QUESITO:
Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:
«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) / NEMMENO la X o lo stesso Y, / NE’ la X, NE’ lo stesso Y,
ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo, a tale processo”.
RISPOSTA:
La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».
Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».
Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.
Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di in o a; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.
RISPOSTA:
QUESITO:
Volevo chiedere quale delle tre versioni è corretta/preferibile o se invece sono tutte e tre ugualmente accettabili:
Questioni relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione.
RISPOSTA:
I tre esempi sono tutti e tre corretti (in quanto contemplati dal sistema grammaticale italiano), ma il primo è preferibile. Le grammatiche son tutte concordi nell’ammettere la possibilità dell’ellissi preposizionale nei casi di più elementi retti dalla medesima preposizione, ma ribadiscono anche che, per chiarezza, talora è bene ripetere la preposizione. Nel caso specifico, dato che la preposizione è articolata, sarebbe meglio ripeterla o quanto meno ripetere l’articolo: “Questioni relative all’interpretazione e l’applicazione”.
La -d eufonica va limitata a casi di incontro tra due vocali identiche, dunque, semmai, “interpretazione ed educazione”, ma “interpretazione e applicazione”.
Fabio Rossi
QUESITO:
In vita ho sempre detto indistintamente:
- A) Lunedì prossimo.
- B) Il lunedì prossimo.
- C) Il prossimo lunedì.
Mentre ho sempre visto come errore:
- D) Prossimo lunedì.
Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.
Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?
RISPOSTA:
Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).
L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.
Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Potreste correggere le seguenti frasi?
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.
RISPOSTA:
Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Nord, a Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nord, al Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.
RISPOSTA:
No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.
RISPOSTA:
Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mario, la porta di casa, il tavolo di legno, mangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddo, di caldo, di fame, di sete, di gioia ed altre emozioni (di paura, di dolore, di felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria fredda. Per ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amico, l’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?
RISPOSTA:
Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: il, lo, l’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.
RISPOSTA:
L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentare, mostrare, essere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel Credo si dice: «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?
RISPOSTA:
La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?
RISPOSTA:
In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”
RISPOSTA:
L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calma, per favore, di fretta, da sballo, a rigore, ma anche a casa, in ufficio, a scuola, a teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinema, in banca ma alla posta, in ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a mare, a spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffè, oro, acqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dovrebbe scrivere: “Lei recitò un Ave Maria” con l’apostrofo o senza? L’Ave Maria è una preghiera e quindi si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo, il che significa “Recitare una Ave Maria”. Però nessuno direbbe: “Recitare una Padre Nostro”.
RISPOSTA:
Visto che Ave Maria (anche nelle grafie avemaria e avemmaria) è un sostantivo femminile, l’articolo da usare sarà la/una, quindi “un’Ave Maria”. Anche se si tratta di una preghiera, Padre nostro (anche nella grafia univerbata Padrenostro) è un sostantivo maschile; quindi, avrà come articolo il/un: “un Padre nostro”.
Raphael Merida
QUESITO:
Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:
Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
RISPOSTA:
Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.
Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.
Raphael Merida
QUESITO:
- Forse al 23 di Ottobre saremo già salvi.
In italiano standard si direbbe:
- Forse il 23 di Ottobre saremo già salvi.
Tuttavia (a proposito della frase “a”) la preposizione articolata al posto dell’articolo mi sembra piuttosto ricorrente, sentendo anche parlare gente di diverse zone d’Italia, da nord a sud.
È solo un regionalismo/dialettalismo oppure è ammissibile anche in italiano standard?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette e si differenziano per una leggera sfumatura semantica. La frase 1., formata con la preposizione articolata al prima della data, indica l’idea di tempo continuato, cioè per quanto tempo dura l’azione o la circostanza espressa dal verbo: “forse (da questo momento fino) al 23 ottobre saremo salvi”; la frase 2., formata con l’articolo determinativo il, specifica un tempo determinato, cioè il momento esatto in cui si verificherà l’azione espressa dal verbo. Entrambe le frasi possono essere scritte anche senza la preposizione di prima del mese senza che il significato cambi.
L’indicazione della data con l’articolo determinativo maschile singolare è una caratteristica dell’italiano moderno. Anticamente, infatti, l’articolo era condizionato dal numerale seguente: per il numero ‘1’ l’articolo era il (oppure al, nelecc.: «il primo di giugno»; dal numero ‘2’ in poi i (oppure ai, nei ecc.: «ai 23 di ottobre»). L’articolo plurale li (oggi non più in uso) permane tuttora in alcuni formulari burocratici: Roma, li 13 luglio (sull’erronea accentazione di li rimando alla risposta Numeri, date, forme con q e con g dell’archivio di DICO).
Segnalo, infine, che i nomi dei giorni della settimana e dei mesi vanno scritti con la lettera minuscola, quindi lunedì, giugno ecc.
Raphael Merida
Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?
L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su una frase: “avrei bisogno di sapere se potessi sostenere l’esame (giorno x)”. Non mi suona male ma mi è stato fatto notare che non era così corretta e che dovrei dire invece “se sia possibile(…)”. Potreste aiutarmi? Vanno bene entrambe?
RISPOSTA:
In effetti, non si giustifica l’imperfetto, perché in questo caso il rapporto temporale tra le due proposizioni non è di contemporaneità nel passato, bensì di posteriorità o di contemporaneità nel presente, quindi la scelta migliore è il congiuntivo presente, oppure l’indicativo presente: «… se posso sostenere… / se è possibile sostenere…». Inoltre, è sbagliato (o quantomeno troppo informale e regionale) «giorno 12» (per es.), perché la forma dell’italiano standard prevede l’uso dell’articolo, cioè «il giorno 12».
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?
RISPOSTA:
In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, leggere è un verbo o un sostantivo, e ha funzione di complemento oggetto?
“Amo tanto leggere, in particolare mi piacciono i libri fantasy”.
RISPOSTA:
Nella frase non è possibile decidere se l’infinito abbia valore di verbo o di nome: entrambe le analisi sono, pertanto, legittime. Il fatto che la parola non sia preceduta dall’articolo, comunque, fa propendere per l’analisi come verbo; diversamente, in una frase come “Amo tanto il leggere” la parola sarebbe certamente da analizzare come nome. Al contrario, se leggere fosse seguito da un complemento oggetto (per esempio “Amo tanto leggere romanzi d’avventura”) emergerebbe più chiaramente la funzione verbale.
Se leggere è un nome, esso rappresenta il complemento oggetto del verbo amo; se, invece, è un verbo, allora rappresenta una proposizione oggettiva subordinata alla reggente amo tanto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?
Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?
In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?
Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”
RISPOSTA:
La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.
C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».
Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tutte e tre le varianti sono ammissibili?
“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).
Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?
“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.
La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.
Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo un altro quesito.
- Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.
Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.
Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:
- Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
- Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.
Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.
Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.
RISPOSTA:
Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre utilizzato la parola latina ius premettendo ad essa l’articolo lo, probabilmente influenzata da casi analoghi (lo Ione di Platone). Mi accade però di leggere il ius su un manuale. Quale dei due articoli (il/lo) costituisce la forma corretta?
RISPOSTA:
Senza dubbio alcuno lo ius. Infatti, anche volendo appigliarsi alla pronuncia (forse) non semiconsonantica, ma vocalica, della i prevocalica, l’articolo mai sarebbe il, ma semmai l’: l’imbuto. E infatti l’ius (così come l’iena, per la iena) è possibile, sebbene minoritario e arcaico.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto scrivere fuori dal o fuori del?
RISPOSTA:
La forma comune è fuori dal (e fuori dallo, dalla ecc.); fuori di si usa soltanto in alcune espressioni cristallizzate, nelle quali non si mette l’articolo, come fuori di casa e fuori di testa (ed equivalenti, come fuori di zucca, di melone ecc.). Con gli avverbi di luogo qui, qua, lì, là sono possibili sia fuori da sia fuori di.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali delle seguenti varianti sono corrette?
“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.
“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.
RISPOSTA:
Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lo, la, li, le, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con mi, ti, ci, vi, ne, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atleta, artista, collega, nipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti frasi qual è la diversa funzione grammaticale di una?
“Vorrei una sola fettina di arrosto”;
“La zia abita in una bella casa”.
RISPOSTA:
Nella prima una è un aggettivo numerale cardinale; nella seconda è un articolo indeterminativo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Alla domanda Che lavoro fai? è possibile rispondere in tre modi:
1) Sono (una) maestra
2) Faccio la maestra
3) Lavoro come maestra
In 1 maestra è predicato nominale, ma in 2 e in 3?
In 2 e 3 si può parlare di predicativo del soggetto?
Inoltre: perché in 1 (quindi con il verbo essere) si usa l’articolo indeterminativo
mentre con il verbo fare devo usare l’art. determinativo? (*Faccio una maestra)
RISPOSTA:
Sì, 2 e 3 sono predicativi del soggetto.
La differenza tra articolo determinativo e indeterminativo, in genere chiara (determinativo per un oggetto noto o per una categoria, indeterminativo per un elemento singolo di una categoria, che spesso coincide con un oggetto ignoto o non ancora nominato), non è sempre chiarissima, perché dipende dalla storia delle collocazioni, cioè da come un gruppo di parole si stabilizza nella lingua.
In questo caso, è possibile sia “Sono maestra” (cioè appartengo alla categoria professionale delle maestre), sia “Sono una maestra” (cioè, sono un elemento della categoria delle maestre). Il determinativo “Sono la maestra” farebbe scattare l’interpretazione ‘sono una maestra già nota o nominata prima’, per esempio “Sono la maestra di Luca”.
Con fare, non conta l’essere un elemento di una categoria ma la funzione, cioè, in un certo senso, il rappresentare la categoria stessa, per questo l’indeterminativo è impossibile e si impone il determinativo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice un ragazzo e una ragazza biondi (perché con l’aggettivo, il genere maschile prevale sul femminile quando il numero è plurale); però, per quanto riguarda il sostantivo, in specie quando si riferisce agli aggettivi numerali ordinali, non è così:
Questi sono il primo e il secondo posto.
Terzo e quarto premio assegnato.
Scrivendo il primo e il secondo posti o terzo e quarto premi assegnati si incorrerebbe in forme grammaticalmente errate o soltanto insolite?
RISPOSTA:
L’accordo al plurale tra il nome e l’aggettivo è corretto: è percepito come inatteso per via del forte legame sintattico che si crea tra l’aggettivo preposto al nome e il nome stesso. Se il nome è accompagnato anche dall’articolo, per giunta, si crea un paradosso: l’articolo concorda non con il nome ma con l’aggettivo. Impossibile, del resto, sarebbe una frase come *i primo e secondo posti.
Il paradosso e, almeno in parte, la sensazione di stranezza spariscono se si anticipa il nome: i posti primo e secondo; premi terzo e quarto assegnati. Per evitare la costruzione problematica con gli aggettivi preposti al nome è possibile, oltre che anticipare il nome, ripeterlo: il primo posto e il secondo posto; terzo premio e quarto premio assegnati. Possibile, in fondo, è anche la costruzione con il nome posposto al singolare, che è grammaticalmente imperfetta, ma non ambigua e giustificabile (per il già ricordato legame stretto tra l’aggettivo preposto e il nome).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Con la parola stivali si usa quelli o quegli, belli o begli?
Ad esempio questa affermazione è corretta? “Ho visto dei begli stivali. Penso proprio che prenderò quegli”.
RISPOSTA:
Tutti i nomi che cominciano per s seguita da altra consonante (comunemente detta s impura) richiedono l’articolo determinativo lo / gli, quindi anche gli aggettivi quello / quegli e bello / begli. Il sintagma corretto, pertanto, è begli stivali. Il pronome quello non è toccato da questa regola: esso presenta soltanto le forme quello / quella / quelli / quelle. Nella sua frase, quindi, dovrà scrivere prenderò quelli. Si badi che anche l’aggettivo bello torna alla sua forma base se non è seguito da un nome iniziante per s impura; per esempio: “Belli quegli stivali!” (e non *”Begli quegli stivali!”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Autoimporsi, autoproclamarsi, solo per citare alcuni dei molti verbi costituiti dal prefisso auto- e costruiti con il clitico -si, non rappresentano un mero pleonasmo? Le forme intransitive pronominali o riflessive, a seconda dei casi, non sono sufficienti per esprimere un concetto che, con il prefisso auto-, si intensifica, senza, a mio giudizio, aggiungere niente dal punto di vista semantico?
1) Il politico esposto al pubblico ludibrio, si (auto)impose un esilio ad altre latitudini.
2) Pur avendo fallito nella sua ultima prestazione agonistica, l’ex campione si (auto)proclamò il migliore di tutti i tempi.
Seconda metà dell’interrogativo.
La funzione sostantivale di parole che abbiano come suffiso -ile o -ole, oppure -arsi, -ersi ecc. è sempre possibile, anche quando non vi sia una chiara legittimazione d’uso da parte dei dizionari della lingua italiana?
Esempi:
“Siamo ai limiti dell’invivibile, dell’inconsapevole, dell’irragionevole”, “Ho pensato tutto il pensabile”, “Viviamo nella società del mutevole”; “Il disgregarsi delle coste è un fenomeno geologico”, “Il tuo affannarti non porterà a niente di buono”, e così via.
RISPOSTA:
Verbi come autoproclamarsi presentano un rafforzamento del concetto più che un pleonasmo interno. Dal punto di vista del punto di origine dell’azione proclamarsi = autoproclamarsi, ma il prefissoide (prefisso con un chiaro significato lessicale) auto- sottolinea che è il soggetto a prendere l’iniziativa di compiere l’azione. In autoproclamarsi, quindi, è più evidente l’autonomia del soggetto nel processo che porta a compiere l’azione, come se fosse ‘proclamarsi per propria iniziativa’. Non si può dire che in proclamarsi questa autonomia sia esclusa, ma semplicemente non è segnalata.
Tutte le parti del discorso possono essere sostantivate (a prescindere dalla loro forma) mediante l’inserimento dell’articolo; i dizionari riportano soltanto i casi più comuni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire “Non capisco il perché Mario non mi abbia scritto”, oppure si dovrebbe eliminare il?
Dopo il condizionale presente vorrei nella forma negativa si usa il congiuntivo presente o imperfetto? Non vorrei che tu fossi o Non vorrei che tu sia?
RISPOSTA:
Il perché Mario… non è corretto, perché in questo caso perché è una congiunzione (secondo alcuni un avverbio) nel pieno delle sue funzioni e non c’è ragione di sostantivarlo. La forma corretta è, pertanto, non capisco perché Mario… Si può, però, costruire la frase così: “Non capisco il perché della mancata risposta di Mario”. In questo caso, come si vede, il perché non è una congiunzione (o un avverbio), ma è un nome, equivalente a motivo, infatti non capisco il perché della mancata risposta = non capisco il motivo della mancata risposta.
I verbi di volontà, opportunità, obbligo al condizionale reggono preferibilmente il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva per esprimere la contemporaneità nel presente. Questo vale anche quando non sono preceduti da non, quindi vorrei che tu fossi e non vorrei che tu fossi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
a) “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un affermato paroliere”.
b) “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un paroliere è il solo Giovanni”.
Vi chiedo se le due costruzioni dell’aggettivo solo, prima in funzione di soggetto, poi in funzione di complemento, sono valide. Per ciò che concerne la seconda frase, gli avverbi solo e soltanto sarebbero certamente più usuali, ma vorrei sapere se sia comunque corretta la mia scelta.
RISPOSTA:
L’aggettivo solo preposto al nome e preceduto dall’articolo prende il siginificato di ‘unico, singolo’. Nelle sue due frasi è costruito correttamente (del resto il sintagma il solo Giovanni si ripete identico) e può essere sostituito dagli avverbi solo, solamente, soltanto con praticamente nessuno scarto semantico. Va sottolineato che in entrambe le frasi il solo Giovanni è soggetto, e in entrambi i casi del verbo è (nella seconda frase si noti è il solo Giovanni, ovvero il solo Giovanni è). La differenza tra la prima e la seconda frase è il diverso modo di focalizzare il sintagma il solo Giovanni, con il solo, che già di per sé concentra l’attenzione sul sintagma che lo contiene, o costruendo una frase scissa (o più precisamente scissa invertita: la scissa sarebbe è il solo Giovanni a essere…), che isola il sintagma all’interno di una proposizione presentativa, introdotta dal verbo essere, completata da una subordinata relativa (o più precisamente pseudorelativa) implicita che contiene l’informazione essere un paroliere. Come si può vedere, l’informazione contenuta nella proposizione pseudorelativa è rappresentata come nota (l’emittente, cioè, presume che il ricevente abbia già in mente tale concetto); il concetto, però, non è stato introdotto prima, quindi la presunzione potrebbe essere sbagliata e il ricevente potrebbe non essere in grado di collegare il concetto di essere un paroliere con quello di sono musicisti. La scelta comunque rimane accettabile perché il concetto di paroliere è in qualche modo estraibile da quello di musicisti, o almeno diventa estraibile da parte del ricevente quando viene introdotto come noto. Più difficile da interpretare, al limite dell’incoerenza, sarebbe stata una costruzione come “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un autista è il solo Giovanni”, laddove “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un autista” sarebbe rimasta del tutto coerente perché l’informazione essere un autista è presentata non come nota, ma come nuova (pur con la focalizzazione dell’attenzione su il solo Giovanni).
Per un approfondimento sulla frase scissa è possibile consultare l’archivio di DICO usando la parola chiave frase scissa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La preposizione su che esprime quantità approssimativa è corretta in questa frase?
“Rimaniamo a Aosta su 10 giorni”.
Questa frase con quale preposizione è giusta?
“I turisti ritornano nei / con i primi giorni caldi”.
RISPOSTA:
Nella prima frase la preposizione è corretta, ma bisogna aggiungere l’articolo: sui 10 giorni = ‘all’incirca 10 giorni’.
Nella seconda frase la preposizione sicuramente corretta è con, che in questo caso indica la concomitanza, la coincidenza, tra il ritorno dei turisti e quello dei giorni caldi. La preposizione in non va bene perché indica il tempo determinato (“I turisti ritornano in aprile”), mentre i primi giorni caldi descrive una situazione più che un momento. In andrebbe bene in una frase come “I turisti ritornano nei primi giorni caldi di aprile”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi chiedo da sempre come mai si dice la fine (femminile), la settimana (femminile), ma il fine settimana (maschile). In italiano, il genere delle parole composte non è collegato ai generi delle parole singole che contengono?
RISPOSTA:
La questione è effettivamente aperta. Di norma il genere dei composti corrisponde al genere della loro testa, ovvero del costituente che detta le caratteristiche morfologiche e semantiche. Per esempio, un pescecane è maschile e definisce un tipo di pesce perché la testa del composto è pesce.
Nel caso di fine settimana ci si aspetterebbe che il genere fosse femminile, perché fine, che è la testa del composto, è femminile (ma può essere anche maschile, con il significato di ‘obiettivo, scopo’). La ragione della scelta del genere maschile per questo composto è probabilmente che esso è un calco traduzione dell’inglese week end, e quindi è trattato come una parola straniera. Le parole straniere che entrano in italiano provenendo da lingue prive del genere (come è l’inglese) sono di solito maschili, ma possono essere anche femminili se richiamano alla memoria dei parlanti altre parole femminili già esistenti in italiano (per esempio, e-mail è femminile perché richiama posta o lettera). Nel caso di fine settimana i parlanti non hanno sentito l’eco di la fine, ma hanno, invece, assimilato questa parola ai giorni della settimana, che sono tutti maschili tranne uno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se Dio è un nome proprio, non è sbagliato se io lo uso senza riferirmi al dio del paradiso e dell’inferno, ma riferendomi a un dio qualunque? Se dico: “Non so se Dio esiste” non mi sto riferendo a UN DIO in particolare. O no?
RISPOSTA:
Il nome dio può adattarsi a qualunque divinità. Senza articolo e con lettera maiuscola è usato come nome proprio, riferito al dio di una religione monoteistica, mentre per gli dei che hanno nomi si usa come nome comune, quasi sempre in funzione di apposizione (il dio Apollo, il dio Ganesh). In questi casi, quando non accompagna il nome proprio può essere sostituito da la divinità.
Di solito, con Dio senza ulteriori attributi o modificatori si intende il dio cristiano; sebbene questa identificazione non sia giustificata sul piano linguistico, ma dipenda da ragioni sociali e culturali, non si può fingere che non sia attiva. Una frase come quella da lei proposta, pertanto, sarà facilmente interpretata come ‘non so se il dio cristiano esista’, piuttosto che ‘non so se esista alcun dio’. Servirà, quindi, una ulteriore specificazione se con Dio si intende ‘qualsiasi dio’ (a meno che non si ricerchi volutamente l’ambiguità).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si può dire “La citta di… ha i piu abitanti / è la citta con i piu abitanti rispetto ad altre citta (cioè con il numero piu alto di abitanti)?
RISPOSTA:
Più può essere avverbio o aggettivo. Quando è avverbio è seguito da un aggettivo (più bello) e può essere preceduto dall’articolo determinativo per fare il superlativo relativo (il più bello del mondo); quando è avverbio è seguito da un nome (più abitanti) e non può essere preceduto da un articolo determinativo (*i più abitanti). Per fare il comparativo di maggioranza con un nome, quindi, basta dire “La città di XXX ha più abitanti di XXX”; per fare il superlativo relativo, invece, bisogna sostituire più con una espressione equivalente, per esempio “La città di XXX ha il maggior numero di abitanti della regione”.
Attenzione: nel caso di “La città di XXX ha più abitanti rispetto ad altre città vicine” siamo sempre di fronte a un comparativo di maggioranza (non a un superlativo relativo), perché si confronta un dato con un altro dato, anche se quest’ultimo è composto da più dati. Per questo motivo, come si vede, in questo caso si può dire più abitanti rispetto a… (ovviamente senza l’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È nata una diatriba in relazione alla seguente frase: “Abele fu vittima di una delle più comuni cause di odio: la gelosia”. Così com’è strutturata la frase, a quale conclusione si giunge, che l’odio è causato dalla gelosia, o la gelosia è causata dall’odio?
RISPOSTA:
Dalla frase si ricava che la gelosia causa l’odio.
Il termine causa rappresenta la ragione che produce una conseguenza, quindi il complemento di specificazione collegato a questo nome ne rappresenta la conseguenza. L’interpretazione di causa come conseguenza (la causa dell’odio = ‘la conseguenza prodotta dall’odio’) è piuttosto improbabile. La mancanza dell’articolo nel sintagma di odio non fa che rafforzare l’interpretazione più comune, perché costruisce l’espressione come cristallizzata (sulla relazione tra la perdita dell’articolo e la cristallizzazione di un’espressione si veda ad esempio la risposta 2800124 dell’archivio di DICO).
Potrebbe indurre in confusione l’esistenza della locuzione preposizionale a causa di, che, in effetti, apparentemente nega questa ricostruzione. Da una parte, infatti, abbiamo la causa dell’odio = ‘la ragione che produce l’odio’, dall’altro a causa dell’odio = ‘come conseguenza dell’odio’. La contraddizione, però, è apparente, perché anche all’interno della locuzione causa = ‘ragione che produce’: a causa dell’odio, infatti, significa ‘essendo l’odio la ragione scatenante’. Se volessimo adattare fedelmente la frase alla locuzione, quindi, dovremmo dire che a causa della gelosia nasce l’odio, non che a causa dell’odio nasce la gelosia.
L’ambiguita tra complemento di specificazione soggettivo e oggettivo si può manifestare in dipendenza da altri nomi, come paura (la paura dei soldati = ‘la paura provata dai soldati’, ma anche ‘la paura incussa dai soldati’); più spesso, però, essa è prevenuta dal significato del nome da cui dipende il complemento di specificazione (come nel caso di causa) o dal significato del nome all’interno del complemento di specificazione, come nel caso di preparazione di: la preparazione della torta = ‘la preparazione che ha come conseguenza la torta’; la preparazione di Maria = ‘la preparazione svolta da Maria’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, come faccio a riferire che lo hanno generato sia alle memorie sia alle convinzioni?
“Cancellazione di tutte le memorie e convinzioni che lo hanno generato”.
RISPOSTA:
Con questa costruzione, che rimanda a entrambi gli antecedenti, come da lei desiderato. Ciò è dovuto alla mancanza dell’articolo davanti a convinzioni, che induce a collegare senz’altro anche questo nome all’articolo le di memorie, creando un unico sintagma. Per la verità, anche se inserissimo l’articolo prima di convinzioni (cosa che sarebbe obbligatoria se al posto di convinzioni avessimo un nome di genere o numero diversi da memorie), il pronome relativo rimanderebbe comunque a entrambi gli antecedenti, per via del legame della congiunzione e, che mette i sintagmi sullo stesso piano.
Sarebbe, semmai, il contrario, la volontà di riferire che al solo convinzioni, a dover essere segnalato. Questa precisazione si potrebbe realizzare sfruttando la punteggiatura, per esempio così: le memorie, e le convinzioni che; oppure le memorie, nonché le convinzioni che; o anche: le memorie, ma anche le convinzioni che. Ancora più esplicita sarebbe la costruzione separata: le memorie. A cui si aggiungerebbero le convinzioni che (o simili).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo il vostro aiuto per sapere qual è la preposizione giusta da mettere davanti al nome di un’associazione che si chiama Lortobio, volutamente scritto tutto attaccato.
Quale delle seguenti forme é corretta? venite a Lortobio o venite al Lortobio?
RISPOSTA:
Se consideriamo l’articolo come parte del nome, dobbiamo smettere di considerarlo articolo, per cui il nome Lortobio diviene a tutti gli effetti assimilabile a, per esempio, locale. Ne consegue che si dirà venite al Lortobio (come si direbbe venite al locale).
L’altra soluzione non è impossibile, ma è molto improbabile: sarebbe valida soltanto se si considerasse Lortobio alla stregua di un nome di città, come Londra. In quel caso, ovviamente, avremmo venite a Lortobio (come venite a Londra). Osservando come si comportano i nomi propri di aziende (la Fiat), istituzioni (l’INPS), associazioni di vario genere (la CGIL, il CONI), la soluzione con l’articolo è senz’altro la migliore.
Non è, invece, possibile considerare l’articolo separato dal nome, se lo si scrive univerbato con il nome, perché graficamente Ortobio richiederebbe l’articolo apostrofato, quindi venite all’Ortobio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo due questioni riguardanti la scelta tra i modi indicativo e condizionale.
Prima questione.
1a. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non vengo / verrò alla festa.
1b. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non verrei alla festa.
Le frasi sono entrambe ben costruite?
Ci sono casi in generale in cui sia debba usare obbligatoriamente soltanto uno dei due modi (indicativo o condizionale) in frasi introdotte dalla congiunzione altrimenti?
Seconda questione.
2. Non ho intenzione di vendere la mia casa al mare. Se lo facessi, l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrei ristrutturato da poco.
Il condizionale passato (avrei ristrutturato) potrebbe essere interpretato meramente come azione precedente a quella dell’entrare in possesso da parte dell’acquirente, oppure, sulla scorta del classico periodo ipotetico, porta con sé soltanto l’irrealizzabilità dell’evento?
Provo a snebbiare un po’ la domanda esplicando la base logica della frase: in questo contesto mi sentirei di adottare il condizionale passato per creare un rapporto temporale tra le due azioni (entrerebbe in possesso e avrei ristrutturato) distinguendole appunto sul piano della successione cronologica e non su quello semantico. L’azione eventuale del ristrutturare sarebbe difatti precedente a quella dell’entrare in possesso. Con un altro condizionale presente (ristrutturerei) tale stacco per me non sarebbe evidenziabile.
Avevo valutato anche due tempi dell’indicativo (passato prossimo e futuro anteriore), che però non mi sembrano adeguati al messaggio da trasferire all’interlocutore. Scegliendo tali forme verbali, a patto che siano valide, in che modo cambierebbe la semantica?
RISPOSTA:
Tutte le frasi sono legittime. Nella 1, la proposizione disgiuntiva introdotta da altrimenti può essere costruita con il presente indicativo (vengo), il futuro semplice (verrò) e il condizionale presente (verrei). La scelta fra le tre opzioni è determinata da fattori semantici e diafasici: l’indicativo presente e il futuro rappresentano l’alternativa come un fatto certo nel futuro immediato o lontano. Il presente è, a questo scopo, meno formale del futuro. Il condizionale rappresenta la stessa alternativa come una conseguenza condizionata da un altro evento. In assenza di altre indicazioni, tale evento sarebbe automaticamente fatto coincidere dal ricevente con l’indisposizione di lei: “Spero che lei sia indisposta, altrimenti (se lei non fosse indisposta) non verrei alla festa.
Nella frase 2, come ha giustamente notato lei, il valore del condizionale passato è relativo alla consecutio temporum, non al grado di possibilità della conseguenza di un evento. Il condizionale passato, cioè, indica che l’evento del ristrutturare è passato rispetto a quello di riferimento, cioè la vendita, ma futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora. Non va dimenticato, però, che il condizionale veicola sempre una sfumatura di potenzialità; dalla frase, infatti, traspare, per via del condizionale, che la ristrutturazione non sia stata ancora decisa.
Si noterà che il momento dell’enunciazione è considerato passato nella frase, perché è osservato dalla prospettiva futura del momento di riferimento; per questo si giustifica l’uso del condizionale passato, che, come è noto, esprime il futuro nel passato, cioè un evento futuro rispetto a un altro evento passato (qui coincidente, per l’appunto, con il presente). Non è necessario spostare il centro deittico, cioè il punto di vista, al futuro per costruire correttamente la frase: è possibile anche mantenere quello del momento dell’enunciazione. In questo modo, il momento in cui avviene la ristrutturazione è futuro rispetto al presente, ma passato rispetto alla vendita, ovvero è futuro anteriore: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrò ristrutturato da poco. Con l’indicativo, però, si perderebbe la sfumatura potenziale veicolata dal condizionale e la ristrutturazione apparirebbe concreta, già decisa.
Il condizionale presente (ristrutturerei) al posto del passato cambia il senso della frase perché la funzione temporale preminente nel condizionale passato sarebbe in questo caso esclusa ed emergerebbe soltanto quella potenziale: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che ristrutturerei (se potessi). Il condizionale presente, inoltre, impedisce l’uso della locuzione da poco, visto che indica un’azione ancora da venire (forse).
Con il passato prossimo (ho ristrutturato) la frase sarebbe ancora corretta, ma la ristrutturazione sarebbe rappresentata come già avvenuta al momento in cui l’emittente sta parlando.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Posso dire che si studia molto alla scuola?
Si usa in italiano l’espressione il serial televisivo?
RISPOSTA:
Alla scuola non è corretto: questo sintagma è fortemente cristallizzato nella forma a scuola (come a casa). Si può usare la preposizione articolata se scuola è accompagnato da un aggettivo o un complemento di specificazione: alla scuola media; alla scuola di Giulia. Anche in questi casi, comunque, si può usare a scuola.
Serial televisivo si può usare, ma suona un po’ antiquato. Oggi si preferisce serie (televisiva).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono il segretario di una Associazione nazionale di professionisti di una disciplina del benessere denominata Wa… Il nome è un marchio registrato, ma identifica ormai comunemente la nostra professione e disciplina. Stiamo realizzando il nuovo logo dell’associazione sotto il quale dobbiamo usare la parola Professionisti e Wa… È stato proposto Professionisti del Wa…, ma alcuni lo ritengono grammaticalmente scorretto perché prima di un nome proprio, come ritengono essere Wa…, andrebbe semmai la preposizione di. Suggeriscono, quindi, Professionisti di Wa… Altri invece ritengono Wa… il nome comune della disciplina e utilizzerebbero senza problemi la preposizione articolata.
Anche l’articolo da utilizzare crea dubbi. Dobbiamo scrivere il Wa… o lo Wa…?
RISPOSTA:
Il nome della disciplina dovrebbe essere allineato con altri nomi di sport come calcio, tennis, aquagym ecc. Dovrebbe, quindi, essere comune, non proprio. Detto questo, ricordiamo che anche i nomi comuni singolari, che di norma sono preceduti da un articolo, possono non avere l’articolo; ma solo ad alcune condizioni. Rimanendo nell’ambito dei nomi di sport, notiamo che essi sono spesso senza articolo quando sono preceduti dalle preposizioni di o da, a loro volta rette da alcuni nomi o aggettivi (esperto di calcio, tifoso di calcio, squadra di calcio, scarpette da calcio…). La caduta dell’articolo si può avere anche dopo a retta da alcuni verbi: giocare a calcio.
Dopo professionisti di di solito l’articolo è mantenuto (professionisti del calcio, del tennis, della pallavolo); molto forte, però, è l’attrazione di esperti di, che, invece, di solito non ha l’articolo (esperti di calcio): ne deriva la possibilità di scegliere liberamente tra le due varianti, considerando, però, che quella con l’articolo è la più regolare.
L’articolo da scegliere è anche una questione aperta. In italiano il suono [w] (corrispondente alla vocale u seguita da un’altra vocale) è preceduto da lo, che, però, è sempre apostrofato: l’uomo, l’uovo (molto innaturale lo uomo ecc.). Davanti alle parole straniere inizianti per w, però, è invalsa l’abitudine di usare il (il würstel, il wasabi), sebbene il suono della lettera w coincida perfettamente con [w]. Paradossalmente, la scelta più corretta, l’w-, è percepita come scorretta dalla maggioranza dei parlanti, che propende per il w- (ma l’u-). Chiaramente, la ragione per cui i parlanti non accettano l’wasabi è che graficamente il nome comincia per consonante (sebbene foneticamente, che è ciò che conta, cominci per vocale). A dimostrazione di questo, il nome di un gruppo musicale famoso qualche anno fa, One direction, era quasi sempre preceduto da gli, sebbene one si pronunci [wa-] (come wasabi).
In conclusione, il mio consiglio è professionisti del Watsu®, ma tutte le altre opzioni sono più o meno valide.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti parole usate come sostantivi sono invariabili (cioè hanno la forma plurale e la terminazione non cambia col mutare del numero) o ammettono solo il singolare? Se sono variabili e si usa il plurale, quale terminazione hanno:
domani ‘il giorno seguente, il giorno dopo’; ‘il futuro, l’avvenire’;
dopo ‘ciò che accadrà poi; l’avvenire, il futuro’;
eden ‘il paradiso terrestre’; luogo o condizione di pace e di felicità’;
ginseng ‘pianta erbacea perenne della famiglia delle Araliacee’;
io ‘la propria persona’;
iris ‘giaggiolo’;
mais ‘ganturco’;
mammut ‘elefante preistorico’;
marcia ‘materia purulenta, pus’;
masut, mazut ‘residuo della distillazione dei petroli greggi’;
megahertz ‘unità di misura della frequenza’;
meno ‘la cosa minore, la parte minore; segno di valori negativi e dell’operazione della sottrazione’.
Quale articolo indeterminativo bisogna usare davanti a pneumatico e iota? Nei vari dizionari della lingua italiana ho trovato: non capire un / una iota; non valere uno / una iota; un / uno pneumatico.
RISPOSTA:
Come regola generale, i sostantivi che finiscono per consonante sono invariabili (e molto spesso maschili). Quindi un ginseng / molti ginseng, un megahertz / molti megahertz. Questa regola si intreccia con il significato dei sostantivi, che a volte esclude l’uso plurale. Questo è il caso di eden, che indica un luogo unico, difficilmente immaginabile al plurale. È il caso anche di mais, che non è usato al plurale perché indica un prodotto considerato complessivamente (come mais si comportano i sostantivi che indicano sostanze: acqua, sale, mercurio…).
Le parole del suo elenco che non sono sostantivi, ma avverbi (domani, meno, dopo) o pronomi (io), quando sono usati con la funzione di sostantivi non ammettono il plurale, se non in casi molto rari (“I domani di ieri” è un romanzo di Ali Bécheur del 2019). In questi casi, comunque, sono invariabili.
Infine, il termine marcia ‘pus’ (antiquato e di bassissimo uso) non si usa al plurale perché indica una sostanza.
Per quanto riguarda gli articoli da scegliere, il nome pneumatico va considerato come psicologo, quindi uno pneumatico. Negli ultimi decenni si è, però, diffuso nell’uso un pneumatico, e oggi entrambe le soluzioni sono accettabili (ma uno pneumatico è più corretta). Iota può essere considerato sia maschile sia femminile; inoltre un iota, uno iota, una iota (raro un’iota) sono tutte soluzioni corrette, perché il suono [j], corrispondente a una i seguita da una vocale, è a metà strada tra una vocale e una consonante. Oggi sono più comuni uno iota e una iota (ma si consideri che questa parola è rara). Nell’espressione non capire un iota si conserva il modo di scrivere più comune in passato (si può comunque dire non capire uno / una iota), visto che l’espressione è antiquata; oggi si preferisce dire non capire un’acca oppure non capire un tubo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un’amica mi ha fatto venire un dubbio: il caso è diverso dal classico bell’e buono in quanto ci siamo chiesti quale sia la forma corretta tra un bel e ricco libro (forma da lei sostenuta) e un bello e ricco libro (forma da me sostenuta).
RISPOSTA:
Il vincitore della sfida è lei (ma si tratta di una mezza vittoria): bello e bel si comportano come lo e il se sono seguiti direttamente dal nome a cui si riferiscono; quindi bello sguardo (come lo sguardo), bello zoccolo, bello arcobaleno (o meglio bell’arcobaleno), ma bel canto (come il canto), bel discorso ecc. Nella sua espressione, bello non è seguito direttamente dal nome, ma l’elisione (bell’) è comunque preferita davanti a vocale (è quel che succede in bell’e buono), mentre l’apocope (bel) non è giustificata. Un bello e ricco libro, quindi, è possibile, ma oggi è sfavorita rispetto a bell’e ricco. Se vogliamo mantenere bello nella sua forma piena, dobbiamo farlo uscire dall’orbita del nome, posponendolo a questo: un libro bello e ricco.
La forma apocopata bel è soggetta a restrizioni ancora maggiori se è seguita da un elemento diverso dal nome (perché si perde il rispecchiamento con l’articolo). Un caso come un bel ma stupido ragazzo è da scartare in favore di un ragazzo bello ma stupido (meno felice un bello ma stupido ragazzo): anche qui l’aggettivo posposto al nome a cui si riferisce si libera dal paragone con l’articolo e non è più soggetto all’apocope.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una frase come restare a / al fianco di un nazista è meglio usare a oppure al prima della parola fianco?
RISPOSTA:
Al fianco di e a fianco di sono usate oggi in modo intercambiabile, un po’ come al livello di e a livello di. La perdita dell’articolo è una conseguenza della solidarizzazione a cui è soggetta l’espressione, cioè del fatto che i parlanti la percepiscano sempre più come un’unica parola, perché è molto frequente nell’uso. A volte, questo fenomeno produce una vera e propria univerbazione, come è successo a soprattutto (sopra + tutto) e come sta succedendo a avvolte (a + volte), che, però, è ancora da considerare sbagliata.
Al fianco è preferito quando è usato come locuzione avverbiale, in casi come questo: “Lei si sforzò di leggere la scena, e con trepidazione vide sua madre sorridere a qualcuno che le stava al fianco” (Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, 2004). È, inoltre, l’unica forma possibile quando ha significato letterale: “Ecco che mi solleva la maglietta, e comincia una tortuosa marcia di avvicinamento fatta di baci e di succhiotti, dal petto fino al fianco” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tra le frasi sotto riportare quali sono considerabili valide?
1. Prima dei cani, lei si occupava di cavalli.
2. Prima che i cani, lei si occupava di cavalli.
3. Prima che di cani, lei si occupava di cavalli.
4. Oltre ai cani, lei si occupa (anche) di cavalli.
5. Oltre i cani, lei si occupava (anche) di cavalli.
6. Oltre che (oltreché) di cani, lei si occupa di cavalli.
RISPOSTA:
Le due varianti sostanzialmente corrette, ma non perfette, sono la 3 e la 6, perché in entrambe la proposizione subordinata con il verbo sottinteso (“Prima che di cani” e “Oltre che / oltreché di cani”) mantiene quasi la stessa costruzione della reggente. Non sono perfette perché la forma del verbo sottintesa non è identica a quella contenuta nella principale (“Prima che si occupasse di cani, lei si occupava di cavalli”, “Oltre che / oltreché occuparsi di cani, lei si occupa di cavalli”), quindi non potrebbe essere sottintesa. Preferibile, quindi, esplicitare il verbo anche nelle subordinate. Nel parlato e nello scritto informale e di media formalità, comunque, costruzioni del genere sono molto comuni e pienamente accettabili: il verbo sottinteso, infatti, è facilmente inferibile e non c’è possibilità di fraintendimento sul senso della frase.
Possibili anche “Prima di occuparsi di… lei si occupava di…” e tutte le varianti qui descritte con la sostituzione, nella reggente e nella subordinata, di dei a di (con il cambiamento semantico che consegue all’introduzione dell’articolo determinativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le tre frasi sotto indicate sono accettabili ed equivalenti?
1. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, uno per Letizia.
2. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, l’altro per Letizia.
3. Ho deciso di acquistare due regali: l’uno per Francesca, l’altro per Letizia.
Colgo l’occasione per domandare – a prescindere dagli esempi proposti – se, in generale, l’apostrofo per il pronome uno all’interno dei correlativi l’un(o)… l’altro e relativi plurali sia obbligatorio o facoltativo.
RIPOSTA:
Le tre frasi sono valide e tutto sommato equivalenti. Volendo individuare una sfumatura semantica specifica, possiamo sottolineare che la 1 mette sullo stesso piano i due elementi correlati, mentre la 2 e la 3 distinguono tra un elemento che è uno e uno che l’altro, come se quest’ultimo fosse in subordine rispetto al primo. Per quanto riguarda l’articolo determinativo prima del pronome uno, dal momento che ci sono solo due elementi in campo la sua presenza è legittima, ma non necessaria, perché non può esserci che un solo uno autodeterminato: se, invece, gli elementi correlati fossero tre o più, ovviamente l’articolo non potrebbe essere usato. In quel caso le opzioni sarebbero: “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, uno per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, un altro per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, un altro per Letizia, un altro per Maria”.
Se la sua seconda domanda riguarda l’elisione dell’articolo determinativo, la risposta è che, in generale, l’elisione non sia obbligatoria, ma sia talmente comune da essere obbligatoria di fatto (molto strano sarebbe lo uno). Se, invece, la domanda riguarda il troncamento di un(o), questo è obbligatorio nel sintagma, tipico della lingua del diritto, l’un caso: “L’integrazione probatoria avverrà, quindi, nell’un caso, nelle forme del giudizio abbreviato e, nell’altro, in quelle del giudizio direttissimo” (da una sentenza della Corte costituzionale). È facoltativo, ma fortemente atteso, nel sintagma l’un l’altro: “Si salutarono l’un l’altro”. È, per il resto, vietato, anche con lo stesso sintagma l’un l’altro se i due termini correlati sono separati: “Si salutarono l’uno con un sorriso, l’altro no”. Oscillante il comportamento di l’un contro l’altro / l’uno contro l’altro, che dovrebbe prendere la forma normale senza troncamento, ma sul quale pesa il famoso verso manzoniano, risuonante nelle orecchie di tutti gli italiani, “L’un contro l’altro armato”, frutto della “licenza poetica”.
Ricordo, comunque, che il troncamento di un(o) rifiuta l’inserimento dell’apostrofo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho notato che in italiano non si fa praticamente mai uso dell’articolo determinativo davanti ai nomi propri di organizzazioni, laddove in inglese (e forse in altre lingue) ciò è previsto e a volte richiesto: Agenzia delle Entrate (non “L’Agenzia delle Entrate”); Chiesa cattolica (non “La Chiesa cattolica”), ma “The Church of England”, “The Church of Jesus Christ of Latter-day Saints”, “The Association of Commonwealth Universities” ecc.
Sembra che questo The dia un’immagine di unicità, autorevolezza o veridicità all’organizzazione — non si tratta cioè di A Church of… (UNA Chiesa di…), bensì di THE Church of… (LA Chiesa di…) — pur non esistendo altre organizzazioni con nome identico (il che forse potrebbe essere un motivo valido per usare un articolo determinativo al posto di uno indeterminativo e distinguere tra l’originale e la “copia”).
In italiano mi sembra che non sia necessario, o perlomeno che non ci sia questa abitudine. Grammaticalmente, inoltre, darebbe adito a innumerevoli problemi a causa dell’esistenza (a differenza dell’inglese e di molte altre lingue) delle preposizioni articolate, che renderebbero arduo mantenere un nome proprio contenente un articolo determinativo. Infatti, non avendo il solo, unico e onnipresente the, l’italiano riuscirebbe a fatica a usare in articolo determinativo davanti al nome proprio di un ente o di un’organizzazione, a meno di non scegliere la forma preposizione+articolo, credo sconsigliata: “Appartengo a ‘La Chiesa di…'”, “Sono diventato parte de ‘La Chiesa di…'”. “Mi è arrivata una lettera da ‘L’Agenzia delle Entrate'”. Ciò, ovviamente, sarebbe un problema solo dell’italiano scritto, dato che nel parlato useremmo comunque la preposizione articolata, a meno di non voler sembrare pedanti…
C’è un motivo, storico o grammaticale, per la “regola” di non usare articolo determinativo come parte del nome proprio di un’organizzazione o di un ente, nella lingua italiana? Ci sono eccezioni?
RISPOSTA:
La sua curiosità non mi pare trovi conferma nell’uso reale dell’italiano; come dimostrano gli esempi da lei riportati (“Appartengo a ‘la Chiesa di…'”, “Sono diventato parte de ‘la Chiesa di…'”. “Mi è arrivata una lettera da ‘l’Agenzia delle Entrate'”), l’articolo determinativo è richiesto anche davanti ai nomi di organizzazioni, a meno che queste non siano designate da titoli assimilati a nomi propri (ad es.: “A Natale sarà presentato il nuovo telefonino di Apple”, che non esclude, comunque, l’articolo), oppure non sia necessario distinguere il nome dell’organizzazione dal sintagma comune (ad es.: “Medici senza frontiere ha lanciato una campagna”, non “I medici senza frontiere hanno lanciato una campagna”). Per quanto riguarda le preposizioni articolate, tra l’altro, non c’è alcun problema nello scrivere dell’Agenzia delle Entrate, della Chiesa evangelica o simili, visto che l’articolo non fa parte del nome dell’organizzazione. Diversamente, qualche dubbio possono suscitare le preposizioni che entrano in conflitto con articoli integrati nei nomi, come avviene, ad esempio, nei titoli di romanzi o altre opere. In questo caso, alcuni propendono per la separazione tra la preposizione e l’articolo: “Ho letto un saggio su I promessi sposi“; si tratta, però, di un’operazione artificiosa, che produce un’inesistente sequenza preposizione + articolo. Risulta, pertanto, preferibile sacrificare l’unitarietà del titolo unendo, come di norma, la preposizione e l’articolo: “Ho letto un saggio sui Promessi sposi“. Tale consiglio vale per tutti i casi del genere: “Ho ascoltato un disco dei Nomadi” ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Questo vino è per intenditori” origina un complemento di limitazione, oppure si tratta di un complemento di vantaggio? Forse le etichette dei complementi anche in questi casi non possono soddisfare del tutto.
RISPOSTA:
Più volte abbiamo lamentato l’inadeguatezza delle categorie dell’analisi logica per spiegare le relazioni sintagmatiche, e soprattutto per spiegare come usarle per comporre il testo in modo chiaro ed efficace. Detto questo, però, cerchiamo di usare al meglio questo quadro interpretativo, ancora dominante nella scuola.
Nessuno dei complementi da lei ipotizzati calza con questo caso. Se considerassimo per intenditori complemento di limitazione la frase significherebbe che il vino esiste solamente per quanto è a conoscenza degli intenditori, qualcosa come “Per gli intenditori, questo vino esiste” (e si noti che senza l’articolo gli davanti a intenditori non è proprio possibile formulare questa ipotesi. Se lo considerassimo complemento di vantaggio avremmo come conseguenza che il vino sarebbe a vantaggio degli intenditori; una bizzarria logica. L’assenza dell’articolo, inoltre, rende difficile anche questa interpretazione._x000D_nBisogna rilevare, invece, che per intenditori equivale a un aggettivo (raffinato ,sofisticato ,complesso o simili): il sintagma va, pertanto, equiparato a un nome del predicato, che, insieme al verbo essere in funzione di copula, forma un predicato nominale. L’assenza dell’articolo davanti a intenditori suggerisce proprio che l’espressione si sia cristallizzata, cioè sia diventata un tutt’uno, quasi una singola parola (i linguisti chiamano queste parole fatte di più parole unità polirematiche ).
Se invece di per intenditori avessimo per gli intenditori, il sintagma sarebbe meglio descritto come complemento di fine, come se la frase significasse ‘questo vino è fatto per essere apprezzato dagli intenditori (e probabilmente solo da loro)’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Il mondiale più tecnologico di sempre”, essendo presente sempre, siamo di fronte ad un superlativo relativo? Non credo sia un comparativo.
Un cordiale saluto.
RISPOSTA:
Il più tecnologico è il grado superlativo relativo dell’aggettivo tecnologico. Di sempre rappresenta l’insieme in relazione al quale opera il superlativo (che per questo si chiama relativo). Possiamo dire che di sempre semplifica un’espressione come “di quelli giocati finora”. Questo costituente sintattico che completa il superlativo relativo viene comunemente associato al complemento partitivo, perché indica la totalità rispetto alla quale l’oggetto qualificato al superlativo emerge come parte.
Un comparativo di maggioranza, invece, si costruisce senza l’articolo determinativo prima di più e richiede un secondo termine di paragone (detto anche complemento di paragone): “Il mondiale di quest’anno è più tecnologico di quello dell’anno scorso”. Come si vede, di quello dell’anno scorso non rappresenta un insieme di cui fa parte l’oggetto qualificato (e rispetto al quale l’oggetto spicca per una qualità superlativa), ma è un oggetto confrontabile con il primo.
Va detto che il superlativo relativo ha senso solamente se ci sono almeno tre elementi in gioco, con uno che emerge sugli altri due. Se, invece, la qualità superlativa è in relazione a un altro solo oggetto, il superlativo finisce per coincidere con un comparativo di maggioranza. Quindi in “Ho tre figli: il maggiore si chiama Luca” abbiamo un superlativo relativo; in “Ho due figli: il maggiore si chiama Luca” abbiamo un comparativo di maggioranza. Per questo motivo, se manca l’insieme (esplicito o inferibile dal contesto) in relazione al quale la qualità posseduta dal soggetto è superlativa, non è possibile decidere se si tratti di un superlativo o un comparativo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Prima che il mio continuo correggere i miei genitori diventi la causa di conflitti a fuoco volevo che mi forniste una prova inconfutabile della correttezza dell’articolo i per il plurale di cioccolatino. È già abbastanza errato non riuscire facilmente a pronunciarlo senza triplicare la t, per non parlare del fatto che sento dire da anni
formule come lo cioccolato / lo cioccolatto / la cioccolatta e simili aberrazioni. Anche in questi casi non mi dispiacerebbe poter eventualmente annoverare la vostra spiegazione come prova a mio favore in tribunale 😉
RISPOSTA:
L’articolo per cioccolatini è certamente i: il cioccolatino / i cioccolatini. Allo stesso modo l’articolo indeterminativo è un. La propensione per *lo cioccolatino / *uno cioccolatino / *gli cioccolatini potrebbe derivare dalla pronuncia della affricata palatale iniziale come fricativa postalveolare, che avvicina cioccolatino a scioccolatino. La ricerca in rete di “lo cioccolatino” restituisce poche decine di risultati, tutte da fonti non autorevoli, commenti di utenti, pagine di social network, siti amatoriali e simili, a dimostrazione che l’oscillazione su questo punto della norma è trascurabile e *lo / uno cioccolatino / *gli cioccolatini sono da considerarsi substandard.
Leggermente più diffuso, soprattutto nel Sud Italia (appare qualche volta anche in Pirandello e Matilde Serao), è *cioccolattino/i, non registrato dal dizionario dell’uso GRADIT. Sebbene questa variante sia oggi esclusa dall’uso e da considerarsi substandard al pari di *lo cioccolatino, va detto a sua difesa che ha una formazione regolare (e non dimentichiamo le occorrenze letterarie). Deriva, infatti, dalle varianti di cioccolato con rafforzamento della consonante postonica intervocalica (un fenomeno tipico dell’italiano: si pensi a LEGEM > legge) cioccolatto, cioccolatte e cioccolatta, normali nei secoli passati e ancora oggi esistenti (delle tre solamente cioccolatta non è registrata nel GRADIT). Il rafforzamento si spiega con l’etimo, che è lo spagnolo chocolate (a sua volta da una parola nahuatl), da cui si è sviluppato regolarmente l’adattamento cioccolatte e le altre due forme, analogiche dei nomi maschili in -o e dei femminili in -a. Probabilmente il francese chocolat ha, in seguito, prodotto cioccolato, che si è imposto sul concorrente più antico.
Fabio Ruggiano
Il nome casa indica al contempo un luogo delimitato e un ambito sociale; per questo motivo, quando è accompagnato da verbi di stato e di moto, può essere costruito con preposizioni diverse, a seconda di quale aspetto vogliamo valorizzare. Con il verbo uscire (ma la doppia costruzione si può trovare, più raramente, con verbi analoghi, come partire, allontanarsi, scappare), la preposizione da fa pensare al luogo (ed è la scelta più naturale): “‘Vigliacchi! Spudorati! Uscite da casa mia!’, si era messa a urlare” (Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, 1956, p. 260). La preposizione di indica, invece, l’ambito sociale, come se in questo caso casa indicasse le abitudini, le dinamiche, le relazioni che si intrecciano nel luogo (ed è la scelta più carica di forza idiomatica, o più marcata, se vogliamo): “Sarebbe capace di non uscire più di casa, se si accorgesse che tu vai fuori soltanto per farla muovere” (Giuseppe Berto, Il tempo di uccidere, 1947, p. 197). Si noterà che, in linea con quanto detto, quando casa è costruito con di indica obbligatoriamente la casa del soggetto.
Un altro nome che condivide con casa la doppia costruzione è prigione: si può, infatti, uscire dalla prigione (dal luogo delimitato) o uscire di prigione (dall’ambito sociale).
Per quanto riguarda l’articolo, è vero che la costruzione con la preposizione da ne preferisce, e a volte obbliga, l’uso, mentre quella con di lo impedisce: questo dipende dal fatto che le espressioni con una forte valenza idiomatica tendono a cristallizzarsi e a perdere proprio l’articolo. Anche con da, del resto, l’articolo può essere escluso quando l’espressione è molto comune: “Sono uscito da casa di XXX alle sei” (e si veda anche, nell’esempio riportato sopra, da casa mia).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei qualche dubbio sull’uso della particella “ne” e dei pronomi diretti. In una frase come questa: “Vuoi la birra fredda?” La risposta sarebbe: “No, non la bevo.” Qui si usa il pronome “la” perché c’è l’articolo determinativo. D’accordo, e qui credo di non sbagliarmi. Ma se invece la frase fosse: “vuoi una birra fredda?” Le risposte corrette possono essere di due tipi: “no, non ne bevo” “no, non la bevo” Perché in questo ultimo caso la risposta può essere di due…
RISPOSTA:
Il pronome ne è usato, in questo caso (e in verità quasi sempre), in funzione di partitivo. Per questa ragione esso si può riferire solamente ad un referente indeterminato non specifico, mentre i referenti indeterminati specifici, e i determinati, sono ripresi con i pronomi clitici di terza persona lo, la, li, le.
Un referente indeterminato non specifico è un oggetto indeterminato, quindi che costituisce una classe, senza alcuna preminenza sugli altri oggetti della stessa classe (mentre il referente specifico è sempre indeterminato, ma ha una certa preminenza sugli altri oggetti della stessa classe). Una conseguenza importante di questa distinzione è che gli oggetti indeterminati non specifici sono quasi sempre oggetti massa (pane, pasta, zucchero…) oppure sono plurali.
Per chiarire questo concetto vediamo qualche confronto:
1. – Attento, vedi i massi [referente determinato] che si staccano dalla montagna?
– No, Non li vedo.
2. – Attento, cadono dei massi [referente indeterminato specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non li vedo.
3. – Attento, cadono massi [referente indeterminato non specifico] dalla montagna.
– Ah sì? Non ne vedo.
L’articolo è un segnale netto di distinzione tra determinato e non determinato, ma non è l’unico elemento che entra in gioco in questa delicata classificazione; la distinzione tra determinato specifico e non specifico, poi, è ancora meno segnalabile (l’articolo indeterminativo, al singolare, è comune alle due categorie). Per un parlante nativo, comunque, non è un problema capire quando un oggetto sia da intendersi come specifico e quando come non specifico.
Un caso molto significativo di come un parlante nativo possa (istintivamente) modulare la lingua a seconda degli scopi che vuole ottenere è proprio la scelta tra le due possibili risposte alla domanda “Vuoi una birra fredda?”. La risposta (negativa) più immediata dovrebbe essere “No, non la voglio”, perché la presenza dell’aggettivo rende l’oggetto indeterminato specifico (cioè distinguibile dagli altri oggetti della stessa classe). Con questa risposta, l’interlocutore lascia intendere che potrebbe accettare una birra non fredda. La risposta “No, non ne voglio” è possibile, invece, se l’interlocutore vuole trascurare la specifica qualità della birra offerta e vuole lasciar intendere che non accetterebbe alcun tipo di birra. Questa seconda opzione è più marcata rispetto alla prima dal punto di vista pragmatico, cioè ha un carico implicito maggiore, perché forza la grammatica per ottenere uno scopo pratico.
Se la domanda fosse “Vuoi una birra?”, invece, la risposta “Non ne voglio” sarebbe meno marcata, perché una birra è a metà tra specifico e non specifico (può riferirsi tanto al nome massa quanto ad una bottiglia di birra). Anzi, in questo caso “Non la voglio” è la risposta più marcata (lascia intendere che l’interlocutore accetterebbe altro, che, però, non gli è stato offerto).
Chi volesse continuare a riflettere sulla questione, può trovare molti spunti nella Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di Lorenzo Renzi (Bologna, Il Mulino, 1988), volume I, pp. 363-367 e 635-637.
Infine, se nella risposta non appare lo stesso verbo della domanda (“– Vuoi una birra? – Non la bevo/Non ne bevo”), la situazione si fa ancora più complessa, perché entra in gioco il significato del nuovo verbo introdotto, che aggiunge un’altra variabile, non regolata solamente dal rapporto tra specifico e non specifico. In questo caso, bevo aggiunge alla risposta tutta una serie di significati e sfumature rispetto alla ripetizione del verbo volere contenuto nella domanda, perché è ovvio che volere e bere indicano una disposizione diversa del parlante verso l’oggetto. “Non la/ne voglio” comunica che in altre circostanze (di tempo, di luogo, di opportunità) il parlante berrebbe la birra; “non la/ne bevo”, invece, indica che il rifiuto è indipendente dalla volontà, ma dovuto a un ostacolo oggettivo (preferenze di gusto o intolleranze di vario genere). Attenzione, perché la risposta sia “non la/ne bevo” l’ostacolo deve essere percepito dal parlante come invalicabile; se ci fosse in atto un divieto temporaneo o potenzialmente aggirabile, invece, come quello di un medico o di un’altra autorità, la risposta più probabile sarebbe “non ne posso bere” o simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto alcuni auguri di buon anno, la maggior parte dei quali dicevano “Buon 2016 a te e famiglia”… e mi sono chiesto: non è più corretto dire “Buon 2016 a te e alla tua famiglia”?
RISPOSTA:
La sottrazione dell’articolo (che trascina con sé l’aggettivo possessivo) da famiglia nelle espressioni come quella da lei citata è dovuta a due cause: una è la vicinanza con il pronome personale te, che non ha l’articolo e “attrae” il nome che lo segue nella stessa costruzione; l’altra è l’assonanza di questa espressione con alcune costruzioni idiomatiche o almeno cristallizzate nell’uso, anch’esse prive di articolo, come andare in barca, lavorare in banca, rimanere a casa (in alcune zone d’Italia si dice anche andare a mare ). La perdita dell’articolo sembra proprio essere un effetto della cristallizzazione dell’espressione, dovuta all’uso massiccio che se ne fa.
In definitiva, tra le varianti “a te e famiglia” e “a te e alla tua famiglia”, è senz’altro preferibile la seconda, non perché la prima sia scorretta, ma perché suona come una formula impersonale, cosa che non si addice certo agli auguri.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Perché alcune regioni hanno l’articolo maschile e altre l’articolo femminile
visto che il sostantivo “regione” è comunque femminile ?? ( es. Il Piemonte,
la Lombardia) Stesso dubbio sui fiumi… il Po, la Senna. Grazie.
RISPOSTA:
La scelta dell’articolo dipende unicamente da ragioni storiche e di tradizione etimologica: per es., il Piemonte deriva dal ‘piede del monte’, cioè ai piedi delle Alpi. Il Friuli deriva da ‘forum Iulii’, cioè ‘il foro di Giulio (Cesare)’, antico nome di Cividale. Lo stesso vale per i fiumi e per tutti i nomi di luogo (l’etimologia di Po è assai controversa, ma evidentemente è sempre stata percepita al maschile). In molti casi, sicuramente ha influito anche la desinenza finale: una -a finale incoraggia l’articolo femminile, a differenza della -o finale. Quindi alla base della scelta dell’articolo non c’è il nome generale (regione, o fiume, ecc.) bensì l’etimologia (solitamente latina) del nome di luogo.
Fabio Rossi
QUESITO:
C’è un supermercato che si chiama Famila, e vorrei sapere se per dire che sto andando lì, bisogna dire “Sto andando al Famila” o “Sto andando alla Famila”.
RISPOSTA:
Il genere dell’articolo dipende, ovviamente dal genere del nome da esso accompagnato. Nel caso di un nome proprio, il genere grammaticale si ricava dal sesso della persona designata dal nome, per questo in alcune varietà di italiano regionale settentrionale si dice il Paolo, la Giovanna ecc. Quando il nome proprio non designa una persona, ma un oggetto inanimato, le cose si complicano: in questo caso l’articolo si accorda con il nome comune sottinteso, quindi il (monte) Cervino, il (mar) Mediterraneo, il (fiume) Tevere, la (autostrada) Torino-Milano, la (corsa) Liegi-Bastogne-Liegi ecc. Nel caso dei supermercati, il nome comune sottinteso è proprio supermercato, per cui l’articolo che accompagna il nome proprio è maschile. Le poche eccezioni a questa regola sono dovute all’interferenza di altri fattori: ad esempio la Coop dipende da la cooperativa, la Rinascente sottintende Italia (il nome fu coniato da Gabriele D’Annunzio associando il grande magazzino alla rinascita nazionale dopo la Prima guerra mondiale). Un altro fattore che può interferire con la regola è l’assonanza del nome proprio con un nome comune femminile, come nel suo caso: famila-famiglia.
Tirando le somme, l’articolo maschile è più fondato e per questo preferibile, ma non è il caso di essere troppo rigidi su questo punto: il femminile, frutto dell’assonanza, è discutibile ma non da censurare.
Fabio Ruggiano