prevedibile che le loro conseguenze siano ancora percepibili dall’emittente come presenti; ciò vale ancora di più quando si racconta un evento privato o comunque personale, come nel suo esempio.
Non si può dire in astratto che la variante con il passato remoto sia sbagliata; si tratta, però, di una scelta marcata, cioè insolita, non comune. Tale scelta potrebbe essere frutto di una competenza comunicativa non perfetta: una costruzione del genere, cioè, non stupirebbe in bocca ad un apprendente straniero, ad esempio anglofono o ispanofono, di lingua italiana, come il risultato della sovrapposizione dell’italiano sulla sua lingua madre, nella quale il passato remoto è più usato che in italiano (“Yesterday I fell asleep” e “Ayer me quedé dormido” risultano del tutto normali); oppure in bocca ad un parlante pur italiano che, però, si lascia condizionare dal suo dialetto locale (molti dialetti meridionali non hanno il passato prossimo). In alternativa, la scelta del passato remoto potrebbe dipendere dalla precisa volontà dell’emittente di esprimersi in modo insolito, per ottenere una sfumatura espressiva. Nel seguente esempio, non a caso letterario, le due possibili cause della scelta del passato remoto si confondono:


Ieri mi portò a casa sua. Parlò per molte ore, non so quante, poiché a un dato momento mi addormentai, forse egli voleva che mi addormentassi (Gonzalo Torrente Ballester, Don Juan, traduzione di Angela Ambrosini, 1985).


La traduttrice del romanzo dallo spagnolo lascia al passato remoto i verbi che in originale erano al passato remoto (o meglio pretérito perfecto simple) perché percepisce che il personaggio vuole esprimere una separazione psicologica tra gli eventi narrati e il momento dell’enunciazione.
Bisogna aggiungere, infine, che nell’italiano contemporaneo il passato prossimo sta prendendo sempre più piede rispetto al remoto; siamo portati sempre di più, cioè, a designare gli eventi passati come “prossimi”. C’è ancora spesso, però, la possibilità di scegliere quale passato usare per sottolineare la maggiore o minore vicinanza psicologica all’evento; ad esempio, “La I Guerra mondiale ha provocato la morte di milioni di persone” riflette una maggiore vicinanza emotiva al racconto, mentre “La I Guerra mondiale provocò la morte di milioni di persone” risulta più distaccato e oggettivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può scrivere in un tema la seguente frase: trucco e parrucco?

 

RISPOSTA:

L’espressione trucco e parrucco è un idiotismo, cioè una costruzione caratteristica di una lingua (dal greco idiotes ‘particolare, specifico’), intraducibile e difficilmente sostituibile con una perifrasi analoga. Gli idiotismi, anche detti espressioni idiomatiche, determinano sempre un abbassamento del tono del discorso, soprattutto se, come in questo caso, contengono parole storpiate al fine di creare un effetto fonico (come, per fare un altro esempio, in il troppo stroppia). L’adeguatezza di simili espressioni va valutata alla luce delle variabili testuali: chi sono l’emittente e il ricevente del testo, e in che rapporto sociale sono tra loro, in quale ambiente è inserito il testo (familiare, scolastico, universitario, lavorativo…), qual è il suo scopo, è scritto (quindi tendenzialmente più formale) o parlato (tendenzialmente più permeabile agli abbassamenti di tono)?
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Buongiorno,
Avrei bisogno di un riscontro riguardo la correttezza di questa frase: “Se fosse possibile, avrei bisogno di sapere se (il giorno x) il ricevimento avrà luogo”.
Grazie mille.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata. Si noti che la proposizione interrogativa indiretta “se (il giorno x) il ricevimento avrà luogo” può anche essere costruita con il congiuntivo: “se (il giorno x) il ricevimento abbia luogo”. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard, e da preferire in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo futuro, altresì, ha il vantaggio di esplicitare il tempo e risulta, pertanto, più chiara (nonché adatta a contesti d’uso mediamente formali).
Per ulteriori suggerimenti sull’uso del congiuntivo nelle proposizioni subordinate, la invito a interrogare l’archivio di DICO usando la parola chiave “congiuntivo”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A sentimento (“fare qualcosa a sentimento”, cioè ‘così come ci viene, a caso’) è un’espressione italiana o tipica siciliana?

 

RISPOSTA:

L’espressione a mio sentimento è ben attestata nell’italiano, anche se caduta in disuso. Ad esempio nel Dizionario dei sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo (edizione Vallardi del 1867), alla voce Opinione si legge:

Nelle faccende dove non si conoscono a fondo le ragioni e gli effetti delle cose, e non si possono esporre o non si vogliono, si dà il sentimento proprio, non il giudizio. A mio sentimento, è più modesto a dire che: a mio giudizio. Ognuno, in certe occasioni, può dire il suo sentimento. Non tutti hanno diritto di dare giudizio.

A sentimento potrebbe essere un’evoluzione di quella espressione, con lo slittamento semantico da ‘secondo me, per come la vedo io’ a ‘secondo il sentimento (e non secondo la ragione), istintivamente’. Nella formazione dell’espressione hanno senz’altro influito sintagmi avverbiali molto diffusi come a casoa vanvera e simili, che possono avere significati affini.
Per quanto riguarda la diffusione quantitativa, un piccolo sondaggio nell’archivio del quotidiano “Repubblica.it” rivela appena due attestazioni dell’espressione negli ultimi 10 anni, a dimostrazione della sua connotazione prettamente parlata, poco accettata nello scritto. Per di più, in entrambe le attestazioni l’espressione è tra virgolette, a rimarcarne l’eccezionalità. Ecco le attestazioni:

“In Italia – osserva Le Pera – secondo le stime di UnionCamere ogni anno almeno 218mila giovani fanno uno stage, settore pubblico escluso. E nel 2006 un’azienda italiana su 10 ha offerto la possibilità di stage e tirocini. Eppure spesso le imprese danno informazioni di base un po’ vaghe, e l’aspirante stagista si trova a scegliere un po’ ‘a sentimento'”(30 maggio 2008).

Inoltre, come da tradizione di famiglia, non mancheranno le tartine fatte con pancarrè, caviale, maionese, burro, cetrioli, funghetti, carciofini e capperi. Il primo e il secondo “a sentimento”, in base al cuoco di turno (21 dicembre 2011).

Sempre grazie ad Internet, scopriamo che Andrea Le Pera, colui che parla nel primo articolo riportato, è un giornalista milanese, mentre Francesca Gugliotta, autrice del secondo articolo, è di Castelvetrano, in provincia di Trapani. Sembra, dunque, di poter concludere (ma l’esiguità dei dati suggerisce di essere cauti) che l’espressione sia diffusa da Nord a Sud, ma sia attualmente accettata solamente nel parlato e nello scritto brillante.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se il verbo vivere preferisce l’ausiliare essere o avere. Per esempio: “Spesso mi chiedo se, nel caso in cui il filosofo francese avesse vissuto più a lungo, sarebbe stato per lui possibile un ritorno all’ebraismo”.

 

RISPOSTA:

Il verbo vivere può essere transitivo, anche se con pochi oggetti: vitaesperienzasituazione ecc. In questi casi, ovviamente, l’ausiliare da usare è avere. Può anche essere usato in modo assoluto: “Luca ha vissuto”, nel senso di ‘avere una vita intensa’. Anche in questo caso l’ausiliare è avere (come per lavorare abbaiare). Più frequentemente, però, questo verbo è usato come un comune intransitivo. La regola vorrebbe che in questi casi si usasse l’ausiliare essere; la sua frase, quindi, dovrebbe essere formulata così: “Spesso mi chiedo se, nel caso in cui il filosofo francese fosse vissuto più a lungo…”. Dobbiamo, però, rilevare che l’ausiliare avere si è diffuso, con questo verbo, anche quando questo è usato intransitivamente, probabilmente per influenza degli altri casi in cui avere è pienamente legittimo. Si tratta di un processo già antico e che poggia anche su autori illustri: Torquato Tasso scrive in un’operetta non molto nota del 1585, dal titolo Il Ghirlinzone: “Assai bene ha vissuto colui il quale ha speso ne le nobilissime azioni lo spazio conceduto”.
Si potrebbe tentare di fare una distinzione semantica tra “è vissuto” e “ha vissuto”, intravedendo nel primo costrutto un maggior peso dato alla perfettività, cioè al termine dello stato del vivere, mentre nel secondo si sottolineerebbe la sua durata. Sarebbe, però, una distinzione un po’ capziosa, e in fondo questionabile.
Come orientarsi nella scelta, allora? Come spesso accade nella lingua, non si tratta di distinguere il corretto dallo scorretto, ma di adattare il proprio modo di esprimersi (che tecnicamente si chiama idioletto) ai contesti in cui ci si trova. L’ausiliare essere, più regolare e preferito in letteratura, è più formale e va scelto in situazioni che richiedono una lingua più sorvegliata (ma in realtà va bene sempre); avere è accettabile in contesti di formalità media e bassa (nel parlato probabilmente anche in contesti più formali).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Verbo
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QUESITO:

Gentilissimi, Quale tra blu e ble è la forma italiana corretta? Grazie.

 

RISPOSTA:

Le tre forme bleublé e blu sono tutte e tre corrette e possono dunque essere utilizzate liberamente.
Qualche precisazione di storia, stile e opportunità.
1) Tutte e tre derivano dal medesimo etimo, l’antica forma germanica, franca, blao, che diede vita anche all’antico italiano biavo ‘azzurro chiaro’,
2) Il termine blé andrebbe scritto più opportunamente con l’accento acuto ed è considerata variante meno formale e meno comune di blu.
3)  Bleu è un francesismo: dato che sia blu sia blé ne sono gli adattamenti italiani, tanto meglio optare per questi ultimi.
4) Dato che blu è la forma più comune, più diffusa in italiano, e anche avvertita come più formale, o almeno adatta a tutti i registri, meglio optare per quest’ultima, piuttosto che per blé.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nell’espressione “il male può annidarsi anche laddove sembri non esistere” è corretta la forma col congiuntivo o andrebbe corretta in “il male può annidarsi anche laddove sembra non esistere”?

 

RISPOSTA:

Nel suo esempio laddove ha il valore di avverbio, del tutto equivalente a là dove. La proposizione introdotta da questo connettivo spesso esclude il congiuntivo: “Laddove un tempo crescevano solo i fiori del male ora sono stati piantati semi di iris, glicine e narciso” (repubblica.it, 2018). Il congiuntivo è ammesso, sebbene non obbligatorio, quando, come nel suo esempio, la proposizione ha una forte sfumatura eventuale. Quando è usato, esso produce anche un innalzamento della formalità della frase.
Oltre che da avverbio, laddove può fungere da congiunzione avversativa (analoga a mentre), costruita obbligatoriamente con l’indicativo (fatta salva la possibilità, sempre valida, di sostituire l’indicativo con il condizionale): “ma in alcuni casi questo stesso vizio può portare all’errore esattamente opposto, decretando la pura e semplice insopportabilità del dolore altrui, laddove invece quel dolore non è affatto insopportabile, o non lo è ancora” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Può, infine, essere una congiunzione condizionale; in questo caso obbligatorio è il congiuntivo (prevedibilmente, visto che quest’uso è raro e altamente formale): “Laddove Luca lo desideri, può raggiungerci più tardi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’espressione “apposta” è accettata anche nella versione “a posta”? Ho sempre usato la prima ma mi è capitato di leggere anche la seconda versione. In effetti “apposta” è omografo del part. pass. di apporre, nonostante il contesto faccia capire se si tratti dell’avverbio o del verbo. Insomma, la lingua italiana accetta entrambe le versioni? Grazie

 

RISPOSTA:

Apposta è la variante univerbata, cioè divenuta un’unica parola, dell’espressione originaria a posta. Entrambe le forme sono oggi accettate, sebbene quella univerbata sia più comune e quella composta abbia, di conseguenza, assunto una sfumatura di alta formalità.

Il processo di univerbazione si è applicato, soprattutto nel Novecento, non solamente a apposta, ma a diverse espressioni, come addosso, invece, sennò, vieppiù ecc. (si noti la presenza, in molte di queste forme, del raddoppiamento fonosintattico). Le varianti così realizzate si sono imposte sulle altre, ma le alternative analitiche sono quasi sempre ancora accettate. Non c’è, però, una regola generale sull’accettabilità; in caso di incertezza, quindi, è sempre bene consultare il dizionario.

Curiosamente, la coincidenza da lei notata tra l’avverbio apposta e il participio passato del verbo apporre non ha bloccato il processo, probabilmente perché il verbo apporre è piuttosto raro nell’uso. All’opposto, proprio la confusione rischiata con il participio passato del verbo avvolgere impedisce l’accettazione dell’univerbazione di a volte. Un altro avverbio che resiste all’univerbazione è d’accordo (sebbene il dizionario dell’uso GRADIT registri anche daccordo): in questo caso non è la confusione con un’altra parola a frenare il processo, ma la tradizione scolastica, che su questo punto è piuttosto rigida.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è la differenza tra telefono, telefonino e cellulare? La mia professoressa mi ha detto che il telefono è quello fisso di casa, mentre gli altri due sono portatili.

 

RISPOSTA:

Il telefono è quello fisso, mentre il telefonino, o cellulare, è quello che ci mettiamo in tasca e ci portiamo in giro.

Sarà utile aggiungere qualche precisazione: non sarebbe sbagliato chiamare telefono anche il telefonino, visto che quest’ultimo non è altro che un tipo di telefono, ma l’uso vuole che con il termine telefonino ci si riferisca solamente all’oggetto portatile, tanto che il vocabolo telefonino è entrato nel dizionario, fin dal 1990, proprio con questo significato.

Attenzione: anche se telefonino e cellulare sono sinonimi, non dovrebbero essere usati indistintamente. Il primo, infatti, è un termine colloquiale, che va bene nella conversazione informale, mentre il secondo è più preciso, senza essere troppo tecnico, quindi più formale. Ancora più formale, infine, è telefono cellulare.

Questa discussione, comunque, è ormai datata, visto che i nuovi modelli di cellulari sono in grado di fare operazioni del tutto estranee alla trasmissione della voce. Per questo motivo, i nomi che richiamano il telefono (appunto telefonino e telefono cellulare ) sono stati sostituiti dall’anglicismo smartphone (entrato nel dizionario già nel 2003), che rende meglio l’idea della complessità di questi strumenti.

Fabio Ruggiano

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