Tutte le domande

Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.

2. (…) la seguente questione pregiudiziale:

se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:

  1. l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
  2. l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.

 

Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …

Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:

“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.

Nel secondo caso avremo:

“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.

Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) Sai domani chi esce/escono?

2) Fatevi riconoscere, chi siete?

È esatto dire che in frasi interrogative, dirette o indirette, “chi”, come pronome, significa «quale persona, quali persone»; e per quanto riguarda l’accordo del verbo, come si legge sulla Treccani, anche quando ha valore di plurale, l’accordo del verbo si fa ugualmente al singolare: “Sai domani chi esce? (e non *”…chi escono”)”; infatti in questo esempio, rispetto a ciò che vogliamo riferire, “chi” può esprimere un’idea di collettività, di pluralità. In pratica è come se dicessimo “Sai domani quali persone (e cioè “chi”) escono?” Per converso, come si legge sempre sulla Treccani, va però al plurale il verbo, e qui il “chi” è da intendere come “nome del predicato”, in alcuni casi, e “soggetto”, in altri, quando il pronome “chi” è predicato (nominale) di un soggetto plurale: “Fatevi riconoscere, chi siete?, frase in cui “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” (quindi verbo al plurale) è la copula e “chi”, con il significato di “quali persone”, è il nome del predicato: e cioè “…Voi siete quali persone? (chi?)” = predicato nominale?

 

RISPOSTA:

Chi come pronome interrogativo ammette l’accordo del verbo per numero e persona soltanto quando ha valore identificativo specifico e non quando ha il valore generico di ‘quale persona’: «Chi è entrato?» / «Mi chiedo chi sia entrato» (sarebbe agrammaticale *«chi sono entrati»); «chi sei/siete/sono?» / «Mi chiedo chi sia/siate/siano».

Possibile ed elegante, ma non necessaria, l’analisi di chi come nome del predicato in frasi come «chi siete?». Più semplicemente e banalmente, è possibile analizzare la frase come «chi» soggetto e «siete» predicato verbale.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

È giusto dire che nei verbi composti con l’ausiliare “essere” (dunque verbi intransitivi, passivi, riflessivi e intransitivi pronominali ecc.), il participio concorda con il soggetto (quindi metteremo la desinenza -o per il maschile oppure -a per il femminile al singolare; e metteremo la desinenza -i per il maschile, o maschile e femminile insieme, oppure -e per il femminile al plurale): “Le bambine sono andate a letto presto”; “I bambini sono stati mangiati dalle zanzare”, “I bambini e le bambine sono stati punti dalle zanzare”, “Arianna si è guardata intorno”, “Francesco si è guardato intorno”. Mentre il participio rimane invariato in -o (e cioè alla forma maschile singolare “sovraestesa”, “omnicomprensiva”, “non marcata”, valida quindi per il maschile come per il femminile) quando l’ausiliare è “avere” (sia con i verbi transitivi sia con quelli intransitivi; al plurale cambia il numero dell’ausiliare): “La gatta ha mangiato il topo”, “I topi hanno spaventato l’elefante”, “Le iene hanno terrorizzato gli elefanti”; “I ragazzi e le ragazze hanno continuato a russare”. Per converso, la concordanza con il complemento oggetto, in un verbo transitivo e quindi con l’ausiliare “avere”, è più rara: “Maria ha scritta la lettera”. Se però il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?” e “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli”?

 

RISPOSTA:

Decine di risposte di DICO rispondono ai suoi dubbi: basta cercare, nell’archivio, “accordo participio”. Sì, la sua ricostruzione è corretta, con una precisazione. Mentre con i pronomi di terza persona l’accordo con l’oggetto è obbligatorio, con quelli di prima e seconda è opzionale: «ci hai visto/i/e» ecc., come può utilmente leggere in questa nostra risposta.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».

«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?

Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?

 

RISPOSTA:

Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Fermo restando il significato di laddove come sinonimo di “invece”, in tutti gli altri casi, quale forma va preferita (laddove o là dove) e perché?

 

RISPOSTA:

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Come chiarito nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, la forma univerbata laddove può essere utilizzata in tutti e quattro i significati: 1) ‘nel luogo in cui, dove’; 2) ‘nel tempo in cui, quando’; 3) ‘mentre’; 4) ‘se, qualora’. Dopodiché, nell’uso, mentre nei significati 2, 3 e 4 si utilizza di norma la sola forma univerbata (laddove), nel significato 1, cioè l’unico letterale, si preferisce invece la grafia staccata là dove. Il motivo è semplice: proprio perché il primo è il significato letterale, si tende a preservare il valore proprio di entrambi gli elementi: avverbiale il primo (), pronominale il secondo (dove): nel luogo in cui; per es., «Andava sempre là dove andava con suo padre» (ma, come ripeto, sarebbe corretto, ancorché meno frequente, anche «Andava sempre laddove andava con suo padre»). Negli altri significati, invece, discesi per metafora dal primo, la componente locativa delle due parole si è indebolita o persa del tutto fino a dar luogo a un valore connettivo; là dove si è dunque, come si dice con termine tecnico, grammaticalizzato (nella fattispecie, specializzato nella funzione di congiunzione coordinante oppure subordinante) in laddove, con valore temporale, avversativo, condizionale-ipotetico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Pronome
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QUESITO:

I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:

«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?

«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?

«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1) Sara, tu sei vicina allo stadio

2) Sara, tu stai vicino allo stadio

3) Noi siamo lontani da te

4) Noi stiamo lontano da te

5) Ti sono vicina, credimi!

6) Ti sto vicino in teatro

…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…

 

RISPOSTA:

Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Pensate che tutte le soluzioni siano corrette?

1) Voi potete andare dritto (avverbio)

2) Voi potete andare dritti/e (aggettivo)

3) Andiamo dritto, senza svoltare a destra (avverbio)

4) Andiamo dritti/e, senza svoltare a destra (aggettivo)

5) Mi stavano lontano (avverbio)

6) Loro mi stavano lontani/e (aggettivo)

7) La ragazza mi stava lontano (avverbio)

8) La ragazza mi stava lontana (aggettivo).

D’altra parte “dritto”, come “lontano”, può essere o avverbio, e rimanere invariato in -o, oppure aggettivo, e quindi accordarsi in genere e numero al nome, o pronome, cui si riferisce. Ovviamente, immagino, questi discorsi valgono anche qualora usassimo altri verbi, e non soltanto per i verbi “stare” o “andare”?

 

RISPOSTA:

Certamente, tutte le frasi sono corrette e aggettivi come lontano, vicino, dritto (o diritto) ecc. possono avere sia funzione avverbiale (invariabili), sia aggettivale (variabili). La possibilità di scegliere tra le due funzioni si ha anche con altri verbi: «correre diritto/diritti alla meta»; «sono vicino/vicina a te»; «la meta risultò più lontano/lontana del previsto» ecc. I verbi che non ammettono (o ammettono raramente) costruzioni copulative e con complementi predicativi inibiscono l’uso aggettivale: «abbiamo parcheggiato vicino», ma non *«abbiamo parcheggiato vicini», che, semmai (e con difficoltà), significherebbe altro (cioè non ‘in un luogo vicino’ ma ‘vicini io e te’).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) «Tu sei un problema»

2) «La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi»

3) «I figli sono una grande preoccupazione»

4) «I miei amici sono la mia famiglia»

5) «La mia famiglia sono i miei amici»

6) «La famiglia sono i suoi membri»

7) «La vita non sei tu»

Sono corretti gli accordi nelle frasi? D’altro canto con un soggetto al singolare (“La villeggiatura”, “La mia famiglia”, “La famiglia”) e una parte nominale al plurale (“quattrini”, “i miei amici”, “i suoi membri”) l’accordo della copula (“sono”) è con la parte nominale (frasi 2, 5 e 6); mentre, viceversa, con un soggetto al plurale (“I figli”, “i miei amici”) e una parte nominale al singolare (“una grande preoccupazione”, “la mia famiglia”) l’accordo della copula (“sono”) è con il soggetto (frasi 3 e 4). In pratica, ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale. In più, quando la parte nominale è formata da un nome di genere non variabile (è il caso di “un problema”, nella frase 1, e “la vita” nella frase 7), esso si accorda con il soggetto (“tu” in entrambe le frasi; l’unica differenza è che nella frase 1 il soggetto è posto all’inizio, nella frase 7 è posto alla fine per dare particolare rilievo) solo nel numero (a riprova di ciò “problema” e “vita”, come nomi del predicato, non variano nel genere infatti “problemo” e “vito”, a meno che non si intenda il nome proprio, non esistono nella lingua italiana ma variano soltanto nel numero -singolare o plurale: “problemi” e “vite”). Mentre, in generale, la copula si accorda regolarmente con il soggetto nella persona e nel numero: per esempio, nella frase “Le ragazze sono brave insegnanti” il verbo copulare “sono” si accorda con il soggetto “ragazze” in numero (plurale) e persona (terza).

Pensate sia corretto?

 

RISPOSTA:

Sì, tendenzialmente tutte corrette, le sue deduzioni sulla base degli esempi citati, a parte qualche inesattezza sul genere: nella frase «Le ragazze sono brave insegnanti» l’accordo è anche nel genere: «le ragazze sono brave maestre» / «i ragazzi sono bravi maestri». Laddove possibile, cioè (nel caso di nomi variabili per genere), l’accordo avviene anche in base al genere. Insegnante non è un nome non variabile per genere, bensì un nome epiceno (o ambigenere, o di genere comune) il cui genere si evince dall’articolo (l’insegnante, la insegnante, gli insegnanti, le insegnanti).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto una frase di un famoso politico che mi non mi quadra, ma non so bene perché. La frase dice: «[…] Vorrebbe dire che chiunque potrebbe venire nel nostro Paese».

Non sarebbe meglio «Vorrebbe dire che chiunque può venire nel nostro Paese»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Il secondo condizionale, tuttavia, non è un inutile orpello retorico né un semplice riverbero del precedente condizionale (o almeno non necessariamente). «Chiunque potrebbe venire nel nostro paese» indica una forma di attenuazione, di possibilità, da parte del mittente, rispetto all’indicativo «può venire». È come se il mittente subordinasse il suo discorso a un’ipotesi, che può essere, nel contesto, sia «se volesse», sia «se venisse attuata la tal proposta di legge». Dopodiché, a suonarle “storto” forse è il razzismo serpeggiante sotto la frase, ma non la sua forma, che è corretta. Nel primo caso (il razzismo serpeggiante), la frase suona malissimo e quadra pochissimo anche a me… Ma attenzione a non trasferire alle forme (e alla grammatica) ciò che è solo dei contenuti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Si dice “Se si possiede dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro” o “Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli ecc.”? Se non erro, “dai 3 ai 10 titoli” dovrebbe essere complemento di misura e quantità, quindi il “si impersonale” non va accordato. Però mi viene il seguente dubbio: ma non è che l’espressione “dai 3 ai 10” è complemento di quantità/misura e “titoli” , invece, il complemento oggetto plurale e quindi in questo caso bisogna dire “Se si possiedono” visto che abbiamo un complemento oggetto plurale (“titoli”)???

 

RISPOSTA:

La frase è costruita col si passivante e dunque equivale a: «se dai 3 ai 10 titoli accademici sono posseduti…». «Dai 3 ai 10 titoli accademici» è un soggetto complesso (con attributi), esattamente come sarebbe un complemento oggetto (e non un complemento di quantità) se la frase fosse attiva: «Se qualcuno possiede dai 3 ai 10 titoli accademici…». Pertanto, visto che in caso di forma passiva il verbo va concordato col soggetto, l’accordo per numero non può che essere al plurale: «Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro».

Numerosissime risposte di DICO vertono sulle differenze e sull’accordo nei casi di si passivante. La invitiamo pertanto a (ri)leggerle, a partire da questa: https://dico.unime.it/ufaq/si-vive-o-si-vivono/

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Se si desidera far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba”. Nella frase di prima è giusto usare “Se si desidera”, e quindi il verbo desiderare alla terza persona singolare, oppure bisogna usare il verbo desiderare alla terza persona plurale (desiderano)? Credo che si debba usare “desidera” perché penso che “far giocare” sia il complemento oggetto del verbo desiderare, però mi è venuto il seguente dubbio “E se invece sia ‘desiderare’ che ‘far giocare’ vanno considerati come un unico predicato verbale e quindi gli unici complementi oggetto della frase sono Claudio e Giulio?” A quel punto, se fosse così, allora dovremmo utilizzare “desiderano” e non “desidera”. Oppure “desiderare’ va considerato come un verbo servile che viene in ausilio di “far giocare” e quindi bisogna comportarsi come se avessimo avuto al posto di ‘desiderare’ i verbi “volere, potere, dovere”? D’altro canto in italiano si dice “Si possono prendere queste cose”, e quindi “possono” (verbo servile) va al plurale proprio perché il complemento oggetto è al plurale (queste cose). Qual è la soluzione corretta al quesito?

 

RISPOSTA:

La frase è da intendersi con si impersonale (e non passivante) e il verbo va coniugato pertanto alla terza persona singolare: «Se si desidera [= se qualcuno desidera] far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba». La frase volta al passivo sarebbe agrammaticale: *«Claudio e Giulio sono desiderati essere fatti giocare [o fare giocare]…».

Negli esempi successivi, invece, la costruzione passivante funziona e il verbo va pertanto al plurale, accordato con il soggetto (plurale): «Si possono prendere queste cose» = «queste cose possono essere prese».

Il costrutto con verbo fattitivo o causativo (fare giocare, lasciare giocare ecc.) è diverso dal costrutto con verbo modale o servile (posso giocare, devo giocare ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Intanto “che” come pronome relativo può svolgere la funzione di soggetto o complemento oggetto: “La donna che vende i pomodori è mia amica” (soggetto) e “La donna che vedi è mia cugina” (oggetto). Al contrario “Il quale” è sempre un pronome relativo e può venir usato anch’esso come soggetto o come complemento oggetto: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, i quali si trovano in biblioteca” (soggetto) e “La torta, la quale ha preparato la nonna, è buonissima” (oggetto). Per quanto riguarda il quesito iniziale, per cui vorrei avere una conferma, penso che nel dubbio sulla scelta tra “che” o “quale” (il quale, la quale, i quali, le quali), visto che spesso si pone una scelta su quale dei due usare, scegliendo “che” non si sbaglia mai perché benché virtualmente intercambiabili, la frequenza d’utilizzo pone la “nostra” attenzione su “che”; infatti un più semplice e diretto “che” è spesso preferito alla forma composta il quale (e le altre forme); “il quale” (e le altre forme) che è più ricorrente invece in alcuni usi formali, può però tornare utile in certi casi per dissipare possibili equivoci: «Ho visto la sorella di Paolo, che ha una laurea in legge» [Serianni]. Chi? ha una laurea in legge: Paolo o la sorella? Impossibile il fraintendimento, invece, con la forma variabile: «Ho visto la sorella di Paolo, la quale ha una laurea in legge». Esempio inventato (ma il discorso come dicevo è valido in generale): “Ci sono persone che (il semplice “che”, con cui non si sbaglia mai, sostituisce il più formale “le quali”, qualora fossimo in dubbio sulla scelta appunto tra “che” o “quale”, ecc…) farebbero di tutto per avere questo lavoro”. E ancora: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, che (i quali) si trovano in biblioteca”. Quindi tutti gli esempi che ho scritto in questo intervento, nonostante l’intercambiabilità dei pronomi, possono essere semplicemente scritti anche con il semplice “che” per evitare appunto di cadere in errore e confusione.

 

RISPOSTA:

Che e il quale, come dice lei, sono intercambiabili solo virtualmente. Nella realtà degli usi linguistici, di fatto, che va sempre bene, mentre art. + quale ha forti restrizioni: non si usa tendenzialmente quando ha valore di oggetto («la maglia ??la quale mi hai regalato è perfetta per questo clima»), né quando ha valore restrittivo: «sei l’unico ??il quale ha risposto alla domanda».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Sebbene la scelta tra “cui” e “quale” sia libera, in alcuni contesti è possibile usare solo “quale” (il quale/ la quale/ i quali/ le quali): o dopo un verbo implicito: “C’è stata una battaglia violenta durante la quale (e non “durante cui”) sono morte molte persone”: infatti “durante”, che ha anche funzione di preposizione impropria, è però il participio presente del verbo “durare”, e la regola dice che è possibile usare solo “la quale” (il quale/ i quali/ le quali), e non “cui”, dopo un verbo implicito: infatti, come in questo caso, “durante” è il participio presente, quindi forma, verbo implicito, del verbo “durare”; oppure c’è anche un altro caso in cui, invece, non possiamo usare “cui” ma dobbiamo ricorrere al pronome relativo variabile “il quale, la quale, i quali, le quali”: e cioè quando il pronome relativo segue un numero o un pronome indefinito, come nelle frasi seguenti: “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, due delle quali invariabili” e non “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, *due di cui invariabili” e “Sono emersi diversi problemi per ognuno dei quali si è cercata una soluzione” e non “Sono emersi diversi problemi, *per ognuno di cui si è cercata una soluzione”. Diversamente, “cui” e “quale” (nei vari complementi indiretti introdotti da preposizione) sono intercambiabili: “Il parco davanti al quale abito è verdissimo” ma anche “Il parco davanti (a) cui abito è verdissimo”. Tuttavia, e qui ho un dubbio, di fronte ad una locuzione prepositiva (es. “a causa di”, “grazie a”, ecc…), come ci dobbiamo comportare? es.: “Ho fatto molti errori a causa dei quali/di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta” e “Lui è il professore grazie al quale/a cui sono stato promosso”. In questi contesti c’è una regola? Immagino siano intercambiabili…

 

RISPOSTA:

In effetti, dalla casistica riportata dalle due maggiori grammatiche italiane (Serianni e Renzi-Salvi-Cardinaletti) non si evincono molte altre restrizioni sull’uso di cui (rispetto a ART o prepos. + quale) oltre a quelle da lei enunciate. È però indubbio che, con le locuzioni preposizionali a causa di, grazie a e simili, quale funzioni meglio di cui o talora cui sia proprio impossibile (agrammaticale): «ho un problema a causa del quale non posso uscire» (*a causa di cui); «questa è la ragazza grazie alla quale ho cambiato vita» (?? grazie a cui). Perché? Forse perché il costrutto è assimilabile a quello che Cinque (nella Grammatica di Renzi-Salvi-Cardinaletti, vol. I, pp. 448ss.) chiama «costruzione appositiva parentetica», ovvero una relativa non restrittiva (sebbene le relative degli esempi qui sopra siano restrittive) in cui tra l’antecedente e il relativo vi sia una sorta di frattura, non necessariamente per la distanza. Insomma, forzando un po’ la mano per semplificare, è come se la locuzione venisse ancora avvertita come non del tutto grammaticalizzata e quindi inibisse l’uso di cui, che invece funziona perfettamente con le preposizioni proprie: «ho un problema per cui non posso uscire»; «questa è la ragazza per cui ho cambiato vita». Anche nei suoi ultimi esempi, cui/quale non mi sembrano intercambiabili: «Ho fatto molti errori a causa dei quali/*di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta»; «Lui è il professore grazie al quale/??a cui sono stato promosso».

Naturalmente, la mia è solo un’ipotesi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei gentilmente sapere se entrambe le costruzioni sotto indicate siano valide.

«Con quella lettera mi si è comunicato la convocazione».

«Con quella lettera mi si è comunicata la convocazione».

(Mi si è comunicato/a = mi è stata comunicata.)

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è la seconda: «mi si è comunicata la convocazione». Il si ha infatti qui valore passivante e dunque la frase equivale a: «mi è stata comunicata la convocazione». L’accordo al maschile sarebbe agrammaticale: *«Mi è stato comunicato la convocazione», in quanto violerebbe la regola dell’accordo tra verbo e soggetto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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QUESITO:

Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel  credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?

 

RISPOSTA:

1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scrittati ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1) “Ci sono due ampi armadi vetrati, dietro ai quali / dietro a cui si trovano due ripiani ideali per i piatti”.
2) “Sono dei componenti intorno ai quali / a cui è possibile costruire molti tipi diversi di servizi digitali”.
Quali sono le forme più corrette? Immagino che siano intercambiabili. In più, per quanto riguarda la forma a cui, la a può essere omessa (dietro cui e intorno cui)? E in aggiunta, la forma cui è invariabile e vale, dunque, per il maschile e il femminile, sia al singolare sia al plurale (come negli esempi)?

 

RISPOSTA:

Dietro ai qualidietro a cui e dietro cui sono equivalenti; tra le tre varianti vige un rapporto diafasico: la prima è adatta a tutti i contesti, la seconda è più formale, la terza è raffinata. Lo stesso vale per intorno, con la precisazione che intorno cui, per quanto in astratto corretta, è talmente rara da risultare peregrina. Cui è invariabile, come che.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Dimmi quando sei nato che ti faccio l’oroscopo”.
Quel che è corretto? Sta per perché poi potrò farti l’oroscopo, quindi sarebbe un’abbreviazione di perché e penso che, per questo motivo, richiederebbe l’accento. Vi sarei grata se voleste chiarirmi questo dubbio.

 

RISPOSTA:

Non è un’abbreviazione, ma è proprio la congiunzione che, che, effettivamente, ha in questo caso una funzione consecutivo-finale. Questa funzione, come anche quella causale e altre meno comuni, è stata assunta dalla congiunzione che nell’italiano contemporaneo. In virtù di tale allargamento di funzionalità, la congiunzione è chiamata anche che polifunzionale. Per approfondire questo tratto dell’italiano contemporaneo è possibile consultare l’archivio delle risposte cercando la parola chiave polifunzionale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi sembra sempre più frequente il ricorso non solo a parole (o espressioni) ma anche a costruzioni tipiche dell’inglese. Di recente non sono riuscita a spiegare perché la frase “X è conosciuto per produrre Y” è esattamente il calco dell’inglese “X is known for producing Y”. Mi potreste aiutare voi? Secondo me in italiano sarebbe corretto dire “X è conosciuto per la produzione di Y”.

 

RISPOSTA:

La variante della costruzione suggerita da lei è certamente la più tipica in italiano; le altre non possono dirsi scorrette, ma sono, appunto, non tipiche (e per questo risultano strane alle orecchie di molti parlanti). Si può, però, prevedere che si acclimeranno presto. Il modello su cui si basano è chiaramente la costruzione inglese for + forma in -ing del verbo, che viene fatta corrispondere all’italiano per + infinito presente. Si noti che in italiano la variante con l’infinito diventa del tutto accettabile al passato: “X è conosciuto per aver prodotto Y”. Tale costruzione è ovviamente inadeguata se il processo è ancora in corso; in questo caso, oltre al sintagma nominale per la produzione si può usare anche la proposizione causale all’indicativo: “X è conosciuto perché produce Y”.
La struttura sintattica da lei individuata in questa frase è forse penetrata in italiano attraverso la frase “Grazie per non fumare”, che traduce Thank you for not smoking, innovativa rispetto all’espressione italiana “Vietato fumare”.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«La maggior parte del tempo la/lo passa in quel paese». Volevo chiedere se l’accordo del pronome si fa al maschile, e quindi “lo” accordato con “del tempo” o al femminile, e quindi “la” accordato con “La maggior parte”. Io penso, ditemi se sbaglio, che in questi casi si possa parlare di “concordanza grammaticale” (valida, in generale, immagino non solo per il singolare/plurale, ma anche per il maschile/femminile) se l’accordo di “la” fosse con “La maggior parte”; e di “concordanza a senso” se l’accordo di “lo” fosse con “del tempo”.

 

RISPOSTA:

Sì, la sua risposta è corretta. Aggiungerei che la concordanza a senso, pur comune nel parlato quanto al numero («la maggioranza delle persone pensano», comunque da evitare nello scritto), è da evitare sempre nel genere. E dunque un esempio come «La maggior parte del tempo lo passa in quel paese» susciterebbe una reazione negativa anche nella gran parte degli ascoltatori.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.

 

RISPOSTA:

Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In frasi come le seguenti, “tutto” va concordato? «Tutta sé stessa» o «Tutto sé stessa / Tutto sé stessi» o «Tutti sé stessi»? e simili.

 

RISPOSTA:

In tutti i casi indicati “tutto” è aggettivo indefinito e come tale va sempre concordato con il nome, pronome, o aggettivo cui si riferisce, dunque: «tutta sé stessa», «tutti sé stessi», «tutte sé stesse», «erano tutte impolverate» e simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Aggettivo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.

 

RISPOSTA:

Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Da professore riesco a capire che la lingua non è la matematica e che ci sono diversi fattori che influenzano l’uso di una lingua che non sono così semplice da spiegare. Ma per me buoni esempi sono fondamentali per la pedagogia e spero che ci sia qualche valore per Lei in questo scambio.

Comunque mi piacerebbe provare a estrarre i fattori communi in diversi gruppi di questi esempi col motivo di usare il condizionale in modo corretto. Spero di non farla annoiato.

Gruppo I

Gli esempi in cui il condizionale da solo secondo Lei esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità, ecc.:

Volevo capire se la ragione di base per cui va bene il condizionale da solo in questi esempi I.a – I.c fosse è perché in tutti e tre gli esempi LA PERSONA CHE RISPONDE ALLA RICHIESTA POTREBBE RIMANERE SUL VAGO INVECE DI RISPONDERE CON UN SECCO NO CHE SAREBBE TROPPO DIRETTO. Se quest’analisi è giusta, chiamerò Gruppo I

L’USO DEL CONDIZIONALE PER RIPONDERE IN MODO VAGO/ELEGANTE A UNA RICHIESTA.

(a) Tu: <<Andiamo a bere un ultimo bicchiere?

Io: <<Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello».

(b) Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato» dove l’uso del condizionale semplice ha valore dubitativo o potenziale.

(c) «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso».

GRUPPO II.

In questo gruppo non riesco a estrarre la ragione di base per cui II.a vada bene, ma II.b sia incompleta.

(a) «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» secondo lei e Prof Tartaglioine sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi.

(b) Sarebbe difficile studiare la lingua cinese. (Il mio esempio di partenza. È corretta anche da sola o soltanto come risposta alla domanda “vuoi studiare la lingua cinese?)

COME MAI II.B va bene ma II.A come scritta non è completa?

Se avessi cambiato II.a per creare II.a1 “Sarebbe un bel film  AL MIO PARERE ”  reggerebbe il condizionale da solo?  (non sono un giornalista, ma ho messo in evidenza che è la mia opinione che è soggettiva).

La mia frase II.a1 mi sembra molto simile a una che ho trovato sul sito LEARNAMO:

(c) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. SAREBBE una cosa carina A MIO PARERE.

Secondo Lei la frase sopra (c) è corretta e chiara? Per me ha il significato sottinteso “se lei la facesse”.

Se togliamo A MIO PARERE  per creare

(c1) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. “Sarebbe una cosa carina”

il condizionale regge da solo? o no? Se regge, c’è una ragione per “Sarebbe una cosa carina” va bene, ma “Sarebbe un bel film” non è completa.

Gruppo III

Un altro esempio dal video da Prof Tartaglione.

(a) Marco avrebbe da fare (errata)

Marco dovrebbe avrebbe da fare (corretta – è un’ipotesi)

Come mai non va bene senza dovrebbe?

Due variazioni che faccio io con altro contesto:

(b) Non vedo Marco da tanto tempo. Lui avrebbe da fare.

(c) Non vedo Marco da tanto tempo. AL MIO PARERE lui avrebbe da fare.

Con l’aggiunto del contesto “ non vedo Marco da tanto tempo” o “con al mio parere” il condizionale da solo regge? (Sottointeso “se io non sbagliassi”).

 

RISPOSTA:

A profitto di chi legge, questa risposta fa riferimento ai temi trattati da ultimo qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/) e qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-e-la-pragmatica/).

Gruppo I: va bene, niente da aggiungere.

Gruppo II: Sarebbe difficile il cinese (se lo studiassi): meno naturale di “è difficile” ma comunque possibile (non scorretto). Funziona solo in risposta alla domanda. Il motivo per cui questo è più naturale di IIa non è chiarissimo, secondo me: non sempre è semplice risalire induttivamente da una consuetudine dell’uso a una regola, perché talora è la sola frequenza, o le convenzioni culturali, a far scattare la preferenza per una versione piuttosto che un’altra. Credo però che il motivo della preferenza risieda nella protasi sottintesa (cioè nelle presupposizioni  attivate negli interlocutori: ancora una volta conta la pragmatica): Se lo studiassi il cinese sarebbe difficile (presentata come giudizio oggettivo, in un certo senso: nessuno chiederebbe perché); Se lo vedessi, quel film, sarebbe bello (è ambiguo: perché non puoi vederlo? Oppure è questione di gusti, è bello o no?).

Stesso discorso sulla festa: l’aggiunta di “a mio parere” non rende meno ambiguo il caso del film: forse è bello, è bello a mio parere.  Mentre, nel caso della festa, sia con sia senza “a mio parere”, il giudizio non desta ambiguità: senza dubbio organizzare una festa a qualcuno è un’idea carina. Anche se lo esprimo al condizionale o in forma (pseudo)dubitativa: può essere un’idea carica, potrebbe essere un’idea carina.

Marco avrebbe / dovrebbe avere da fare. In certi contesti, anche “Marco avrebbe da fare” può essere accettabile: “In teoria, Marco avrebbe da fare, ma forse se sa che viene anche Liz vedrai che viene di corsa!”.

Ancora una volta: questioni di pragmatica, direi, cioè di presupposizioni attivate dai diversi contesti (e dai presupposti attivati su certi argomenti: film, soggettivo; cinese, considerato da tutti difficile; festa, considerata da tutti una idea carina ecc.).

No, l’aggiunta di “a mio parere” non è dirimente, non è questo che rende migliore o peggiore una frase, ma, come ripeto, il contesto e l’attivazione di questa o quella presupposizione. Le frasi naturali sono: Ha da fare, Forse ha da fare, Dovrebbe avere da fare, ma non “Avrebbe da fare”, neppure se aggiunge “A mio parere”.

Lei ha messo il dito in una piaga molto interessante, cioè questa: una lingua non è fatta solo di morfosintassi ma anche di convenzioni (NON SCRITTE) che vanno di là dalla grammatica e che rientrano nelle presupposizioni, nell’enciclopedia dei parlanti, nelle convenzioni culturali, nella frequenza d’uso e in molto altro ancora.

L’uso del condizionale, inoltre, è in continuo e rapido movimento, nella lingua italiana. Costrutti vivi fino a venti-trenta anni fa oggi sono inaccettabili e viceversa. Proprio perché è legato alle sfumature modali (epistemico), il condizionale ha una quantità di oscillazioni non ancora tutte sondate dai linguisti. Lo stesso discorso vale per l’imperfetto indicativo. Per questo, a suo tempo, le suggerii il precoce Le facce del parlare della compianta Carla Bazzanella, studiosa di pragmatica.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

Mi aiuterebbe a capire, dettagliatamente, i vari accordi del participio passato in presenza del “ne” delle seguenti frasi?

1)”In frigo c’erano cinque arance e Franco ne ha usate tre per farsi una spremuta”

2)”Ieri sera a cena ho esagerato con il vino: ne ho bevuti tre bicchieri!”

3)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiata la metà”

4)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiate molte”

5)”Hai mangiato dei biscotti?” “Sì, ne ho mangiati”.

Quella che segue è la mia analisi delle frasi.

Nella prima il complemento oggetto è rappresentato dal “tre” che è un pronome numerale, mentre il “ne” è complemento di specificazione e significa “Di arance, di quelle, di queste”. In merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle arance”/”arance”: quindi con “usate” concordato con “Delle arance/arance”, sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura” (Ah, il “tre” penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio, ma con “una”). Nella seconda “tre bicchieri” (o comunque “bicchieri”) è il complemento oggetto e il “ne” è complemento di specificazione con il significato di “Di vino, di questo, di quello”. Per quanto riguarda l’accordo, il participio passato dei tempi composti, in questi casi, prende il genere dal contenitore o dell’unità di misura, se sono specificati (“bicchieri”, contenitore): quindi con “bevuti” concordato con “bicchieri”, maschile plurale. Nella terza il complemento oggetto è il pronome indefinito “molte” e “ne” è il complemento di specificazione con il significato di “Delle pere, di quelle, di queste”. Sul versante dell’accordo, stesso discorso della prima: e quindi il participio si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”/”pere”: quindi con “mangiate” concordato con “Delle pere/pere”, sottinteso accanto a “molte”, complemento oggetto e quantificatore, inteso anche qui come “unità di misura” (Ah, “molte”, anche qui, penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio proprio con “molte”, ma anche “metà”). Discorso diverso per la quarta nella quale “ne” sta per “Dei biscotti, alcuni biscotti, biscotti (e quindi “quelli”) ed è complemento oggetto partitivo che precede il verbo il cui participio “mangiati” si accorda obbligatoriamente con le categorie grammaticali di genere e numero assegnate al nome (“biscotti”) del referente del pronome (“ne”).

Mi auguro che le mie riflessioni, alle quali tengo fortemente, siano corrette.

 

RISPOSTA:

In sostanza la sua analisi è corretta. Tuttavia, negli usi reali, la situazione è molto più sfaccettata. Per questo motivo, sul tema dell’accordo del participio con ne, la invitiamo a leggere le seguenti due risposte di DICO qui e qui.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Non voglio fare polemica, soltanto vorrei avere il suo giudizio su una cosa detta da un “professore” Roberto Tartaglione che lavoro con l’editrice Alma. Lui dice in questo video del esprimere dubbio in italiano con diversi modi/tensi qui à https://www.almaedizioni.it/video-alma-tv/esprimere-un-dubbio/?srsltid=AfmBOorzT7QjoinvWZqfkLwx25Ng1uOqwFVyz8gV3brFIpy1xgcwXwDp

che per esprimere un dubbio su un film, non si può dire SAREBBE UN BEL FILM quando non si usa la voce giornalistico.

Secondo lei, seguendo gli esempi sotto, sarebbe sbagliato dire “sarebbe un bel film” (la mia opinione personale) non per esprimere un dubbio, ma una possibilità? È necessario dire “dovrebbe essere un bel film”? (So perfettamente che l’uso epistemologo del futuro per esprimere un dubbio è qualcosa diversa).

So che sono un po’ academico, ma è soltanto per approfondire.

 

RISPOSTA:

L’ottimo professor Tartaglione (tra i miei primi datori di lavoro) ha perfettamente ragione. Ma vi sono contesti in cui il condizionale da solo esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità..: «A. Andiamo a bere un ultimo bicchiere? B. Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello». Se mi chiedono: «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi: (per esempio) «Se non fosse così lungo», oppure, giornalisticamente, «secondo la critica». Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato», e moltissimi altri esempi sarebbero (appunto!) ancora possibili, d’uso del condizionale semplice con valore ora dubitativo, ora potenziale. Tartaglione giustamente semplifica il discorso limitandolo a un solo esempio facile: «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso». E dunque sarebbe una risposta errata per esprimere invece: «Alcuni pensano che sia bello», «Dicono che è bello» ecc. Anche «Potrebbe essere bello», in questo caso, sarebbe ambiguo, perché chi ascolta capirebbe «Può essere bello andare al cinema» e non «può essere bello il film».

Ma la lingua è sempre più sfaccettata di quanto le sue schematizzazioni non riescano a rappresentare. Nel suo primo esempio sul cinese (b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile”, di cui alla domanda DICO https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/), il contesto e le presupposizioni dei parlanti (cioè la pragmatica) ammettono l’uso del condizionale, nell’esempio sul film no. Questo perché tutte le componenti della lingua (fonetica, morfologia, sintassi, lessico, semantica, pragmatica) cooperano tra loro simultaneamente nella realizzazione di atti linguistici. Se separiamo le componenti, come pure dobbiamo fare per semplificarne la spiegazione e la didattica, non riusciamo a dar conto del funzionamento complessivo degli enunciati. In certa misura potremmo dire che tanti sono i significati di una lingua quanti ne sono i contesti d’uso. Morale della favola, la contraddizione tra l’esempio del cinese e quello del film è solo apparente: i contesti, infatti, disambiguano l’uso. Come livello didattico basico per spiegare l’impiego del condizionale il modello di Tartaglione è più che sufficiente. Per un livello più avanzato si può aggiungere il modello della protasi sottintesa (se potessi, se lo studiassi ecc.), che aggiunge un ulteriore livello di spiegazione

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Il sintagma «animato da Spirito Santo» è possibile scriverlo anche «animato di Spirito Santo»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le costruzioni sono corrette e attestate, sia in rete sia in letteratura. A giudicare dagli esempi riportati dai dizionari (soprattutto il GDLI della Utet), sembra più comune il costrutto con il complemento d’agente («animato da»), ma anche il costrutto con «di» figura in letteratura, per es. in Leopardi: «animata di sì vivo […] amor di patria». Del resto, l’italiano ammette il doppio costrutto con altri verbi simili: «fatto da» / «fatto di», «amareggiato da/di» ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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QUESITO:

«Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del padre» oppure «di suo padre». Vorrei sapere quale delle due opzioni è consigliata e se, tra esse, ve ne sia una errata.

 

RISPOSTA:

Le due opzioni sono entrambe corrette. Sebbene si debba spesso evitare l’uso pleonastico dei possessivi, talora indotto da calco dall’inglese per influenza del doppiaggio («devo lavare le mie mani» è decisamente da evitare rispetto a «devo lavarmi le mani»), in certi contesti può essere utile il possessivo per evitare ambiguità. Pertanto, se nel caso specifico può esservi il dubbio che «la stessa malinconia del padre» venga riferito a un altro padre, piuttosto che a quello della ragazza, è allora meglio essere precisi scrivendo: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia di suo padre». In realtà, anche in quest’ultimo caso potrebbe sussistere l’ambiguità sul padre di qualcun altro, ambiguità che soltanto l’uso di «proprio» (riferito alla ragazza) potrebbe evitare: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del proprio padre», che però sarebbe davvero pesante, e dunque da evitare, anche a costo di una piccola ambiguità sicuramente poi sanabile nel resto della narrazione.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».

I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?

 

RISPOSTA:

Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».

Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio in merito all’analisi grammaticale del participio passato «preoccupato» nell’espressione «sembra preoccupato» in quanto non so se analizzarlo  come participio passato del verbo «preoccupare» o/e evidenziare che è usato come aggettivo qualificativo.

 

RISPOSTA:

Meglio analizzarlo come aggettivo, perché non vi sono elementi di reggenza verbale che ne autorizzino l’interpretazione come participio passato, come sarebbe, per esempio, la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «sembri preoccupato da molte questioni».

Comunque la differenza tra valore verbale e valore aggettivale nel participio è quasi sempre sfumata e indecidibile. Si chiama non a caso participio, cioè che partecipa della doppia natura di verbo e di nome/aggettivo. Per saperne di più, può leggere anche la seguente risposta di DICO:

https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».

 

RISPOSTA:

«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: , infatti, significa ‘e non’.

Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché , come già detto, significa già ‘e non’.

Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: «Si può mangiare questi frutti?» Dove «si può» sottintende: «Una persona può mangiarli se vuole o se gli è permesso?» Oppure l’unica espressione corretta è: «Si possono mangiare questi frutti?».

 

RISPOSTA:

L’unica forma corretta è «Si possono mangiare questi frutti?», perché il soggetto della frase è plurale («questi frutti») e dunque il verbo deve essere al plurale, accordato con il soggetto. Il si, infatti, è un si passivante (anche se usato per rendere la frase impersonale) che viene così interpretato sintatticamente: «Possono essere mangiati questi frutti?». Altre informazioni sull’uso del si impersonale, del si passivante e sull’accordo verbale si trovano nella seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/si-impersonale-passivante-o-toscano/

Fabio Rossi

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QUESITO:

Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:

«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) /  NEMMENO la X o lo stesso Y, /  NE’ la X, NE’ lo stesso Y,

ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo,  a tale processo”.

 

RISPOSTA:

La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».

Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».

Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.

Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è preferibile?

«Non credete a quello che raccontano».

«Non crediate a quello che raccontano».

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono pressoché equivalenti (ma la seconda risulta quasi troppo letteraria, come vedremo), dal momento che sia il congiuntivo esortativo, sia l’imperativo servono per esprimere un ordine, un’esortazione e simili. Il congiuntivo esortativo supplisce l’imperativo nei casi di allocuzione di cortesia, cioè quando si dà del Lei a qualcuno che si vuole esortare, dal momento che l’imperativo ha due sole persone (la seconda singolare e la seconda plurale), mentre il congiuntivo ha anche la terza, necessaria per il Lei. Quanto appena detto vale anche per l’imperativo negativo, costruito con non + l’infinito per la seconda persona singolare, con non + l’imperativo affermativo per la seconda persona plurale. Dato che nella frase in questione, alla seconda persona singolare, non c’è alcun bisogno di sostituire l’imperativo con il congiuntivo esortativo, la scelta dell’imperativo («Non credete») è la più normale e consigliata in tutti i contesti, mentre quella al congiuntivo, comunque possibile e corretta, come già detto, risulta quasi ipercorretta, nella sua formalità (come se chi la usa temesse d’esser tacciato, ingiustamente, di non conoscere il congiuntivo).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei conoscere qual è la forma corretta: “Dite loro che volete loro bene” o “Dite loro che gli volete bene”?

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette: gli è ormai pienamente accettato nella funzione di pronome complemento indiretto di terza persona plurale (quindi si potrebbe anche dire “Ditegli che gli volete bene”. Il pronome loro è ancora percepito come più formale, ma in questa frase conviene non ripeterlo a così breve distanza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Soffro a vederla indifesa” è corretto usare la preposizione a o andrebbe meglio nel o anche di?

 

RISPOSTA:

Il verbo soffrire può reggere un complemento di causa introdotto da per (soffro per la perdita dei valori) o, se la causa della sofferenza è permanente o ciclica, di (soffro di mal di testa). Il verbo può reggere anche varire proposizioni (causale, temporale, condizionale…), costruite regolarmente, ma non una completiva, quindi non ammette la preposizione di. La proposizione subordinata nella sua frase è a metà tra la causale e la temporale e può essere introdotta da a o nel (soffro a / nel vederla = soffro perché la vedo + soffro quando la vedo).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Il padre di Marco, da giovane, era molto bello, e anche la sua fidanzata di allora era tale”.
Tale = ‘era molto bella’ e sostituisce quindi una forma declinata al maschile. L’utilizzo, in questo caso, è comunque corretto, o si sarebbe dovuto impiegare una costruzione diversa che escludesse al suo interno tale?

 

RISPOSTA:

In astratto il rimando anaforico presenta una forzatura dell’accordo, ma l’aggettivo dimostrativo tale è abbastanza generico da tollerare bene una discrepanza di genere rispetto al sintagma ripreso. Lo stesso succederebbe con il pronome lo (… anche la sua fidanzata di allora lo era). Vista la forzatura grammaticale, comunque, bisogna considerare una soluzione di questo genere non adatta a testi molto formali. Un’alternativa del tutto corretta (ma per forza di cose un po’ ridondante) sarebbe … e la sua fidanzata di allora era, a sua volta, molto bella.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1a) La voglio tutta.
2a) Vi ho visti tutti.
3a) Noi veniamo tutti da Roma.
4a) Noi verremo in tanti alla festa.

Le frasi si possono riformulare così:
1b) Voglio tutta la torta (aggettivo).
2b) Ho visto tutti voi (aggettivo).
3b) Tutti noi veniamo da Roma (aggettivo).
4b) In tanti/tanti di noi verranno alla festa (pronome).
Nelle frasi “a” si fa un uso avverbiale dei pronomi e aggettivi?

 

RISPOSTA:

Nelle frasi del primo e del secondo gruppo tutto è sempre aggettivo e non ha mai la funzione di un avverbio: accompagna, infatti, sempre un nome o un altro pronome, anche se la sua posizione cambia. Anche la locuzione in tanti, che è aggettivale nella frase del primo gruppo, mentre è pronominale nella frase del secondo gruppo, non ha mai la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?

 

RISPOSTA:

La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentarepotenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.

 

RISPOSTA:

Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implementoimplementabileimplementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?

 

RISPOSTA:

La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto il seguente periodo: “Sfido chiunque adesso mi sta leggendo e leggerà questi racconti, a non desiderare una simile avventura”. Non dovrebbe essere chiunque adesso mi stia leggendo…Chiunque regge sia il congiuntivo che l’indicativo, ma in questo caso è pronome sia indefinito che relativo (= ‘qualunque persona che’).

 

RISPOSTA:

Il pronome relativo indefinito chiunque richiede effettivamente il congiuntivo; la scelta dell’indicativo è molto trascurata. Immagino che sia stata influenzata dall’indicativo futuro leggerà subito successivo, che è l’unica forma possibile per esprimere il futuro in questa frase, per cui è accettabile anche nello scritto di media formalità (l’alternativa con il congiuntivo non potrebbe assolutamente veicolare l’idea del futuro, a meno che non venga aggiunto un avverbio di tempo: chiunque adesso mi stia leggendo e legga in futuro questi racconti).
La frase presenta un’altra scelta infelice: la virgola tra la reggente (Sfido) e la completiva oggettiva (a non desiderare…). Le completive, escluse le dichiarative, non devono essere separate dalla reggente con alcun segno di punteggiatura (tranne che non ci sia in mezzo un’incidentale), allo stesso modo in cui, nella frase semplice, il verbo non deve essere separato dal complemento oggetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.

Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?

 

RISPOSTA:

Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è la differenza tra “antonomasia” e “denomastico”?
Ad esempio, “luddismo”, “galateo”, “mecenate”… sono denomastici oppure antonomasie?

 

RISPOSTA:

Un “deonomastico”, o “deonimico”, è un nome comune derivato da un nome proprio. Questo passaggio può avvenire attraverso un processo morfologico, come nel caso di luddismo, o attraverso un processo semantico, come nel caso di galateo e mecenate. Il primo caso prevede la trasformazione di un nome proprio con un affisso: il cognome Ludd, dall’operaio olandese Ned Ludd, unito al suffisso -ismo dà origine a luddismo, sostantivo maschile che indica il movimento operaio inglese di inizio Ottocento. Il secondo caso, quello semantico, può avvenire attraverso uno slittamento semantico di un nome proprio che sostituisce (o funziona come) un nome comune. Può accadere che la sostituzione avvenga per indicare una qualità della persona: “è un Einstein” per indicare ‘un genio’; oppure, può verificarsi che un nome proprio diventi un nome comune come nei casi di mecenate (dal nome Mecenate) e galateo (da Galateo, italianizzazione del nome latino Galatheus, cioè Galeazzo) per indicare rispettivamente un protettore e finanziatore di artisti e di arti, e l’insieme delle norme di buone maniere.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Retorica
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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.

1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».

2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).

 

RISPOSTA:

No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».

Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se il periodo indicato più sotto sia sintatticamente corretto (sia con il congiuntivo trapassato sia con quello imperfetto) e se, eventualmente, esisterebbero delle alternative valide, senza che queste vadano ad alterarne il senso.

«Se avessi puntato su un terno che alla prima estrazione fosse uscito/uscisse, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».

 

RISPOSTA:

Sembra migliore la prima soluzione, al trapassato congiuntivo («fosse uscito»), dal momento che l’intera azione è al passato e si riferisce a qualcosa che non è accaduto. La soluzione all’imperfetto congiuntivo («che uscisse») sarebbe un po’ strana, perché suggerirebbe l’idea che chi ha puntato già sapesse che il terno sarebbe uscito o comunque che poteva uscire (e quest’ultima ipotesi sarebbe ovvia: qualunque puntata ha la probabilità di andare a buon fine). La possibile soluzione al condizionale passato («che sarebbe uscito») sarebbe anch’essa strana, perché lascerebbe intendere, anch’essa, la certezza dell’uscita del terno, se uno l’avesse puntato. Infine, dato che uscire è un verbo inaccusativo, il soggetto posposto al verbo funziona meglio: «Se avessi puntato su un terno che fosse uscito alla prima estrazione, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».

Una piccola aggiunta. Nel testo della sua domanda («Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esisterebbero delle alternative valide») si notano una assimmetria e un uso del condizionale non del tutto accettabili. Sarebbe stata migliore la forma seguente: «Gradirei sapere se […] fosse sintatticamente corretto […] e se […] esistessero delle alternative valide», oppure «Gradirei sapere se […] è sintatticamente corretto […] e se […] esistono delle alternative valide», oppure, ma peggiore: «Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esistano delle alternative valide». L’ultima alternativa è la peggiore perché da vorrei dipende preferibilmente il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente (come spiegato qui).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.

Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?

 

RISPOSTA:

Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.

L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:

A: Come mai sei interessato all’italiano?

Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.

Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.

Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.

 

RISPOSTA:

Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».

Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si dice che i pronomi personali rispondano alla domanda A CHI? Il pronome personale indiretto me = a me, ti = a te, gli = a lui, le = a lei, ci = a noi, vi = a voi e loro = a loro (anche gli).

Ho letto un pezzo nel Corriere della Sera qualche anno fa in cui un pronome personale indiretto era usato per far riferimento a una cosa inanimata, non a una persona. Ho pensato a un altro esempio in cui il pronome personale indiretto dovrebbe essere accettabile per far riferimento a una cosa: “Hai lasciato l’assegno alla banca?” “Sì, le ho lasciato l’assegno”, o “Sì, gliel’ho lasciato”.  Le = alla banca.

Se il mio esempio con la banca è corretto, potrebbe spiegarmi come mai viene accettato? È perché in quel esempio, le vuol dire ‘alla commessa’ o ha a che fare con il verbo?  Potrebbe fornirmi altri esempi in cui un pronome personale indiretto può far riferimento a una cosa invece di una persona? Immagino che sia una cosa molto particolare.

 

RISPOSTA:

Nessun uso irregolare, né particolare. Oggi gli e le (come anche lo, la) possono essere senza timore riferiti a cose, anche nell’uso scritto, nonostante le obiezioni di qualche grammatico attardato. La domanda cui rispondono non è dunque «a chi?» bensì «a chi, a che cosa?». Già negli anni Ottanta Serianni osservava, nella sua Grammatica, l’assoluta normalità di frasi come «Quest’orologio non funziona: che cosa gli hai fatto?». L’alternativa con esso è del tutto innaturale, e dunque da evitare: «che cosa hai fatto a esso?». L’unica alternativa possibile, se non piacciono gli/le riferiti a cose (che però, come ripeto, sono assolutamente corretti e normali) è ripetere il nome: «L’orologio non funziona. Che cosa hai fatto all’orologio?». Gli esempi di le riferiti a cose femminili sono innumerevoli e tutti corretti e normali (non eccezionali): «quando le dai una verniciata?», riferito a parete; «le ho dato una spinta per farla ripartire» (riferito a automobile) ecc. ecc.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Pronome
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QUESITO:

Vorrei sapere se la forma mal riscattata (o malamente riscattata) al secondo verso è corretta e se si può usare una forma univerbata malriscattata.
/caparra
mal riscattata
di trenta monete d’argento/

 

RISPOSTA:

Mal riscattata è certamente possibile (come anche malamente riscattata). La variante univerbata malriscattata non è attestata, ma sarebbe in astratto ugualmente possibile e ben formata; in un contesto poetico come è questo, per sua natura incline all’invenzione verbale, è quindi lecito impiegarla.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua letteraria, Neologismi
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QUESITO:

Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?

 

RISPOSTA:

Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burratamozzarellacrescentina
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?

 

RISPOSTA:

In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?

Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.

 

RISPOSTA:

Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “con i piedi lontano/lontani da terra” è corretto usare l’avverbio o l’aggettivo?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, perché lontano in italiano ha i valori di aggettivo e di avverbio. L’aggettivo richiede l’accordo di genere e numero con il nome cui si riferisce (piedi lontani), l’avverbio invece, in questo caso costruito come locuzione preposizionale (lontano da), rimane invariato. La variante con l’aggettivo è più comune, ma non per questo preferibile alla variante con l’avverbio.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Volevo chiedere quale delle tre versioni è corretta/preferibile o se invece sono tutte e tre ugualmente accettabili:

Questioni relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione,

Questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione,

Questioni relative all’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione.

 

RISPOSTA:

I tre esempi sono tutti e tre corretti (in quanto contemplati dal sistema grammaticale italiano), ma il primo è preferibile. Le grammatiche son tutte concordi nell’ammettere la possibilità dell’ellissi preposizionale nei casi di più elementi retti dalla medesima preposizione, ma ribadiscono anche che, per chiarezza, talora è bene ripetere la preposizione. Nel caso specifico, dato che la preposizione è articolata, sarebbe meglio ripeterla o quanto meno ripetere l’articolo: “Questioni relative all’interpretazione e l’applicazione”.

La -d eufonica va limitata a casi di incontro tra due vocali identiche, dunque, semmai, “interpretazione ed educazione”, ma “interpretazione e applicazione”.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Comunico la mia assenza per domani 10 marzo. Ne allego di seguito il giustificativo”.

Vorrei sapere se questo uso pronominale sia corretto. Dal punto di vista formale, scomponendo i rapporti sintattici, mi pare che non ci sia niente di sbagliato. (Ne allego il giustificativo = allego il giustificativo dell’assenza.) Quando ho letto il messaggio la prima volta, però, ho avuto un principio di perplessità. Chiedo a voi, come al solito, per sciogliere il dubbio.

 

RISPOSTA:

La frase è perfettamente corretta. Le ragioni della sua perplessità sono dovute alla distanza tra il pronome ne e il nome cui si riferisce (assenza). Dato che però nessun altro dei costituenti prima di ne (domani, 10 marzo) si presta ad essere sostituito da ne, la coreferenza tra ne e assenza, sebbene svolta nell’arco di due diverse frasi, è perfettamente rispettata.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?

Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.

 

RISPOSTA:

Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:

“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,

– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)

– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”

– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.

 

RISPOSTA:

Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.

Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.

Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.

Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?

 

RISPOSTA:

Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.

Potreste cortesemente esprimervi in merito?

 

RISPOSTA:

La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.

Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.

 

RISPOSTA:

L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.

Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.

 

RISPOSTA:

Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?

Uomo = soggetto

Era impegnato = pred. verbale

Per conto di una ditta = complemento di sostituzione

In una attività = stato in luogo figurato

Di manutenzione = complem. di specificazione

Su un impianto = stato in luogo

Di zuccherificio = compl. specificazione

 

RISPOSTA:

L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?

 

RISPOSTA:

Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In vita ho sempre detto indistintamente:

  1. A) Lunedì prossimo.
  2. B) Il lunedì prossimo.
  3. C) Il prossimo lunedì.

Mentre ho sempre visto come errore:

  1. D) Prossimo lunedì.

Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.

Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).

L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.

Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio, Nome, Registri
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QUESITO:

Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.

Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?

 

RISPOSTA:

Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

“Si prega di recarsi all’appuntamento nel rispetto dell’orario assegnato. Portare con sé il documento di riconoscimento.”

Il pronome “sé” può essere usato anche quando una frase non ha un soggetto espresso (non so se si possa parlare in tale esempio di “soggetto logico“), oppure si tratta di un uso improprio?

 

RISPOSTA:

Si può, la frase è del tutto corretta. “Portare con sé”, infatti, equivale in tutto e per tutto a “Ognuno (o ciascuno) porti con sé”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“I capelli sono pettinati in ciocche sottili e sono tinti di nero”

I due predicati sono nominali o verbali?  Sono entrambi due participi passati che possono essere usati anche come aggettivi o no?

 

RISPOSTA:

Sì, sono entrambi participi, e come tali possono avere valore sia verbale sia nominale. Dunque in entrambe le proposizioni il predicato può essere analizzato sia come verbale, sia come nominale. Abbiamo già discusso nel dettaglio questa dicotomia nel quesito https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/, cui rimandiamo per un approfondimento della complessa questione.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non mi è ben chiaro come distinguere se nelle seguenti frasi gli elementi in maiuscolo sono aggettivi o pronomi indefiniti. Inoltre possono essere considerati tutti quantificatori, o alcuni di essi (ad es. “altri”) non hanno la funzione di quantificare?

1) In un mondo multietnico, inevitabilmente siamo in TANTE, TUTTE diverse e OGNUNA con il suo fascino e la propria identità, ma è pur vero che tra queste ALCUNE hanno un carisma irresistibile.

[tante=aggettivo indefinito quantitativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo; ognuna= pronome indefinito collettivo; alcune=pronome indefinito singolativo]

2) Ne ho sentite dire di TUTTI i colori su di me.

[tutti=aggettivo indefinito collettivo]

3) TANTI mi confessano che trasmetto loro i piaceri della bellezza. ALTRI dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni.

[tanti=pronome indefinito quantitativo; altri= pronome indefinito singolativo]

4) Sono UNA che lascia il segno e con orgoglio vi comunico che nella competizione mondiale sono arrivata quarta. Conosco gente di TUTTE le età che si avvicina a me per i motivi più diversi.

[una=pronome indefinito singolativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo]

 

RISPOSTA:

Sono tutti quantificatori e indefiniti e sono quasi tutti pronomi, tranne quelli accompagnati a un nome, cioè “tutti i colori” (aggettivo indefinito) e “tutte le età” (aggettivo indefinito). In “sono una”, una, a rigore, è pronome numerale, anche se, dato il significato di “una certa persona” o “quel tipo di persona”, può anche essere interpretato come pronome indefinito. L’importante è riconoscerne il valore pronominale (anziché aggettivale, visto che non si accompagna a un nome) e di quantificatore.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Non riesco a capire che funzione ha “questo” nella seguente frase (chi parla è la personificazione della lingua italiana): «Altri dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni. Sarà forse per QUESTO che l’Opera è nata nel mio Paese»,

In questo caso, “questo” è un pronome dimostrativo che sostituisce un’intera frase (“il fatto che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni”)? O è una locuzione congiuntiva, sostituibile con “perciò”, “per tale motivo”? O è qualcosa d’altro?

 

RISPOSTA:

Questo è un pronome dimostrativo che funge da incapsulatore, in questo caso, cioè pronominalizza un’intera frase o porzione di testo, piuttosto che un singolo sintagma. Per questo, con parziale perdita semantica e grammaticalizzazione, può essere inteso anche come locuzione congiuntiva di valore analogo a perciò; tuttavia, nel caso specifico, la forte coesione della frase (con il complemento per questo retto dal verbo sarà) fa propendere per la prima interpretazione. Il valore di locuzione congiuntiva, o meglio ancora di segnale discorsivo, sarebbe più probabile in un caso del genere: «Per questo, l’opera è nata nel mio paese». Con perciò il confine tra i due tipi (molto sfumato) è più semplice, perché la grammaticalizzazione ha comportato l’univerbazione di per ciò in perciò (come per che in perché, poi che in poiché ecc.). Mentre per questo non ha (ancora) dato luogo a perquesto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda gli aggettivi numerali cardinali invariabili ma che si estende anche a tutti gli aggettivi qualificativi.

Se io scrivo: “Le mie tre rose sono fiorite”, posso fare l’analisi grammaticale dell’aggettivo numerale cardinale “tre” come femminile plurale dato che si accorda al nome “rose”?

Genere e numero dell’aggettivo numerale cambierebbero infatti se associati al nome: “I tre palazzi”.

Se io scrivo: “la bambina è gentile” posso analizzare l’aggettivo qualificativo come femminile e singolare anche se accanto ad un nome maschile singolare scrivo comunque “gentile”?

 

RISPOSTA:

Gli aggettivi (di qualunque tipo) non hanno un genere proprio, ma cambiano il genere in base al nome cui si riferiscono. Pertanto tre in tre rose è femminile, mentre è maschile in tre palazzi. Altrettanto gentile: femminile in persona gentile, maschile in modi gentili. Ciò vale dal punto di vista morfosintattico (cioè per quanto riguarda l’analisi grammaticale e la funzione dell’aggettivo). Dal punto di vista meramente formale, tre è un aggettivo invariabile, cioè che non varia (nella forma) tra maschile e femminile. Anche gentile è invariabile nel genere, anche se varia nel numero (gentile, gentili). Dal punto di vista funzionale, invece, come già detto, tutti gli aggettivi assumono il genere e il numero del nome cui si riferiscono.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

I prefissi come super-arci-iper-ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?

 

RISPOSTA:

Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutinomensilearchitettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendofantasticomeraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimosupermeravigliosoiperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimofantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste correggere le seguenti frasi? 
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.

 

RISPOSTA:

Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Norda Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nordal Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?

 

RISPOSTA:

Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
Fai il saggio e TRANNE vantaggio.
Fai il saggio e TRAINE vantaggio.

 

RISPOSTA:

La forma verbale corretta è traine, formata da trai seconda persona singolare dell’imperativo del verbo trarre, e ne, particella pronominale che in questo caso può essere parafrasata con ‘da questo comportamento’. La forma tranne (che coincide con la preposizione tranne ‘eccetto’) non fa parte della coniugazione di questo verbo; non bisogna, quindi, confondersi con gli imperativi di altri verbi correttamente formati con il raddoppiamento della n di nedanne (da dare), fanne (da fare), dinne (da dire), vanne (da andare), stanne (da stare).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?

 

RISPOSTA:

L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesseavrebbe volutovoleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.

 

RISPOSTA:

Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In grammatica, la posizione delle particelle pronominali è codificato da regole ben precise, oppure è libera e segue pertanto le preferenze del parlante?
In particolare, le costruzioni sotto indicate sono valide e caratterizzate dallo stesso grado di formalità?

1a) Posso parlarti?
1b) Ti posso parlare?
2a) Ti sto guardando
2b) Sto guardandoti
3a) Non ti muovere!
3b) Non muoverti!
4a) Ti sto venendo a cercare
4b) Sto venendoti a cercare
4c) Sto venendo a cercarti.

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi riportate negli esempi sono corrette. I pronomi atoni (mi, ti, gli, lo ecc.) possono collocarsi, a seconda del modo verbale, prima o dopo il verbo: quando si trovano prima del verbo, i pronomi si chiamano proclitici (mi scrivi), quando stanno dopo il verbo, e quindi formano un’unica parola con esso, si chiamano enclitici (scrivimi).
Vediamo nel dettaglio perché tutti gli esempi da lei riportati ammettono questa doppia possibilità. Nelle frasi 1a e 1b l’infinito parlare è retto dal verbo servile potere; in questi casi, il pronome può seguire l’infinito, come nella frase 1a, oppure può precedere il servile, come nella frase 1b. Anche il verbo stare seguito dal gerundio, che indica un’azione nel suo svolgersi, ammette la doppia posizione del pronome atono; per questo motivo, le frasi 2a e 2b sono equivalenti. Il pronome può precedere o seguire il verbo anche quando la frase contiene un imperativo negativo, come nei casi di 3a e 3b; se, invece, la frase contenesse un imperativo affermativo il pronome potrebbe stare soltanto in posizione enclitica (muoviti). Le frasi 4a, 4b e 4c ammettono una triplice possibilità perché il verbo stare regge un verbo di moto (andare) che, a sua volta, regge un infinito preceduto da preposizione (a cercare): il verbo, quindi è andare a cercare. Per tali ragioni, il pronome può trovarsi prima o dopo la costruzione stare + gerundio (4a e 4b), oppure dopo l’infinito del verbo (4c).
Raphael Merida

Parole chiave: Coesione, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali fra queste due frasi è corretta?

Si sono create circostanze ed eventi che hanno portato…

Si sono creati circostanze ed eventi che hanno portato…

La mia intenzione è che il verbo creare comprenda sia circostanze che eventi.

 

RISPOSTA:

Quando due o più nomi sono sono di genere diverso, la norma prevede che l’accordo del participio (lo stesso vale per l’aggettivo) sia plurale maschile, quindi si sono creati circostanze ed eventi. In un caso come questo, però, in cui il primo nome è femminile, l’accordo risulta poco gradevole; tuttavia, questo problema può essere risolto ripetendo il participio: si sono creati le circostanze e si sono creati gli eventi; oppure, più economicamente, invertendo l’ordine dei nomi: si sono creati gli eventi e le circostanze.
Raphael Merida

Parole chiave: Accordo/concordanza, Verbo
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QUESITO:

I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

Quale delle seguenti è una forma passiva del verbo andare?
a) Io vado
b) Io sono andato
c) Andando
d) Nessuna delle precedenti; il verbo andare non ha la forma passiva

La risposta corretta è d. Il verbo andare non ha la diatesi passiva, come tutti i verbi intransitivi; non è possibile, infatti, rappresentare il processo dell’andare come subito da qualcuno o qualcosa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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QUESITO:

Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amicol’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?

 

RISPOSTA:

Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: illol’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?

 

RISPOSTA:

L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffapavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guidala guardiala persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaioarchitettoil presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio relativo all’analisi grammaticale degli aggettivi possessivi loro e altrui.
Essendo entrambi invariabili vorrei capire se nel momento in cui devo analizzarli è sufficiente scrivere “aggettivo possessivo invariabile” o se devo anche specificare maschile, femminile, singolare e plurale osservando il nome dell’oggetto posseduto.
Per esempio: “Le formiche portavano delle provviste nel loro formicaio”.
In questa frase devo scrivere: “aggettivo possessivo invariabile” o anche “maschile e singolare” perché si riferisce a formicaio, che è appunto maschile singolare? O lo devo analizzare come femminile plurale perché è riferito a formiche?

 

RISPOSTA:

La questione è duplice: bisogna capire con quale sintagma concorderebbe loro se fosse variabile e come è meglio descrivere tale accordo nell’ambito dell’analisi grammaticale. Per il primo punto possiamo servirci di uno stratagemma: osserviamo come si comportano gli aggettivi possessivi variabili in italiano, per esempio nella frase “Abbiamo preso il suo zaino”. Come si vede, la scelta dell’aggettivo è determinata dalla persona o cosa che detiene il possesso (nella frase lo zaino appartiene a una terza persona, quindi si usa l’aggettivo di terza persona singolare), ma la forma dell’aggettivo dipende dal nome accompagnato (nella frase suo concorda con zaino). Allo stesso modo, nella sua frase loro è scelto perché il possessore è una terza persona plurale (le formiche), ma se l’aggettivo fosse variabile concorderebbe con formicaio (e lo stesso vale per altrui). Per quanto riguarda la descrizione dell’aggettivo nell’analisi grammaticale, loro deve essere descritto come invariabile; a rigore, infatti, attribuire a loro un genere e un numero è scorretto, perché qualsiasi scelta non corrisponderebbe all’effettiva forma della parola (che, per l’appunto, non ha né genere né numero).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla corretta analisi del participio passato nella seguente frase: “Luigi è stato colpito da una tegola MOSSA dal vento”. il participio mossa lo considero come un predicato verbale che introduce un’altra proposizione di cui dal vento è una causa efficiente?
In altre parole, può un modo indefinito introdurre un predicato verbale? Ho consultato un paio di grammatiche ma ho sempre trovato esempi con modi finiti.

 

RISPOSTA:

Il participio passato e, in generale, una qualsiasi forma indefinita del verbo possono essere analizzati come predicato verbale (sebbene il participio possa fungere anche da sintagma nominale e aggettivale e l’infinito da sintagma nominale). Nel caso specifico, mossa equivale a che era (stata) mossa, quindi è il predicato verbale di una proposizione relativa implicita, completata dal complemento di causa efficiente dal vento.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.

 

RISPOSTA:

L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentaremostrareessere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nel Credo si dice:  «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?

 

RISPOSTA:

La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?

 

RISPOSTA:

L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».

Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.

La frase, parafrasata, sarebbe questa:

«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».

Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.

 

RISPOSTA:

La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho un dubbio su questa frase: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e app».

È corretto indicare «altri» al maschile anche se app è al femminile? Oppure è meglio dire: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e le altre app»? Qual è la regola grammaticale al riguardo?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda è più formale. L’italiano prevede il maschile sovraesteso in caso di due o più elementi di genere diverso. Certamente, però, la forma «gli altri servizi e le altre app» è preferibile, soprattutto perché, nel caso di due soli elementi, non allunga troppo il testo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Registri
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QUESITO:

1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.

 

RISPOSTA:

La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida

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QUESITO:

Una giornalista, alla radio, ha detto: «Era un artista che metteva tutti i suoi discepoli a proprio agio». Forse sono troppo pedante, fossilizzandomi sulle regole della sintassi e trascurando così il messaggio che il parlante voleva chiaramente suggerire, o, forse, sono io a essere in errore; ma quell’aggettivo, proprio, non dovrebbe riferirsi al soggetto?

Se così fosse, il significato della frase sarebbe alquanto bizzarro: l’“agio” sarebbe stato dell’artista stesso invece che dei discepoli di quest’ultimo. Al posto della giornalista, avrei detto «a loro agio».

 

RISPOSTA:

Ha perfettamente ragione, proprio è un errore, perché può riferirsi soltanto al soggetto della proposizione nella quale è inserito. Viceversa, a volte in luogo di proprio è ammesso anche loro, se non genera equivoci: «gli studenti, con le loro brave cartelle sulle spalle» (o «proprie cartelle»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».

La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.

La costruzione è corretta?

 

RISPOSTA:

No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

  1. Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.

Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.

  1. Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
  2. Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.

 

RISPOSTA:

La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei chiedere un parere su questa frase: “Io da piccolo ero geloso di mio cugino, ma con il passare degli anni noi abbiamo creato un legame che oggi è saldo. Nel 2021 lui aveva subito un incidente e sua moglie non mi aveva avvisato, lo avevo saputo solo quando i vicini mi informarono. Andai subito a trovarlo.”
Non si dovrebbe usare solo il passato remoto (subì, avvisò, seppi)?

 

RISPOSTA:

No, perché il trapassato prossimo serve a indicare un evento passato rispetto a un altro, anch’esso passato. In questo caso l’evento dell’incidente è trapassato perché è precedente all’altro evento, quello dell’informare.
Raphael Merida

Parole chiave: Coerenza, Verbo
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QUESITO:

Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta? 

 

RISPOSTA:

No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.

Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Tra i vari usi del condizionale troviamo anche quello, tipico del linguaggio giornalistico, di illustrare un fatto ipotetico, di cui non si ha pertanto elementi che possano attestare il suo essersi verificato.

Ho però notato che talvolta si tende a costruire interi periodi con questo modo verbale, trasformando tutte le azioni descritte come dubbie, anche quelle che, al contrario, sono oggettive.

Mi spiego con un esempio.

“Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005 quando avrebbe ricoperto il ruolo di assessore.”

Se non è sicuro che Tizio abbia affermato qualcosa in quel periodo di tempo (di qui l’impiego inappuntabile del condizionale), è certo che Tizio abbia (o ha) ricoperto, in quegli anni, il ruolo di assessore.

La subordinata temporale non avrebbe dovuto essere costruita con l’indicativo?

 

RISPOSTA:

Ha ragione. I giornalisti abusano del condizionale di distanziamento al punto da estenderlo spesso arbitrariamente anche a contesti nei quali andrebbe usato l’indicativo, dal momento che non v’è alcun dubbio sulla veridicità o oggettività dell’evento riportato.

L’esempio da lei riportato andrebbe corretto come segue (con l’imperfetto, però, data la continuità nel passato): «Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005, quando ricopriva il ruolo di assessore».

Più che di eccesso di scrupolo e ci cautela, ovvero la volontà di non sbilanciarsi nel dare per veritiere notizie ancora non provate, direi che agisca qui la forza dell’abitudine e della stereotipia: il condizionale viene associato (dalle penne meno esperte) così stabilmente allo stile giornalistico da divenirne un contrassegno (quasi ipercorrettistico) anche praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Iniziò tutto un anno fa: ero solo e lei venne a parlarmi. Quest’inverno lei mi è stata vicina».

Non sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo visto che questo legame continua?

 

RISPOSTA:

L’esempio è ben scritto sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Con il passato remoto il livello stilistico si innalza: non a caso, il passato remoto è il tempo tipico dei testi narrativi letterari (racconti, romanzi ecc.). È senza dubbio vero che il passato prossimo, a differenza del remoto, serve a indicare una conseguenza dell’azione nel presente, tant’è vero che sarebbe quasi inaccettabile una frase come «Quest’inverno lei mi fu vicina», poiché ci si aspetta una conseguenza di quella vicinanza (per esempio lo sbocciare di una storia d’amore, il consolidarsi di un’amicizia e simili), ancor più evidente per via del deittico questo. Diverso sarebbe «Lo scorso inverno mi fu vicina»: da una frase del genere non mi aspetto le conseguenze dell’evento. È vero altresì che non è bene passare dal passato remoto al passato prossimo (o viceversa), senza un’effettiva necessità. Tuttavia, l’attacco del periodo («Iniziò tutto un anno fa») e anche il suo seguito immediato («venne a parlarmi») sembrano qui indicare un evento preso nel suo isolamento, anche indipendentemente da quel che segue. Nella frase successiva è come se il discorso riprendesse da capo. Se si vuole ottenere una maggiore contiguità tra gli eventi si può volgere tutto al passato e al trapassato prossimo: «È iniziato (o Era iniziato)… è venuta (o era venuta)». Devo dire però che il passato remoto ben si presta, come già detto, allo stile letterario e a quel distacco temporale tipico dell’incipit dei romanzi e dei racconti.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Pongo il seguente quesito. Nella frase “il gatto gli balzò addosso”, il termine “addosso” è da considerarsi avverbio o preposizione impropria riferita a “gli”? Io lo interpreto come avverbio e quindi penso a due complementi diversi in analisi logica, ma la presenza della particella pronominale prima del verbo mi pone qualche imbarazzo. Il problema si ripresenta in frasi come: “il bambino gli andò incontro; gli saltò sopra; gli rimase dietro; le mise sopra un cappello” e simili. Voi come lo interpretate?

 

RISPOSTA:

I casi portati a esempio rientrano nella tipologia dell’estrazione della preposizione nei casi di locuzione formata da preposizione polisillabica (o impropria, secondo la grammatica tradizionale) e preposizione semplice (cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 1988, vol. I, pp. 524-528; si veda anche la voce Preposizione, curata da Hanne Jansen, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2011, liberamente accessibile online nel sito treccani.it). L’estrazione consiste in questo: in determinate condizioni (per es. in presenza di clitico, o particella pronominale atona), viene eliminata (tecnicamente, estratta; o meglio: viene estratto il sintagma preposizionale, ovvero il complemento: gli = a lui ecc.) la preposizione semplice, mentre il clitico viene anticipato: «il gatto balzò addosso a lui» > «il gatto gli balzò addosso». Quindi addosso, in questo caso (oppure incontro, dietro, contro, accanto ecc.) è una preposizione e non un avverbio. Dunque vi è un solo complemento, non due.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?

 

RISPOSTA:

No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere a quale persona si riferisce il pronome _questi _nella seguente frase:
“Con l’acquisto operato dal donante, Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e questi con atto del 2002 enunciava che il trasferimento avveniva nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava il cespite”.

 

RISPOSTA:

In base alle regole del riferimento anaforico questi riprende (o è coreferente con) Tizio, ovvero quello tra i due possibili antecedenti (Caio e Tizio) che non è il soggetto della proposizione reggente (Con l’acquisto Caio trasferiva lo stesso bene con i relativi confini). Per riprendere il soggetto di una proposizione reggente, infatti, bisogna usare l’ellissi del soggetto; per riprendere Caio nella coordinata, quindi, la frase avrebbe dovuto essere “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e con atto del 2002 enunciava…”. Esiste un’alternativa all’ellissi per riprendere il soggetto della reggente, ma non è questi, bensì un pronome esplicito come lo stesso (preferibilmente completato dal nome): “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e lo stesso Caio con atto del 2002 enunciava…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?

 

RISPOSTA:

I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadrettia losanghea pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti afuori dainvece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“I bambini dovranno allegare un file in formato pdf, elaborato secondo lo schema allegato, contenente l’elenco dei disegni trasmessi, in pdf non modificabile, di seguito indicati:”
Nella frase precedente è il file contenente l’elenco che deve essere in pdf non modificabile, o ciascuno dei disegni?

 

RISPOSTA:

Il sintagma in pdf non modificabile non può che essere interpretato dal lettore come retto da disegni, perché si trova tra disegni e di seguito indicati, che è inequivocabilmente concordato con disegni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.

L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.

 

RISPOSTA:

Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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QUESITO:

In una comunicazione e scritta e meglio usare il presente o il futuro per riferirsi al futuro? Ad es. “I genitori possono/potranno partecipare all’iniziativa organizzata per domani, recandosi… Se per esigenze particolari non si riesce/non si dovesse riuscire a rispettare l’orario indicato, si può/potrà avvisare telefonicamente….”.
Chiedo anche se la punteggiatura va bene.

 

RISPOSTA:

Per descrivere un evento futuro si può ovviamente usare l’indicativo futuro; si può, però, usare anche il presente, specie in contesti informali e, nel parlato, anche mediamente formali. Il presente al posto del futuro è accettabile soprattutto nei casi in cui la nozione di futuro è affidata ad elementi esterni al verbo, per esempio espressioni di tempo (come domani nella prima parte della sua frase). Nella proposizione ipotetica della stessa frase, l’alternativa dovrebbe essere tra si riesce e si riuscirà (si dovesse riuscire è ovviamente possibile, ma non è né presente né futuro, quindi non c’entra con la domanda). Anche in questo caso, come anche nella proposizione reggente che segue l’ipotetica, la scelta del presente è possibile ma abbassa il registro.
In quanto alla punteggiatura, l’unico suggerimento che si può fare è di eliminare la virgola prima della proposizione al gerundio (domani, recandosi); tale proposizione, infatti, dovrebbe essere interpretata come strettamente connessa alla reggente, visto che presenta lo strumento con cui può realizzarsi l’evento in essa descritto (partecipare all’iniziativa).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?

 

RISPOSTA:

In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho notato che, in presenza di come e quanto, per ragioni a me ignote, il congiuntivo prevale sull’indicativo, che tuttavia non dovrebbe essere scorretto:

1) Ho visto quanto tu la amassi / amavi.

2) Mi aggiornò su come volesse / voleva intervenire.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi da lei proposte le subordinate sono interrogative indirette, che sono il tipo di completiva più naturalmente costruito con il congiuntivo. Come può anche sostituire che in proposizioni soggettive e oggettive, come nella frase “So / È noto come tu ritenga la cosa sbagliata” (= “… che tu ritieni la cosa sbagliata”). Nelle proposizioni così costruite è decisamente preferibile il congiuntivo, probabilmente perché esse vengono associate alle interrogative indirette.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quali delle seguenti costruzioni sarebbero da evitare perché troppo, o troppo poco, formali?

1) Lascio intendere che si vuole / voglia.

2) Con quelle parole gli fece capire che cosa stava / stesse succedendo.

3) Ho compreso perché tu lo hai / abbia fatto.

4) Constatò fino a che punto riuscivano / riuscissero a mentire i suoi colleghi.

5) Gli spiegò chi era /  fosse.

6) Ero a conoscenza di che cosa voleva / volesse.

7) Prendo atto che la mia scelta ha / abbia generato critiche.

8) Secondo te non mi sono accorto che lei è / sia bella?

9) Mi fece sapere che cosa era / fosse accaduto.

10) Mi basta capire che lei è / sia una brava dottoressa.

11) È questo il motivo per cui l’uomo lo aveva / avesse aggredito.

12) Ho specificato che cosa aveva / avesse detto.

13) Vorrebbe davvero affermare che sua moglie è / sia stata insultata?

14) Gradirei che mi confermaste che tutto è / sia a posto.

15) La tua affermazione mi fa capire che cosa è / sia accaduto.

16) Capivo dove voleva / volesse andare a parare.

17) Avete constatato che ogni oggetto era / fosse al proprio posto?

18) Rivelò a chi era / fosse rivolto il prodotto.

 

RISPOSTA:

Gli esempi da lei proposti sono ugualmente ben costruiti nelle due varianti (tranne il numero 11), con la precisazione che il congiuntivo è più formale dell’indicativo, quindi la scelta tra l’una e l’altra variante va fatta in base allo stile personale e al contesto comunicativo. Va, comunque, precisato che la proposizione interrogativa indiretta è, tra le completive, quella costruita più naturalmente con il congiuntivo. Nell’esempio 11 la proposizione subordinata non è una completiva, ma una relativa; questa proposizione si costruisce di norma con l’indicativo, ma può prendere il congiuntivo per assumere una sfumatura consecutivo-finale (che qui sarebbe fuori luogo).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

“Pensavo che avesse detto qualcosa in più, che io non AVESSI afferrato”.

È corretto/accettabile l’uso del congiuntivo nella relativa qui proposta o sarebbe stato più corretto usare l’indicativo?
Credo che il congiuntivo dia una sfumatura di eventualità o si tratta di un ipercorrettismo o attrazione modale?

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa si costruisce normalmente con l’indicativo. In questa proposizione il congiuntivo può essere utile a esprimere una sfumatura consecutivo-finale (“Cerco una persona che mi capisca”); quando, inoltre, essa è subordinata a un’altra proposizione al congiuntivo, può prendere il congiuntivo per quella che possiamo definire attrazione modale. Che il congiuntivo nel suo caso non sia richiesto per ragioni semantiche è dimostrato dal fatto che, sostituendolo con l’indicativo (che io non avevo afferrato), il risultato non solo è pienamente accettabile, ma mantiene lo stesso significato. Perdipiù, il congiuntivo è persino forzato nella relativa esplicativa (quale è quella della sua frase), che aggiunge informazioni accesorie all’antecedente (qualcosa); risulterebbe del tutto naturale, invece, nella relativa limitativa, che serve a identificare l’antecedente: “Pensavo che avesse detto qualcosa in più che io non AVESSI afferrato”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altrauno dall’altro oppure uno dall’altra?

 

RISPOSTA:

I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.

 

RISPOSTA:

La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (taceregiacere(s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo tacciotacciamotaccionotacciatacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacetetacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (credutocresciutovoluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamogiaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale di queste due espressioni è corretta:

“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.

 

RISPOSTA:

Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere quale sarebbe il verbo corretto da usare in questa frase:
“Il ricordo del tuo luminoso sorriso e del tuo buon cuore sarà/saranno per sempre la nostra forza”.

 

RISPOSTA:

Il soggetto della frase è il ricordo, quindi il verbo va concordato alla terza persona singolare: sarà. Il verbo sarebbe al plurale se il soggetto fosse il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore, per esempio se la frase fosse costruita così: “Il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore saranno per sempre la nostra forza”.
Fabio Ruggiano

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“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.

Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidatotutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.

 

RISPOSTA:

La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vaiseppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei esprimere un dubbio in merito all’uso del congiuntivo passato e trapassato con il pronome relativo misto chiunque. Nella frase “Chiunque abbia pronunciato un giudizio così avventato, avrebbe dovuto documentarsi più scrupolosamente”, dopo il pronome chiunque potrebbe andarci bene anche il trapassato congiuntivo avesse pronunciato? Se sì, perché?

 

RISPOSTA:

La frase chiunque avesse pronunciato… è corretta: il trapassato avesse pronunciato può servire a collocare l’evento prima di un altro evento passato, per esempio in una frase come “Luca pensò che chiunque avesse pronunciato…” (in questo caso il passato non sarebbe corretto: *”Luca pensò che chiunque abbia pronunciato…”). Il trapassato è anche comunemente usato in relazione al presente, non al passato; in questo caso la relazione temporale rimane identica a quella instaurata dal passato: (penso che) chiunque abbia pronunciato… = (penso che) chiunque avesse pronunciato…. Quest’uso deriva dalla sovrapposizione sulla proposizione relativa introdotta da chiunque del modello della proposizione ipotetica (chiunque avesse pronunciato = se qualcuno avesse pronunciato); a ben vedere, però, la sovrapposizione è indebita, perché la sostituzione del passato con il trapassato non modifica il senso generale della proposizione relativa. Proprio perché il trapassato in queste condizioni (nella proposizione relativa introdotta da chiunque senza un rapporto di anteriorità rispetto al passato) è di fatto equivalente al passato, se ne può sconsigliare l’uso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.

Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?

 

RISPOSTA:

La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori:  è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile usare glielo rivolgendosi a un gruppo di persone (solo maschi, solo femmine o a composizione mista): “Non appena lo avrò saputo, glielo riferirò”.

 

RISPOSTA:

Nell’esempio riportato, glielo è corretto e può essere usato per riferirsi a una donna o a un uomo. Ciò è possibile perché quando due pronomi complemento deboli sono usati in coppia il primo cambia forma: così avviene, per esempio, per mi che diventa me (“Mi presti il libro?” > “Me lo presti?”), per ti che diventa te (“Ti presto il libro” > “Te lo presto”) e per gli e le che si trasformano in glie invariabile (“Presto il libro a Fabio/Maria” > “Glielo presto)”.
È bene specificare che in passato l’uso della forma pronominale atona gli in funzione di complemento di termine per loro, a loro non era accettata; adesso, invece, è da ritenersi una forma senz’altro corretta in quasi tutti i livelli della lingua (tranne che nel caso, forse, di registri altamente formali, dove è consigliabile l’uso di loro al posto di gli). Per questo motivo, una frase come “Ho detto a Maria e Fabio che glielo presto” può essere considerata corretta.
Raphael Merida

Parole chiave: Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:

Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.

La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.

 

RISPOSTA:

La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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QUESITO:

Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”

 

RISPOSTA:

L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calmaper favoredi frettada sballoa rigore, ma anche a casain ufficioa scuolaa teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinemain banca ma alla postain ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a marea spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffèoroacqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»

 

RISPOSTA:

L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si scrive: “Un bel e solido palazzo” oppure: “Un bello e solido palazzo”? Ovviamente è preferibile scrivere: “Un palazzo bello e solido”. Ma dovendo scegliere, in questo caso, tra bel e bello, quale si fa preferire?

 

RISPOSTA:

Bel e bello seguono gli stessi criteri degli articoli il e lo. In questo caso, davanti a vocale, può avvenire l’elisione di bello; avremo quindi “Un bell’e solido palazzo”.

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase è corretto l’uso del condizionale sarebbe?

E non so neanche se sarebbe stato in grado di leggerla.

 

RISPOSTA:

Il condizionale è corretto: la proposizione introdotta da se è una interrogativa indiretta, che ammette i modi indicativo, congiuntivo e, appunto, condizionale.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?

RISPOSTA:

Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non ho ben capito se il verbo interessare regge il complemento oggetto o il complemento di termine. Ad esempio nella frase «Mi interessa questo libro», «mi» che complemento è?

Quanto all’uso di anch’io/neanch’io, vanno bene queste frasi?

«Non vado al cinema». «Anch´io non vado» / «Neanch´io».

 

RISPOSTA:

Interessare può essere usato sia transitivamente (cioè col complemento oggetto: interessare qualcuno), sia intransitivamente (cioè col complemento di termine: interessare a qualcuno). Nonostante le sottili differenze semantiche rilevate dai vocabolari (interessare + compl. oggetto ha un valore meno intenso, e può significare sia ‘incuriosire’ sia ‘riguardare’: «l’esenzione interessa soltanto i maggiori di 60 anni»; interessare + compl. di termine significa ‘avere a cuore’: «a Laura interessava molto Raphael»), i due usi sono spesso intercambiabili, anche se la costruzione con il complemento di termine (cioè di interessare come verbo intransitivo) è molto più frequente. Per cui una frase come «Mi interessa questo libro» può valere sia ‘interessa me’, sia, più probabilmente ‘interessa a me’, tanto più se il complemento è espresso dal pronome clitico mi, ti ecc., che ha la medesima forma all’accusativo e al dativo. La costruzione transitiva, a differenza di quella intransitiva, può essere usata anche in riferimento alle cose: «l’interruzione interessa la strada statale 113» (e non *alla strada).

Anche non non è corretto in italiano. Con la negazione anche si trasforma in neanche, neppure o nemmeno: «Neanch’io» / «Neanche io varo al cinema» / «Non vado al cinema neanche io».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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QUESITO:

“I rigori sono sempre una sfida di nervi tra chi calcia e il portiere, e stavolta ha vinto lui”. Lui chi? Il portiere o chi calcia?

 

RISPOSTA:
La frase non è ben composta, proprio perché non è decidibile quale sia l’antecedente di lui. Può essere corretta in diversi modi, per esempio sostituendo lui con il primo o il secondo (o anche quest’ultimo), a seconda di chi abbia effettivamente vinto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Chi fosse interessato mi contatti” o “chi sia interessato mi contatti”?
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato? (Chi era interessato, tre giorni fa, mi contatti adesso).

 

RISPOSTA:

La variante con il congiuntivo presente è ingiustificata, quindi da considerare errata. Le alternative possibili sono chi fosse… e chi è... Lei ha ragione a rilevare nell’imperfetto un valore di passato: in effetti il significato della prima frase potrebbe essere quello da lei inteso; tale significato astratto, però, sarebbe senz’altro scartato dai parlanti per via dell’incoerenza tra un interesse passato e l’azione presente. In altre frasi potrebbe, comunque, essere attivo; per esempio “Chi fosse vivo nel 1910 oggi è certamente morto”. Rimane da spiegare quale sia la differenza tra chi è… e chi fosse…. Il congiuntivo imperfetto aggiunge alla proposizione relativa una sfumatura di ipoteticità (chi fosse = se qualcuno fosse) assente nell’indicativo presente. A ben vedere, tale sfumatura è superflua, visto che la situazione descritta è già ipotetica in sé (il parlante non sa se qualcuno lo contatterà e chi sia questo qualcuno); i parlanti, però, dimostrano di apprezzare l’enfatizzazione di questo tratto, ottenuta proprio con il congiuntivo imperfetto, che avvicina, come detto, chi fosse a se qualcuno fosse.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si dovrebbe scrivere: “Lei recitò un Ave Maria” con l’apostrofo o senza? L’Ave Maria è una preghiera e quindi si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo, il che significa “Recitare una Ave Maria”. Però nessuno direbbe: “Recitare una Padre Nostro”.

RISPOSTA:

Visto che Ave Maria (anche nelle grafie avemaria e avemmaria) è un sostantivo femminile, l’articolo da usare sarà la/una, quindi “un’Ave Maria”. Anche se si tratta di una preghiera, Padre nostro (anche nella grafia univerbata Padrenostro) è un sostantivo maschile; quindi, avrà come articolo il/un: “un Padre nostro”.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Articolo
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QUESITO:

Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:

Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.

RISPOSTA:

Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.

Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.

Raphael Merida

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QUESITO:

“Le ricordo che, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”

Vorrei sapere se il periodo è sintatticamente corretto, oppure se sarebbe preferibile evitare di “spezzare” la proposizione principale con una subordinata (in questo caso, “qualora ci fosse…”).

 

RISPOSTA:

La frase è ben costruita e l’inciso, segnalato opportunamente dalle due virgole, non crea problemi alla comprensione del messaggio. Tuttavia, il testo, che sembra di natura amministrativa, può essere semplificato:

  1. spostando l’inciso all’inizio o alla fine del periodo, in modo tale da non spezzare la proposizione principale (“Qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.” / “Le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale”);
  2. sostituendo la congiunzione composta qualora con quella semplice se (“Se ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”);
  3. riducendo le informazioni non necessarie o ridondanti (in tempo reale non si presta bene a designare un servizio telefonico; semmai, potrebbe essere attribuito a un servizio di messaggistica istantanea).

Raphael Merida

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretta questa frase?

“Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che coloro che anche ultimissimi saranno premiati”.

Il senso è che anche gli ultimi arrivati in una gara porteranno a casa qualcosa.

 

RISPOSTA:

La frase non è corretta dal punto di vista sintattico e necessita di essere riscritta. Suggerirei alcune riscritture semplificate:

  1. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che anche gli ultimissimi saranno premiati”;
  2. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che saranno premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”;
  3. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu coloro che saranno arrivati anche ultimissimi premiati”;
  4. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati coloro che saranno arrivati anche ultimissimi”;
  5. “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”.

Raphael Merida

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

  1. Forse al 23 di Ottobre saremo già salvi.

In italiano standard si direbbe:

  1. Forse il 23 di Ottobre saremo già salvi.

Tuttavia (a proposito della frase “a”) la preposizione articolata al posto dell’articolo mi sembra piuttosto ricorrente, sentendo anche parlare gente di diverse zone d’Italia, da nord a sud.

È solo un regionalismo/dialettalismo oppure è ammissibile anche in italiano standard?

RISPOSTA:

Entrambe le varianti sono corrette e si differenziano per una leggera sfumatura semantica. La frase 1., formata con la preposizione articolata al prima della data, indica l’idea di tempo continuato, cioè per quanto tempo dura l’azione o la circostanza espressa dal verbo: “forse (da questo momento fino) al 23 ottobre saremo salvi”; la frase 2., formata con l’articolo determinativo il, specifica un tempo determinato, cioè il momento esatto in cui si verificherà l’azione espressa dal verbo. Entrambe le frasi possono essere scritte anche senza la preposizione di prima del mese senza che il significato cambi.

L’indicazione della data con l’articolo determinativo maschile singolare è una caratteristica dell’italiano moderno. Anticamente, infatti, l’articolo era condizionato dal numerale seguente: per il numero ‘1’ l’articolo era il (oppure al, nelecc.: «il primo di giugno»; dal numero ‘2’ in poi i (oppure ai, nei ecc.: «ai 23 di ottobre»). L’articolo plurale li (oggi non più in uso) permane tuttora in alcuni formulari burocratici: Roma, li 13 luglio (sull’erronea accentazione di li rimando alla risposta Numeri, date, forme con q e con g dell’archivio di DICO).

Segnalo, infine, che i nomi dei giorni della settimana e dei mesi vanno scritti con la lettera minuscola, quindi lunedì, giugno ecc.

Raphael Merida

Parole chiave: Articolo, Preposizione
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QUESITO:

 

“Mai che qualcuno dica” o “dicesse la verità”?

Quale delle due va bene? E di che tipo di costruzione si tratta?

 

RISPOSTA:

 

L’alternativa con il congiuntivo presente è certamente preferibile, quella con il congiuntivo imperfetto sarebbe corretta nell’italiano standard per riferirsi al passato: «mai che qualcuno dicesse la verità quando frequentavo quelle persone»; può, però, valere anche per riferirsi al presente: «mai che qualcuno dicesse la verità quando gli chiedi spiegazioni». Questo secondo uso è di provenienza regionale ed è substandard (cioè ancora non del tutto corretto), ma sempre più accettato e diffuso nella lingua parlata.  

Il costrutto mai che + congiuntivo, di recente diffusione, è sicuramente informale perché il che è polivalente (come nei costrutti, ugualmente di recente diffusione, mica che, solo che, certo che…). Sui vari usi di che la rimando alla risposta Un che, tante funzioni dell’Archivio di DICO.

Raphael Merida

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QUESITO:

1) Sarebbe stato meglio che tu fossi andato via.

2) Sarebbe stato meglio che tu andassi via.

Parliamo di due frasi corrette, anche se credo sia preferibile la a.

Io ho sempre visto, in questi contesti, l’imperfetto congiuntivo e il congiuntivo trapassato come due opzioni altamente interscambiabili, ma forse è una mia percezione erronea.

C’è invece qualche differenza tra la prima e la seconda frase da un punto di vista semantico?

 

RISPOSTA:

Le due frasi hanno significato diverso. La frase 2 indica un rapporto di contemporaneità tra il momento di riferimento (quello dell’essere meglio) e il momento dell’azione (quello dell’andare); il momento dell’andare, cioè, era lo stesso in cui l’azione sarebbe stata preferibile. La frase 1, invece, esprime un rapporto di anteriorità del momento dell’azione rispetto a quello di riferimento. La differenza si capisce meglio se allarghiamo il contesto:

  1. Grazie per aver fatto la spesa, ma sarebbe stato meglio che ci fossi andato io.
  2. Sei stato imprudente: sarebbe stato meglio che tu non parlassi così apertamente durante l’intervista.

Anche se la 2 è legittima, essa viene sfavorita dalla sovrapposizione di questa costruzione con quella del periodo ipotetico, per cui a un condizionale passato nell’apodosi di solito corrisponde un congiuntivo trapassato nella protasi (sarebbe stato meglio che tu fossi andatosarebbe stato meglio se tu fossi andato). In seguito a questa confusione, la 1 viene usata sia nel suo valore proprio (anteriorità dell’azione rispetto a un momento di riferimento passato), sia in quello che sarebbe proprio della 2 (contemporaneità dell’azione con un momento di riferimento passato).

Raphael Merida

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Potreste indicarmi quale delle due versioni che seguono sia più corretta?

  1. Mi ha chiamato o mi ha chiamata (se donna);
  2. Ci hai inibito o ci hai inibiti?

 

RISPOSTA:

Tutte le varianti sono corrette. In casi come questi, cioè quando le particelle pronominali ricoprono la funzione di complemento oggetto e si trovano prima del verbo, è possibile scegliere liberamente l’accordo sia per il genere (anche se il pronome indica una persona di sesso femminile), sia per il numero. Questa libertà non vale per i pronomi di terza persona singolare e plurale per i quali l’accordo di genere e numero del participio con l’oggetto è obbligatorio: «Li ho visti» (e non *li ho visto); «l(a) ho mangiata» (e non *l(a) ho mangiato).

Raphael Merida

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QUESITO:

La frase di partenza viene da Moravia:

(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.

Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:

(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).

 

Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?

 

(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:

“Mi ci faceva credere”.

Per me, il pronome mi ha valore di “a me”.  Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.

 

RISPOSTA:

Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.

L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.

Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Le due proposizioni introdotte dalla negazione “né” sono ben collegate al resto del periodo?

1) Ho effettuato due chiamate al vostro numero: non sono riuscita a parlare con un operatore, né sono stata richiamata, come (invece) promesso.

2) Ho effettuato due chiamate al vostro numero senza aver parlato con un operatore, né essere stata richiamata, come (invece) promesso.

Domando, a latere, se l’avverbio “invece” in questi casi sia consigliato, da evitare perché ridondante, oppure sbagliato.

 

RISPOSTA:

Nel primo periodo la congiunzione è usata del tutto correttamente, nel secondo no. vuol dire e non, quindi «e non sono stata richiamata» ecc. Invece è del tutto pleonastico in entrambi i periodi, quindi da evitare, anche se non è errato. Nel secondo periodo, non si può sostituire con e non: *«senza… e non…». Tuttavia, la coordinazione copulativa negativa correlata a senza è abbastanza diffusa (perché senza, sebbene non sia una negazione, esprime un concetto di negazione, cioè di privazione di qualcosa), nell’italiano colloquiale, quindi si può anche ammettere, nei registri meno sorvegliati. Ma è senza dubbio da evitare nello scritto più sorvegliato.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Nella frase “una madre di un ragazzo ogni giorno mette il suo zaino nell’entrata per ricordarglielo”, non ci sono errori o possibili equivoci nel pronome “suo”? Come ci si deve regolare in questi casi per non sbagliare?

 

RISPOSTA:

In questo caso non mi sembra vi siano equivoci, sia per motivi contestuali (perché mai la madre dovrebbe indurre il figlio a prendere il proprio, anziché il suo, zaino, per andare a scuola?), sia per motivi morfologici: infatti, se si volesse specificare l’appartenenza dello zaino al soggetto della frase (cioè, alla madre), si sarebbe potuto utilizzare proprio, per evitare ambiguità. In altri contesti, qualora vi fosse ambiguità, è suggeribile sostituire il possessivo con un sintagma disambiguante: «Luca accompagna Laura a casa di lei»; anche se, pure in questo caso, basterebbe sua, se ci si riferisce alla casa di Laura, propria se ci si riferisce a quella di Luca.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Pronome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Possono gli indefiniti reggere il condizionale?

Ecco alcune frasi:

Chiunque vorrebbe partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista.

Ecco una piccola guida per chi vorrebbe avere maggiori informazioni.

Quale tempo e modo regge, invece, dovunque?

-Ti seguirò, dovunque tu vai/vada/andrai/andresti/andassi.

E se nella principale c´é un condizionale?

-Ti seguirei, dovunque …

-Ti avrei seguito, dovunque…

 

RISPOSTA:

Gli indefiniti possono reggere il condizionale soltanto se si trovano nella proposizione reggente, non se si trovano in una proposizione relativa con sfumatura ipotetica come tutte quelle da lei indicate, nelle quali è ammesso soltanto il congiuntivo o l’indicativo. Vediamo caso per caso.

«Chiunque volesse/voglia partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista»: la relativa retta da chiunque ha un evidente valore ipotetico, cioè è analoga alla protasi del periodo ipotetico: «se qualcuno volesse partecipare…». Quindi comprende bene come il condizionale sarebbe del tutto abnorme: *se qualcuno vorrebbe…

Identico discorso per le altre frasi:

«Ecco una piccola guida per chi volesse/voglia avere maggiori informazioni».

«Ti seguirà, dovunque tu vai/vada/andrai/ andassi» (ma non *andresti).

«Ti seguirei, dovunque tu andassi»: identico a sopra, con preferenza per andassi, sempre in parallelo con il periodo ipotetico: «se andassi in qualunque luogo, io ti seguirei».

«Ti avrei seguito, dovunque fossi andato».

Diverso il caso in cui l’indefinito si trovasse nella reggente, cioè con valore analogo a quello di una apodosi di un periodo ipotetico, cioè con valore condizionale, appunto: «chiunque potrebbe partecipare» (se volesse);

«Ti seguirei dovunque» (se partissi);

«Ti avrei seguito dovunque» (se fossi partito).

Molto interessanti le ultime frasi, perché, come vede, a seconda della pausa (o, per meglio dire, a seconda della relazione col verbo reggente), dovunque può avere funzione avverbiale («Ti seguirei/avrei seguito dovunque»), e in questo caso, come parte della reggente, può accompagnarsi a un condizionale, oppure funzione pronominale o di congiunzione relativa («Ti avrei seguito, dovunque fossi andato»), in cui il valore è di pronome doppio ‘in qualunque luogo in cui’, il quale, essendo alla testa di una subordinata relativa ipotetica, non può ammettere il condizionale.

Ecco un’altra coppia di esempi: «ti seguo/seguirei ovunque (tu) vada/andassi» DIVERSO DA «se io non ti seguissi tu andresti ovunque». Nel primo caso ovunque ha valore di congiunzione relativa (cioè di pronome relativo doppio: ‘in qualunque luogo in cui’), mentre nel secondo caso ha valore di avverbio (‘dappertutto, in qualunque luogo’).

Prevengo subito un’altra domanda possibile: allora non può esistere una subordinata relativa al condizionale? Sì, ma soltanto se ha valore condizionale, cioè come una sporta di apodosi di periodo ipotetico con protasi sottintesa: «questi sono i soldi che ti lascerei» (protasi sottintesa: «se io morissi/se dovessi averne bisogno» ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale fra le due seguenti affermazioni è la più corretta e formale?

1) serve un sacco di cose

2) servono un sacco di cose

Io personalmente credo che la prima sia la più formale in quanto richiama una concordanza grammaticale, mentre la seconda più diffusa nel linguaggio confidenziale sembra accordata “ad orecchio”.

 

RISPOSTA:

Senza dubbio la prima è più formale e ineccepibile, dal punto di vista grammaticale, dato che «un sacco», testa del sintagma, è singolare. Il secondo è un caso normalissimo (e ormai accettato anche dall’italiano standard) di concordanza a senso, in cui la concordanza del verbo al plurale si spiega con il fatto che l’intera espressione «un sacco di X» indica una molteplicità, del tutto equivalente a «molti X». Inoltre, dato che è la stessa espressione «un sacco di» ad essere informale e colloquiale, e dato che essa si è del tutto lessicalizzata come pressoché assoluto sinonimo di «molti», la concordanza “grammaticale” col verbo al singolare appare in questo caso un’inutile, e un po’ goffa, pedanteria. Si può aggiungere, infine, che talora al Nord può essere preferita la prima forma (col verbo al singolare) non in quanto più formale, bensì in quanto più vicina ad analoghi casi (ma stavolta non standard) di italiano regionale con verbo al singolare accordato a soggetto plurale, come per esempio «ce n’è molti».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su una frase: “avrei bisogno di sapere se potessi sostenere l’esame (giorno x)”. Non mi suona male ma mi è stato fatto notare che non era così corretta e che dovrei dire invece “se sia possibile(…)”. Potreste aiutarmi? Vanno bene entrambe?

 

RISPOSTA:

In effetti, non si giustifica l’imperfetto, perché in questo caso il rapporto temporale tra le due proposizioni non è di contemporaneità nel passato, bensì di posteriorità o di contemporaneità nel presente, quindi la scelta migliore è il congiuntivo presente, oppure l’indicativo presente: «… se posso sostenere… / se è possibile sostenere…». Inoltre, è sbagliato (o quantomeno troppo informale e regionale) «giorno 12» (per es.), perché la forma dell’italiano standard prevede l’uso dell’articolo, cioè «il giorno 12».

Fabio Rossi

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QUESITO:

1.Probabilmente non ci sarebbe nessuno che mi desse/darebbe una mano.

2.Se avessi cercato aiuto, non avrei trovato qualcuno che mi desse/avrebbe dato una mano.

3.Se fosse il caso, te lo direi prima che tu te ne vada/andassi/andresti.

4.Se fosse stato il caso, te lo avrei detto prima che tu ne andassi/fossi andato/saresti andato.

Secondo me, nelle prime due frasi si può usare sia il congiuntivo imperfetto che il condizionale presente (1) e passato (2).

In merito alla terza, per una questione di orecchiabilità, direi corretto l’imperfetto e un po’ meno il congiuntivo presente, mentre “no” assoluto per il condizionale presente, che con “prima che” non penso sia compatibile.

In merito alla quarta, va bene l’imperfetto e congiuntivo trapassato, mentre, come dicevo prima, no per il condizionale passato in quanto incompatibile con “prima che”.

Cosa ne pensa? Sono considerazioni corrette oppure ravvisa degli errori di valutazione?

 

RISPOSTA:

Le sue interpretazioni mi sembrano ineccepibili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.

“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.

Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.

L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La ringrazio per aver chiarito il mio dubbio sulla questione delle proposizioni causali/finali.

Lei ha però sollevato la questione del tema del controllo, su cui non avevo mai fatto più di tanto caso.

Nella frase “spero di redimermi” vi è una oggettiva implicita, che si lega al verbo sperare, il cui soggetto è “controllato” dal soggetto della reggente.

Ci sono casi in cui, però, la subordinata implicita più che essere legata direttamente al verbo, fa da modificatore di un sintagma nominale, quest’ultimo legato direttamente al verbo:

  1. a) Non dimenticherò mai il fatto di essere sempre stato leale con tutti voi.
  2. b) Pensavo che questa fosse l’occasione per potermi pentire.

Queste due frasi sono molto idiomatiche, ma da un punto di vista puramente grammaticale (sempre riallacciandoci alla questione che la subordinata implicita non ha un contatto diretto col soggetto della reggente, ma piuttosto tale subordinata è parte del sintagma nominale) possono essere viste come corrette?

In queste due frasi, può effettivamente il soggetto della reggente (io) essere il controllore della subordinata implicita?

C’è poi un ulteriore costrutto grammaticale, a mio modo di vedere molto idiomatico e utilizzato:

  1. c) Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore, molto spesso sottovalutate.

In questa frase, abbiamo nuovamente una subordinata implicita (introdotta da “per” o “di”) e che si lega al sintagma nominale, come nei due casi precedenti.

La vera differenza la fa lo stesso sintagma nominale, che è il soggetto grammaticale della reggente.

Quindi ci sarebbe da chiedersi: Perché si lega il soggetto della implicita alla seconda plurale “voi”?

Forse l’aggettivo “vostro” controlla il soggetto della subordinata implicita? Secondo lei, potremmo quindi vedere tale aggettivo come soggetto logico della reggente? Il soggetto logico, secondo le grammatiche, può controllare il soggetto della subordinata implicita, in quanto è colui che materialmente fa qualcosa:

“Mi sembra di aver capito”.

“Mi” equivale a “io”, che sarebbe riformulabile in tal modo:

“Io penso di aver capito”.

Cosa ne pensa lei di questi particolari casi?

 

RISPOSTA:

Certamente le frasi da lei riportate sono corrette (e non sono idiomatiche, né colloquiali, ma del tutto normali in qualunque registro dell’italiano standard). Anche quando le subordinate espandono un sintagma nominale, cioè dipendono da un nome, un aggettivo o un pronome anziché da un verbo (e troverà numerosi esempi di questo sempre nella solita Grande grammatica italiana di consultazione), il soggetto è controllato da un elemento della reggente. Nelle prime due frasi da lei citate, infatti, il soggetto della subordinata è controllato dal soggetto della reggente (io).

Molto giusta la sua intuizione sulle altre frasi: il soggetto della subordinata può essere controllato anche da altri elementi della reggente, ivi compreso un soggetto logico, a senso, generico ecc.:

  1. c) «Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore»: il controllore è sicuramente vostra.
  2. d) «Mi sembra di aver capito»: il controllore è mi (cioè il benefattivo o esperiente, chi prova una determinata esperienza, ovvero il soggetto logico, in questo caso).

Ma ci possono essere anche casi più complessi sintatticamente, per esempio:

«Ti ho dato la scusa per/di andartene»: il soggetto della subordinata (tu) è controllato dal complemento di termine della reggente (ti).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il condizionale passato può essere impiegato – come spiegato a più riprese – per indicare il futuro nel passato; può, però, esprimere anche anteriorità rispetto a un dato momento di riferimento e, nel contempo, mantenere la sua funzione di eventualità?

In un periodo come quello riportato più sotto, l’azione descritta con il condizionale passato sarebbe interpretata come anteriore, posteriore (rispetto a quella della subordinata) o sarebbero possibili entrambe le soluzioni?

1. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero lasciato la spiaggia.

In assenza di altri elementi, la semantica mi porterebbe a optare per l’interpretazione posteriore; ma, in astratto, potrebbe anche essere vero il contrario.

Con verbi differenti, ad esempio, non avrei alcuna esitazione a stabilire il rapporto tra le due proposizioni.

2. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa (condizionale passato = posteriorità rispetto al congiuntivo trapassato: Laura raggiunge lo stabilimento e i suoi amici, dopo, vanno a casa).

3. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero stati a casa (condizionale passato = anteriorità rispetto al congiuntivo trapassato. Laura raggiunge lo stabilimento, ma i suoi amici se ne sono andati a casa).

In sintesi, il condizionale passato, a seconda dei casi, può esprimere anteriorità o posteriorità rispetto a un momento di riferimento (anche tralasciando l’enunciazione), come negli esempi sopra indicati?

Riguardo al periodo 1, l’inserimento di un avverbio come già potrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione temporale dell’azione, spingendo a considerare la proposizione espressa con il condizionale passato nel passato rispetto alla subordinata? (“Laura sapeva che nel momento in cui avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero già lasciato la spiaggia” = Gli amici di Laura hanno lasciato la spiaggia prima che lei abbia raggiunto lo stabilimento).

 

RISPOSTA:

Il condizionale descrive un evento condizionato rispetto a un altro condizionante (tipicamente costruito con una proposizione ipotetica); il rapporto tra la condizione e la conseguenza attiva automaticamente un rispecchiamento temporale in cui la condizione precede la conseguenza. Questa funzione modale e temporale che lega la proposizione con il condizionale alla proposizione con il congiuntivo (o l’indicativo) da essa dipendente si intreccia con quella relativamente temporale che lega la stessa proposizione con il condizionale a quella che la regge (se la frase la prevede). In questa seconda relazione entra in gioco il valore di futuro nel passato.

In particolare, quando la reggente è al presente, quindi il momento dell’enunciazione è presente, il condizionale passato descrive un evento anteriore, quindi passato: “Penso [adesso] che lui avrebbe agito diversamente [nel passato] se le condizioni lo avessero consentito”. Lo stesso vale se il momento dell’enunciazione è futuro: “Ti renderai conto che lui avrebbe agito diversamente…”. Se il momento dell’enunciazione è passato, la funzione relativamente temporale del condizionale passato diviene di posteriorità (è il cosiddetto futuro nel passato). Per questo, nelle sue tre frasi, gli eventi al condizionale passato sono sempre successivi a quello del sapere espresso nella proposizione principale Laura sapeva. Per quanto riguarda la relazione tra la proposizione con il  condizionale e la subordinata al congiuntivo nelle sue frasi, bisogna considerare l’ambiguità provocata dalla semantica dei verbi e dalla congiunzione che introduce la subordinata stessa. Nella frase 1 non c’è dubbio che l’evento del lasciare sia conseguente, quindi anche successivo, a quello del raggiungere;  nella frase 2 l’evento dell’andare potrebbe essere avvenuto precedentemente a quello del raggiungere, quindi potrebbe non esserne la conseguenza. Questa possibilità vale perché la locuzione congiuntiva nel momento in cui ammette un’interpretazione temporale, quindi è possibile che l’andare segua il sapere ma preceda il raggiungere. Questa interpretazione non sarebbe possibile se al posto di nel momento in cui ci fosse se (“Se avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa” = gli amici vanno certamente via come conseguenza dell’arrivo di Laura, quindi dopo). Lo stesso vale a maggior ragione per la frase 3, in cui il verbo essere costringe a un’interpretazione anteriore rispetto a raggiungere (ma comunque sempre successiva a sapere), perché indica uno stato e non un’azione (diversamente da lasciare e andare). Nella frase, infatti, la congiunzione se sarebbe ammessa soltanto con una sfumatura concessiva (se = anche se), perché rappresentare un evento precedente a un altro come la conseguenza di quest’ultimo sarebbe incoerente. Ovviamente, l’aggiunta di già enfatizza la precedenza dell’essere rispetto al raggiungere.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Non sempre riesco a trovare la preposizione giusta, proprio come nel caso dei verbi e aggettivi seguenti:

discutere di politica so che é corretto ma va anche bene ´discutere di Carlo o su Carlo´?

parlare di musica o sulla musica

persuado Ines a iscriversi…

sono persuaso di o a

mi sono persuaso di o a

convinco Ines di o a

mi convinco di o a

mi sono convinto di o a

fortunato di o a 

sono d´accordo di o a

badare di non cadere o a non cadere

sono deluso di o per aver perso

Come ci si comporta quando non si riescono a trovare le giuste preposizioni per un verbo, un aggettivo … nel dizionario?

 

RISPOSTA:

La scelta della preposizione è tutt’altro che semplice, anche per i madrelingua. In caso di dubbio, i vocabolari migliori aiutano quasi sempre, perché di solito specificano le principali reggenze preposizionali soprattutto dei verbi, talora anche dei sostantivi e degli aggettivi. I dizionari più utili in questo senso sono il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera), il GRADIT di Tullio De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito internazionale.it) e il Nuovo Devoto Oli. Vediamo ora i suoi casi specifici.

«Discutere di politica», «di Carlo» vanno benissimo. Si può anche discutere su qualcosa, però è sicuramente una scelta più formale o adatta a una discussione più specifica, non per parlare del più e del meno, per cui «discutere su Carlo», ancorché corretto, suonerebbe un po’ strano.

«Parlare di musica» è la scelta migliore. Se si sta parlando a un convegno si può dire anche «fare una conferenza sulla musica di Chopin». Su presuppone un parlare più specificamente, mentre di ha un uso esteso a tutte le situazioni.

«Persuado Ines a iscriversi»: benissimo.

«Sono persuaso di» va bene, ma è possibile anche a, che accentua il fine: «mi persuasi ad ascoltarlo», «sono persuaso di volerlo fare».

«Convinco Ines di o a» vanno bene entrambi, ma, se il contesto sottolinea il fine, allora è meglio a, come per persuadere: «Convinco Ines a venire a cena con me», «sono convinto di volerla invitare a cena».

«Fortunato di» è meglio di «fortunato a», se segue una proposizione infinitiva, ma se segue un nome si può usare solo a: «sono fortunato di giocare a tennis con te», ma «sono fortunato al gioco», «a carte». Ma è possibile anche di in alcuni casi: «fui fortunato del risultato». Ed è possibile anche in: «fortunato in amore». Dipende dal contesto: in certe espressioni è meglio a, in altre di, in altre in: in casi simili la consultazione del vocabolario è indispensabile.

«Sono d’accordo» può reggere sia di sia a. «Sono d’accordo di finire prima», «è d’accordo a vendermi la moto». Per l’argomento su cui si è d’accordo si usa su: «essere d’accordo su qualcosa».

«Badare di non cadere» o «a non cadere» vanno bene entrambi, il primo è più comune.

«sono deluso di» o «per aver perso» vanno bene entrambi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Preposizione, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1.Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

2.Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare:

Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.

3.Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare:

Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.

Quello che penso è che nel caso della preposizione “per” sia necessario il complemento oggetto, a quel punto avremmo due interpretazioni differenti:

a = soggetto coreferente

b = soggetto generico introdotto nella subordinata.

Con la preposizione da è diverso, perché se si inserisce il complemento oggetto, l’interpretazione (a) diventa quella che vede due soggetti coreferenti, mentre se non si usa alcun complemento oggetto, parliamo di un interpretazione (b) che ha un valore passivo/impersonale.

Seguendo questa logica se io dicessi:

4.Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare”, potrei voler dire:

Interpretazione a = il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Frase decisamente irrealistica, in quanto è impensabile come frase, ma è giusto per far capire la differenza)

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poter sopportare:

Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.

  1. Il dolore era troppo grande da poterlo sopportare:

Interpretazione a) il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.

(Come la quarta nella interpretazione “a”)

Sono corretti il mio ragionamento e le mie interpretazioni?

Cioè che la preposizione “per” richiede il complemento oggetto e può avere doppia interpretazione, a e b, generando magari ambiguità.

Mentre la preposizione “da”, in dipendenza dalla presenza o assenza del complemento oggetto, può avere una sola delle due interpretazioni.

 

RISPOSTA:

No, la sua interpretazione non è corretta. È vero che da + infinito di un verbo transitivo indica un valore passivo, cioè qualcosa che deve essere fatto: da fare, da comprare, da vedere ecc. In quanto tale, il clitico è pleonastico e comunque, sia che ci sia, sia che manchi, non muta il significato della frase: «il dolore è troppo forte da sopportare/sopportarlo» può voler dire soltanto ‘…troppo forte per essere sopportato’. La versione col clitico è decisamente informale e da evitarsi in uno stile sorvegliato.

La finale implicita con per + infinito, così come da + infinito, impone l’obbligo dell’identità del soggetto della subordinata e di quello della reggente. Quindi:

  1. «Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare». L’unica interpretazione possibile è: ‘Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò’. Se invece si vuole esprimere che Mario viene sopportato allora bisogna rendere esplicita la subordinata ed esprimere il soggetto: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare».
  2. «Mario era abbastanza tranquillo da (poter) sopportare». Benché sia possibile l’interpretazione ‘da essere sopportato’, la frase suscita comunque ambiguità, pertanto sarebbe meglio renderla esplicita: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare». Al limite, informalmente, si potrebbe usare il si passivante: «Mario era abbastanza tranquillo da sopportarsi/potersi sopportare», cioè «essere/poter essere sopportato».
  3. «Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare»: è possibile soltanto l’interpretazione ‘Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare qualcosa’.

Quindi: se non c’è identità di soggetto chiara tra reggente e subordinata implicita, è sempre meglio trasformare la subordinata in esplicita ed esprimere il nuovo soggetto.

  1. «Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare»: soltanto il senso consente di evitare l’interpretazione assurda ‘il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno’. La frase è comunque imperfettamente formata e dunque sarebbe meglio cambiarla in: «il dolore era troppo grande per essere sopportato».
  2. «Il dolore era troppo grande da poter sopportare»: la frase è mal formata per le stesse ragioni della precedente e della n. 2; pertanto è meglio cambiarla in «il dolore era troppo grande per essere sopportato», oppure, informalmente, «da sopportarsi».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?

2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?

3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?

4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?

5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?

Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?

La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.

Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:

6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene

6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*

A pensarci  bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.

È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?

 

RISPOSTA:

La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):

– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).

Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:

1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».

2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.

3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.

4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.

5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.

6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.

6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».

Fabio Rossi