QUESITO:
Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vattene, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le guance della ragazza avvamparono, ma nella voce e nello sguardo non c’era traccia della sua timidezza.”
Gradirei sapere se la formulazione è corretta così com’è, o se sarebbe preferibile ripetere l’aggettivo possessivo in riferimento sia a voce sia a sguardo.
Esiste in questi casi una regola da rispettare, o, alla fine, è sufficiente che la semantica del periodo non veicoli messaggi da disambiguare?
RISPOSTA:
In questo caso l’inserimento dell’aggettivo possessivo (nella sua voce e nel suo sguardo) sarebbe possibile, ma non è necessario, visto che nella frase non sono introdotti altri referenti animati. La scelta è prettamente stilistica: a favore dell’inserimento degli aggettivi c’è la ricerca della massima esplicitezza; a favore dell’omissione c’è la superfluità di tale esplicitezza e anche la presenza a breve distanza dell’aggettivo sua associato a timidezza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?
RISPOSTA:
Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un quesito forse un po’ singolare suscitato dall’aver letto da qualche parte che Francis Scott Fitzgerald avesse dei problemi con l’ortografia. Volevo sapere: è davvero possibile? Inoltre, qual è il rapporto dei grandi scrittori con la grammatica? Ogni grande autore, o quasi, è un grammatico? Si trovano imperfezioni nei libri dei grandi autori o si sono trovati nei loro manoscritti? Se ne parla poco ma io lo reputo un discorso molto interessante.
RISPOSTA:
Non è questa la sede per discutere dell’ortografia di Francis Scott Fitzgerald; non è, però, inconcepibile che uno scrittore stenti ad adattarsi alle regole della grammatica. Gli scrittori non sono grammatici; piuttosto è la grammatica che trova la conferma delle sue regole negli scrittori. Sul versante della lingua, infatti, gli scrittori svolgono almeno tre ruoli: ne sono utilizzatori privilegiati, tanto da riuscire a costruire con essa interi mondi; sono fonti autorevoli delle sue forme allo stato attuale; sono innovatori, ovvero promotori del cambiamento di quello stesso stato. A seconda della personalità e della formazione del singolo scrittore, il peso di un ruolo può essere predominante sugli altri. In italiano ci sono stati, addirittura, scrittori scarsamente alfabetizzati, come Vincenzo Rabito, autore di Terramatta; ovviamente scrittori di questo tipo svolgono soltanto il ruolo di costruttori di mondi di parole, e non possono essere presi a modello né per la lingua attuale, né per la lingua del futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.
“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”
Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.
Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”
In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:
“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?
“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?
RISPOSTA:
Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.
La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.
RISPOSTA:
La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimo, meno acerrimo, il più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con più: più/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?
RISPOSTA:
La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sto preparando un breve articolo per la rubrica di cultura locale di UniversoMe (il giornale gestito dagli studenti dell’Università) riguardo al ruolo di Messina nella storia della lingua italiana. Pensavo di trattare degli scrittori nati a Messina legati alla scuola siciliana e accennare al periodo messinese di Pietro Bembo. Altri suggerimenti? Grazie.
RISPOSTA:
Oltre ai riferimenti da lei ricordati, le suggerisco di nominare l’ignoto autore nascosto sotto lo pseudonimo Partenio Zanclaio che pubblicò nel 1647 il poemetto Cittadinus maccaronice metrificatus, un galateo in latino maccheronico con inserti in dialetto messinese, in napoletano, in italiano e in spagnolo. Inoltre grande importanza per la storia della lingua italiana a Messina riveste l’accademico dei Pericolanti settecentesco Pippo Romeo, che in una sua cicalata, intitolata I pregi dell’ignoranza (1800), simula questo dialogo con un amico, che difende il dialetto contro la “moda” di parlare italiano:
– Romeo) Chiunque ha fior di senno, ed è di mente sana…
– Amico) E in quale lingua reciti?
– In lingua italiana…
– Eccu lu primu erruri supra cui ti piscu;
Rispunnimi: in Girmania, si predica un tidiscu
a tutti ddi mustazzi in lingua missinisa,
tu non lu chiami pacciu? E non saria un’offisa,
anzi un insultu massimu a tutta la nazioni,
quannu la propria lingua pi’ un’estira pusponi?
[…]
– Ma non è tanta oscura
la lingua italiana: non si può diri estrania;
cc’è differenza massima chidda di la Girmania…
Infine una menzione merita Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme e autore di Horcynus Orca, romanzo scritto in una lingua che sfrutta materiale dialettale all’interno di un italiano personalissimo.
Fabio Ruggiano