Tutte le domande

QUESITO:

Che differenza c’è tra al solito e di solito?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono molto diverse. Al solito significa ‘come avviene di solito’, quindi mette a confronto un evento con tutti gli altri eventi simili accaduti in passato: “Al solito, quando non prendo l’ombrello piove”. Questo confronto è usato tipicamente in commenti polemici oppure amaramente ironici (come quello dell’esempio). Di solito significa semplicemente ‘abitualmente, normalmente’, quindi non instaura nessun confronto e non suggerisce nessuna sfumatura polemica o ironica. Per questo motivo, una frase come “Di solito, quando non prendo l’ombrello piove” sarebbe un po’ strana, perché rappresenterebbe l’evento come un fatto effettivamente abituale (mentre, ovviamente, non può essere così).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Retorica
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QUESITO:

Qual è la differenza tra “antonomasia” e “denomastico”?
Ad esempio, “luddismo”, “galateo”, “mecenate”… sono denomastici oppure antonomasie?

 

RISPOSTA:

Un “deonomastico”, o “deonimico”, è un nome comune derivato da un nome proprio. Questo passaggio può avvenire attraverso un processo morfologico, come nel caso di luddismo, o attraverso un processo semantico, come nel caso di galateo e mecenate. Il primo caso prevede la trasformazione di un nome proprio con un affisso: il cognome Ludd, dall’operaio olandese Ned Ludd, unito al suffisso -ismo dà origine a luddismo, sostantivo maschile che indica il movimento operaio inglese di inizio Ottocento. Il secondo caso, quello semantico, può avvenire attraverso uno slittamento semantico di un nome proprio che sostituisce (o funziona come) un nome comune. Può accadere che la sostituzione avvenga per indicare una qualità della persona: “è un Einstein” per indicare ‘un genio’; oppure, può verificarsi che un nome proprio diventi un nome comune come nei casi di mecenate (dal nome Mecenate) e galateo (da Galateo, italianizzazione del nome latino Galatheus, cioè Galeazzo) per indicare rispettivamente un protettore e finanziatore di artisti e di arti, e l’insieme delle norme di buone maniere.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Retorica
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

I prefissi come super-arci-iper-ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?

 

RISPOSTA:

Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutinomensilearchitettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendofantasticomeraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimosupermeravigliosoiperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimofantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

  1. Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.

Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.

  1. Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
  2. Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.

 

RISPOSTA:

La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le mogli litigano con i mariti.

Le fidanzate ballano con i fidanzati.

Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.

Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.

È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.

Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?

Le donne litigano con i (propri) mariti.

Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.

Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…

Quali soluzioni suggerireste?

 

RISPOSTA:

L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Tra i vari usi del condizionale troviamo anche quello, tipico del linguaggio giornalistico, di illustrare un fatto ipotetico, di cui non si ha pertanto elementi che possano attestare il suo essersi verificato.

Ho però notato che talvolta si tende a costruire interi periodi con questo modo verbale, trasformando tutte le azioni descritte come dubbie, anche quelle che, al contrario, sono oggettive.

Mi spiego con un esempio.

“Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005 quando avrebbe ricoperto il ruolo di assessore.”

Se non è sicuro che Tizio abbia affermato qualcosa in quel periodo di tempo (di qui l’impiego inappuntabile del condizionale), è certo che Tizio abbia (o ha) ricoperto, in quegli anni, il ruolo di assessore.

La subordinata temporale non avrebbe dovuto essere costruita con l’indicativo?

 

RISPOSTA:

Ha ragione. I giornalisti abusano del condizionale di distanziamento al punto da estenderlo spesso arbitrariamente anche a contesti nei quali andrebbe usato l’indicativo, dal momento che non v’è alcun dubbio sulla veridicità o oggettività dell’evento riportato.

L’esempio da lei riportato andrebbe corretto come segue (con l’imperfetto, però, data la continuità nel passato): «Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005, quando ricopriva il ruolo di assessore».

Più che di eccesso di scrupolo e ci cautela, ovvero la volontà di non sbilanciarsi nel dare per veritiere notizie ancora non provate, direi che agisca qui la forza dell’abitudine e della stereotipia: il condizionale viene associato (dalle penne meno esperte) così stabilmente allo stile giornalistico da divenirne un contrassegno (quasi ipercorrettistico) anche praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito digrazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?

 

RISPOSTA:

La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.

La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sarebbe possibile inserire una virgola tra un sostantivo e il suo aggettivo?

“Ha una bella macchina, rossa”

Oppure prima di una preposizione?

“È andato via, a casa”

 

RISPOSTA:

Sì, in certi contesti la virgola può dividere in più unità informative una struttura semantica altrimenti addensata in una singola unità testuale. In questo caso, l’aggettivo rossa in posizione conclusiva e separato dal nome attraverso la virgola crea un doppio fuoco informativo che mette in rilievo sia il fatto che la macchina è bella sia il fatto che la macchina è rossa.

La virgola si inserisce perfettamente anche nel secondo esempio: la separazione del sintagma preposizionale (a casa) dal resto della frase è favorita dalla posizione conclusiva del sintagma. Non avremmo potuto separare, invece, la preposizione dal nome con cui essa costituisce un sintagma (*a, casa).

Raphael Merida  

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QUESITO:

Vorrei sapere se una frase che comincia con “che peccato” abbia bisogno dei puntini di sospensione (tralasciando il punto esclamativo) o possa farne anche a meno. Esempi:

Che peccato dover andarmene così presto…

Che peccato sia morto così giovane…

 

RISPOSTA:

Che peccato! è di per sé una formula esclamativa che può indicare dolore, dispiacere o, in alcuni casi, ironia, quindi il segno interpuntivo richiesto è il punto esclamativo; in frasi che cominciano con che peccato però è possibile aggiungere i puntini di sospensione. Aggiungendoli, infatti, il discorso rimane sospeso volontariamente (in questo caso per reticenza o per un sottinteso allusivo) lasciando intendere però gli impliciti sviluppi. La prima frase può essere, per esempio, interpretata così: “Che peccato dover andarmene così presto… mi stavo proprio divertendo!”; la seconda, invece: “Che peccato sia morto così giovane… era un bravissimo ragazzo!”. Le stesse considerazioni valgono per “Che peccato…”, che lascia intendere all’interlocutore o al lettore qualcosa di non detto.

Raphael Merida

Parole chiave: Interiezione, Retorica
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QUESITO:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.

Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”

“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”

 

RISPOSTA:

La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).

Raphael Merida

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QUESITO:

mi sarebbe gradito il vostro parere relativamente alla correttezza del termine metafora riferito ad un’opera letteraria. Mi sembra molto più appropriato, in questo caso, l’uso del termine allegoria; però mi è capitato frequentemente di imbattermi anche nella prima soluzione. Faccio un esempio: “Quest’opera è una metafora della vita”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio il termine allegoria sarebbe più appropriato, dal momento che rimanda, usualmente, a un complesso di concetti simbolici, piuttosto che al singolo uso traslato di una singola parola o espressione (come invece fa la metafora). Tuttavia, spesso il termine metafora è usato nel senso meno tecnico e più lato (e prossimo quindi a quello di allegoria) di ‘uso allusivo, simbolico’, e dunque si può accettare anche «un’opera come metafora della vita».

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Quell’esame di laboratorio si avvale dell’uso di sostanze radioattive”. Desidererei sapere se il verbo in questione può riferirsi ad una procedura oltre che a colui o a coloro che tale procedura pongono in atto.

 

RISPOSTA:

Non sono sicuro di aver ben compreso la sua domanda: vuole sapere se il verbo avvalersi può ammettere un soggetto inanimato (quell’esame), oppure soltanto animato (i tecnici di laboratorio)? Se la domanda è questa, la risposta è sì, il verbo avvalersi, benché propriamente riferito a soggetti animati, può, per metonimia, riferirsi anche a soggetti inanimati che indichino, per traslato, le persone. È evidente che con esame di laboratorio si intende qui la persona o le persone che hanno eseguito quell’esame.

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?

 

RISPOSTA:

In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere se dopo le classiche affermazioni poste a fine lettera, per esempio «distinti saluti», «cordiali saluti», «grazie per l’attenzione» eccetera, è bene far seguire un punto prima del nome (per esempio: «Distinti saluti.

Mario Rossi») oppure se questo può essere omesso (per esempio: «Distinti saluti

Mario Rossi»), oppure se si può ricorrere anche alla virgola (per esempio: «Distinti saluti,

Mario Rossi»).

 

RISPOSTA:

La sua domanda affligge molti scriventi, evidentemente ormai disavvezzi alla corrispondenza tradizionalmente intesa. Nella quale sono ammesse tutte e le tre le soluzioni da lei prospettate, anche se quella con il punto è decisamente la più moderna e mai, o quasi mai, contemplata in passato. Quindi è anche da ritenersi la meno formale, in quanto meno in linea con la tradizione. Per il resto, oggi si tende all’uso maggioritario della virgola, che è anche la soluzione suggerita da vari manuali di bon ton scrittorio (per es. quelli della fortunata coppia di linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota). Invece in passato (fino almeno alla metà del Novecento) la tradizione escludeva qualunque segno di punteggiatura, tra i saluti e la firma, giacché il solo a capo con spazio bianco costituiva una evidente separazione tra le due sezioni. E quindi:

Cordiali saluti

Fabio Rossi (senza né virgola, né punto, ma con un solo a capo seguito o no da uno spazio bianco).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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QUESITO:

Nell’espressione «di tanto in tanto lo sguardo dell’uno sfiora la mano dell’altra, e viceversa» è necessario aggiungere quel «viceversa» per indicare reciprocità dell’azione, o si può omettere?

 

RISPOSTA:

Si può omettere nella gran parte dei casi; in questo, in realtà, anche aggiungendo «e viceversa» permane qualche margine di ambiguità. Procediamo con ordine. In presenza di verbi reciproci (come incontrarsi, salutarsi, toccarsi, sfiorarsi ecc.) sono superflui «sia l’un l’altro/a» (locuzione che indica reciprocità) sia «e viceversa». Nel caso da lei segnalato, tuttavia, neppure la presenza di «e viceversa» consente di capire se l’altra ricambia guardando la mano dell’uno, oppure offrendo la mano allo sguardo dell’uno. Inoltre, l’espressione «lo sguardo sfiora la mano» è davvero molto insolita: lo sguardo di norma non sfiora, semmai si posa, scruta, passa ecc. Se tuttavia le piace questa metafora (che io personalmente trovo infelice, ma è questione di gusti) allora forse dovrebbe chiarire il senso della reciprocità: la donna, insomma, guarda a sua volta la mano dell’uomo (non vedo altro senso possibile nella metafora ‘sfiorare qualcosa con lo sguardo’), oppure «sfiora con la mano lo sguardo dell’uomo» (cioè, sempre metaforicamente, fa sì che la mano si offra allo sguardo sfiorante dell’uomo)?

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

Gradirei proporvi queste tre parole: pleonastico, ridondante e tautologico. A mio parere si tratta di sinonimi che significano ‘eccessivo’, ‘superfluo’.

Questi termini hanno a che fare con un aspetto quantitativo, cioè con la ripetizione dello stesso concetto facendo ricorso a parole diverse (es. bella, attraente e fisicamente perfetta) e non qualitativo (es. uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate). Inoltre ritengo che i termini pleonastico e ridondante si riferiscano soltanto ad un discorso, mentre il vocabolo tautologico si possa attribuire tanto ad un discorso quanto ad un parlante. Ovviamente non sono sicuro di ciò ed è per questo motivo che mi sarebbe gradita la vostra opinione a riguardo.

 

RISPOSTA:

Tra le tre parole non vi è un rapporto di sinonimia assoluta (del resto rarissima), bensì di quasi sinonimia. Tautologico si riferisce perlopiù all’uso di termini che non aggiungono nulla in più rispetto a quanto già espresso dal significato di altri termini, per es. «il cantante canta». Tautologico non si riferisce, di norma, a una persona, ma soltanto a un uso linguistico, a un testo, e perlopiù a una definizione o simili (concetto, ragionamento ecc.).

Pleonastico si usa perlopiù in riferimento a pronomi o costrutti ridondanti, in quanto rimandano allo stesso referente già designato da un altro sintagma, per es. «il mare lo vedo» (dove lo si riferisce a il mare). In questo senso, pleonastico e ridondante, nella lingua comune, possono essere usati come sinonimi, sebbene ridondante abbia un campo semantico più ampio, mentre pleonastico sia più specifico. Ridondante, di tutti e tre gli aggettivi, è quello che più si presta a un uso più generale, e dunque si può riferire anche, genericamente, a un discorso eccessivamente carico e ampolloso: «testo ridondante di tecnicismi», «discorso ridondante di complimenti» (in nessuno dei due casi ridonante può essere sostituito da pleonastico o da tautologico), «stile o prosa ridondante» ecc. In questo senso, dunque, ridondante è l’unico dei tre aggettivi a potersi riferire anche, qualitativamente, all’uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Retorica
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QUESITO:

In un discorso racconto o poesia,  passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?

 

RISPOSTA:

In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:

«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Gli chiese di darle delle lezioni, ma lui preferì “dirottarla” verso un altro insegnante”. La mia domanda è: quel dirottarla, posto fra virgolette, è da considerarsi corretto oppure no? 
 

 

RISPOSTA:

Dirottare ha, come accezione metaforica, proprio quella di “convogliare in altra direzione”, quindi va benissimo usarlo senza virgolette, dal momento che si tratta di un uso perfettamente italiano. L’uso delle virgolette, ancorché un po’ ingenuo, non è però da considerarsi scorretto, per segnalare ulteriormente questo scarto semantico rispetto al significato meno figurato.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’espressione “vuoto a perdere” può essere usata come sinonimo di “cosa inutile”, “cosa che non serve più”. Io l’ho sempre usata in questo senso, ma ho letto recentemente che il significato corretto è “cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo”. Il significato che ho finora dato  io al termine può essere accettato oppure no?

 

RISPOSTA:

Il significato con cui usa lei l’espressione è quello corrente e va benissimo. Per comprenderlo, bisogna pensare a una vecchia abitudine italiana (io me la ricordo ancora, e ho 55 anni). Essa prevedeva che, in casi di liquidi acquistati in bottiglie di vetro, si potesse optare per due soluzioni: 1) restituire la bottiglia al venditore, avendone indietro una piccola somma di denaro (soluzione detta “vuoto a rendere”); 2) non restituire la bottiglia e dunque non avere indietro alcuna somma di denaro (soluzione detta “vuoto a perdere”). Poteva capitare che i vuoti a perdere (donde il significato metaforico di ‘cosa che non serve a niente’, visto che il vuoto a perdere non comportava alcuna restituzione di denaro) si accumulassero e che ci si trovasse nella fastidiosa condizione di non riuscire a disfarsene, o comunque doversi scomodare per disfarsene, a differenza di quelli a rendere che venivano prontamente restituiti al venditore, col duplice vantaggio del denaro e dello smaltimento. In virtù di quest’ultima considerazione, è anche possibile usare l’espressione nella seconda accezione metaforica da lei segnalata, cioè ‘cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo’, che però non scalza, semmai direi rafforza, la prima: una cosa talmente inutile da diventare un fastidioso accumulo, che alla fine risulta difficile anche da smaltire e che si finisce dunque per lasciare lì a far ingombro e sporco.
Insomma, la metafora è in ogni caso altamente spregiativa, come si può ben vedere nelle varie attestazioni presenti in Google libri e nella magnifica canzone di Noemi Vuoto a perdere (2011).

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Nella penultima strofa della poesia che riporto qui sotto, ho usato il futuro semplice andrò mentre il verbo precedente è al presente. Lo ritenete corretto o sarebbe meglio usare anche lì il presente? 

“…e domani, speriamo bene, / comincio: andrò a bottega / da un certo Verrocchio…”.

 

RISPOSTA:

L’alternanza comincio / andrò è possibile: può essere giustificata da una sfumatura semantica intesa dall’autore, da ragioni fonetiche o entrambe le cose insieme.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica, Verbo
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QUESITO:

l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
 

 

RISPOSTA:

Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologicoMario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malatoMario ha questa malattia ecc.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

vi scrivo per chiedervi aiuto per aggiungere qualche dettaglio ulteriore a un testo che ho scritto, senza che questo diventi troppo dispersivo. In più, volevo chiedervi gentilmente se si può eliminare qualche piccola sbavatura o ripetizione. 

Il testo è il seguente:

“Per un po’ mi tieni dentro la tua bocca; poi mi sputi fuori, facendomi finire tra le lenzuola del tuo letto. Poco dopo lasci cadere attorno al mio minuscolo corpicino diverse cascate della tua bianca e densa saliva: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano. 

Volevo scriverlo di nuovo aggiungendo che la ragazza alterna momenti in cui lascia colare la saliva mentre tiene le labbra socchiuse e altri mentre tira fuori ed estende la lingua lungo il mento, solo che non so come inserirlo: temo che spendendo 4/5 frasi in più si possa appesantire il periodo. Oltre a ciò, volevo sapere se attorno al mio corpicino fosse posizionato correttamente nella frase, così come conoscere dei sinonimi per dire attorno a me oppure attorno al mio corpicino
Avevo pensato a questa variante, però non so se possa risultare pesante da leggere: 

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri mentre estendi / allunghi [non so quale dei due termini sia più appropriato] la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.

 

RISPOSTA:

La seconda versione del testo è ben scritta e non pesante da leggere. Per quanto riguarda attorno al mio corpicino, è ben posizionato e può essere sostituito da varianti come intorno al mio piccolo / minuscolo corpo o simili. Espressioni sostitutive più sofisticate sono sempre possibili (il corpo può essere metaforizzato variamente, oppure al posto del corpo si possono nominare, metonimicamente, le braccia, le gambe, la testa), ma sono scelte che modificano lo stile e in parte anche il significato del testo, per cui sono di pertinenza dell’autore. Anche la scelta tra estendi e allunghi non è decidibile su base grammaticale, ma riguarda la semantica e lo stile: estendere è proprio di ambiti tecnico-specialistici e in questo contesto sembra un po’ forzato, ma potrebbe essere scelto proprio per questo valore lievemente straniante. Per la sintassi, suggerisco la seguente correzione, che elimina la difficoltà del collegamente tra altri e mentre:

“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri in cui estendi / allunghi la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri, Retorica
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QUESITO:

Se dico “E tu non la condividi?” oppure “E tu la condividi?” la domanda ha sempre lo stesso significato? Se rispondo si a queste due domande la risposta ha il medesimo significato?

 

RISPOSTA:

In una domanda che comincia con la negazione, quasi sempre essa ha soltanto funzione retorica, che punta a indirizzare l’interlocutore a rispondere positivamente (quindi a condividere). La risposta alla domanda con negazione, pertanto, sarà la stessa di quella data alla domanda senza negazione. In altre parole, una domanda come non la condividi? equivale quasi sempre a la condividi, no? A questa domanda, pertanto, si risponderà allo stesso modo in cui si risponderebbe alla semplice domanda la condividi?, ovvero  nel caso in cui la si condivida, no nel caso in cui non la si condivida.
La possibilità che la negazione sia effettiva, e non retorica, è remota (nel caso i parlanti cercheranno di formulare la domanda diversamente); per evitare ambiguità, comunque, si può espicitare il senso della risposta, per esempio “Sì, la condivido” o “No, non la condivido”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Riconosco di incontrare talvolta un qualche problema nel risalire alla cosa o alla persona cui si riferisce il ne. Un esempio è questo:
1a) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché ne acquisisca il metodo”.
Ecco: chi deve acquisire il metodo di chi?
Supporrei che sia Giulia a dover imparare da Valentina. Nel caso la mia interpretazione sia giusta, se volessimo ribaltare i ruoli, dovremmo escogitare formule più precise (ma meno snelle) come
1b) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché questa acquisisca il metodo di quella” oppure basterebbe
1c) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché quest’ultima ne acquisisca il metodo”?
Mi chiedo inoltre se la grammatica ci dia regole ferree a tal proposito, oppure se ci si possa sempre affidare alla logica.
Porto un altro esempio che mi è capitato di formulare:
2a) “Bisogna associare l’autorimessa all’appartamento, affinché ne diventi pertinenza”.
Seguendo la sola logica, la frase è di immediata comprensione: l’unico immobile destinato a diventare pertinenza può essere l’autorimessa. Ma prescindendo dalla logica, la frase è corretta sotto il profilo sintattico?
Se essa fosse stata costruita diversamente, invertendo le posizioni dei complementi, per ottenere lo stesso messaggio, avremmo potuto scrivere
2b) “Bisogna associare l’appartamento all’autorimessa, affinché quest’ultima diventi la sua pertinenza”?

 

RISPOSTA:

Il collegamento tra i pronomi e i nomi (o gli altri pronomi) a cui questi si riferiscono è un punto in cui la grammatica incontra la testualità. Da una parte, infatti, abbiamo l’accordo morfologico, ovvero l’adattamento del pronome al nome a cui si riferisce (nel caso di ne questo adattamento non si vede, perché questo pronome è invariabile), dall’altra abbiamo la coreferenza, ovvero la capacità di più parole di rimandare allo stesso referente. Nella sua frase 1a, per esempio, Valentina ne rimandano allo stesso referente, che è la persona di Valentina. La coreferenza richiede sempre un minimo di sforzo interpretativo da parte del ricevente, perché non è di per sé evidente che, rimanendo al nostro esempio, Valentina ne rimandino alla stessa persona, visto che sono parole così diverse. Nella stessa proposizione finale in cui si trova ne c’è anche un’altra forma coreferenziale: l’ellissi del soggetto di acquisisca. L’ellissi è una forma coreferenziale perché rimanda a un referente presentato attraverso un nome da qualche parte nella stessa frase (come in questo caso), oppure in un’altra frase del testo. Risalire alla parola con cui l’ellissi è coreferente è in teoria molto difficile, proprio perché l’ellissi si realizza come la sottrazione di una parola o un gruppo di parole (o sintagma). 
Per favorire l’interpretazione coreferenziale da parte del ricevente, ovvero il corretto rimando da un pronome, o da un’ellissi, all’elemento coreferente, l’emittente deve rispettare alcune regole nella costruzione della frase. La coreferenza, quindi, coinvolge anche la sintassi. Nell’esempio, il dubbio sul collegamento tra ne Valentina potrebbe nascere a causa della presenza, nella proposizione reggente, di due nomi in astratto collegabili a neGiulia Valentina, e dall’ellissi del soggetto del verbo acquisire. In questa situazione, il ricevente potrebbe rimanere nel dubbio su chi sia che deve acquisire il metodo da chi. Tale dubbio è risolto immediatamente dalla regola secondo cui il soggetto ellittico di una subordinata deve coincidere con il soggetto della proposizione reggente. Ne consegue che il soggetto di acquisisca è lo stesso di studi, ovvero Giulia. Per esclusione, quindi, ne rimanda a Valentina. Lo stesso vale per la frase 2a: il soggetto di diventi deve essere l’autorimessa, quindi ne rimanda all’appartamento.
Il suo ragionamento sull’inversione dei ruoli sintattici nelle subordinate è corretto: per farlo bisogna esplicitare il soggetto delle subordinate, attraverso un pronome (come nelle frasi 1b e 2b) o anche attraverso un sintagma nominale, per esempio: “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché Valentina acquisisca…”. Una volta esplicitato il soggetto della subordinata, si può usare anche ne per rimandare all’altro possibile elemento coreferente, non più ambiguo, come nella frase 1c.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Nome, Pronome, Retorica
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QUESITO:

 

Vorrei chiedere il significato di un modismo: smezziamoci una pizza. Significa che siamo amici?
 

RISPOSTA:

L’espressione “smezzarsi una pizza”, tipicamente romana, è usata abitualmente nel senso letterale, e non idiomatico, di ‘prendere una pizza in due, mangiandone metà per uno’.
Nulla vieta di usare l’espressione in accezione metaforica, e dunque idiomatica, con il significato di ‘siamo amici e quindi condividiamo tutto’.
Quella che invece si usa – sempre perlopiù a Roma e nell’Italia centrale ma per influenza dei media anche nel resto d’Italia – come frase idiomatica è “smezzarsi la torta”, nel senso di ‘fare a metà degli utili di qualcosa’, usata perlopiù in accezione negativa per proventi loschi: “Destra e Sinistra si sono smezzati la torta: se ora il governo cominciasse a far piazza pulita di questo sistema, dovrebbe dare addosso a tantissimi “amici e raccomandati” vicini a QUESTO governo!” (esempio del 2008 colto in Google).

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Che cosa significano e quando si usano le seguenti espressioni?
1. Dammi un numero, presto!
2. Hai una domanda di riserva?
3. Non ti passa un giorno. 
4. Sono aperti i negozi oggi? 
5. Quando la bagniamo? 
6. Ben gli sta. 
7. Che taglio, complimenti. 
8. Bentrovato!  

 

RISPOSTA:

Le espressioni 1, 3 e 4 non hanno un significato figurato codificato. 
La 2 è un modo ironico per ammettere di non conoscere la risposta a una domanda, oppure di preferire non rispondere a una domanda.
Nella 5 il verbo bagnare è usato probabilmente nel senso di ‘inaugurare’ oppure ‘festeggiare un successo’ (dipende dal referente di la). Il verbo bagnare assume questo significato perché un elemento tipico dei festeggiamenti e delle inaugurazioni è il bere convivialmente.
La 6 si dice per criticare qualcuno che ha fatto un danno a sé stesso per non aver prestato ascolto a un consiglio o per aver fatto un’azione irresponsabile o cattiva. Per esempio quando uno scherzo di cattivo gusto si ritorce contro la persona che lo ha tentato.
La 7 è probabilmente un complimento per una persona che si è appena tagliata i capelli. Ricordo anche che a Roma si dice “Che taglio!” con il significato di ‘che bello!, fantastico!’. Questo, però, è un uso gergale.
Infine, bentrovato è del tutto analogo a bentornato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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QUESITO:

In tempi relativamente recenti, mi pare che sia invalso l’uso (o l’abuso?) della congiunzione anche in contesti forse impropri (mi riferisco in special modo al primo dei due esempi sotto riportati).
“Ti va di studiare? Anche no”,
“Hai scritto tanto, talmente tanto che anche la metà bastava”.
Fermo restando che in quest’ultima costruzione si sarebbe potuta migliorare la sintassi del verbo (ho scelto di presentare le frasi come le avevo sentite pronunciare); la congiunzione anche in entrambi gli esempi è ben impiegata?

 

RISPOSTA:

Non si può dire che nelle frasi da lei proposte ci siano degli errori. Si tratta certamente di frasi adatte a contesti informali, in cui non si bada molto alla precisione, ma, al contrario, si cerca di caricare la lingua di espressività emotiva. La congiunzione anche si presta a questo scopo perché permette di presentare come alternativa, quindi meno perentoria, una soluzione in realtà contraria a quella proposta dall’interlocutore. In questo modo la soluzione contraria risulta più cortese, quindi più socialmente accettabile, e si può arricchire anche di una sfumatura ironica. 
Nel suo primo esempio la congiunzione presenta la negazione decisamente netta no come un’alternativa possibile tra altre: si tratta certamente di un modo per rendere più cortese il rifiuto, ma si intravede, oltre a questo, un intento ironico nel contrasto tra la nettezza della negazione e l’apertura alla possibilità garantita dalla congiunzione anche.
Nel secondo esempio l’ironia è meno percepibile (probabilmente è assente), mentre rimane chiaro l’intento di moderare la perentorietà della proposta alternativa. Senza anche il giudizio sulla quantità della scrittura prodotta risulta automaticamente critico; con anche, invece, la soluzione di scrivere la metà è presentata come alternativa possibile che non esclude l’altra.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Retorica
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vi scrivo a proposito dell’aggettivo grande: quando è obbligatorio e quando è facoltativo il troncamento di questo aggettivo? 

 

RISPOSTA:

L’apocope, o troncamento, di grande è uno dei due casi di apocope sillabica esistenti nell’italiano moderno (l’altro è san(to) Tommaso). Si può realizzare, ma non è obbligatoria, davanti alle parole che cominciano per consonante semplice: gran / grande velocitàgran grande signore, anche plurali e femminili: gran / grandi lettorigran / grandi lettrici.
La forma gran è obbligatoria soltanto in alcune espressioni cristallizzate, come a gran vocedi gran lungaun gran cheuna gran cosagran partegran premio e qualche altra. Per questo motivo, quando viene usata può far assumere al sintagma un significato figurato; per esempio: grande signore = ‘persona dalle doti eccezionali’ / gran signore ‘persona che vive spendendo molto’. 
Davanti a parole che cominciano per consonante complicata (sc-st-ps-gn-) e z- si usa grandegrande scempiogrande strategagrande psicologogrande zaino.
Davanti a parole che cominciano per vocale si usa ancora grande oppure la forma elisa grand’grand’uomo, grand’affare, grand’effetto. La forma elisa può essere usata soltanto al singolare; al plurale è obbligatoria la forma piena grandigrandi affarigrandi effetti. Soltanto grand’uomo ammette il plurale grand’uomini (comunque raro), perché questa espressione è cristallizzata, tanto che si può scrivere anche granduomini
Fabio Ruggiano
Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Retorica
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QUESITO:

Nella correzione di un testo scritto va bene quanto segue?
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo/abbastanza completo/essenziale, ecc.
– INDICATORE: Organizzazione nella successione logica e nell’ordine crono-spaziale.
L’esposizione risulta articolata/ lineare/frammentaria, ecc.
– INDICATORE: Correttezza ortografica, morfo-sintattica, punteggiatura, coesione.
La forma presenta lievi errori/pochi errori/ gravi errori.
– INDICATORE: Uso del lessico
Il lessico utilizzato è appropriato/ adeguato/semplice, ecc.

 

RISPOSTA:

La domanda esula dal nostro campo specifico, ma proverò comunque a fare qualche osservazione. Il primo indicatore è ben costruito, sia nella descrizione, sia nei livelli, tranne che per ecc., che in generale va evitato, proprio perché gli indicatori servono a dare chiarezza. Si può, semmai, aggiungere un quarto livello:

– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo / quasi completo / essenziale / quasi assente

Nel secondo indicatore non si capisce come si possano associare successione logica e ordine crono-spaziale. Ma soprattutto, non è chiaro che cosa si intenda con ordine crono-spaziale (o meglio spaziotemporale). Forse intendeva riferirsi alla successione degli eventi di una storia? In questo caso, si consideri che se per la successione logica si può individuare un modello migliore di un altro, per la successione degli eventi in una storia esistono tante possibilità (quelle che in narratologia sono definite intreccio) tra le quali è difficile stabilire la migliore.
I livelli, inoltre, non sembrano adatti a definire una gradualità di valore: perché, infatti, una organizzazione articolata sarebbe migliore di una lineare?
Ammesso che ordine crono-spaziale abbia il significato che io ho inteso, le propongo, per questo indicatore, questa scala di valore: articolata e lineare / lineare / a tratti imprecisa / fortemente imprecisa.
Il terzo indicatore raccoglie troppi aspetti. Si potrebbe dividere in almeno due indicatori, uno per l’ortografia e uno per la coesione (nel quale si può far rientrare anche la punteggiatura e la morfosintassi). Volendo, però, coesione e punteggiatura potrebbero essere separati da morfosintassi.
I livelli non vanno bene neanche in questo indicatore: lievi e gravi sono indicazioni di qualità, peraltro piuttosto arbitarie (quale errore ortografico è più grave o lieve di altri?), mentre pochi indica una quantità ed è, quindi, incongruente con gli altri. Ritengo che la strada migliore nel caso dell’ortografia sia proprio quella della quantità, quindi una scala come molti errori / pochi errori / quasi nessun errore / nessun errore.
Per quanto riguarda la coesione, invece, si può propendere per la qualità, quindi per una scala come pienamente adeguata (allo scopo) / parzialmente adeguata (allo scopo) / appena adeguata (allo scopo) / del tutto inadeguata (allo scopo).
Anche per l’uso del lessico i livelli sono incongruenti: intanto appropriato e adeguato sono quasi sinonimi, quindi non rappresentano una distinzione chiara. Semplice, inoltre, non individua per forza un difetto, quindi non è adatto a rappresentare il grado più basso del giudizio. Potrebbe usare per questo indicatore la stessa scala che ho proposto per la coesione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi? 

 

RISPOSTA:

I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Retorica
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Una frase come “I cristiani sono chiamati ad attraversare le ‘gioiose sofferenze’ della vita per conquistare il paradiso è corretta”? Vi spiego il mio dubbio. Il motivo della conquista è la lotta contro le sofferenze della vita. Ma è pur vero che la sofferenza si trasforma in gioia in vista del paradiso. Quindi, visto che la sofferenza è “gioiosa”, la conquista diviene per così dire “facile”. Ma il vocabolario spiega il termine conquista con ‘l’ottenimento di un qualcosa attraverso difficoltà’. Quindi chiedo se in virtù di quanto esplicato la frase è corretta, e se lo fosse come si chiama in italiano la tecnica utilizzata (penso sia l’ossimoro).

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista grammaticale la frase è corretta. Il suo dubbio semantico è legittimo, ma lei stesso dà una spiegazione che supera il problema in modo convincente. L’ossimoro, la figura retorica da lei usata, serve proprio a superare l’evidenza dell’esperienza per far emergere sfumature nascoste negli eventi, nelle situazioni, nelle relazioni umane. Il suo gioiose sofferenze (cioè ‘sofferenze finalizzate a un fine gioioso, che le rende accettabili’) funziona al pari del comune silenzio assordante (ovvero ‘silenzio su un tema delicato, che rivela l’impotenza, o la colpevolezza, di chi lo pratica’), o dell’altrettanto comune lucida follia (cioè ‘comportamento anticonvenzionale derivato non da irrazionalità, ma da calcolo’) ecc.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Retorica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei capire meglio come certi sostantivi pur essendo al singolare hanno un significato plurale, esempio:Giovanni 1:29 Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!
Il peccato nel verso sopra indicato pur essendo al singolare, ha un significato plurale, cioé : I peccati.Altro esempio, il frutto! Galati 5:22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.
Anche in questo verso il frutto al singolare ha un significato plurale.Come vengono denominati in italiano questi sostantivi che sono al singolare ed hanno un significato plurale.Vengono denominati forse plurali irregolari?

 

RISPOSTA:

No, in realtà non si tratta di plurali irregolari, perché sono regolari sia nella forma sia nel significato. Si tratta dii un uso estensivo, quasi sempre possibile in italiano, di un singolare inteso in senso collettivo, ovvero dell’uso di un singolare in luogo del plurale, secondo una figura retorica (ma, data la sua frequenza in qualunque tipo di testo, sarebbe forse meglio definirla una strategia comunicativa) detta sinèddoche, che rientra nella più generale figura detta metonìmia. Si ha metonimia ogni qual volta si usi un termine in luogo di un altro di significato contiguo, come, che so, il contenitore per il contenuto (“bere un bicchiere”, che ovviamente si riferisce al contenuto del bicchiere) o l’autore per l’opera (“leggere Manzoni”, che ovviamente si riferisce all’opera di Manzoni). Analogamente, se si usa il singolare per il plurale o il plurale per il singolare, si sta usando la la parte per il tutto, o il tutto per la parte, secondo il particolare tipo di metonimia detto appunto sinèddoche. La sineddoche è molto diffusa nel linguaggio poetico, politico, sentenzioso, oratorio, religioso (da cui i suoi esempi evangelici), ma anche nel discorso comune. I poeti ne fanno un uso frequentissimo, per es. quando Petrarca usa “crin”, ovviamente non intendendo un solo capello ma tutti i capelli, la capigliatura, o quando il libretto della Tosca recita: “Tu azzurro hai l’occhio, Tosca ha l’occhio nero”, riferendosi ovviamente ad entrambi gli occhi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Come si dice: comprare una cassa d’acqua o confezione di bottiglie d’acqua?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono perfettamente equivalenti e vanno bene per tutte le situazioni comunicative. Sicuramente la seconda (“confezione di bottiglie d’acqua”) è più formale (ma anche, direi, eccessivamente pomposa e un po’ burocratica), ma la prima (“cassa d’acqua”) è del tutto corretta e adatta anche agli usi formali. Immagino che il motivo della sua richiesta sia dovuto alla supposizione che la prima espressione (“cassa d’acqua”) possa sembrare a taluni eccessivamente generica, imprecisa e informale, per via del fatto che, materialmente, l’acqua non è disposta in una vera e propria cassa, bensì in bottiglie tenute insieme da un foglio di plastica. Ebbene, tale critica è insussistente, dal momento che la lingua (qualunque lingua, non soltanto quella italiana) non funziona secondo una logica astratta e il rispetto pedissequo dell’etimologia e del significato letterale delle parole, ma in base a usi e funzioni concrete e consolidate. Pertanto, in virtù degli usi figurati (metonimia), così come possiamo dire “ho bevuto un bicchiere di Pinot”, piuttosto che “ho bevuto una certa quantità di vino di tipo Pinot contenuta in un bicchiere”, altrettanto felicemente possiamo dire “cassa d’acqua”, intendendo, per metonimia, con cassa ‘contenuto di una cassa o di contenitore analogo, di forma più o meno di parallelepipedo’, e con acqua, sempre per metonimia, ‘bottiglia contenente dell’acqua’. Se vuole saperne di più sulla metonimia, legga questo quesito.

Purtroppo molti parlanti e scriventi pretendono di guardare alla lingua secondo astratti meccanismi razionalistici, come se le lingue non mutassero nelle forme e nei contenuti in base al tempo, allo spazio, e alle situazioni comunicative. Ma, se così fosse, ancora parleremmo latino, o addirittura la lingua di Adamo!

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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QUESITO:

Sineddoche o metonimia?

Nei versi “ma misi me per l’alto mare aperto/sol con un legno e con quella
compagna” (Dante, Inferno, Canto XXVI, versi 100-101) legno è metonimia o
sineddoche?
 
 
RISPOSTA:

Metonimia. Anche se tra le due figure retoriche c’è spesso, nelle trattazioni, molta ambiguità, e vengono usate ora come interscambiabili, ora come l’una un sottotipo dell’altra, sarebbe bene limitare il valore di sineddoche a uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica di tipo quantitativo (il tutto per la parte o la parte per il tutto, il singolare per il plurale e viceversa: per es. quando si usa “le mie stanze” per ‘camera mia’, o “l’italiano” per ‘gli italiani’); mentre la metonimia indica sempre uno scambio di parole sull’asse della contiguità semantica, però stavolta di tipo qualitativo: l’autore per l’opera (“ho letto Manzoni” in luogo di ‘ho letto I promessi sposi“), il materiale per l’oggetto prodotto (come nel suo esempio legno per ‘barca’, oppure ferro per ‘spada’) ecc. Tuttavia, dato che anche alcuni usi figurati basati sulla contiguità di tipo qualitativo possono essere considerati dal punto di vista quantitativo (cioè procedendo dal più al meno o viceversa), il suo esempio dantesco può essere correttamente definito anche come sineddoche, dal momento che il materiale (legno) è più generico del prodotto (barca), e dunque questa è una sineddoche dal generale al particolare. Insomma: può classificare il suo esempio tanto come metonimia quanto come sineddoche.
Per tentare di fare chiarezza su questi termini e concetti giustamente complicati (la retorica è molto affascinante, perché non si limita a spiegare gli usi poetici, ma tenta anche di spiegare certi meccanismi cognitivi), le suggerisco le ottime voci (metonimiasineddoche e molte altre di figure retoriche, fenomeni linguistici ecc.) dell’Enciclopedia dell’italianoTreccani, ora accessibile anche gratuitamente online nel sito www.treccani.it

Fabio Rossi

Parole chiave: Retorica
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