Tutte le domande

QUESITO:

Vorrei sapere se è corretta la seguente espressione usata in un discorso diretto: “Gli uomini siete tutti uguali”.

RISPOSTA:

A rigore è scorretta, perché il verbo non concorda con il soggetto. Si può, però, ammettere nel parlato trascurato come costruzione a tema sospeso, ovvero come enunciato in cui il tema, l’informazione di cui si parla (gli uomini), è grammaticalmente scollegato dal rema, l’informazione aggiunta sul tema (siete tutti uguali). In casi come questi il collegamento grammaticale è facilmente ricostruibile sulla base del collegamento logico, che è trasparente; la scorrettezza è, quindi, superata sul piano comunicativo.

Costrutti di questo genere, come si è detto, sono propri del parlato autentico, soprattutto concitato, in cui può capitare di cominciare l’enunciato in un modo, soprattutto inserendo il tema in forma diretta, come in questo caso, e poi cambiare progetto sintattico in corso d’opera. È quello che avviene, per esempio, in costrutti come “Io… non mi piace”, in cui il tema (io) è introdotto in forma diretta ma poi si seleziona il verbo piacere, che richiede una costruzione diversa.

Dal parlato il tema sospeso penetra a volte nella letteratura narrativa sperimentale, nelle parti di discorso diretto, in cui l’imitazione dell’andamento del parlato è funzionale a conferire verosimiglianza al discorso stesso.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei delle delucidazioni riguardo all’utilizzo delle lineette in questi passi del Ritorno di Casanova:

«Ma ora non provava più quel piacere che s’era immaginato; faceva freddo, sempre più freddo, andava alla deriva nel mare aperto, lontano da Murano, lontano da Venezia – nessuna nave tutt’intorno, il suo pesante vestito trapunto d’oro lo tirava verso il basso; tentò di liberarsene, ma era impossibile, poiché reggeva in mano il manoscritto che doveva dare al signor de Voltaire, – gli entrò acqua in bocca, nel naso, fu preso da una paura mortale, tastò attorno a sé, rantolò, gridò e aprì faticosamente gli occhi.»

In questo passo ciò che è contenuto tra le due lineette è da considerarsi un inciso?

«E quel che leggeva negli occhi di Marcolina non era ciò che avrebbe mille volte preferito leggere: ladro – dissoluto – farabutto –; lesse solo una parola –, che lo abbatté più ignominiosamente di quanto avrebbero fatto tutte le altre ingiurie – lesse la parola che era per lui la più terribile di tutte, poiché esprimeva la sentenza definitiva: vecchio.»

Qui le lineette sono davvero ambigue. O ancora:

«Su quelle labbra non erano una sola cosa vita e morte, tempo e eternità? Non era lui un dio –? Giovinezza e vecchiaia solo una favola inventata dagli uomini? – Patria e terra straniera, splendore e miseria, gloria e oblio – irreali distinzioni ad uso di uomini inquieti, solitari, frivoli – e diventate assurde quando si era Casanova e si era trovata Marcolina?»; «finalmente si accorse di qualcosa che, abbastanza follemente, aveva creduto di provare tanto spesso e che non aveva mai veramente provato – sul petto di Marcolina era soddisfazione piena. Stringeva fra le braccia la donna alla quale poteva dare tutto se stesso per sentirsi inesauribile: – sul cui seno l’attimo dell’ultimo abbandono e quello del rinato desiderio confluivano in uno solo d’inattesa delizia dell’anima.»

Come andrebbe inteso l’utilizzo in questi casi e l’unione con altri segni interpuntivi?

«La gondola era scomparsa, – ora bisognava nuotare –, com’era bello!»

In questo caso la prima virgola non è di troppo? La versione corretta non sarebbe: «La gondola era scomparsa – ora bisognava nuotare –, com’era bello!», o al limite «La gondola era scomparsa, – ora bisognava nuotare – com’era bello!»

 

RISPOSTA:

Nei passi citati il trattino è volutamente ambiguo; può, infatti, essere ricondotto a funzioni diverse coesistenti. Oltre a quella di segnalatore dell’inciso, possibilità che richiede la ripetizione del segno in apertura e chiusura dell’inciso, riconosciamo in tutti i casi la funzione attribuita a questo segno nella narrativa contemporanea più sperimentale: quella sospensiva, con una sfumatura presentativa. Con il trattino, cioè, l’autore intende introdurre una pausa nel flusso del discorso, per rappresentare un momento di titubanza, uno scatto nel ragionamento, un ripensamento o simili del personaggio. Si tratta, come si può immaginare, di una strategia sfruttata per imitare l’andamento non controllato del parlato o, ancora meglio (come nei suoi esempi), del pensiero.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla divisione sillabica della parola genuino. In alcuni siti ho trovato che è trisillabo (ge-nui-no), in altri quadrisillabo (ge-nu-i-no). Poichè a me serve quadrisillabo devo considerare ui uno iato o un dittongo? In questo secondo caso devo porre la dieresi? E dove, sulla U o sulla I? Per maggior chiarezza riporto il verso: CON QUEST’UOMO GENUINO.

 

RISPOSTA:

La scansione normale di genuino è ge-nu-i-no, con la u ben separata dalla i (si veda qui la trascrizione del DOP); una pronuncia ge-nui-no risulta, invece, innaturale. In questa parola, quindi, la u è una vocale, non una semiconsonante, e forma con la vocale che la segue uno iato.

In ogni caso, nella tradizione poetica italiana il trattamento dei nessi vocalici è altamente oscillante: le ragioni del verso rendono possibili praticamente tutte le soluzioni. Nel caso in cui l’autore voglia trasformare un dittongo in iato può (ma non è obbligatorio) segnalare al lettore l’eccezione attraverso la cosiddetta dieresi grafica (o semplicemente dieresi), ovvero la sequenza di due puntini collocati sopra una vocale. Anche la posizione della dieresi è oscillante tra la prima e la seconda vocale del nesso: una scelta ragionevole è, però, aggiungerla sopra la i o la u da considerare vocaliche.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Un’ amica mi ha raccontato che recatasi con il figlio al cimitero ha letto su una lapide la data della scomparsa della persona scritta in questo modo: il 8/08/…
Il bambino a scuola ha domandato all’insegnante se fosse corretto e la stessa ha risposto di no, che come abbiamo imparato si scriva l’8.
Vorrei sapere se si possa usare l’altra modalità in casi particolari, come per licenza poetica oppure se si sottintende il giorno, o se sia stato… un errore.

 

RISPOSTA:

La forma il 8 è agrammaticale: non è possibile, cioè, ricondurla a una regola o a una sua eccezione (ovvero a un’altra regola). La forma corretta è l’8 (come l’1l’11 e i loro composti), che corrisponde a l’otto (e l’uno e l’undici ecc.). Nel valutare questa forma irregolare dobbiamo, però, considerare il tipo di testo in cui è inserita. Le epigrafi sono scritte in una lingua solenne e altamente formalizzata, che accoglie – in misura proporzionata al gusto dell’autore – latinismi, arcaismi, varianti fonomorfologiche rare, letterarie e preziose, e rifugge, di converso, dalla varietà comune. La lingua delle epigrafi indulge, inoltre, in abbreviazioni ed ellissi, talvolta piuttosto marcate, utili ancora ad elevare il testo, ma favorite anche dalla limitatezza dello spazio a disposizione. Si pensi, ad esempio, alla gran quantità di sigle proprie delle iscrizioni latine (AVC ab urbe condita, COS consul, DOM deo optimo maximo…) e alle formule dedicatorie moderne come A Giuseppe Garibaldi (ovvero questa lapide è dedicata a Giuseppe Garibaldi). Risulta, in quest’ottica, plausibile (ancorché congetturale) la sua idea che la variante irregolare il 8 sia il prodotto di un’ellissi, in particolare del nome giorno.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rab­bia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pa­vel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cat­tiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vatte­ne, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Le guance della ragazza avvamparono, ma nella voce e nello sguardo non c’era traccia della sua timidezza.”
Gradirei sapere se la formulazione è corretta così com’è, o se sarebbe preferibile ripetere l’aggettivo possessivo in riferimento sia a voce sia a sguardo.
Esiste in questi casi una regola da rispettare, o, alla fine, è sufficiente che la semantica del periodo non veicoli messaggi da disambiguare?

 

RISPOSTA:

In questo caso l’inserimento dell’aggettivo possessivo (nella sua voce e nel suo sguardo) sarebbe possibile, ma non è necessario, visto che nella frase non sono introdotti altri referenti animati. La scelta è prettamente stilistica: a favore dell’inserimento degli aggettivi c’è la ricerca della massima esplicitezza; a favore dell’omissione c’è la superfluità di tale esplicitezza e anche la presenza a breve distanza dell’aggettivo sua associato a timidezza.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?

 

RISPOSTA:

Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un quesito forse un po’ singolare suscitato dall’aver letto da qualche parte che Francis Scott Fitzgerald avesse dei problemi con l’ortografia. Volevo sapere: è davvero possibile? Inoltre, qual è il rapporto dei grandi scrittori con la grammatica? Ogni grande autore, o quasi, è un grammatico? Si trovano imperfezioni nei libri dei grandi autori o si sono trovati nei loro manoscritti? Se ne parla poco ma io lo reputo un discorso molto interessante.

 

RISPOSTA:

Non è questa la sede per discutere dell’ortografia di Francis Scott Fitzgerald; non è, però, inconcepibile che uno scrittore stenti ad adattarsi alle regole della grammatica. Gli scrittori non sono grammatici; piuttosto è la grammatica che trova la conferma delle sue regole negli scrittori. Sul versante della lingua, infatti, gli scrittori svolgono almeno tre ruoli: ne sono utilizzatori privilegiati, tanto da riuscire a costruire con essa interi mondi; sono fonti autorevoli delle sue forme allo stato attuale; sono innovatori, ovvero promotori del cambiamento di quello stesso stato. A seconda della personalità e della formazione del singolo scrittore, il peso di un ruolo può essere predominante sugli altri. In italiano ci sono stati, addirittura, scrittori scarsamente alfabetizzati, come Vincenzo Rabito, autore di Terramatta; ovviamente scrittori di questo tipo svolgono soltanto il ruolo di costruttori di mondi di parole, e non possono essere presi a modello né per la lingua attuale, né per la lingua del futuro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.

“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”

Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.

Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”

In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:

“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?

“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?

 

RISPOSTA:

Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.

La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.

 

RISPOSTA:

La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimomeno acerrimoil più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con piùpiù/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?

 

RISPOSTA:

La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria
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QUESITO:

Sto preparando un breve articolo per la rubrica di cultura locale di UniversoMe (il giornale gestito dagli studenti dell’Università) riguardo al ruolo di Messina nella storia della lingua italiana. Pensavo di trattare degli scrittori nati a Messina legati alla scuola siciliana e accennare al periodo messinese di Pietro Bembo. Altri suggerimenti? Grazie.

 

RISPOSTA:

Oltre ai riferimenti da lei ricordati, le suggerisco di nominare l’ignoto autore nascosto sotto lo pseudonimo Partenio Zanclaio che pubblicò nel 1647 il poemetto Cittadinus maccaronice metrificatus, un galateo in latino maccheronico con inserti in dialetto messinese, in napoletano, in italiano e in spagnolo. Inoltre grande importanza per la storia della lingua italiana a Messina riveste l’accademico dei Pericolanti settecentesco Pippo Romeo, che in una sua cicalata, intitolata I pregi dell’ignoranza (1800), simula questo dialogo con un amico, che difende il dialetto contro la “moda” di parlare italiano:

– Romeo) Chiunque ha fior di senno, ed è di mente sana…
– Amico) E in quale lingua reciti?
– In lingua italiana…
– Eccu lu primu erruri supra cui ti piscu;
Rispunnimi: in Girmania, si predica un tidiscu
a tutti ddi mustazzi in lingua missinisa,
tu non lu chiami pacciu? E non saria un’offisa,
anzi un insultu massimu a tutta la nazioni,
quannu la propria lingua pi’ un’estira pusponi?
[…]
– Ma non è tanta oscura
la lingua italiana: non si può diri estrania;
cc’è differenza massima chidda di la Girmania…

Infine una menzione merita Stefano D’Arrigo, nato ad Alì Terme e autore di Horcynus Orca, romanzo scritto in una lingua che sfrutta materiale dialettale all’interno di un italiano personalissimo.
Fabio Ruggiano

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