Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.
2. (…) la seguente questione pregiudiziale:
se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:
- l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
- l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.
Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …
Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:
“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.
Nel secondo caso avremo:
“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.
Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.
RISPOSTA:
La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
- È stato Carlo a colpirlo / Carlo è stato a colpirlo
…In questo genere di frasi il soggetto va prima o dopo il verbo? Di base andrebbe prima (come la seconda opzione); però ho letto che spesso viene posposto al verbo per dare più rilevanza al soggetto e per una maggiore espressività? Insomma, in questi casi, entrambe le soluzioni sono accettabili?
RISPOSTA:
Il caso da lei indicato è una frase scissa, che serve a focalizzare (cioè mettere in rilievo come informazione nuova o contrastata rispetto a un’altra) una parte dell’enunciato rispetto a un’altra. Come tale, l’ordine normale è «È stato Carlo a colpirlo»; sarebbe talmente innaturale da risultare al limite dell’inaccettabile «Carlo è stato a colpirlo», ancorché astrattamente possibile.
L’ordine dei sintagmi negli enunciati risponde a esigenze pragmatiche, cioè relative alla struttura delle informazioni (date e nuove). In alcuni casi, tuttavia (cioè con i verbi inaccusativi, vale a dire tutti quelli che hanno come ausiliare essere anziché avere), la posizione normale, non marcata, non focalizzata, del soggetto è quasi sempre postverbale, cioè rematica, mentre quella preverbale (tematica) è quasi sempre avvertita come marcata. Abbiamo già risposto su un quesito analogo a questo e dunque, per ulteriori dettagli sull’argomento, la invitiamo a leggere la nostra risposta di allora.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle costruzioni in cui il soggetto della sovraordinata coincide con quello dell’ordinata, l’infinito passato può fare ufficio del futuro anteriore?
- Andremo in banca dopo essere usciti dal lavoro.
- Ci confronteremo in privato dopo aver detto ognuno la propria versione.
Le rispettive varianti con il futuro anteriore (dopo che saremo usciti; dopo che avremo detto…) sono comunque possibili e corrette?
RISPOSTA:
Sì, l’infinito passato nei casi indicati equivale a quello che nella forma esplicita sarebbe il futuro anteriore, che dunque sarebbe altrettanto corretto. Va detto però che scelta del futuro anteriore è meno usuale, dal momento che l’italiano di norma, in caso di identità di soggetto tra reggente e subordinata, preferisce la forma implicita a quella esplicita.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento.
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non aver richiesto la prosecuzione a pagamento.
1=contemporaneità. 2=anteriorità.
Vorrei sapere se la mia osservazione è corretta.
RISPOSTA:
Sì, la sua osservazione è corretta. Va però detto che in questi e in altri casi di consecutio temporum i parlanti si muovono con maggiore elasticità rispetto alle norme astratte. Pertanto, pur trattandosi propriamente di anteriorità, nel caso in questione, entrambe le soluzioni sono accettabili. In altre parole, «Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento» può essere usato anche se la richiesta di prosecuzione è stata richiesta, o va richiesta, prima della cessazione. Del resto, per senso comune, sarebbe ben strano non formulare la richiesta prima della cessazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sai domani chi esce/escono?
2) Fatevi riconoscere, chi siete?
È esatto dire che in frasi interrogative, dirette o indirette, “chi”, come pronome, significa «quale persona, quali persone»; e per quanto riguarda l’accordo del verbo, come si legge sulla Treccani, anche quando ha valore di plurale, l’accordo del verbo si fa ugualmente al singolare: “Sai domani chi esce? (e non *”…chi escono”)”; infatti in questo esempio, rispetto a ciò che vogliamo riferire, “chi” può esprimere un’idea di collettività, di pluralità. In pratica è come se dicessimo “Sai domani quali persone (e cioè “chi”) escono?” Per converso, come si legge sempre sulla Treccani, va però al plurale il verbo, e qui il “chi” è da intendere come “nome del predicato”, in alcuni casi, e “soggetto”, in altri, quando il pronome “chi” è predicato (nominale) di un soggetto plurale: “Fatevi riconoscere, chi siete?, frase in cui “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” (quindi verbo al plurale) è la copula e “chi”, con il significato di “quali persone”, è il nome del predicato: e cioè “…Voi siete quali persone? (chi?)” = predicato nominale?
RISPOSTA:
Chi come pronome interrogativo ammette l’accordo del verbo per numero e persona soltanto quando ha valore identificativo specifico e non quando ha il valore generico di ‘quale persona’: «Chi è entrato?» / «Mi chiedo chi sia entrato» (sarebbe agrammaticale *«chi sono entrati»); «chi sei/siete/sono?» / «Mi chiedo chi sia/siate/siano».
Possibile ed elegante, ma non necessaria, l’analisi di chi come nome del predicato in frasi come «chi siete?». Più semplicemente e banalmente, è possibile analizzare la frase come «chi» soggetto e «siete» predicato verbale.
Fabio Rossi
QUESITO:
È giusto dire che nei verbi composti con l’ausiliare “essere” (dunque verbi intransitivi, passivi, riflessivi e intransitivi pronominali ecc.), il participio concorda con il soggetto (quindi metteremo la desinenza -o per il maschile oppure -a per il femminile al singolare; e metteremo la desinenza -i per il maschile, o maschile e femminile insieme, oppure -e per il femminile al plurale): “Le bambine sono andate a letto presto”; “I bambini sono stati mangiati dalle zanzare”, “I bambini e le bambine sono stati punti dalle zanzare”, “Arianna si è guardata intorno”, “Francesco si è guardato intorno”. Mentre il participio rimane invariato in -o (e cioè alla forma maschile singolare “sovraestesa”, “omnicomprensiva”, “non marcata”, valida quindi per il maschile come per il femminile) quando l’ausiliare è “avere” (sia con i verbi transitivi sia con quelli intransitivi; al plurale cambia il numero dell’ausiliare): “La gatta ha mangiato il topo”, “I topi hanno spaventato l’elefante”, “Le iene hanno terrorizzato gli elefanti”; “I ragazzi e le ragazze hanno continuato a russare”. Per converso, la concordanza con il complemento oggetto, in un verbo transitivo e quindi con l’ausiliare “avere”, è più rara: “Maria ha scritta la lettera”. Se però il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?” e “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli”?
RISPOSTA:
Decine di risposte di DICO rispondono ai suoi dubbi: basta cercare, nell’archivio, “accordo participio”. Sì, la sua ricostruzione è corretta, con una precisazione. Mentre con i pronomi di terza persona l’accordo con l’oggetto è obbligatorio, con quelli di prima e seconda è opzionale: «ci hai visto/i/e» ecc., come può utilmente leggere in questa nostra risposta.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.
Poteva scrivere: SAREBBE STATO…
RISPOSTA:
Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1)”Vorrei qualcuno che dica (e non “dicesse”) la verità”
2)”Avrei voluto (ma anche “Volevo”) qualcuno che dicesse la verità”
Sono giuste le scelte verbali nelle relative delle tre frasi? Nella frase 1 la scelta migliore è il congiuntivo presente “dica” perché lo stato dell’essere è presente, come indica il condizionale presente. Di conseguenza la frase col congiuntivo imperfetto “dicesse” è incoerente, perché il verbo della reggente “Vorrei” implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato (d’altra parte il congiuntivo imperfetto si usa principalmente per esprimere un’azione passata). Probabilmente nella costruzione della relativa “Vorrei qualcuno che dica la verità” agisce il modello della completiva “Vorrei che qualcuno dicesse la verità”, senza che ci sia, però, una ragione sintattica per questo. Si noti, quindi, che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella relativa “Vorrei qualcuno che dicesse la verità” è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto: “Vorrei qualcuno che dicesse la verità”<"Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento". Perciò l'uso del congiuntivo imperfetto in una relativa retta da un condizionale semplice dipende dal fatto che il congiuntivo imperfetto è una forma che "ricalca" il periodo ipotetico del secondo tipo: infatti è come se dicessimo "Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento", ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indicherebbe che la qualità di “qualcuno”, e cioè “Qualcuno che dica la verità ”, riguardi il passato, e ciò sarebbe un po’ bizzarro, rispetto alla reggente che invece è al condizionale presente. Viceversa, nella frase numero 2 c'è un tempo passato nella principale che si riferisce ad un momento trascorso (ieri, in passato), e perciò nella relativa troviamo il congiuntivo imperfetto "dicesse", quindi un tempo passato.
RISPOSTA:
Le soluzioni migliori nelle proposizioni relative sono quelle indicate da lei: il congiuntivo presente in dipendenza da una reggente con vorrei, l’imperfetto in dipendenza da una reggente con avrei voluto. Per maggiori dettagli si vedano questa risposta e quest’altra, collegata alla prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Sara, tu sei vicina allo stadio
2) Sara, tu stai vicino allo stadio
3) Noi siamo lontani da te
4) Noi stiamo lontano da te
5) Ti sono vicina, credimi!
6) Ti sto vicino in teatro
…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…
RISPOSTA:
Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».
Fabio Rossi
QUESITO:
Pensate che tutte le soluzioni siano corrette?
1) Voi potete andare dritto (avverbio)
2) Voi potete andare dritti/e (aggettivo)
3) Andiamo dritto, senza svoltare a destra (avverbio)
4) Andiamo dritti/e, senza svoltare a destra (aggettivo)
5) Mi stavano lontano (avverbio)
6) Loro mi stavano lontani/e (aggettivo)
7) La ragazza mi stava lontano (avverbio)
8) La ragazza mi stava lontana (aggettivo).
D’altra parte “dritto”, come “lontano”, può essere o avverbio, e rimanere invariato in -o, oppure aggettivo, e quindi accordarsi in genere e numero al nome, o pronome, cui si riferisce. Ovviamente, immagino, questi discorsi valgono anche qualora usassimo altri verbi, e non soltanto per i verbi “stare” o “andare”?
RISPOSTA:
Certamente, tutte le frasi sono corrette e aggettivi come lontano, vicino, dritto (o diritto) ecc. possono avere sia funzione avverbiale (invariabili), sia aggettivale (variabili). La possibilità di scegliere tra le due funzioni si ha anche con altri verbi: «correre diritto/diritti alla meta»; «sono vicino/vicina a te»; «la meta risultò più lontano/lontana del previsto» ecc. I verbi che non ammettono (o ammettono raramente) costruzioni copulative e con complementi predicativi inibiscono l’uso aggettivale: «abbiamo parcheggiato vicino», ma non *«abbiamo parcheggiato vicini», che, semmai (e con difficoltà), significherebbe altro (cioè non ‘in un luogo vicino’ ma ‘vicini io e te’).
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Credo che tizio sappia che caio è un ragazzo simpatico.
2) Immagino che tizio pensi che caio sia intelligente.
3) Ritengo che tizio creda che caio sia bugiardo”
4) Ritenevo che tizio credesse che caio fosse bugiardo”
Vorrei sapere se l’analisi logica delle frasi seguenti è corretta. Nella prima credo è la principale; che tizio sappia è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio è (e non *sia) un ragazzo simpatico è una subordinata oggettiva di secondo grado all’indicativo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo dichiarativo, che ammette l’indicativo. Nella seconda immagino è la principale; che tizio pensi è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di opinione, giudizio, conoscenza, pensiero ed opinione; che caio sia (e non *è) intelligente è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Nella terza ritengo è la principale; che tizio creda è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio sia bugiardo è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo presente, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Sempre nella terza frase stiamo esprimendo contemporaneità al presente. Nella quarta frase il discorso è il medesimo, ma al passato, con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto perché stiamo esprimendo contemporaneità al passato.
RISPOSTA:
L’analisi del periodo (non è analisi logica, che, invece, riguarda la sola frase semplice) da lei proposta è corretta. Si possono aggiungere due particolari: quando sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo, il secondo è l’opzione più formale; un tempo verbale instaura un certo rapporto temporale con il tempo del verbo della proposizione reggente. Nella terza frase, quindi, creda è contemporaneo rispetto a ritengo e sia lo è rispetto a creda; allo stesso modo, nella quarta credesse è contemporaneo nel passato rispetto a ritenevo e fosse è contemporaneo rispetto a credesse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) «Tu sei un problema»
2) «La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi»
3) «I figli sono una grande preoccupazione»
4) «I miei amici sono la mia famiglia»
5) «La mia famiglia sono i miei amici»
6) «La famiglia sono i suoi membri»
7) «La vita non sei tu»
Sono corretti gli accordi nelle frasi? D’altro canto con un soggetto al singolare (“La villeggiatura”, “La mia famiglia”, “La famiglia”) e una parte nominale al plurale (“quattrini”, “i miei amici”, “i suoi membri”) l’accordo della copula (“sono”) è con la parte nominale (frasi 2, 5 e 6); mentre, viceversa, con un soggetto al plurale (“I figli”, “i miei amici”) e una parte nominale al singolare (“una grande preoccupazione”, “la mia famiglia”) l’accordo della copula (“sono”) è con il soggetto (frasi 3 e 4). In pratica, ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale. In più, quando la parte nominale è formata da un nome di genere non variabile (è il caso di “un problema”, nella frase 1, e “la vita” nella frase 7), esso si accorda con il soggetto (“tu” in entrambe le frasi; l’unica differenza è che nella frase 1 il soggetto è posto all’inizio, nella frase 7 è posto alla fine per dare particolare rilievo) solo nel numero (a riprova di ciò “problema” e “vita”, come nomi del predicato, non variano nel genere infatti “problemo” e “vito”, a meno che non si intenda il nome proprio, non esistono nella lingua italiana ma variano soltanto nel numero -singolare o plurale: “problemi” e “vite”). Mentre, in generale, la copula si accorda regolarmente con il soggetto nella persona e nel numero: per esempio, nella frase “Le ragazze sono brave insegnanti” il verbo copulare “sono” si accorda con il soggetto “ragazze” in numero (plurale) e persona (terza).
Pensate sia corretto?
RISPOSTA:
Sì, tendenzialmente tutte corrette, le sue deduzioni sulla base degli esempi citati, a parte qualche inesattezza sul genere: nella frase «Le ragazze sono brave insegnanti» l’accordo è anche nel genere: «le ragazze sono brave maestre» / «i ragazzi sono bravi maestri». Laddove possibile, cioè (nel caso di nomi variabili per genere), l’accordo avviene anche in base al genere. Insegnante non è un nome non variabile per genere, bensì un nome epiceno (o ambigenere, o di genere comune) il cui genere si evince dall’articolo (l’insegnante, la insegnante, gli insegnanti, le insegnanti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto una frase di un famoso politico che mi non mi quadra, ma non so bene perché. La frase dice: «[…] Vorrebbe dire che chiunque potrebbe venire nel nostro Paese».
Non sarebbe meglio «Vorrebbe dire che chiunque può venire nel nostro Paese»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Il secondo condizionale, tuttavia, non è un inutile orpello retorico né un semplice riverbero del precedente condizionale (o almeno non necessariamente). «Chiunque potrebbe venire nel nostro paese» indica una forma di attenuazione, di possibilità, da parte del mittente, rispetto all’indicativo «può venire». È come se il mittente subordinasse il suo discorso a un’ipotesi, che può essere, nel contesto, sia «se volesse», sia «se venisse attuata la tal proposta di legge». Dopodiché, a suonarle “storto” forse è il razzismo serpeggiante sotto la frase, ma non la sua forma, che è corretta. Nel primo caso (il razzismo serpeggiante), la frase suona malissimo e quadra pochissimo anche a me… Ma attenzione a non trasferire alle forme (e alla grammatica) ciò che è solo dei contenuti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “Se si possiede dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro” o “Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli ecc.”? Se non erro, “dai 3 ai 10 titoli” dovrebbe essere complemento di misura e quantità, quindi il “si impersonale” non va accordato. Però mi viene il seguente dubbio: ma non è che l’espressione “dai 3 ai 10” è complemento di quantità/misura e “titoli” , invece, il complemento oggetto plurale e quindi in questo caso bisogna dire “Se si possiedono” visto che abbiamo un complemento oggetto plurale (“titoli”)???
RISPOSTA:
La frase è costruita col si passivante e dunque equivale a: «se dai 3 ai 10 titoli accademici sono posseduti…». «Dai 3 ai 10 titoli accademici» è un soggetto complesso (con attributi), esattamente come sarebbe un complemento oggetto (e non un complemento di quantità) se la frase fosse attiva: «Se qualcuno possiede dai 3 ai 10 titoli accademici…». Pertanto, visto che in caso di forma passiva il verbo va concordato col soggetto, l’accordo per numero non può che essere al plurale: «Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro».
Numerosissime risposte di DICO vertono sulle differenze e sull’accordo nei casi di si passivante. La invitiamo pertanto a (ri)leggerle, a partire da questa: https://dico.unime.it/ufaq/si-vive-o-si-vivono/
Fabio Rossi
QUESITO:
“Se si desidera far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba”. Nella frase di prima è giusto usare “Se si desidera”, e quindi il verbo desiderare alla terza persona singolare, oppure bisogna usare il verbo desiderare alla terza persona plurale (desiderano)? Credo che si debba usare “desidera” perché penso che “far giocare” sia il complemento oggetto del verbo desiderare, però mi è venuto il seguente dubbio “E se invece sia ‘desiderare’ che ‘far giocare’ vanno considerati come un unico predicato verbale e quindi gli unici complementi oggetto della frase sono Claudio e Giulio?” A quel punto, se fosse così, allora dovremmo utilizzare “desiderano” e non “desidera”. Oppure “desiderare’ va considerato come un verbo servile che viene in ausilio di “far giocare” e quindi bisogna comportarsi come se avessimo avuto al posto di ‘desiderare’ i verbi “volere, potere, dovere”? D’altro canto in italiano si dice “Si possono prendere queste cose”, e quindi “possono” (verbo servile) va al plurale proprio perché il complemento oggetto è al plurale (queste cose). Qual è la soluzione corretta al quesito?
RISPOSTA:
La frase è da intendersi con si impersonale (e non passivante) e il verbo va coniugato pertanto alla terza persona singolare: «Se si desidera [= se qualcuno desidera] far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba». La frase volta al passivo sarebbe agrammaticale: *«Claudio e Giulio sono desiderati essere fatti giocare [o fare giocare]…».
Negli esempi successivi, invece, la costruzione passivante funziona e il verbo va pertanto al plurale, accordato con il soggetto (plurale): «Si possono prendere queste cose» = «queste cose possono essere prese».
Il costrutto con verbo fattitivo o causativo (fare giocare, lasciare giocare ecc.) è diverso dal costrutto con verbo modale o servile (posso giocare, devo giocare ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei gentilmente sapere se entrambe le costruzioni sotto indicate siano valide.
«Con quella lettera mi si è comunicato la convocazione».
«Con quella lettera mi si è comunicata la convocazione».
(Mi si è comunicato/a = mi è stata comunicata.)
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è la seconda: «mi si è comunicata la convocazione». Il si ha infatti qui valore passivante e dunque la frase equivale a: «mi è stata comunicata la convocazione». L’accordo al maschile sarebbe agrammaticale: *«Mi è stato comunicato la convocazione», in quanto violerebbe la regola dell’accordo tra verbo e soggetto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se è corretto utilizzare il verbo imputare anche in un’accezione non negativa. Si può di certo affermare: “Gli è stata imputata la responsabilità della sconfitta”. Ma possiamo dire: “Gli è stato imputato il merito della vittoria”? Il verbo imputare, secondo i dizionari, è anche sinonimo di “attribuire”.
Ma non credo lo si possa usare in un’accezione che implica un merito.
RISPOSTA:
Il significato più comune e utilizzato del verbo imputare è certamente quello di ‘attribuire come motivo di colpa’. Nella storia dell’italiano, anche recente, non mancano però esempi di imputare usato con valore positivo in frasi come “imputare a merito”, dove imputare è usato come sinonimo di ascrivere. Tuttavia, quest’accezione, così come registrano i principali dizionari dell’uso, è da considerarsi non comune e arcaica.
Anche se i dizionari registrano come sinonimo di imputare il verbo attribuire, occorre sempre ragionare sul fatto che la sinonimia perfetta è un concetto astratto e che è opportuno scegliere la parola in base al contesto d’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Spesso faccio confusione nel distinguere i verbi andare e venire in determinati contesti.
“Lara è uscita di casa ed è venuta a prendere il figlio a scuola.”
Il parlante in questo esempio usa venire sottintendendo che nel momento in cui Lara si è presentata a scuola era in quel luogo. Se invece tale verbo fosse stato sostituito da andare, il parlante avrebbe evidenziato tutta la sua distanza dall’azione. La mia interpretazione è corretta?
RISPOSTA:
Sì, la sua interpretazione è corretta, perché i verbi andare e venire esprimono un movimento di allontanamento o di avvicinamento da chi parla. Nel caso di andare, il parlante si trova lontano dalla destinazione di spostamento; nel caso di venire, il parlante si trova vicino o è già nella destinazione di riferimento.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.
RISPOSTA:
La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sottopongo un dubbio sorto sull’uso del congiuntivo in una frase presa da un articolo di giornale:
“Non dobbiamo più dire che gli uomini debbano comportarsi come uomini”.
Chiedo se sia o no obbligatorio l’uso dell’indicativo (per la tipologia di verbi nella reggente) oppure se l’uso del congiuntivo sia giustificato da una scelta che vuole marcare una sorta di incertezza all’intera frase.
RISPOSTA:
L’indicativo è una scelta sistematica (sebbene non ci sia una regola che la renda obbligatoria) nelle oggettive dipendenti dal verbo dire quando quest’ultimo è affermativo (per esempio: “Dobbiamo dire che gli uomini devono comportarsi…”). Quando, invece, il verbo dire è negato, il congiuntivo nell’oggettiva diviene possibile, come nel suo esempio. Come sempre avviene quando è possibile l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, quest’ultimo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi su queste frasi:
1) Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (o fosse calato), avresti potuto comprarla.
2) Non appena/Quando sarebbe arrivato (fosse arrivato) il tuo turno, avresti potuto alzare la mano.
3) Finché non sarebbe sorto il sole, non si sarebbe svegliato.
Mi viene spontaneo usare il condizionale passato dopo Quando/Non appena/Finché, eppure, dopo aver fatto una piccola ricerca su internet, ho potuto constatare che è molto più diffuso il congiuntivo trapassato (come se quando, non appena e finché eqivalessero a se). È corretto usare il condizionale passato nelle frasi che vi ho sottoposto?
RISPOSTA:
Il condizionale passato è corretto tanto quanto il congiuntivo trapassato. In particolare, nelle prime due frasi il condizionale rappresenta gli eventi come successivi ad altri eventi passati (e secondariamente condizionati dagli stessi eventi). Si noti che se trasportiamo la prima frase al presente avremo “Quando il prezzo calerà potrai comprarla”: tanto il calare quanto il poter comprare sono rappresentati come fatti che avverranno nel futuro. Ebbene, se l’evento futuro è collocato nel passato, esso si costruisce, per l’appunto, con il condizionale passato: questa forma corrisponde, quindi, al futuro nel passato. Gli eventi rispetto a cui il calare e l’arrivare sono sucessivi non sono esplicitati, ma il ricevente non può che presupporre la loro esistenza proprio per via dell’uso del condizionale passato. Il ricevente, cioè, rappresenta nella sua mente la prima frase come “Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…” e la seconda, ugualmente, come “Non appena/Quando sarebbe arrivato il tuo turno (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…”.
Il congiuntivo trapassato rappresenta gli stessi eventi come non fattuali, e più precisamente come ipotetici; il suo uso è attratto dal condizionale passato della proposizione reggente, che viene identificato dal parlante come una conseguenza, rispetto alla quale è necessario individuare un’ipotesi. Le congiunzioni che introducono le proposizioni sono, quindi, equivalenti a se (come suggerito da lei) e tutta la frase diventa una sorta di periodo ipotetico del terzo tipo.
La terza frase è apparentemente diversa dalle prime due perché il sorgere del sole è per definizione non ipotetico. Immagino che per questo motivo lei proponga soltanto la variante con il condizionale passato. Il congiuntivo trapassato è, invece, corretto anche in questo caso: con finché non fosse sorto, infatti, l’emittente intenderebbe non se non fosse sorto, che sarebbe illogico, ma se non prima fosse sorto, che sottolinea la consecutività del rapporto tra il sorgere del sole e lo svegliarsi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un articolo online della Zanichelli dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro», ho notato che sono state riportate indifferentemente queste 2 frasi come corrette dall’autore dell’articolo: A) Mario e Luca si aiutano l’un l’altro; B) Mario e Luca si aiutano l’uno con l’altro.
Ora, la mia domanda è: qual è la regola grammaticale che stabilisce che tra “l’uno” e “l’altro” va bene il “con” quando c’è il verbo transitivo “aiutare” nella frase? È forse un’eccezione grammaticale? Oppure viene usato il “con” come rafforzativo?
Insomma, è la stessa cosa se dicessi “Marco e Luca si sopportano l’un l’altro” oppure “Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro”?
Devo ammettere che le due frasi della Zanichelli mi hanno mandato un po’ in confusione. Potete aiutarmi? Grazie.
P.S. Anche in un articolo dell’Accademia della Crusca dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro» ho notato che viene usato il “con” tra “l’uno” e “l’altro” quando c’è il verbo transitivo “aiutare”. Infatti, più o meno, alla fine dell’articolo vi è la seguente frase: “Marco e Giuseppe si aiutano l’uno con l’altro”.
RISPOSTA:
Se andiamo a guardare la norma (intesa come convenzione sociale) della lingua e anche il funzionamento grammaticale dei costrutti, senza dubbio l’unica forma pienamente corretta è «Mario e Luca si aiutano l’un l’altro», poiché il verbo aiutare è transitivo. Tuttavia, dal momento che la lingua dell’uso non risponde soltanto a logiche grammaticali e a norme sociali, ma prende anche altre pieghe, sia nel parlato sia nello scritto, in effetti esempi come «aiutarsi gli uni con gli altri» e simili sono comunissime. E, dato che ogni uso (se non idiosincratico) ha sempre una sua spiegazione, cioè una sua regola, più che sanzionare siamo interessati a capire e a trovare queste regole. È probabile che nel caso specifico abbiamo agito due forze, a favore dell’uso di con. La prima è l’interferenza del verbo pronominale aiutarsi, che ha un significato e una costruzione differenti da aiutare: «aiutarsi con le mani», «aiutarsi con qualche farmaco» ecc. L’altra forza è data dal senso del verbo aiutare (e aiutarsi), che fa leva cioè sulla collaborazione, sullo stare insieme, cioè “con” qualcuno: ecco che scatta dunque la funzione del “con” in «aiutarsi gli uni con gli altri», che non è da considerarsi un rafforzativo, né un’eccezione, ma proprio un uso alternativo (senza dubbio ancora avvertito come meno formale, in quanto non tradizionale: esiste comunque fin dal ’300, se ne legge un esempio in Villani nel Battaglia) rispetto a «aiutarsi gli uni gli altri». Lo stesso vale per «Marco e Luca si sopportano l’un l’altro» oppure «Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro». Non c’è dubbio che la costruzione più formale (in linea con la tradizione) sia la prima; tuttavia la seconda, sebbene meno frequente (si ricerchino le occorrenze in Google), è comunque ben attestata in italiano e come tale non può essere respinta né come errata né come eccezionale. Anche qui, ha senza dubbio agito il senso del verbo sopportare: sopportare, così come aiutare, è un’azione che si fa in (almeno) due persone, addirittura reciproca, negli esempi citati, ovvero è qualcosa che si fa “con” qualcuno, nei confronti di qualcuno.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.
RISPOSTA:
Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.
RISPOSTA:
Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».
Fabio Rossi
QUESITO:
Da professore riesco a capire che la lingua non è la matematica e che ci sono diversi fattori che influenzano l’uso di una lingua che non sono così semplice da spiegare. Ma per me buoni esempi sono fondamentali per la pedagogia e spero che ci sia qualche valore per Lei in questo scambio.
Comunque mi piacerebbe provare a estrarre i fattori communi in diversi gruppi di questi esempi col motivo di usare il condizionale in modo corretto. Spero di non farla annoiato.
Gruppo I
Gli esempi in cui il condizionale da solo secondo Lei esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità, ecc.:
Volevo capire se la ragione di base per cui va bene il condizionale da solo in questi esempi I.a – I.c fosse è perché in tutti e tre gli esempi LA PERSONA CHE RISPONDE ALLA RICHIESTA POTREBBE RIMANERE SUL VAGO INVECE DI RISPONDERE CON UN SECCO NO CHE SAREBBE TROPPO DIRETTO. Se quest’analisi è giusta, chiamerò Gruppo I
L’USO DEL CONDIZIONALE PER RIPONDERE IN MODO VAGO/ELEGANTE A UNA RICHIESTA.
(a) Tu: <<Andiamo a bere un ultimo bicchiere?
Io: <<Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello».
(b) Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato» dove l’uso del condizionale semplice ha valore dubitativo o potenziale.
(c) «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso».
GRUPPO II.
In questo gruppo non riesco a estrarre la ragione di base per cui II.a vada bene, ma II.b sia incompleta.
(a) «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» secondo lei e Prof Tartaglioine sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi.
(b) Sarebbe difficile studiare la lingua cinese. (Il mio esempio di partenza. È corretta anche da sola o soltanto come risposta alla domanda “vuoi studiare la lingua cinese?)
COME MAI II.B va bene ma II.A come scritta non è completa?
Se avessi cambiato II.a per creare II.a1 “Sarebbe un bel film AL MIO PARERE ” reggerebbe il condizionale da solo? (non sono un giornalista, ma ho messo in evidenza che è la mia opinione che è soggettiva).
La mia frase II.a1 mi sembra molto simile a una che ho trovato sul sito LEARNAMO:
(c) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. SAREBBE una cosa carina A MIO PARERE.
Secondo Lei la frase sopra (c) è corretta e chiara? Per me ha il significato sottinteso “se lei la facesse”.
Se togliamo A MIO PARERE per creare
(c1) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. “Sarebbe una cosa carina”
il condizionale regge da solo? o no? Se regge, c’è una ragione per “Sarebbe una cosa carina” va bene, ma “Sarebbe un bel film” non è completa.
Gruppo III
Un altro esempio dal video da Prof Tartaglione.
(a) Marco avrebbe da fare (errata)
Marco dovrebbe avrebbe da fare (corretta – è un’ipotesi)
Come mai non va bene senza dovrebbe?
Due variazioni che faccio io con altro contesto:
(b) Non vedo Marco da tanto tempo. Lui avrebbe da fare.
(c) Non vedo Marco da tanto tempo. AL MIO PARERE lui avrebbe da fare.
Con l’aggiunto del contesto “ non vedo Marco da tanto tempo” o “con al mio parere” il condizionale da solo regge? (Sottointeso “se io non sbagliassi”).
RISPOSTA:
A profitto di chi legge, questa risposta fa riferimento ai temi trattati da ultimo qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/) e qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-e-la-pragmatica/).
Gruppo I: va bene, niente da aggiungere.
Gruppo II: Sarebbe difficile il cinese (se lo studiassi): meno naturale di “è difficile” ma comunque possibile (non scorretto). Funziona solo in risposta alla domanda. Il motivo per cui questo è più naturale di IIa non è chiarissimo, secondo me: non sempre è semplice risalire induttivamente da una consuetudine dell’uso a una regola, perché talora è la sola frequenza, o le convenzioni culturali, a far scattare la preferenza per una versione piuttosto che un’altra. Credo però che il motivo della preferenza risieda nella protasi sottintesa (cioè nelle presupposizioni attivate negli interlocutori: ancora una volta conta la pragmatica): Se lo studiassi il cinese sarebbe difficile (presentata come giudizio oggettivo, in un certo senso: nessuno chiederebbe perché); Se lo vedessi, quel film, sarebbe bello (è ambiguo: perché non puoi vederlo? Oppure è questione di gusti, è bello o no?).
Stesso discorso sulla festa: l’aggiunta di “a mio parere” non rende meno ambiguo il caso del film: forse è bello, è bello a mio parere. Mentre, nel caso della festa, sia con sia senza “a mio parere”, il giudizio non desta ambiguità: senza dubbio organizzare una festa a qualcuno è un’idea carina. Anche se lo esprimo al condizionale o in forma (pseudo)dubitativa: può essere un’idea carica, potrebbe essere un’idea carina.
Marco avrebbe / dovrebbe avere da fare. In certi contesti, anche “Marco avrebbe da fare” può essere accettabile: “In teoria, Marco avrebbe da fare, ma forse se sa che viene anche Liz vedrai che viene di corsa!”.
Ancora una volta: questioni di pragmatica, direi, cioè di presupposizioni attivate dai diversi contesti (e dai presupposti attivati su certi argomenti: film, soggettivo; cinese, considerato da tutti difficile; festa, considerata da tutti una idea carina ecc.).
No, l’aggiunta di “a mio parere” non è dirimente, non è questo che rende migliore o peggiore una frase, ma, come ripeto, il contesto e l’attivazione di questa o quella presupposizione. Le frasi naturali sono: Ha da fare, Forse ha da fare, Dovrebbe avere da fare, ma non “Avrebbe da fare”, neppure se aggiunge “A mio parere”.
Lei ha messo il dito in una piaga molto interessante, cioè questa: una lingua non è fatta solo di morfosintassi ma anche di convenzioni (NON SCRITTE) che vanno di là dalla grammatica e che rientrano nelle presupposizioni, nell’enciclopedia dei parlanti, nelle convenzioni culturali, nella frequenza d’uso e in molto altro ancora.
L’uso del condizionale, inoltre, è in continuo e rapido movimento, nella lingua italiana. Costrutti vivi fino a venti-trenta anni fa oggi sono inaccettabili e viceversa. Proprio perché è legato alle sfumature modali (epistemico), il condizionale ha una quantità di oscillazioni non ancora tutte sondate dai linguisti. Lo stesso discorso vale per l’imperfetto indicativo. Per questo, a suo tempo, le suggerii il precoce Le facce del parlare della compianta Carla Bazzanella, studiosa di pragmatica.
Fabio Rossi
Mi aiuterebbe a capire, dettagliatamente, i vari accordi del participio passato in presenza del “ne” delle seguenti frasi?
1)”In frigo c’erano cinque arance e Franco ne ha usate tre per farsi una spremuta”
2)”Ieri sera a cena ho esagerato con il vino: ne ho bevuti tre bicchieri!”
3)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiata la metà”
4)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiate molte”
5)”Hai mangiato dei biscotti?” “Sì, ne ho mangiati”.
Quella che segue è la mia analisi delle frasi.
Nella prima il complemento oggetto è rappresentato dal “tre” che è un pronome numerale, mentre il “ne” è complemento di specificazione e significa “Di arance, di quelle, di queste”. In merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle arance”/”arance”: quindi con “usate” concordato con “Delle arance/arance”, sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura” (Ah, il “tre” penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio, ma con “una”). Nella seconda “tre bicchieri” (o comunque “bicchieri”) è il complemento oggetto e il “ne” è complemento di specificazione con il significato di “Di vino, di questo, di quello”. Per quanto riguarda l’accordo, il participio passato dei tempi composti, in questi casi, prende il genere dal contenitore o dell’unità di misura, se sono specificati (“bicchieri”, contenitore): quindi con “bevuti” concordato con “bicchieri”, maschile plurale. Nella terza il complemento oggetto è il pronome indefinito “molte” e “ne” è il complemento di specificazione con il significato di “Delle pere, di quelle, di queste”. Sul versante dell’accordo, stesso discorso della prima: e quindi il participio si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”/”pere”: quindi con “mangiate” concordato con “Delle pere/pere”, sottinteso accanto a “molte”, complemento oggetto e quantificatore, inteso anche qui come “unità di misura” (Ah, “molte”, anche qui, penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio proprio con “molte”, ma anche “metà”). Discorso diverso per la quarta nella quale “ne” sta per “Dei biscotti, alcuni biscotti, biscotti (e quindi “quelli”) ed è complemento oggetto partitivo che precede il verbo il cui participio “mangiati” si accorda obbligatoriamente con le categorie grammaticali di genere e numero assegnate al nome (“biscotti”) del referente del pronome (“ne”).
Mi auguro che le mie riflessioni, alle quali tengo fortemente, siano corrette.
RISPOSTA:
In sostanza la sua analisi è corretta. Tuttavia, negli usi reali, la situazione è molto più sfaccettata. Per questo motivo, sul tema dell’accordo del participio con ne, la invitiamo a leggere le seguenti due risposte di DICO qui e qui.
Fabio Rossi
QUESITO:
Non voglio fare polemica, soltanto vorrei avere il suo giudizio su una cosa detta da un “professore” Roberto Tartaglione che lavoro con l’editrice Alma. Lui dice in questo video del esprimere dubbio in italiano con diversi modi/tensi qui à https://www.almaedizioni.it/video-alma-tv/esprimere-un-dubbio/?srsltid=AfmBOorzT7QjoinvWZqfkLwx25Ng1uOqwFVyz8gV3brFIpy1xgcwXwDp
che per esprimere un dubbio su un film, non si può dire SAREBBE UN BEL FILM quando non si usa la voce giornalistico.
Secondo lei, seguendo gli esempi sotto, sarebbe sbagliato dire “sarebbe un bel film” (la mia opinione personale) non per esprimere un dubbio, ma una possibilità? È necessario dire “dovrebbe essere un bel film”? (So perfettamente che l’uso epistemologo del futuro per esprimere un dubbio è qualcosa diversa).
So che sono un po’ academico, ma è soltanto per approfondire.
RISPOSTA:
L’ottimo professor Tartaglione (tra i miei primi datori di lavoro) ha perfettamente ragione. Ma vi sono contesti in cui il condizionale da solo esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità..: «A. Andiamo a bere un ultimo bicchiere? B. Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello». Se mi chiedono: «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi: (per esempio) «Se non fosse così lungo», oppure, giornalisticamente, «secondo la critica». Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato», e moltissimi altri esempi sarebbero (appunto!) ancora possibili, d’uso del condizionale semplice con valore ora dubitativo, ora potenziale. Tartaglione giustamente semplifica il discorso limitandolo a un solo esempio facile: «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso». E dunque sarebbe una risposta errata per esprimere invece: «Alcuni pensano che sia bello», «Dicono che è bello» ecc. Anche «Potrebbe essere bello», in questo caso, sarebbe ambiguo, perché chi ascolta capirebbe «Può essere bello andare al cinema» e non «può essere bello il film».
Ma la lingua è sempre più sfaccettata di quanto le sue schematizzazioni non riescano a rappresentare. Nel suo primo esempio sul cinese (b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile”, di cui alla domanda DICO https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/), il contesto e le presupposizioni dei parlanti (cioè la pragmatica) ammettono l’uso del condizionale, nell’esempio sul film no. Questo perché tutte le componenti della lingua (fonetica, morfologia, sintassi, lessico, semantica, pragmatica) cooperano tra loro simultaneamente nella realizzazione di atti linguistici. Se separiamo le componenti, come pure dobbiamo fare per semplificarne la spiegazione e la didattica, non riusciamo a dar conto del funzionamento complessivo degli enunciati. In certa misura potremmo dire che tanti sono i significati di una lingua quanti ne sono i contesti d’uso. Morale della favola, la contraddizione tra l’esempio del cinese e quello del film è solo apparente: i contesti, infatti, disambiguano l’uso. Come livello didattico basico per spiegare l’impiego del condizionale il modello di Tartaglione è più che sufficiente. Per un livello più avanzato si può aggiungere il modello della protasi sottintesa (se potessi, se lo studiassi ecc.), che aggiunge un ulteriore livello di spiegazione
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel libro «La piscina» scritto da Giacomo Papi, l’autore usa molto il condizionale. Mi ha fatto pensare a due esempi che mi pesano da un po’. Ho provato a trovare una spiegazione nel libro «Le facce del parlare» (che il prof. Rossi mi ha suggerito un paio di anni fa) senza successo.
a) Mia moglie non FAREBBE mai niente di male a nessuno della nostra famiglia.
b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile.”
DOMANDA 1
Nei due esempi (a) e (b) mi sembra simile la ragione per cui viene usato il condizionale. Per me nella frase a) l’uso del condizionale FAREBBE attenua la frase che è un’opinione personale o un giudizio/supposizione sulla moglie. Nell’esempio b) volevo seguire il modello di a), ma quando dico sarebbe molto difficile invece di potrebbe essere molto difficile, i miei amici italiani mi correggono.
Potrebbe spiegarmi qual è la differenza nell’uso del condizionale tra l’esempio a) e l’esempio b)? Come mai è necessario impiegare il servile potere nell’esempio b?
DOMANDA 2
Nel libro referito ho trovato due esempi con lo stesso verbo:
a) «Delle tue responsabilità per le morti dello zio Klaus e di Magnoni possiamo discutere, questo invece SI QUALIFICHEREBBE come un furto bell’e buono».
b) «Invece per la morte di Mario Spini questo video SI QUALIFICHEREBBE come istigazione al suicidio per lapidazione».
Come mai potere non è necessario (rispetto a sarebbe difficile)?
Tutte e due le frasi esprimono opinioni personali/supposizioni?
RISPOSTA:
La risposta è semplice: tutte le frasi proposte (con uso del condizionale potenziale) sono corrette e d’uso normale, in tutte l’uso del verbo potere è soltanto opzionale ma mai necessario (dato che esprime esso stesso possibilità) e i suoi amici sono ingenuamente e inutilmente prescrittivi. In particolare:
-
«Mia moglie non farebbe / potrebbe fare mai niente di male a nessuno della nostra famiglia».
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«Potrebbe essere / sarebbe molto difficile».
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«questo invece si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come un furto bell’e buono».
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«questo video si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come istigazione al suicidio per lapidazione».
In tutti e quattro gli esempi, come al solito nell’uso del condizionale, la carica potenziale è analoga a quella dell’apodosi di un periodo ipotetico, per questo in tutte e quattro le frasi è come se ci fosse sottintesa una protasi:
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Se se ne presentasse l’opportunità
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Se lo studiassi
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Se avvenisse
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Se fosse girato il video.
Il motivo per cui la 2 sembra più naturale col verbo potere (ma ciò non giustifica l’inutile purismo dei suoi amici) è dovuto forse alla parziale complicazione posta dal verbo volere nella domanda, tanto che la protasi potrebbe mettere in dubbio la volontà piuttosto che la difficoltà del cinese.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il sintagma «animato da Spirito Santo» è possibile scriverlo anche «animato di Spirito Santo»?
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni sono corrette e attestate, sia in rete sia in letteratura. A giudicare dagli esempi riportati dai dizionari (soprattutto il GDLI della Utet), sembra più comune il costrutto con il complemento d’agente («animato da»), ma anche il costrutto con «di» figura in letteratura, per es. in Leopardi: «animata di sì vivo […] amor di patria». Del resto, l’italiano ammette il doppio costrutto con altri verbi simili: «fatto da» / «fatto di», «amareggiato da/di» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».
I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?
RISPOSTA:
Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».
Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».
Fabio Rossi
QUESITO:
«A quelli come me la pazienza sta finendo». Ho sentito e letto che in latino era comune il verbo in fondo alla frase, mentre in italiano non è raccomandabile se non sbagliato. Vorrei sapere, se possibile, perché. Secondo me, il verbo è posto in fondo alla frase per essere enfatizzato/focalizzato, quindi non intravedo errori.
RISPOSTA:
Ha ragione lei, non è un errore. Nella frase «A quelli come me la pazienza sta finendo» il soggetto «la pazienza» è topicalizzato, svolge cioè il ruolo di secondo topic (il primo è «A quelli come me»), mentre il verbo «sta finendo» in questo caso svolge il ruolo di comment ed è focalizzato. Quindi in questo caso non c’è alcuna influenza regionale (come nel caso di «Montalbano sono») nella posizione conclusiva del verbo, bensì è la struttura informativa che influenza quella sintattica, cioè il ruolo del topic e del comment condiziona l’ordine dei sintagmi nella frase.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio in merito all’analisi grammaticale del participio passato «preoccupato» nell’espressione «sembra preoccupato» in quanto non so se analizzarlo come participio passato del verbo «preoccupare» o/e evidenziare che è usato come aggettivo qualificativo.
RISPOSTA:
Meglio analizzarlo come aggettivo, perché non vi sono elementi di reggenza verbale che ne autorizzino l’interpretazione come participio passato, come sarebbe, per esempio, la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «sembri preoccupato da molte questioni».
Comunque la differenza tra valore verbale e valore aggettivale nel participio è quasi sempre sfumata e indecidibile. Si chiama non a caso participio, cioè che partecipa della doppia natura di verbo e di nome/aggettivo. Per saperne di più, può leggere anche la seguente risposta di DICO:
https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Si può mangiare questi frutti?» Dove «si può» sottintende: «Una persona può mangiarli se vuole o se gli è permesso?» Oppure l’unica espressione corretta è: «Si possono mangiare questi frutti?».
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è «Si possono mangiare questi frutti?», perché il soggetto della frase è plurale («questi frutti») e dunque il verbo deve essere al plurale, accordato con il soggetto. Il si, infatti, è un si passivante (anche se usato per rendere la frase impersonale) che viene così interpretato sintatticamente: «Possono essere mangiati questi frutti?». Altre informazioni sull’uso del si impersonale, del si passivante e sull’accordo verbale si trovano nella seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/si-impersonale-passivante-o-toscano/
Fabio Rossi
QUESITO:
Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:
«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) / NEMMENO la X o lo stesso Y, / NE’ la X, NE’ lo stesso Y,
ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo, a tale processo”.
RISPOSTA:
La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».
Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».
Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.
Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due frasi è preferibile?
«Non credete a quello che raccontano».
«Non crediate a quello che raccontano».
RISPOSTA:
Le due frasi sono pressoché equivalenti (ma la seconda risulta quasi troppo letteraria, come vedremo), dal momento che sia il congiuntivo esortativo, sia l’imperativo servono per esprimere un ordine, un’esortazione e simili. Il congiuntivo esortativo supplisce l’imperativo nei casi di allocuzione di cortesia, cioè quando si dà del Lei a qualcuno che si vuole esortare, dal momento che l’imperativo ha due sole persone (la seconda singolare e la seconda plurale), mentre il congiuntivo ha anche la terza, necessaria per il Lei. Quanto appena detto vale anche per l’imperativo negativo, costruito con non + l’infinito per la seconda persona singolare, con non + l’imperativo affermativo per la seconda persona plurale. Dato che nella frase in questione, alla seconda persona singolare, non c’è alcun bisogno di sostituire l’imperativo con il congiuntivo esortativo, la scelta dell’imperativo («Non credete») è la più normale e consigliata in tutti i contesti, mentre quella al congiuntivo, comunque possibile e corretta, come già detto, risulta quasi ipercorretta, nella sua formalità (come se chi la usa temesse d’esser tacciato, ingiustamente, di non conoscere il congiuntivo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Soffro a vederla indifesa” è corretto usare la preposizione a o andrebbe meglio nel o anche di?
RISPOSTA:
Il verbo soffrire può reggere un complemento di causa introdotto da per (soffro per la perdita dei valori) o, se la causa della sofferenza è permanente o ciclica, di (soffro di mal di testa). Il verbo può reggere anche varire proposizioni (causale, temporale, condizionale…), costruite regolarmente, ma non una completiva, quindi non ammette la preposizione di. La proposizione subordinata nella sua frase è a metà tra la causale e la temporale e può essere introdotta da a o nel (soffro a / nel vederla = soffro perché la vedo + soffro quando la vedo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.
RISPOSTA:
Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo o del condizionale nella seguente frase:
“Non credevo che quei ragazzi avessero fatto del male a me e ai miei amici, anzi mi avevano salvata. Inoltre se avrebbero/se avessero voluto farmi del male avevano avuto la possibilità e il tempo di farlo e invece ero ancora
viva e vegeta”.
RISPOSTA:
La proposizione se avessero voluto farmi del male è una ipotetica (o condizionale): questo tipo di proposizione ammette soltanto il modo indicativo o il congiuntivo, non il condizionale. Se avrebbero voluto è, pertanto, un’opzione scorretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due seguenti frasi è preferibile:
1. “Vorrei sapere se sarebbe possibile ricevere quanto prima questo documento”.
2. “Vorrei sapere se fosse possibile ricevere quanto prima questo documento”.
Credo che la prima frase sia preferibile; ma la seconda è sbagliata ?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono possibili, anche se nessuna delle due è davvero preferibile. La proposizione interrogativa indiretta retta da vorrei sapere può essere costruita con il condizionale, il congiuntivo e l’indicativo (sarebbe possibile anche “Vorrei sapere se è possibile…”). Il condizionale non è davvero necessario, visto che la richiesta è resa già cortese dal condizionale nella reggente; il congiuntivo imperfetto, a sua volta, non è una scelta ideale, perché nella consecutio temporum l’essere possibile è contemporaneo nel presente rispetto al sapere, quindi il tempo davvero richiesto è il presente: “Vorrei sapere se sia possibile ricevere…”. Il congiuntivo imperfetto, in astratto scorretto, diviene accettabile (ma comunque non preferibile) perché è motivato dal modello soggiacente vorrei che fosse (sul quale può trovare un approfondimento qui).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?
RISPOSTA:
La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?
RISPOSTA:
La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?
RISPOSTA:
In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito di se con valore concessivo, vi chiedo se la seguente frase sia corretta utilizzando il condizionale nella protasi e se la stessa sia possibile omettendo la congiunzione anche: “Ho pochissimo denaro e non ho niente da comprare. Anche se mi piacerebbe avere una bicicletta nuova, non posso permettermela”.
RISPOSTA:
La frase è corretta; la proposizione anche se mi piacerebbe, però, non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una concessiva. La protasi del periodo ipotetico, ovvero la proposizione ipotetica, detta anche condizionale, non ammette il modo condizionale. Se si elimina anche dalla proposizione concessiva, chiunque continuerà a interpretare la proposizione come concessiva, sulla base del significato complessivo della frase, e della presenza del condizionale; la proposizione sarebbe, però, mal composta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il seguente periodo: “Sfido chiunque adesso mi sta leggendo e leggerà questi racconti, a non desiderare una simile avventura”. Non dovrebbe essere chiunque adesso mi stia leggendo…? Chiunque regge sia il congiuntivo che l’indicativo, ma in questo caso è pronome sia indefinito che relativo (= ‘qualunque persona che’).
RISPOSTA:
Il pronome relativo indefinito chiunque richiede effettivamente il congiuntivo; la scelta dell’indicativo è molto trascurata. Immagino che sia stata influenzata dall’indicativo futuro leggerà subito successivo, che è l’unica forma possibile per esprimere il futuro in questa frase, per cui è accettabile anche nello scritto di media formalità (l’alternativa con il congiuntivo non potrebbe assolutamente veicolare l’idea del futuro, a meno che non venga aggiunto un avverbio di tempo: chiunque adesso mi stia leggendo e legga in futuro questi racconti).
La frase presenta un’altra scelta infelice: la virgola tra la reggente (Sfido) e la completiva oggettiva (a non desiderare…). Le completive, escluse le dichiarative, non devono essere separate dalla reggente con alcun segno di punteggiatura (tranne che non ci sia in mezzo un’incidentale), allo stesso modo in cui, nella frase semplice, il verbo non deve essere separato dal complemento oggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’
Quale delle due è corretta? La prima, vero?
RISPOSTA:
Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.
1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».
2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).
RISPOSTA:
No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».
Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se il periodo indicato più sotto sia sintatticamente corretto (sia con il congiuntivo trapassato sia con quello imperfetto) e se, eventualmente, esisterebbero delle alternative valide, senza che queste vadano ad alterarne il senso.
«Se avessi puntato su un terno che alla prima estrazione fosse uscito/uscisse, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
RISPOSTA:
Sembra migliore la prima soluzione, al trapassato congiuntivo («fosse uscito»), dal momento che l’intera azione è al passato e si riferisce a qualcosa che non è accaduto. La soluzione all’imperfetto congiuntivo («che uscisse») sarebbe un po’ strana, perché suggerirebbe l’idea che chi ha puntato già sapesse che il terno sarebbe uscito o comunque che poteva uscire (e quest’ultima ipotesi sarebbe ovvia: qualunque puntata ha la probabilità di andare a buon fine). La possibile soluzione al condizionale passato («che sarebbe uscito») sarebbe anch’essa strana, perché lascerebbe intendere, anch’essa, la certezza dell’uscita del terno, se uno l’avesse puntato. Infine, dato che uscire è un verbo inaccusativo, il soggetto posposto al verbo funziona meglio: «Se avessi puntato su un terno che fosse uscito alla prima estrazione, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
Una piccola aggiunta. Nel testo della sua domanda («Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esisterebbero delle alternative valide») si notano una assimmetria e un uso del condizionale non del tutto accettabili. Sarebbe stata migliore la forma seguente: «Gradirei sapere se […] fosse sintatticamente corretto […] e se […] esistessero delle alternative valide», oppure «Gradirei sapere se […] è sintatticamente corretto […] e se […] esistono delle alternative valide», oppure, ma peggiore: «Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esistano delle alternative valide». L’ultima alternativa è la peggiore perché da vorrei dipende preferibilmente il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente (come spiegato qui).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.
Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?
RISPOSTA:
Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.
L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:
A: Come mai sei interessato all’italiano?
Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.
Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.
Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.
RISPOSTA:
Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».
Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”
Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?
RISPOSTA:
La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.
RISPOSTA:
Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccogliere, si deve raccoglierlo, un gesto simile lo si vede fare, un gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche ci, vi, la, li, le) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarre, se lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.
RISPOSTA:
La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?
RISPOSTA:
Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
Nelle due frasi, come introduce proposizioni di natura diversa, che si costruiscono diversamente. Nella prima frase la proposizione è un’interrogativa indiretta, che preferisce sempre il congiuntivo, e in particolare lo richiede decisamente quando è introdotta da come; nella seconda è una comparativa, che, al contrario, richiede l’indicativo quando è introdotta da come. Si noti che nella prima subordinata l’uso dell’indicativo non è escluso: “Mi aveva colpito come era riuscito a raccontare la storia” è possibile, con uno slittamento della proposizione verso il valore di oggettiva, non più di interrogativa indiretta. Con l’indicativo, in altre parole, come diviene equivalente a che.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?
RISPOSTA:
In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?
RISPOSTA:
In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?
Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.
RISPOSTA:
Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida
QUESITO:
la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?
Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.
RISPOSTA:
Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:
“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,
– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)
– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”
– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.
RISPOSTA:
Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.
Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.
Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.
Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?
RISPOSTA:
Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.
Fabio Rossi
QUESITO:
vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.
Potreste cortesemente esprimervi in merito?
RISPOSTA:
La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.
Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.
RISPOSTA:
L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.
Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda la costruzione della seguente frase: “L’animale si chiamava Bubu e ovunque sarebbe andato avrebbe obbedito solo al suo padrone”.
È corretto il condizionale passato dopo “ovunque”, in quanto azione futura nel passato, o si deve usare il congiuntivo “ovunque fosse andato”?
RISPOSTA:
La soluzione col condizionale passato fa leva, come giustamente osserva lei, sul futuro nel passato; la proposizione è però, a sua volta, dipendente da una reggente che già esprime il futuro nel passato (“avrebbe obbedito”), pertanto è decisamente da preferire la seconda soluzione col congiuntivo trapassato (“ovunque fosse andato”), per via della carica eventuale (quasi protasi di periodo di ipotetico) della subordinata relativa introdotta da ovunque: “se fosse andato in un posto qualunque, avrebbe obbedito”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Venite a trovarci, più ne siamo e meglio è”, è corretta la presenza della particella ne e, nel caso, che funzione grammaticale svolgerebbe? Oppure non si dovrebbe utilizzare?
RISPOSTA:
L’inserimento del ne in costrutti del genere è diffuso dell’italiano regionale meridionale; nella varietà standard dell’italiano (quella descritta dalle grammatiche) il costrutto non richiede il pronome: la forma corretta è più siamo. Il ne, si noti, è richiesto quando il verbo è alla terza plurale (più ne vengono), ma non quando è alla prima e alla seconda; mentre il soggetto della prima e della seconda, infatti, è sempre noto (perché coincide con il gruppo a cui appartiene l’emittente o con il gruppo a cui appartiene il ricevente), il soggetto di terza persona dipende dalla frase, quindi deve essere richiamato con il pronome, che ha la funzione di complemento partitivo. L’inserimento di ne alla prima e alla seconda plurale può essere, pertanto, interpretato come un’estensione del costrutto della terza persona. A margine sottolineo che con il verbo essere alla terza persona il ne deve essere preceduto da ce: più ce ne sono (non *più ne sono).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi seguenti sono corrette?
Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.
A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.
In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.
Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:
Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,
La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.
E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.
Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.
Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.
apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.
Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.
Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.
Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.
RISPOSTA:
Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.
“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.
In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Si fa presto a dire amore” potrebbe essere analizzata nel seguente modo?
Si fa presto = reggente impersonale
A dire amore = subordinata limitazione
RISPOSTA:
Sì, la subordinata è una limitativa implicita. Tenga poi conto, però, che per le implicite il confine tra diversi tipi di subordinata è molto sfumato (limitativa, causale, finale, consecutiva, tra le altre, spesso possono legittimamente essere confuse), in virtù della estrema polisemia dei connettivi (per, di, a ecc.) e dei modi verbali. Dunque, vale per le subordinate quanto detto spesso per i complementi: più che accanirsi sul tipo (semantico), è meglio comprendere la funzione sintattica della subordinata. In questo caso, non v’è alcun dubbio sulla natura avverbiale della subordinata.
Fabio Rossi
QUESITO:
“I capelli sono pettinati in ciocche sottili e sono tinti di nero”
I due predicati sono nominali o verbali? Sono entrambi due participi passati che possono essere usati anche come aggettivi o no?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambi participi, e come tali possono avere valore sia verbale sia nominale. Dunque in entrambe le proposizioni il predicato può essere analizzato sia come verbale, sia come nominale. Abbiamo già discusso nel dettaglio questa dicotomia nel quesito https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/, cui rimandiamo per un approfondimento della complessa questione.
Fabio Rossi
QUESITO:
- A) Gli ho assicurato/accertato che non era così.
(complemento di termine + completiva oggettiva diretta esplicita)
- B) Gli ho assicurato/accertato la buona riuscita del progetto.
(Complemento di termine + complemento oggetto)
- C) Li ho assicurati/accertati che non era così.
(complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- D) Li ho assicurati/accertati della mia innocenza.
(complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Sul web mi sono imbattuto su discussioni che riguardavano i due verbi in questione.
Ho letto di gente che dava come corrette solo le costruzioni con complemento di termine, ritenendo scorrette frasi come C e D, visto che si andava in contro ad un paradosso, cioè due complementi oggetti connessi fra loro, paradosso che, a pensarci bene, potrebbe riguardare anche un verbo come “informare”, visto che quest’ultimo ammetterebbe costruzioni come in C e D, col quale però certe costruzioni sono del tutto normalizzate e idiomatiche.
Io penso che le costruzioni di C e D siano corrette, solo poco comuni, anche perché queste ultime sono altrettanto corrette nella loro forma riflessiva:
- E) Mi assicuro/accerto che tutto vada secondo i piani.
(Complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- F) Mi assicuro/accerto della tua innocenza.
(Complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Detto questo, mi interessava sapere cosa ne pensasse un esperto in materia, un linguista, in modo che potessi avere le idee più chiare.
RISPOSTA:
Ha ragione lei: la presenza del complemento oggetto nella reggente non impedisce affatto la presenza di una completiva dipendente dal medesimo verbo che regge il complemento oggetto: “ho rassicurato i miei genitori che sarei tornato presto”. La subordinate completive, pur comportandosi similmente a un oggetto (o a un soggetto) non possono essere considerate del tutto equivalenti a un complemento oggetto, come dimostrano le completive indirette, le quali, se trasformate in sintagma, richiederebbero una preposizione anziché un complemento diretto: “li ho rassicurati che verrò” > “li ho rassicurati della (o sulla) mia venuta; “informo Luca che arriverai” > “informo Luca del tuo arrivo”.
Quello che non va, in alcune delle frasi da lei citate a esempio, è il complemento; infatti non tutti i verbi ammettono il complemento oggetto o il complemento di termine della persona nel modo da lei (o dalle sue fonti) espresso, e questo indipendentemente dal fatto che vi sia anche una completiva o no. In particolare: “accertare qualcuno” (e non “a qualcuno”); “assicurare qualcuno” (oppure “rassicurare qualcuno”), non “a qualcuno”. Assicurare e accertare, insomma, non possono reggere il complemento di termine della persona che si assicura/accerta, ma soltanto il complemento oggetto (nelle accezioni qui commentate). Inoltre, “accertare qualcuno” appartiene comunque a un registro elevato e raro (“di basso uso” lo definisce il Gradit di De Mauro) che sarebbe meglio evitare, tant’è vero che l’italiano comune usa accertare soltanto in riferimento a fatti, non a persone: “accertare la morte”, “una notizia” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Il Giappone è un paese in via di sviluppo in termini economici e sociali” può essere analizzata nel seguente modo:.
Il Giappone= soggetto
E’= predicato nominale
Un paese= nome del predicato
In via di sviluppo= complemento di luogo figurato
In termini economici= complem di limitazione.
Nelle frase “Abbiamo deciso di pensarci in termini di costi”, il complemento “in termini di costi” è complemento di limitazione?
RISPOSTA:
È: copula, che insieme al nome del predicato “un paese” costituisce il predicato nominale.
In via di sviluppo: complemento di qualità; ma, nell’insensatezza dell’analisi logica tradizionale, essendo una locuzione aggettivale (pur costituita da un sintagma preposizionale), può essere tranquillamente analizzata anche come attributo del nome del predicato. Quel che conta è comprendere che “in via di sviluppo” svolge qui il ruolo di circostante (cioè, più o meno, attributo) rispetto a “un paese”.
Sì per tutto il resto: sono entrambi complementi di limitazione (ovvero, più utilmente, svolgono il ruolo di espansioni frasali).
Quanto al senso della prima frase, è certamente errato definire il Giappone un paese in via di sviluppo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Frase “Egli ha il ruolo di un testimone che si limita a citare le parole della persona in questione, lasciando a lei la responsabilità di quanto dice”.
Quesiti:
- “Sì limita a citare” si può considerare un unico predicato verbale (Come se dicessi “cita soltanto…”)?
- “In questione” = complemento di argomento?
- “Lasciando” = introduce una subordinata modale, finale o consecutiva?
RISPOSTA:
- “Si limita a citare” non può essere considerato come un unico predicato, secondo la sintassi tradizionale, perché “si limita” non svolge né il ruolo di verbo modale, né il ruolo di verbo aspettuale o fraseologico. Pertanto “si limita” è il verbo della proposizione reggente, mentre “a citare” è il verbo della subordinata implicita infinitiva, che può essere analizzata sia come completiva sia come finale.
- La tradizionale tipologia dei complementi è del tutto inutile, in sintassi. Qui l’importante è capire che la locuzione aggettivale “in questione” svolge un ruolo analogo a quello di un aggettivo (come se fosse “la persona nota” o “già nominata”), ovvero di circostante frasale. In quanto tale, se proprio si vuol tornare all’inutile nomenclatura scolastica, potrebbe essere analizzato come complemento di qualità.
- La subordinata implicita gerundiva “Lasciando a lei la responsabilità”, stante la polifunzionalità del gerundio, può essere analizzata sia come modale (che è la scelta migliore), sia come consecutiva (è talmente asettico da lasciare a lei la responsabilità…), sia come finale (lo fa per lasciare a lei la responsabilità…).
Fabio Rossi
QUESITO:
In un recente intervento di una parlamentare ho sentito questa frase: “Non vorrei che nessuna donna che in questo momento VORREBBE abortire si sentisse attaccata da questo stato”. Si tratta di un intervento emotivamente concitato, però l’uso del condizionale non mi convince, per via della sfumatura ipotetica. Cosa ne pensate, è accettabile?
RISPOSTA:
Il condizionale nella relativa di questa frase non è accettabile, ma va sostituito con il congiuntivo imperfetto: la relativa, infatti, è fortemente attratta dal modello della proposizione ipotetica (che in questo momento volesse abortire = se in questo momento volesse abortire).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).
“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.
Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?
RISPOSTA:
A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascolto, fare il proprio ingresso, prendere una decisione, mettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.
RISPOSTA:
Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).
Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?
Secondo esempio:
(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).
A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?
Terzo esempio:
(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.
Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.
RISPOSTA:
La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che: , tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A) Se ci fosse un libro che mi intrattenesse, lo comprerei.
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe, lo comprerei.
C) Se ci fossero delle persone che mi aiutassero, sarei loro riconoscente a vita.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero, sarei loro riconoscente a vita.
Le frasi col congiuntivo (A e C) mi sembrano senza dubbio corrette.
Il mio dubbio riguarda le frasi B e D, cioè quelle al condizionale.
Secondo me, però, potrebbero avere una loro correttezza grammaticale, immaginando che quel condizionale abbia una protasi implicita:
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe (se lo leggessi), lo comprerei.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero (se mi trovassi in difficoltà), sarei loro riconoscente a vita.
RISPOSTA:
Le frasi B e D sono effettivamente scorrette: il condizionale, infatti, non si giustifica in nessun modo, mentre il congiuntivo delle frasi A e C è attratto dal congiuntivo delle proposizioni reggenti. Anche in presenza di protasi al congiuntivo imperfetto, le proposizioni relative, che sarebbero le apodosi di questi (arzigogolati) periodi ipotetici, sarebbero costruite comunque al congiuntivo. Possibile, invece, l’indicativo, che abbassa leggermente la formalità delle frasi: Se ci fosse un libro che mi intrattiene; Se ci fossero delle persone che mi aiutano.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?
RISPOSTA:
Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra le due seguenti affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
Fai il saggio e TRANNE vantaggio.
Fai il saggio e TRAINE vantaggio.
RISPOSTA:
La forma verbale corretta è traine, formata da trai seconda persona singolare dell’imperativo del verbo trarre, e ne, particella pronominale che in questo caso può essere parafrasata con ‘da questo comportamento’. La forma tranne (che coincide con la preposizione tranne ‘eccetto’) non fa parte della coniugazione di questo verbo; non bisogna, quindi, confondersi con gli imperativi di altri verbi correttamente formati con il raddoppiamento della n di ne: danne (da dare), fanne (da fare), dinne (da dire), vanne (da andare), stanne (da stare).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Mi servo di te”, di te a quale complemento appartiene?
RISPOSTA:
Nell’analisi logica è un complemento di specificazione; la funzione del sintagma, però, si coglie meglio con l’etichetta di oggetto obliquo, propria della grammatica valenziale. Dal momento che servirsi di si comporta come godere di, rimando a questa risposta per la spiegazione dell’etichetta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?
RISPOSTA:
L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesse, avrebbe voluto, voleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.
-
Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;
-
L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.
RISPOSTA:
Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se nello scritto è più corretta la forma con il congiuntivo o l’indicativo: “Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti” oppure “Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti”?
RISPOSTA:
Le due frasi sono ugualmente corrette, ma diverse. La prima è un periodo ipotetico del primo tipo, o della realtà, con l’indicativo sia nell’apodosi (la proposizione principale), sia nella protasi (la proposizione ipotetica); la seconda è un periodo ipotetico misto, con un’apodosi della realtà e una protasi del secondo tipo, o della possibilità. La scelta tra le due frasi dipenderà dal significato ricercato: con la prima l’ipotesi è rappresentata come fattuale, con la seconda la stessa ipotesi è rappresentata come possibile, eventuale, incerta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?
RISPOSTA:
Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?
RISPOSTA:
In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida
QUESITO:
Quale delle due frasi è corretta: “Sarà difficile che ti ricorderai di me” oppure “sarà difficile che ti ricordi di me”?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Un evento futuro espresso con una proposizione completiva dipendente da una reggente al futuro o al presente può essere descritto con il congiuntivo presente (qui ricordi) o con l’indicativo futuro (qui ricorderai). Il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più adatta al parlato e allo scritto medio-basso. Per un approfondimento della questione si veda questa risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.
RISPOSTA:
In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi chiedo come fare l’analisi logica di frasi come questa: “La lezione dovrà essere interessante”. Il verbo _essere_fa da copula anche se accompagnato dal servile? O va considerato predicato verbale? Ma in quest’ultimo caso, l’aggettivo finale cosa sarebbe? Predicativo del soggetto?
RISPOSTA:
In analisi logica il verbo viene considerato per la sua funzione di predicato, non per la sua forma: il sintagma dovrà essere, pertanto, viene analizzato tutto insieme, perché svolge una funzione unitaria. Tale funzione è quella di copula, cioè di collegamento tra il soggetto e un suo completamento, che qui è rappresentato dall’aggettivo interessante, definito nome del predicato o parte nominale. Il sintagma complesso dovrà essere interessante è, quindi, un predicato nominale.
Si noti, a margine, che la parte nominale del predicato nominale è di fatto un tipo di complemento predicativo del soggetto; ha, infatti, la stessa funzione del predicativo del soggetto retto da verbi copulativi. In “Luca è simpatico” e “Luca sembra simpatico”, cioè, simpatico ha la stessa funzione di completare il soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.
RISPOSTA:
Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Espressioni come ne consegue e ne deriva , o anche se ne desume, reggono il congiuntivo? Oppure l’Indicativo? O entrambi? In genere, quando scrivo preferisco, a livello di suono, il congiuntivo, non credo però ci sia una forma necessaria. Quale potrebbe essere più corretta?
RISPOSTA:
Queste espressioni impersonali reggono una proposizione soggettiva, che può essere costruita con l’indicativo o il congiuntivo. Il modo scelto non modifica il significato della frase, ma influisce sul registro: il congiuntivo è più formale e più adatto allo scritto medio-alto; l’indicativo è meno formale, quindi più adatto al parlato e allo scritto trascurato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le due frasi sono corrette?
1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.
2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.
RISPOSTA:
Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida
QUESITO:
Quali fra queste due frasi è corretta?
Si sono create circostanze ed eventi che hanno portato…
Si sono creati circostanze ed eventi che hanno portato…
La mia intenzione è che il verbo creare comprenda sia circostanze che eventi.
RISPOSTA:
Quando due o più nomi sono sono di genere diverso, la norma prevede che l’accordo del participio (lo stesso vale per l’aggettivo) sia plurale maschile, quindi si sono creati circostanze ed eventi. In un caso come questo, però, in cui il primo nome è femminile, l’accordo risulta poco gradevole; tuttavia, questo problema può essere risolto ripetendo il participio: si sono creati le circostanze e si sono creati gli eventi; oppure, più economicamente, invertendo l’ordine dei nomi: si sono creati gli eventi e le circostanze.
Raphael Merida
QUESITO:
Non mi è chiaro perché, in una precedente risposta del 2020, nella frase sembrano guidare l’infinito corrisponde ad una soggettiva. Vi chiedo altresì indicazione di una grammatica che possa fugare dubbi del genere.
RISPOSTA:
La proposizione retta da sembrare non può che essere di tipo completivo, perché il verbo sembrare, come gli altri verbi copulativi, collega il soggetto con un suo completamento o sintagmatico (“I cavalli sembrano stanchi“) o, per l’appunto, proposizionale (“I cavalli sembrano essere stanchi“). Nel primo caso il sintagma che completa il predicato (detto nominale) è un complemento predicativo del soggetto, nel secondo caso la proposizione è una soggettiva.
Una grammatica che tratta casi di questo tipo è la Grande grammatica italiana di consultazione, in tre volumi, a cura di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti, Bologna, il Mulino (ultima edizione 2001).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.
RISPOSTA:
No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.
RISPOSTA:
Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano
Quale delle seguenti è una forma passiva del verbo andare?
a) Io vado
b) Io sono andato
c) Andando
d) Nessuna delle precedenti; il verbo andare non ha la forma passiva
La risposta corretta è d. Il verbo andare non ha la diatesi passiva, come tutti i verbi intransitivi; non è possibile, infatti, rappresentare il processo dell’andare come subito da qualcuno o qualcosa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere la differenza che c’è tra i due tempi verbali delle due frasi che seguono:
1. Ora Luca mangia un gelato;
2. Ora Luca sta scrivendo al computer.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi descrivono un evento che avviene mentre l’emittente sta parlando o scrivendo, quindi Luca mangia un gelato mentre io sto parlando, o Luca sta scrivendo al computer mentre io mangio. A differenza della prima frase all’indicativo presente (mangia), la seconda è costruita con la perifrasi progressiva stare + gerundio (sta scrivendo), che indica un processo in corso di svolgimento la cui durata si protrae oltre il momento in cui l’emittente si focalizza.
Raphael Merida
QUESITO:
“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?
RISPOSTA:
La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla corretta analisi del participio passato nella seguente frase: “Luigi è stato colpito da una tegola MOSSA dal vento”. il participio mossa lo considero come un predicato verbale che introduce un’altra proposizione di cui dal vento è una causa efficiente?
In altre parole, può un modo indefinito introdurre un predicato verbale? Ho consultato un paio di grammatiche ma ho sempre trovato esempi con modi finiti.
RISPOSTA:
Il participio passato e, in generale, una qualsiasi forma indefinita del verbo possono essere analizzati come predicato verbale (sebbene il participio possa fungere anche da sintagma nominale e aggettivale e l’infinito da sintagma nominale). Nel caso specifico, mossa equivale a che era (stata) mossa, quindi è il predicato verbale di una proposizione relativa implicita, completata dal complemento di causa efficiente dal vento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Parlerò soltanto con chi conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
“Non parlerò con chi non conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
Con chi parlerò?
RISPOSTA:
La relativa introdotta da chi ha un valore consecutivo (chi (non) conosca = ‘le persone tali da (non) conoscere’), che giustifica l’uso del congiuntivo. Il tempo del congiuntivo nella relativa è deittico, cioè allineato con il tempo extralinguistico: se il conoscere è presente o futuro (quindi comunque presente ai fini della scelta del tempo del congiuntivo) si dovrà usare il presente; se, invece, il conoscere è passato (“parlerò ora o domani con chi conoscesse ieri i principi essenziali”), si userà l’imperfetto. L’imperfetto, per la verità, potrebbe essere usato anche per il presente, perché chi (non) conoscesse può essere interpretato come se qualcuno (non) conoscesse; si tratterebbe, però, di un uso ambiguo e, in più, la sfumatura ulteriore di eventualità aggiunta dall’imperfetto sarebbe superflua. In questa risposta può trovare la spiegazione di un caso analogo al suo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?
RISPOSTA:
L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice «ha constatato che il sig. X fosse presente» o «ha constatato che il sig. X era presente»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: quella al congiuntivo è più formale, ma quella all’indicativo è più comune. Nelle subordinate completive l’indicativo e il congiuntivo sono intercambiabili, sebbene con gradi di accettabilità differenti a seconda del verbo reggente e anche del fatto che vi sia o no la negazione, oltre che in base al grado di formalità. Con la negazione, per esempio, il congiuntivo è sempre preferibile: «Non ha constatato se X fosse presente». Con la negazione, tra l’altro, la completiva non è un’oggettiva, bensì una interrogativa indiretta, introdotta da se. Nelle frasi affermative, vi sono verbi che ammettono, e quasi prediligono, l’indicativo, quali constatare, appurare, dire, vedere, sentire (una frase come «sento che Luca sia affannato», ancorché non erronea, è al limite dell’inaccettabile, in un italiano comune); e verbi che invece preferiscono il congiuntivo (la maggior parte: volere, temere, credere, pensare, ritenere, dubitare, sognare…). In linea di massima, i verbi che esprimono una percezione diretta della realtà prediligono l’indicativo (tranne che con la negazione), mentre i verbi che esprimono un’ipotesi, un timore, una volontà e simili prediligono il congiuntivo. Oltre che dal grado di formalità, la presenza dell’indicativo o del congiuntivo nelle subordinate, dunque, non dipendono tanto dal grado di certezza (come erroneamente spesso si dice), quanto dalla percezione più o meno diretta. Se dipendesse dalla certezza, allora frasi come le seguenti sarebbero impossibili: «credo fermamente che Dio esista»; «ho sognato che volevi uccidermi», mentre invece sarebbero poco naturali «credo fermamente che Dio esiste» e «ho sognato che volessi uccidermi». Questo perché sognare si riferisce comunque al frutto di una percezione diretta, mentre il verbo credere (così come avere fede), pur non mettendo in dubbio il frutto di quanto viene creduto, lo esprime comunque con un verbo che indica una elaborazione del pensiero (come pensare).
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di un chiarimento in seguito ad un diverbio per l’uso del verbo avere dopo la preposizione se.
Durante una conversazione riguardante una persona che dovrebbe unirsi a me e ad altre persone per un viaggio (persona con un atteggiamento poco incline al girare a piedi una città) è stata detta la seguente frase «certo, se avrebbe anche a Londra questa visione di visitare la città meglio che non venga», volevo sapere se «avrebbe» usato in questa maniera diciamo ipotetica può essere giusta o se si sarebbe dovuto usare «se avesse».
RISPOSTA:
La congiunzione (e non preposizione) se, in questo caso, introduce la protasi di un periodo ipotetico e dunque non può mai reggere un condizionale, ma soltanto un congiuntivo, oppure un indicativo: «se avesse… sarebbe meglio», «se ha… è meglio». Le ragioni dell’errore sono facilmente intuibili: il/la parlante coglie la dubitatività dell’evento e la esprime dunque la condizionale: «potrebbe avere anche a Londra questa visione… allora è meglio che non venga». Tuttavia, come ripeto, dato che il periodo è ipotetico, dopo se è ammissibile soltanto o l’indicativo o il congiuntivo, mai il condizionale. Peraltro, se si vuole rendere a pieno la modalità della protasi, in questo contesto, a metà tra il volitivo e l’epistemico, la soluzione migliore sarebbe la seguente: «Certo, se deve avere anche a Londra questa visione di visitare la città, è meglio che non venga per niente».
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel linguaggio, spesso frettoloso e trascurato, della messaggistica, ho ravvisato esempi del genere:
1) Visto due film, stasera: spettacolari.
2) Fatto. Comprato pane e marmellate.
Si tratta evidentemente di due casi in cui si è scelto di omettere l’ausiliare coniugato.
(Ho) visto due film. (Ho) comprato pane e marmellate.
Innanzitutto, vi domando se le costruzioni così presentate sono corrette.
Se si volesse unire l’economicità della comunicazione, che sembra essere fondamentale in questo contesto, con il rispetto della sintassi, si potrebbe optare, secondo voi, per il compromesso di flettere il participio passato secondo il genere e il numero?
Dal punto di vista della brevità (e dell’immediatezza) non ci sarebbero differenze.
3) Visti due film, stasera: spettacolari.
4) Fatto. Comprati pane e marmellate.
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni (visto/visti, fatto/fatti) sono corrette, ma non v’è dubbio sulla maggiore formalità della seconda, che dunque è da preferire. Infatti, mentre nel primo caso («visto due film», «comprato pane e marmellate») l’unico modo per giustificare la presenza del participio passato è quello di ricorrere all’ellissi dell’ausiliare, col risultato di ottenere una frase telegrafica e, in quanto tale, traballante, assolutamente da evitare nello stile anche di media formalità, nel secondo caso, invece, il participio passato al plurale, e cioè accordato col soggetto di una frase passiva («sono stati visti due film», «sono stati comprati pane e marmellate»), è perfettamente standard e adatto a qualunque contesto, interpretabile come costrutto implicito, senza bisogno di invocare l’ellissi dell’ausiliare. Tant’è vero che le stesse proposizioni potrebbero trovarsi come subordinate implicite: «visti due film, sono poi andato a letto»; «comprati pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione». La stessa possibilità è negata al participio singolare maschile, che in questo caso sarebbe agrammaticale: *«visto due film, sono poi andato a letto»; *«comprato pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione»
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel seguente esempio la proposizione che inizia con dovreste esprime una possibilità, giusto?
Non mi pare che dovreste avere troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note (M. Morazzoni).
È possibile formulare la proposizione senza dovere (“Non mi pare che avreste troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note”)?
Un altro esempio: “Penso che Mario potrebbe uscire stasera” (possibilità); se cambio la frase con “Penso che Mario uscirebbe stasera” dovrei esplicitare una condizione, ad esempio se avesse tempo?
Nella frase “Io penso che dovremmo tenerla unita, questa fortuna, tenere insieme i figli, e le donne e noi stessi, tutti insieme” (U. Riccarelli), mi sembra che dovremmo esprima in modo cordiale un consiglio invece che una possibilità. Per questo tipo di completiva penso che sia necessario usare dovere, potere, o volere e non sarebbe possibile scrivere la proposizione senza un verbo servile; giusto?
RISPOSTA:
I verbi servili aggiungono sempre una sfumatura di significato al verbo che reggono. Nella prima frase, dovreste rappresenta il non avere difficoltà come ipotizzato dall’emittente, quindi che il parlante è incerto se quello che sta dicendo si avvererà. Il condizionale, in questo caso, non è legato a una premessa, ma esprime il dubbio dell’emittente (come se nella frase fosse sottinteso se avessi ragione, se la mia idea fosse corretta o simili). Se eliminiamo il verbo servile, viene meno la sfumatura ipotetica; avreste indicherebbe che il non avere difficoltà è la conseguenza di una premessa. Tale premessa dovrebbe essere esplicitata, altrimenti la frase rimane in sospeso. Lo stesso vale per la seconda frase: come da lei proposto, il servile potere rappresenta l’uscire come potenziale; senza il servile, uscirebbe diviene la conseguenza di una premessa che deve essere esplicitata.
Nella terza frase, dovremmo esprime ancora un’ipotesi dell’emittente; visto il significato della frase, però, in questo caso l’ipotesi è interpretata automaticamente come un auspicio, quindi anche come un invito all’interlocutore a realizzare il contenuto della frase. Anche qui senza il verbo servile il tenerla unita e le altre azioni diventerebbero conseguenze di premesse che devono essere esplicitate. Ovviamente, se sostituiamo dovere con un altro verbo servile il significato della frase cambia: con potere l’invito si trasforma in una possibilità, con volere in un desiderio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mario è nato al rombo del cannone” o “Mario era nato al rombo del cannone”? A mio parere la prima espressione è corretta a patto che Mario sia ancora in vita, la seconda invece è da preferirsi qualora Mario sia ormai defunto. Vorrei sapere se questa mia opinione è corretta.
RISPOSTA:
La sua interpretazione, ancorché non del tutto priva di qualche intuizione, è troppo rigida e quindi, sì, infondata nella sua assolutezza. Sebbene il passato prossimo indichi di norma una conseguenza o una ricaduta (talora in verità più teorica, o “pragmatica”, che reale) dell’azione al passato sul tempo presente, e il remoto tenda a escludere, invece, tale ricaduta, i due tempi sono ampiamente intercambiabili in italiano (tranne che per verbi dal significato decisamente durativo, non puntuale, quali capire e sentire in espressioni quali hai capito, hai sentito e simili, decisamente substandard, o regionali, se al passato remoto in certi contesti: *capisti, *sentisti e simili), con una maggiore formalità per il passato remoto. Quindi, anche per una persona defunta, posso ben dire, per esempio: «Giacomo Leopardi è nato a Recanati» (e non necessariamente «nacque»). Quanto al trapassato prossimo, esso implica di norma il rapporto di anteriorità rispetto ad altro evento sempre al passato. Nel suo esempio, peraltro sempre corretto, dunque, «era nato» non ha nulla a che vedere col fatto che Mario sia morto o vivo e vegeto, bensì con l’eventuale prosecuzione del discorso, al passato, con altre azioni o eventi legati a Mario: «era nato al rombo del cannone mentre era in corso la seconda guerra mondiale».
Fabio Rossi
QUESITO:
1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
RISPOSTA:
La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida
QUESITO:
Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».
La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.
La costruzione è corretta?
RISPOSTA:
No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.
Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedere un parere su questa frase: “Io da piccolo ero geloso di mio cugino, ma con il passare degli anni noi abbiamo creato un legame che oggi è saldo. Nel 2021 lui aveva subito un incidente e sua moglie non mi aveva avvisato, lo avevo saputo solo quando i vicini mi informarono. Andai subito a trovarlo.”
Non si dovrebbe usare solo il passato remoto (subì, avvisò, seppi)?
RISPOSTA:
No, perché il trapassato prossimo serve a indicare un evento passato rispetto a un altro, anch’esso passato. In questo caso l’evento dell’incidente è trapassato perché è precedente all’altro evento, quello dell’informare.
Raphael Merida
QUESITO:
È possibile dire «Vorrei che faccia» invece che «Vorrei che tu facessi»? È corretto pensare che il congiuntivo presente dia al mio desiderio una sfumatura di maggiore cogenza, un senso imperioso? Normalmente, da quello che trovo anche nelle grammatiche, si usa il congiuntivo imperfetto nella subordinata, poiché l’evento è dato come realizzabile solo se si attua il mio desiderio. Ma nel caso in cui io parlante intenda il mio vorrei come ‘obbligo’, e usi il condizionale solo in quanto formula di cortesia, è accettato il congiuntivo presente? In sintesi: è un vero e proprio errore usare il congiuntivo presente nella frase citata in apertura, o si tratta di una forma poco usuale, ma in alcuni casi prevista e possibile? Si tratta di un problema di grammatica o di semantica?
RISPOSTA:
Come spesso accade, di errori veri e propri nella lingua ve ne sono pochi; il più delle volte si tratta di varietà, improprietà, sfumature. In questo caso, se non errato, l’uso del presente congiuntivo in associazione col condizionale presente, possibile in astratto, è improprio e decisamente minoritario (nelle persone colte), sia per ragioni semantiche, sia per ragioni grammaticali, o per meglio dire di analogia con altri costrutti che associano congiuntivo a condizionale. Dal punto di vista semantico, come giustamente ricorda lei, la spiegazione che si dà al condizionale è che il parlante/scrivente «mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63). Può trovare approfondimenti al riguardo in numerose altre domande di DICO, riassunte qui. Quel che più conta, però, è l’uso dei parlanti e degli scriventi, più che le loro eventuali intenzioni recondite. Nell’uso comune, quando compare il condizionale presente nella reggente, scatta quasi sempre l’uso combinato del congiuntivo imperfetto. Perché? Evidentemente per via del costrutto che più d’ogni altro (come frequenza d’uso) combina i due modi e tempi, vale a dire il periodo ipotetico del secondo tipo (il più frequente dei periodi ipotetici): «verrei se potessi» (e non «se possa»!). Per questa ragione, i parlanti e gli scriventi colti (e conseguentemente le grammatiche) associano all’uso combinato di condizionale presente più congiuntivo presente un valore di estrema trascuratezza, prossimo all’errore. La giustificazione che lei dà dell’opzione del congiuntivo presente è ineccepibile, ma logicistica: le lingue non funzionano con astratte logiche a posteriori, bensì in base a consuetudini consolidate.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “L’idea che era scomparso o che fosse scomparso mi rendeva triste”?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette: si tratta soltanto di una differenza diafasica, cioè l’indicativo è meno formale, il congiuntivo più formale.
Può approfondire l’argomento, molto presente nel nostro Archivio, digitando nel campo di ricerca “indicativo congiuntivo”.
Raphael Merida
QUESITO:
Tra i vari usi del condizionale troviamo anche quello, tipico del linguaggio giornalistico, di illustrare un fatto ipotetico, di cui non si ha pertanto elementi che possano attestare il suo essersi verificato.
Ho però notato che talvolta si tende a costruire interi periodi con questo modo verbale, trasformando tutte le azioni descritte come dubbie, anche quelle che, al contrario, sono oggettive.
Mi spiego con un esempio.
“Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005 quando avrebbe ricoperto il ruolo di assessore.”
Se non è sicuro che Tizio abbia affermato qualcosa in quel periodo di tempo (di qui l’impiego inappuntabile del condizionale), è certo che Tizio abbia (o ha) ricoperto, in quegli anni, il ruolo di assessore.
La subordinata temporale non avrebbe dovuto essere costruita con l’indicativo?
RISPOSTA:
Ha ragione. I giornalisti abusano del condizionale di distanziamento al punto da estenderlo spesso arbitrariamente anche a contesti nei quali andrebbe usato l’indicativo, dal momento che non v’è alcun dubbio sulla veridicità o oggettività dell’evento riportato.
L’esempio da lei riportato andrebbe corretto come segue (con l’imperfetto, però, data la continuità nel passato): «Tizio avrebbe affermato tutto ciò tra il 2002 e il 2005, quando ricopriva il ruolo di assessore».
Più che di eccesso di scrupolo e ci cautela, ovvero la volontà di non sbilanciarsi nel dare per veritiere notizie ancora non provate, direi che agisca qui la forza dell’abitudine e della stereotipia: il condizionale viene associato (dalle penne meno esperte) così stabilmente allo stile giornalistico da divenirne un contrassegno (quasi ipercorrettistico) anche praeter necessitatem.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se la costruzione implicita «Spero di incontrarci» possa essere giudicata, in astratto, corretta, o almeno accettabile, quale alternativa alla certamente più comune «spero che possiamo incontrarci». Considerando che i soggetti di principale e subordinata coincidono, non dovrebbe essere, a rigore, una soluzione valida?
RISPOSTA:
La costruzione implicita non è corretta perché non vi è identità di soggetto tra reggente e completiva: il soggetto della reggente, infatti, è io, mentre quello della completiva è noi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto il contributo sulla vostra pagina sull’argomento «a condizione che» (qui) e mi sarei interessato perché non avete consigliato il congiuntivo trapassato nella terza frase: «casomai avesse studiato molto avrebbe superato l‘esame». Secondo me si tratta del 3. grado ipotetico.
RISPOSTA:
Se si vuole esprimere l’irrealtà, va usato certamente il periodo ipotetico del terzo tipo; si dà cioè per scontato (si presuppone) che non ha studiato molto: «Se avesse studiato molto avrebbe superato l’esame». Va precisato, però, che questo periodo ipotetico funziona perfettamente con se (che è la congiunzione ipotetica, o condizionale, per antonomasia), ma funziona meno bene con gli altri connettivi (dunque non del tutto sinonimici) quali a patto che, a condizione che, purché, caso mai (o casomai), i quali si conciliano meglio con il periodo ipotetico dei primi due tipi. Purché, per esempio, si adatta soprattutto a contesti al congiuntivo presente: «leggi i fumetti, purché tu legga»; casomai (quando è usato come congiunzione e non come avverbio) si usa quasi esclusivamente all’imperfetto congiuntivo: «casomai passassi da Messina, fammi uno squillo». Non a caso, se consulta la banca dati repubblica.it, scopre che la grande maggioranza dei casomai ha valore avverbiale («Più controlli (casomai armati) o più educazione»); nei rari casi di casomai congiunzione ipotetica, essa è costruita praticamente sempre soltanto con il congiuntivo imperfetto («Accetto suggerimenti, casomai mi ricapitasse»).
Fabio Rossi
QUESITO:
«Iniziò tutto un anno fa: ero solo e lei venne a parlarmi. Quest’inverno lei mi è stata vicina».
Non sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo visto che questo legame continua?
RISPOSTA:
L’esempio è ben scritto sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Con il passato remoto il livello stilistico si innalza: non a caso, il passato remoto è il tempo tipico dei testi narrativi letterari (racconti, romanzi ecc.). È senza dubbio vero che il passato prossimo, a differenza del remoto, serve a indicare una conseguenza dell’azione nel presente, tant’è vero che sarebbe quasi inaccettabile una frase come «Quest’inverno lei mi fu vicina», poiché ci si aspetta una conseguenza di quella vicinanza (per esempio lo sbocciare di una storia d’amore, il consolidarsi di un’amicizia e simili), ancor più evidente per via del deittico questo. Diverso sarebbe «Lo scorso inverno mi fu vicina»: da una frase del genere non mi aspetto le conseguenze dell’evento. È vero altresì che non è bene passare dal passato remoto al passato prossimo (o viceversa), senza un’effettiva necessità. Tuttavia, l’attacco del periodo («Iniziò tutto un anno fa») e anche il suo seguito immediato («venne a parlarmi») sembrano qui indicare un evento preso nel suo isolamento, anche indipendentemente da quel che segue. Nella frase successiva è come se il discorso riprendesse da capo. Se si vuole ottenere una maggiore contiguità tra gli eventi si può volgere tutto al passato e al trapassato prossimo: «È iniziato (o Era iniziato)… è venuta (o era venuta)». Devo dire però che il passato remoto ben si presta, come già detto, allo stile letterario e a quel distacco temporale tipico dell’incipit dei romanzi e dei racconti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “È meglio ridere che piangere” il soggetto è ridere, è meglio è predicato nominale e che piangere è proposizione comparativa?
RISPOSTA:
Nella frase, o consideriamo entrambi gli infiniti sostantivati, quindi ridere è soggetto e che piangere è complemento comparativo (o secondo termine di paragone), oppure consideriamo entrambi verbi, quindi ridere è una proposizione soggettiva e che piangere è una proposizione comparativa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla seguente frase: “Non vorrei che dopo siamo in troppi”. È preferibile usare il congiuntivo imperfetto, ma la frase è comunque corretta, oppure è sbagliata?
RISPOSTA:
In questa frase agiscono due ragioni contrarie: da una parte ci si aspetta “Non vorrei che dopo fossimo in troppi”, perché i verbi di desiderio al condizionale presente richiedono il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva (per un approfondimento su questa norma si veda qui); dall’altra l’avverbio dopo sottolinea la posteriorità dell’essere rispetto al volere, e questo rinforza la legittimità del congiuntivo presente con funzione di proiezione nel futuro. Da queste premesse si può ricavare, come soluzione ragionevole, che l’imperfetto è comunque la soluzione oggi considerata preferibile, ma il presente è giustificabile (anche se sarebbe visto con sospetto da molti parlanti, quindi dovrebbe essere riservato a contesti informali).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?
RISPOSTA:
Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anche, soltanto, neanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasi, sempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?
RISPOSTA:
Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?
RISPOSTA:
No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?
RISPOSTA:
I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?
RISPOSTA:
In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi di, servirsi di, contare su, obbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Mario, il cancello della scuola, l’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcuno, obbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.
RISPOSTA:
Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.
Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:
1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;
2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.
Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.
Ora si osservino queste due frasi:
3. Dieci persone sono venute alla festa;
4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.
In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.
Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.
Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:
5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!
6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!
Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.
7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.
8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.
Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato far seguire il congiuntivo presente all’espressione come se, oppure è obbligatorio l’imperfetto?
“Ne parli come se sia colpa mia!”
“Apri le finestre come se faccia caldo”.
È possibile omettere se fosse senza alterare il significato della frase dal punto di vista temporale?
“Carlo cammina come se fosse un ubriaco che non riuscisse a reggersi in piedi”.
“Carlo cammina come un ubriaco che non riuscisse / riesca a reggersi in piedi”.
La seconda alternativa conserva la stessa sfumatura ipotetica oppure colloca l’azione nel passato?
RISPOSTA:
La proposizione comparativa ipotetica, introdotta da come se, presenta un evento ipotetico che somiglia a quello descritto nella reggente e che potrebbe, pertanto, spiegarlo. L’ipoteticità dell’evento presentato richiede una costruzione che ricalca quella della proposizione ipotetica, ovvero il congiuntivo imperfetto per la possibilità, il congiuntivo trapassato per l’irrealtà. L’irrealtà, si noti, corrisponde in questa proposizione all’atteggiamento di incertezza dell’emittente riguardo alla somiglianza tra gli eventi); ad esempio: “Rispose come se avesse paura” (l’avere paura è presentato come potenzialmente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, spiegarlo), “Rispose come se avesse avuto paura” (l’avere paura è presentato come incertamente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, essere preso in considerazione tra le spiegazioni possibili).
Per quanto riguarda le due frasi confrontate, la prima presenta una comparazione ipotetica, la seconda presenta una comparazione oggettiva; con la prima, pertanto, l’emittente è più cauto nell’accostare il modo di camminare di Carlo a quello di un ubriaco. In ogni caso, la rappresentazione della comparazione non condiziona la costruzione della proposizione relativa (che non riesca / riuscisse). Questa proposizione può essere costruita nella prima e nella seconda frase tanto con il presente quanto con l’imperfetto; nel primo caso il riuscire è semplicemente rappresentato come presente, nel secondo si aggiunge una sfumatura ipotetica, conferita dalla sovrapposizione tra che non riuscisse e se non riuscisse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.
L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.
RISPOSTA:
Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.
RISPOSTA:
La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?
RISPOSTA:
La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.
RISPOSTA:
Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
In una comunicazione e scritta e meglio usare il presente o il futuro per riferirsi al futuro? Ad es. “I genitori possono/potranno partecipare all’iniziativa organizzata per domani, recandosi… Se per esigenze particolari non si riesce/non si dovesse riuscire a rispettare l’orario indicato, si può/potrà avvisare telefonicamente….”.
Chiedo anche se la punteggiatura va bene.
RISPOSTA:
Per descrivere un evento futuro si può ovviamente usare l’indicativo futuro; si può, però, usare anche il presente, specie in contesti informali e, nel parlato, anche mediamente formali. Il presente al posto del futuro è accettabile soprattutto nei casi in cui la nozione di futuro è affidata ad elementi esterni al verbo, per esempio espressioni di tempo (come domani nella prima parte della sua frase). Nella proposizione ipotetica della stessa frase, l’alternativa dovrebbe essere tra si riesce e si riuscirà (si dovesse riuscire è ovviamente possibile, ma non è né presente né futuro, quindi non c’entra con la domanda). Anche in questo caso, come anche nella proposizione reggente che segue l’ipotetica, la scelta del presente è possibile ma abbassa il registro.
In quanto alla punteggiatura, l’unico suggerimento che si può fare è di eliminare la virgola prima della proposizione al gerundio (domani, recandosi); tale proposizione, infatti, dovrebbe essere interpretata come strettamente connessa alla reggente, visto che presenta lo strumento con cui può realizzarsi l’evento in essa descritto (partecipare all’iniziativa).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali frasi sono corrette?
1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi
Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone
RISPOSTA:
Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida
QUESITO:
In questa risposta si dice che “le completive subordinate di secondo grado preferiscono il congiuntivo“ e viene riportato, al riguardo, il seguente esempio:
“Non sapevo che tu sapessi che io sapessi“.
Qui abbiamo una proposizione principale negativa che giustifica, secondo me, la subordinata di primo grado al congiuntivo e, sempre secondo me, in qualche modo condiziona tutto il periodo. Se avessimo però una principale affermativa, l’indicazione di massima sarebbe comunque valida (vedi soluzioni 1b e 1c), oppure l’indicativo sarebbe la soluzione più felice (1a)?
1a) Sapevo che tu sapevi che io sapevo.
1b) Sapevo che tu sapevi che io sapessi.
1c) Sapevo che tu sapessi che io sapessi.
RISPOSTA:
È vero che il congiuntivo nella completiva è preferibile quando la reggente è negativa (o ha un verbo impersonale). Anche con la principale affermativa e la subordinata di primo grado all’indicativo, comunque, la subordinata di secondo grado tende a preferire il congiuntivo. Nel caso specifico del verbo sapere affermativo, l’indicativo nella subordinata di primo grado è una scelta un po’ forzata (ma lo è meno se il verbo della principale è all’imperfetto); in quella di secondo grado è, invece, del tutto accettabile (come nella sua variante 1b).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho notato che, in presenza di come e quanto, per ragioni a me ignote, il congiuntivo prevale sull’indicativo, che tuttavia non dovrebbe essere scorretto:
1) Ho visto quanto tu la amassi / amavi.
2) Mi aggiornò su come volesse / voleva intervenire.
RISPOSTA:
Nelle frasi da lei proposte le subordinate sono interrogative indirette, che sono il tipo di completiva più naturalmente costruito con il congiuntivo. Come può anche sostituire che in proposizioni soggettive e oggettive, come nella frase “So / È noto come tu ritenga la cosa sbagliata” (= “… che tu ritieni la cosa sbagliata”). Nelle proposizioni così costruite è decisamente preferibile il congiuntivo, probabilmente perché esse vengono associate alle interrogative indirette.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali delle seguenti costruzioni sarebbero da evitare perché troppo, o troppo poco, formali?
1) Lascio intendere che si vuole / voglia.
2) Con quelle parole gli fece capire che cosa stava / stesse succedendo.
3) Ho compreso perché tu lo hai / abbia fatto.
4) Constatò fino a che punto riuscivano / riuscissero a mentire i suoi colleghi.
5) Gli spiegò chi era / fosse.
6) Ero a conoscenza di che cosa voleva / volesse.
7) Prendo atto che la mia scelta ha / abbia generato critiche.
8) Secondo te non mi sono accorto che lei è / sia bella?
9) Mi fece sapere che cosa era / fosse accaduto.
10) Mi basta capire che lei è / sia una brava dottoressa.
11) È questo il motivo per cui l’uomo lo aveva / avesse aggredito.
12) Ho specificato che cosa aveva / avesse detto.
13) Vorrebbe davvero affermare che sua moglie è / sia stata insultata?
14) Gradirei che mi confermaste che tutto è / sia a posto.
15) La tua affermazione mi fa capire che cosa è / sia accaduto.
16) Capivo dove voleva / volesse andare a parare.
17) Avete constatato che ogni oggetto era / fosse al proprio posto?
18) Rivelò a chi era / fosse rivolto il prodotto.
RISPOSTA:
Gli esempi da lei proposti sono ugualmente ben costruiti nelle due varianti (tranne il numero 11), con la precisazione che il congiuntivo è più formale dell’indicativo, quindi la scelta tra l’una e l’altra variante va fatta in base allo stile personale e al contesto comunicativo. Va, comunque, precisato che la proposizione interrogativa indiretta è, tra le completive, quella costruita più naturalmente con il congiuntivo. Nell’esempio 11 la proposizione subordinata non è una completiva, ma una relativa; questa proposizione si costruisce di norma con l’indicativo, ma può prendere il congiuntivo per assumere una sfumatura consecutivo-finale (che qui sarebbe fuori luogo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Pensavo che avesse detto qualcosa in più, che io non AVESSI afferrato”.
È corretto/accettabile l’uso del congiuntivo nella relativa qui proposta o sarebbe stato più corretto usare l’indicativo?
Credo che il congiuntivo dia una sfumatura di eventualità o si tratta di un ipercorrettismo o attrazione modale?
RISPOSTA:
La proposizione relativa si costruisce normalmente con l’indicativo. In questa proposizione il congiuntivo può essere utile a esprimere una sfumatura consecutivo-finale (“Cerco una persona che mi capisca”); quando, inoltre, essa è subordinata a un’altra proposizione al congiuntivo, può prendere il congiuntivo per quella che possiamo definire attrazione modale. Che il congiuntivo nel suo caso non sia richiesto per ragioni semantiche è dimostrato dal fatto che, sostituendolo con l’indicativo (che io non avevo afferrato), il risultato non solo è pienamente accettabile, ma mantiene lo stesso significato. Perdipiù, il congiuntivo è persino forzato nella relativa esplicativa (quale è quella della sua frase), che aggiunge informazioni accesorie all’antecedente (qualcosa); risulterebbe del tutto naturale, invece, nella relativa limitativa, che serve a identificare l’antecedente: “Pensavo che avesse detto qualcosa in più che io non AVESSI afferrato”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.
RISPOSTA:
La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (tacere, giacere, (s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo taccio, tacciamo, tacciono, taccia, tacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacete, tacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (creduto, cresciuto, voluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamo, giaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere quale sarebbe il verbo corretto da usare in questa frase:
“Il ricordo del tuo luminoso sorriso e del tuo buon cuore sarà/saranno per sempre la nostra forza”.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è il ricordo, quindi il verbo va concordato alla terza persona singolare: sarà. Il verbo sarebbe al plurale se il soggetto fosse il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore, per esempio se la frase fosse costruita così: “Il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore saranno per sempre la nostra forza”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non riesco a capire bene quale ausiliare usare con il verbo volare se non si è in presenza di un moto a luogo e da luogo. Come posso comportarmi in queste frasi?
1. Questo è l´aereo su cui ho volato/sono volato.
2. Ho volato in Italia (qui inteso come stato in luogo).
3. Cosa ha volato/è volato in cielo?
4. Sono volato/ho volato (con il deltaplano).
5. L’uccellino ha volato/è volato (ma non via).
6. I partecipanti sono volati/hanno volato sulla pista (inteso come stato in luogo).
Quanto al verbo vincere, esso regge la preposizione contro?
RISPOSTA:
Il verbo volare può essere costruito con entrambi gli ausiliari quando si riferisce a persone (che possono volare grazie all’uso di mezzi di trasporto aerei o in significati figurati), di animali dotati di ali e di veicoli deputati al volo. In questi casi avere è il più utilizzato, mentre è preferibile utilizzare essere quando il verbo è accompagnato da complementi di moto da luogo o a luogo, in quasi tutti i significati figurati e per le azioni in corso di svolgimento. Di conseguenza, negli esempi 1, 2, 4 e 5 sarebbe preferibile selezionare l’ausiliare avere. Al contrario, richiedono l’ausiliare essere l’esempio 3, in quanto qui il soggetto potrebbe essere un oggetto che si libra in volo sospinto dal vento o altre forze, e l’esempio 6, perché qui volare è usato con il significato figurato di ‘muoversi velocemente’ (lo stesso che si userebbe in frasi come “Sono volato, ma sono arrivato comunque tardi”).
Nell’esempio 5 la scelta dell’ausiliare influisce sul significato della frase: ha volato significa ‘è riuscito a volare’; è volato, preferibilmente seguito da un sintagma che indica il luogo (via, lontano, fuori dalla finestra…), significa ‘si è spostato in volo’.
In quanto alla seconda domanda, il verbo vincere può essere transitivo (vincere la partita), ma è più spesso intransitivo (vincere a dadi, di due punti, con l’inganno). In entrambi i casi può essere accompagnato da complementi indiretti che indicano l’avversario sconfitto e sono costruiti con con o contro. Quando è transitivo, inoltre, l’avversario può essere costruito come complemento oggetto: vincere il nemico.
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se in un periodo come il seguente sia opzionale l’uso del che, e quali differenze ci sono.
“Non mi serve (che) tu venga”.
RISPOSTA:
Le proposizioni completive esplicite (come la soggettiva che tu venga nella sua frase) sono introdotte da che (e più raramente da come). La congiunzione introduttiva può essere omessa senza alcuna conseguenza semantica; la frase senza che è, però, percepita come più raffinata. L’omissione del che è favorita dalla presenza di un altro che nella frase, nella reggente (“Ho capito tardi che lei pensava (che) io non fossi quello giusto”) o in una subordinata (“Ritengo (che) non sia conveniente che tu partecipi alla riunione”). Si noti che nella completiva non introdotta da che è fortemente richiesto il modo congiuntivo: l’indicativo risulta quasi sempre molto trascurato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
RISPOSTA:
La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vai, seppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei esprimere un dubbio in merito all’uso del congiuntivo passato e trapassato con il pronome relativo misto chiunque. Nella frase “Chiunque abbia pronunciato un giudizio così avventato, avrebbe dovuto documentarsi più scrupolosamente”, dopo il pronome chiunque potrebbe andarci bene anche il trapassato congiuntivo avesse pronunciato? Se sì, perché?
RISPOSTA:
La frase chiunque avesse pronunciato… è corretta: il trapassato avesse pronunciato può servire a collocare l’evento prima di un altro evento passato, per esempio in una frase come “Luca pensò che chiunque avesse pronunciato…” (in questo caso il passato non sarebbe corretto: *”Luca pensò che chiunque abbia pronunciato…”). Il trapassato è anche comunemente usato in relazione al presente, non al passato; in questo caso la relazione temporale rimane identica a quella instaurata dal passato: (penso che) chiunque abbia pronunciato… = (penso che) chiunque avesse pronunciato…. Quest’uso deriva dalla sovrapposizione sulla proposizione relativa introdotta da chiunque del modello della proposizione ipotetica (chiunque avesse pronunciato = se qualcuno avesse pronunciato); a ben vedere, però, la sovrapposizione è indebita, perché la sostituzione del passato con il trapassato non modifica il senso generale della proposizione relativa. Proprio perché il trapassato in queste condizioni (nella proposizione relativa introdotta da chiunque senza un rapporto di anteriorità rispetto al passato) è di fatto equivalente al passato, se ne può sconsigliare l’uso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mi fai sentire come (ipotesi) un insegnante del dopoguerra che rimproverasse (presente o passato?) un alunno che si comporta / comporti / comportasse male”.
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato?
“Che il castigo, se al giuramento vengo / venissi / venga meno, ricada sulla mia testa”.
Le varianti sono tutte legittime?
“Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta, tu che cosa risponderesti?”.
Di nuovo, con l’imperfetto ci si riferisce al passato?
RISPOSTA:
Nella prima frase il congiuntivo imperfetto rimproverasse rappresenta correttamente l’evento come passato. La proposizione costruita intorno a rimproverasse è una subordinata di tipo relativo, che si colorisce di una sfumatura eventuale per via del congiuntivo. Le forme si comporta / comporti / comportasse sono tutte possibili: con il congiuntivo imperfetto si rappresenta l’evento del comportarsi come passato, sullo stesso piano di rimproverare; con il presente si sposta il punto di vista al passato per rappresentare l’atto del comportarsi come fosse attuale. La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente in questo caso dipende dal grado di formalità che si vuole conferire alla frase. Sarebbe possibile anche si era comportato / si fosse comportato, per collocare l’atto del comportarsi prima di quello del rimproverare.
Nella seconda frase la subordinata è ipotetica: in questa subordinata il tempo del verbo determina il grado di realtà dell’evento: l’indicativo presente rappresenta l’evento come fattuale, il congiuntivo imperfetto come possibile, il congiuntivo trapassato come controfattuale, ovvero non più realizzabile. In questa proposizione il congiuntivo presente non si usa.
Nella terza frase la parte su cui ci si concentra (Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi) è una sequenza di due ipotetiche coordinate. Come detto sopra, in questa proposizione la forma del verbo esprime il grado di realtà dell’evento; questa funzione è indirettamente collegata al tempo, perché la fattualità (espressa dall’indicativo presente) è legata al presente o al massimo a un futuro già programmato; la possibilità è legata ugualmente al presente o al futuro; la controfattualità è legata al passato. Per quanto riguarda l’interrogativa diretta (quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta), la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente dipende dal registro, come per si comporta / comporti. Il condizionale in questo caso non è giustificato, perché non è indicata nessuna ipotesi tale da condizionare la qualità dell’altezza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).
RISPOSTA:
Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso di riferirsi in questa situazione comunicativa:
“Per ogni informazione si riferisca a quanto indicato sul programma”.
Può essere qui usato come sinonimo di attenersi?
RISPOSTA:
Qui riferirsi a significa ‘prendere con punto di riferimento’, non ‘riguardare, avere come argomento’ (che è il significato più comune). Con questo significato, il verbo si avvicina ad attenersi, ma non può essere considerato suo sinonimo: attenersi, infatti, contiene una sfumatura di precisione che non ammette deroghe assente in riferirsi a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si svolge l’analisi logica di una frase come “Eccolo!”?
Da qui la mia domanda: si può svolgere l’analisi logica di una frase nominale, visto che manca il predicato? Nell’esempio citato, bisogna considerare sottinteso un predicato? Come si può analizzare (se si può)?
RISPOSTA:
L’analisi logica è una procedura con molti limiti. Già nelle frasi standard produce a volte risultati insoddisfacenti (per esempio nella classificazione degli oggetti obliqui, come in obbedire alle leggi); si rivela, inoltre, inadeguata, e persino inutilizzabile, per capire la struttura degli enunciati che infrangono le regole sintattiche standard, come le frasi marcate (per esempio quelle dislocate) o le frasi nominali. Bisogna ammettere, comunque, che anche gli altri tipi di analisi sintattica (la grammatica valenziale e quella trasformazionale, per esempio) non sono attrezzati per spiegare la struttura degli enunciati sintatticamente imperfetti. Gli enunciati, è bene ricordare, sono costruzioni linguistiche legittimate dalla situazione in cui vengono realizzate; a volte coincidono con frasi standard (e in questi casi possono essere analizzati con le categorie dell’analisi logica), altre volte sfuggono alle regole della sintassi standard. Eccolo è un esempio di enunciato sintatticamente imperfetto ma comunicativamente funzionale: potrebbe essere usato in risposta a una domanda banale come “Dov’è il telecomando?” eppure manca dell’elemento imprescindibile per la sintassi: il verbo. Né c’è modo di riconoscere accanto a Eccolo un verbo sottinteso, rispetto al quale individuare il soggetto. Costruzioni come questa, o Bravo!, Forza!, Su, coraggio e simili, sono opache agli occhi dell’analisi logica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire in quali situazioni è obbligatorio affiancare il congiuntivo imperfetto al condizionale presente, come nel caso di un periodo ipotetico.
Queste due frasi rischiano di essere avvertite come errate per il semplice fatto che si è abituati ad associare il condizionale al congiuntivo imperfetto, e ciò a volte manda in confusione anche me:
“Non potrei stabilire se l’abbia fatto un bambino o un adulto”.
“Vorrei che venga espulsa” (In questo caso il condizionale è una forma ingentilita del presente).
RISPOSTA:
Nel quadro della consecutio temporum, il condizionale presente richiede gli stessi tempi del congiuntivo richiesti dall’indicativo presente. Per esempio, quindi, immagino che venga = immaginerei che venga (contemporaneità); immagino che venisse / sia venuto / fosse venuto = immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto (anteriorità). A questa regola si sottraggono i verbi di volontà, desiderio, opportunità (come volere, desiderare, pretendere, essere conveniente e simili), che instaurano il rapporto di contemporaneità con il congiuntivo non presente, ma imperfetto (probabilmente perché sono influenzati dal modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui al condizionale presente corrisponde il congiuntivo imperfetto). A immaginerei che venga, quindi, corrisponde vorrei che venisse. La variante vorrei che venga in astratto è corretta, ma è di fatto giudicata decisamente trascurata. Coerentemente, per l’anteriorità alla costruzione immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto corrisponde il solo vorrei che lui fosse venuto. La variante vorrei che lui venisse per esprimere l’anteriorità è sconsigliata perché sarebbe interpretata come esprimente la contemporaneità.
Per ulteriori informazioni sui tempi del congiuntivo dipendenti da vorrei è possibile consultare questa risposta e questa risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei farvi una domanda riguardo all’uso delle congiunzioni condizionali (escluso se).
Come sappiamo, nella parte condizionale va messo il congiuntivo, ma non sono certa se la scelta tra il presente e l’imperfetto dipenda soltanto dalla possibilità oppure anche dal tempo presente / passato?
A condizione che / purché / a patto che / casomai studi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, avrai / avresti superato l’esame.
Ho anche un altro dubbio: dopo aver scelto il tempo della parte condizionale, cosa posso fare con quella reggente? Uso l’indicativo per esprimere una certezza e il condizionale per una possibilità?
RISPOSTA:
Le proposizioni introdotte da a patto che, purché, a condizione che e casomai (o caso mai) sono condizionali (nel periodo ipotetico sono chiamate protasi e contengono la descrizione della condizione) e richiedono il modo congiuntivo; il tempo dipende sia dal grado di possibilità dell’evento espresso sia dal rapporto temporale (la cosiddetta consecutio temporum) con il verbo della reggente (che nel periodo ipotetico è chiamata apodosi e contiene la conseguenza della condizione contenuta nella protasi). La sua prima frase è un caso canonico di periodo ipotetico della realtà. Questo costrutto serve a rappresentare l’evento della reggente come certo.
La seconda frase presenta un esempio di apodosi della realtà e protasi della possibilità: il costrutto, corretto, esprime un dubbio circa la possibilità della condizione (il parlante non è certo che l’interlocutore si metta a studiare bene) e la certezza riguardo alla conseguenza della condizione.
Il terzo e ultimo esempio presenta nuovamente nella subordinata il congiuntivo imperfetto, mentre nella reggente propone due opzioni diverse: un verbo all’indicativo (il futuro anteriore avrai superato) e un verbo al modo condizionale composto, o passato (avresti superato).
Il futuro anteriore si usa per indicare un evento che avverrà in un futuro più prossimo rispetto a un altro più lontano nel futuro. Si tratta di un tempo verbale usato raramente, perché il rapporto di successione tra gli eventi risulta quasi sempre chiarito dal contesto. In questo caso specifico non è presente un altro evento di riferimento successivo, di conseguenza il futuro anteriore non è giustificato. L’opzione diventerebbe possibile se si aggiungesse un evento di riferimento; per esempio: “A patto che studiassi bene avrai superato l’esame prima di accorgertene”. Bisogna, però, ammettere che la frase, corretta in astratto, difficilmente sarebbe prodotta da un parlante, per via della sua complessità.
L’ipotesi con avresti superato è impossibile se studiassi si riferisce al presente: presenta, infatti, la conseguenza come precedente rispetto alla condizione. La frase diviene corretta se il congiuntivo imperfetto è usato con valore astorico, legato non al presente, ma a un principio generale: “Se tu studiassi (= avessi l’abitudine di studiare) bene avresti superato l’esame”.
Prima di selezionare i tempi e modi verbali è opportuno valutare il grado di possibilità degli eventi selezionati a partire dalla reggente: è il verbo della reggente che governa quello della subordinata, in relazione al rapporto temporale e, nel caso del periodo ipotetico, al grado di possibilità che si vuole rappresentare.
Per ulteriori informazioni sull’uso di a patto che è possibile consultare questa risposta nell’archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.
Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?
- La differenza è poco/poca
- Due settimane è poco/sono poche
RISPOSTA:
Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.
Raphael Merida
QUESITO:
Se una persona è defunta in quale maniera ci si riferisce “all’essere” della stessa: “Non credo che tutti sappiano chi lei sia / fosse / fu”?
RISPOSTA:
Tutt’e tre le alternative sono corrette. Il congiuntivo imperfetto fosse è ineccepibile; il passato remoto fu è legittimo, ma è più informale del congiuntivo. Anche il congiuntivo presente sia, pur insolito, potrebbe andar bene in questo contesto: per un fattore psicologico e affettivo, ci si potrebbe riferire al defunto come a una persona ancora viva nei nostri pensieri.
Raphael Merida
QUESITO:
I verbi essere e stare sono intercambiabili?
Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?
C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?
Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?
RISPOSTA:
La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.
Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).
Raphael Merida
QUESITO:
Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:
Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.
La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.
RISPOSTA:
La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Vorrei sapere se entrambe le soluzioni sotto proposte possono essere giudicate valide.
1) Si è dovuto intervenire per placare gli animi.
2) Si è dovuti intervenire per placare gli animi.
A condizione di non essermi confusa durante la consultazione e l’analisi, in letteratura le due costruzioni coesistono.
RISPOSTA:
I verbi intransitivi (come intervenire) concordano il participio passato con il soggetto (Luisa è intervenuta). Nella costruzione impersonale, in cui, per definizione, manca il soggetto grammaticale, il participio viene concordato con un soggetto “logico”, che coincide con una prima persona plurale (maschile o femminile secondo le normali regole dell’accordo). La costruzione, pertanto, può essere si è intervenuti o si è intervenute. La presenza del verbo servile dovere complica questa regola, perché questo verbo ha come ausiliare avere, quindi nella forma impersonale mantiene il participio passato invariabile. Si pensi, per esempio, a una conversazione del genere:
-Siete intervenuti?
-Si è dovuto (impossibile *si è dovuti).
Come si può immaginare, le due costruzioni concorrenti entrano in conflitto, creando la doppia possibilità. Per le ragioni spiegate, entrambe le costruzioni sono giustificabili, anche se la seconda è preferibile, perché il verbo servile ha una forte tendenza a prendere la costruzione del verbo retto, che è semanticamente dominante. Questo si vede, per esempio, nella netta preferenza dei parlanti per forme come sono dovuto andare rispetto a ho dovuto andare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo e della parola come. Perché questa frase regge il congiuntivo?
“Mi aveva colpito come fosse riuscito a raccontare la storia”
mentre in questa non è necessario usarlo?
“Non si è preoccupato delle mie osservazioni quando gli ho detto che cosi, come mi aveva esposto la trama, temevo fosse poco spettacolare”?