QUESITO:
Il mio dubbio riguarda l’ammissibilità del congiuntivo presente nella relativa esplicita dopo il passato prossimo nella reggente:
“Nel mio libro ho immaginato qualcosa che abbia anche un valore pedagogico”; che quindi abbia tale valore oggi e ogniqualvolta venga letto”.
Ora se, come da consecutio, mettessi qualcosa che avesse anche… farei riferimento al presente della scrittura, cioè a qualcosa di passato, concluso. Ma poiché il libro è di per sé rivolto a futuri lettori mi sembrerebbe più calzante il congiuntivo presente.
RISPOSTA:
La proposizione relativa è svincolata dalla consecutio temporum: al suo interno, il tempo verbale si riferisce non alla relazione con il tempo della reggente, ma al tempo in sé: passato, presente o futuro. Di conseguenza il congiuntivo presente è pienamente legittimo, per sottolineare che il possesso del valore pedagogico è pancronico, cioè valido sempre. Va comunque rilevato che è possibile usare il congiuntivo imperfetto avesse nella relativa, mantenendo la prospettiva fissata dal verbo della reggente, che parte dal passato. L’imperfetto, del resto, non esclude l’interpretazione pancronica del contenuto della relativa: non solo, infatti, il passato prossimo nella reggente descrive un evento agganciato al presente, ma la relativa al congiuntivo assume anche una sfumatura consecutivo-finale che ne proietta il contenuto nella posterità.
L’imperfetto non è escluso neanche nella relativa giustapposta e nella coordinata seguente, che sono inequivocabilmente collocate nel presente e nel futuro: che quindi avesse tale valore oggi e ogniqualvolta venisse letto; qui, però, il congiuntivo presente è preferibile, perché l’accostamento di avesse e oggi nella giustapposta crea un effetto di discorso indiretto libero che può risultare straniante (per quanto non possa dirsi scorretto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vattene, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre usato l’aggettivo abitudinario; oggi, però, in un testo ho letto abitudinale. È corretto?
RISPOSTA:
L’aggettivo abitudinale è registrato dal Grande Dizionario della Lingua italiana come variante alternativa di abituale, formata per derivazione dal nome abitudine. L’aggettivo non ha avuto successo e oggi è uscito dall’uso (infatti non è registrato nei dizionari dell’uso); usarlo oggi, pertanto, non può essere giudicato un errore, ma è certamente una scelta estremamente ricercata, adatta soltanto a contesti altamente formali. Attenzione, non bisogna confondere abituale (e la variante non più in uso abitudinale) con abitudinario, che ha un significato diverso: ‘consuetudinario, che segue abitudini acquisite per mancanza di iniziativa’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le guance della ragazza avvamparono, ma nella voce e nello sguardo non c’era traccia della sua timidezza.”
Gradirei sapere se la formulazione è corretta così com’è, o se sarebbe preferibile ripetere l’aggettivo possessivo in riferimento sia a voce sia a sguardo.
Esiste in questi casi una regola da rispettare, o, alla fine, è sufficiente che la semantica del periodo non veicoli messaggi da disambiguare?
RISPOSTA:
In questo caso l’inserimento dell’aggettivo possessivo (nella sua voce e nel suo sguardo) sarebbe possibile, ma non è necessario, visto che nella frase non sono introdotti altri referenti animati. La scelta è prettamente stilistica: a favore dell’inserimento degli aggettivi c’è la ricerca della massima esplicitezza; a favore dell’omissione c’è la superfluità di tale esplicitezza e anche la presenza a breve distanza dell’aggettivo sua associato a timidezza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.
Poteva scrivere: SAREBBE STATO…
RISPOSTA:
Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se la forma mal riscattata (o malamente riscattata) al secondo verso è corretta e se si può usare una forma univerbata malriscattata.
/caparra
mal riscattata
di trenta monete d’argento/
RISPOSTA:
Mal riscattata è certamente possibile (come anche malamente riscattata). La variante univerbata malriscattata non è attestata, ma sarebbe in astratto ugualmente possibile e ben formata; in un contesto poetico come è questo, per sua natura incline all’invenzione verbale, è quindi lecito impiegarla.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?
RISPOSTA:
Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:
L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.
Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?
RISPOSTA:
Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un quesito forse un po’ singolare suscitato dall’aver letto da qualche parte che Francis Scott Fitzgerald avesse dei problemi con l’ortografia. Volevo sapere: è davvero possibile? Inoltre, qual è il rapporto dei grandi scrittori con la grammatica? Ogni grande autore, o quasi, è un grammatico? Si trovano imperfezioni nei libri dei grandi autori o si sono trovati nei loro manoscritti? Se ne parla poco ma io lo reputo un discorso molto interessante.
RISPOSTA:
Non è questa la sede per discutere dell’ortografia di Francis Scott Fitzgerald; non è, però, inconcepibile che uno scrittore stenti ad adattarsi alle regole della grammatica. Gli scrittori non sono grammatici; piuttosto è la grammatica che trova la conferma delle sue regole negli scrittori. Sul versante della lingua, infatti, gli scrittori svolgono almeno tre ruoli: ne sono utilizzatori privilegiati, tanto da riuscire a costruire con essa interi mondi; sono fonti autorevoli delle sue forme allo stato attuale; sono innovatori, ovvero promotori del cambiamento di quello stesso stato. A seconda della personalità e della formazione del singolo scrittore, il peso di un ruolo può essere predominante sugli altri. In italiano ci sono stati, addirittura, scrittori scarsamente alfabetizzati, come Vincenzo Rabito, autore di Terramatta; ovviamente scrittori di questo tipo svolgono soltanto il ruolo di costruttori di mondi di parole, e non possono essere presi a modello né per la lingua attuale, né per la lingua del futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?
RISPOSTA:
In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.
Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.
Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).
Raphael Merida
QUESITO:
Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.
“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”
Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.
Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”
In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:
“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?
“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?
RISPOSTA:
Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.
La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo di propormi la vostra analisi del periodo di questo breve testo.
“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nei buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Claudio Magris, Un altro mare).
RISPOSTA:
Di seguito l’analisi del periodo; in coda si forniranno alcune note.
Carlo gli aveva detto, lui = principale
che, nell’ora sarebbe salito sull’abbaino della soffitta = sub. oggettiva di I grado;
in cui la nave doveva salpare, = sub. relativa di II grado;
per guardare, nella sera in direzione di Trieste, là = sub. finale di II grado;
che si spegneva, = sub. relativa di III grado;
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di III grado;
quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio = sub. comparativa ipotetica di III grado;
e salvare le cose dall’oscurità = coord. alla sub. comparativa ipotetica di III grado;
che aveva insegnato = sub. relativa di I grado;
che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire = sub. oggettiva di II grado;
vedere le cose lontane = sub. oggettiva di III grado;
come fossero vicine, = sub. comparativa ipotetica di IV grado;
abolire la brama = coord. alla sub. oggettiva di III grado;
di afferrarle, = sub. dichiarativa di IV grado;
perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere = sub. causale di V grado.
La proposizione principale nel testo è divisa in due parti, che si trovano a grande distanza l’una dall’altra; la prima parte (Carlo gli aveva detto) è continuata da una serie di subordinate contenenti descrizioni di luoghi e azioni, la seconda (il pronome lui) prolunga a distanza la principale per aggiungere alla frase un’informazione astratta (nella quale, però, si rispecchia il soggetto). Il sintagma complesso in direzione di Trieste, là è quasi certamente aggiunto al verbo guardare, ma non è escluso che ruoti intorno al verbo spegnere. Se si segue questa seconda interpretazione l’analisi di quella parte diventa:
per guardare, nella sera = sub. finale di II grado;
che si spegneva, in direzione di Trieste, là = sub. relativa di III grado.
Ancora, la relativa dove lui, Enrico, partiva può essere interpretata come dipendente da quest’ultima proposizione, per cui avremmo:
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di IV grado.
In questo caso guardare cambia valenza e significato; non è più bivalente con il significato di ‘osservare un oggetto o un processo’, ma monovalente con il significato di ‘soffermarsi a contemplare’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un discorso racconto o poesia, passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?
RISPOSTA:
In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:
«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Premetto che sono un cantautore e si tratta di una frase di un nuovo testo di una canzone. Non riesco a capire se è corretta o meno, ho chiesto anche a mia moglie diplomata al liceo classico e laureata in lingue…
La frase è la seguente: «Direi, anche una frase ti direi se la ricorderai».
Per questioni di metrica deve essere così, il dubbio è se grammaticalmente devo usare necessariamente «se la ricordassi». Il significato non vuole essere retorico, ovvero non voglio dire che non ti dico una frase perché poi non te la ricordi ma è quasi interrogativa, ovvero se tu mi prometti, o mi dici che la ricorderai allora quasi quasi ti direi anche una frase…
RISPOSTA:
Il verso va benissimo, è corretto e anche efficace: l’indicativo nel periodo ipotetico è sempre possibile, ancorché meno formale del congiuntivo. Inoltre, in questo caso, oltre ai motivi metrico-poetici (già validissimi di per sé, in una canzone), c’è anche una ragione semantico-pragmatica, cioè la (quasi) certezza, la garanzia, del ricordo: devi proprio promettermi «me la ricorderò».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda il verbo riapparire alla terza persona singolare del passato remoto.
Infatti, in luogo dei correntemente usati riapparve/riapparse, vorrei poter usare anche riapparì, che in certi casi mi suona più gradevole. Sarebbe un errore oppure è ammissibile?
RISPOSTA:
Decisamente troppo desueto, letterario, al punto da risultare errato, se usato fuori contesto (cioè fuor di letteratura volutamente arcaizzante).
Delle tre forme di passato remoto di apparire l’unica comune, e dunque l’unica consigliabile, è apparve, come suggerisce lo Zingarelli, mentre apparì è marcato come letterario e apparse come raro.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..
RISPOSTA:
Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?
RISPOSTA:
La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?
RISPOSTA:
Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo tenetur, beati monoculi in terra caecorum, carpe diem, est modus in rebus, risus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei approfondire il capitolo della particella si, già analizzata di recente da voi linguisti in uno degli esempi contenuti nell’articolo numero 2800208. L’utente ha espresso dubbi molto simili ai miei, che non mi sono mai stancato di consultare le varie grammatiche disponibili sul mercato per provare a comporre un quadro organico di regole.
Ho letto che “con un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha valore passivante ma impersonale”; su un’altra grammatica, a proposito del passivante, si legge “la regola vale anche quando il verbo, all’infinito, è preceduto da verbi servili o fraseologici. Se però la frase si complica, è naturale considerare quel si come un soggetto impersonale, equivalente a noi”; infine “con il si passivo il
soggetto logico è sempre umano e plurale, mentre nella costruzione passiva non ci sono restrizioni sul tipo di soggetto logico”.
Sono un appassionato di lingua italiana ma non un professore di lettere; ho quindi raccolto le idee e sono arrivato a formulare questi costrutti, su cui vi sarei grato se interveniste:
“Non si mangiano le mele” (corretto, passivante)
“Non si mangia le mele” (corretto, impersonale)
“Sono soldi che non si riescono a spendere” (corretto, passivante)
“Sono soldi che non si riesce a spendere” (corretto, impersonale)
“Si devono a controllare i bambini” (corretto?)
“Non si potevano più guardare i film” (corretto?)
“Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte” (stando alle regole, il si impersonale è doveroso, perché gli effetti sono formalmente distanti dal verbo; ma adottare il passivante sarebbe comunque possibile?).
Mi aggancio in parte all’utente che mi ha preceduto nella presentazione del quesito e vi chiedo se l’uso impersonale è sempre attuabile oppure ci sono determinati casi che lo inibiscono. Non per scegliere la strada comoda, ma con l’uso impersonale saremmo certi di non sbagliare mai? Potrei ad esempio scegliere di scrivere o dire “Non si spende più soldi” anziché “Non si spendono più soldi”, “Sono libri che non si legge più” anziché “Sono libri che non si leggono più”?
Cosa significa, all’atto pratico, che il “soggetto logico è sempre umano e plurale”? Se fosse inanimato e singolare, la costruzione con il si passivante non potrebbe essere ottenuta?
RISPOSTA:
Come sintetizzato da una delle grammatiche da lei citata, il si ha funzione impersonale solamente con i verbi intransitivi e con i transitivi senza oggetto espresso (che, quindi, si comportano come gli intransitivi): “Di solito il giorno di Natale si va a pranzo dai parenti”; “Non si parcheggia in seconda fila” (si noti, a margine, che il costrutto impersonale assume quasi sempre una sfumatura di obbligo, o deontica). Negli altri casi, cioè con i verbi transitivi con l’oggetto espresso, il si assume funzione passivante, trasformando l’oggetto grammaticale in soggetto logico: “Si mangia la mela” = “La mela è mangiata”; “Si mangiano le mele” = “Le mele sono mangiate”.
Le frasi “Si mangia le mele” e “Sono libri che non si legge più” sono ammissibili soltanto se si sottintende il soggetto noi: “Noi si mangia le mele” e “Sono libri che noi non si legge più”. Questa costruzione è ben nota alla tradizione letteraria italiana e oggi è ancora vitale nel parlato toscano; fuori dalla Toscana, però, è poco comune. Inoltre, se non esplicitiamo il soggetto noi, frasi come “Si mangia le mele” e “Non si legge più libri” possono ingenerare confusione, perché coincidono con le forme colloquiali del verbo transitivo con il pronome che indica un particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione, come in “Mi sono bevuto una bella birra” (= ‘Mi sono bevuto una bella birra con piena soddisfazione’).
Quando il verbo costruito con si è seguito da una intera proposizione, detta soggettiva, il si è considerato impersonale (come se il verbo fosse transitivo senza oggetto). In realtà, si noterà che il costrutto equivale a quello passivante: “Si mangia la mela” (ovvero “La mela è mangiata”) equivale a “Si dice che tu sia un ritardatario” (ovvero “Che tu sia un ritardatario è detto”). Classificazioni a parte, però, il dettaglio a cui prestare attenzione è che, in questo caso, il verbo reggente la soggettiva è sempre singolare, anche quando il soggetto della proposizione soggettiva è plurale: “Si spera che cadranno molte stelle a Ferragosto”, non *”Si sperano che cadranno molte stelle a Ferragosto”; “Si dice che ieri siano arrivati molti ospiti”, non *”Si dicono che ieri siano arrivati molti ospiti”. Questa regola equivale a quella correttamente intuita da lei a proposito della frase “Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte”; dal momento che gli effetti è il soggetto della proposizione soggettiva, non dovrebbe influire sulla concordanza del verbo reggente l’intera proposizione, si riuscirebbe, che rimane singolare: la costruzione *”Si riuscirebbero a vedere… gli effetti…” è, pertanto, scorretta.
Tale scorrettezza, però, è riscontrabile nel discorso poco sorvegliato e, in alcuni casi, passa decisamente inosservata. Tra le due frasi seguenti, ad esempio, si fa fatica a considerare scorretta la prima: “Sono soldi che non si riescono a spendere” / “Sono soldi che non si riesce a spendere”. Pur trovandoci nella medesima situazione della frase precedente (“Si riuscirebbe a vedere…gli effetti”), qui riuscire e spendere i soldi sono talmente solidali da poter quasi essere considerati un unico verbo e indurre a trascurare la regola grammaticale. Come se ciò non bastasse, la costruzione con la proposizione relativa complica ulteriormente la situazione. In questi casi, in astratto la scelta più formale rimane quella di considerare a spendere una proposizione soggettiva retta da si riesce, ma in pratica si può considerare valida anche l’eventuale infrazione (non si riescono a spendere). Allo stesso modo si comportano tutti i verbi detti modali, che aggiungono una sfumatura al verbo semanticamente più rilevante e sintatticamente lo reggono; in un caso come il seguente, qualunque parlante propenderebbe per la seconda soluzione, in astratto scorretta, e scarterebbe, al contrario, la prima, in astratto corretta: “I punti dell’ordine del giorno si comincia a trattare dopo le comunicazioni preliminari”; “I punti dell’ordine del giorno si cominciano a trattare dopo le comunicazioni preliminari”.
Ci sono casi, poi, in cui il verbo che tecnicamente regge il complemento oggetto ha un legame ancora più stretto con il verbo che lo regge: i costrutti con i verbi servili (dovere, potere, volere). Uno di questi esempi è “Si devono controllare i bambini” (non “a controllare”, come ha scritto lei, forse per distrazione). Come si nota, il verbo che regge il complemento oggetto è controllare, mentre è dovere che concorda con esso; un altro esempio è “Non si potevano più guardare i film”. È il caso limite di solidarietà tra verbo reggente e proposizione soggettiva, che impedisce di considerare corrette le costruzioni “Si deve controllare i bambini”, “Non si poteva più guardare i film”.
Queste ultime ridiventano accettabili se consideriamo sottinteso (ma è molto meglio esplicitarlo) il soggetto noi, secondo la costruzione tradizionalmente letteraria e oggi toscana: “Noi si deve controllare i bambini”, “Noi non si poteva più guardare i film”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi?
RISPOSTA:
I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedere se sbaglio omettendo la congiunzione se nel testo della mia poesia che vi riporto qui sotto, oppure se è indifferente:
…è ricamata col verde, e scintilla
di quelle che all’occhio sembrano gemme
(se) non fosse per la sinfonia di profumi
che orchestrano l’arancio e il limone…
RISPOSTA:
L’omissione è consentita: il congiuntivo preceduto da non veicola sufficientemente il senso dell’eccezione (se non o, qui, se non fosse = ‘tranne che’). L’omissione della congiunzione conferisce al verso una vaghezza che è stata apprezzata nella lirica tradizionale e oggi è un tratto di arcaicità o aulicità:
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”. Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?
RISPOSTA:
Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (lui, lei, te) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
Fabio Rossi
QUESITO:
A proposito dell’eterno dualismo si passivante / si impersonale, ampiamente discusso in precedenti occasioni, vi domando se, in presenza di una doppia particella pronominale all’interno di un periodo, si sceglie, di preferenza, l’una o l’altra costruzione: “Da anziani, ci si dimentica / dimenticano le cose”.
RISPOSTA:
Dimenticare è un verbo transitivo, che, nella sua frase, regge un complemento oggetto. In questo contesto, il si ha la funzione di rendere il costrutto passivo: “Da anziani si dimenticano le cose” (ovvero “Da anziani le cose sono dimenticate”). Non bisogna confondere questa costruzione con quella del verbo dimenticarsi, che vediamo in un esempio come: “Il mio vecchio zio si dimentica le cose”. In questo caso il si funge da pronome personale atono intensificatore (che, cioè, enfatizza la partecipazione del soggetto al processo designato dal verbo), quindi il verbo concorda con il soggetto (infatti, cambiando soggetto avremo, per esempio, “Io mi dimentico sempre le chiavi nelle tasche delle giacche”).
Se al si aggiungiamo il pronome ci il costrutto diviene impersonale (il soggetto è un noi generico), quindi il verbo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dalla presenza o assenza del complemento oggetto, e a prescindere dal numero del complemento oggetto. Nella sua frase, pertanto, l’unica costruzione corretta è “ci si dimentica le cose”. La costruzione, scorretta, *”ci si dimenticano le cose” è attratta dal già visto “si dimenticano le cose”, ma anche da espressioni del tutto diverse, ma apparentemente identiche, come “e poi ci si mettono anche gli imbecilli del caffè a ridere” (Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, 1960), in cui gli imbecilli non è il complemento oggetto, ma il soggetto del verbo pronominale mettersi e ci è un pronome che possiamo parafrasare come ‘in questa situazione’ (sulla funzione avverbiale del pronome ci rimando a questo articolo di DICO, e soprattutto alla risposta del prof. Rossi al commento di un utente, che si trova in coda all’articolo). Per completezza, va detto che mettercisi può anche essere considerato un verbo procomplementare, ovvero un verbo nel quale l’appendice pronominale (qui -cisi) non ha un significato autonomo, ma conferisce al verbo un nuovo significato: mettere ‘introdurre un oggetto dentro un altro’ / mettercisi ‘darsi a una attività’. Maggiori informazioni sui verbi procomplementari sono fornite in altre risposte presenti nell’archivio di DICO (si trovano inserendo nella maschera di ricerca la parola chiave procomplementare).
La ricerca nel web attraverso Google rivela che le occorrenze di *”ci si dimenticano le cose” sono più numerose di quelle di *”ci si dimentica le cose”: questo fatto indica che i parlanti sono inclini ad accettare la forma scorretta e addirittura a preferirla. Aggiungo che, in letteratura, è attestato l’accordo del verbo impersonale con il complemento oggetto per la costruzione impersonale del tipo noi si va; Luca Serianni, nella sua grammatica (Italiano, Garzanti, 2000), riporta questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Ora queste ragazze andavano alla messa e noi si volevano accompagnare”. L’attrazione esercitata dai costrutti passivanti su quelli impersonali è, quindi, forte, tanto da far passare inosservata la scorrettezza di *”ci si dimenticano le cose”. Ritengo, comunque, che si possa ancora considerarla scorretta, e che si debba scoraggiarne l’uso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In aula, durante una lezione in cui si commentavano i versi finali del coro del quarto atto dell’Adelchi di Manzoni, nel termine colono (v. 119) uno studente coglieva una connotazione “ideologica”, estranea invece al termine contadino: colono, diceva, è chi lavora alle dipendenze di un padrone, coltivando terreni non di proprietà. Ne è nata una vivace discussione…
C’è del vero in quanto affermava? E qual è in realtà la sfumatura che diversifica i due sostantivi?
RISPOSTA:
Lo studente mostra una sottile conoscenza del lessico contemporaneo, nel quale, in effetti, con colono si designa un contadino dipendente, cioè un coltivatore di un fondo non suo. Diversa la natura del lessico poetico, spesso rivolto al passato, e in particolare al significato che le parole avevano in latino.
Qui Manzoni (il quale nella prosa si mostra ben più moderno che in poesia, dal punto di vista linguistico) utilizza colono nel significato originario di ‘agricoltore’ (dal verbo còlere ‘coltivare’). Si tratta dunque, nel caso dell’Adelchi, di un latinismo semantico, vale a dire di una parola italiana usata tuttavia nel significato della corrispondente parola latina.
Un dibattito siffatto, peraltro, mostra una bella vivacità sia degli studenti coinvolti sia del docente, in quanto stimola proprio l’arricchimento lessicale e l’approfondimento diacronico della lingua, colta nelle sue sfumature dagli usi poetici a quelli in prosa, dallo scritto al parlato, dagli usi arcaici a quelli contemporanei.
Fabio Rossi
QUESITO:
Qual è l’accordo corretto del participio passato?
RISPOSTA:
Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Su alcuni libri di grammatica, in uso nella scuola secondaria di I grado, è registrata la possibilità di coniugare il participio presente passivo dei verbi transitivi con essente unito al participio passato (per es.: di amare, essente amato); inoltre viene distinta la voce del participio passato nella tabella della coniugazione attiva (per es.: di amare, amato) da quella corrispondente nella tabella della coniugazione passiva (per es.: di amare, stato amato).
Se il participio presente ha solo diatesi e forma attiva e se quello passato dei verbi transitivi ha solo diatesi passiva, le voci verbali sopra riportate sono giustificabili? Se sì, da quali autori della letteratura sono state usate?
RISPOSTA:
Alcune grammatiche scolastiche eccedono nello sforzo di completare i paradigmi della lingua, registrando sullo stesso piano forme effettivamente esistenti nell’uso e forme in teoria possibili, ma non usate (o, in certi casi, usate in passato ma oggi obsolete). I casi da lei proposti sono esempi degli effetti di questo sforzo: il fantomatico participio presente passivo è possibile in teoria, ma non se ne trovano tracce nella storia dell’italiano (per la verità, ho trovato un caso di essente odiato, nello ‘Nfarinato secondo di Lionardo Salviati, datato 1588), e soprattutto nell’italiano contemporaneo. Lo stesso participio presente di essere, essente, è praticamente in disuso oggi; lo si trova usato solamente come aggettivo in ambito filosofico, con il significato di ‘dotato della qualità dell’esistenza’.
Anche la distinzione tra participio passato attivo e passivo per i verbi transitivi è discutibile, nei termini da lei illustrati: perché amato dovrebbe essere considerata una forma attiva? Bisogna andare più a fondo nel problema. Il participio passato, quando è in composizione con l’ausiliare, può divenire attivo: “Avendo preso la valigia, Luca uscì” mostra che l’azione del prendere parte dal soggetto, Luca, e ricade sull’oggetto, valigia. Questo succede perché il participio passato transitivo viene percepito come un tutt’uno con l’ausiliare avere e, per questo, perde la sua funzione originaria di passivo. Si noti, però, che è sempre possibile dire “avendo presa la valigia”, che è comunque una costruzione attiva, ma mantiene il ricordo della funzione passiva del participio passato: equivale, infatti, a ‘avendo la valigia presa’, cioè ‘avendo reso la valigia presa’. Quando è usato da solo, inoltre, il participio passato transitivo è ancora preferenzialmente passivo: se togliamo l’ausiliare alla nostra frase esempio, infatti, rimaniamo con “Preso la valigia, Luca uscì”, che è al limite dell’accettabilità rispetto a “Presa la valigia, Luca uscì”, la variante più corretta, nella quale il soggetto di presa è la valigia. La frase equivale, quindi, a “Essendo stata presa la valigia, Luca uscì”: il participio è detto, in questo caso, assoluto, perché non ha collegamenti sintattici con la proposizione reggente. In “Preso la valigia, Luca uscì” agisce il modello sottostante “Avendo preso la valigia, Luca uscì”, che dà alla costruzione legittimità (limitata a usi non sorvegliati) per analogia.
Tanto amato, o preso quanto stato amato, o stato preso, quindi, possiedono il tratto della passività: amato, preso ecc. possono divenire attivi in composizione con l’ausiliare avere; stato amato, stato preso ecc., ovviamente, no, visto che sono già accompagnati dall’ausiliare essere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un paragrafo incluso in una grammatica, leggo, a proposito dell’accordo del participio passato, il seguente esempio: “Non si è vinta la partita”.
Domanda: la costruzione “Non si è vinto la partita”, anche se non riconducibile alla regola cui si riferisce l’esempio precedente, sarebbe corretta quale forma impersonale, equivalente a “Noi non abbiamo vinto la partita”?
Accordo con negazione né.
Leggo la frase: “Né io né tu né lei né gli altri sanno…”.
Domanda: non sarebbe stato più giusto coniugare il verbo alla prima persona plurale: “Né io né tu né lei né gli altri sappiamo”? O esiste oppure una terza coniugazione più appropriata?
Ultimo caso: congiunzione disgiuntiva o. Leggo che quando si presenta una scelta netta, il verbo si accorda al singolare (se ovviamente lo sono anche i soggetti). Evinco che la regola decada se i soggetti siano di numero misto: “O io o loro andremo”.
Domanda: il verbo può essere accordato al plurale anche se i soggetti sono singolari e se il primo di essi non è preceduto dalla congiunzione: “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi”?
RISPOSTA:
Quando il verbo costruito con il si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione si considera non impersonale ma passiva; la forma corretta nel suo caso è, pertanto, “Non si è vinta la partita” (equivalente a “la partita non è stata vinta”). La variante “Non si è vinto la partita” non è impossibile, però: viene a coincidere con il tipo di costruzione impersonale tipica del toscano e della tradizione letteraria, quindi non proprio comune (ma comunque legittima), noi si fa qualcosa (e noi si fa alcune cose). Si considerino, per un confronto, questi due esempi giornalistici: “Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo” (la Repubblica, 27 gennaio 2018); “Dare la colpa a qualcuno che per una volta si è vinto le elezioni: non è ancora successo, ma dal PD possiamo aspettarci anche di peggio” (l’Espresso, 11 giugno 2013). Nel secondo esempio “si è vinto le elezioni” sottintende un soggetto noi, ovvero “noi si è vinto le elezioni”. Si consideri, comunque, che anche la forma impersonale del tipo noi si fa alcune cose si può costruire come se fosse passivante: noi si fanno cose (si veda l’esempio letterario riportato in questa risposta dell’archivio di DICO).
In una frase con soggetti multipli, se è presente io il verbo va alla prima persona plurale, come da lei suggerito (se ci fosse tu senza io, il verbo andrebbe alla seconda plurale). La versione da lei letta è scorretta; in essa il verbo è accordato “per prossimità” con l’ultimo soggetto introdotto, come si farebbe nel parlato poco sorvegliato.
“O io o loro andremo” è corretto (rappresenta un caso sovrapponibile a quello appena discusso). Il verbo va comunemente alla terza plurale anche con soggetti di terza persona singolare uniti da o. Può andare al singolare quando i soggetti stanno tra loro in un rapporto di alternativa: “Verrà a chiamarti un mio amico o mio fratello”. Niente vieta, però, di concordare il verbo alla terza plurale anche in questo caso: “Fu stabilito che, nei giorni seguenti, lui o la governante mi avrebbero portato da mangiare” (Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970).
Infine, la presenza della seconda o correlativa non cambia niente ai fini dell’accordo; quindi “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi” è ben formata, come anche “Il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì” o “O il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì”. Possibili anche, ricollegandoci alla questione appena discussa, “(O) il prof. Rossi o il prof. Verdi riceverà i genitori venerdì” e “Riceverà i genitori (o) il prof. Rossi o il prof. Verdi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La costruzione essere (o eventualmente avere) coniugato al congiuntivo trapassato + verbo servile + essere (infinito o infinito passato) è consentita?
Due esempi: “Non sapevamo se i documenti ci fossero dovuti essere consegnati”, “Non sapevamo se i documenti ci fossero dovuti essere stati consegnati”. Specie il secondo caso risulta, d’impatto, abbastanza macchinoso (e, da questo punto di vista, l’uso dell’ausiliare avere mi pare che non cambierebbe l’effetto), ma, al di là della complessità dei predicati, mi domando che cosa preveda la grammatica.
RISPOSTA:
Il costrutto verbo servile + essere prevede che l’ausiliare sia sempre avere; non si può, quindi, dire *”Mi dispiace, ma sono dovuto essere diretto”, ma si deve dire “Mi dispiace, ma ho dovuto essere diretto”. Bisogna dire che l’ausiliare essere in combinazione con un verbo servile reggente a sua volta il verbo essere non è sconosciuto nell’uso (soprattutto con il servile potere), persino letterario, per cui va almeno considerato possibile, sebbene meno formale.
Nei casi da lei prospettati, comunque, la costruzione con l’ausiliare essere è certamente da scartare, perché, oltre ad essere meno formale è anche poco chiara, vista anche la concomitanza della diatesi passiva di consegnare. Al contrario, la costruzione con il verbo avere è chiara e legittima: “Non sapevamo se i documenti avessero dovuto essere consegnati a noi”; oppure, con riferimento al futuro (nel passato): “Non sapevamo se i documenti avrebbero dovuto essere consegnati a noi”. Questo esempio letterario contiene entrambi i costrutti: “E ripeteva a ciascuno […] che se a professare questa retta opinione avesse dovuto essere condannato al supplizio, tanto meglio, perché in breve tempo avrebbe potuto vedere ciò che dicono le scritture” (Umberto Eco, Il nome della rosa, 1981).
Non c’è nessun motivo di coniugare l’infinito al passato nella sua frase, visto che esso dipende da un verbo servile già al passato, che è sufficiente per veicolare l’informazione temporale e soprattutto il rapporto di anteriorità con il verbo reggente. Un infinito passato retto da un verbo servile passato può servire solamente se si immagina un momento intermedio tra quello dell’evento e quello del verbo reggente (ovviamente a sua volta passato rispetto al momento dell’enunciazione); ad esempio: “Mi chiedevo (verbo reggente, passato rispetto al momento dell’enunciazione, che è adesso) se quando avevo preso il treno avessi dovuto (evento del momento intermedio) aver già fatto il biglietto (evento primario), oppure se avrei potuto farlo sul treno”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sto preparando un breve articolo per la rubrica di cultura locale di UniversoMe (il giornale gestito dagli studenti dell’Università) riguardo al ruolo di Messina nella storia della lingua italiana. Pensavo di trattare degli scrittori nati a Messina legati alla scuola siciliana e accennare al periodo messinese di Pietro Bembo. Altri suggerimenti? Grazie.
RISPOSTA:
Oltre ai riferimenti da lei ricordati, le suggerisco di nominare l’ignoto autore nascosto sotto lo pseudonimo Partenio Zanclaio che pubblicò nel 1647 il poemetto Cittadinus maccaronice metrificatus, un galateo in latino maccheronico con inserti in dialetto messinese, in napoletano, in italiano e in spagnolo. Inoltre grande importanza per la storia della lingua italiana a Messina riveste l’accademico dei Pericolanti settecentesco Pippo Romeo, che in una sua cicalata, intitolata I pregi dell’ignoranza (1800), simula questo dialogo con un amico, che difende il dialetto contro la “moda” di parlare italiano:
– Romeo) Chiunque ha fior di senno, ed è di mente sana…
– Amico) E in quale lingua reciti?
– In lingua italiana…
– Eccu lu primu erruri supra cui ti piscu;
Rispunnimi: in Girmania, si predica un tidiscu
a tutti ddi mustazzi in lingua missinisa,
tu non lu chiami pacciu? E non saria un’offisa,
anzi un insultu massimu a tutta la nazioni,
quannu la propria lingua pi’ un’estira pusponi?
[…]
– Ma non è tanta oscura
la lingua italiana: non si può diri estrania;
cc’è differenza massima chidda di la Girmania…
Infine una menzione merita Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme e autore di Horcynus Orca, romanzo scritto in una lingua che sfrutta materiale dialettale all’interno di un italiano personalissimo.
Fabio Ruggiano