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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto la risposta di Fabio Rossi dell’8 gennaio 2024 su «anni fa» e «anni prima», ma non chiarisce esattamente un mio dubbio.

Trovo spesso frasi al discorso indiretto di questo genere: «Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».

Secondo voi, in questa frase si può dire «dieci anni fa»? A me sembra sbagliato, io direi «dieci anni prima» in una frase al discorso indiretto e «anni fa» al discorso diretto: «Mario, quando ti ho conosciuto, dieci anni fa, avevi dei capelli nerissimi».

 

RISPOSTA:

Come chiarito nella risposta da lei citata, «La locuzione temporale “X fa” (per es. “dieci anni fa”) può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione». Quindi, non è il fatto che l’espressione si trovi nel discorso diretto oppure indiretto a far scattare la scelta tra «prima» e «fa», bensì il fatto che, quando si dice o scrive «prima» o «fa», sia in effetti dieci anni prima del momento in cui lo si scrive o dice. Nella frase da lei riportata («Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi»), si comprende chiaramente che la frase è stata detta o scritta effettivamente dieci anni prima dell’evento riportato (cioè il fatto che lui avesse dei capelli nerissimi), quindi sono corretti tanto «dieci anni fa», quanto «dieci anni prima». Diverso sarebbe il caso in cui intervenisse un terzo termine temporale, passato rispetto al momento della narrazione e al momento dell’evento riportato (come già spiegato nella risposta citata). Per esempio (siamo nel 2024): «Nina stava pensando [nel 2024] al momento in cui reincontro Mario [nel 2014] e pensò che quando, dieci anni prima [cioè nel 2004], aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi». Ma se, come ripeto, Nina narra nel 2024 di come Mario avesse i capelli nel 2014, vanno vene sia «prima» sia «fa»: «Nina pensò che quando, dieci anni fa/prima, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Fermo restando il significato di laddove come sinonimo di “invece”, in tutti gli altri casi, quale forma va preferita (laddove o là dove) e perché?

 

RISPOSTA:

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Come chiarito nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, la forma univerbata laddove può essere utilizzata in tutti e quattro i significati: 1) ‘nel luogo in cui, dove’; 2) ‘nel tempo in cui, quando’; 3) ‘mentre’; 4) ‘se, qualora’. Dopodiché, nell’uso, mentre nei significati 2, 3 e 4 si utilizza di norma la sola forma univerbata (laddove), nel significato 1, cioè l’unico letterale, si preferisce invece la grafia staccata là dove. Il motivo è semplice: proprio perché il primo è il significato letterale, si tende a preservare il valore proprio di entrambi gli elementi: avverbiale il primo (), pronominale il secondo (dove): nel luogo in cui; per es., «Andava sempre là dove andava con suo padre» (ma, come ripeto, sarebbe corretto, ancorché meno frequente, anche «Andava sempre laddove andava con suo padre»). Negli altri significati, invece, discesi per metafora dal primo, la componente locativa delle due parole si è indebolita o persa del tutto fino a dar luogo a un valore connettivo; là dove si è dunque, come si dice con termine tecnico, grammaticalizzato (nella fattispecie, specializzato nella funzione di congiunzione coordinante oppure subordinante) in laddove, con valore temporale, avversativo, condizionale-ipotetico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1) Sara, tu sei vicina allo stadio

2) Sara, tu stai vicino allo stadio

3) Noi siamo lontani da te

4) Noi stiamo lontano da te

5) Ti sono vicina, credimi!

6) Ti sto vicino in teatro

…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…

 

RISPOSTA:

Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Pensate che tutte le soluzioni siano corrette?

1) Voi potete andare dritto (avverbio)

2) Voi potete andare dritti/e (aggettivo)

3) Andiamo dritto, senza svoltare a destra (avverbio)

4) Andiamo dritti/e, senza svoltare a destra (aggettivo)

5) Mi stavano lontano (avverbio)

6) Loro mi stavano lontani/e (aggettivo)

7) La ragazza mi stava lontano (avverbio)

8) La ragazza mi stava lontana (aggettivo).

D’altra parte “dritto”, come “lontano”, può essere o avverbio, e rimanere invariato in -o, oppure aggettivo, e quindi accordarsi in genere e numero al nome, o pronome, cui si riferisce. Ovviamente, immagino, questi discorsi valgono anche qualora usassimo altri verbi, e non soltanto per i verbi “stare” o “andare”?

 

RISPOSTA:

Certamente, tutte le frasi sono corrette e aggettivi come lontano, vicino, dritto (o diritto) ecc. possono avere sia funzione avverbiale (invariabili), sia aggettivale (variabili). La possibilità di scegliere tra le due funzioni si ha anche con altri verbi: «correre diritto/diritti alla meta»; «sono vicino/vicina a te»; «la meta risultò più lontano/lontana del previsto» ecc. I verbi che non ammettono (o ammettono raramente) costruzioni copulative e con complementi predicativi inibiscono l’uso aggettivale: «abbiamo parcheggiato vicino», ma non *«abbiamo parcheggiato vicini», che, semmai (e con difficoltà), significherebbe altro (cioè non ‘in un luogo vicino’ ma ‘vicini io e te’).

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.

 

RISPOSTA:

L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».

I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?

 

RISPOSTA:

Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».

Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Che differenza c’è tra al solito e di solito?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono molto diverse. Al solito significa ‘come avviene di solito’, quindi mette a confronto un evento con tutti gli altri eventi simili accaduti in passato: “Al solito, quando non prendo l’ombrello piove”. Questo confronto è usato tipicamente in commenti polemici oppure amaramente ironici (come quello dell’esempio). Di solito significa semplicemente ‘abitualmente, normalmente’, quindi non instaura nessun confronto e non suggerisce nessuna sfumatura polemica o ironica. Per questo motivo, una frase come “Di solito, quando non prendo l’ombrello piove” sarebbe un po’ strana, perché rappresenterebbe l’evento come un fatto effettivamente abituale (mentre, ovviamente, non può essere così).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Retorica
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

1a) La voglio tutta.
2a) Vi ho visti tutti.
3a) Noi veniamo tutti da Roma.
4a) Noi verremo in tanti alla festa.

Le frasi si possono riformulare così:
1b) Voglio tutta la torta (aggettivo).
2b) Ho visto tutti voi (aggettivo).
3b) Tutti noi veniamo da Roma (aggettivo).
4b) In tanti/tanti di noi verranno alla festa (pronome).
Nelle frasi “a” si fa un uso avverbiale dei pronomi e aggettivi?

 

RISPOSTA:

Nelle frasi del primo e del secondo gruppo tutto è sempre aggettivo e non ha mai la funzione di un avverbio: accompagna, infatti, sempre un nome o un altro pronome, anche se la sua posizione cambia. Anche la locuzione in tanti, che è aggettivale nella frase del primo gruppo, mentre è pronominale nella frase del secondo gruppo, non ha mai la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”

Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?

 

RISPOSTA:

La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “con i piedi lontano/lontani da terra” è corretto usare l’avverbio o l’aggettivo?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, perché lontano in italiano ha i valori di aggettivo e di avverbio. L’aggettivo richiede l’accordo di genere e numero con il nome cui si riferisce (piedi lontani), l’avverbio invece, in questo caso costruito come locuzione preposizionale (lontano da), rimane invariato. La variante con l’aggettivo è più comune, ma non per questo preferibile alla variante con l’avverbio.
Raphael Merida

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QUESITO:

Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:

“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,

– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)

– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”

– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.

 

RISPOSTA:

Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.

Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.

Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.

Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In vita ho sempre detto indistintamente:

  1. A) Lunedì prossimo.
  2. B) Il lunedì prossimo.
  3. C) Il prossimo lunedì.

Mentre ho sempre visto come errore:

  1. D) Prossimo lunedì.

Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.

Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).

L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.

Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio, Nome, Registri
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QUESITO:

Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho trovato questa frase nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
“Potrà apparire strano che fin qui non avessi ancora messo a parte i miei dei pericoli che incombevano sul loro unico figlio”.
Nella completiva dipendente trovo curioso che il tempo verbale usato sia il trapassato del congiuntivo (avessi messo) invece del congiuntivo passato (abbia messo). So che la concordanza dei tempi è più rigida con le completive di questo tipo e volevo capire la ragione per cui il tempo verbale sia ammissibile in questa frase. È una scelta stilistica?
È possibile che Piperno voglia impartire una sfumatura di una cosa nel passato che è successo prima di un’altra cosa nel passato? È lecito sia nella lingua parlata sia nella lingua scritta?

 

RISPOSTA:

Il trapassato è la scelta più regolare in questo contesto; il tempo di riferimento, infatti, è il passato (lo si evince dall’imperfetto incombevano) e con il trapassato si intende, appunto, descrivere un evento avvenuto (o non avvenuto) precedentemente. Sorprendente, piuttosto, è l’avverbio fin qui usato per riferirsi a un momento passato, ovvero con il significato non di ‘fino ad adesso’ ma di ‘fino ad allora’. Si tratta di un uso molto comune nella lingua parlata, sfruttato in letteratura per confondere il piano della narrazione con quello dell’enunciazione (una tecnica nota come discorso indiretto libero). Il piano temporale su cui si colloca fin qui è ancora più ambiguo per via della presenza di potrà, futuro epistemico equivalente a ‘forse è’, riferito al momento dell’enunciazione. Nella frase, insomma, lo scrivente si rivolge al lettore dicendo che nel momento in cui quest’ultimo sta leggendo appare probabilmente strano che in quel momento del passato (identificato con fin qui) lo scrivente stesso non avesse ancora compiuto (evento descritto al trapassato) quell’azione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?

 

RISPOSTA:

Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entroentro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.

 

RISPOSTA:

L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

È corretto l’uso della virgola in una frase di questo tipo (dopo il verbo, prima del complemento oggetto ma in presenza di da una parte… dall’altra)?
“Il documento mostra, da una parte il tuo elaborato, dall’altra il mio”.

 

RISPOSTA:

La virgola va evitata, proprio perché separa il complemento oggetto dal verbo. In alternativa si può inserire la locuzione tra due virgole; a quel punto, però, per simmetria si dovrà fare lo stesso con la locuzione correlativa:
“Il documento mostra, da una parte, il tuo elaborato, dall’altra, il mio”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio
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QUESITO:

Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».

 

RISPOSTA:

La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Pongo il seguente quesito. Nella frase “il gatto gli balzò addosso”, il termine “addosso” è da considerarsi avverbio o preposizione impropria riferita a “gli”? Io lo interpreto come avverbio e quindi penso a due complementi diversi in analisi logica, ma la presenza della particella pronominale prima del verbo mi pone qualche imbarazzo. Il problema si ripresenta in frasi come: “il bambino gli andò incontro; gli saltò sopra; gli rimase dietro; le mise sopra un cappello” e simili. Voi come lo interpretate?

 

RISPOSTA:

I casi portati a esempio rientrano nella tipologia dell’estrazione della preposizione nei casi di locuzione formata da preposizione polisillabica (o impropria, secondo la grammatica tradizionale) e preposizione semplice (cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 1988, vol. I, pp. 524-528; si veda anche la voce Preposizione, curata da Hanne Jansen, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2011, liberamente accessibile online nel sito treccani.it). L’estrazione consiste in questo: in determinate condizioni (per es. in presenza di clitico, o particella pronominale atona), viene eliminata (tecnicamente, estratta; o meglio: viene estratto il sintagma preposizionale, ovvero il complemento: gli = a lui ecc.) la preposizione semplice, mentre il clitico viene anticipato: «il gatto balzò addosso a lui» > «il gatto gli balzò addosso». Quindi addosso, in questo caso (oppure incontro, dietro, contro, accanto ecc.) è una preposizione e non un avverbio. Dunque vi è un solo complemento, non due.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?

 

RISPOSTA:

A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?

 

RISPOSTA:

Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anchesoltantoneanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasisempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadrettia losanghea pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti afuori dainvece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quali frasi sono corrette?

1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi

Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho notato che, in presenza di come e quanto, per ragioni a me ignote, il congiuntivo prevale sull’indicativo, che tuttavia non dovrebbe essere scorretto:

1) Ho visto quanto tu la amassi / amavi.

2) Mi aggiornò su come volesse / voleva intervenire.

 

RISPOSTA:

Nelle frasi da lei proposte le subordinate sono interrogative indirette, che sono il tipo di completiva più naturalmente costruito con il congiuntivo. Come può anche sostituire che in proposizioni soggettive e oggettive, come nella frase “So / È noto come tu ritenga la cosa sbagliata” (= “… che tu ritieni la cosa sbagliata”). Nelle proposizioni così costruite è decisamente preferibile il congiuntivo, probabilmente perché esse vengono associate alle interrogative indirette.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere di che tipo sono gli avverbi come “fortunatamente, sfortunatamente, purtroppo”, sui quali non c’è molta chiarezza sui manuali di studio.

 

RISPOSTA:

Sono avverbi di giudizio che esprimono un punto di vista personale.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio che riguarda le proposizioni correlative costruite con non solo… ma anche, come nel periodo seguente:
“Si occuperà non solo della gestione, ma anche della programmazione”.
Ma se io scrivessi:
“Marco si occuperà non solo della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli (anche) la programmazione”, per la correttezza del periodo è necessario che ci sia anche?
Inoltre, avendo un rapporto di interdipendenza, sono considerate entrambe proposizioni coordinate correlative? E la principale?

 

RISPOSTA:

Anche può essere omesso sempre, non solo nel suo caso; i parlanti, però, preferiscono inserirlo perché chiarisce il rapporto di correlazione con non solo, che il solo ma lascia in parte sospeso (aumentando l’ambiguità della frase). Nella seconda frase, in ogni caso, il problema è un altro: i due termini in correlazione non sono la gestione e la programmazione, bensì i comportamenti di Marco e Andrea; la frase risulta, pertanto, più chiara se entrambe le locuzioni correlative vengono inserite prima dei due nomi (“Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà anche lasciargli la programmazione”). Si noti che anche non può essere inserito prima di Andrea, perché questo avverbio (che molti considerano una congiunzione) ha una portata ristretta: si riferisce al costituente immediatamente adiacente, quindi anche Andrea significherebbe ‘Andrea oltre a qualcun altro’. La posizione obbligata di anche, però, non è un problema, perché la correlazione tra Non solo Marco si occuperà e ma Andrea dovrà anche lasciargli (ovvero ‘dovrà in più lasciargli la programmazione’) funziona perfettamente. La frase sarebbe ben formata anche così: “Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli anche la programmazione”; in questo caso si metterebbe in evidenza che Andrea dovrà lasciare a Marco la programmazione oltre alla gestione.
Dal punto di vista dell’analisi del periodo, la proposizione che contiene ma anche è coordinata all’altra, che possiamo considerare reggente, in cui appare l’altra parte della correlazione (non solo). La prima parte della correlazione funziona da anticipazione della seconda parte; un po’ come tanto funziona da anticipazione del che che introduce la proposizione consecutiva: “Sono tanto stanco che vado subito a letto”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Come si svolge l’analisi logica di una frase come “Eccolo!”?
Da qui la mia domanda: si può svolgere l’analisi logica di una frase nominale, visto che manca il predicato? Nell’esempio citato, bisogna considerare sottinteso un predicato? Come si può analizzare (se si può)?

 

RISPOSTA:

L’analisi logica è una procedura con molti limiti. Già nelle frasi standard produce a volte risultati insoddisfacenti (per esempio nella classificazione degli oggetti obliqui, come in obbedire alle leggi); si rivela, inoltre, inadeguata, e persino inutilizzabile, per capire la struttura degli enunciati che infrangono le regole sintattiche standard, come le frasi marcate (per esempio quelle dislocate) o le frasi nominali. Bisogna ammettere, comunque, che anche gli altri tipi di analisi sintattica (la grammatica valenziale e quella trasformazionale, per esempio) non sono attrezzati per spiegare la struttura degli enunciati sintatticamente imperfetti. Gli enunciati, è bene ricordare, sono costruzioni linguistiche legittimate dalla situazione in cui vengono realizzate; a volte coincidono con frasi standard (e in questi casi possono essere analizzati con le categorie dell’analisi logica), altre volte sfuggono alle regole della sintassi standard. Eccolo è un esempio di enunciato sintatticamente imperfetto ma comunicativamente funzionale: potrebbe essere usato in risposta a una domanda banale come “Dov’è il telecomando?” eppure manca dell’elemento imprescindibile per la sintassi: il verbo. Né c’è modo di riconoscere accanto a Eccolo un verbo sottinteso, rispetto al quale individuare il soggetto. Costruzioni come questa, o Bravo!Forza!, Su, coraggio e simili, sono opache agli occhi dell’analisi logica.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.

Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?

  • La differenza è poco/poca
  • Due settimane è poco/sono poche

 

RISPOSTA:

Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.

Raphael Merida

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QUESITO:

So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:

Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.

 

RISPOSTA:

Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

Quesito:

Ho un dubbio riguardo alla corretta interpretazione dell’uso di anche nella seguente frase:

Si consiglia intervento psico-educativo (2-4 ore a settimana, anche in piccolo gruppo).

Sulla base delle diverse definizioni del significato di anche“, sembrerebbe che la frase dovrebbe interpretarsi nel seguente modo:

Si consigliano 2/4 ore di intervento psico-educativo e anche 2/4 ore del medesimo intervento da svolgersi in piccolo gruppo (per un totale dunque di 4/8 ore).

L’interpretazione in senso “additivo” di anche del secondo elemento intervento in gruppo rispetto al primo elemento intervento sottinteso è corretta? L’interpretazione, se corretta, può definirsi univoca o può essere ambigua?

 

RISPOSTA:

Il significato di anche nella frase è senza dubbio rafforzativo; con esso, cioè, si ammette che l’intervento descritto precedentemente venga svolto nella modalità indicata subito dopo (in piccolo gruppo). Non bisogna, quindi, considerare l’intervento in piccolo gruppo come aggiuntivo rispetto a un altro intervento da svolgere con modalità diversa. Si tratta comunque di un’aggiunta, a ben vedere, ma ciò che viene aggiunto è una modalità alternativa per lo stesso intervento, non un ulteriore intervento. Se fosse aggiunto un intervento, la frase sarebbe stata formulata diversamente, esplicitando i termini salienti dell’intervento aggiuntivo (2-4 ore); per esempio (2-4 ore a settimana in seduta individuale e anche / inoltre 2-4 ore in piccolo gruppo).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei capire meglio la differenza tra i seguenti termini: serio / serioso: una persona seriosa è una persona pesante?

Emozionante / emozionale: può un bracciale essere emozionale perché richiama delle emozioni?

A tempo, per tempo, in tempo-di fretta, in fretta: comprendo la differenza tra andare in fretta e andare di fretta ma, ad esempio, nel caso di «mangiare» si dice «mangiare di fretta» o «mangiare in fretta»?

Solo, da solo

 

RISPOSTA:

Sì, una persona seriosa è una persona pesante, che si prende troppo sul serio; anche un argomento può essere serioso.

Emozionale ha un uso molto limitato, sebbene oggi se ne abusi per influenza dell’inglese emotional, per cui non mi meraviglierei se anche un bracciale venisse (impropriamente) definito emozionale, anche se a rigore emozionale non è ciò che produce emozioni, bensì ciò che riguarda le emozioni, quindi si può parlare di stato emozionale (o emotivo).

Meglio «mangiare in fretta»; «di fretta» di solito si riferisce a andare o essere (ma non solo): «vado di fretta», «sono di fretta» = «ho fretta». Comunque, non è scorretto dire «mangiare di fretta».

Solo e da solo sono spesso intercambiabili: «sono sempre solo / da solo». Ma a volte non sono equivalenti: «riesci a farlo da solo» vuol dire ‘senza l’aiuto di nessuno’.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio, Italiano L2
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Su varie grammatiche, incluso Treccani, si legge che tra avverbi interrogativi (interrogativa diretta) e verbo è impossibile frapporre un elemento, che sia soggetto o qualsiasi altro elemento:

1)Quando marco arriverà a destinazione?*

2)Dove oggi andrai?*

Se si parla di congiunzione interrogativa, e di conseguenza di interrogative indirette

è possibile la frapposizione solo del soggetto:

3)Non so quando Marco arriverà.

4)Non so dove oggi andrà a fare shopping.*

Tutte queste regole e regolette, però, non valgono con “Perché”, usato sia come avverbio interrogativo che come congiunzione interrogativa; infatti con “perché” è possibile sia frapporre complementi (“Qui”, “con me” ecc…) sia soggetti (“Lui”, “Marco”), anche insieme, volendo, come nelle frasi 5 e 6.

Tutto questo sia nelle interrogative dirette o indirette che siano, per esempio:

5)Perché Marco all’estero si trova male?

6)Non so Marco all’estero si trovi così male.

Credo e spero che da 1 a 6 lei possa concordare con me.

Ci sono però dei casi, che non so per idiomaticità o meno, ma contravvengono a ciò che ho detto da 1 a 6, cioè:

a)Ricordo quando da bambino giocavo al parco con gli amichetti.

b)Non ho mai saputo quando da bambino hai avuto la prima fidanzatina.

c)Quanto la fortuna potrà incidere sul risultato?

Le frasi “a” e “b” sono dello stesso tipo della frase 4, mentre la frase “c” mi sembra dello stesso tipo della frase “1”.

Seguendo la (mia) logica, a meno che non abbia fatto un discorso errato dall’inizio alla fine, le tre frasi in questione sono scorrette, eppure le ho sentite spesso, anche con una certa frequenza; infatti anche a me è capitato di dirle in svariate occasioni, poiché al mio orecchio suonano particolarmente idiomatiche e non vi ravviso nessuna stonatura.

Qual è quindi la verità?

 

RISPOSTA:

Da assiduo navigatore di DICO, sa bene che la grammatica e la linguistica non si valutano in base alla verità (ammesso che si sappia cosa sia, la verità…), bensì ad altre categorie, quali la frequenza, l’accettabilità, la variabilità ecc. Ciò premesso, non è affatto vero che gli interrogativi non ammettano elementi tra sé e il verbo, e, tra i miliardi di frasi possibili, basterebbe questa: «Perché Marco non arriva?». Quindi, non soltanto concordo con lei, ma le confermo che nessuna delle frasi da lei citate (a, b, c) è sbagliata, e non perché siano idiomatiche (e infatti non lo sono), ma perché la mobilità dei costituenti consente queste e altre modificazioni dell’ordine cosiddetto diretto. Neppure le altre frasi da lei citate sono scorrette né agrammaticali, tranne la 2: «*Dove oggi andrai?», che però diventa quasi accettabile se al verbo si aggiunge un altro elemento: «Dove, oggi, andrai a fare la spesa?» (non naturalissima, ma possibile).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Possono gli indefiniti reggere il condizionale?

Ecco alcune frasi:

Chiunque vorrebbe partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista.

Ecco una piccola guida per chi vorrebbe avere maggiori informazioni.

Quale tempo e modo regge, invece, dovunque?

-Ti seguirò, dovunque tu vai/vada/andrai/andresti/andassi.

E se nella principale c´é un condizionale?

-Ti seguirei, dovunque …

-Ti avrei seguito, dovunque…

 

RISPOSTA:

Gli indefiniti possono reggere il condizionale soltanto se si trovano nella proposizione reggente, non se si trovano in una proposizione relativa con sfumatura ipotetica come tutte quelle da lei indicate, nelle quali è ammesso soltanto il congiuntivo o l’indicativo. Vediamo caso per caso.

«Chiunque volesse/voglia partecipare, deve mettere il suo nome sulla lista»: la relativa retta da chiunque ha un evidente valore ipotetico, cioè è analoga alla protasi del periodo ipotetico: «se qualcuno volesse partecipare…». Quindi comprende bene come il condizionale sarebbe del tutto abnorme: *se qualcuno vorrebbe…

Identico discorso per le altre frasi:

«Ecco una piccola guida per chi volesse/voglia avere maggiori informazioni».

«Ti seguirà, dovunque tu vai/vada/andrai/ andassi» (ma non *andresti).

«Ti seguirei, dovunque tu andassi»: identico a sopra, con preferenza per andassi, sempre in parallelo con il periodo ipotetico: «se andassi in qualunque luogo, io ti seguirei».

«Ti avrei seguito, dovunque fossi andato».

Diverso il caso in cui l’indefinito si trovasse nella reggente, cioè con valore analogo a quello di una apodosi di un periodo ipotetico, cioè con valore condizionale, appunto: «chiunque potrebbe partecipare» (se volesse);

«Ti seguirei dovunque» (se partissi);

«Ti avrei seguito dovunque» (se fossi partito).

Molto interessanti le ultime frasi, perché, come vede, a seconda della pausa (o, per meglio dire, a seconda della relazione col verbo reggente), dovunque può avere funzione avverbiale («Ti seguirei/avrei seguito dovunque»), e in questo caso, come parte della reggente, può accompagnarsi a un condizionale, oppure funzione pronominale o di congiunzione relativa («Ti avrei seguito, dovunque fossi andato»), in cui il valore è di pronome doppio ‘in qualunque luogo in cui’, il quale, essendo alla testa di una subordinata relativa ipotetica, non può ammettere il condizionale.

Ecco un’altra coppia di esempi: «ti seguo/seguirei ovunque (tu) vada/andassi» DIVERSO DA «se io non ti seguissi tu andresti ovunque». Nel primo caso ovunque ha valore di congiunzione relativa (cioè di pronome relativo doppio: ‘in qualunque luogo in cui’), mentre nel secondo caso ha valore di avverbio (‘dappertutto, in qualunque luogo’).

Prevengo subito un’altra domanda possibile: allora non può esistere una subordinata relativa al condizionale? Sì, ma soltanto se ha valore condizionale, cioè come una sporta di apodosi di periodo ipotetico con protasi sottintesa: «questi sono i soldi che ti lascerei» (protasi sottintesa: «se io morissi/se dovessi averne bisogno» ecc.).

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.

“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.

Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.

L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho la necessità di esprimere un concetto che potrei sintetizzare così: prima arriveranno, prima se ne andranno.
Per ragioni più narrative che prettamente linguistiche, ho dovuto scartare la suddetta soluzione, a favore di un’altra che sposasse un modello sintattico affine a quello del periodo ipotetico con la coppia di correlativi quanto più/tanto più.
Il risultato è stato questo: “Quanto prima fossero arrivati, tanto prima se ne sarebbero andati”.
La frase in questione è corretta dal punto di vista della scelta dei modi (congiuntivo/condizionale), oppure sarebbe stato preferibile adottare il condizionale per entrambi i predicati?
Se i suddetti correlativi non fossero adattabili a questa costruzione, e si scegliesse dunque di limitarsi alla forma prima… prima, il modello ipotetico “congiuntivo-condizionale” sarebbe comunque possibile? “Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”.

 

RISPOSTA:

I due avverbi correlativi prima… prima introducono una sfumatura ipotetica nel periodo, tanto che questo viene assoggettato alla costruzione tipica con l’indicativo (“Prima arriveranno, prima se ne andranno”) o il congiuntivo nella proposizione che contiene la condizione, ed è quindi assimilabile alla protasi, e il condizionale in quella che contiene la conseguenza, ed è quindi assimilabile all’apodosi (“Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”). Si noti che, diversamente dal periodo ipotetico, in questo caso il congiuntivo imperfetto nella proposizione dipendente è molto innaturale (?“Prima arrivassero, prima se ne andrebbero”, ma “Se arrivassero prima, se ne andrebbero prima”). L’aggiunta di quanto / tanto non cambia niente nella costruzione (né, per la verità, aggiunge alcunché al significato della frase): i modi e i tempi richiesti rimangono quelli indicati per prima… prima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Scritta così, questa frase «Dovresti aiutarmi, non chiudermi la porta in faccia», vuol dire: «Dovresti aiutarmi, non, invece chiudermi la porta in faccia» (insomma, esprimere un giudizio), oppure può essere interpretata come una frase esortativa: «Non chiudermi la porta in faccia! Devi aiutarmi»? C’è il rischio di fare confusione?

 

RISPOSTA:

Non c’è il rischio di confondersi perché, come nota lei, per avere la sfumatura esortativa dovremmo scrivere la frase in un altro modo. Tra le due proposizioni “Dovresti aiutarmi” e “non chiudermi la porta in faccia”, unite per asindeto dalla virgola, c’è una relazione di opposizione (o di sostituzione) interpretabile come: “Dovresti aiutarmi, non, invece, chiudermi la porta in faccia”.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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QUESITO:

Vorrei sapere se è più corretto dire: “Ho dormito fino adesso” oppure “fino ad adesso”. Ritengo che entrambe le espressioni siano corrette.

 

RISPOSTA:

Entrambe le locuzioni sono corrette. La preposizione fino è seguita, di solito, da un avverbio o da una preposizione che determina il momento preciso in cui si conclude qualcosa che ha una durata nel tempo. Con alcuni avverbi di tempo, come adesso, ora, allora, la preposizione a può essere omessa. Fino adesso, dunque, equivale a fino ad adesso, così come, per esempio, la locuzione finora (o con grafia non comune fin ora) corrisponde a fino a(d) ora. Per ragioni di eufonia si può usare sino al posto di fino.
Raphael Merida

Parole chiave: Avverbio, Preposizione
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QUESITO:

Queste due frasi, nonostante contengano il non, hanno lo stesso significato?
“Incapacità di fare silenzio”
“Incapacità di non fare silenzio”
Io le interpreto entrambe con il significato di ‘urlare’.

 

RISPOSTA:

Nelle espressioni (più che frasi sono parti di frasi) il non è determinante: se parafrasiamo non frase silenzio con parlare (non è necessario ricorrere al verbo urlare), la seconda espressione significa ‘incapacità di parlare’, che è, come ci si aspetta, data la presenza della negazione, il contrario del significato della prima espressione, in cui non non c’è.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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QUESITO:

Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.

“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”

Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.

Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”

In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:

“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?

“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?

 

RISPOSTA:

Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.

La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Bisogna attenersi a quanto affermato dal “Sabatini”: «Se l’elemento negato è anteposto al verbo, questo rifiuta il non: neanche io so come fare»?

«Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» sono le uniche possibilità corrette? Tuttavia mi è capitato di leggere esempi contradditori con quanto appena affermato anche in La luna e i falò.

E se l’elemento di negazione è posposto al verbo: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più»?

 

RISPOSTA:

Sebbene l’italiano richieda, o ammetta, la doppia negazione in alcuni casi («non voglio niente»), la rifiuta in altri, precisamente quando un elemento (avverbio, congiunzione, aggettivo o pronome, a seconda dei casi) di negazione come neanche, neppure, nemmeno, niente, nessuno è anteposto al verbo. Come giustamente osserva Serianni nel cap. VII, par. 193, della sua Grammatica, «questa norma va oggi osservata scrupolosamente, almeno nello scritto formale. Tuttavia, nell’italiano dei secoli scorsi e anche in quello contemporaneo non mancano le deflessioni in un senso o nell’altro», dovute per esempio a forme regionali, di italiano popolare, di trascuratezza, di espressività. Tra le deflessioni, troviamo addirittura Manzoni: «Una di quelle donnette alle quali nessuno, quasi per necessità, non manca mai di dare il buongiorno». Deflessioni, tra i moltissimi altri, in Pavese: «Neanche tra loro non si conoscevano», «neanche qui non mi credevano». Cionondimeno, ciò non altera la norma dell’italiano. Pertanto, «Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» vanno bene, mentre «Neanche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» va evitato. Quando l’elemento di negazione è posposto al verbo, la doppia negazione è ammessa: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più» va altrettanto bene quanto «Non sarebbe un problema anche se dovessimo aspettare di più».

Fabio Rossi

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QUESITO:

  1. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia capitata ad altre persone.
  2. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia potuta capitare ad altre persone.
  3. Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa possa essere capitata ad altre persone.

In una costruzione come questa il verbo servile “potere” serve per modificare leggermente il senso del messaggio (varianti 2 e 3), oppure la frase può essere privata di tale verbo (esempio 1) senza comportare sostanziali differenze semantiche?

  1. Non mi ricordo neppure quale fosse il suo nome, e questa la dice lunga su quanto (poco) mi importasse di lui.

L’avverbio “poco”, in questo caso, costituisce un elemento ridondante?

 

RISPOSTA:

In entrambi i casi gli elementi sono ridondanti, a rigore, in quanto ricavabili dal contesto. Non è però scorretto specificarli, se si vuole sottolineare un aspetto particolare. Dato che personalmente opto sempre per una sintassi e una semantica ergonomiche, suggerirei di eliminare entrambi gli elementi.

In tutte le prime tre frasi, la stessa reggente «non esclude che» implica che il capitare o no di una certa esperienza sia una possibilità, non una certezza, e questo rende pleonastico il servile potere. Suggerirei di evitarlo per non appesantire ulteriormente la sintassi frasale.

Nella quarta frase il disinteresse del soggetto è talmente evidente («Non mi ricordo» ecc.) da rendere inutile «poco». Anche in questo caso ne suggerirei l’eliminazione.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Salve quale affermazione è corretta?

Grazie per esserci stata vicinO

Grazie per esserci stata vicinA

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette, perché vicino ha due diversi valori in italiano: come aggettivo o come avverbio. Come aggettivo richiede l’accordo di genere e di numero («stati vicini», «state vicine») con il nome o il pronome cui si riferisce, come avverbio è invece invariabile. Pertanto in «Grazie per esserci stata vicina», vicino è un aggettivo e come tale va accordato con il soggetto (sottinteso) cui si riferisce (cioè tu). In «Grazie per esserci stata vicino» invece vicino è un avverbio e come tale non cambia né nel genere né nel numero («stati vicino», «state vicino»). Come avverbio vicino è simile a «accanto».

Il significato delle due frasi non cambia nella sostanza, anche se il valore aggettivale è meno impersonale e dunque, in certo qual modo, più caloroso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.

«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».

C’è qualche regola da seguire?

Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.

Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».

 

RISPOSTA:

In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).

Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.

«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».

«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».

Fabio Rossi

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QUESITO:

“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?

 

RISPOSTA:

Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

L’ambiguita’ fa parte della bellezza e della frustrazione della lingua italiana dato che la particella <>  puo’ indicare diverse cose. Lo sapevo gia’.
Per evitare questi malintesi, che cosa puo’ consigliarmi? Devo evitare questo uso di ci nelle frasi che le ho girato o devo cambiare i miei interlocutori (scherzo).
Questo tipo di cosa mi succede abbastanza frequentemente anche se provo a fare pratica con gli italiani colti.   A volte mi fa impazzire quando va cosi’.    Vuol dire che la lingua italiana debba essere semplificata?  Forse vuol dire che in questi giorni con la tecnologia, i bombardamenti delle informazioni, non c’e’ tempo per studiare bene la lingua italiana in Italia.  Ne sono molto curioso.
Questo tipo di cosa succede anche tra le madrelingue?   Immagino di si’ dato che la lingua e’ a volte ambigua.  Potrebbe fare un’ipotesi per spiegarmi come mai due dei miei interlocutori non mi abbiano fatto una domanda per farmi chiarire quello che volevo dire con la particella ci???
 

 

RISPOSTA:

Come dice lei, l’ambiguità fa parte di tutte le lingue naturali del mondo. Se così non fosse, ci vorrebbe una quantità infinita di segni (parole, frasi ecc.) per esprimere un rapporto univoco segno / significato, ma la memoria umana non è fato per gestire l’infinito, pertanto ci si deve rassegnare alla polisemia (cioè al fatto che uno stesso segno, parola, frase, abbiano più significati) e all’ambiguità. Ambiguità che peraltro 99 volte su cento il contesto e la collaborazione tra gli interlocutori contribuiscono a limitare. Proprio per questo i suoi interlocutori, in quanto parlanti nativi e attivi, cioè collaborativi, non hanno avuto alcun problema a disambiguare, grazie al contesto, il suo enunciato.
Di casi come questi ne troverà a miliardi, in tutte le lingue del mondo, e non sono un male, bensì un bene delle lingue. Appunto perché consentono di risparmiare le risorse della nostra limitata memoria. La polisemia non ha nulla a che vedere né con lo studio, né con l’imperizia dei parlanti, né con la decadenza, o la semplificazione, delle lingue. Comunque, tutte le lingue tendono alla semplificazione delle risorse.
Quindi dorma pure sonni tranquilli e confidi nella forza del contesto e nello spirito collaborativo dei suoi interlocutori.
Per quanto riguarda (tra i miliardi) altri esempi possibili di polisemia di ci, nei vari contesti, pensi anche a un verbo pronominale come tenerci, che può indicare sia ‘avere interesse per qualcuno o qualcosa’, sia ‘tenere in un luogo’:
1) (riferito a una scatola): ci tengo (nel senso di ‘mi piace molto’)
2) ci tengo le sigarette.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Pronome
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QUESITO:

Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato.  (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
 Le ho risposto:  Spero che tu CI abbia portato dei soldi.    
Intendevo “a Madrid” per CI.     E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano.  Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male.   E’ una questione del verbo?  E’ locuzione?  Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire).  Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”  
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?

 

RISPOSTA:

Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario. 
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.

Fabio Rossi 

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QUESITO:

Se si dice: “L’esame è andato abbastanza bene” vuol dire che è andato meglio o un po’ meno bene di quando si dice:  “L’esame è andato bene”?
È preferibile che il nostro esame vada bene o abbastanza bene?

 

RISPOSTA:

Il siciliano abbastanza non ha lo stesso significato dell’equivalente parola italiana. In italiano con abbastanza si indica di solito una quantità appena sufficiente, o di poco superiore alla sufficienza, cioè quanto basta, laddove il siciliano l’intende come quasi sinonimo di molto. Motivo per cui, se in Sicilia un esame passato abbastanza bene è lodevole, in italiano esso rappresenta un risultato mediocre. Insomma, in italiano è preferibile che l’esame vada bene, piuttosto che abbastanza bene.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

a) I negozi che sono vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.

Credo che entrambe le soluzioni siano corrette.

Vorrei sapere se rendendo la frase ellittica del primo predicato il parlante possa
comunque decidere quale soluzione adottare.

b) I negozi vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.

 

RISPOSTA:

Entrambe le soluzioni vanno bene, e sono chiare, sia nella versione con verbo espresso, sia nella versione nominale, cioè priva di verbo.
Vicino a è locuzione preposizionale costruita con l’avverbio (come tale invariabile) vicino + la preposizione a.
Vicini è invece l’aggettivo (e come tale flesso) costruito con la preposizione a (ovvero un aggettivo che richiede un argomento preposizionale). Non c’è alcun motivo per preferire l’una costruzione all’altra.

Fabio Rossi

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QUESITO:

È corretto scrivere fuori dal o fuori del?

 

RISPOSTA:

La forma comune è fuori dal (e fuori dallodalla ecc.); fuori di si usa soltanto in alcune espressioni cristallizzate, nelle quali non si mette l’articolo, come fuori di casa e fuori di testa (ed equivalenti, come fuori di zuccadi melone ecc.). Con gli avverbi di luogo quiqua sono possibili sia fuori da sia fuori di.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Avverbio, Preposizione
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QUESITO:

Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo

Marco non era a casa
Marco non c’era a casa

Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?

 

RISPOSTA:

“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Una commentatrice mi ha contestato la costruzione di una frase tramite l’estensore del seguente articolo:
«“Ancora una volta XXX NON perde occasione per tacere e fare un uso sconsiderato e violento dei social network – afferma YYY –”… che dovrebbe, prima, imparare l’italiano (Non per difendere XXX, ma la nostra lingua)».
Faccio osservare alla commentatrice che:
«Non capisco se ti riferisci al NON, visto che l’hai evidenziato:
“La negazione espletiva (o fraseologica) è in linguistica la comparsa facoltativa di un elemento con valore di negazione (ad esempio, l’italiano non), senza che cambi il significato della frase. Si parla anche di negazione pleonastica, dato che la presenza della negazione è ritenuta superflua (pleonastica) o giustificata al più da considerazioni stilistiche.”. O trattasi di altro?».
Al che lei ribatte:
«Trattasi del fatto che, col non, il concetto assume proprio il significato opposto.
Avrebbero dovuto scrivere perde l’occasione di tacere o non perde l’occasione di fare un uso sconsiderato etc etc. I due concetti sono in antitesi. Il primo è considerato positivo e il secondo negativo, ma li hanno accorpati nella stessa frase usando lo stesso verbo. OK?». 
Per me ci sono due questioni. La prima è che quel NON può essere considerato una negazione pleonastica o espletiva, per cui …NON perde occasione per tacere… ha lo stesso valore di … perde l’occasione di tacere…; la seconda è che le frasi non sono affatto in antitesi, in quanto nella seconda …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sottesa la stessa condizione che ha definito la prima, ovvero e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network.
Infatti, di nuovo faccio osservare che:
«E infatti avevo intuito giusto. Quel NON non è una negazione vera e propria, ma un accorgimento stilistico che non cambia il senso della frase, come ho evidenziato nella citazione riportata. Frase che resta sempre del valore di perde l’occasione di tacere. Inoltre, se nel primo concetto, cioè perde occasione per tacere è stato specificato il NON, nel secondo …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sotteso, per cui diventa …(NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network. Insomma, il comun denominatore è NON perde occasione…, i concetti a cui si riferisce sono per tacere… e …  (di) fare uso…».
A giustificazione, porto gli esempi della Treccani:
“Non sono propriamente negative le frasi comparative, esclamative e temporali, nelle quali il non (soggetto a frequenti oscillazioni nell’uso) è solo espletivo, cioè riempitivo e opzionale:
a. è più furbo di quanto non pensassi
b. quante sciocchezze non ha detto!
c. l’ho aspettato finché non è arrivato”.
Ora, anche se la frase imputata, a mio avviso, potrebbe rientrare benissimo nella categoria del caso “b.” riportato da Treccani, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutrice, Le chiedo: abbiamo a che fare o no con una negazione espletiva?

 

RISPOSTA:

La commentatrice ha ragione: il non nella sua frase non è pleonastico, ma ha pieno valore sintattico. Lo dimostrano due rilievi: 1. se lo eliminiamo la frase passa a significare l’opposto (mentre se eliminiamo un non pleonastico la frase continua ad avere lo stesso significato); 2. come lei stesso argomenta, il non ha pieno valore in relazione al secondo verbo (non perde occasione per fare un uso sconsiderato…): ha, quindi, necessariamente lo stesso valore proprio nel primo caso (non perde occasione per tacere). Non è possibile, insomma, che il non abbia, all’interno della stessa costruzione duplicata (non perde occasione), prima un valore e poi un altro. La frase corretta potrebbe prendere due strade: negare due azioni valorialmente negative, per esempio così: “Ancora una volta XXX non perde l’occasione per parlare a sproposito e fare un uso sconsiderato e violento dei social network”; affermare due azioni valorialmente positive, per esempio così: “Ancora una volta XXX perde l’occasione per tacere e per fare un uso moderato e pacifico dei social network” (soluzione sicuramente meno incisiva).
Si noti che nella riscrittura ho sostituito l’espressione perdere occasione con perdere l’occasione, perché la variante senza articolo è adatta a descrivere comportamenti in modo generico (non perde mai occasione per fare una battuta), mentre qui si parla di un evento specifico, per quanto inserito nel quadro di un comportamento.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Coerenza, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.

 

RISPOSTA:

Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosatu vedi di fare la stessa cosa con menon so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Monica ha braccia più che robuste, spalle larghe, ecc.”,
robuste è aggettivo, invece “più che” è una locuzione oppure serve per formare il
superlativo assoluto?

 

RISPOSTA:

Più che robuste è superlativo assoluto, dunque più che in questo caso è una locuzione avverbiale che sta per ‘molto’.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Leggo e sento spesso frasi del tipo “Mi manca NON poterti abbracciare”, “Mi manca NON poterti sentire”…
A mio avviso il NON non è necessario perché il senso di queste frasi è “vorrei tanto poterti abbracciare/sentire, peccato che non sia possibile!”.
Perché allora c’è chi sbaglia? Come può essere spiegato questo errore?

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: a rigore, le frasi da lei riportate significano il contrario di quello che certamente intendono comunicare. Questa contraddizione, però, è quasi giustificabile, tanto che la considererei un errore veniale (almeno in contesti informali). Il verbo mancare, infatti, contiene due significati combinati: ‘non avere qualcosa’ e ‘soffrire (per la condizione del non avere qualcosa)’. Nelle frasi che lei riporta emerge chiaramente il tratto del soffrire, mentre quello del non avere si ricava per deduzione. L’emittente, evidentemente, sente l’esigenza di esplicitare questo tratto, cioè che allo stato attuale l’evento (dell’abbracciare, del sentire o altro) non si sta verificando attraverso l’avverbio non.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho l’abitudine di inserire in molte delle mie costruzioni l’aggettivo “eventuale”. 

Dopo anni e anni di impiego largo e sistematico ho iniziato a domandarmi se esso sia stato, e sia, superfluo. Non vorrei che la semantica delle frasi, o la semplice logica, portasse allo stesso risultato finale per il mittente, anche se l’aggettivo fosse espunto.

Ecco un campionario di esempi:  

a) Bisogna controllare l’eventuale buona riuscita dell’esperimento.
b) È opportuno verificare l’eventuale assenza del delegato.
c) Il vincitore dovrà eventualmente partecipare alla premiazione?
d) Gli esaminatori valuteranno i progetti e ne giudicheranno l’eventuale approvazione.
e) Dati aspetti della circolare sono determinanti ai fini di un eventuale stato di agitazione.

 

RISPOSTA:

In effetti  in tutti gli esempi citati eventuale ed eventualmente sono pleonastici, perché l’eventualità del fatto è implicata dal contesto o dal significato del verbo:
a) se bisogna controllarla, vuol dire che che la buona riuscita non è assodata, ma va per l’appunto controllata;
b) idem per verificare;
c) l’eventualità è data dalla domanda stessa;
d) valutare e giudicare sono alla stregua di controllare e verificare;
e) forse è questo l’unico caso in cui eventuale possa agevolare la comprensione dell’enunciato, dal momento che lo stato di agitazione potrebbe essere dato per assodato, se non ci fosse eventuale; anche se dal senso generale dell’enunciato si capisce che essere determinante ai fini di qualcosa ha senso soltanto se questo qualcosa esiste, altrimenti il discorso non avrebbe senso; e dunque direi che eventuale è tranquillamente omissibile anche in questo caso.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Leggendo la frase “L’autunno arrivò precocemente” mi è venuto un dubbio: precocemente è un avverbio di tempo o di modo?

 

RISPOSTA:

Per rispondere bisogna chiedersi se l’avverbio fornisca informazioni sul tempo o sul modo in cui è avvenuto l’evento dell’arrivare. A ben vedere, ci sono ragioni a favore dell’una e dell’altra opzione, ma concluderei che l’informazione temporale è in questo avverbio più forte di quella modale. Dobbiamo, insomma, considerare questo avverbio affine più a prima (avverbio di tempo) che a bene (avverbio di modo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Avverbio
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Quale affermazione è corretta?

Ci porterà molto fortuna.
Ci porterà molta fortuna.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda, nella quale molta è un aggettivo che accompagna fortuna, è di gran lunga più comune. Nella prima molto è un avverbio che si riferisce a tutta la frase. Per cogliere con più chiarezza il significato della prima frase si può sostituire molto con il sinonimo grandemente: “Ci porterà grandemente fortuna”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?

 

RISPOSTA:

Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).

Fabio Rossi

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QUESITO:

E’ corretto proporre tra i sinonimi di “sovente” anche “solitamente”, oppure vuol dire solo “spesso”?
 

 

RISPOSTA:

No, il francesismo sovente ha soltanto il significato di “spesso”, oppure, nel raro e arcaico uso come aggettivo, di “frequente”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto la sua voce e la sua postura” è ben costruita?
In particolare, sono corrette le ellissi della congiunzione tanto dopo colpito per stabilire la correlazione con quanto e quella del predicato verbale nella seconda metà della frase? Peraltro tale predicato, relativo a la sua voce e il suo portamento, dovrebbe essere al plurale; è comunque accettabile che il predicato non mi aveva colpito, singolare, regga tutta la frase?

 

RISPOSTA:

L’avverbio quanto è usato spesso in correlazione con tanto; l’assenza di quest’ultimo, però, è possibile e non può essere, pertanto, considerata un errore.
La concordanza tra il predicato singolare non mi aveva colpito e il soggetto plurale la sua voce e il suo comportamento è a rigor di grammatica scorretta, ma visto che la comprensione non è messa in discussione si può considerare accettabile, per quanto imprecisa. L’alternativa più precisa, si badi, non è non mi avevano colpito il suo sguardo, quanto…, che sarebbe ancora peggiore di quella iniziale, bensì non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto mi avevano colpito…
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Il comparativo di maggioranza o minoranza con il verbo piacere si forma usando di oppure che?

 

RISPOSTA:

Gli avverbi più e meno che accompagnano il verbo piacere non formano un comparativo, perché non sono uniti a un aggettivo, ma sono comunque seguiti da un secondo termine di paragone: “Il cinema mi piace più della televisione”. In questi casi, quindi, tali avverbi sono autonomi e possono richiedere sia la preposizione di sia la congiunzione che. Se il secondo termine di paragone è un nome o un pronome si possono usare entrambe: “Il cinema mi piace più della televisione” / “Il cinema mi piace più che la televisione”. Il che è più comune se il secondo termine di paragone è anticipato: “Più che la televisione mi piace il cinema”, oppure se il primo termine di paragone è posto dopo il verbo: “Mi piace il cinema più che la / della televisione”. La differenza tra le due forme è che la preposizione costruisce il secondo termine di paragone come un sintagma (complemento di paragone): il cinema mi piace / più della televisione; la congiunzione, invece, lo costruisce come una proposizione (proposizione comparativa): più che (mi piace) la televisione / mi piace il cinema, oppure mi piace il cinema / più che (mi piace) la televisione.
Per questo motivo, se il secondo termine di paragone è una proposizione, o anche soltanto un infinito verbale, il secondo termine di paragone è senz’altro introdotto da che: “Mi piace andare al cinema più che guardare la televisione”, “Mi piace sciare più che nuotare”. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei esporre un dubbio sull’analisi del periodo di una coordinata introdotta dalla congiunzione “anzi” e che, a detta delle grammatiche correnti, dovrebbe inserirsi tra le coordinate avversative.
La frase è questa:
-Restituiscimi i miei soldi: proposizione principale
-O non ti darò più nulla, : coordinata alla principale (disgiuntiva)
– anzi non ti considererò più un amico: coordinata di tipo avversativo? In realtà, a me sembra avere un valore accrescitivo (non solo non ti darò più i soldi, in più non ti considererò come amico) o di tipo sostitutivo (in sostituzione della prima minaccia ne uso un’altra).
È lecito il mio ragionamento? Come si può definire in questo caso la congiunzione?
 

 

RISPOSTA:

In effetti qui non si tratta tanto di contrastare qualcosa (avversativa), quanto, semmai, di aggiungere una minaccia. Casi come questi, perfettamente comuni e corretti, mostrano quanto le categorie della grammatica (intesa come libri di grammatica) siano molto più strette, poco utili, poco funzionali e spesso incoerenti di quelle della Grammatica (intesa come funzionamento di una lingua).
Nei libri di grammatica, per comodità e per brevità, la relazione di sostituzione viene di solito trattata insieme a quella avversativa, e dunque in fondo l’analisi che lei ha trovato non è del tutto scorretta, ancorché migliorabile. Nella sua frase, tuttavia, il valore di anzi non è tanto quello di congiunzione, bensì quello di avverbio, o meglio di segnale discorsivo, col valore di ‘e per di più, addirittura’ o simili.
Come ben mostra questo esempio, il confine tra coordinate e subordinate è davvero molto debole, talvolta, ed è il classico confine posto dai libri di grammatica più che dalla Grammatica della lingua, che vede le due relazioni (di paratassi e ipotassi) pressoché sullo stesso piano.
In questo caso le strade per analizzare questo periodo sono almeno tre (oltre a quello di anzi… come avversativa), tutte e tre difendibili:
1) considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata di tipo aggiuntivo (sebbene i libri di grammatica di solito non annoverino questa categoria);
2) Considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata per asindeto, visto che anzi ha qui valore più avverbiale che di congiunzione (e sempre di valore aggiuntivo);
3) Concentrarsi soltanto sul valore semantico del periodo e analizzarlo, dunque, così:
– Restituiscimi i miei soldi = se non mi restituisci i miei soldi (ipotetica)
– o non ti darò più nulla = non ti darò più nulla (principale)
– anzi non ti considererò più un amico = coordinata per asindeto (oppure aggiuntiva) alla principale.
Il suo ragionamento è del tutto valido e mostra una notevole capacità di riflessione metalinguistica

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Queste due domande sono uguali come significato, nonostante in una ci sia il non?
Siamo sicuri di essere invece in ritardo?
Siamo sicuri di non essere invece in ritardo?

 

RISPOSTA:

Non sono uguali, sebbene siano molto simili. Nella prima si mette in dubbio la certezza di essere in ritardo; nella seconda si esprime un dubbio circa la possibilità di essere in ritardo. La prima si userebbe per obiettare a un’affermazione di certezza di ritardo (equivale a ‘non sono sicuro che siamo davvero in ritardo); la seconda si userebbe autonomamente (equivale a ‘forse siamo in ritardo).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Non capisco se, in queste frasi, quello indicato in corsivo sia un complemento di modo o predicativo. C’è un “trucchetto” per imparare a distinguerlo senza avere dubbi?
1. “FRANCESCO CORRE VELOCE VERSO LA PALESTRA” (qui direi che si tratta di un COMPL. DI MODO perché posso trasformarlo nell’avverbio velocemente; ma sarebbe errato del tutto considerarlo compl. predicativo?).
2. SE NE ANDÒ ZITTO ZITTO A CASA.

 

RISPOSTA:

Per distinguere l’aggettivo con funzione predicativa da quello con funzione avverbiale bisogna considerare se esso descrive uno stato o una qualità del soggetto (predicativo) oppure un modo di realizzazione dell’azione (avverbiale). Spesso questa distinzione è abbastanza netta, ma ci possono essere casi dubbi. Nei suoi due esempi, veloce è decisamente un aggettivo avverbiale (quindi, dal punto di vista dell’analisi logica, un complemento di modo), perché la qualità della velocità si riferisce all’azione del correre, non al soggetto; zitto zitto è direttamente una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente, quindi è senz’altro un complemento di modo. Diversamente, in una frase come “Se ne andò zitto a casa” zitto sarebbe un aggettivo predicativo (quindi un complemento predicativo), perché descriverebbe non il modo di andare, ma una qualità temporanea del soggetto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Analisi logica, Avverbio
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Non so quale frase – o quali, nel caso ce ne sia più di una – tra queste sia scorretta.
Il dubbio verte sulla declinazione del termine dritto.
1a) I ragazzi guardarono dritto negli occhi le ragazze.
1b) I ragazzi guardarono dritti negli occhi le ragazze.
1c) I ragazzi guardarono dritte negli occhi le ragazze.

 

RISPOSTA:

L’unica forma possibile è dritto, perché il termine qui è usato come avverbio di modo ed è, quindi, invariabile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho letto in un libro questa frase: “Era mezzo morta di paura”. Io direi: “Era mezza morta di paura”, essendo mezza un aggettivo. Mi è stato detto che mezzo può essere usato anche come avverbio e di conseguenza l’espressione mezzo morta potrebbe essere considerata corretta. Lo conferma?

 

RISPOSTA:

Nell’espressione da lei citata mezzo è chiaramente un avverbio, quindi deve rimanere invariato a prescindere dal genere dell’aggettivo che accompagna. Funziona, cioè, come moltomolto buonamolto buone ecc. Che sia un avverbio e non un aggettivo è facilmente dimostrabile: mezza morta, infatti, non funziona né sintatticamente né semanticamente. Dal punto di vista sintattico, due aggettivi predicativi in sequenza non separati da una congiunzione o da una virgola sono molto strani: “- Com’era la macchina che hai visto? – Era rossa veloce”; dal punto di vista semantico, l’aggettivo mezzo significa ‘diviso a metà’, e non credo che la signora soggetto della frase fosse divisa a metà, oltre che morta di paura. Piuttosto, la signora era parzialmente morta di paura, ovvero mezzo = parzialmente
Nella lingua d’uso si possono incontrare espressioni come mezza mortamezza matta o simili perché l’avverbio mezzo è molto più raro dell’aggettivo mezzo, quindi il parlante è indotto a credere che mezzo sia sempre un aggettivo. Signora mezza morta, però, equivale, lo ripeto, a *bicicletta molta vecchia (al posto di molto vecchia).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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QUESITO:

È più corretto dire una volta solo o una volta sola? So che comunque si dice spesso solo una volta.

 

RISPOSTA:

Solo una volta e una volta sola sono espressioni comuni, corrette e praticamente sinonimiche. Nella prima solo è un avverbio, equivalente a solamente, nella seconda sola è un aggettivo, concordato con voltaUna volta solo è possibile e corretta, al pari di una volta solamente, ma è sfavorita dai parlanti rispetto a una volta sola
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le alternative al seguente esempio, segnalate con 1a, 1b e 1c, sono equivalenti e, soprattutto, anche in caso di differenze a livello di significato, si qualificano come accettabili dal punto di vista grammaticale?
1) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se fosse brutto tempo, starei a casa.
1a) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se non lo fosse, starei a casa.
1b) Se fosse bel tempo, andrei al lago. In caso contrario, starei a casa.
1c) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Diversamente, starei a casa.

 

RISPOSTA:

Si tratta di alternative tutte corrette e semanticamente praticamente equivalenti, tra le quali si può scegliere in base a criteri stilistici soggettivi. Una piccola sfumatura semantica distintiva si nota nelle ultime due, che aggiungono una locuzione avverbiale e un avverbio, quindi dicono qualcosa in più delle altre due. In caso contrario sottolinea l’opposizione delle due situazioni; diversamente non mette le due situazioni in contrapposizione, ma le qualifica, appunto, come diverse. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Vi domando se l’aggettivo dimostrativo questo possa essere usato anche in costruzioni al passato per creare, per così dire, un effetto di vicinanza, non tanto fisica, quanto ideale.
Sarebbe meglio propendere per quello, oppure, a seconda degli intenti semantici del parlante, entrambi sono ammessi?

1. Marco si mise la mani nei capelli e iniziò a piangere: questo (quel) suo disperarsi non mancò di turbarmi.

2. Quella mattina di maggio, Marco ricominciò a parlare della sua infanzia: questa volta si soffermò sul rapporto conflittuale con la propria madre.

In quest’ultimo esempio, mi sentirei di giustificare questa volta in opposizione a un’ipotetica quella volta, così da marcare uno stacco temporale tra due momenti storici distinti (ed entrambi situabili nel passato).

 

RISPOSTA:

L’uso di parole deittiche (cioè ‘che indicano’) di vicinanza, questoquiora e simili, è consentito anche nel discorso indiretto al passato per rendere più vivido il racconto, proprio “avvicinando” la situazione. Questa scelta è alla base del cosiddetto discorso indiretto libero (rimando alla risposta  “Apposizioni modali-associative e dintorni” dell’archivio di DICO per un approfondimento su ora).
Nella frase 2 non si può evocare la sua giustificazione per la scelta di questa, visto che la volta coincide con quella mattina, quindi ci si aspetterebbe quella voltaQuesta rimane comunque una scelta possibile per la ragione illustrata sopra.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Sintassi marcata
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qual è il connettivo giusto? 
“Non mi trovi piu bella che / di prima?”
Come posso scegliere la forma giusta davanti agli avverbi?

 

RISPOSTA:

Quando si mettono a confronto due avverbi, il secondo è introdotto sempre da chemeglio prima che dopomeglio dopo che primameglio bene che velocemente
Anche in questo caso si userebbe che se l’avverbio che rappresenta il primo termine di paragone fosse esplicitato: più bella ora che prima. Senza l’avverbio ora si può ancora usare che (più bella che prima), ma la frase suona strana, perché sembra che si stia facendo un confronto, impossibile, tra l’aggettivo bella e l’avverbio prima. La forma più bella di prima permette di evitare questa ambiguità (la preposizione di, infatti, indica una relazione più ampia rispetto a che). Più bella di prima è, quindi, preferibile a più bella che prima
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso delle negazioni no e non nelle seguenti frasi: “È una risposta sincera non / no ironica”, “L’informazione mi è arrivata tramite la mia mail personale, no / non su quella istituzionale”.

 

RISPOSTA:

No (come anche ) si usa sempre da solo: è una parola olofrastica, cioè che da sola sostituisce una frase: “- Vieni al cinema? – No (= ‘non vengo al cinema’)”. Al contrario, non non può essere usato da solo, ma serve, invece, a negare un sintagma verbale (non vengo), nominale (ho visto Piero, non Arturo), aggettivale, come nel suo primo esempio (non ironica), preposizionale, come nel suo secondo esempio (non su quella istituzionale).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Scrivendo “Il procuratore disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita” senza l’ausilio del cosiddetto co-testo, potrei, dal punto di vista sintattico, collegarmi tanto al futuro quanto al passato?
1. avrebbe dovuto essere demolita = ‘dovrà essere demolita’.
2. avrebbe dovuto essere demolita = ‘doveva essere stata già demolita’.
In che modo si può disambiguare il periodo, usando soltanto le forme verbali?

 

RISPOSTA:

La frase è effettivamente ambigua: il condizionale passato dei verbi servili serve normalmente per esprimere un evento controfattuale nel passato (avrebbe dovuto / potuto / voluto essere presente ma non ce l’ha fatta), ma, quando è retto da un verbo di dire o pensare al passato, viene a coincidere con il costrutto del futuro nel passato (arricchito dalla sfumatura modale apportata dal verbo servile), senza perdere, però, l’altra funzione.
Eliminando il verbo servile il condizionale passato assume soltanto la funzione di futuro nel passato: disse che la costruzione sarebbe stata demolita. Proprio questo è un modo per evitare l’ambiguità nel caso in cui il costrutto sia da intendere come futuro; la sfumatura deontica (quella fornita dal verbo dovere) può essere recuperata con un avverbio di giudizio: disse che la costruzione sarebbe stata sicuramente demolita. Un altro modo per ovviare al problema è aggiungere un avverbio di tempo o un’espressione temporale. In questo modo si può usare il costrutto per il passato o per il futuro: disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita tempo prima / disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita di lì a un anno
Fabio Ruggiano
 

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QUESITO:

Si può dire “La citta di… ha i piu abitanti / è la citta con i piu abitanti rispetto ad altre citta (cioè con il numero piu alto di abitanti)?

 

RISPOSTA:

Più può essere avverbio o aggettivo. Quando è avverbio è seguito da un aggettivo (più bello) e può essere preceduto dall’articolo determinativo per fare il superlativo relativo (il più bello del mondo); quando è avverbio è seguito da un nome (più abitanti) e non può essere preceduto da un articolo determinativo (*i più abitanti). Per fare il comparativo di maggioranza con un nome, quindi, basta dire “La città di XXX ha più abitanti di XXX”; per fare il superlativo relativo, invece, bisogna sostituire più con una espressione equivalente, per esempio “La città di XXX ha il maggior numero di abitanti della regione”.
Attenzione: nel caso di “La città di XXX ha più abitanti rispetto ad altre città vicine” siamo sempre di fronte a un comparativo di maggioranza (non a un superlativo relativo), perché si confronta un dato con un altro dato, anche se quest’ultimo è composto da più dati. Per questo motivo, come si vede, in questo caso si può dire più abitanti rispetto a… (ovviamente senza l’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio
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QUESITO:

In tempi relativamente recenti, mi pare che sia invalso l’uso (o l’abuso?) della congiunzione anche in contesti forse impropri (mi riferisco in special modo al primo dei due esempi sotto riportati).
“Ti va di studiare? Anche no”,
“Hai scritto tanto, talmente tanto che anche la metà bastava”.
Fermo restando che in quest’ultima costruzione si sarebbe potuta migliorare la sintassi del verbo (ho scelto di presentare le frasi come le avevo sentite pronunciare); la congiunzione anche in entrambi gli esempi è ben impiegata?

 

RISPOSTA:

Non si può dire che nelle frasi da lei proposte ci siano degli errori. Si tratta certamente di frasi adatte a contesti informali, in cui non si bada molto alla precisione, ma, al contrario, si cerca di caricare la lingua di espressività emotiva. La congiunzione anche si presta a questo scopo perché permette di presentare come alternativa, quindi meno perentoria, una soluzione in realtà contraria a quella proposta dall’interlocutore. In questo modo la soluzione contraria risulta più cortese, quindi più socialmente accettabile, e si può arricchire anche di una sfumatura ironica. 
Nel suo primo esempio la congiunzione presenta la negazione decisamente netta no come un’alternativa possibile tra altre: si tratta certamente di un modo per rendere più cortese il rifiuto, ma si intravede, oltre a questo, un intento ironico nel contrasto tra la nettezza della negazione e l’apertura alla possibilità garantita dalla congiunzione anche.
Nel secondo esempio l’ironia è meno percepibile (probabilmente è assente), mentre rimane chiaro l’intento di moderare la perentorietà della proposta alternativa. Senza anche il giudizio sulla quantità della scrittura prodotta risulta automaticamente critico; con anche, invece, la soluzione di scrivere la metà è presentata come alternativa possibile che non esclude l’altra.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Retorica
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QUESITO:

La costruzione “non mi esprimerei in termini (tanto) emotivi quanto professionali” equivale a “non mi esprimerei tanto in termini emotivi quanto in termini professionali”?
È una soluzione ragionevole per evitare la ripetizione della locuzione in termini?
Sia nel primo sia nel secondo esempio – dunque, in generale – la congiunzione tanto è omissibile?

 

RISPOSTA:

La costruzione tanto in termini… quanto in termini non è equivalente a in termini tanto… quanto.
Nel primo caso abbiamo una correlazione negativa, che contrappone due possibilità contrastanti: ‘non mi esprimerei in termini emotivi; mi esprimerei, piuttosto, in termini professionali’. Nel secondo caso, invece, abbiamo una correlazione positiva, che mette le due possibilità dalla stessa parte: ‘non mi esprimerei in termini né emotivi né professionali’.
L’omissione di tanto in entrambi i casi rende improbabile l’interpretazione positiva. Sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto professionali”, sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto in termini professionali” rappresentano la contrapposizione tra due possibilità contrastanti.
Di conseguenza, se, invece, si vuole presentare una correlazione positiva, è necessario mantenere tanto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Coerenza, Congiunzione
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QUESITO:

“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?

 

RISPOSTA:

L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare fortetenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunistamangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei chiedere dove e come potrei attingere informazioni per capire quando è possibile usare l’espressione e non, come nella frase “Si è servito di strumenti tecnologici e non”.

 

RISPOSTA:

L’avverbio non si usa davanti al sintagma o la frase negata dall’avverbio stesso. In alternativa, può essere usato davanti a un inciso, seguito dal sintagma o la frase negata: “Mario ha 40 anni e non, come lui sostiene, 36”.
Quando, invece, la negazione riguarda il sintagma precedente si usa no
L’espressione e non è usata comunemente, nel parlato e nello scritto, anche al posto di e no. La ragione di questo uso è che il parlante suppone che non sia comunque seguito dal sintagma precedente sottinteso; per esempio: tecnologici e non (tecnologici). Si tratta di una possibilità non necessaria, vista la presenza di e no, ma, visto che è di uso comune, può essere accettata in contesti informali; in contesti formali e ufficiali, invece, è preferibile la forma normale.
Si consideri che la sostituzione di e no con e non è impossibile quando a essere negata è una frase o un verbo: “Vieni o no al cinema?” (*”Vieni o non al cinema?”); “Quello lo conosco, quell’altro no” (*”Quello lo conosco, quell’altro non”).
Una breve illustrazione dell’alternanza tra no e non è nel volume Italiano di Luca Serianni, Milano, Garzanti, 1997, p. 352.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vi scrivo per esporvi la confusione generatami dalla voce Proposizioni temporali dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani curata da Federica Da Milano. Qui ( http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi-temporali_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/) l’ autrice scrive la seguente frase “Per quanto riguarda l’espressione della posteriorità (l’azione espressa dalla subordinata è posteriore a quella della reggente), nelle temporali esplicite si utilizza la locuzione congiuntiva prima che“; viceversa per l’anteriorità la subordinata è introdotta da dopo che, sempre secondo l’autrice della voce. In pratica è il capovolgimento di quello che mi è sempre sembrato di leggere dalle grammatiche – e che sulla stessa Treccani si trova a un’altra voce dedicata alle temporali (qui http://www.treccani.it/enciclopedia/proposizioni-temporali_%28La-grammatica-italiana%29/).

 

RISPOSTA:

Per quanto possa sembrare controintuitivo al primo sguardo, la voce dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani è corretta. Si noti il seguente esempio: “Prima che Luca arrivasse ci stavamo divertendo”; è chiaro che il divertimento era in corso prima rispetto all’arrivo di Luca, quindi la subordinata introdotta da prima che contiene un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Lo stesso, ma al contrario, vale per la temporale introdotta da dopo che. In altre parole, nella locuzione prima che (e, specularmente, in dopo che), l’avverbio prima fa parte della reggente e il che introduce la temporale (ci stavamo divertendo prima / che tu arrivassi). 
Scorretta, invece, è la spiegazione della seconda fonte da lei citata, che lascia intendere il contrario.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho dei dubbi su alcuni esercizi sui pronomi proposti da un sussidiario di scuola primaria, secondo me un po’ confusi…
Nella frase “Molte volte veniamo disturbati per nulla”, nulla ha valore di pronome indefinito o di avverbio?
Nella frase “Mia sorella ha quattordici anni, ma vorrebbe averne diciannove per andare all’università”, diciannove è pronome numerale pur essendoci la particella ne che già sostituisce il nome?
Nella frase “Siamo due fratelli: Gianni ha quattro anni, io ne ho il doppio”, doppio ha funzione di pronome numerale?

RISPOSTA:

Il problema della prima frase è dovuto forse all’ambiguità dell’espressione per nulla. Questa, infatti, può significare tanto ‘per motivi futili, senza una vera ragione’, quanto ‘affatto, assolutamente no’. Il significato inteso nella frase è certaemente il primo (visto che il secondo si usa quasi esclusivamente in frasi negative): in questo caso nulla è pronome indefinito, sostituibile con nessuna cosa. Nel secondo caso nulla sarebbe, per la verità, sempre un pronome indefinito, che, però, insieme alla preposizione per forma una perifrasi o locuzione avverbiale. In una frase come “Dimmi pure, non mi disturbi per nulla”, per esempio, per nulla significa letteralmente ‘per nessuna cosa, per nessuna ragione, in nessun modo’; partendo da questo significato, la perifrasi si è cristallizzata dinenendo a tutti gli effetti un avverbio. 
Nulla si può usare come avverbio anche senza per: “Non me ne importa nulla”; anche qui è chiara la funzione di partenza di pronome (= ‘non me ne importa nessun aspetto’), che si è cristallizzata trasformando la parola in un avverbio.
Per quanto riguarda i numerali, nella prima frase diciannove è un pronome, e la presenza di ne non cambia la sua natura. Si noti che lo stesso avviene con nulla (“Non me ne importa nulla“) e avverrebbe con qualsiasi altro aggettivo/pronome indefinito: ne vorrebbe avere alcuni
Nell’ultima frase, il doppio è ancora pronome numerale. In questo caso, il dubbio potrebbe essere se doppio non sia da considerarsi nome (non può essere, invece, aggettivo, visto che è preceduto dall’articolo e ha chiaramente la funzione di rimandare a un altro referente). La natura quasi nominale degli aggettivi che non accompagnano nomi è già stata discussa nella risposta n. 2800253 dell’archivio di DICO (ma si può vedere anche la 2800269).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Ho letto che per definizione gli aggettivi indefiniti indicano una qualità o una quantità imprecisata. Non riesco però a immaginare un esempio in cui un aggettivo indefinito possa esprimere una qualità. Ancor meno dopo aver letto l’esempio riportato dal sito che ho consultato: era alquanto difficile. Non si tratta di avverbio?

 

RISPOSTA:

Ha ragione: gli aggettivi indefiniti non esprimono qualità, bensì caratteristiche legate alla quantità di un oggetto. Tale differenza si vede bene se confrontiamo l’aggettivo qualificativo diverso con l’aggettivo indefinito diverso (o, se vogliamo, l’uso qualificativo dall’uso indefinito dell’aggettivo diverso): 1. “I tuoi amici sono diversi dai miei” (= i miei amici hanno una certa qualità); 2. “Ho diversi amici a Genova” (= ho un numero imprecisato di amici). Ancora più chiara è la differenza nell’aggettivo certo: 1. “Sono certo della mia affermazione”; 2. “Ho una certa idea che tu mi stia mentendo”. Quando è usato come indefinito, certo significa ‘imprecisato’, che è per certi versi il contrario del significato assunto dall’aggettivo qualificativo.
Un’altra caratteristica degli aggettivi indefiniti è che alcuni possono essere usati come avverbi. Uno degli aggettivi con questa capacità è proprio certo: “Non è certo (= certamente) lui che stavo cercando”. Un altro è alquanto, che è, appunto, avverbio nella frase da lei riportata. Proprio alquanto, tra l’altro, al singolare è usato raramente, e soltanto con nomi non numerabili: alquanto zuccheroalquanto traffico; più spesso è usato al plurale (alquante personealquanti invitati). Ancora più spesso, invece, è usato come avverbio, per modificare un aggettivo, come nella sua frase, o un altro avverbio (alquanto velocementealquanto presto). 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi rivolgo a voi per un dubbio di analisi logica.
L’uomo = sogg.;
che = pronome relativo sogg. della subordinata;
è vissuto = pred. verb. della subordinata;
in modo onesto = compl. predicativo del sogg. della subordinata;
morì = pred. verb.;
sereno = compl. predicativo del sogg.
In modo onesto viene considerato da qualcuno complemento di modo, qual è la vostra opinione in merito?

 

RISPOSTA:

È senz’altro un complemento di modo, perché esprime in che modo si è svolta l’azione del vivere (tanto che si può anche sostituire con l’avverbio di modo onestamente). Sarebbe stato un complemento predicativo se avessimo avuto morì onesto, cioè ‘morì da uomo onesto’. Lo stesso, ma al contrario, vale per morì sereno, nella principale: sereno è un predicativo del soggetto, ma se al suo posto avessimo avuto morì serenamente (o morì in modo sereno) avremmo avuto un complemento di modo.
Aggiungo che il passaggio dal passato remoto (morì) della proposizione principale al passato prossimo (è vissuto) della relativa non è una buona scelta: è preferibile usare, nella subordinata, il passato remoto, l’imperfetto o anche il trapassato prossimo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se nel seguente testo le congiunzioni all’inizio delle frasi sono corrette. Inoltre, è preferibile scrivere che quando ARRIVI il momento dei saluti?

Mi piacerebbe scrivere che è tutta la vita che dico addio alle persone, perché amo le frasi ad effetto, ma sarebbe un po’ esagerato. E fa un po’ ridere ma è allo stesso tempo un po’ triste che quando arriva il momento dei saluti io me ne esca con un semplice “ciao”, come se fosse un giorno qualunque, come se fosse tutto a posto. Ma a volte non ci si saluta nemmeno. Nemmeno con un semplice ciao. E allora lo scrivo qui, per quelli a cui capiterà di leggerlo: ciao.

 

RISPOSTA:

Le congiunzioni a inizio frase sono legittime: hanno la funzione di collegare logicamente il pezzo di testo successivo al precedente, in un’ottica transfrastica, cioè che guarda non alle singole frasi come se fossero isolate, ma alla loro cooperazione nell’architettura del testo. In particolare, la e di e fa un po’ ridere… indica che l’enunciato successivo aggiunge una nuova considerazione a quella dell’enunciato precedente. La congiunzione ma di ma a volte capita, a sua volta, ha un significato concessivo; significa, cioè, ‘anche se è vero quanto ho detto finora, è anche vero quello che sto per dire adesso’. Nemmeno è considerato da molte grammatiche una congiunzione, ma è, piuttosto, un avverbio. Il collegamento tra l’enunciato nemmeno con un semplice ciao e il precedente è implicito, ed è di tipo esemplificativo: il nuovo enunciato, cioè, fornisce un esempio di come non ci si saluta. Infine, il significato della e di e allora lo scrivo qui… è chiarito dall’avverbio allora: la relazione tra i due enunciati è di consecuzione.
Per quanto riguarda il congiuntivo nella temporale quando arriva il momento, è un’alternativa possibile. Avrebbe come conseguenza l’innalzamento del livello di formalità (forse in modo eccessivo rispetto allo scopo del testo).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Registri
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Dopo le espressioni si dicedicono quale modo verbale si usa? 
Riguardo al condizionale passato, secondo le grammatiche lo si usa se nel presente o nel futuro un’intenzione non puo avverarsi. Ma pare che non sia obbligatorio. Cioè posso usarlo ma l’italiano permette in questi casi anche il condizionale semplice: “Verrei / sarei venuta con te al cinema ma ho molto da fare”.
Riguardo ai relativi che e il quale, quando sono alternative e quando si usa esclusivamente che?
1. Ci sono molte agenzie che / le quali organizzano viaggi economici per i giovani.
2. Ho parlato con il meccanico che / il quale mi ha detto che non riuscirà a riparare l’auto per giovedì.
3. Com’era lo spettacolo che avete visto ieri?  
4. Le informazioni che ci ha dato il vigile non erano corrette. 
Mi pare che quando si tratta di una proposizione soggettiva entrambi sono giusti, mentre se la subordinata è oggettiva si usa solo che. Ho ragione?

 

RISPOSTA:

Il verbo dire preferisce l’indicativo nella proposizione completiva: “Il giornale dice che ieri c’è stato un terremoto in Turchia”. Le espressioni si dice e dicono, però, ammettono facilmente il congiuntivo, perché sono impersonali: “Si dice / dicono che ci sia stato un terremoto in Turchia”. Quando dicono ha il soggetto, si comporta come dire in generale, e preferisce l’indicativo: “I miei amici dicono che sono simpatico”.
Il condizionale presente indica un evento possibile, che può ancora avverarsi; quello passato indica un evento molto improbabile o impossibile.
Il pronome relativo non ha niente a che fare con le proposizioni soggettive e oggettive. Queste ultime sono introdotte da che con funzione di congiunzione, non di pronome (infatti nelle oggettive e nelle soggettive che rimane sempre fisso: penso che…si dice che…).
Il quale non può sostituire che nelle relative limitative, cioè quelle che contribuiscono a identificare l’antecedente. Relative limitative sono quelle presenti nelle sue frasi 1, 3 e 4 (quindi nella 1 la sostituzione non va bene). In realtà la sostituzione non è vietata, ma non avviene mai. 
Il quale può sostituire che nelle relative esplicative, che aggiungono informazioni secondarie all’antecedente. Nella sua frase 2, per esempio, la relativa che mi ha detto non serve a chiarire chi sia il meccanico, ma aggiunge un’informazione riguardante ciò che il meccanico ha fatto. Nella 1, invece, la relativa chiarisce quali siano le molte agenzie appena nominate.
Per un approfondimento sulle relative limitative ed esplicative può consultare l’archivio di DICO con le parole chiave esplicativa ed esplicative.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Come si può migliorare la seguente frase?
“Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate entrambe limitanti”, nel senso che sono limitanti sia le convinzioni che le emozioni. 

 

RISPOSTA:

Innanzitutto le consiglio di mettere una virgola dopo collegate, perché la relativa implicita che segue è di tipo esplicativo (assimilabile a una causale: ‘perché sono limitanti’). Sulla relativa esplicativa si possono consultare le molte risposte nell’archivio di DICO usando la parola chiave esplicativa.
Inoltre, è meglio sostituire entrambe, perché questo aggettivo e pronome si riferisce a due oggetti singoli (significa ‘tutte e due’), mentre qui il riferimento è a due insiemi di oggetti. Per fare questo le soluzioni sono diverse. Si può usare un avverbio o una locuzione avverbiale: ugualmente limitantiparimenti limitantilimitanti allo stesso modo. Si può anche riformulare la frase: “Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate: sia le une che le altre, infatti, sono limitanti”, o ancora “Rilascio tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate: sono limitanti sia le une che le altre”. E altro ancora.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Qual è l’analisi di questo periodo?
E se la vita non fosse una cosa seria, alla fine ce la saremo guastata prendendo tutto maledettamente sul serio.
È corretto l’uso di maledettamente?

 

RISPOSTA:

Il periodo è formato da una proposizione condizionale (E se la vita non fosse una cosa seria,), subordinata di primo grado alla principale (alla fine ce la saremo guastata), che regge un’altra subordinata di primo grado, strumentale implicita (prendendo tutto maledettamente sul serio), intrepretabile anche come una causale.
La proposizione condizionale ha una evidente sfumatura concessiva, che potrebbe essere sottolineata o così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo guastata…”, o, in modo ancora più netto, così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo comunque guastata…”
Maledettamente è corretto, ma si deve ricordare che, per il suo significato, abbassa il registro del discorso: deve essere usato, quindi, nel contesto appropriato.
Nella costruzione del periodo vanno sottolineate due particolarità: la prima è la congiunzione e all’inizio del periodo, che collega il periodo stesso al testo precedente, oppure, in assenza di un testo precedente, all’universo del discorso (come se implicasse: oltre a tutto quello che già sappiamo aggiungo cio…).
La seconda è il futuro anteriore ce la saremo guastata, che instaura un rapporto complesso con il congiuntivo imperfetto fosse. Il congiuntivo, infatti, rappresenta la condizione come possibile, mentre l’indicativo rappresenta la conseguenza come un fatto, e in più, per via del tempo futuro anteriore, osserva l’evento dalla prospettiva futura, rispetto alla quale l’evento è già compiuto.
Un’alternativa possibile per la costruzione della principale è il condizionale passato (ce la saremmo guastata). Con esso, la prospettiva sarebbe dal passato verso il presente, con una fattualità sfumata; senza la certezza, cioè, che l’evento si sia davvero realizzato così come descritto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

La locuzione prima di allora può essere riferita a un momento futuro? Ad esempio: “Il primo appuntamento libero è per il prossimo mese. Non ho trovato niente prima di allora”.

 

RISPOSTA:

Sì, l’avverbio allora può indicare un momento nel passato o nel futuro. Basti pensare alla sua etimologia: ad illam horam ‘in quel momento’, che non specifica se nel passato o nel futuro. Conseguentemente, prima di allora può ben indicare un momento che precede un altro momento futuro.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Etimologia
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nel seguente brano vicino è un aggettivo o un avverbio?
Bello di persona, gentile di modi, venne chiamato a Roma, dove il Papa lo volle sempre vicino e gli affidò i lavori più delicati.
Forse si tratta di un predicativo dell’oggetto?

 

RISPOSTA:

Quando vicino (ma anche lontano) è singolare maschile non si distingue nella forma dall’avverbio, ed è, pertanto, difficile stabilire se abbia funzione di aggettivo o di avverbio. Ovviamente, se l’aggettivo si riferisce a un nome femminile e/o plurale il problema si risolve automaticamente: in il papa la volle vicina il papa li volle vicini la parola è un aggettivo; in il papa la volle vicino o il papa li volle vicino è un avverbio di luogo. La coincidenza morfologica rende difficile stabilire la funzione della parola perché, a monte, è difficile stabilire la differenza di funzione, quindi di significato, tra vicino aggettivo e vicino avverbio di luogo. Un modo per rilevare questa differenza è considerare che l’aggettivo rappresenta una qualità del nome a cui si riferisce, mentre l’avverbio indica una posizione relativa nello spazio. Per questo quando vogliamo comunicare la nostra partecipazione al dolore di una persona diciamo ti siamo vicini, non ti siamo vicino, perché vogliamo esprimere un sentimento, una caratteristica che in quel momento ci qualifica, non una posizione nello spazio. Con il verbo essere costruiamo comunemente espressioni che contrastano con questo principio: “- Dove sono i cani? – Sono vicini” (più insolito, sebbene più logico, sono vicino). Questo, però, si spiega con l’ambiguità semantica propria del verbo essere, che è prima di tutto la copula, quindi seleziona preferibilmente l’aggettivo, e solo secondariamente è un verbo spaziale, equivalente a trovarsi. L’ambiguità tocca comunque quasi tutti i verbi, perché è insita nella parola stessa vicino (così come in lontano): la posizione nello spazio, infatti, è affine a una qualità. Per questo, anche se sostituiamo si trovano a sono nell’esempio precedente, la costruzione non cambia di molto: “- Dove si trovano i cani? – Si trovano vicini”. Va detto, però, che con trovarsi l’avverbio diviene molto più accettabile (si trovano vicino), perché il verbo seleziona più decisamente l’informazione relativa al luogo.
In definitiva, quindi, nel suo esempio vicino può essere tanto un aggettivo quanto un avverbio. Se è aggettivo, l’espressione è parafrasabile come il papa volle che lui gli fosse vicino; se è avverbio, propende per il papa volle che lui gli stesse vicino. Difficilmente, comunque, il parlante medio coglierebbe tale distinzione; sarebbe portato, invece, a considerare le due versioni della frase assolutamente equivalenti.
Dal punto di vista dell’analisi logica, l’aggettivo può essere considerato un attributo o un complemento predicativo dell’oggetto (a seconda dell’impostazione seguita); l’avverbio è, invece, un complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I seguenti esempi contengono ripetizioni o pleonasmi e sono pertanto da evitare?
1) Il suo commento è di per sé già eloquente.
2) Te l’ho già detto prima.
3) Risolvere definitivamente il problema.
4) L’uomo è un assiduo avventore del locale.
5) Bazzico abitualmente quel circolo.
6) Non so se lei ne sia capace. Ma il fatto che/se lo sia o non lo sia non è rivelante.

 

RISPOSTA:

Le frasi 1, 2, 3 e 5 presentano avverbi o locuzioni avverbiali che non apportano un significato determinante alla frase e servono soprattutto ad arricchirla sintatticamente. Possono, pertanto, essere definiti pleonastici e in uno stile che voglia essere asciutto andranno evitati (sebbene non si tratti di errori da nessun punto di vista). Si noti che, se nello scritto gli avverbi superflui non hanno ragione di apparire, nel parlato possono servire da appendici informative del verbo. Questo si nota soprattutto nella frase 5: se eliminiamo l’avverbio, l’informazione saliente diviene quel circolo (infatti l’accento della frase viene a cadere tutto su questo sintagma), ma l’emittente potrebbe voler puntare l’attenzione sull’azione del bazzicare, non sul luogo. Per questo scopo avrebbe due possibilità: una dislocazione (quel circolo lo bazzico, così come il problema l’ho risolto) oppure, appunto, l’inserimento dell’avverbio semanticamente quasi neutrale che gli consenta di appoggiare la voce non sul sintagma nominale (bazzico ABITUALMENTE quel circolo). Non ugualmente efficace sarebbe, invece, BAZZICO quel circolo, perché la posizione iniziale non marcata del verbo lo configura come tema, ovvero come informazione poco saliente. Per approfondire i concetti di temaremadislocazione e simili può consultare l’archivio di DICO, a partire dalla risposta n. 28009, che rimanda a sua volta ad altre risorse della pagina.
Decisamente non superfluo è l’aggettivo assiduo della frase 4: un avventore, infatti, può non essere assiduo, ma occasionale, oppure essere accompagnato da una proposizione relativa che lo qualifica diversamente. Il secondo periodo della frase 6 deve essere scompartito, perché le due possibili costruzioni sintattiche accorpate non sono equivalenti, ma una esprime un dubbio, l’altra esprime un fatto:
6a. Ma se lo sia o non lo sia non è rivelante.
6b. Ma il fatto che lo sia non è rivelante. / Ma il fatto che non lo sia non è rivelante.
Le varianti b risultano in contrasto logico con il contenuto del primo periodo, che presenta un dubbio. La variante a potrebbe essere semplificata (Ma se lo sia non è rivelante oppure Ma se non lo sia non è rivelante), ma la semplificazione comporterebbe un lieve cambiamento nel senso della frase, perché farebbe propendere il dubbio verso una delle due possibilità, come se l’emittente sospettasse che il ricevente fosse oppure non fosse capace. Neanche qui, insomma, si riscontra un pleonasmo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Come posso capire la regola nel caso della comparazione di due avverbi?
1. Elena ha studiato più oggi che ieri. 
2. Mario è tornato più stanco di prima. 
In queste due frasi si usano congiunzioni diverse, perché?

 

RISPOSTA:

Nelle sue frasi è presente una comparazione, che richiede il secondo termine di paragone, anche detto complemento di paragone. Questo complemento è introdotto dalla preposizione di o dalla congiunzione che secondo queste regole: di è preferito (ma la sostituzione con che è possibile) quando il complemento è costituito da un nome (più stanco di Luca) o un pronome (più stanco di te) non preceduti da altre preposizioni, oppure un avverbio. In quest’ultimo caso rientra la sua seconda frase.
Che è obbligatorio quando il complemento di paragone è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione: “Mi piace di più parlare con te / con Luca che con lui / con Marco”; quando è costituito da un aggettivo, se questo riguarda lo stesso oggetto del primo aggettivo: “Luca è più studioso che intelligente”, “Questa occasione è più unica che rara”, oppure da un avverbio se questo riguarda lo stesso evento (più oggi che ieri, come nella sua prima frase); quando è costituito da un verbo, ovvero da un’intera proposizione: “Mi piace di più sciare che pattinare”, “Correndo si arriva prima che camminando”, “Se ogni tanto ti limiti nel bere è meglio che se bevi sconsideratamente”.
Si noti che, nella sua prima frase, se cambiamo l’ordine delle parole di diventa preferibile a che: “Elena ha studiato più oggi che ieri”, ma “Oggi Elena ha studiato più di ieri”. In questa forma, infatti, il complemento di paragone diventa analogo a quello della seconda frase. 
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nella frase “Adesso ti ci metti anche tu a prendermi in giro” come si analizza la parola anche? È un avverbio o una congiunzione? E la parola neppure nella frase “Non c’era neppure un libro”? A me paiono avverbi, ma i libri da cui sono tratte le indicano come congiunzioni… Perché? Cosa uniscono?

 

RISPOSTA:

Le grammatiche scolastiche tendono a considerare queste parole congiunzioni sulla scorta di frasi come “Ho incontrato lui e anche quell’altro” e “Non voglio studiare e neppure leggere”; è chiaro, però, che anche in esempi del genere la parola che congiunge è un’altra (e, ma potrebbe essere anche ma o o), mentre anche e neppure si legano a un nome, un verbo, un pronome, un aggettivo, come fanno gli avverbi.
In conclusione concordo con lei: si tratta di avverbi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase “la cosa che Michele sa fare di più è scrivere”, di più è un comparativo?

 

RISPOSTA:

Nella frase, di più (che equivale all’avverbio meglio) è senz’altro un’espressione superlativa, non comparativa: non c’è, infatti, un secondo termine di paragone.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

È possibile scrivere molto superiore?

 

RISPOSTA:

Certo: è equivalente a molto più alto. In questo caso l’avverbio molto serve a rafforzare la locuzione aggettivale comparativa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Le quattro costruzioni di seguito indicate sono consentite? Qual è la migliore e quale andrebbe invece evitata o da riservare a uno scritto poco sorvegliato?

1) La frutta e la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
2) Né la frutta né la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo;
3) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti per (a causa di) la freschezza e il prezzo;
4) Sia la frutta sia la verdura non sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo.

 

RISPOSTA:

​In linea di principio, nessuna delle formulazioni è scorretta. Sempre in linea di principio, la formulazione con una sola negazione sarebbe già sufficiente a chiarire l’idea: “La frutta e la verdura non sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”, oppure “Né la frutta né la verdura sono attraenti per la freschezza e per il prezzo”. Queste ultime sarebbero le forme più vicine allo standard. Meno felice “La frutta e la verdura sono attraenti né per la freschezza né per il prezzo”, perché in italiano la posizione tipica della negazione è a sinistra del verbo. Comunemente si preferisce, infatti, la costruzione “Nessuno dei miei amici è venuto”, oppure “I miei amici non sono venuti”, ma si evita “È venuto nessuno dei miei amici”, che viene formulata comunemente come “Non è venuto nessuno dei miei amici”, con la doppia negazione (diversamente dall’inglese, nel quale è tipica una costruzione come “I have no money”, ovvero “Ho nessun denaro / ho niente soldi”), oppure, ma è una soluzione rara, “Non è venuto alcuno dei miei amici”. 
Nella lingua d’uso comune, quindi, la doppia negazione (a sinistra e a destra del verbo) è quasi necessaria se gli elementi negati sono a destra del verbo, per cui sono accettabili, anche se meno formali, tanto la prima quanto la seconda variante da lei proposte. La terza e la quarta risultano un po’ strane (ma, ripeto, non scorrette) per l’opposizione di fatto che si crea tra sia… sia e non, che è meglio evitare usando, appunto, né e tornando, quindi, alle varianti di cui sopra.
Per quanto riguarda la scelta tra per a causa di, questa dipende da quanto si vuole essere espliciti; la maggiore esplicitezza allontana dalla lingua d’uso e avvicina allo standard.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Avverbio, Registri, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO

Non molto tempo fa ho letto su uno spazio di discussione una discettazione sui modi verbali da adottare con le completive oggettive, specie quando queste sono rette da verbi di opinione, percezione e simili.
Più di un utente osservava che in relazione a eventi futuri nella secondaria si debba adottare solo l’indicativo futuro e mai il congiuntivo presente, che è da circoscrivere alla contemporaneità tra reggente e secondaria. Applicando la regola tali frasi sarebbero quindi da penna rossa:

1. Credo che alla festa di stasera non partecipi nessuno.
2. Non penso che in un prosieguo di tempo tuo fratello utilizzi il dizionario.
3. Ipotizzo che entro dieci anni scompaiano del tutto le mezze stagioni.

Che ne pensate?

 

RISPOSTA

L’opinione che nella proposizione oggettiva con un evento al futuro si debba usare obbligatoriamente l’indicativo futuro è infondata. L’indicativo futuro è una variante pienamente accettabile, ma meno formale del congiuntivo presente. In generale, il congiuntivo è sempre il modo da preferire nelle completive in un contesto medio-alto nel parlato e anche medio-basso nello scritto. Bisogna riconoscere all’indicativo futuro una maggiore precisione nel descrivere un evento futuro rispetto al congiuntivo presente; tale vantaggio, però, è poco funzionale, visto che la contestualizzazione futura è ugualmente riconoscibile e, se necessario, ricostruibile attraverso strumenti lessicali come gli avverbi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere che in queste frasi la particella ci ha valore avverbiale o idiomatico:

1. Per cuocere la pasta al dente CI vogliono 8-10 minuti. 
2. Per arrivare in centro con l’autobus CI metto venti minuti. 
3. Ieri abbiamo provato a connetterci con i nostri amici all’estero, ma non CI siamo riusciti.
4. Non parlare così forte. CI sento benissimo! 

 

RISPOSTA:

​La distinzione tra valore avverbiale e valore idiomatico non è chiara. Immagino che lei intenda accertare quando ci abbia la funzione propria di pronome e quando, invece, si unisca al verbo per fargli prendere un nuovo significato. In ogni caso, ci non ha mai la funzione di avverbio, anche se a volte è semanticamente equivalente a un avverbio di luogo: “Ci sono andato ieri” = “Sono andato  / in quel posto ieri”.
Nelle frasi da lei proposte, ci è un pronome solamente nella 3, nella quale riuscirci significa ‘riuscire a fare questa cosa’. Nelle altre frasi, ci si fonde con i verbi e non è più semanticamente separabile da essi, producendo 1. volerci ‘richiedere’, 2. metterci ‘impiegare’, 4. sentirci ‘avere il senso dell’udito in una certa condizione’. Questi verbi formati con l’aggiunta di un pronome atono sono detti procomplementari: troverà ulteriori informazioni al riguardo nelle FAQ  Ci penso e ci ripenso: le costruzioni del verbo “pensare”, “Ci si dimentica” come funziona la costruzione impersonale e Non è possibile “starsene” tranquilli con i verbi pronominali dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio, Pronome, Verbo
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QUESITO:

Leggevo che l’avverbio più può determinare un verbo. In frasi come queste: “la città merita di più”, l’avverbio più non ha un valore comparativo? Cioè, ci sono situazioni in cui più è solamente un avverbio di quantità senza essere comparativo o superlativo?

 

RISPOSTA:

​Come avverbio, o anche aggettivo (in frasi come “ho bisogno di più tempo”), più è sempre comparativo o superlativo. Instaura, cioè, un rapporto tra due termini o tra un termine e un gruppo di riferimento, anche quando l’altro termine del rapporto, o il gruppo di riferimento, siano sottintesi: “la città meria di più (di quanto abbia avuto finora)”, “Luca è il più forte (tra tutte le persone del mondo)”.
Anche quando è usato in espressioni negative, per indicare un evento che cessa di avvenire, in realtà stabilisce un rapporto tra due termini, in questo caso un prima e un dopo: “non lo faccio più” = ‘non aggiungo altro rispetto a quanto già fatto’, quindi ‘da ora il mio agire in questo modo sarà meno (= non sarà di più) di quello precedente’.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Per la possibilità di essere  analizzato, in una frase come: “per la verità partirò domani”, il sintagma “per la verità”, si può considerare complemento di causa oppure di fine?

 

RISPOSTA:

“Per la verità” è un segnale discorsivo che serve a conferire una modalità epistemica al verbo, dal quale dunque non dipende tramite una reggenza sintattica (il per non è come in “passo per la porta” , ovvero non è dipendente dal verbo ma parte integrante della locuzione avverbiale “per la verità”), bensì tramite un rapporto semantico-testuale. In altre parole, non è in gioco qui la sintassi, bensì la testualità. Motivo per cui NON si deve qui applicare l’analisi logica, bensì altri tipi di analisi, cioè quella pragmatico-testuale. Come detto più e più volte in molte risposte di DICO, la tassonomia dei complementi non va applicata acriticamente a tutti i sintagmi della frase. Questo ne è un caso tipico.
 
Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio, Verbo
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Più che mai si può considerare un comparativo di maggioranza? Oppure è solo incremento valore aggettivo? Es: sono più che mai felice.

 

RISPOSTA:

Più che mai non è interpretabile come un comparativo, bensì come un modificatore dell’aggettivo cui si accompagna, per indicarne il grado di intensità: è dunque equivalente a un avverbio (tecnicamente, si tratta di una locuzione avverbiale) come moltissimo o simili. In questo caso, dunque, è un tutt’uno con felice, quale parte nominale del predicato nominale “sono più che mai felice”.
 
Fabio Rossi

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Categorie: Punteggiatura, Semantica

QUESITO:

Ho un dubbio sul significato o uso di alcune parole poste tra le virgole.
Questa è la frase: “Avendo lavorato nel corso degli anni con un certo numero di studenti, penso che i meditanti debbano seguire il respiro dove gli sembra più vivido e tranquillo, dove è più probabile che catturi la loro attenzione. Nessuna di queste aree rimarrà sempre, in ogni seduta, la più vivida.Ma è importante non continuare a passare da una all’altra, alimentando una mente già agitata.
La mia domanda è questa: quando scrive “in ogni seduta” tra le virgole, sta puntualizzando cosa significa l’avverbio “sempre”; oppure sta solo aggiungendo una informazione nel contesto della frase? Cioè una considerazione all’interno della frase.

 

RISPOSTA:

A rigor di logica, l’inciso in questione serva a meglio precisare l’avverbio precedente: sempre, cioè in ogni seduta. Dal contesto del brano da Lei riportato (in verità non chiarissimo), non sembrano potervi essere altre interpretazioni. In realtà sempre e mai, nella loro assolutezza, non richiederebbero alcuna precisazione né dunque alcun inciso, visto che c’è poco da chiarire su ciò che deve verificarsi tutte le volte (e dunque, implicitamente, in ogni seduta) o nessuna volta. Tuttavia spesso i parlanti (e dal tono del discorso il suo ha tutta l’aria di essere un brano di parlato trascritto, o quasi) tendono a svuotare di valore semantico gli avverbi sempre e mai e a usarli quasi come segnali discorsivi, come dimostrano esempi, assai frequenti, quali: “di solito ho sempre fame” o “di solito non ho mai caldo”; da un punto di vista logico, naturalmente, mai e sempre sono inconciliabili con di solito.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Facendo l’analisi logica della frase: “Ha lavorato piuttosto bene”, l’avverbio piuttosto come viene analizzato?

 

RISPOSTA:

Piuttosto bene è considerato, in analisi logica, un unico complemento, in questo caso di modo. Come piuttosto si comportano gli altri avverbi che modificano un aggettivo o un avverbio, abbastanza, molto, tanto, poco, alquanto, quasi ecc.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei chiedere se in queste frasi e meglio usare il passato prossimo, l’imperfetto o vanno bene tutt’e due.

1. Quando Luigi bussava / ha bussato, noi guardavamo la TV.
2. Dove eri / sei stato nel pomeriggio? eri / sei stato in città?
3. L’estate scorsa mangiavamo sempre in spiaggia.
4. Paolo è uscito / usciva nel momento in cui io telefonavo / ho telefonato.

 

RISPOSTA:

L’imperfetto come tempo è usato primariamente con due funzioni: per indicare che l’evento si è ripetuto più volte nel passato, o che era abituale; per osservare l’evento nel suo svolgimento, nel suo processo, mentre stava accadendo.
Nella frase 1., “Quando Luigi bussava, noi guardavamo la TV” si può interpretare come relazione abituale, ripetutasi molte volte. Se, invece, intendiamo i due eventi come svolti contemporaneamente in una occasione unica è preferibile sostituire quando con mentre, perché mentre sottolinea la durata del processo. Avremo, quindi, “Mentre Luigi bussava, noi guardavamo la TV”.
Comunemente, comunque, l’imperfetto durativo è messo in relazione con un passato momentaneo, prossimo o remoto, che esprime l’evento di primo piano. Nel nostro caso avremo, quindi: “Quando Luigi ha bussato, noi guardavamo la TV”. In teoria possiamo fare il contrario: “Mentre Luigi bussava, noi abbiamo guardato la TV”, ma il risultato è un po’ surreale; se sostituiamo l’azione del guardare la TV con un altro evento, però, la frase diviene possibile: “Mentre Luigi bussava, è arrivato Luca”. Possibile anche “Quando Luigi ha bussato, è arrivato Luca”, per sottolineare che le due azioni si sono svolte nello stesso momento.
Nella frase 2., la costruzione esclude che l’imperfetto indichi un’azione ripetuta. Indica sicuramente, invece, che l’evento dell’essere sia visto nel suo processo. Anche in questo caso, questa scelta si giustifica soprattutto se si vuole mettere l’evento all’imperfetto in relazione con un altro evento avvenuto mentre il primo si stava svolgendo; per esempio: “Dove eri nel pomeriggio, quando ti ho telefonato?”. Il passato prossimo, invece, osserva l’evento nella sua completezza, senza riferimento al processo: una frase come “Dove sei stato nel pomeriggio”, pertanto, serve a informarsi sulle attività svolte dall’interlocutore nella giornata.
Nella 3., l’imperfetto si interpreta automaticamente come segnale di abitudinarietà, a causa dell’avverbio sempre. Possibile anche “L’estate scorsa abbiamo mangiato sempre in spiaggia”, per indicare non l’abitudine, ma una caratteristica generale dell’estate scorsa.
La 4. somiglia molto alla 1. Possibile l’interpretazione abituale dell’imperfetto, che, però, dovrebbe essere favorita da un avverbio come solitamente: “Paolo solitamente usciva nel momento in cui io telefonavo”. Anche in questo caso, la costruzione più comune sarà: “Paolo è uscito nel momento in cui io telefonavo” (meno naturale “Paolo usciva nel momento in cui io ho telefonato”). Si noti che il connettivo nel momento in cui non permette di interpretare l’imperfetto esattamente come durativo, ma rende l’azione incoativa, concentrando l’attenzione sul processo di preparazione dell’evento. “Nel momento in cui telefonavo”, pertanto, si interpreta come ‘nel processo di preparazione della telefonata’.
Possibile anche “Paolo è uscito nel momento in cui io ho telefonato”, per indicare che i due eventi sono avvenuti nello stesso momento.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Si può dire, a qualcuno che ti chiede se hai preso la patente: “Sì, ma guido quasi mai”?

 

RISPOSTA:

​La frase non può dirsi scorretta, ma è certamente non tipica. Comunemente, infatti, la negazione precede l’elemento negato e poi, se serve, può essere ripetuta per mezzo di avverbi o aggettivi semanticamente negativi. La costruzione più regolare per la sua frase, pertanto, è quella con l’avverbio quasi mai spostato prima del verbo, che è l’elemento negato: “Sì, ma quasi mai guido”. Ovviamente, senza tenere in conto la costruzione in assoluto più comune, che sarebbe quella con la doppia negazione: “Sì, ma non guido quasi mai”.
Riporto, per confermare che posizione attesa della negazione è subito prima dell’elemento negato, questa frase tratta dal romanzo Rinascimento privato di Maria Bellonci (1986): “Una cosa che gli uomini quasi mai conoscono in profondo è il vuoto dei figli, la mancanza della loro presenza da toccare con mano”. Se spostassimo quasi mai dopo il verbo (sul modello della sua frase), l’elemento negato diverrebbe in profondo, e il significato della frase cambierebbe, sebbene di poco: “Una cosa che gli uomini conoscono quasi mai in profondo è il vuoto dei figli…”. Nella sua frase, dopo quasi mai non c’è un altro elemento da negare; il ricevente, pertanto, non può che riportare la negazione al verbo.
Per un approfondimento sulle conseguenze informative dello spostamento degli elementi della frase, proprio in relazione alla negazione, la rimando alla risposta  dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

In molte opere narrative ho rilevato l’impiego di aggettivi e avverbi (richiamando alla memoria ricordi scolastici, azzarderei a definirli deittici) che i vari scriventi hanno inserito in contesti passati anziché contemporanei. Gradirei ricevere la vostra autorevole posizione al riguardo, nonché eventuali suggerimenti per affinare le seguenti costruzioni:

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in questa occasione non proferì parola (si sarebbe potuto sostituire questa con quella?).
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e adesso lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma ora notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta un forte malessere (sostituire l’avverbio con in quella occasione o quella volta non sarebbe stato preferibile?).
5) In Michele scintillò la rabbia che, oggi, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto finora (avrei scritto fino ad allora o fino a quel momento).

 

RISPOSTA:

​Le espressioni che lei ha correttamente definito deittiche servono a indicare una persona, un luogo o un momento presente nella realtà extralinguistica. Tra le più comuni riconosciamo i pronomi personali e i dimostrativi, gli avverbi di tempo e di luogo; anche i tempi verbali, però, possono svolgere questa funzione: se dico, ad esempio, “Sto lavorando”, è chiaro che l’azione sta avvenendo adesso. I deittici hanno la caratteristica di mutare di senso al mutare della situazione extralinguistica. L’enunciato “Sto lavorando” pronunciato da Luca il 19 maggio 2019 alle 20:30 a casa ha un significato diverso da “Sto lavorando” pronunciato da Maria il 20 maggio alle 9:00 in ufficio. I due enunciati, cioè, indicano (deissi significa proprio ‘indicazione’) due situazioni completamente diverse.
Vista la loro relazione con la situazione extralinguistica, i deittici sbagliati provocherebbero un senso di straniamento nell’interlocutore e potrebbero inficiare la comprensione. Ad esempio, se un amico chiedesse a Luca: “Che stai facendo?” e lui rispondesse “Ieri ha lavorato”, l’amico rimarrebbe molto perplesso (a meno che non conoscesse dettagli della vita di Luca che spiegassero una simile risposta).
In realtà, è rarissimo che un parlante nativo abbia dubbi su quale deittico usare per descrivere la situazione a cui sta pensando: è una competenza che si acquisisce fin da piccolissimi.
I problemi possono insorgere quando il parlante deve proiettarsi in un centro deittico diverso da io-qui-ora. Quando, cioè, deve parlare non di sé adesso, ma di sé nel passato, o di altri nel presente, nel passato o nel futuro, il centro deittico, il centro da cui si dipartono le coordinate personali e spazio-temporali, lo può indurre in errore. L’errore consiste quasi sempre (è così in tutti i suoi esempi) nella confusione tra quel centro deittico altro con quello relativo a io-qui-ora; ne deriva la sovrapposizione della situazione contingente, quella in cui l’emittente sta interloquendo con il ricevente, con quella riportata: quest’ultima viene riportata a qui-ora e a volte anche a io (si pensi a casi tipici della lingua poco sorvegliata come “Io sono una persona che sono sempre generoso”, ovviamente detto da un uomo), e viene, pertanto, descritta con i deittici propri della contingenza. Alcuni casi sono talmente comuni che possono essere considerati normali, almeno nel parlato poco sorvegliato e nello scritto dialogico; penso a stavolta della sua frase 4, a ora in una frase come questa: “Aveva provato di tutto e ora era rimasto senza alternative” (ora nella sua frase 3, invece, mi sembra più difficile da accettare, probabilmente perché accompagna un passato remoto, non un imperfetto), e casi simili.
Bisogna anche considerare che lo slittamento di piani indessicali può essere dovuto non alla confusione dei centri deittici ma al preciso intento, di natura letteraria, di sovrapporli. Si consideri un esempio come questo (dagli Indifferenti ​di Alberto Moravia): “il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco: egli era dovunque così: sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa”. L’aggettivo dimostrativo questa è ovviamente fuori luogo in un racconto al passato, e andrebbe sostituito con quella. L’autore, però, non si è confuso: ha volutamente giocato con le possibilità della lingua per catapultare per un attimo il personaggio nell’io-qui-ora del lettore, che se lo vede quasi davanti, per poi riportarlo al suo centro deittico naturale.
Visto che i deittici fuori luogo dei suoi esempi potrebbero essere voluti dagli autori, suggerire correzioni potrebbe essere un eccesso di zelo. In ogni caso, volendo rispettare le regole standard della grammatica, ecco come si potrebbero emendare le frasi (in alcuni casi non faccio che applicare i suoi suggerimenti, che sono corretti):

1) Leo era già stato rimproverato a più riprese, ma in quella occasione non proferì parola.
2) Marisa lo aveva cercato dappertutto e allora lo vide.
3) Non riuscì a trovare la via di fuga ma allora / in quel momento notò una luce in fondo alla galleria.
4) Il suono del vento gli procurò stavolta / quella volta un forte malessere.
5) In Michele scintillò la rabbia che, quella volta / in quella occasione, lo colpì come non mai.
6) La guardò come non era mai accaduto fino ad allora / fino a quel momento.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Pronome, Registri, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Avrei bisogno di alcune conferme inerenti ad alcune frasi da analizzare grammaticalmente per una scheda di scuola primaria.
1. “Questi soldi sono pochi”. Pochi è aggettivo o pronome?
2. “Nessuno dei miei fratelli mi ascolta”. Nessuno è aggettivo o pronome?
3. “Qualche volta ci divertiamo davvero poco”. Poco è aggettivo o pronome?
4. “Mario ha parlato tanto”. Tanto è aggettivo o pronome?
5. “Alla gara di nuoto sono arrivato primo”. Primo è aggettivo o pronome?

 

RISPOSTA:

Pochi è aggettivo (predicativo, perché si collega al nome non direttamente, ma per il tramite di un verbo) nella prima frase, mentre poco è avverbio nella terza (più precisamente davvero poco è una locuzione avverbiale). Avverbio è anche tanto nella quarta frase: come davvero poco nella terza frase, infatti, modifica il significato del verbo aggiungendo ad esso una sfumatura. Nessuno è un pronome, primo è aggettivo (predicativo, come poco nella prima frase).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi avvalgo della vostra cordiale disponibilità per esplicare il seguente interrogativo:
le frasi
1. Anche Tizio non è stato promosso;
2. Non è stato promosso neppure / nemmeno Tizio;
3. Neppure / nemmeno Tizio è stato promosso
sono tutte ben formate?
È possibile che modificando la posizione del predicato (esempio 2 rispetto a 1 e 3) o il tipo di costruzione da negativa a positiva (esempio 3 rispetto a 2), anche e nemmeno o neppure svolgano la medesima funzione?

 

RISPOSTA:

​Per quanto riguarda la funzione degli avverbi negativi nemmenoneancheneppure, essa cambia in relazione alla posizione degli avverbi nella frase; questi avverbi, cioè, negano il sintagma al quale sono adiacenti. Quindi “Neppure Tizio è stato promosso” vuol dire che neanche altri sono stati promossi, mentre “Tizio non è stato neppure promosso” vuol dire che Tizio non ha superato neanche altre prove.
Aggiungo che la frase 1. è al limite dell’accettabilità; la forma migliore sarebbe: “Neanche / neppure / nemmeno Tizio è stato promosso”.
La questione dello spostamento dell’elemento negato all’interno della frase è diversa, e chiama in causa la sintassi dell’informazione, ovvero il diverso peso che le informazioni acquisiscono a seconda della posizione in cui vengono inserite. Solitamente, le informazioni che inseriamo a destra sono quelle su cui vogliamo che il nostro interlocutore concentri la sua attenzione. Si pensi a un esempio come questo: “Ho preso la penna blu nel cassetto” / “Ho preso nel cassetto la penna blu”: l’informazione che si viene a trovare alla destra della frase (prima nel cassetto, poi la penna) riceve un peso maggiore; diviene, come si dice in linguistica testuale, il fuoco dell’enunciato. Alcune parole, come gli avverbi nemmeno e simili, sono dette focalizzatori, perché fanno risaltare l’informazione a cui si accompagnano qualsiasi sia la sua posizione. Nel nostro caso, infatti, nemmeno Tizio risulta il fuoco dell’enunciato anche se lo mettiamo a sinistra: “Neppure Tizio è stato promosso”. Rimane da capire che differenza ci sia tra quest’ultima formulazione e “Non è stato promosso neppure Tizio”. Dal punto di vista sintattico, notiamo che in questa formulazione diviene obbligatorio negare anche il verbo, mentre in quella con nemmeno Tizio a sinistra la negazione del verbo sarebbe, al contrario, inaccettabile. Questo avviene perché l’italiano preferisce inserire sempre la negazione all’inizio dell’enunciato e poi solitamente ammette, ma non richiede, la sua ripetizione. Notiamo anche che il soggetto grammaticale del verbo, Tizio, è posposto.
Dal punto di vista della sintassi dell’informazione, immaginiamo una situazione in cui il parlante (una persona diversa da Tizio) non abbia superato un esame, e qualcuno glielo faccia notare per mancanza di tatto, o per dargli fastidio: “Quindi non sei stato promosso, eh?”. Il parlante potrebbe rispondere con entrambe le formulazioni: “Non è stato promosso neppure Tizio” chiarirebbe i termini della questione in modo neutrale: ‘riguardo al tema che hai sollevato, ti faccio notare che…’; “Neppure Tizio è stato promosso”, invece, stabilirebbe fin da subito ciò che più preme al parlante comunicare, riducendo l’altra informazione a una appendice, richiesta per completare sintatticamente la frase (la sola enunciazione “Neppure Tizio” risulterebbe sospesa). Riguardo alla funzione informativa di questa appendice, emerge l’intento di rimarcarne il valore pragmatico, come se il parlante comunicasse tra le righe ‘visto che me lo chiedi / se proprio lo vuoi sapere’, con tutte le sfumature psicologiche che ne possono derivare.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Che valore ha la negazione non nella seguente frase: “Ho più freddo quando piove che non quando nevica”? È diverso da quello che la stessa negazione assume in questa frase: “Ho più freddo quando piove di quando non nevica”?

 

RISPOSTA:

​Cambiando la posizione del non la sua funzione cambia e, con essa, cambia il significato della frase. Nella frase “Ho più freddo quando piove di quando non nevica” l’avverbio è inserito all’interno della proposizione temporale, quindi si unisce al verbo rendendolo negativo. L’anticipazione rispetto alla congiunzione quando produce due effetti: obbliga a modificare la congiunzione di in che (le due congiunzioni sono, invece, ugualmente valide senza non) e trasforma non da negazione vera e propria in negazione espletiva. Questo tipo di funzione di non riguarda alcune proposizioni subordinate (le comparative, le esclamative, quelle introdotte da chissà che, le temporali introdotte da finché e prima che, le eccettuative) ed è sempre facoltativa (sebbene in alcuni casi sia sconsigliata e in alcuni, al contrario, consigliata).
Tra le comparative, quella di uguaglianza esclude la negazione espletiva: “Amo il calcio tanto quanto non amo la pallavolo” significa che non amo affatto la pallavolo. Al contrario, la comparativa di disuguaglianza, soprattutto di maggioranza (come quella contenuta nella sua frase: “Ho più freddo quando piove che non quando nevica“), la accetta di buon grado. La negazione espletiva non rende la proposizione a cui si riferisce negativa, diversamente dalla negazione propria, che polarizza negativamente il verbo della proposizione. Al contrario, la proposizione che segue la negazione esplicativa è per forza positiva, in quanto questo tipo di negazione implica che ci sia una controparte negativa della proposizione positiva; così “Ho più freddo quando piove che non quando nevica” implica “Ho meno freddo / non ho freddo quando nevica”.
Quando il secondo termine di paragone possiede la qualità oggetto della comparazione in un grado minimo o nullo la negazione esplicativa è pienamente accettabile; al contrario, quando la qualità è posseduta in grado massimo la negazione è meno calzante. In altre parole, la sua frase (“Ho più freddo quando piove che non quando nevica”) suggerisce che quando nevica il soggetto abbia pochissimo o niente affatto freddo, mentre la variante “Ho più freddo quando piove che quando nevica” suggerisce che anche quando nevica il soggetto senta freddo (sebbene meno di quanto ne sente con la pioggia).
Sottolineo, a margine, che in una frase del genere la proposizione temporale “Quando nevica” si trova pur sempre all’interno del costrutto comparativo e viene considerata, pertanto, una proposizione comparativa. Questo vale anche per la temporale con la negazione propria in “Ho più freddo quando piove di quando non nevica“; un buon modo per definire questo tipo di proposizione può essere temporale comparativa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Avverbio
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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase: “Eventualmente ti avverto io”, l’avverbio eventualmente che valore ha sul piano dell’analisi logica? Qual è la funzione logica degli avverbi di valutazione (ovviamentecertamente ecc.)?
Nella frase “La data del mio esame coincide con quella del mio compleanno”, con quella che complemento è?

RISPOSTA:

​L’avverbio eventualmente non è inquadrabile in una categoria di complementi, perché modifica non il predicato verbale o un predicato nominale contenuti nella proposizione, bensì l’intera proposizione. Gli avverbi che hanno questa funzione sono detti frasali, nel senso che appartengono al rango della frase, non a quello della proposizione. Non a caso, eventualmente può essere trasformato in una proposizione reggente: “È possibile che ti avverta io”. Lo stesso si può dire per gli altri avverbi che modificano il valore di verità dell’enunciato espresso dalla proposizione (ovviamentecertamenteforse ecc.).
Nel secondo esempio, con quella è assimilabile a un complemento di paragone; la frase, infatti, equivale a “La data del mio esame è la stessa di quella del mio compleanno”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Avverbio
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QUESITO:

La frase “Non potrà suonare più”, oppure “non ti bacerà più” indica sia la cessazione di qualcosa che prima accadeva sia un fatto che non si verificherà per la prima volta? Cioè è una frase da contestualizzare?

 

RISPOSTA:

Normalmente, tra le funzioni di più c’è quella di indicare, in correlazione con una negazione, la cessazione di un’azione; usando i suoi esempi, quindi, “Non potrà suonare più” può essere riferito a un musicista che si è rotto due dita, mentre “Non ti bacerà più” a una persona che è stata lasciata da un fidanzato e quindi in futuro non riceverà da lui i baci che riceveva in passato. In questi casi, più prende il significato di ‘più a lungo’, quindi ‘ancora’; non a caso, in inglese questa funzione è spesso svolta dalla perifrasi (no) longer, che significa letteralmente ‘(non) più a lungo’: “I will not serve that in which I no longer believe” (‘Non servirò più ciò in cui non credo più’) scrive James Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man.
La funzione di più ‘ancora’, inoltre, opera per la massa, oltre che per il tempo, in frasi come “Non ne voglio più”, ovvero ‘Non voglio una quantità maggiore di ciò’.
Tornando alla dimensione del tempo, più può facilmente essere usato in riferimento ad azioni che non si sono ancora verificate, ma erano state programmate; quindi “Non potrà suonare più” può anche essere riferito a un musicista che avrebbe dovuto esibirsi in un concerto ma ha avuto un incidente. In questo caso la frase è parafrasabile come ‘Non potrà dare seguito alla preventivata azione di suonare’. Lo stesso vale per “Non ti bacerà più”, che può riferirsi a qualcuno che era pronto a impegnarsi in una relazione amorosa e ha cambiato idea prima che questa iniziasse, quindi ‘Non darà seguito alla preventivata azione del baciare’. Quest’uso estensivo di più è da considerarsi meno formale di quello descritto sopra (e infatti è più comune in comunicazioni informali); si può trovare anche in frasi al passato come “Sei più andato a Parigi?” nel senso di ‘Hai poi dato seguito alla preventivata azione di andare a Parigi?’.
In conclusione, come sempre quando è possibile una doppia interpretazione, è meglio contestualizzare l’enunciato.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.

 

RISPOSTA:

Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buonasera,

vi scrivo per chiedere informazione riguardo all’espressione molte grazie, che è stata oggetto di un’accesa discussione con un signore che sosteneva fosse errata. Secondo codesto signore l’espressione giusta sarebbe molto grazie. Vi chiedo gentilmente se mi potete chiarire la questione.

 

RISPOSTA:

Grazie è un nome (è il plurale di grazia), e come tutti i nomi concorda con l’aggettivo in genere e numero: molte grazietante grazieinfinite grazie ecc. La parola, però, si usa spesso come interiezione, da sola, con un significato del tutto diverso rispetto al singolare: infatti non posso dire *No, grazia. La specializzazione del plurale in questa funzione induce alcuni parlanti a considerare questa parola come un avverbio (al pari, ad esempio, di bene o male) e, di conseguenza, a pensare che debba essere accompagnata solamente da avverbi. Da qui il *molto grazie (sul modello di molto bene) proposto dal suo interlocutore, in realtà scorretto, ma anche il grazie assai, diffuso in alcune regioni meridionali e accettabile solamente in contesti molto informali.
L’uso di grazie come interiezione, quindi, non ha fatto perdere a questa parola la sua natura di nome; tanto che può ancora essere usata in frasi come “Madonna del Bosco – La Vergine che dispensa le sue grazie da un castagneto” (a proposito di una apparizione mariana in un bosco).
Si noti che l’interiezione grazie è una semplificazione dell’espressione rendere grazie ‘restituire benevolenze’ (dal latino gratias agere, dal significato simile). Quando ringraziamo, quindi, dichiariamo di contraccambiare con la benevolenza il favore ricevuto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nell’espressione “il male può annidarsi anche laddove sembri non esistere” è corretta la forma col congiuntivo o andrebbe corretta in “il male può annidarsi anche laddove sembra non esistere”?

 

RISPOSTA:

Nel suo esempio laddove ha il valore di avverbio, del tutto equivalente a là dove. La proposizione introdotta da questo connettivo spesso esclude il congiuntivo: “Laddove un tempo crescevano solo i fiori del male ora sono stati piantati semi di iris, glicine e narciso” (repubblica.it, 2018). Il congiuntivo è ammesso, sebbene non obbligatorio, quando, come nel suo esempio, la proposizione ha una forte sfumatura eventuale. Quando è usato, esso produce anche un innalzamento della formalità della frase.
Oltre che da avverbio, laddove può fungere da congiunzione avversativa (analoga a mentre), costruita obbligatoriamente con l’indicativo (fatta salva la possibilità, sempre valida, di sostituire l’indicativo con il condizionale): “ma in alcuni casi questo stesso vizio può portare all’errore esattamente opposto, decretando la pura e semplice insopportabilità del dolore altrui, laddove invece quel dolore non è affatto insopportabile, o non lo è ancora” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Può, infine, essere una congiunzione condizionale; in questo caso obbligatorio è il congiuntivo (prevedibilmente, visto che quest’uso è raro e altamente formale): “Laddove Luca lo desideri, può raggiungerci più tardi”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio dubbio riguarda l’avverbio sempre. Essendo un avverbio indefinito, quando lo troviamo nelle frasi al futuro, come facciamo a capire se si tratta di una continuità ininterrotta ”con termine di tempo” o ”senza termine di tempo”? Per esempio: “La Terra girerà sempre”, “Ti amerò sempre”…

 

RISPOSTA:

Quando accompagna un verbo al futuro, sempre assume un valore non pienamente temporale, quale invece gli è proprio con verbi al presente e al passato. Con verbi al futuro, sempre ha una sfumatura concessiva (indica che l’azione o la circostanza continuerà a realizzarsi a dispetto di qualunque avversità) , mentre un valore pienamente temporale è assunto da per sempre. Prendiamo, per chiarire questa differenza, una frase come “I genitori perdoneranno sempre gli sbagli dei figli”; difficilmente sarebbe costruita come “I genitori perdoneranno per sempre gli sbagli dei figli”, perché il senso è che qualunque cosa succeda, l’azione continuerà a realizzarsi (e la dimensione temporale è secondaria). È vero che i due avverbi possono avvicinarsi molto nel significato, come nella frase “Rimarrò sempre con te”/”Rimarrò con te per sempre”; anche in questo caso, comunque, si nota la sfumatura più concessiva (quasi a dire nonostante tutto ) di sempre e quella più temporale di per sempre.

Un confronto interlinguistico con l’inglese ci consente di vedere più chiaramente la differenza tra sempre e per sempre: il primo, infatti, corrisponde a always, il secondo a forever; due avverbi del tutto diversi, quindi.

Come ho detto all’inizio, però, sempre ha un valore più chiaramente temporale con verbi al passato (“Sono sempre stato contrario alla caccia”) e al presente (“Chiamo sempre lo stesso idraulico, perché di lui mi fido”). In questo tipo di frasi, per sempre non è accettabile.

Venendo, infine, alla sua domanda, per quanto ne sappiamo, nel mondo fisico tutto ha fine, quindi l’uso dell’avverbio (per) sempre accanto ad un verbo al futuro indica non la reale eternità dell’azione o della circostanza, ma la sua prosecuzione fino al suo termine naturale, che non è noto. In altre parole, la durata dell’azione o della circostanza è intesa non come eterna, ma come indeterminatamente duratura.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio
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QUESITO:

Alcuni dizionari dicono ”sempre: indica continuità”. Il treccani, invece,
dice ”continuità ininterrotta”. Che differenza c’è tra continuità e
continuità ininterrotta?

 

RISPOSTA:

In effetti è una minuzia. Però, a rigore, anche l’avverbio abitualmente, oppure sistematicamente, ecc. indicano continuità. Tuttavia sempre esclude, o tende ad escludere, che tale continuità abbia interruzioni. Per es.: “Da dieci anni, tra le due e le tre schiaccio abitualmente un pisolino”: vuol dire che potrei anche non farlo, qualche volta. Con sempre, escludo questa eventuale interruzione di continuità.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio
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