Tutte le domande

QUESITO:

Fermo restando il significato di laddove come sinonimo di “invece”, in tutti gli altri casi, quale forma va preferita (laddove o là dove) e perché?

 

RISPOSTA:

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Come chiarito nel Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, la forma univerbata laddove può essere utilizzata in tutti e quattro i significati: 1) ‘nel luogo in cui, dove’; 2) ‘nel tempo in cui, quando’; 3) ‘mentre’; 4) ‘se, qualora’. Dopodiché, nell’uso, mentre nei significati 2, 3 e 4 si utilizza di norma la sola forma univerbata (laddove), nel significato 1, cioè l’unico letterale, si preferisce invece la grafia staccata là dove. Il motivo è semplice: proprio perché il primo è il significato letterale, si tende a preservare il valore proprio di entrambi gli elementi: avverbiale il primo (), pronominale il secondo (dove): nel luogo in cui; per es., «Andava sempre là dove andava con suo padre» (ma, come ripeto, sarebbe corretto, ancorché meno frequente, anche «Andava sempre laddove andava con suo padre»). Negli altri significati, invece, discesi per metafora dal primo, la componente locativa delle due parole si è indebolita o persa del tutto fino a dar luogo a un valore connettivo; là dove si è dunque, come si dice con termine tecnico, grammaticalizzato (nella fattispecie, specializzato nella funzione di congiunzione coordinante oppure subordinante) in laddove, con valore temporale, avversativo, condizionale-ipotetico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Avverbio, Congiunzione, Pronome
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QUESITO:

Ci vuole o no l’accento sulla e nella frase “E / È certo che spengo le luci”?
Io credo che ci voglia, eppure, dopo essermi confrontato con dei conoscenti, loro hanno detto di no. Sinceramente non capisco perché non ci voglia. Mi è sempre stato insegnato che se si sostituisce la e con essere oppure con un tempo passato del verbo essere e la frase ha senso, allora ci vuole l’accento sulla e, e in questo caso a me sembra proprio che le sostituzioni possono essere fatte: “Essere certo che spengo le luci” oppure “Era certo che spegnevo le luci” o ancora “Era (un fatto) certo che spegnevo le luci”. Se non ci vuole l’accento, potete spiegarmi, cortesemente, il perché?

 

RISPOSTA:

In questo caso avete ragione sia lei sia i suoi conoscenti: la frase può cominciare sia con e sia con è. Nel primo caso la e serve come segnale discorsivo, cioè come elemento che segnala la presa di turno nel parlato, e nello stesso tempo rafforza l’assertività dell’affermazione, un po’ come se facesse intendere “Non potrei fare altrimenti”. Un uso simile lo vediamo in una frase come “E come no?”, in cui, appunto, la e iniziale conferisce maggiore enfasi all’affermazione nascosta sotto la domanda retorica (“E come no?” = “Certamente sì, non potrebbe essere altrimenti”). Nel secondo caso vale la sua spiegazione; con il verbo essere il parlante intende soltanto confermare che l’azione è certa. Nove volte su dieci il parlante intenderà “E certo che spengo la luce”, non “È certo che spengo la luce”: qust’ultima costruzione, infatti, per quanto corretta in astratto, sarebbe coerente in ben poche situazioni comunicative autentiche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel  credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?

 

RISPOSTA:

1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scrittati ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».

 

RISPOSTA:

«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: , infatti, significa ‘e non’.

Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché , come già detto, significa già ‘e non’.

Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?

 

RISPOSTA:

La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se ho un discorso diretto interrotto da un inciso, come “Prendi il libro”, disse la mamma, “E mettiamoci al lavoro”, è necessario scrivere la e maiuscola anche se la frase è iniziata nel discorso diretto precedente?

 

RISPOSTA:

Non è necessario, proprio in considerazione del fatto che il discorso continua dal blocco precedente. Anche l’uso della maiuscola, del resto, non può dirsi scorretto, visto che si tratta comunque di un blocco di discorso diretto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta? 

 

RISPOSTA:

No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.

Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida

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QUESITO:

I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?

RISPOSTA:

In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida

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QUESITO:

All’interno di un opuscolo che annunciava una serie di eventi in pubblico, mi è capitato di leggere un’espressione simile a questa: “Ore 18.00 piazza Chiesa: Inizio della competizione (etc.)”.

Al riguardo, mi chiedo se siano corretti l’uso dei due punti (che, immagino, siano stati impiegati per separare la puntualizzazione del luogo da quella del rispettivo appuntamento) e l’uso del maiuscolo per la successiva parola “Inizio”.

 

RISPOSTA:

Di norma, i due punti separano due segmenti di testo dello stesso periodo; quel che viene dopo questo segno interpuntivo, dunque, non richiede la lettera maiuscola. Nell’esempio occorre separare non soltanto il luogo dalla descrizione dell’evento, ma anche l’ora dal luogo. Per scandire meglio le informazioni potremmo inserire un trattino (“Ore 18.00 – piazza Chiesa: inizio della competizione”) o una virgola (“Ore 18.00, piazza Chiesa: inizio della competizione”). Un altro espediente efficace consiste nell’inserimento del luogo tra parentesi tonde: “Ore 18.00 (piazza Chiesa): inizio della competizione”.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Coesione
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QUESITO:

Vorrei chiedere come si divide in sillabe la parola “spirituale”, perché a mio avviso nella parola si verifica un dittongo, mentre molti dizionari riportano come corretta la divisione “spi-ri-tu-a-le”.

 

RISPOSTA:

Nella parola spirituale si verifica uno iato perché la u primo elemento del gruppo ua è una vocale e non una semiconsonante (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla a). Come lei osserva, i principali dizionari concordano sulla divisione in sillabe spi-ri-tu-à-le. Il problema può emergere sulle parole in cui la coppia ua è atona come in spiritualità o spiritualista; in questi casi è difficile dire con certezza se si tratti di dittongo o iato. I dizionari, infatti, divergono sulla divisione in sillabe di queste parole: alcuni applicano il criterio dell’analogia, per cui se nella parola spirituale si verifica uno iato anche in spiritualista si avrà uno iato, quindi spi-ri-tu-a-lì-sta; altri, invece, considerano la sequenza atona un dittongo ascendente, quindi spi-ri-tua-li-tà.
Raphael Merida

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QUESITO:

Vorrei sapere se è possibile usare glielo rivolgendosi a un gruppo di persone (solo maschi, solo femmine o a composizione mista): “Non appena lo avrò saputo, glielo riferirò”.

 

RISPOSTA:

Nell’esempio riportato, glielo è corretto e può essere usato per riferirsi a una donna o a un uomo. Ciò è possibile perché quando due pronomi complemento deboli sono usati in coppia il primo cambia forma: così avviene, per esempio, per mi che diventa me (“Mi presti il libro?” > “Me lo presti?”), per ti che diventa te (“Ti presto il libro” > “Te lo presto”) e per gli e le che si trasformano in glie invariabile (“Presto il libro a Fabio/Maria” > “Glielo presto)”.
È bene specificare che in passato l’uso della forma pronominale atona gli in funzione di complemento di termine per loro, a loro non era accettata; adesso, invece, è da ritenersi una forma senz’altro corretta in quasi tutti i livelli della lingua (tranne che nel caso, forse, di registri altamente formali, dove è consigliabile l’uso di loro al posto di gli). Per questo motivo, una frase come “Ho detto a Maria e Fabio che glielo presto” può essere considerata corretta.
Raphael Merida

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

Si scrive: “Un bel e solido palazzo” oppure: “Un bello e solido palazzo”? Ovviamente è preferibile scrivere: “Un palazzo bello e solido”. Ma dovendo scegliere, in questo caso, tra bel e bello, quale si fa preferire?

 

RISPOSTA:

Bel e bello seguono gli stessi criteri degli articoli il e lo. In questo caso, davanti a vocale, può avvenire l’elisione di bello; avremo quindi “Un bell’e solido palazzo”.

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Alcuni vocabolari riportano la forma grafica “neoassunto”, altri no.
Scrivere “neo assunto” è comunque corretto?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è neoassunto, riportata anche dai principali dizionari dell’uso.
Neo-, che significa ‘nuovo, recente’, è un prefissoide di origine greca; si tratta cioè di un elemento lessicale dotato di autonomia semantica che può essere premesso a parole di qualsiasi origine (si pensi per esempio ad auto- nel significato di ‘da sé’ da cui si formano parole come autocoscienza, autocritica, automobile). Per queste ragioni, le parole composte con un prefissoide prediligono la forma univerbata a quella staccata.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Si dovrebbe scrivere: “Lei recitò un Ave Maria” con l’apostrofo o senza? L’Ave Maria è una preghiera e quindi si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo, il che significa “Recitare una Ave Maria”. Però nessuno direbbe: “Recitare una Padre Nostro”.

RISPOSTA:

Visto che Ave Maria (anche nelle grafie avemaria e avemmaria) è un sostantivo femminile, l’articolo da usare sarà la/una, quindi “un’Ave Maria”. Anche se si tratta di una preghiera, Padre nostro (anche nella grafia univerbata Padrenostro) è un sostantivo maschile; quindi, avrà come articolo il/un: “un Padre nostro”.

Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Articolo
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QUESITO:

1) “Non riesco a crederci che sia andata così”. È corretto l’uso della particella ci oppure sarebbe più corretto usare solamente l’infinito “Non riesco a credere che …”. Perché?

2) “Se ne hai voglia, leggi questo libro”. È corretto l’uso di ne oppure sarebbe più corretto scrivere/dire “Se hai voglia…”. Qual è la differenza?

3) “In più, consiglio di dare un’occhiata, anche a questi libri”. È ammissibile la virgola dopo consiglio di dare un’occhiata oppure viola le norme della punteggiatura?

4) Dei clienti entrano in un ristorante; dovrebbero dire: “Buongiorno, siamo quattro” oppure “… siamo in quattro?” C’è una differenza?

 

RISPOSTA:

1) Il pronome atono ci in crederci serve ad anticipare il tema: “Non riesco a crederci che sia andata così”. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato. Si tratta di un costrutto tipico del parlato o dello scritto informale.

2) Sì, è corretto. Il sostantivo voglia unito al verbo avere (“avere voglia”) richiede l’argomento di ciò di cui si ha voglia, per avere senso; deve essere seguito, quindi, dalla preposizione di (“ho voglia di”). La frase può essere infatti parafrasata come segue: “Se hai voglia di leggere, leggi questo libro”. Il ne sostituisce il complemento di tipo argomentale di leggere.

3) No, non è ammissibile. Non bisogna mai separare con una virgola il predicato dall’oggetto. In questo caso il predicato è formato dalla locuzione dare un’occhiata, facilmente parafrasabile con guardare. Questo tipo di costrutti è definito dai linguisti “a verbo supporto” (per questo argomento la rimando alla risposta Fare piacere, i verbi supporto e i verbi causativi).

4) In questo caso non esiste una regola precisa, ma potrebbe esserci una sottilissima sfumatura semantica tra le due varianti. La presenza della preposizione tra il verbo e il numerale (“siamo in quattro) sembra indicare un gruppo definito di persone, il cui numero non è casuale ma già stabilito; l’assenza della preposizione (“siamo quattro”), invece, dà l’idea di un gruppo il cui numero è variabile e in corso di definizione. La preposizione in è essenziale, infine, con i verbi diversi da essere: “Giocheremo in cinque”, “Abbiamo viaggiato in venti” ecc.  

Raphael Merida

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Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?

L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano

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Nella parola saggio, -ggi- può essere considerato un trigramma composto dal digramma -gg- + -i- muta?

Le doppie non sono mai menzionate negli elenchi dei digrammi perché rappresentano non fonemi determinati, ma varianti rafforzate di altri fonemi. Non sarebbe, però, del tutto scorretto considerarle comunque digrammi, al pari dei digrammi che rappresentano fonemi scempi. Seguendo il primo criterio, -ggi- in saggio, ovvero, foneticamente, [dʒ:] o [ddʒ], è la variante rafforzata del fonema [dʒ]; seguendo il secondo, è un trigramma che rappresenta il fonema [dʒ:], distinto da [dʒ]. In entrambi i casi, il grafema -i- in questa parola non corrisponde a un fonema, ma serve a distinguere il suono palatale da quello velare (che si avrebbe in saggo); il termine tecnico per definire questa funzione della -i- è diacritica o (segno) diacritico. Di solito, inoltre, non si dice che la -i- è muta perché in altre parole rappresenta una semivocale (cambio) o una vocale a tutti gli effetti (farmacia); diversamente, l’-h- è detta muta perché in italiano non ha mai un suono (per approfondimenti si veda qui).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Scritto-parlato-mediato
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QUESITO:

Ormai siamo (quasi) tutti d’accordo che QUAL, avendo forma autonoma, non necessiti di apostrofo. Si dirà quindi: “Qual è la tua opinione, qual era la tua opinione” etc. Ma davanti a un sostantivo si usa QUAL o QUALE? Esempio: si può scrivere “Quale insalata preferisci?” oppure, avendo forma autonoma, si deve scrivere “Qual insalata preferisci?” Ancora: Lei scriverebbe “Quale evento della tua vita…” oppure “Qual evento della tua vita…”.

 

RISPOSTA:

La forma apocopata qual non ha restrizioni: in astratto è utilizzabile sempre. È, però, di fatto rarissima; si usa quasi esclusivamente davanti alle forme verbali è e era e nell’espressione qual buon vento. Per il resto si usa sempre quale.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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QUESITO:

Vorrei sapere se il termine “leoluchiane” è corretto per indicare “Giornate di studio dedicate a San Leoluca” (“Giornate leoluchiane”).

 

RISPOSTA:

L’aggettivo leoluchiano è ben formato e rappresenta bene il nome di Leoluca. Aggiungo che l’aggettivo san si scrive per lo più con la minuscola quando indica la persona (come nel caso di san Leoluca), con la maiuscola quando fa parte del nome proprio di una chiesa (“la basilica di San Pietro”), di una località (“l’estate scorsa sono stato a San Gimignano”), di una via o di una piazza (“piazza San Francesco”).

Raphael Merida

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?

 

RISPOSTA:

Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.

In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.

Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.

Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):

 

  1. quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
  2. in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
  3. prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
  4. davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.

 

Raphael Merida

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QUESITO:

Nel mio lavoro da copywriter, creo spesso delle campagne pubblicitarie per i social, la carta stampata e le affissioni.

Nelle “headline” (i titoli delle campagne pubblicitarie) io non metto mai il punto, a meno che non sia un punto interrogativo o esclamativo.

Tantissimi altri miei colleghi invece lo fanno.

Ad esempio nella headline “La colazione dei campioni” secondo me il punto non ci va. Mentre altri lo mettono.

Ho ragione io, hanno ragione i miei colleghi, o è una scelta stilistica?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei: nei titoli di norma il punto non va. È pur vero che, soprattutto nella testualità online, lo stile la fa da padrone, come anche l’espressività, le consuetudini scrittorie (mutate) e le attese dei lettori. Motivo per cui taluni argomentano sostenendo che il punto può conferire maggiore perentorietà, sicurezza, affidabilità (come a dire: punto e basta, so quello che dico e che offro). Per queste ragioni, all’opposto, in altri tipi di testo il punto viene bandito anche fuor dai titoli: se ha esperienza di testualità nei social, sa come un punto alla fine di un post di fb o di un messaggio whatsapp può rompere amicizie e amori (è successo più volte veramente), perché viene interpretato come una chiusura all’altro, un atto di violenza, una rottura del rapporto.

Cionondimeno, da affezionato tradizionalista alla testualità analogica, mi sento di suggerirle di rimanere fedele alla nostra vecchia e amata norma di non mettere mai il punto fermo alla fine di un titolo. Punto (ma sia qui detto e scritto senza alcuna ostilità, anzi…)

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho sempre utilizzato la parola latina ius premettendo ad essa l’articolo lo, probabilmente influenzata da casi analoghi (lo Ione di Platone). Mi accade però di leggere il ius su un manuale. Quale dei due articoli (il/lo) costituisce la forma corretta?

 

RISPOSTA:

Senza dubbio alcuno lo ius. Infatti, anche volendo appigliarsi alla pronuncia (forse) non semiconsonantica, ma vocalica, della i prevocalica, l’articolo mai sarebbe il, ma semmai l’: l’imbuto. E infatti l’ius (così come l’iena, per la iena) è possibile, sebbene minoritario e arcaico.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo
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QUESITO:

Potrebbe gentilmente chiarirmi un dubbio riguardo all’uso della vocale I nel digramma GN? I verbi impegniamo, bagniamo, insegniamo si scrivono con la I?

Potrebbe inoltre dirmi come fare la divisione in sillabe delle stesse parole?

 

RISPOSTA:

Le forme verbali da lei segnalate si scrivono con la i, alla prima persona del presente indicativo e congiuntivo, perché la i fa parte della desinenza verbale (-iamo), non della radice (e infatti i verbi sono impegnare, bagnare, insegnare ecc., senza i). Diciamo amiamo, non *amamo. Naturalmente la i si scrive ma non si pronuncia, perché viene assorbita dalla pronuncia palatale del nesso GN. La divisione in sillabe è la seguente: im-pe-gnia-mo; ba-gnia-mo; in-se-gnia-mo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi grammaticale, Verbo
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QUESITO:

Volevo sapere quale delle seguenti frasi è scritta meglio dal punto di vista interpuntivo. So benissimo che non ci sono regole ferree nella punteggiatura, però volevo un vostro consiglio su quale delle due fosse migliore, come pure conoscere la differenza fra entrambe. Inoltre desideravo sapere se nei rispettivi casi fosse meglio usare il corsivo oppure le virgolette, nonché se fosse necessaria la maiuscola per il testo tra gli apici o quello scritto in corsivo. Se poi conoscete un modo migliore per formulare la frase, non esitate a suggerirmelo. 

Ecco le seguenti frasi:

1) Quando hai effettuato la ricarica postepay inviami la foto della ricevuta, con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com

2) Quando hai effettuato la ricarica postepay, inviami la foto della ricevuta con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi da Lei proposte vanno bene.
Nello specifico: la virgola dopo una subordinata premessa alla reggente (Quando hai effettuato la ricarica postepay,) si può mettere, ma non è mai obbligatoria. Anche la virgola prima del complemento (, con su scritto…) si può mettere o no.
In generale, la presenza delle virgole (entrambe quelle segnalate) ha come risultato quello di dare maggiore rilievo semantico, in certo qual modo maggiore autonomia, alle due componenti separate dalla virgola stessa.
Quanto all’alternativa virgolette/corsivo, decisamente meglio le virgolette, dal momento che si tratta di una citazione diretta della frase scritta o da scrivere. Il corsivo, comunque, non sarebbe del tutto errato, dal momento che segnalerebbe, metalinguisticamente, l’oggetto della citazione.
Quanto all’iniziale maiuscola o minuscola all’interno della citazione, anche in questo caso entrambe le soluzioni sarebbero accettabili: di solito si preferisce la minuscola quando la citazione è integrata sintatticamente alla frase citante (per es.: la frase “scrivi il tuo nome” è corretta), la maiuscola quando la frase citata è sintatticamente autonoma dal contesto (come nel suo caso, dopo i due punti). Un’altra ratio è quella filologica: cioè si usa la minuscola o la maiuscola a seconda che nell’originale citato (o nell’esempio fornito) vi sia, o debba esservi, la minuscola o la maiuscola.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi scrivo riguardo un dubbio riguardo l’uso delle virgolette a inizio frase.
Nello specifico, mi riferisco all’uso delle virgolette per enfasi,  per esempio in uno scambio:
A) Non è una soluzione, è un disastro!
B) “Disastro” mi sembra un’esagerazione…
In questo caso, nella frase pronunciata da B “disastro” andrebbe scritto con la maiuscola?
 

 

RISPOSTA:

Certamente “Disastro” nel secondo turno dialogico va scritto con l’iniziale maiuscola, indipendentemente dalle virgolette, visto che si tratta della parola inziale della frase.
Le virgolette, tuttavia, in questo caso, non hanno valore di enfasi bensì metalinguistico o di citazione, cioè sono identiche al corsivo e servono soltanto a segnalare che ci si sta riferendo a una parola citata da una frase precedente, cioè, per l’appunto, la parola “disastro”.
Sarebbero virgolette d’enfasi se per caso fossero state usate nel primo turno: Non è una soluzione, è un “disastro”! E sarebbero state da evitarsi, dal momento che non c’è alcun bisogno di sottolineare una parola che ha già di per sé, in quel contesto, un chiaro valore estensivo e iperbolico.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Gradirei sapere perché il plurale della parola assassinio risulta essere assassinii, mentre il plurale della parola guscio o della parola occhio risulta essere (almeno da quello che ho avuto modo di notare in alcuni scritti) gusci occhi, anziché guscii occhii. Vorrei sapere se c’è una regola in proposito.

 

RISPOSTA:

Nell’italiano contemporaneo i nomi che al singolare finiscono in -io al plurale mantengono la i se essa è accentata (addio > addii), la perdono se non è accentata (occhio > occhi). Le forme occhiigusciibivii ecc., rispettose della forma della parola, ma non del suono, visto che la sequenza ii del plurale si pronuncia come un’unica i, sono attestate fino a metà Novecento, per poi divenire rare o essere completamente abbandonate.
La i non accentata del singolare si mantiene al plurale nella parola assassinio soltanto per distinguere nello scritto questo nome dall’omofono (nonché omografo) assassini, plurale di assassino. Si noti che questa motivazione è molto debole, infatti il plurale assassini per assassinio è anche possibile, così come il plurale omicidi per omicidio è più comune di omicidii, a dispetto dell’esistenza dell’omofono e omografo omicidi, plurale di omicida.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Quando si scrive una lettera o una mail (come questa ad esempio), dopo l’intestazione, andando a capo io sono abituato a scrivere la parola successiva con prima lettera in minuscolo.
Tuttavia vedo che molti nelle lettere altamente formali procedono mettendo la lettera maiuscola.
Es:   Gentile Rossi Mario,
        Con la presente sono ad informarLa…

Anche in Cordiali Saluti molti mettono entrambe le parole maiuscole…

 

RISPOSTA:

Poche sono le regole certe sull’iniziale maiuscola; il suo uso è legato soprattutto a convenzioni più o meno stabili e deduzioni ragionevoli. A proposito delle e-mail formali, che possiamo assimilare alle lettere cartacee, iniziare il corpo della lettera, subito sotto l’intestazione, con la lettera miniscola è coerente con la presenza, alla fine dell’intestazione, della virgola, che non è seguita di norma dalla lettera maiuscola. C’è da considerare, però, l’a capo che separa l’intestazione dal corpo della lettera, tipicamente seguito dalla maiuscola. Tra le due motivazioni direi che più forte è la virgola, che implica l’iniziale minuscola; non mi sentirei, però, di condannare come scorretta l’iniziale maiuscola. Per quanto riguarda la doppia maiuscola in Cordiali Saluti (senza considerare l’eventuale precedenza del punto fermo, che ovviamente richiederebbe la maiuscola per Cordiali), siamo di fronte a un uso enfatico di questo tratto grafico, del tutto soggettivo e legato allo stile personale; si tratta di una scelta non impossibile (proprio perché l’uso della maiuscola è poco regolato), ma difficilmente giustificabile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Quali delle seguenti frasi, è corretta da un punto di vista grammaticale?
Non ci ho voglia
Non c’ho voglia
Non ciò voglia
 

 

RISPOSTA:

“Non ci ho voglia” e “Non c’ho voglia” sono entrambe corrette, sebbene entrambe informali (la seconda più della prima) e adatte più al parlato che allo scritto, per via della presenza del ci attualizzante, rispetto al più formale “Non ho voglia”. La seconda, inoltre, genere problemi di pronuncia, poiché, per la mancanza di una vocale palatale, indurrebbe l’erronea pronuncia “kò”.
“Non ciò voglia” è un grave errore, perché confonde “ci ho” con il pronome “ciò”, solo per via del fatto che la pronuncia delle due forme è identica. Naturalmente la forma “non ciò voglia” non ha alcun senso e dunque è annoverabile tra le forme di italiano popolare, oppure di interlingua, ovvero una forma tipica di chi non conosce bene o affatto la lingua italiana.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Quale fra le due affermazioni è la più formale?
Quanto alto è Mario?
Quanto alto sarà Mario?
Inoltre ho visto che va molto di moda ultimamente mettere l’asterisco per rendere “neutri” i sostantivi (asterisco egualitario di genere) che se non ho capito male, sarebbe invece consigliato rivolgersi ad entrambi i sessi con il maschile plurale secondo canoni formali della lingua italiana.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette (anche se sarebbe meglio anteporre il verbo: Quanto è alto, Quanto sarà alto Mario?), soltanto che in questo caso il futuro ha un valore epistemico, cioè indica un certo grado di dubbio o probabilità: “mi chiedo quanto possa essere alto Mario” ecc. Dato che ogni domanda (che non sia retorica) contiene in sé un elemento dubitativo (altrimenti se si sapesse già la risposta non si farebbe la domanda), in questo caso il futuro è tutto sommato pleonastico, in quanto equivalente al presente.
Il problema dell’uso dell’asterisco, o dello schwa, a scopo inclusivo, ovvero per rendere sia il maschile, sia il femminile, sia per includere nel novero persone non binarie, è, soprattutto in questi giorni, più vivo che mai e non può essere riassunto in poche battute qui. Ognuno ha le sue idee, legittimamente. Ovviamente la soluzione dell’asterisco e dello schwa violano le attuali norme ortografiche e morfologiche dell’italiano, ma ogni lingua evolve anche a costo di infrazioni del sistema. Pertanto se tali istanze inclusive (di per sé nobilissime, ovviamente, in qualunque società civile) venissero sentite dalla maggioranza degli utenti come necessarie alla comunicazione, il sistema linguistico non potrà non esserne influenzato e dunque l’asterisco e/o lo schwa saranno inclusi nel nostro sistema ortografico e morfologico, con buona pace degli oppositori e delle petizioni. Del resto, non è questo l’unico caso, nella storia della lingua, di vistosi cambiamenti del sistema ortografico: quando io andavo alle scuole elementari era ancora ammessa la grafia ò, ài, à, in luogo di ho, hai ha.
Morale della favola: non parlerei di corretto/scorretto, nei casi di asterisco o di schwa, ma di sentito o no come urgente, usato o no da un congruo numero di utenti ecc. Peraltro, il fatto che oggi si utilizzi il maschile indistinto (eviterei l’uso della parola “neutro”, visto che l’italiano, differentemente da altre lingue, non ha il genere neutro) per rivolgersi sia agli uomini, sia alle donne, sia alle persone non binarie, non relega certo al rango di scorrettezza altri usi possibili, quali per esempio quello, perché no, di utilizzare il solo femminile sempre.
Accada quel che accada nella lingua italiana (che, come ripeto, è in continua evoluzione e non può non riflettere le istanze sociali di chi la usa, visto che ogni lingua umana è, in primo luogo, uno strumento sociale), di qui a qualche mese o anno o decennio, mi pare si debba comunque guardare con favore al fatto che molte persone ritengano importante ridurre il più possibile la discriminazione e l’esclusione, presenti purtroppo ancora largamente nelle nostre società e dunque, di riflesso, anche nelle nostre lingue.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le forme “buona sera” e “buonasera” sono entrambe corrette, ma quale è maggiormente indicata nelle comunicazioni formali?

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che oggi le due forme sono del tutto equivalenti sul piano diafasico, ovvero entrambe sono perfettamente adatte sia al registro formale, sia a quello informale. E lo stesso valga per le analoghe coppie buon giorno / buongiornobuona notte / buonanotte.

Sicuramente, visto che le forme univerbate nascono da quelle staccate, cioè dalle locuzioni buona sera ecc., è chiaro che oggi le forme staccate siano meno frequenti e d’origine più antica, pertanto abbiano un sapore più ricercato (staserei per dire lezioso, in certi casi).

I dizionari di solito non prendono posizione: per es. né il Gradit di De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito del periodico Internazionale.it) né il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera) distinguono tra le due forme, riportate come del tutto equivalenti.

Il Treccani, invece (treccani.it), sostiene che le forme staccate (buona sera ecc.) siano più comuni di quelle univerbate, benché questa valutazione sia smentita dai corpora (come vedremo tra un attimo). Ho il sospetto che, come spesso accade, il tendenziale purismo del vocabolario Treccani dica “più com.” laddove vorrebbe invece dire “più elegante perché più antico e raro”.

E veniamo ai corpora. Grazie alla preziosa funzione di calcolo delle frequenze agganciata a Google libri, denominata N-Gram Viewer (liberamente accessibile in https://books.google.com/ngrams) possiamo appurare quanto segue:

– buonasera sorpassa le frequenze di buona sera nel 1973, e da lì in poi l’impennata della prima forma è progressiva rispetto alla caduta della seconda forma;

– analogamente per buonanotte e buona notte (il sorpasso della prima forma inizia nel 1992) e per buongiorno e buon giorno (il sorpasso della prima forma inizia nel 1961). I dati sono ricavati dall’immensa mole di testi presenti in tutto Google libri dal 1500 al 2019.

Insomma, le forme staccate buona serabuona notte e buon giorno sono destinate a scomparire, così come sono scomparse per cheper ciòsopra tutto ecc. Il suggerimento è di usare, in tutti i contesti, le forme univerbate, per evitare di esporci alla critica di essere troppo retrogradi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Leggendo su internet i vari nomi dati alla morte, come Tristo Mietitore o Signora in Nero, mi chiedo se è così che ci si debba regolare nel caso se ne volessero coniare di nuovi. Mi riferisco alle maiuscole, che vengono messe anche alle parole seguenti, ma non alle preposizioni.

 

RISPOSTA:

Le convenzioni sull’uso della maiuscola sono poco vincolanti quando si tratta di usi non canonici. Nel suo caso possiamo considerare le espressioni da lei citate come nomi propri composti (in questo senso anche Morte può essere scritto maiuscolo, se è usato come nome proprio). I nomi propri formati da più di una parola sono piuttosto rari: esempi del genere sono quelli geografici, come Monte BiancoMar Nero e anche L’AquilaIl Cairo ecc. Per convenzione, tutte le parole che compongono questi nomi si scrivono maiuscole; questa convenzione, però, si scontra con quella, opposta, che sfavorisce la maiuscola per le parole vuote (articoli, preposizioni, congiunzioni). Nel caso di L’Aquila e simili questa eccezione è aggirata dal fatto che la parola vuota è iniziale, quindi la maiuscola si giustifica per quest’altra via; in casi come Mare dei Sargassi, invece, si propende senz’altro per la minuscola per le preposizioni. 
Il suo caso può essere ben assimilato a quello dei nomi geografici, per cui vanno bene Tristo Mietitore (come Mar Nero) e Signora in Nero (come Mare dei Sargassi). Non sono esclusi, però, tristo Mietitore, visto che tristo è decisamente distinguibile come attributo, mentre Nero di Mar Nero è più nettamente parte del nome, e Signora in nero, perché, similmente, in nero è una specificazione abbastanza autonoma, laddove dei Sargassi di Mare dei Sargassi è nettamente parte del nome.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Nome, Preposizione
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QUESITO:

Vorrei sapere se parlando di una entità personificata, essa debba andare con la lettera maiuscola: per esempio, la Vita.

 

RISPOSTA:

Anche se la lettera maiuscola si usa per i nomi propri, non ha la capacità di segnalare l’animatezza di un referente, altrimenti dovremmo scrivere il Canela Pecora ecc. Piuttosto, la maiuscola segnala l’unicità del referente rispetto a una classe; quindi i nomi propri sono maiuscoli perché identificano persone uniche, la Terra è maiuscola perché identifica un oggetto specifico distinto dalla terra nome comune ecc. In considerazione di questo, la sua idea non funziona bene e rischia di ingenerare confusione nel lettore.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?

 

RISPOSTA:

Il verbo bisognare (e analoghi: è necessariorichiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi chiedo se una citazione possa avere o no la maiuscola a seconda di come è scritta. Per esempio: se scrivo: “Qualcuno ha detto: ‘La vita non è aspettare che passi la tempesta, è imparare a danzare sotto la pioggia’”, so che ci vuole la maiuscola, ma mi capita di leggere invece: “Qualcuno ha detto che ‘la vita non è aspettare che passi la tempesta, è imparare a danzare sotto la pioggia’”. È corretto? la seconda frase si scrive così perché è un discorso indiretto?

 

RISPOSTA:

Uno dei pochi punti fermi dell’ortografia nell’ambito della punteggiatura è che il discorso diretto deve cominciare con la lettera maiuscola. Si noti, a parte, che questa convenzione, in teoria utile per distinguere il discorso riportato dalla cornice che lo inquadra, va accolta senza dogmatismo: in pratica, infatti, non è affatto necessario segnalare con la maiuscola la alterità del discorso riportato rispetto alla cornice quando il discorso riportato ha già una sua precisa segnalazione introduttiva (: ” oppure : –) e conclusiva (” oppure –).
Tornando al tema centrale, le citazioni letterali di parole altrui possono essere assimilate a un discorso diretto oppure no; nel primo caso si ricade nell’obbligo della lettera maiuscola, nel secondo caso, invece, no. Che cosa distingue il primo caso dal secondo? La presenza, nel secondo caso, di un connettivo (come nella sua frase che) che integra la citazione all’interno della sintassi della cornice. Anche in questo caso, va ricordato, è bene mantenere le virgolette intorno alla citazione, per segnalare che quelle parole provengono da un’altra fonte.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Vorrei sapere se in queste due frasi è d’obbligo l’uso delle virgolette e della maiuscola dopo i due punti:
1 – Ama la vita. Ma spesso sarebbe meglio dire: attento che non ti combini
qualcosa!
2 –  Vorrei dire a chi mi critica: potrei dir peggio io di voi!
 

 

RISPOSTA:

A rigore sì, trattandosi di normalissimi casi di discorso diretto introdotto dal verbo dire (ancorché attribuito alla voce pensiero dello/a stesso/a narratore/narratrice). Però in letteratura i casi di voce pensiero o voce riprodotta espressi senza virgolette e senza maiuscola sono numerosissimi, per cui sarei molto elastico al riguardo. Certo, con tutto il rispetto per l’estro creativo degli autori e delle autrici, la chiarezza e l’agevolazione della comprensione dei lettori e delle lettrici sono sempre da mettersi al primo posto, quando si scrive (letteratura o no), per cui io le suggerirei di utilizzare sia le virgolette sia l’inziale maiuscola.

Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Se nel mezzo di un periodo scrivo, usando le virgolette, frasi tipo “il lavoro nobilita l’uomo”, devo preferire la maiuscola o la minuscola?

 

RISPOSTA:

Sia che si riferisca all’articolo il, sia che si riferisca a uomo, la variante da usare è la minuscola; non c’è, infatti, nessuna circostanza che giustifichi l’uso della maiuscola.
La maiuscola dopo le virgolette è convenzionalmente usata all’inizio di un discorso diretto (… disse: “Domani pioverà”). Sempre possibile è la maiuscola enfatica per uomo, per dare risalto all’universalità del riferimento. Una scelta del genere, si badi, sarebbe propria di uno stile ampolloso.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?

 

RISPOSTA:

La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non  sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttaviabenché,  acconsentiretollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei presentarvi quattro quesiti sul punto interrogativo.
1) Quando vi sia una sequenza di domande, in particolare se queste siano connesse tra di loro, è possibile usare la minuscola dopo il nostro segno, oppure è obbligatoria la maiuscola?
1a) «Hai mangiato? hai bevuto? ti sei riposato un po’?»
1b) «Hai mangiato? Hai bevuto? Ti sei riposato un po’?»

2) Quando in una frase vi siano più domande riconducibili, per così dire, a un’unica struttura logico-sintattica, il punto interrogativo può essere posto soltanto una volta a fine frase, o è possibile anche la scelta opposta?
2a) «Che cosa è successo di così importante, puoi dirmelo?»
2b) «Che cosa è successo di così importante? puoi dirmelo?»
2c) «Lui come sta adesso, si sa qualcosa?»
2d) «Lui come sta adesso? si sa qualcosa?»
2e) «Che cosa vuoi fare: parlargli o ignorarlo?»
2f) «Che cosa vuoi fare, parlargli o ignorarlo?»
2g) «Che cosa vuoi fare? parlargli o ignorarlo?»

3) Quando in una frase interrogativa si propongano più alternative, il nostro segno può essere collocato alla fine, o è meglio spezzare la frase?
3a) «Si può parlare apertamente? Oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»
3b) «Possiamo parlare, oppure preferite che diciamo mezze verità o che tacciamo?»  

4) Dal punto di vista della punteggiatura, qual è la forma migliore per sintagmi come «perché no», «che so io», «che ne so» e simili, quando questi si trovino in date frasi sotto forma di inciso?
4a) «Vorrei parlare e, perché no, anche scrivere»
4b) «Vorrei parlare e, perché no? anche scrivere»
4c) «Vorrei parlare e, perché no?, anche scrivere»
5a) «Si può, che so io, contattarlo?»
5b) «Si può, che so io? contattarlo?»
5c) «Si può, che so io?, contattarlo?».

 

RISPOSTA:

I casi da lei prospettati non sono codificati, ma ammettono in teoria tutte le varianti, perché ognuna è giustificabile sulla base di una certa finalità espressiva. Ci sono, però, delle tendenze d’uso. Nella frase 1 è senz’altro più comune la lettera maiuscola, perché il punto interrogativo è assimilato al punto fermo. La lettera minuscola può essere usata per sottolineare che il punto interrogativo serve soltanto a indicare un’inflessione della voce, ma sintatticamente la frase va avanti. Per esempio, la lettera minuscola potrebbe essere usata nelle frasi 4b e 5b. Rimanendo sulle frasi 4 e 5, va comunque detto che le forme più comuni sono la 4a e la 5a, perché l’intento interrogativo emerge chiaramente anche senza punto interrogativo, e per evitare proprio di inserire un punto interrogativo in mezzo alla frase. Le frasi del punto 2 sono tutte possibili: la preferenza per l’una o l’altra variante dipenderà dallo stile personale (per esempio, la sequenza ravvicinata di due o più punti interrogativi potrebbe essere giudicato inelegante). Lo stesso vale per le frasi del punto 3.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Ho un dubbio a proposito della divisione in sillabe di parole che presentano le vocali ui o iu.
Sui-no o su-i-noRe-sti-tui-re o re-sti-tu-i-re?
In particolar modo, se la vocale accentata è la seconda ho trovato pareri discordanti.
Quindi, dittongo o iato?

 

RISPOSTA:

In entrambi i casi da lei proposti si tratta di uno iato, perché la u primo elemento della coppia ui è una vocale, e non una semivocale (quindi si pronuncia autonomamente rispetto alla i). Per questa ragione la divisione in sillabe sarà su-i-no e re-sti-tu-i-re
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Vorrei sapere se un’espressione estrapolata da una frase può essere scritta in questo modo: “QUEL ‘avrebbe detto’ è corretto o meno”? Oppure è preferibile dire: “QUELL’ ‘avrebbe detto’ è corretto o meno”?

 

RISPOSTA:

Quando si sostantivizza una parte del discorso, essa deve essere considerata un nome a tutti gli effetti. Come diremmo quell’albero, quindi, diremo quell’avrebbe. Se possibile, inoltre, è preferibile evitare la successione dell’apostrofo e delle virgolette (o del singolo apice, nel caso in cui ci si trovi all’interno di virgolette), usando il corsivo: “quell’avrebbe detto…”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

vorrei sapere se il testo che riporto di seguito è corretto.

Egregio Dirigente Scolastico C. V.,
sono  R. L. ;  docente che ha avuto un giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità. Comunico che mi sono sottoposta alla prima dose del vaccino anti-COVID e il 16 maggio farò la seconda dose. Chiedo la revisione del giudizio da parte del Medico Competente per tornare in servizio in presenza.
Distinti saluti.

 

RISPOSTA:

Nel testo non ci sono errori; suggerisco, però, alcuni aggiustamenti che lo renderebbero più appropriato. La maiuscola di Dirigente è comprensibile, sebbene non necessaria: ingiustificate e da eliminare, invece, sono quelle di ScolasticoMedico e Competente.
Insolito è l’inserimento del nome del destinatario (sempre che C. V. siano le iniziali del nome) dopo il titolo del ruolo; si può senz’altro eliminare il nome, anche perché in questo modo si segnala che ci si rivolge alla funzione, non alla persona. Sempre a proposito del destinatario, l’aggettivo egregio è pomposo e al limite dell’appropriatezza in una comunicazione formale ma tra due persone che, immagino, si conoscano personalmente. Più adatto alla situazione sarebbe Gentile
All’inizio del testo non è necessario presentarsi, come se si parlasse al telefono; è sufficiente a questo scopo inserire la firma in calce. Eliminato il riferimento personale, rimane in primo piano, come è giusto che sia, il motivo della comunicazione, che potrebbe essere formulato così: in relazione al giudizio di inidoneità temporanea alla mansione per fragilità di cui sono stata oggetto, comunico…
Infine, l’aggettivo Distinti associato a saluti è distaccato e asettico; in questo contesto potrebbe essere sostituito da Cordiali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è grammaticalmente corretto l’utilizzo dell’abbreviazione sigg.ri o se l’abbreviazione della parola signori sia solamente sigg.

 

RISPOSTA:

Sigg.ri è forma scorretta (attestata, ma da respingersi), poiché combina arbitrariamente due forme possibili:  la più comune sigg. (che, come tutte le abbreviazioni per il plurale, raddoppia la consonante: ess. ‘esempi’, pp. ‘pagine’, sgg. ‘seguenti’ ecc.) e la meno comune sig.ri (con una sola g, perché il plurale è rappresentato dalla i, in analogia a signore > signori).
Fabio Rossi

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QUESITO:

Quando si scrive una lettera formale Cordiali Saluti va scritto con le lettere iniziali maiuscole oppure no?
Ad esempio: 
“Le porgo cordiali saluti” oppure “Le porgo Cordiali Saluti” ?

 

RISPOSTA:

Non c’è una regola precisa sull’uso delle maiuscole in italiano. In generale è frequente che la maiuscola venga usata con nomi comuni come PresidenteDirettore / DirettriceSindaco / Sindaca e tutti gli altri che identificano cariche pubbliche e posizioni di potere. Sulla base di questo uso si potrebbe credere che la maiuscola renda un’espressione come Cordiali Saluti più ossequiosa, quindi più formale, ma ritengo che questo sia un eccesso e si possa tranquillamente evitare.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Registri
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QUESITO:

Ho un dubbio circa la seguente costruzione:
“Michele ascoltò la storia della sua adolescenza vista dall’esterno: in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso”.
È corretto scrivere (o dire) lui stesso, o si sarebbe dovuto propendere per se stesso?

 

RISPOSTA:

Questa frase è senz’altro un caso limite: rappresenta una situazione in cui una persona sente parlare di sé da un’altra persona. Non è sorprendente che questo provochi una certa confusione nei riferimenti dei pronomi. A rigore,  rimanda al soggetto della frase, quindi nella frase in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso non si può usare, perché il soggetto della frase non è Michele, bensì tutto lui stesso. Ne consegue che lui stesso è il pronome corretto. Nello stesso tempo, però, è evidente che tutto lui stesso è proprio Michele, quindi sé stesso è giustificabile per logica.
Piccola notazione grafematica: nonostante l’inveterata abitudine a scrivere  senza accento quando è seguito da stesso, consiglio di mantenere sempre l’accento, perché la parola è sempre la stessa e non c’è ragione di modificarne la grafia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione
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QUESITO:

Nello studio della grammatica di nostra figlia ci siamo imbattuti un una discrepanza tra due libri di testo sull’argomento dei trigrammi che sono quindi a chiedervi di dirimere.
La prima domanda è quindi se i trigrammi siano da considerarsi due o quattro.
Inoltre:
1) in “Grammatica Pratica” di E. Sergio è scritto che ci e gi seguiti da ae, o, u sono digrammi. Quindi specieciecocielosocietàsuperficiebracierepancieragrattacieloigiene e derivati, effigie sono da considerarsi correttamente digrammi? 
2) Nella stessa grammatica viene illustrato il caso di sciatore fruscio e evidenziando che non si tratta di trigrammi. Sono quindi da considerarsi digrammi?
3) In “Datti una Regola” di E. Zordan c’è una nota sia per i digrammi che per i trigrammi: “nei gruppi cigi seguiti da vocali, la i serve solo da segno grafico per rendere dolci i suoni c e g“. Per segno grafico si intende segno diacritico? Ovvero nei digrammi e trigrammi i ed h sono sempre segni diacritici?

 

RISPOSTA:

I trigrammi in italiano sono 2, gli (come in aglio) e sci (come in sciocco). I digrammi, invece, sono sette: gl davanti a i (figli); gn davanti a vocale (compagno); ch davanti a e e i (chiedere); gh davanti a e e i (margherita); sc davanti a e e i (scena); ci davanti a aou (camicia); gi davanti a aou (valigia). Il caso dei gruppi ci e gi seguiti da e è oggetto di dibattito, perché qui la i non corrisponde a un fonema né ha funzione diacritica; continuiamo a scriverla soltanto per mantenere la somiglianza grafica delle parole con la loro base etimologica (ad esempio effigie effigiempanciera < pancia + -ieracamicie < camicia ecc.). Se eliminiamo questa i il suono della parola non cambia affatto (infatti alcune di queste parole si possono scrivere anche senza i, come pancera o effige). Effettivamente, però, anche in questo caso abbiamo due grafemi (i e g + i) che rappresentano un unico fonema, quindi possiamo considerarli digrammi.
Chi e ghi non sono trigrammi, ma l’unione di due digrammi, ch e gh, con la vocale (o la semivocale) i. Si noti, infatti, che in aglio e sciocco i gruppi di grafemi gli e sci rappresentano ognuno un unico suono, mentre in chiedere e ghiro i gruppi chi e ghi rappresentano due suoni, rispettivamente ch-i e gh-i
La i segno diacritico (o segno grafico, cioè senza valore fonetico) è quella che serve a indicare che il grafema precedente deve essere pronunciato come palatale (o dolce) e non come velare (o duro). Per esempio nella parola sciatto la i indica che il fonema corrispondente al digramma sc è palatale. Dal momento che il grafema i è funzionale alla pronuncia del digramma sc lo consideriamo un tutt’uno con esso, per cui otteniamo il trigramma sci. Se in questa parola togliamo il grafema i otteniamo una parola diversa, scatto, nella quale abbiamo due fonemi distinti, quello corrispondente al grafema s e quello corrispondente al grafema c velare (oltre agli altri che completano la parola). La i è un segno diacritico nei digrammi ci e gi e nei trigrammi; ha, invece, valore fonetico, cioè corrisponde a un fonema autonomo, quando è accentata (come in fruscio, in cui abbiamo il digramma sc seguito dal fonema corrispondente a i) oppure quando non è preceduta da sccg o gl (attivi). La parola sciare è un caso isolato, perché non si pronuncia sciàre, quindi con il trigramma sci, ma quasi scìàre, con la i autonoma. Per capire meglio questa particolarità basta confrontare la pronuncia di sciare con quella di sciara (‘la scia della lava depositata sui fianchi di un vulcano’), in cui sci è un trigramma.
Anche l’h è un segno diacritico, che indica il contrario della i, ovvero che il fonema precedente deve essere pronunciato come velare e non come palatale. In italiano l’h non ha mai valore fonetico (è “muta”), ma può servire 1. come segno diacritico; 2. a distinguere graficamente due parole omofone (ad esempio ha e a); a rappresentare una particolare emissione della voce nelle onomatopee ah!oh! e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Titoli come avvocatoprofessore ecc., se non accompagnati dal cognome, vanno maiuscoli?  
Come si comportano i titoli con il sesso delle persone? Sindaco sindacaArchitetto architetta

 

RISPOSTA:

Non c’è alcuna ragione per scrivere con lettera maiuscola i titoli di professione, anche quando non siano seguiti dal nome della persona. Il maiuscolo può essere usato (ma non è obbligatorio neanche in questo caso) quando il titolo è usato per antonomasia per riferirsi a una persona specifica: l’Avvocato (Giovanni Agnelli), il Professore (Romano Prodi). I titoli di professioni comunemente ritenute prestigiose (Onorevole, ma anche PresidentePapaDirettore…) sono spesso scritti con la maiuscola, per sottolinearne il valore distintivo, anche se non è affatto necessario farlo. Quindi, se scrivere l’Avvocato fa pensare a una persona specifica, ovvero l’avvocato Giovanni Agnelli, scrivere l’Onorevole può rimandare a qualunque onorevole che sia stato nominato precedentemente.
I nomi di professione femminili sindaca e architetta sono ben formati e perfettamente legittimi; è preferibile, quindi, usarli quando ci si riferisce a professioniste. Sui nomi di professione femminili rimando a questo articolo pubblicato in DICO.
Nell’articolo è inserito anche il link alla guida Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, che spiega dettagliatamente tutti i casi dubbi (il link è questo: https://accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Ho notato che in alcune frasi vengono utilizzati i trattini (-), che se non erro sono simili alle virgolette. In questa frase: “Donare sangue – dice spesso – è facile” (riferito chiaramente ad una persona).
Per quale motivo servono i trattini?

 

RISPOSTA:

I trattini hanno una funzione simile a quella delle parentesi (non hanno, invece, niente a che fare con le virgolette). Possono essere usati per contenere un sintagma (ovvero un pezzo di una proposizione) aggiuntivo, che modifica leggermente il significato della frase in cui è inserito: “Sei arrivato – come sempre – in ritardo”. In questi casi possono essere sostituiti dalle parentesi: “Sei arrivato (come sempre) in ritardo”, o dalle virgole di apertura e chiusura: “Sei arrivato, come sempre, in ritardo”. Rispetto alle parentesi, le virgole e i trattini mettono meno in secondo piano l’informazione che racchiudono.
Più spesso, i trattini sono usati per contenere un’intera proposizione incidentale, dotata di un verbo (come nel suo esempio). In questi casi si possono comunque sostituire con le virgole, mentre difficilmente si useranno le parentesi.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

“Non passano né per la mente e nemmeno per il cervello” si può anche esprimere: “Non passano per la mente e nemmeno per il cervello”? Il  si può togliere?

 

RISPOSTA:

Sì, la congiunzione né (che si scrive sempre con l’accento, per distinguerla dal pronome ne) in questo caso rafforza la contrapposizione tra i due elementi correlati, ma non è necessaria.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Il termine bustrofedico, data l’etimologia, può riferirsi alla lingua ebraica? Ho trovato a proposito il termine sinistroverso, che è anni luce più povero del precedente.

 

RISPOSTA:

Come è noto, la scrittura bustrofedica procede a righi alternati da sinistra a destra e da destra a sinistra. Le lingue semitiche, come l’arabo e l’ebraico, non hanno questa caratteristica, ma procedono sempre nello stesso verso, da destra a sinistra. Il termine bustrofedico, pertanto, non descrive con precisione queste lingue. Il termine sinistroverso, non registrato dai vocabolari, sembra più adatto a descrivere segni che possono presentarsi rivolti in un verso o nell’altro, infatti è usato in contesti specialistici soprattutto per descrivere figure dipinte su ceramica rivolte verso sinistra. Anche questo termine, pertanto, non sembra adatto, visto che la scrittura delle lingue semitiche può presentarsi rivolta soltanto in un verso. Il termine più adatto (nonché quello più usato) per descrivere l’andamento della scrittura dell’ebraico è sinistrorso.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

È sbagliato scrivere cinquant’otto?

 

RISPOSTA:

Le unità si uniscono di norma alle decine formando un’unica parola, quindi la forma certamente corretta è cinquantotto. La variante con l’elisione, cinquant’otto, non rappresenta un errore grave, ma presuppone la forma cinquanta otto, quindi anche cinquanta unocinquanta duecinquanta tre ecc., che non possono dirsi scorrette, ma sono sfavorite nell’uso, probabilmente perché la parola unica rispecchia la forma dei numeri (515253… 58), nella quale le cifre nono son separate dallo spazio.
Fabio Ruggiano

 

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QUESITO:

Dopo cento e uno è possibile dire cento e duecento e trecento e tredici eccetera?
Si dice centouno favole / libri (plurale) però cento e una favola / cento e uno libro (singolare)?
E con mille vale la stessa regola? Mille e duemille e tredicimille e trecentodue, e poi milleuno favole, mille e una favola?
Lo stesso vale per un milione e novantunmiladue milioni e centocinquemilaquattrocentoottantottomila e novecentocinquantuno. Dopo milionemiliardomila si mette la e?
Ancora, si scrive anni ’80 o anni 80nel 45 o nel ’45?
E quando si scrivono insieme e attaccati i numeri grandi?

 

RISPOSTA:

I composti con centomille e -mila si possono scrivere attaccati, senza e o staccati, con la congiunzione; sono, quindi, corretti, sia centotredici sia cento e tredici, sia milletredici sia mille e tredici, sia duemila e novantanove sia duemilanovantanove. Molto più comune oggi, comunque, è la forma unita. Si noti che la decina ottanta perde l’iniziale in composizione con centocentottantacentottantuno (oppure cento e ottantacento e ottantuno) ecc. Quindi non quattrocentoottantottomila ma quattrocentottantottomila.
Centouno centouna sono per forza plurali, visto che indicano un gruppo numeroso di elementi. Quando si scrivono separati può sembrare strano concordare uno e una con un nome plurale, ma è ancora possibile: mille e una casecento e un libri. Diviene possibile, però, anche concordarli al singolare: mille e una casacento e un libro.
Milione e miliardo si scrivono sempre separati dalle altre cifre, con la congiunzione eun milione e novantunmila (non un milionenovantunmila), due milioni e centocinquemila (non due milionicentocinquemila).
I decenni e gli anni si scrivono sempre con l’apostrofo quando viene omesso il migliaio corrispondente al secolo: gli anni ’80 (= gli anni 1980), il ’45 (= il 1945). Possibile anche riferirsi a decenni di altri secoli, specificando il secolo: gli anni ’80 dell’Ottocento.
Queste regole coprono tutti i casi possibili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Vorrei sapere se è corretto dire: “Ci sono dei familiari seduti intorno ad un tavolo. Dentro la  stanza, altri carcerati ed i loro cari”.

 

RISPOSTA:

In mancanza di ulteriori indicazioni contestuali, la frase è indubbiamente corretta. È peraltro migliorabile, per esempio eliminando le d eufoniche: “Ci sono dei familiari seduti intorno a un tavolo. Dentro la  stanza, altri carcerati e i loro cari”.  Oppure usando un verbo meno trito di esserci: “Alcuni familiari sedevano a un tavolo. Nella stanza, altri carcerati e i loro cari”. Infine, se comunque l’ambiente è lo stesso, non si vede la necessità di duplicare l’informazione sui familiari = cari: “I carcerati con alcuni familiari sedevano a un tavolo” sarebbe meno ridondante.

Fabio Rossi

Parole chiave: Congiunzione
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QUESITO:

Vorrei sapere se l’uso dei due punti e anche dell’iniziale maiuscola di alcune parole nel seguente testo vanno bene.
“Come deliberato dal Collegio Docenti (Collegio docenti) in data 12 settembre 2020, la macrounità interdisciplinare “Diritti e Costituzione” sarà sviluppata dai docenti del Consiglio di Classe (Consiglio di classe) tenendo conto dei seguenti argomenti:
• Lettere (lettere): Orientamento formativo
• Inglese (inglese): Diritti umani e minoranze
• Scienze (scienze): Dipendenze
• Tecnologia (tecnologia): Infrastrutture e innovazione”.

 

RISPOSTA:

L’uso delle maiuscole è scarsamente codificato e, di là da alcune funzioni cristallizzate, molto variabile a seconda del gusto. In generale può essere sensato seguire il principio che le istituzioni e le organizzazioni assimilabili funzionalmente a istituzioni vanno maiuscole, mentre i ruoli no; quindi Consiglio ma consigliereComune ma sindacoPresidenza ma presidenteParlamento ma onorevole ecc. Secondo questo principio si dovrebbe scrivere Collegio docenti, ma non si può dire che Collegio Docenti sia sbagliato. Sempre secondo lo stesso principio Consiglio di classe è meglio di Consiglio di Classe, perché la classe non è assimilabile a un’istituzione, ma è piuttosto un insieme di persone.
Il titolo della macrounità, Diritti e Costituzione, può andar bene, proprio perché è un titolo. La maiuscola di Costituzione si giustifica perché il termine rappresenta il titolo della costituzione italiana (anche se si può scrivere anche minuscolo). Non è, invece, necessario scrivere con la maiuscola tutti i nomi dei titoli, e infatti i titoli degli argomenti conclusivi vanno bene così come sono.
Il nome delle materie può andare maiuscolo, perché in questo modo si distingue, ad esempio, la materia scolastica Tecnologia dalla tecnologia in senso lato.
L’uso dei due punti è corretto. Può essere giudicato poco elegante l’inserimento di un elenco introdotto dai due punti all’interno di un elenco introdotto dai due punti (seguenti argomenti: • Lettere: Orientamento formativo…); in questo caso, però, non vedo alternative a questa soluzione, che comunque, lo ripeto, è corretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Prima delle virgolette per citare un nome va messo de? Non si può mettere il di? “Le vicende de “La coscienza di Zeno” o “le vicende di…”? 

 

RISPOSTA:

Il problema nasce quando un titolo, oppure il nome di una città, che iniziano con un articolo sono preceduti da una preposizione che in italiano subisce la fusione con l’articolo (diadainsu).
Non esiste una regola codificata su questo aspetto dell’ortografia, ma alcuni ritengono sia necessario mantenere la preposizione separata dal titolo o il nome, perché la fusione dell’articolo con la preposizione farebbe perdere l’integrità del titolo o del nome. Propongono allora di lasciare la preposizione staccata dall’articolo: le vicende di La coscienza di Zenoun documentario su Il Cairo ecc. Questa soluzione ha il problema che nell’italiano moderno la separazione tra le preposizioni e l’articolo nei casi in cui è prevista la fusione è ingiustificata. Un problema ancora più grave per l’italiano moderno è la soluzione di modificare le preposizioni di e in creando le forme, altrimenti inesistenti, de e ne (de I Promessi sposine La Coscienza di Zeno). 
Mi pare, infine, che la soluzione più logica sia quella di costituire la preposizione articolata e usare la maiuscola per il nome successivo all’articolo; quindi, nel suo caso, le vicende della Coscienza di Zeno, o, per fare altri esempi, Manzoni lavorò ai Promessi sposi per più di venti anniho visto un documentario sul Cairo ecc. Le virgolette non rappresentano una difficoltà: le vicende della “Coscienza di Zeno” ecc.
Fabio Ruggiano 

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QUESITO:

Navigando su internet mi sono imbattuto quasi per caso nel concetto di “vocali sonore aspirate” (alla voce wikipedia di “sonorizzazione aspirata”). Potrei chiederle gentilmente se si tratta di un errore (si sa il grado di attendibilità di wikipedia…) oppure se è qualcosa che riguarda lingue particolari. 

Alla voce predetta ci si limita a dire che “le vocali sonore aspirate sono scritte. Secondo me si intendeva dire vocali sonore mute (in francese esistono).

Vorrei inoltre chiederle alcune conferme in tema di parole con le doppie: è esatto dire che le doppie sono allungamenti delle consonanti o delle vocali di durata variabile (non quindi necessariamente con raddoppio della sonorità), anche a seconda del grado di intensità che si vuole dare di volta in volta alla parola utilizzata? La finalità delle doppie qual è, quella di creare nuove combinazione per nuove parole? 

Infine, esistono dati (anche per approssimazione ovviamente) circa il numero di parole  italiano con le doppie?

 

RISPOSTA:

La voce di Wikipedia sembra, in questo caso, un mezzo disastro (altre voci sono ben fatte, ma questa no), perché usa il termine tecnico sonorizzazione in due accezioni differenti: da un lato, nel senso noto in fonologia (è sonoro ciò che mette in vibrazione le corde vocali, sordo ciò che non le fa vibrare); dall’altro, come termine (impreciso) della versione vulgata della fonetica articolatoria che indica più o meno ‘ciò che è udibile’, cioè udibile anche se sussurrato e con notevole passaggio di aria. Lo stesso dicasi per aspirato, usato in modo contraddittorio. È chiaro che tra i due significati ci sia un ampio margine di sovrapposizione: ciò che è udibile deve, in certo qual modo, produrre vibrazione delle corde. Ma non necessariamente, in realtà: anche un soffio è udibile, ma non per questo è sonoro (cioè non provoca vibrazione delle corde vocali): da qui l’uso incoerente o oscillante dei termini sonoro e aspirato in questo articolo di Wikipedia.

Il disastro diventa massimo quando l’articolo invoca un’inconsistente “vocale sonora aspirata”. Se è vocale, è per forza sonora (in fonetica, ma non in ortografia, come dirò tra un secondo) e se è aspirata non è solo vocale, ma ha almeno una testa o una coda consonantica, per es. un fonema glottidale (come nelle numerose lingue che contengono consonanti aspirate) o di altra natura. Come se pronunciassi “ha” con una forte aspirazione iniziale: è chiaro che ad essere aspirata non sarebbe la vocale, ma la consonante che la precede (non certo in italiano, dove la h è sempre muta, cioè si scrive ma non si pronuncia).

Nulla di tutto questo ha a che vedere con le mute, che è un concetto che – per es. nel francese la e non accentata, o nella h italiana – ha a che vedere con la grafia e con la pronuncia: cioè alcuni segni di scrivono (per retaggio grafico del passato) ma NON si pronunciano (o si neutralizzano nella pronuncia come schwa, nel caso della e in certe parole e in certe pronunce del francese odierno e del passato, ma con modalità differenti nelle diverse epoche).

Insomma: un conto è l’aspirazione (che non ha a che vedere con le vocali ma con le consonanti), un conto l’essere muto (problema grafico e fonetico insieme), un conto la sonorità (che riguarda la vibrazione, rispetto alla non vibrazione, delle corde vocali), e un altro conto ancora è la pronuncia sussurrata o sfiatata o altro, che riguarda unicamente una modalità di articolazione pertinente alla fonetica e non (salvo eccezioni di certe lingue) alla fonologia. Per un esempio di pronuncia sibilata (o aspirata, come erroneamente definita nell’articolo) immagini quando lei sussurra una frase per non essere sentito da tutti.

Inoltre, quando Wikipedia scrive “le vocali ecc. sono scritte ecc.” intende dire: ‘si scrivono in alfabetico fonetico come [a] [e] ecc.’, ma, ancora una volta, sbaglia, perché se sono veramente aspirate si scrivono (sempre in alfabeto fonetico) diversamente e presuppongono prima (o più raramente dopo) della vocale stessa un elemento consonantico (se trattasi di un fonema, nelle lingue che posseggono fonemi aspirati: quali le glottidali o anche le fricative), oppure un fono (se trattasi di mera articolazione priva di ricaduta semantica) comunque di natura aspirata (glottidale ecc.).

Per quanto riguarda le doppie: consonante doppia = consonante lunga (o meglio intensa) e conseguentemente vocale breve della medesima sillaba; prendiamo papa / pappa: in pappa non è soltanto la p a essere più lunga, ma anche la prima a a essere più breve. Viceversa per le cosiddette scempie (che in fonetica si definiscono tenui).

Non tiriamo in ballo la sonorità, che riguarda la vibrazione delle corde vocali: esistono doppie sia nelle sorde (tt) sia nelle sonore (dd). Forse lei intende dire  ‘allungamento del suono’: questo è vero talora. Ma nelle sorde si ha allungamento di un non suono: provi a pronunciare tatto e daddo: scoprirà che in tatto tra la a e la o le sue corde vocali non vibrano (basta toccarsi il pomo d’Adamo con un dito) e dunque c’è una pausa (più lunga che in tato), mentre in daddo vibrano (meno a lungo che in dado) e infatti sentirà un pizzicorino sul dito che sta toccando il pomo d’Adamo. Non confonda sonoro con suono (come faceva Wikipedia!).

Sì, infine, la finalità delle doppie è creare nuove parole: pala / palla ecc.

Sicuramente esistono strumenti elettronici in grado di rilevare la statistica delle parole con doppie in italiano: non ho un riferimento preciso, ma provi a cercare online. Ormai la statistica applicata alla linguistica è una disciplina assai consolidata, da decenni. Basterebbe anche, con un dizionario elettronico che consenta una ricerca nel solo campo lemma, chiedere quanti lemmi contengono bb, quanti ccdd ecc. per tutte le consonanti doppie. Facendo la somma, si otterrebbe il numero dei lemmi con doppie in italiano, presumibilmente assai elevato, almeno un quarto del totale dei lemmi in italiano, che, secondo i dizionari più ricchi, sono almeno 250 mila, sebbene i più frequenti non siano più di diecimila.

Naturalmente possono esistere anche parole con doppie vocali, o vocali lunghe, ma occorre distinguere tra quelle che si pronunciano lunghe pur non essendo scritte due volte, quelle che invece sono scritte due volte (come certe interiezioni: aah), quelle che sono scritte due volte per motivi lessicali, morfologici, retaggi etimologici ecc. (zoostudiimaree ecc.).

Né nelle consonanti né nelle vocali, infine, il piano grafico va confuso con quello fonetico, né quello fonetico (tutti i suoni) con quello fonologico (solo i suoni pertinenti, cioè quelli che, se tolti o aggiunti, determinano un nuovo significato: papa / pappa). Non tutto ciò che si scrive raddoppiato si pronuncia due volte e inoltre, in modo pressoché sistematico (tranne che nei casi delle due vocali morfologiche: marea / maree e simili), un grafema doppio non corrisponde a un suono doppio, ma, semmai (laddove la lingua lo preveda) a un fonema più lungo (rispetto a quello scritto come non doppio, o scempio). E viceversa: taluni segni si scrivono come scempi ma si pronunciano come lunghi: da Firenze (inclusa) in giù grazie si pronuncia indubitabilmente come grazzie (o grazzzzzie!), sebbene la scrizione con due o più zeta sia un gravissimo errore di ortografia.

Insomma la fonetica, l’etimologia, i rapporti tra grafia e pronuncia di vocali e consonanti semplici o doppie ci porta lontanissimo e non possiamo esaurirlo qui. Inoltre, bisognerebbe tener conto delle differenze tra le varie lingue: in talune, come l’italiano, la lunghezza consonantica è fonologicamente più pertinente di quella vocalica, in altre, come l’inglese, accade l’opposto, in francese le doppie consonanti esistono solo graficamente ma non hanno alcuna pertinenza fonologica ecc. ecc.

 

Fabio Rossi

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QUESITO:

Perché il superlativo simpaticissimo si forma cosi? Se largo  >  larghissimo, perché non si forma simpatichissimo?

 

RISPOSTA:

Le consonanti velari (la c di casa e la g di gatto) a volte vengono a trovarsi davanti a o a i a causa della flessione o della derivazione. Quando questo succede ci sono due possibilità: che si mantenga il suono, modificando la grafia (inserendo una h tra la consonante e la vocale), o che si mantenga la grafia, modificando il suono (le consonanti velari diventano palatali). Un esempio del primo tipo è il plurale dei nomi e degli aggettivi che al singolare finiscono in -co-ca-go-gateca techebongo > bonghilargo > larghi (e quindi anche largo > larghissimo). Un esempio del secondo tipo è l’alternanza vinco / vinci nel verbo vincere (ma anche simpatico > simpaticissimo).
Il criterio secondo cui si mantiene il suono o la grafia non è preciso; quasi sempre, se la parola di base è piana (cioè ha l’accento sulla penultima sillaba) nella flessione o nella derivazione si mantiene il suono (larghi e larghissimotecheantichi), se, invece, la parola è sdrucciola (cioè ha l’accento sulla terzultima sillaba) si mantiene la grafia (simpatico > simpatici e simpaticissmo). Un’eccezione a questa regola è amico > amici (non amichi). Tra i verbi, se l’infinito è piano si mantiene il suono (legare > io legotu leghi), se l’infinito è sdrucciolo si mantiene la grafia (oltre a vincere ricordiamo spingere io spingotu spingi). 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se Dio è un nome proprio, non è sbagliato se io lo uso senza riferirmi al dio del paradiso e dell’inferno, ma riferendomi a un dio qualunque? Se dico: “Non so se Dio esiste” non mi sto riferendo a UN DIO in particolare. O no?

 

RISPOSTA:

Il nome dio può adattarsi a qualunque divinità. Senza articolo e con lettera maiuscola è usato come nome proprio, riferito al dio di una religione monoteistica, mentre per gli dei che hanno nomi si usa come nome comune, quasi sempre in funzione di apposizione (il dio Apolloil dio Ganesh). In questi casi, quando non accompagna il nome proprio può essere sostituito da la divinità.
Di solito, con Dio senza ulteriori attributi o modificatori si intende il dio cristiano; sebbene questa identificazione non sia giustificata sul piano linguistico, ma dipenda da ragioni sociali e culturali, non si può fingere che non sia attiva. Una frase come quella da lei proposta, pertanto, sarà facilmente interpretata come ‘non so se il dio cristiano esista’, piuttosto che ‘non so se esista alcun dio’. Servirà, quindi, una ulteriore specificazione se con Dio si intende ‘qualsiasi dio’ (a meno che non si ricerchi volutamente l’ambiguità).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Leggo quanto scrive un politico di un contesto provinciale: “Sono stato bravo nel scegliere le persone …”. Credo che sia uno strafalcione. La regola della cosiddetta s impura vale anche davanti ai verbi. Quindi: nello scegliere. Concorda?

 

RISPOSTA:

Certamente: la regola ha un’origine fonetica, quindi si applica a prescindere dalle categorie lessicali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’espressione La vedo stanco è corretta? La prima lettera dentro le virgolette va maiuscola? E quella dopo le virgolette? Comunque stanco può essere usato al maschile dando del lei? 

 

RISPOSTA:

Per l’iniziale della prima parola all’interno delle virgolette c’è una convenzione molto radicata che la vuole maiuscola sempre se le virgolette contengono un discorso diretto (disse: “Vieni”.). Se le virgolette non contengono un discorso diretto non richiedono la lettera maiuscola (il tuo “mal di testa” è molto sospetto). All’esterno delle virgolette (quindi anche dopo) vigono le regole comuni: la maiuscola è, quindi, regolata dalla punteggiatura (disse: “Vieni” e le fece un cenno / disse: “Vieni”. E le fece un segno).
Per la concordanza del pronome di cortesia rimando alla FAQ “Lei”, “voi”, “loro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le virgolette richiedono uno spazio di solito?

 

RISPOSTA:

Le virgolette si separano dalla cornice, mentre si uniscono al discorso in esse contenuto; per esempio disse: “Lo sapevo” e se ne andò. Si noti che lo spazio prima è richiesto anche se le virgolette iniziali sono precedute da un segno di punteggiatura; l’eventuale segno di punteggiatura successivo alle virgolette di chiusura, invece, non vuole lo spazio: disse: “Lo sapevo“. 
Fabio Ruggiano 

 

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QUESITO:

Vorrei sapere se nei numeri composti con uno è possibile o obbligatorio il troncamento: ventun ventuno libriventunventuno o ventuna ragazzeventun ventuno aulecentunocentouno o cento uno ragazze?
Il numero ordinale, inoltre, come si forma? centounesimo o centunesimocentoduesimo o centoundicesimo,
millesimo primo o milleunesimo?

 

RISPOSTA:

I composti di uno sono invariabili: ventuniventuna ventune non esistono. Il troncamento, o apocope, con questi composti è possibile, ma non obbligatorio: ventuno libri ma anche ventun libriventuno ragazze ma anche ventun ragazzeventuno aule ma anche ventun aule. La forma non apocopata è la più frequente nell’italiano contemporaneo, soprattutto davanti a parole femminili inizianti per aventuno aule è molto più comune di ventun aule.
Diversamente dall’apocope, l’elisione con questi numerali è impossibile: *ventun’amici o *ventun’amiche sono forme scorrette. 
Quando nei numerali composti oltre il cento si incontrano due vocali, queste si mantengono: centounomilleuno ecc., persino se sono uguali: centootto. Al contrario, al di sotto di cento la prima vocale cade: ottantunoottantotto ecc. Per il numerali cardinali oltre il mille, inoltre, è possibile la forma mille e uno (mille e due…), accanto a milleuno (milledue…). Al di sopra di un milione, la forma separata diviene l’unica possibile: un milione e uno. Nelle forme in cui è separato dal resto, uno si accorda anche al femminile: mille e una stella (o milleuno stelle), un milione e una stella.

Anche per gli ordinali, le vocali si mantengono al di sopra di centocentounesimo (e ovviamente centoduesimo), centoundicesimo ecc. Al di sopra di millesimo gli ordinali divengono rarissimi; le forme ufficiali, comunque, sono milleunesimomilleduesimo ecc.
La forma alternativa degli ordinali, composta dall’ordinale che indica la decina, il centinaio  o il migliaio seguito da quello che indica le unità, è possibile per tutti i numeri oltre il diecidecimoprimodecimosecondocentesimoprimomillesimoprimo ecc. Si può scrivere sempre anche staccata: decimo primo ecc. 
Queste forme, che corrispondono alla traduzione delle cifre romane (MI = millesimoprimo), sono usate in contesti molto formali.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza
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QUESITO:

Gradirei sapere come sia corretto scrivere la frase: “Eravate tutti paesani miei e non l’ho sapevate”.

 

RISPOSTA:

L’ortografia della frase è non lo sapevateL’ho è uguale a lo ho, ma il verbo avere in questa frase non può essere inserito, visto che c’è già il verbo sapevate.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Pronome
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QUESITO:

La lettera w fa parte dell’alfabeto italiano oppure è una lettera a parte di origine straniera? 

 

RISPOSTA:

Precisiamo innanzitutto che w è un grafema, cioè un simbolo che corrisponde a un suono o fonema. Questa precisazione serve perché alcuni grafemi, tra cui anche questo, corrispondono a più di un fonema. Il termine lettera, invece, confonde il valore grafico con quello fonetico.
Il grafema w non fa parte dell’alfabeto italiano, che comprende solo 21 grafemi, ma rientra nell’alfabeto latino moderno. Fu inventato dagli scrittori anglosassoni del Medioevo per distinguere la u vocale dalla u semiconsonante (quella dell’inglese whisky) o consonante (quella del tedesco wafer).  
Nell’alfabeto latino classico, infatti, il grafema u (maiuscolo V) aveva allo stesso tempo il valore consonantico della v, quello vocalico della u e quello semiconsonantico della u di whisky; quindi si potevano avere parole come uult (= vult ‘lui / lei vuole’).
In italiano, a partire dal XVI secolo il grafema u si stabilizzò con il valore vocalico (luce) e semivocalico / semiconsonantico (uomo); il grafema v con quello di consonante (vino). La w, invece, non fu accolta, ma rimase appannaggio delle lingue germaniche, che pure usano lo stesso alfabeto neolatino di base dell’italiano. 
Il grafema w fu introdotto molto tempo dopo per poter scrivere alcuni nomi e parole inglesi o tedeschi (Washingtonweltanschauung) e si pronuncia, di solito, come nella lingua di origine del termine, quindi u semiconsonante per parole di origine inglese e v per parole di origine tedesca.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Quali sono gli unici sistemi (o l’unico sistema) che ha corrispondenza biunivoca tra foni e grafemi?

 

RISPOSTA:

Le lingue sono tendenzialmente più o meno trasparenti dal punto di vista fonologico (tra quelle più trasparenti ci sono l’italiano, lo spagnolo e il tedesco) e nessuna lingua naturale è totalmente trasparente. Totalmente trasparente è l’esperanto, la lingua artificiale creata nell’Ottocento da Ludwik Lejzer Zamenhof.
Esiste, inoltre, l’IPA (International Phonetic Alphabet), un sistema di simboli che rappresentano in modo univoco tutti i foni potenzialmente producibili dal sistema fonatorio umano. In questo senso, l’IPA può essere considerato l’unico sistema che presenta un rapporto uno a uno tra simbolo grafico e fono. I simboli dell’IPA possono essere definiti grafemi, in quanto ognuno rappresenta in modo grafico un fono, che a sua volta è codificato come fonema in una o più lingue.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Chiedo il vostro aiuto per sapere qual è la preposizione giusta da mettere davanti al nome di un’associazione che si chiama Lortobio, volutamente scritto tutto attaccato.
Quale delle seguenti forme é corretta? venite a Lortobio o venite al Lortobio?

RISPOSTA:

Se consideriamo l’articolo come parte del nome, dobbiamo smettere di considerarlo articolo, per cui il nome Lortobio diviene a tutti gli effetti assimilabile a, per esempio, locale. Ne consegue che si dirà venite al Lortobio (come si direbbe venite al locale).
L’altra soluzione non è impossibile, ma è molto improbabile: sarebbe valida soltanto se si considerasse Lortobio alla stregua di un nome di città, come Londra. In quel caso, ovviamente, avremmo venite a Lortobio (come venite a Londra). Osservando come si comportano i nomi propri di aziende (la Fiat), istituzioni (l’INPS), associazioni di vario genere (la CGILil CONI), la soluzione con l’articolo è senz’altro la migliore.
Non è, invece, possibile considerare l’articolo separato dal nome, se lo si scrive univerbato con il nome, perché graficamente Ortobio richiederebbe l’articolo apostrofato, quindi venite all’Ortobio
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Vorrei sapere se le seguenti frasi sono giuste:
1. Sul naso aveva una spruzzata di lentiggini, ma nel complesso somigliava a cento altre ragazze, se non che aveva degli occhi enormi e non era truccata.
2. Nessuno le si sedette accanto.
3. Pareva in un mondo tutto suo, isolata in una mare di occhi fissi su di lei.
4. Il secondo giorno arrivò vestita in modo sempre strano, ma diverso, e questa volta cantò…
5. Infatti in quella scuola erano tutti uguali: se per caso capitava di distinguersi, in un nanosecondo sarebbero tornati alla normalità.

 

RISPOSTA:

1. Il connettivo se non che è la sintesi di se non per il fatto che. Si può usare come fa lei (anche nella forma univerbata sennonché), anche senza che che abbia un aggancio preciso. Possibile, eventualmente, usare la variante completa se non per il fatto che.
2. Niente da segnalare.
3. Niente da segnalare.
4. Niente da segnalare.
5. La forma impersonale capitava non va bene in dipendenza dalla reggente con soggetto personale in un nanosecondo sarebbero tornati alla normalità. Si può correggere così: “Se per caso a qualcuno capitava di distinguersi, in un nanosecondo sarebbe tornato alla normalità”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’; 
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masutmazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iotanon valere uno / una iotaun / uno pneumatico.

 

RISPOSTA:

​Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginsengun megahertz molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acquasalemercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domanimenodopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iotauno iotauna iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nello scritto è possibile iniziare un periodo con “Ma perché…?”. 
È meglio scrivere “Studio la grammatica oppure studio grammatica”. 
​Infine, nei temi i numeri vanno scritti in lettere oppure è possibile anche scriverli in cifre?

 

RISPOSTA:

Ma perché è un attacco perfettamente legittimo in uno scritto dialogico (il tipo di scritto delle chat e dei social network) e in qualunque altro scritto, anche letterario (teatro, romanzo), che imiti l’andamento del parlato: “anzi, macelli e crudeltà a non finire, eppure niente più diluvi, addirittura la promessa di non estirpare la vita dalla terra. Ma perché tanta pietà per gli assassini venuti dopo e nessuna per quelli di prima, affogati tutti come topi?” (Claudio Magris, Microcosmi, 1997). Va bene anche in uno scritto scientifico, o in generale informativo, divulgativo, inteso ad avvicinare il grande pubblico a un argomento difficile. È inadatto a testi scientifici specialistici e a testi normativi.

Studio grammatica e studio la grammatica sono entrambe corrette. La prima rappresenta l’argomento dello studio come non numerabile, sottolineando che si tratta di una disciplina, una materia scolastica; la seconda lo rappresenta come un oggetto di studio tra tanti. Per capire meglio la sfumatura, si può confrontare studio (la) grammatica con faccio ginnastica (impossibile *faccio la ginnastica), ovvero ‘sono nell’ora di ginnastica, a scuola o in palestra’, e pratico la ginnastica (molto innaturale pratico ginnastica), ovvero ‘pratico lo sport della ginnastica’. Si può arrivare a dire (con un po’ di immaginazione) che in studio grammatica (come in faccio ginnastica) lo studio sia rappresentato come passivo, perché parte di un programma imposto, mentre in studio la grammatica si percepisca la partecipazione emotiva dell’emittente nel processo.

In uno scritto mediamente formale, quale può essere considerato il tema scolastico, si preferisce scrivere i numeri con le lettere, perché le cifre non fanno parte dell’alfabeto. Si tratta di una convenzione di secondaria importanza, che può essere applicata con flessibilità, soprattutto nel caso di numeri che richiedano stringhe di testo molto lunghe.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi chiedo se è corretto scrivere luogo e data in basso a sinistra, ad esempio:
I sottoscritti genitori _______ dell’alunno _____ autorizzano il proprio figlio a partecipare a ______
Milano, 30/08/2019                 Firma ___________

 

RISPOSTA:

Sì, è corretto. L’indicazione del luogo e della data in un messaggio possono andare sia all’inizio sia alla fine, sia a destra sia a sinistra, sia prima (più spesso) sia dopo (più raramente) la firma. Sono soltanto consuetudini scrittorie, convenzioni e stili diversi, ma nessuno può essere considerato più giusto, né più sbagliato, dell’altro.

Fabio Rossi

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QUESITO:
So che in italiano le singole lettere vengono pronunciate come quando si dice l’alfabeto: la (‘bi’), la (‘ci’), la (‘effe’). In alcuni casi ho dei dubbi: la c si pronuncia ‘c’; ma non dovrebbe essere accompagnata dalla i?. La pronuncia alfabetica riguarda anche i digrammi e trigrammi: la gl (‘gi elle’), la gn (‘gi enne’), la ch (‘ci acca’), la gli (‘gi elle i’). Come mai anche i digrammi si pronunciano separatamente?

 

RISPOSTA:

​Il concetto di lettera è ambiguo, perché può riferirsi a un oggetto fonetico, il fonema, e a uno grafico, il grafema. Ricordiamo che le lingue nascono parlate, quindi sono composte prima di tutto dai fonemi, i suoni che i parlanti di una determinata lingua riconoscono come distinti e autonomi. I grafemi sono tentativi di “tradurre” i suoni in segni grafici, per dare un corpo visibile ai suoni, in modo da poterli scrivere. 
L’alfabeto di una lingua è fatto di grafemi, che sono tipicamente in numero minore rispetto ai fonemi propri di quella lingua. Questo avviene perché alcuni grafemi sono usati per rappresentare più di un fonema (ad esempio in italiano c rappresenta sia il fonema /ʧ/, come in cena, sia il fonema /k/, come in cane) e alcuni fonemi mancano del tutto (ad esempio in italiano /ɲ/ di gnocco non è rappresentato nell’alfabeto, ma è rappresentato dal digramma gn). Si noti che lo stesso fonema può essere rappresentato in modo diverso negli alfabeti di lingue diverse: è il caso, per esempio, proprio di /ɲ/, che in spagnolo è presente nell’alfabeto con il segno ñ.
Una volta creato l’alfabeto, i grafemi divengono nomi comuni, quindi si pone il problema del genere da attribuire loro. Alcuni sono stati nella storia stabilmente femminili, perché terminanti per -aazetaacca; gli altri hanno sempre oscillato tra il maschile e il femminile fino a pochi decenni fa (si pensi all’espressione idiomatica mettere i puntini sulle i, nota anche nella variante mettere i puntini sugli i), per fissarsi generalmente sul femminile negli ultimi tempi (ma in realtà ancora oggi sono accettabili entrambi i generi, e le lettere dell’alfabeto greco sono considerate maschili). Tale oscillazione è dovuta alla possibilità di sottintendere, accanto al nome del grafema, tanto segno quanto, appunto, lettera.
L’alfabeto, dunque, è una costruzione altamente convenzionale, soggetta a molte spinte analogiche. Non devono stupire, pertanto, alcune incongruenze al suo interno, come la mancanza di alcuni suoni, la confusione di più suoni in un solo segno, e persino la mancanza di alcuni segni che pure si usano nella lingua (nell’alfabeto italiano, per esempio, mancano jkxyw).  
Per quanto riguarda la pronuncia dei nomi dei grafemi, le consonanti necessitano di una vocale di appoggio, visto che, come è noto, le consonanti “suonano”, cioè producono un suono, solamente quando sono accompagnate da una vocale. La vocale di appoggio nella storia dell’italiano è stata inizialmente la e, ma poi i parlanti hanno preferito la i (probabilmente perché è la vocale percepita come la più debole). Ci sono alcune eccezioni, dovute all’intento di evitare potenziali confusioni: effeemmeenne per esempio, non sono fimini per evitare la confusione con le omonime lettere dell’alfabeto greco. Questo, però, non ha indotto a cambiare il nome della p (identico al pi greco) in *eppeAcca ha un’etimologia incerta, elle e esse servono a evitare la confusione con li e sierre probabilmente è nato per evitare un nesso difficile da pronunciare: il ri
​Dovendo scrivere il nome di una consonante, si può scegliere se riportare il singolo grafema, ad esempio p, oppure rappresentare fedelmente la pronuncia, segnando anche la vocale di appoggio, ad esempio pi. Tradizionalmente, però, questo secondo modo è riservato alle lettere dell’alfabeto greco, per distinguerle dai grafemi latini, che si scrivono da soli.
I digrammi si possono pronunciare riportando la rappresentazione grafica al fonema corrispondente, oppure scandendo le componenti grafiche separatamente. La prima soluzione ha il difetto di risultare molto artificiosa, perché bisogna evitare di pronunciare la vocale di appoggio, altrimenti si crea un trigramma. Siccome questo è impossibile, si deve optare per la sostituzione della i con la vocale [ə], detta schwa, inesistente nel repertorio dell’italiano standard (ma esistente in molti dialetti). I trigrammi gli e sci sono più facili da pronunciare foneticamente, perché contengono la vocale i alla fine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Storia della lingua
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QUESITO:

Gentile staff DICO,

nonostante la mia lunga esperienza nel mondo accademico, ho sempre avuto alcuni dubbi su come si debba scrivere correttamente una e-mail. Nel mio caso, diretta ai professori universitari, ai quali rivolgo richieste molto comuni (ad esempio fissare una appuntamento nelle loro ore di ricevimento oppure avere chiarimenti in merito a seminari, convegni ecc.). Purtroppo non ho mai trovato una fonte ufficiale (come testi), che mi abbiano fornito le indicazioni, a parte qualcuna.

Vi ringrazio previamente per la Vostra cortesia.
Cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Cominciamo col dire che la sua e-mail è scritta benissimo, e dunque potrebbe ben essere proposta a modello di stesura. Con un’unica omissione: non ha scritto il suo nome e cognome alla fine del messaggio, come invece sarebbe buona norma fare sempre.
Per il resto, sarebbe necessario distinguere sempre tra l’ambito informale (nel quale non vi sono regole particolari da seguire, se non quelle generali dell’italiano) e quello formale, come quello da lei suggerito: vale a dire una e-mail di lavoro, per es. a professori. In quest’ultimo caso, la posta elettronica non differisce molto dalle vecchie lettere cartacee: si inizia con il rivolgersi al proprio destinatario, con i titoli del caso: GentileChiar.mo ecc.
Dopo un a capo, meglio ancora se con un rigo bianco, segue il testo della lettera, che si deve concludere con i saluti e con la firma (nome e cognome).
Si può omettere la data, che è, nella posta elettronica, inserita automaticamente dal sistema. Il soggetto o oggetto (l’argomento) non occorre specificarlo nel corpo del messaggio, visto che c’è l’apposito campo Oggetto nei sistemi di posta elettronica.
Se la e-mail è molto formale, si può anche (non è indispensabile) optare per la maiuscola di cortesia, da utilizzare tutte le volte che ci si rivolge al destinatario: LeiSuoVostra ecc., esattamente come fa lei (io, invece, in questo caso opto per la forma più confidenziale, con l’iniziale minuscola), nella sua (bella) e-mail. L’importante è la coerenza: in un medesimo messaggio, o l’iniziale maiuscola di cortesia si scrive sempre, o mai, non qualche volta sì e qualche volta no, altrimenti si dà l’impressione di trascuratezza e disordine e di essere scriventi inesperti.
Poche, elementari regole, che possono essere reperite, per es., nei manuali di scrittura correnti. Recentemente, l’Accademia della Crusca sta vendendo, tutti i venerdì, insieme con la Repubblica, dei volumetti sull’italiano. La terza uscita era dedicata proprio alla scrittura online, con qualche indicazione anche sulla posta elettronica.
Mi permetto di suggerirle, tra i numerosi manuali di scrittura dell’italiano, il seguente: Fabio Rossi e Fabio Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria, Roma, Carocci, 2013.
Fabio Rossi

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QUESITO:

In italiano formale, ad esempio in una relazione, le parole straniere vanno sempre virgolettate anche se non esistono analoghi in italiano (o sono desueti)? Per esempio, come dorei scrivere i termini router o switch, ma anche computer?

 

 

RISPOSTA:

Come al solito, nelle lingue quasi mai la risposta è semplice e univoca, tipo sì/no, corretto/scorretto. Nel caso da te richiesto, la gran parte dei linguisti conviene sulla necessità di contrassegnare sempre un termine straniero, per indicarne l’estraneità (talora anche nella pronuncia) rispetto al sistema italiano. Tuttavia l’espediente più comune per contrassegnare i forestierismi non è rappresentato tanto dalle virgolette (che sarebbe meglio riservare alle citazioni e, più raramente, agli usi semantici particolari delle parole), bensì dal corsivo. Dunque, anche computer , mouse, router ecc. andrebbero, soprattutto in contesti formali, sempre scritti in corsivo.

Fabio Rossi e Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché quando scriviamo un testo (in questo caso non intendo su un supporto digitale) non utilizziamo mai l’accento grave, ma su quelle parole per cui è prevista l’accentazione inseriamo solo quello acuto? Si può considerare grammaticalmente corretto o dovremmo essere a conoscenza di quei vocaboli che per natura portano l’uno o l’altro accento?

 

RISPOSTA:

L’accento è un tratto grafico piuttosto trascurato nella prassi della lingua. Per varie ragioni, che vanno dalla scarsa visibilità del corpo del segno alla limitata presenza del segno nel sistema, esso tende a essere omesso in scritti poco formali (nei testi dialogici elettronicamente mediati, ad esempio) e rappresenta uno dei tratti più problematici dell’apprendimento dell’ortografia. Stando così le cose, l’insegnamento scolastico tralascia quasi sempre l’argomento della distinzione tra accento grave e acuto, limitandosi a trattare l’accento in generale. Per questo motivo, gli scriventi adottano normalmente un unico tratto, che può coincidere con l’accento grave (dall’alto verso il basso, corrispondente a una vocale aperta), quello acuto (dal basso verso l’alto, corrispondente a una vocale chiusa), nessuno dei due (per esempio un segno piatto, oppure un quasi-apostrofo), o alternativamente l’uno o l’altro dei segni, senza la consapevolezza della differenza. È ovviamente più corretto differenziare i due accenti, anche se comunemente non si fa (e, bisogna dirlo, dal punto di vista fonologico cambia poco).
Alcune regole di base: in italiano l’accento grafico si segna solamente quando cade alla fine della parola. L’accento in fine di parola è quasi sempre grave. Se la parola finisce in aiu, per convenzione si segna sempre l’accento grave (alcune case editrici preferiscono l’accento acuto per la i e la u, che sono, effettivamente, vocali chiuse). Se la parola finisce in o, ha sempre l’accento grave, perché la o è sempre aperta in fine di parola. Se la parola finisce in e, hanno l’accento acuto solamente sé, i composti di che (perchénonchébenché…), la terza persona singolare del passato remoto di alcuni verbi della seconda coniugazione (abbattéperdépoté) e poche altre parole (nontiscordardimé). Per togliersi il dubbio è sempre bene consultare il dizionario. 
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Io lavoro all’università e malgrado la mia, diciamo così, buona conoscenza dell’italiano, mi trovo a chiedere sempre: ma come devo scrivere: l’8 aprilel’1 aprilelo 08 o lo 01? O è meglio scrivere il 1° o scriverlo in lettere? Inoltre, si scrive dall’1 o dallo 01?
E poi conseguente o consequente? Io ho scritto conseguente perchè da una azione primaria dovrebbero seguirne altre… consequenziali (o conseguenziali?). Sono giuste tutte e due?

 

RISPOSTA:

Tutti dubbi più che legittimi, stia pur tranquillo/a, e condivisi dalla gran parte degli italiani, anche colti, per via del fatto che certe cose non vengono (quasi) mai spiegate dalle grammatiche, oppure perché l’italiano è più elastico (e dunque ammette più soluzioni) di quanto comunemente si creda. Rispondiamo con ordine a tutte le sue domande.
1) Decisamente meglio l’8, l’11 ecc. La soluzione con lo zero davanti è tipicamente burocratica e da riservarsi a quei formulari che pretendono due cifre per ogni numero: 04/05/15 per il 4 maggio del 2015, per intenderci.
2) Se però il giorno del mese è il primo (nella scrittura distesa, meglio scrivere i numeri a lettere, piuttosto che in cifre, ma nelle date secche, e nei formulari burocratici, la scrittura in cifre è obbligatoria), allora sarebbe meglio scrivere “1° maggio”, piuttosto che “1 maggio”, e pronunciare “primo maggio” (o giugno ecc.) piuttosto che “uno maggio”. Questo per via della consuetudine antica (conservatasi quasi soltanto per il primo giorno di ogni mese) di intendere il numero del giorno come numero ordinale (primo, secondo ecc., sottinteso giorno) e non cardinale. Comunque, anticamente, si utilizzavano per le date anche i numeri cardinali, ma li si introduceva con gli articoli: per es., “li 22 di aprile”. Sottinteso: giorni. Naturalmente, li è un articolo arcaico, oggi non più possibile, anche se rimasto disponibile nei soliti formulari burocratici: es. Messina, li… Dato che è articolo e non avverbio di luogo, la forma con l’accento (pure talora attestata) è erronea: Messina, lì… Erronea perché, come ripeto, non si tratta di un avverbio di luogo.
3) Si dice e si scrive “dal 2 all’8”, “dal 1° al 10 luglio” e simili. Ovviamente, se il formulario impone sia l’articolo sia lo zero iniziale, l’unica forma corretta non può che essere “dallo 01 allo 08”, anche se, come ripeto, è brutto (sia a vedersi scritto, sia a sentirsi pronunciato) e burocratico. Meglio sempre senza zero.
4) Seguente e conseguente si scrivono con la g in quanto derivano direttamente dall’italiano, come participi presenti del verbo seguire. Invece consequenziale è ripreso dalla forma latina consequentia, e per questo si scrive con la q. Si tratta comunque, all’origine, sempre di eredi del verbo latino sequi. Tuttavia, quando la parola che ne è derivata in italiano ha avuto una trafila etimologica popolare, vale a dire di uso ininterrotto dall’antichità fino ad oggi, con tutti gli inevitabili cambiamenti fonetici, la q si è trasformata (tecnicamente, sonorizzata) in g, come in conseguenzaseguire ecc. Quando, invece, la parola che ne è derivata ha seguito una trafila dotta, recuperando cioè artificiosamente l’antica forma latina, la q si è mantenuta: sequenzaconsequenziale. Spessissimo, dalla medesima forma latina, derivano diverse forme italiane (dette allotropi) con esiti fonetici diversi. Per es., dal latino vitium derivano tanto l’italiano vizio, quanto l’italiano vezzo. Da radium derivano radiorazzo e raggio ecc. ecc.
Fabio Rossi
 

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QUESITO:

Si scrive “ai bei e dolci momenti”, “ai begli e dolci momenti”, oppure “ai belli e dolci momenti”?

 

RISPOSTA:

L’alternanza tra bel e bello e, al plurale, tra bei e begli, segue gli stessi criteri di quella tra gli articoli il e lo e i e gli; quindi bel e bei davanti a consonante semplice o consonante diversa da s seguita da r o l (bel plenilunio ma bello sguardo), bello e begli davanti a vocale, s seguita da altra consonante (la cosiddetta s impura), palatale, zx (begli gnocchibegli zoccolibello xilofono) e gruppi consonantici vari, ps-pn- ecc. Davanti a vocale, bello è spesso eliso: bell’amico; al plurale, invece, l’elisione è vietata: *begl’amici.
Belli è una variante di begli che si usa solamente quando è alla fine della frase o, se la frase continua, quando è posposto al nome a cui si riferisce: “E c’era il sole e avevi gli occhi belli. Lui ti baciò le labbra ed i capelli” cantava Fabrizio De André nella Canzone di Marinella; “I regali belli sono quelli fatti con il cuore”, “Quest’anno i fuochi d’artificio sono stati i più belli di sempre”. Si usa anche quando è sostantivato: “Ma davvero i belli guadagnano di più” (ilsole24ore.it, 9 luglio 2018).
Nel suo esempio, quindi, la forma corretta è “Ai begli e dolci momenti”, perché begli è seguito da e. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che l’aggettivo sia riferito a momenti, che, cominciando per consonante, richiederebbe bei: quello che conta nella scelta tra bei e begli (esattamente come nella scelta tra i e gli) è l’iniziale della parola successiva.
Se invertissimo l’ordine delle parole, potremmo avere “Ai dolci e bei momenti”, “Ai momenti belli e dolci” e altre combinazioni.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre problemi con le doppie. Come posso fare?
Grazie

 

RISPOSTA:

I suoi sono problemi più che legittimi, vista l’impossibilità a ricondurre la grafia delle doppie (o geminate) a una serie di regole semplici e sempre valide. Questo è stato a lungo un punto debole della norma dell’italiano scritto e ancora oggi molti parlanti sono incerti su alcuni casi, per via della discrepanza tra il parlato e lo scritto, perché non sempre a un suono rafforzato corrisponde un grafema raddoppiato. I casi problematici sono tanti e, in assenza di un rimedio certo, il primo consiglio che possiamo dare è allenarsi costantemente alla scrittura e alla lettura, non avendo mai timore o vergogna a usare il dizionario.
Per il resto, possiamo solamente accennare ai fenomeni principali alla base delle incongruenze tra il parlato e lo scritto, e suggerire alcuni accorgimenti pratici. Prima di tutto, osserviamo che le geminate possono occorrere solo tra due vocali o se precedute da una vocale e seguite da r o l (occorrereattritoapplausi): non è, infatti, possibile raddoppiare una consonante che si trova tra due consonanti (contratto) o tra una vocale e una consonante diversa da r o l (vescovo).
Molte parole che la maggior parte dei parlanti italiani pronunciano con una consonante rafforzata a cui corrisponde un solo grafema (che comunemente è chiamato lettera) sono latinismi (detti anche parole dotte), ovvero prestiti dal latino, che mantengono, in tutto o in parte, la forma grafica che avevano originariamente (un po’ come i prestiti dall’inglese, che nello scritto si mantengono inalterati, o cambiano di poco, mentre nel parlato si adattano quasi del tutto alla fonetica italiana). Un esempio di latinismo è vizio (dal latino VĬTĬUM), che, infatti, da Firenze in giù si pronuncia *vizzio. In italiano, i fonemi (o suoni) /ts/ e /dz/, che corrispondono entrambi al grafema z, sono sempre rafforzati quando si trovano tra due vocali, ma se la parola in cui uno dei due occorre è un latinismo, al fonema rafforzato corrisponde un solo grafema. Per questo motivo abbiamo parole popolari, nelle quali la grafia rispecchia la fonetica, come azzopparecarrozzacorazzapiazzapazziapuzzaspazzare ecc., e latinismi come armistizioospizioabbreviazionerazionesodalizioineziaspezia ecc. Purtroppo, essere consapevoli dell’esistenza dei latinismi non è utile nella pratica; non ci consente, cioè, di prevedere se un fonema si scriva scempio o raddoppiato. Un utile accorgimento, molto noto, è scrivere sempre scempia la z del suffisso -zione (tipico dei latinismi), ma anche quella della terminazione -zio-zia-zie con la i non accentata (ozioscrezioamiciziacalvizie) e comunque la z seguita dalla i non accentata, a sua volta seguita da un’altra vocale (come in prezioso e preziario, anche se alla base c’è prezzo). Se la z è seguita da i accentata le cose si complicano, perché abbiamo le parole popolari pazzia e razzia, e le parole dotte abbazia (anche abazia), democrazia e tutti i derivati da -crazia (burocraziaplutocraziatecnocrazia…).
Al contrario, le parole che finiscono con i fonemi /ts/ o /dz/ seguiti direttamente dalla desinenza (e ovviamente preceduti da una vocale) hanno tutte la doppia: lezzolizzapazzopezzopizzarazzarozzovezzo… Attenzione, il suffisso accrescitivo -one (come tutti gli altri suffissi: -oso-ino-erello…) applicato a queste parole mantiene la doppia z, quindi pezzonepuzzone ecc. (da non confondere con le parole in -zione come intuizionepozioneazionerazionestazione ecc.).
Specularmente, le parole che finiscono in -gione vogliono sempre una sola gragioneregionepigioneprigionemagionereligionestagione; tra quelle che finiscono in -ggio e quelle in -gio, invece, prevalgono quelle raddoppiate, ma bisogna stare attenti. Per la grafia del fonema /dʒ/ (corrispondente al grafema g seguito da i o e), infatti, oltre ai latinismi, creano dubbi anche i francesismi; dal francese derivano agio e disagiomalvagioregìa, ma anche paggiocoraggioselvaggioformaggio e, in generale, il suffisso -aggio. Il fonema /dʒ/, inoltre, è rappresentato da una g sola anche in bambagia (dal latino BAMBACĬAM, per effetto della sonorizzazione della /tʃ/), legittimo (dal latino LEGĬTĬMUM), regio ‘regale’ (dal latino REGĬUM, a cui si contrappone la parola popolare reggia ‘dimora del re’), rigido (dal latino RĬGĬDUM), rigettare (perché il prefisso ri- non produce assimilazione, diversamente dai prefissi che finiscono in consonante, come in-, da cui irrigidireirritualeirrevocabile) e simili. Un trucco, per la verità soggetto a coincidenze sfortunate, per indovinare con quante g si scriva una parola che termina in -agio o -aggio è separare quest’ultima parte dalla parte precedente: se rimane una parola di senso compiuto, o che si avvicina a una parola di senso compiuto, la parte finale è il suffisso -aggio, altrimenti la parola semplicemente finisce in -agio: quindi a vassallo corrisponde vassallaggio, a forma formaggio, al verbo pestare pestaggio e, meno chiaramente, a cuore coraggio, al francese ligne ‘discendenza’ (a sua volta dal latino LINĔAM) lignaggio, ancora al francese feurre ‘paglia’ foraggio ecc.; malvagio, invece, è una parola senza suffisso, così come contagio (coincidenza sfortunata: conta- potrebbe sembrare una parola, ma basta osservare che contare non ha niente a che fare con le malattie per riconoscere questo come un falso positivo), magionaufragioplagiopresagio (anche per presa- vale la considerazione fatta per conta- a proposito di contagio) ecc. Lo stesso trucco funziona per le parole terminanti in -eggio e -egioalpeggio (corrispondente a Alpi), maneggio (mano), palleggio (palla), ma ciliegiocollegio (che non ha a che fare con colle), egregiopregioprivilegiosacrilegio. Per la verità, in quest’ultimo si riconosce la base sacro, come in regio si riconosce re: sono i limiti di questo trucco un po’ arrangiato. Limiti ancora più evidenti quando -ggio e -gio sono precedute dalle altre vocali: in questi casi il trucco perde quasi del tutto valore. Bisogna dire, però, che si tratta di pochissimi casi. C’è una sola parola (a parte qualche altro termine raro) che finisce in -iggiopomeriggio; qualcuna in più finisce in -igio (bigiogrigioligiofastigiolitigioprestigioprodigio…). Pochissime anche quelle che finiscono in -oggioalloggioappoggio e poggiomoggiosloggio e poche altre; ancora meno quelle in -ogioelogiomogionecrologioorologio e poche altre. Non si registrano, infine, parole in -uggio (ma ricordiamo uggia ‘noia’), mentre rare sono quelle in -ugioarchibugioindugio, pertugiorifugiosegugiosotterfugio.
Anche tra le parole che finiscono in -ggine o -gine queste terminazioni sono quasi sempre precedute dalla vocale a (quindi -aggine o -agine). Poche di queste hanno una sola gcartilagineimmagineindagine, ma anche caligineoriginescaturiginevertigine. Molte di più sono quelle con la doppia g: si tratta soprattutto di parole che indicano difetti del carattere, come balordagginecafonagginecocciutaggineinfingardagginesbadatagginesfacciataggine ecc.; accanto a queste troviamo lentigginefuligginerugginetestuggine e poche altre.
L’opposizione tra parole popolari, che rispecchiano nella grafia la pronuncia delle consonanti, e parole dotte si manifesta anche nel raddoppiamento incostante della b: da una parte abbiamo abbiamo e abbiaabbaiareabbinarebabborabbiascabbia (anche rabbino, non dal latino, ma dall’ebraico rabbi ‘maestro mio’) ecc.; dall’altra abiettoabitareabitudineinibirebibitaimbibirerubino ecc. In un caso, vanno bene entrambe le soluzioni: obiettivo e obbiettivo. Il francese ha dato un piccolo contributo anche in questo ambito, con bobinacabina (da cabine ‘capanna’), carabina e carabiniere e qualche altra parola. Ad aumentare la confusione, può capitare che la parola base sia popolare, mentre le derivate (o alcune di esse) siano dotte: è il caso di dubbio, da cui derivano tanto dubbioso quanto dubitare; un caso simile a quello, già visto, di prezzo, legato a prezioso e preziario.
Ricordiamo, infine, le parole univerbate, che hanno la geminata per effetto del raddoppiamento fonosintattico. Questo fenomeno ci porta a rafforzare la consonante iniziale delle parole precedute da alcuni monosillabi (adaeèche e altri), pochi bisillabi (ad esempio sopra), e tutte le parole che finiscono con una vocale accentata. Per questo motivo re Carlo si pronuncia (tranne che in alcune regioni del Nord) reccarlo (cosa, tra l’altro, utile, perché permette di distinguere nel parlato re Carlo da recarlo ‘portarlo’, che si pronuncia come si scrive). Ovviamente, però, re Carlo si scrive così, con una sola C in Carlo, perché in italiano nessuna parola, che non sia un acronimo, può cominciare con due consonanti uguali (al contrario, esistono rarissime parole che cominciano con due vocali uguali: aalenianoiingaoocito e poche altre).
Alcune espressioni di largo uso nelle quali opera il raddoppiamento fonosintattico, però, con il tempo sono divenute parole uniche, ovvero univerbate, come appena (a + pena), dappoco ‘buono a nulla’ (da + poco), sebbene (se + bene), soprattutto (sopra + tutto), vieppiù (via + più) ecc. A volte l’univerbazione è opzionale; infatti si può scrivere anche a pena da pocoa capo e accapoda capo daccapo (ma se bene invece di sebbenesopra tutto al posto di soprattuttovia più al posto di vieppiù sono decisamente inusuali). Quel che conta, però, è che quando queste parole si scrivono univerbate, la consonante foneticamente rafforzata si scrive geminata, perché rappresenta il raddoppiamento fonosintattico prodottosi quando le parole erano separate.
Un tranello in cui non si deve cadere è unire nella scrittura espressioni che, sebbene del tutto simili ad altre univerbate, si scrivono ancora separate. Così, accanto ad apposta (a + posta) abbiamo a posto, che non si può scrivere *apposto (la parola apposto esiste: è il participio passato del verbo apporre; bisogna stare attenti a non fare confusione), ma anche a volte, che non si può scrivere *avvolte (anche in questo caso, la parola avvolte esiste: è il participio passato del verbo avvolgere), a poco a poco, non *appoco appoco ecc.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Prima che il mio continuo correggere i miei genitori diventi la causa di conflitti a fuoco volevo che mi forniste una prova inconfutabile della correttezza dell’articolo i per il plurale di cioccolatino. È già abbastanza errato non riuscire facilmente a pronunciarlo senza triplicare la t, per non parlare del fatto che sento dire da anni
formule come lo cioccolato / lo cioccolatto la cioccolatta e simili aberrazioni. Anche in questi casi non mi dispiacerebbe poter eventualmente annoverare la vostra spiegazione come prova a mio favore in tribunale 😉

 

RISPOSTA:

L’articolo per cioccolatini è certamente iil cioccolatino / i cioccolatini. Allo stesso modo l’articolo indeterminativo è un. La propensione per *lo cioccolatino / *uno cioccolatino / *gli cioccolatini potrebbe derivare dalla pronuncia della affricata palatale iniziale come fricativa postalveolare, che avvicina cioccolatino a scioccolatino. La ricerca in rete di “lo cioccolatino” restituisce poche decine di risultati, tutte da fonti non autorevoli, commenti di utenti, pagine di social network, siti amatoriali e simili, a dimostrazione che l’oscillazione su questo punto della norma è trascurabile e *lo / uno cioccolatino / *gli cioccolatini sono da considerarsi substandard.
Leggermente più diffuso, soprattutto nel Sud Italia (appare qualche volta anche in Pirandello e Matilde Serao), è *cioccolattino/i, non registrato dal dizionario dell’uso GRADIT. Sebbene questa variante sia oggi esclusa dall’uso e da considerarsi substandard al pari di *lo cioccolatino, va detto a sua difesa che ha una formazione regolare (e non dimentichiamo le occorrenze letterarie). Deriva, infatti, dalle varianti di cioccolato con rafforzamento della consonante postonica intervocalica (un fenomeno tipico dell’italiano: si pensi a LEGEM > leggecioccolattocioccolatte e cioccolatta, normali nei secoli passati e ancora oggi esistenti (delle tre solamente cioccolatta non è registrata nel GRADIT). Il rafforzamento si spiega con l’etimo, che è lo spagnolo chocolate (a sua volta da una parola nahuatl), da cui si è sviluppato regolarmente l’adattamento cioccolatte e le altre due forme, analogiche dei nomi maschili in -o e dei femminili in -a. Probabilmente il francese chocolat ha, in seguito, prodotto cioccolato, che si è imposto sul concorrente più antico.
​Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se sia corretto scrivere extrafondente tutto attaccato e se in una frase del tipo “Per Pasqua ho ricevuto in regalo un uovo di cioccolato extrafondente” la parola extrafondente possa essere considerata come aggettivo qualificativo al grado superlativo assoluto.

 

RISPOSTA:

La grafia extrafondente è pienamente accolta, tanto da essere registrata nel dizionario dell’uso GRADIT. Basta fare una veloce ricerca on line, comunque, per vedere che le alternative extra-fondente e extra fondente sono diffuse tra gli scriventi (difficile stabilire quale sia la preferita). Sono tutte da considerarsi corrette, al pari di extra vergine e extra-amaro.
Questa variabilità grafica, del resto, è prevedibile, visto che i prefissi extra-megamaxi- e simili sono percepiti quasi come parole a sé stanti (possono essere annoverati, infatti, nella categoria degli affissoidi, e in particolare prefissoidi, morfemi a metà tra gli affissi e la parole a tutti gli effetti) e pertanto resistono all’univerbazione, cioè alla fusione con la parola base per formare una nuova parola. Solo quando la nuova parola è del tutto acclimata la grafia univerbata si stabilizza, come in extracomunitarioextraconiugaleextraparlamentare ecc.
Per quanto riguarda il grado dell’aggettivo, è sicuramente superlativo assoluto: i prefissoidi sopracitati rappresentano una alternativa, molto apprezzata nell’italiano contemporaneo, al suffisso -issimo o all’avverbio molto. Nel caso specifico dell’aggettivo fondente, il superlativo fondentissimo è al limite dell’accettabilità, perché la qualità definita dall’aggettivo non si può graduare, un po’ come per iniziale o motorizzatoExtrafondente, infatti, è nato in ambito pubblicitario, nel quale si fanno spesso forzature linguistiche, e si può dire solo della cioccolata.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

[…]  ho un dubbio sulla grafia
di una parola: qualcunaltro,qualcun’altro o qualcun altro?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è qualcun altroQualcuno si comporta come l’articolo indeterminativo ununouna: dunque vuole l’apostrofo al femminile (perché è elisione di qualcuna), non lo vuole al maschile. Esempi: “qualcun altro”, “qualcun’altra”, “c’è qualcuno che possa aiutarmi?”, “Qualcuna di voi ha visto la mia matita?”.

Fabio Rossi

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QUESITO:

La maggior parte delle persone sa che l’accento è usato sulla parola “sì” quando quest’ultima è un avverbio affermativo. Sulle lettere maiuscole l’accento non è necessario?

 

RISPOSTA:

Normalmente sui monosillabi l’accento grafico non è segnato, perché è scontato che l’accento cada sull’unica vocale della parola, ma nel caso di  (come di èné), esso è necessario per evitare confusione con monosillabi formalmente uguali, tranne, appunto, che per  l’accento.
Se la parola lo richiede, l’accento va segnato sempre, anche quando la parola è maiuscola, e anche in contesti in cui non ci sia alcun pericolo di confonderla con altre.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gentilissimi, Quale tra blu e ble è la forma italiana corretta? Grazie.

 

RISPOSTA:

Le tre forme bleublé e blu sono tutte e tre corrette e possono dunque essere utilizzate liberamente.
Qualche precisazione di storia, stile e opportunità.
1) Tutte e tre derivano dal medesimo etimo, l’antica forma germanica, franca, blao, che diede vita anche all’antico italiano biavo ‘azzurro chiaro’,
2) Il termine blé andrebbe scritto più opportunamente con l’accento acuto ed è considerata variante meno formale e meno comune di blu.
3)  Bleu è un francesismo: dato che sia blu sia blé ne sono gli adattamenti italiani, tanto meglio optare per questi ultimi.
4) Dato che blu è la forma più comune, più diffusa in italiano, e anche avvertita come più formale, o almeno adatta a tutti i registri, meglio optare per quest’ultima, piuttosto che per blé.

Fabio Rossi

Parole chiave: Etimologia, Registri
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QUESITO:

E’ corretto scrivere “Capo Organo” oppure “Capoorgano”? E’ corretto scrivere “Capo Segreteria” oppure “Caposegreteria”? In attesa di una cortese risposta, porgo i più cordiali saluti.

 

RISPOSTA:

Le parole composte, cioè formate da due parole (nomi, aggettivi, verbi, raramente preposizioni e avverbi), come attaccapannicapostazioneterremoto, possono essere scritte senza interruzione, unite dal trattino o separate. La distinzione tra la scrittura congiunta e quella con trattino non è sempre netta. I composti con verbi sono normalmente univerbati (lavapiattiandirivieniviavai); quelli con aggettivi si fondono facilmente (agrodolcebiancospinoverderame); quelli che coinvolgono nomi rimangono spesso separati (tranne quelli formati con verbo + nome), meno spesso prendono il trattino.
Con il tempo, il composto può perdere trasparenza e finire per essere considerato una parola unica. Tale processo può essere lungo, tanto che due versioni, con e senza trattino, o anche separate e univerbate, spesso convivono per molto tempo. Si può arrivare ai casi estremi (rari) di parole di cui esistono le tre versioni grafiche, ad esempio piccolo borghese,piccolo-borghese e piccoloborghese. Il processo può anche essere frenato da ragioni peculiari delle singole parole, come in diritto-doverefranco-austriacoitalo-tedesco, nelle quali opera la necessità di mantenere i due costituenti autonomi.
Insomma, sulla grafia delle parole composte influiscono fattori diversi, legati alla norma ma soprattutto all’uso.
Le parole composte con il costituente capo e indicanti qualifiche professionali sono in continuo aumento, sulla falsariga dell’evoluzione del mondo del lavoro. Capo organo capo segreteria non sono registrate nei dizionari, ma la ricerca on line permette di rilevarne l’uso corrente: capo organo appare quasi sempre nella grafia separata, come era prevedibile, vista la recente formazione, l’uso ristretto e la difficoltà dell’incontro delle due o; capo segreteria, leggermente più acclimata, accoglie anche la grafia caposegreteria. Non sembrano diffuse (ma sono possibili) le varianti capo-organo e capo-segreteria.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Buonasera,

vorrei sapere qual è la forma corretta tra queste: – semiabbandono – semi abbandono – semi-abbandono. Grazie.

 

RISPOSTA:

Le parole formate con il componente semi- sono considerate derivate, non composte, perché semi- è un prefisso, non una parola a sé stante. Non sono contemplate, pertanto, varianti alla grafia univerbata semiabbandono.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei gentilmente sapere quando i termini “quanto” “questo” e “quale” si
apostrofano. Esempio: quest anno o quest’anno? Qual è o qual’è? E simili.
Grazie.

 

RISPOSTA:

Senza entrare in dettagli tecnici (quali: “l’apostrofo serve per l’elisione, mentre l’apocope, o troncamento, non è segnalata dall’apostrofo, salvo eccezioni”), basta attenersi a questa semplice regoletta empirica: usi l’apostrofo quanto la parola priva della vocale finale (questqual ecc.) non potrebbe stare davanti a parola iniziante per consonante, mentre non usi l’apostrofo in tutti gli altri casi. Dunque: quest’annoquant’è bella ecc. (con l’apostrofo), perché sarebbero impossibili forme come quest manoquant dista ecc. Invece qual è si scrive senza apostrofo perché qual può esistere anche davanti a parole inizianti per consonante, come nel detto “qual buon vento ti porta?”. Per lo stesso motivo, l’articolo indeterminativo un (maschile) non vuole mai l’apostrofo (un amicoun secondo), mentre il femminile una lo vuole (un’amica, ma una sedia). 

Fabio Rossi

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