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Categorie: Punteggiatura, Sintassi

QUESITO:

Ho maturato un paio di dubbi riguardo alle proposizioni relative:
a. Mi sono piaciute le tue canzoni che ho ascoltato in questi giorni.
b. È bello il tuo ritratto che hai esposto in camera.
c. La ringrazio per la sua disponibilità che ho molto apprezzato.
Per prima cosa gradirei sapere se questi sono esempi di relativa esplicativa o limitativa e, pertanto, se sia opportuno o meno inserire una virgola che introduca la proposizione.
Vorrei inoltre sapere se la relativa, esplicativa o limitativa che sia, collegata a un sostantivo preceduto da un aggettivo possessivo (come nei casi sopra riportati) vada a determinare una costruzione agrammaticale. Forse è un mio esclusivo impedimento, ma quando mi trovo a doverle scrivere o pronunciare ho sempre un attimo di esitazione, che cerco puntualmente di aggirare adottando, laddove sia possibile, soluzioni alternative (recuperando l’ultima delle tre frasi: “La ringrazio per la sua disponibilità: l’ho molto apprezzata”).

 

RISPOSTA:

La presenza dell’aggettivo possessivo all’interno del sintagma nominale relativizzato non è rilevante per stabilire se la proposizione relativa è limitativa o esplicativa.
La proposizione relativa limitativa serve a identificare un sintagma nominale; essa deve, quindi, contenere informazioni determinanti per distinguere quel sintagma da altri simili. Così, nella prima frase, che ho ascoltato in questi giorni effettivamente distingue le tue canzoni in questione da altre tue canzoni che il parlante sta rappresentando come esistenti, almeno potenzialmente. Nella seconda frase, che hai esposto in camera identifica uno specifico tuo ritratto distinguendolo da altri possibili tuoi ritratti. Diversamente dalle prime due frasi, nella terza, che ho molto apprezzato non identifica una specifica tua disponibilità, perché disponibilità è un atteggiamento astratto sempre uguale in ogni circostanza, quindi intrinsecamente identificato, tranne che per l’attribuzione a una persona. Ne deriva che in questa frase la proposizione relativa è esplicativa, quindi deve essere separata dalla reggente con la virgola.

In casi come quello di disponibilità la proposizione relativa limitativa è possibile soltanto se contiene informazioni sull’attribuzione dell’atteggiamento a una persona, con espressioni come che hai mostrato, che caratterizza Luca, che vorranno dimostrare… Soltanto in questi casi, quindi, questa proposizione entra in concorrenza con l‘aggettivo possessivo, perché ne ricomprende l’apporto semantico, espandendolo: la tua disponibilitàla disponibilità che hai mostrato.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho delle incertezze circa l’uso del termine struttura. Questo termine può essere usato in modo generico per definire qualunque cosa anche semplice, cioè non formata da più parti macroscopiche interagenti fra di loro (es. un sasso o un oggetto non definibile ma comunque non articolato) oppure deve essere usato esclusivamente per definire un oggetto complesso (es. un televisore, un computer)?

 

RISPOSTA:

La risposta alla sua domanda non è semplice, come tutte le questioni relative alla semantica, perché i significati delle parole sono in continua rinegoziazione negli usi dei parlanti, con sfumature ora metaforiche, ora metonimiche, ora ironiche ecc. Sarebbe meglio limitare struttura a oggetti (più o meno concreti) costituiti dall’interrelazione tra più elementi. La struttura, come un edificio, implica che tutti gli elementi coinvolti siano necessari gli uni agli altri e anche l’alternazione di uno solo di essi compromette l’insieme, cioè la struttura stessa. Per la minuta casistica e l’esemplificazione rimando al Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro, consultabile gratuitamente nel sito di internazionale.it. In linea di massima, a meno che non ci si riferisca proprio all’interrelazione e all’intelaiatura di qualcosa (la struttura di un discorso, di un edificio, di un’azienda, della mente, della lingua, di uno stato, dell’economia ecc.) sarebbe meglio non abusare di un simile termine, troppo spesso (nei media) usato per imbellettare il discorso economico, burocratico o politico. Chiaramente anche un sasso è formato di elementi (cellule, atomi ecc.), pertanto nulla vieterebbe, in ambito scientifico, di definirlo una struttura, ma eviterei di farlo nel discorso comune. Così come, fuor dall’ambito tecnico-scientifico, potrei pure riferirmi alla struttura di un televisore o di un computer, ma mai e poi definirei un computer o un televisore come una struttura.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome, Registri, Retorica
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QUESITO:

I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:

«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?

«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?

«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Qual è la differenza tra “antonomasia” e “denomastico”?
Ad esempio, “luddismo”, “galateo”, “mecenate”… sono denomastici oppure antonomasie?

 

RISPOSTA:

Un “deonomastico”, o “deonimico”, è un nome comune derivato da un nome proprio. Questo passaggio può avvenire attraverso un processo morfologico, come nel caso di luddismo, o attraverso un processo semantico, come nel caso di galateo e mecenate. Il primo caso prevede la trasformazione di un nome proprio con un affisso: il cognome Ludd, dall’operaio olandese Ned Ludd, unito al suffisso -ismo dà origine a luddismo, sostantivo maschile che indica il movimento operaio inglese di inizio Ottocento. Il secondo caso, quello semantico, può avvenire attraverso uno slittamento semantico di un nome proprio che sostituisce (o funziona come) un nome comune. Può accadere che la sostituzione avvenga per indicare una qualità della persona: “è un Einstein” per indicare ‘un genio’; oppure, può verificarsi che un nome proprio diventi un nome comune come nei casi di mecenate (dal nome Mecenate) e galateo (da Galateo, italianizzazione del nome latino Galatheus, cioè Galeazzo) per indicare rispettivamente un protettore e finanziatore di artisti e di arti, e l’insieme delle norme di buone maniere.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Retorica
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QUESITO:

Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?

 

RISPOSTA:

Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burratamozzarellacrescentina
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere, cortesemente, se lasagne è un nome comune o proprio.

 

RISPOSTA:

Lasagna (nei vocabolari questa parola è messa a lemma al singolare) è un nome comune che indica un tipo di pasta tagliata a strisce larghe.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.

 

RISPOSTA:

Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

In vita ho sempre detto indistintamente:

  1. A) Lunedì prossimo.
  2. B) Il lunedì prossimo.
  3. C) Il prossimo lunedì.

Mentre ho sempre visto come errore:

  1. D) Prossimo lunedì.

Qualche giorno fa, durante una discussione, mi è stato corretto “Ci vediamo il lunedì prossimo” (B), e mi è stato detto che o si mette l’articolo quando “prossimo” è anteposto e lo si toglie quando “prossimo” è posposto.

Mi sa dire se davvero esiste una regola grammaticale che determina l’uso o l’omissione dell’articolo in questo caso?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, le tre forme sono tutte e tre corrette e ben attestate negli usi dell’italiano. Sicuramente l’articolo è più comune con scorso/prossimo anteposti ed è meno comune con scorso/prossimo posposti, tuttavia la forma “il lunedì prossimo” non può certo dirsi errata, sebbene online circoli una siffatta regoletta empirica (per es. nella consulenza linguistica di Zanichelli: https://aulalingue.scuola.zanichelli.it/benvenuti/2019/01/31/uso-dellarticolo-davanti-alle-date-alle-ore-ai-giorni/).

L’articolo con le espressioni di tempo tende a cadere, oggi, per ragioni svariate (cfr. questo articolo dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/omissione-dellarticolo-determinativo-nella-locuzione-temporale-settimana-prossimascorsa/161). Tuttavia espressioni come “prossimo lunedì”, “settimana prossima” e simili sono ancora considerate non standard, o quantomeno inadatte all’italiano formale. Può darsi che in futuro la perdita dell’articolo nelle espressioni di tempo si grammaticalizzi ed entri dunque a far parte delle grammatiche e dell’italiano standard, ma fino a quel momento sarebbe bene evitare espressioni, pure oggi comuni, quali “la riunione si terrà giorno 23”, “ci vediamo settimana prossima” e simili.

Quanto poi al tipo “il lunedì prossimo” (che oggi conta ben 13100 risultati in Google, e già questo basterebbe per considerarlo del tutto ammissibile nell’italiano attuale), osserviamo che i giorni della settimana rientrano a pieno titolo nei sostantivi e che ammettono l’articolo in una serie di espressioni: “un lunedì d’inferno”; “il lunedì preferito”, “i lunedì sono i giorni più duri” ecc. Va anche osservato che nei riferimenti di tempo determinato l’articolo non va messo, perché il nome del giorno è utilizzato con funzione avverbiale: “ci vediamo lunedì” (analogo a “ci vediamo domani”). L’articolo va messo invece per indicare l’abitualità: “ci vediamo il lunedì” significa “ci vediamo tutti i lunedì”, o “di lunedì”, o “ogni i lunedì”. Tuttavia, come mostrano gli esempi precedenti, è possibile determinare il giorno mediante l’articolo, e dato che gli aggettivi scorso e prossimo servono proprio a determinare meglio il nome, l’articolo è adeguato indipendentemente dalla posizione rispetto al nome, come mostrano le coppie seguenti: “oggi è un buon lunedì” / “oggi è un lunedì buono”; “il miglior lunedì” / “il lunedì migliore”; “il brutto lunedì” / “il lunedì brutto”; e ancora: “ci vedremo il lunedì del concerto” (non certo *”ci vedremo lunedì del concerto”) ecc. Resta indubbio, però, che gli italiani preferiscano omettere l’articolo quando scorso e prossimo sono posposti, e che dunque “lunedì prossimo” sia più frequente e comune di “il lunedì prossimo”. Ma meno comune non vuol dire certo sbagliato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Articolo, Avverbio, Nome, Registri
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QUESITO:

L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).

“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.

Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?

 

RISPOSTA:

A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascoltofare il proprio ingressoprendere una decisionemettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?

 

RISPOSTA:

Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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QUESITO:

In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.

 

RISPOSTA:

sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amicol’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?

 

RISPOSTA:

Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: illol’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?

 

RISPOSTA:

L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffapavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guidala guardiala persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaioarchitettoil presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.

 

RISPOSTA:

L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentaremostrareessere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

In italiano, se scriviamo la data, per esempio:
Lunedì 18 maggio 2024
dopo lunedì si mette la virgola?

 

RISPOSTA:

Non c’è una regola codificata per questo caso. Procedendo per analogia, potremmo assimilare la data al nome proprio di una persona: 18 maggio 2024 equivarrebbe allora al nome e cognome della persona, mentre lunedì sarebbe un’apposizione, come signordottoravvocata o simili. Come in, per esempio, dottor Mario Rossi, quindi, la virgola in lunedì 18 maggio 2024 non è richiesta. Seguendo la stessa analogia, se posponiamo lunedì la virgola è necessaria: 18 maggio 2024, lunedì (come Mario Rossi, dottore).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nel Credo si dice:  «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?

 

RISPOSTA:

La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?

 

RISPOSTA:

L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta? 

 

RISPOSTA:

No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.

Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida

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QUESITO:

Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Coerenza, Nome
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QUESITO:

Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?

RISPOSTA:

In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida

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QUESITO:

Quale di queste due espressioni è corretta:

“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.

 

RISPOSTA:

Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).

Francesca Rodolico

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”

 

RISPOSTA:

L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calmaper favoredi frettada sballoa rigore, ma anche a casain ufficioa scuolaa teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinemain banca ma alla postain ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a marea spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffèoroacqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Desidererei sapere se la parola competenza può essere usata in un contesto come il seguente: “Non è di mia competenza pagare questa somma”. Il termine competenza farebbe pensare ad ‘abilità, conoscenza’ ecc, quindi dovrebbe essere improprio usarlo in una espressione come quella precedentemente citata; tuttavia mi capita frequentemente di sentirlo espresso in simili contesti.

 

RISPOSTA:

Nel contesto da lei presentato la parola competenza è pienamente legittima. Come giustamente osserva, competenza vuol dire ‘abilità, conoscenza’; questi significati, però, che non sono gli unici e, anzi, rappresentano soltanto uno dei campi semantici di questa parola. Nel suo significato più ampio, competenza indica la ‘capacità di orientarsi in un determinato campo’ (“Quella professoressa parla con competenza di ogni aspetto della storia moderna”); in quello tecnico, invece, cioè quello legato alla sfera giuridica, designa la ‘legittimazione di un’autorità o di un organo a svolgere specifiche funzioni’: “Questa causa è di competenza del giudice amministrativo”. Dal significato tecnico, il campo semantico di competenza si è esteso per indicare la ‘pertinenza’, cioè ciò che spetta a qualcuno (come nel suo esempio). Sempre connesso a questa sfera, il sostantivo plurale competenze indica il compenso: “Dobbiamo pagare all’avvocato le sue competenze”.

Raphael Merida

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QUESITO:

Alcuni vocabolari riportano la forma grafica “neoassunto”, altri no.
Scrivere “neo assunto” è comunque corretto?

 

RISPOSTA:

La grafia corretta è neoassunto, riportata anche dai principali dizionari dell’uso.
Neo-, che significa ‘nuovo, recente’, è un prefissoide di origine greca; si tratta cioè di un elemento lessicale dotato di autonomia semantica che può essere premesso a parole di qualsiasi origine (si pensi per esempio ad auto- nel significato di ‘da sé’ da cui si formano parole come autocoscienza, autocritica, automobile). Per queste ragioni, le parole composte con un prefissoide prediligono la forma univerbata a quella staccata.
Raphael Merida

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:

Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.

 

RISPOSTA:

Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?

 

RISPOSTA:

La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?

 

RISPOSTA:

I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.

 

RISPOSTA:

Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vi propongo questa frase che ho avuto modo di leggere recentemente: “Il tempo è una dimensione nell’ambito della quale avviene la trasformazione della materia”. È corretto il termine “dimensione” riferito al tempo? Se sì, sarebbe altrettanto corretto usare il termine “entità” che, nella sua estrema genericitâ, dovrebbe contenere anche il concetto di tempo?

 

RISPOSTA:

Da un punto di vista fisico, secondo la teoria della relatività, il tempo è una dimensione, per la precisione la quarta; tuttavia, da un punto di vista più generale, qualunque oggetto o concetto può essere definito entità (cioè qualcosa che è), e dunque anche il tempo. Quindi entità è l’iperonimo (cioè il termine più generale), mentre dimensione è l’iponimo (cioè il termine più specifico). Ed è sempre possibile definire un iponimo con il suo iperonimo: dire di un fiore con le spine che è una rosa non esclude che sia anche un fiore e prima ancora un vegetale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

La ringrazio per aver chiarito il mio dubbio sulla questione delle proposizioni causali/finali.

Lei ha però sollevato la questione del tema del controllo, su cui non avevo mai fatto più di tanto caso.

Nella frase “spero di redimermi” vi è una oggettiva implicita, che si lega al verbo sperare, il cui soggetto è “controllato” dal soggetto della reggente.

Ci sono casi in cui, però, la subordinata implicita più che essere legata direttamente al verbo, fa da modificatore di un sintagma nominale, quest’ultimo legato direttamente al verbo:

  1. a) Non dimenticherò mai il fatto di essere sempre stato leale con tutti voi.
  2. b) Pensavo che questa fosse l’occasione per potermi pentire.

Queste due frasi sono molto idiomatiche, ma da un punto di vista puramente grammaticale (sempre riallacciandoci alla questione che la subordinata implicita non ha un contatto diretto col soggetto della reggente, ma piuttosto tale subordinata è parte del sintagma nominale) possono essere viste come corrette?

In queste due frasi, può effettivamente il soggetto della reggente (io) essere il controllore della subordinata implicita?

C’è poi un ulteriore costrutto grammaticale, a mio modo di vedere molto idiomatico e utilizzato:

  1. c) Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore, molto spesso sottovalutate.

In questa frase, abbiamo nuovamente una subordinata implicita (introdotta da “per” o “di”) e che si lega al sintagma nominale, come nei due casi precedenti.

La vera differenza la fa lo stesso sintagma nominale, che è il soggetto grammaticale della reggente.

Quindi ci sarebbe da chiedersi: Perché si lega il soggetto della implicita alla seconda plurale “voi”?

Forse l’aggettivo “vostro” controlla il soggetto della subordinata implicita? Secondo lei, potremmo quindi vedere tale aggettivo come soggetto logico della reggente? Il soggetto logico, secondo le grammatiche, può controllare il soggetto della subordinata implicita, in quanto è colui che materialmente fa qualcosa:

“Mi sembra di aver capito”.

“Mi” equivale a “io”, che sarebbe riformulabile in tal modo:

“Io penso di aver capito”.

Cosa ne pensa lei di questi particolari casi?

 

RISPOSTA:

Certamente le frasi da lei riportate sono corrette (e non sono idiomatiche, né colloquiali, ma del tutto normali in qualunque registro dell’italiano standard). Anche quando le subordinate espandono un sintagma nominale, cioè dipendono da un nome, un aggettivo o un pronome anziché da un verbo (e troverà numerosi esempi di questo sempre nella solita Grande grammatica italiana di consultazione), il soggetto è controllato da un elemento della reggente. Nelle prime due frasi da lei citate, infatti, il soggetto della subordinata è controllato dal soggetto della reggente (io).

Molto giusta la sua intuizione sulle altre frasi: il soggetto della subordinata può essere controllato anche da altri elementi della reggente, ivi compreso un soggetto logico, a senso, generico ecc.:

  1. c) «Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore»: il controllore è sicuramente vostra.
  2. d) «Mi sembra di aver capito»: il controllore è mi (cioè il benefattivo o esperiente, chi prova una determinata esperienza, ovvero il soggetto logico, in questo caso).

Ma ci possono essere anche casi più complessi sintatticamente, per esempio:

«Ti ho dato la scusa per/di andartene»: il soggetto della subordinata (tu) è controllato dal complemento di termine della reggente (ti).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?

 

RISPOSTA:

In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

L’altro giorno osservavo mia moglie che si stava gustando una salsiccia che mio figlio, di ritorno da Norcia, le aveva portato. La mangiava a piccoli pezzetti per farla durare di più e con più gusto rievocando antichi sapori in quanto da bambina, per sfuggire dai bombardamenti su Roma, era stata ospitata da alcuni lontani parenti che abitavano nei dintorni di Norcia. Nel guardarla ho usato il termine “stai centellinando quella salsiccia da oramai tre giorni…..” e mi è venuto il dubbio che il termine centellinare potesse essere usato correttamente solo per bevande e non anche in senso figurato per cibo a piccoli morsi anche se l’obiettivo in fondo è lo stesso: ‘gustare di più’, ‘far durare più a lungo’, assaporare evocando antichi sapori. È corretto usare il termine in questo senso?

 

RISPOSTA:

Il verbo centellinare ha come significato principale ‘bere a piccoli sorsi’ (il centellino o centello è il ‘piccolo sorso’) ma può essere usato anche in senso figurato per riferirsi al cibo e, più in generale, a tutto ciò che è connesso alla sfera sensoriale del gusto; non può essere usato, invece, nel significato da lei proposto di ‘assaporare evocando antichi sapori’. Possiamo quindi “centellinare un buon caffè”, “centellinare una salsiccia”, “centellinare un libro”: se nel primo caso il significato di centellinare sarà quello di ‘bere a piccoli sorsi per assaporare meglio’, negli altri due sarà quello di ‘gustare lentamente qualcosa per trarne il massimo piacere’. Inoltre, centellinare può essere usato in senso figurato anche con il significato di ‘usare con parsimonia’ come nel caso di “centellinare le energie”.

Raphael Merida

Parole chiave: Nome, Verbo
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QUESITO:

Le espressioni carteggio informatico e carteggio digitale, usate al fine di indicare uno scambio di e-mail, messaggi WhatsApp o sms, possono essere considerate corrette? Se così non fosse, quali altre espressioni potrebbero essere usate in loro vece?

 

RISPOSTA:

Sì, entrambe le espressioni potrebbero essere usate per indicare uno scambio di sms, di messaggi inviati tramite e-mail o servizi di messaggistica istantanea. Per avere il requisito di carteggio (digitale o informatico), però, è necessario che lo scambio di messaggi fra due persone sia continuo nel tempo. Sarebbe possibile usare anche il termine corrispondenza, già adottato nel linguaggio informatico per indicare uno scambio di messaggi che hanno in comune lo stesso destinatario o lo stesso oggetto.

Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?

 

RISPOSTA:

In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.

Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.

Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).

Raphael Merida

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QUESITO:

La preposizione di può  essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.

Esempio:

“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.

Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:

“il panettone si mangia sempre di dicembre /  Natale” = ‘ogni dicembre /  Natale’.

In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:

“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.

Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.

Ecco una frase tratta da un dizionario:

“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.

Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:

“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)

“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).

 

RISPOSTA:

La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.

I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alla possibile collocazione dei modificatori nominali in diversi contesti e situazioni.

Modificatori del nome preceduti da un modificatore verbale:

1a. Ho messo una cosa qui bellissima / di marmo / che potrebbe aiutarmi.

Modificatori del nome dopo il verbo dell’interrogativa:

2a. Quale cosa hai venduto di plastica / plasticosa / che non andava venduta?

3a. Quante ne hai dezuccherate / senza zucchero / che non fanno male alla salute?

4a. Cosa hai osato toccare di colore giallo / di legno / che non andava toccato?

5a. Di quale parte sei della Svezia?

Questione ancora più complicata:

Modificatori del nome, preceduti da un modificatore verbale, collocati dopo il verbo di un’interrogativa:

6a. Quale cosa hai messo qui di colore rosso / rossa / che non apprezzi più di tanto?

7a. Quale cosa hai comprato senza nemmeno avvisarmi di colore rosso / rossa / che ti piace?

Chiaramente tutte le frasi possono essere riformulate in questo modo:

1b. Ho messo qui una cosa bellissima / di vetro / che potrebbe aiutarmi.

2b. Quale cosa di plastica / plasticosa / che non andava venduta hai venduto?

3b. Quante dezuccherate / senza zucchero / che fanno male ne hai?

4b. Cosa di colore giallo / di legno / che non andava toccato hai osato toccare?

5b. Di quale parte della Svezia sei?

6b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che non apprezzi hai messo qui?

7b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che ti piace hai comprato senza avvisarmi?

La questione potrebbe farsi più intricata se si pensa che in alcune di queste frasi il complemento preposizionale / aggettivo potrebbe essere interpretato come modificatore verbale, più precisamente come complemento predicativo del soggetto / oggetto, non come modificatore nominale, vista la sua posizione postverbale, per la precisione negli esempi da 2 e 4.

Inoltre, l’esempio 7 potrebbe essere ambiguo, in quanto che ti piace potrebbe essere anche inteso come subordinata esplicita del verbo avvisare, dando il senso che qualcuno compra un qualcosa che gli piace, senza però avvisare qualcun altro.

Chiaramente queste situazioni di ambiguità si possono creare, ma quello che mi chiedo è questo: sintatticamente e grammaticalmente parlando, possiamo parlare di frasi corrette in questi significati e nel senso che vorrei dare? Cioè, i vari modificatori nominali (di legno, che non andava toccato, della Svezia, bellissima ecc.) delle frasi b si possono considerare dei modificatori nominali tanto nelle varianti a quanto nelle varianti b?

 

RISPOSTA:

Qualunque sia la posizione del modificatore, esso sarà sempre ricondotto al sintagma modificato; anche se interpretiamo i modificatori come complementi predicativi (o predicazioni supplementari), dal punto di vista sintattico e semantico essi modificano ancora i sintagmi nominali a cui si riferiscono. Va, però, detto, che il modificatore è tipicamente adiacente al modificato, tranne che non ci siano ragioni per allontanarlo (per esempio l’inserimento di un altro modificatore più strettamente legato al modificatore o la funzione predicativa del modificatore): alcune frasi a, pertanto, risultano innaturali e al limite dell’accettabilità (per esempio “Ho messo una cosa qui bellissima”, perché difficilmente si può accettare che l’aggettivo qualificativo sia legato al sintagma nominale qualificato meno strettamente di un’indicazione di luogo). La proposizione esclusiva nella frase 7 non è in nessun caso un modificatore del nome (infatti non può essere in alcun modo trasformata in una relativa il cui pronome introduttore riprenda il sintagma nominale o in un aggettivo); modificatori di sintagmi nominali introdotti da senza sarebbero, ad esempio, borsa senza manici (ovvero che non ha i manici), oppure maglietta senza maniche (smanicata).

Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase, leggere è un verbo o un sostantivo, e ha funzione di complemento oggetto?

“Amo tanto leggere, in particolare mi piacciono i libri fantasy”.

 

RISPOSTA:

Nella frase non è possibile decidere se l’infinito abbia valore di verbo o di nome: entrambe le analisi sono, pertanto, legittime. Il fatto che la parola non sia preceduta dall’articolo, comunque, fa propendere per l’analisi come verbo; diversamente, in una frase come “Amo tanto il leggere” la parola sarebbe certamente da analizzare come nome. Al contrario, se leggere fosse seguito da un complemento oggetto (per esempio “Amo tanto leggere romanzi d’avventura”) emergerebbe più chiaramente la funzione verbale.

Se leggere è un nome, esso rappresenta il complemento oggetto del verbo amo; se, invece, è un verbo, allora rappresenta una proposizione oggettiva subordinata alla reggente amo tanto.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?

 

RISPOSTA:

Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.

Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.

Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Tutte e tre le varianti sono ammissibili?

“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).

Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?

“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.

 

RISPOSTA:

Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.

La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.

Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.

1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.

2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.

(Verbo intransitivo/participio passato verbale)

3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.

4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione

(Verbo passivo/participio passato verbale)

5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.

6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.

7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.

(Participio presente verbale)

8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia

9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione

(Participio passato con funzione aggettivale)

10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno

(Participio presente con funzione aggettivale)

11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.

12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.

13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.

(Aggettivo)

Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.

Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:

“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.

In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.

Per esempio:

Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.

Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.

Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.

Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?

 

RISPOSTA:

Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».

«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).

«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».

«I partecipanti al convegno»: uso nominale.

«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.

«I laureati in economia»: nominale.

«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».

«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.

«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.

«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.

Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nell’analisi grammaticale dei nomi collettivi trovo difficile indicare se si tratti di nomi di persona, animale o cosa. In un esercizio scolastico, sarebbe opportuno tralasciare tale dicitura oppure è possibile far rientrare questi nomi in una categoria? Ed eventualmente quale? Ad esempio, gregge può essere definito un nome comune di animale? O un nome comune di cosa? Oppure semplicemente un nome comune, collettivo?

 

RISPOSTA:

Semplicemente nome comune, collettivo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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QUESITO:

L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?

 

RISPOSTA:

Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

E’ giusto scrivere: “Quadri orario o quadri orari” , “Moduli orari o moduli orario”?
 

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le soluzioni, in italiano. L’una, più tradizionale (quadri orarimoduli orari), tratta il secondo termine come aggettivale e dunque lo accorda col sostantivo precedente, mentre l’altra (più sul modello inglese, e dunque forse meno apprezzata in uno stile più tradizionale) tratta orario come sostantivo con ellissi della preposizione reggente: cioè quadro orario = quadro dell’orario. I sintagmi con omissione della preposizione (come anche, ad es., monte ore), ancorché ammissibili, hanno spesso un sapore tra il tecnologico e il burocratico sgradito ai palati più raffinati e pertanto, se possibile, potrebbero essere utilmente sostituiti dai costrutti più tradizionali (quadri orarimoduli orarimonte orario ecc.).

Fabio Rossi
 

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Gradirei sapere se è possibile usare i pronomi lui, lei, loro riferendoli a cose o ad animali. Mi suonerebbe piuttosto strano riferirmi ad un gatto usando il pronome esso (o essa  se fosse una gatta) o essi se si tratta di più animali. Lo stesso vale per animali considerati, più o meno a torto inferiori come, per esempio, gli scarafaggi. Così pure mi suonerebbe male parlare di un mobile usando il pronome esso anzichè lui o di più mobili servendomi del pronome essi anzichè usare loro.

RISPOSTA:

I pronomi esso, essa, essi, esse sono usati preferibilmente in riferimento a oggetti inanimati (anche se non è escluso l’uso riferito a esseri animati). Il caso degli animali è problematico, perchè gli animali sono esseri animati, ma generalmente considerati non come individui, bensì come “copie” dello stesso prototipo (per quanto questa convinzione sia discutibile). La scelta del pronome per gli animali, pertanto, è delegata alla sensibilità  del parlante, e non è soggetta a una regola precisa; spesso i parlanti sono indotti a usare lui, lei, loro in riferimento ad animali domestici, con i quali hanno un legame affettivo, e negli altri casi esso, essa, essi, esse, oppure questo ecc. o, quando possibile, nessun pronome o alternative al pronome, come la ripetizione del nome che definisce il genere dell’animale. Va anche detto che esso ;e varianti sono divenuti in generale rari in italiano, per cui in ogni caso i parlanti cercano modi per evitarli.
L’uso di esso e varianti in riferimento a mobili o altri oggetti inanimati non crea nessun problema, a parte, appunto, l’avversione per il pronome ormai raro, a cui vengono preferite sempre alternative come i pronomi dimostrativi, sintagmi nominali o l’omissione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome, Pronome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei chiedere una precisazione sull’analisi grammaticale dei nomi astratti. È corretto in analisi grammaticale scrivere… “nome astratto, individuale”? Esempio: tristezza = nome comune di cosa, astratto, individuale etc.
Individuale è solo per i nomi concreti, giusto?

 

RISPOSTA:

I nomi individuali sono tutti quelli che si riferiscono a un singolo individuo di qualsiasi categoria; sono, quindi, tutti i nomi che non sono collettivi. Stando alla definizione, quindi, anche i nomi astratti possono essere distinti in individuali e collettivi. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Volevo sapere se è corretto usare l’espressione un vestito da pipistrello al posto di un costume da pipistrello. Mi è venuto questo dubbio perché lo userei come sostantivo e non come verbo, come potrebbe essere in una frase del tipo un uomo vestito da pipistrello.

 

RISPOSTA:

I nomi vestito e costume possono essere usati con uguale efficacia in questo caso: vestito è un iperonimo di costume, cioè è un nome il cui significato comprende quello dell’altro, che è, a sua volta, iponimo del primo. Si badi che il nome vestito deriva direttamente dal latino vestitus ‘vestito’; non è, come lei ipotizza, il participio passato di vestire sostantivato (vestito nome e vestito participio di vestire sono forme coincidenti, ma con origini diverse, sebbene ovviamente legate). Se anche fosse un participio sostantivato, comunque, potrebbe certamente usarlo come nome: sono molti, infatti, i participi presenti e passati usati comunemente come nomi (comandantecantantegelatocandito ecc.).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome, Verbo
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QUESITO:

Qual è la forma corretta tra insegna all’Università insegna nell’Università?

 

RISPOSTA:

L’espressione corretta è insegna all’università (l’iniziale maiuscola è opzionale). La preposizione a si usa in espressioni di questo tipo per indicare l’ambiente o l’esperienza tipica che un individuo sperimenta in un luogo; al contrario, la preposizione in indica il luogo, fisico o figurato. Per questo si direbbe, per esempio, “la presenza delle donne nell’università è in crescita”, ma “ho incontrato Luisa all’università”. 
Lo stesso rapporto con le preposizioni è intrattenuto dal nome scuola (“sono a scuola”, ma “bisogna investire nella scuola”). Anche i nomi casa e mare ammettono la doppia costruzione, ma preferiscono in senza preposizione (ad esempio sono a casarimango in casa). Richiedono la preposizione articolata se sono accompagnati da un aggettivo o un complemento di specificazione: “il coniuge superstite ha diritto di abitare nella casa familiare”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome, Preposizione
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QUESITO:

Traducevo una frase di un libro in lingua inglese.
Questa è la frase originale: “Cheng tried to hide overt function. So one sees that inhaling on posture and exhaling on transition seems to preclude application: this conforms to Cheng’s concealing use so that one remained relaxed throughout the form”.
Io l’ho tradotta in questo modo: “Cheng ha cercato di nascondere la funzione palese. Quindi si vede che l’inalazione sulla postura e l’espirazione durante la transizione sembrano precludere l’applicazione: questo è conforme all’uso occultante di Cheng in modo che si rimanga rilassati per tutta la forma.
In base a quello che si potrà interpretare, le mie domande sono queste: funzione palese si riferisce alla respirazione? Il verbo use si riferisce all’uso del respiro? 
Mi rendo conto sempre più spesso che in tante occasioni per capire quello che una persona scrive si dovrebbe parlare direttamente con l’interessato. A volte tante frasi suonano molto ambigue.

 

RISPOSTA:

L’impossibilità di chiedere spiegazioni allo scrivente è uno dei “difetti” dello scritto. Da questo deriva la necessità di cercare la massima chiarezza nello scritto, per prevenire l’ambiguità.
Nel suo caso, l’espressione overt function sembra riferirsi al meccanismo della respirazione descritto, come da lei ipotizzato. Use, invece, non è un verbo, ma un nome (infatti lei l’ha tradotto l’uso) e va considerato insieme all’aggettivo concealingconcealing use sembra definire un sistema generale all’interno del quale si inserisce anche la tecnica di respirazione descritta (che infatti si conforma a quest’uso, o sistema).
Un piccolo avvertimento sulla traduzione: so that one remained sarebbe ‘così che si rimanesse’ (non rimanga).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Nome, Verbo
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QUESITO:

Leggendo su internet i vari nomi dati alla morte, come Tristo Mietitore o Signora in Nero, mi chiedo se è così che ci si debba regolare nel caso se ne volessero coniare di nuovi. Mi riferisco alle maiuscole, che vengono messe anche alle parole seguenti, ma non alle preposizioni.

 

RISPOSTA:

Le convenzioni sull’uso della maiuscola sono poco vincolanti quando si tratta di usi non canonici. Nel suo caso possiamo considerare le espressioni da lei citate come nomi propri composti (in questo senso anche Morte può essere scritto maiuscolo, se è usato come nome proprio). I nomi propri formati da più di una parola sono piuttosto rari: esempi del genere sono quelli geografici, come Monte BiancoMar Nero e anche L’AquilaIl Cairo ecc. Per convenzione, tutte le parole che compongono questi nomi si scrivono maiuscole; questa convenzione, però, si scontra con quella, opposta, che sfavorisce la maiuscola per le parole vuote (articoli, preposizioni, congiunzioni). Nel caso di L’Aquila e simili questa eccezione è aggirata dal fatto che la parola vuota è iniziale, quindi la maiuscola si giustifica per quest’altra via; in casi come Mare dei Sargassi, invece, si propende senz’altro per la minuscola per le preposizioni. 
Il suo caso può essere ben assimilato a quello dei nomi geografici, per cui vanno bene Tristo Mietitore (come Mar Nero) e Signora in Nero (come Mare dei Sargassi). Non sono esclusi, però, tristo Mietitore, visto che tristo è decisamente distinguibile come attributo, mentre Nero di Mar Nero è più nettamente parte del nome, e Signora in nero, perché, similmente, in nero è una specificazione abbastanza autonoma, laddove dei Sargassi di Mare dei Sargassi è nettamente parte del nome.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Nome, Preposizione
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Si dice un ragazzo e una ragazza biondi (perché con l’aggettivo, il genere maschile prevale sul femminile  quando il numero è plurale); però, per quanto riguarda il sostantivo, in specie quando si riferisce agli  aggettivi numerali ordinali, non è così:

Questi sono il primo e il secondo posto.
Terzo e quarto premio assegnato.

Scrivendo il primo e il secondo posti o terzo e quarto premi assegnati si incorrerebbe in forme grammaticalmente errate o soltanto insolite?

 

RISPOSTA:

L’accordo al plurale tra il nome e l’aggettivo è corretto: è percepito come inatteso per via del forte legame sintattico che si crea tra l’aggettivo preposto al nome e il nome stesso. Se il nome è accompagnato anche dall’articolo, per giunta, si crea un paradosso: l’articolo concorda non con il nome ma con l’aggettivo. Impossibile, del resto, sarebbe una frase come *i primo e secondo posti.
Il paradosso e, almeno in parte, la sensazione di stranezza spariscono se si anticipa il nome: i posti primo e secondopremi terzo e quarto assegnati. Per evitare la costruzione problematica con gli aggettivi preposti al nome è possibile, oltre che anticipare il nome, ripeterlo: il primo posto e il secondo postoterzo premio e quarto premio assegnati. Possibile, in fondo, è anche la costruzione con il nome posposto al singolare, che è grammaticalmente imperfetta, ma non ambigua e giustificabile (per il già ricordato legame stretto tra l’aggettivo preposto e il nome).
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Sono una studentessa straniera di origine russa all’università per stranieri di
Perugia, sono 4 anni che sto in Italia e ho sempre avuto difficoltà a definire il
genere delle squadre di calcio. Inizialmente pensavo che tutte le squadre fossero
di genere femminile, visto che la parola sottintesa è  la squadra (come ad esempio
nel caso delle macchine: la Fiat,  la Mercedes ecc) e, giustamente, la mia
convinzione è stata subito sciolta appena ho cominciato a seguire il campionato.
Quindi, la mia domanda è perché si dice Lo Spezia, il Napoli ma la Roma e la
Lazio?
 

 

RISPOSTA:

Dipende, di solito, dal sintagma reggente: se il nome della squadra dipendeva (all’epoca della nascita della squadra) da “Football club” allora la squadra è al maschile (perché in italiano club vuole in genere maschile), se dipendeva invece da “Associazione calcistica” o simili (la Roma, la Lazio ecc.) allora è femminile.

Fabio Rossi 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Autoimporsiautoproclamarsi, solo per citare alcuni dei molti verbi costituiti dal prefisso auto- e costruiti con il clitico -si, non rappresentano un mero pleonasmo? Le forme intransitive pronominali o riflessive, a seconda dei casi, non sono sufficienti per esprimere un concetto che, con il prefisso auto-, si intensifica, senza, a mio giudizio, aggiungere niente dal punto di vista semantico?
1) Il politico esposto al pubblico ludibrio, si (auto)impose un esilio ad altre latitudini.
2) Pur avendo fallito nella sua ultima prestazione agonistica, l’ex campione si (auto)proclamò il migliore di tutti i tempi.
Seconda metà dell’interrogativo.
La funzione sostantivale di parole che abbiano come suffiso -ile o -ole, oppure -arsi-ersi ecc. è sempre possibile, anche quando non vi sia una chiara legittimazione d’uso da parte dei dizionari della lingua italiana?
Esempi:
“Siamo ai limiti dell’invivibile, dell’inconsapevole, dell’irragionevole”, “Ho pensato tutto il pensabile”, “Viviamo nella società del mutevole”; “Il disgregarsi delle coste è un fenomeno geologico”, “Il tuo affannarti non porterà a niente di buono”, e così via.

 

RISPOSTA:

Verbi come autoproclamarsi presentano un rafforzamento del concetto più che un pleonasmo interno. Dal punto di vista del punto di origine dell’azione proclamarsi = autoproclamarsi, ma il prefissoide (prefisso con un chiaro significato lessicale) auto- sottolinea che è il soggetto a prendere l’iniziativa di compiere l’azione. In autoproclamarsi, quindi, è più evidente l’autonomia del soggetto nel processo che porta a compiere l’azione, come se fosse ‘proclamarsi per propria iniziativa’. Non si può dire che in proclamarsi questa autonomia sia esclusa, ma semplicemente non è segnalata.
Tutte le parti del discorso possono essere sostantivate (a prescindere dalla loro forma) mediante l’inserimento dell’articolo; i dizionari riportano soltanto i casi più comuni.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Articolo, Nome, Verbo
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QUESITO:

Qual è il genere corretto per l’aggettivo sostantivato live, di ovvia origine anglosassone?

 

RISPOSTA:

Dobbiamo declinare la vostra proposta per mancanza di tempo e risorse. Per qualsiasi curiosità, scrivete pure a DICO e riceverete una risposta.
Per quanto riguarda live bisogna ricordare che in astratto il genere dei nomi (e degli aggettivi sostantivati) presi in prestito da lingue che non hanno a loro volta il genere (come l’inglese) è il maschile; in pratica, però, questi nomi prendono il genere del nome italiano corrispondente, oppure di un nome assonante. Così e-mail è femminile perché corrisponde a posta, e band è femminile perché è assonante con banda (che, però, ha un significato molto diverso). Può capitare che un prestito sia attratto da due o più nomi italiani di generi diversi, con il risultato che il genere di quel prestito in italiano è altalenante. Questo è il caso di ketchup, che è maschile per la regola generale del prestito senza genere di partenza, ma per alcuni è femminile perché è un tipo di salsa. Per live è forte l’assonanza con spettacolo e concerto, che comporta il genere maschile; qualcuno, però, potrebbe associare questo nome a trasmissione, che è femminile. La situazione, come si vede, è simile a quella di ketchup: per quanto non si possa bocciare una delle due forme, si può stabilire che quella più comune, quindi preferita dai parlanti, è quella maschile. In questo ambito, più comune e preferibile è la soluzione più vicina possibile a più corretta. A conforto di questa posizione ci sono anche i vocabolari: lo Zanichelli registra come maschile sia ketchup sia live come sostantivo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Nome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Ne ho sentito parlare” è giusto dire che parlare è complemento oggetto?

 

RISPOSTA:

Non esattamente, ma ci è andata molto vicino. Alcuni verbi, infatti, possono reggere un complemento oggetto oppure una intera proposizione che ha la stessa funzione, e che prende il nome di proposizione oggettivaSentire è uno di questi verbi (insieme a direpensaresaperevedere e molti altri): può reggere un complemento oggetto (ho sentito un rumore) o una proposizione oggettiva (ne ho sentito parlareho sentito che ti sei sposato). Come si può vedere, la differenza tra un complemento oggetto e una proposizione oggettiva sta nella composizione: il complemento oggetto è un sintagma nominale, cioè un nome o un gruppo di parole che ruota intorno a un nome (ad esempio un rumore); la proposizione oggettiva è un verbo o un gruppo di parole che ruota intorno a un verbo.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi logica, Nome, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Vorrei il vostro parere a proposito della classificazione del nome. In un manuale di grammatica ho trovato la seguente classificazione gerarchica a due livelli:

  • Proprio
  • Comune
    • concreto
    • astratto
    • individuale
    • collettivo

In un altro manuale ho trovato una classificazione differente (a tre livelli):

  • Proprio
  • Comune
    • Concreto
      • individuale
      • collettivo
    • Astratto

In un terzo, infine, si ha una classificazione in cui concreto, astratto, individuale, collettivo sono allo stesso livello di proprio e comune, anziché sottogruppi.
Quale classificazione è la migliore?

 

RISPOSTA:

Classificare un oggetto grammaticale è sempre un problema: si rischia sempre di lasciare fuori dalla classe un elemento, creando la cosiddetta eccezione. Nel caso specifico la classificazione meno problematica è quella meno gerarchizzata, ovvero la terza. I nomi propri, infatti, sono individuali, perché designano elementi singoli (singolari o plurali: PaoloItaliaAlpi), quindi non dovrebbero essere esclusi da questo tratto, come fanno le prime due classificazioni. Per non parlare del fatto che un nome come Dio è proprio, individuale e astratto (ma il concetto di astrattezza applicato ai nomi è sempre discutibile, quindi meglio non spaccare il capello su questo punto).
La seconda classificazione, inoltre, esclude indebitamente non solo i propri ma anche gli astratti dal tratto individuale / collettivo.
Come si può vedere, ogni gerarchizzazione semantica è una forzatura: i nomi propri possono essere concreti e astratti, individuali e persino collettivi (l’Appennino è una catena montuosa) al pari dei comuni. L’unica precisazione non problematica nella classificazione è diadica: i nomi propri sono opposti ai comuni; i concreti agli astratti; gli individuali ai collettivi. Questa è l’unica precisazione che manca nello schema della terza classificazione, che risulta, pertanto, comunque non ottimale.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Recentemente ho pubblicato su facebook un post che diceva: ”Ho la sensazione che stiamo per precipitare in un precipizio”. Sono stata redarguita con la frase: “da un precipizio si puo’ solo cadere”. Effettivamente la mia frase suona davvero male, potevo scrivere: cadere in un precipizio o precipitare in un
baratro, ma non credo sia errata. Precipitare indica un moto a luogo e il precipizio è dove termina l’azione. O sbaglio? Ho 53 anni e i ricordi degli studi di grammatica sono offuscati, ma non mi sembra di aver sbagliato. A meno che il precipizio non si intenda come sinonimo di cornicione, sporgenza, da cui effettivamente il moto può solo partire.

 

RISPOSTA:

La sua frase è correttissima: infatti il precipizio è sia un luogo sporgente dal quale si può cadere o precipitare, sia un luogo profondissimo e scosceso nel quale si può cadere o precipitare. Se si vuole evitare l’effetto cacofonico della ripetizione della radice precipit/z che accomuna precipitare a precipizio, si può, ma non si deve, sostituire precipitare con cadere. Diffidi sempre dell’oltranzismo intollerante dei grammarnazi, ovvero coloro che son convinti che qualcosa nella lingua non si possa dire né scrivere. Raramente le lingue procedono per dogmi si può/non si può, giusto/sbagliato, mentre usualmente si tratta di forme più o meno appropriate a quel determinato contesto.

Fabio Rossi
 

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Vorrei sapere se queste due espressioni sono equivalenti: “Ha commesso un errore ad andare in montagna” (nel senso che sarebbe stato preferibile, per es., se fosse andato al mare) e “Ha commesso un errore andando in montagna”.
Questa seconda formulazione, anche se il significato è facilmente intuibile, fa pensare al fatto che il soggetto abbia commesso un errore non ben precisato mentre si recava in montagna. In ogni caso è corretta anche la seconda espressione?
Desidererei poi sapere se per sinonimo si intende solo una parola che ha lo stesso significato di un’altra o anche, in senso  allargato, un’affermazione che corrisponde a un’altra, per esempio “dannarsi l’anima per ottenere un risultato”  e “fare i salti mortali per ottenere un risultato”.

 

RISPOSTA:

Il gerundio è un modo che può assumere diverse funzioni e per questo a volte necessita di informazioni aggiuntive per essere correttamente interpretato. Nella frase “Ha commesso un errore andando in montagna” il gerundio potrebbe essere causale (‘perché è andato / andata in montagna’) o temporale (‘mentre andava in montagna’). La prima interpretazione avvicina moltissimo la frase alla prima variante, nella quale la proposizione ad andare in montagna è proprio una causale implicita; la seconda, al contrario, presume un significato diverso. Va detto che la seconda interpretazione è piuttosto improbabile, visto che errore fa pensare decisamente a un’anticipazione valutativa dell’evento che sta per essere descritto (andare in montagna): per esprimere il significato di un errore non coincidente con l’andare in montagna qualsiasi parlante opterebbe per una costruzione che separi chiaramente i due eventi, per esempio mentre andava in montagna.
Il sinonimo è una parola, un’unità polirematica (per esempio, carro armato = panzer = tank) o una locuzione che abbia un significato riconducibile a una parola (per esempio dannarsi l’anima = sforzarsi). Nel caso di espressioni, a rigore è preferibile usare non il nome sinonimo, ma l’aggettivo sinonimico, quindi espressioni sinonimiche.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Quando si fa il comparativo con il verbo piacere si usa la preposizione di oppure il pronome che?

 

RISPOSTA:

La parola che introduce il secondo termine di paragone dipende dalla composizione del secondo termine stesso (non da quella del primo termine). Si usa che (che in questo caso è una congiunzione, non un pronome) quando il secondo termine è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio. In tutti gli altri casi si usa di. Gli aggettivi inferiore e superiore richiedono a (inferiore alla media).
Quindi, per esempio, si dirà piace ad Andrea più che a Luca (il secondo termine di paragone è costituito da un nome preceduto da una preposizione), mi piace più sciare che nuotare (il secondo termine di paragone è costituito da un verbo), quel modello mi piace più rosso che bianco (il secondo termine di paragone è costituito da un aggettivo) ecc. 
Non è escluso che la congiunzione che si usi anche quando il secondo termine di paragone è costituito da un nome senza preposizione: mi piacciono più i leoni dei / che i giaguari
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nello studio della grammatica di nostra figlia ci siamo imbattuti un una discrepanza tra due libri di testo sull’argomento dei trigrammi che sono quindi a chiedervi di dirimere.
La prima domanda è quindi se i trigrammi siano da considerarsi due o quattro.
Inoltre:
1) in “Grammatica Pratica” di E. Sergio è scritto che ci e gi seguiti da ae, o, u sono digrammi. Quindi specieciecocielosocietàsuperficiebracierepancieragrattacieloigiene e derivati, effigie sono da considerarsi correttamente digrammi? 
2) Nella stessa grammatica viene illustrato il caso di sciatore fruscio e evidenziando che non si tratta di trigrammi. Sono quindi da considerarsi digrammi?
3) In “Datti una Regola” di E. Zordan c’è una nota sia per i digrammi che per i trigrammi: “nei gruppi cigi seguiti da vocali, la i serve solo da segno grafico per rendere dolci i suoni c e g“. Per segno grafico si intende segno diacritico? Ovvero nei digrammi e trigrammi i ed h sono sempre segni diacritici?

 

RISPOSTA:

I trigrammi in italiano sono 2, gli (come in aglio) e sci (come in sciocco). I digrammi, invece, sono sette: gl davanti a i (figli); gn davanti a vocale (compagno); ch davanti a e e i (chiedere); gh davanti a e e i (margherita); sc davanti a e e i (scena); ci davanti a aou (camicia); gi davanti a aou (valigia). Il caso dei gruppi ci e gi seguiti da e è oggetto di dibattito, perché qui la i non corrisponde a un fonema né ha funzione diacritica; continuiamo a scriverla soltanto per mantenere la somiglianza grafica delle parole con la loro base etimologica (ad esempio effigie effigiempanciera < pancia + -ieracamicie < camicia ecc.). Se eliminiamo questa i il suono della parola non cambia affatto (infatti alcune di queste parole si possono scrivere anche senza i, come pancera o effige). Effettivamente, però, anche in questo caso abbiamo due grafemi (i e g + i) che rappresentano un unico fonema, quindi possiamo considerarli digrammi.
Chi e ghi non sono trigrammi, ma l’unione di due digrammi, ch e gh, con la vocale (o la semivocale) i. Si noti, infatti, che in aglio e sciocco i gruppi di grafemi gli e sci rappresentano ognuno un unico suono, mentre in chiedere e ghiro i gruppi chi e ghi rappresentano due suoni, rispettivamente ch-i e gh-i
La i segno diacritico (o segno grafico, cioè senza valore fonetico) è quella che serve a indicare che il grafema precedente deve essere pronunciato come palatale (o dolce) e non come velare (o duro). Per esempio nella parola sciatto la i indica che il fonema corrispondente al digramma sc è palatale. Dal momento che il grafema i è funzionale alla pronuncia del digramma sc lo consideriamo un tutt’uno con esso, per cui otteniamo il trigramma sci. Se in questa parola togliamo il grafema i otteniamo una parola diversa, scatto, nella quale abbiamo due fonemi distinti, quello corrispondente al grafema s e quello corrispondente al grafema c velare (oltre agli altri che completano la parola). La i è un segno diacritico nei digrammi ci e gi e nei trigrammi; ha, invece, valore fonetico, cioè corrisponde a un fonema autonomo, quando è accentata (come in fruscio, in cui abbiamo il digramma sc seguito dal fonema corrispondente a i) oppure quando non è preceduta da sccg o gl (attivi). La parola sciare è un caso isolato, perché non si pronuncia sciàre, quindi con il trigramma sci, ma quasi scìàre, con la i autonoma. Per capire meglio questa particolarità basta confrontare la pronuncia di sciare con quella di sciara (‘la scia della lava depositata sui fianchi di un vulcano’), in cui sci è un trigramma.
Anche l’h è un segno diacritico, che indica il contrario della i, ovvero che il fonema precedente deve essere pronunciato come velare e non come palatale. In italiano l’h non ha mai valore fonetico (è “muta”), ma può servire 1. come segno diacritico; 2. a distinguere graficamente due parole omofone (ad esempio ha e a); a rappresentare una particolare emissione della voce nelle onomatopee ah!oh! e simili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Titoli come avvocatoprofessore ecc., se non accompagnati dal cognome, vanno maiuscoli?  
Come si comportano i titoli con il sesso delle persone? Sindaco sindacaArchitetto architetta

 

RISPOSTA:

Non c’è alcuna ragione per scrivere con lettera maiuscola i titoli di professione, anche quando non siano seguiti dal nome della persona. Il maiuscolo può essere usato (ma non è obbligatorio neanche in questo caso) quando il titolo è usato per antonomasia per riferirsi a una persona specifica: l’Avvocato (Giovanni Agnelli), il Professore (Romano Prodi). I titoli di professioni comunemente ritenute prestigiose (Onorevole, ma anche PresidentePapaDirettore…) sono spesso scritti con la maiuscola, per sottolinearne il valore distintivo, anche se non è affatto necessario farlo. Quindi, se scrivere l’Avvocato fa pensare a una persona specifica, ovvero l’avvocato Giovanni Agnelli, scrivere l’Onorevole può rimandare a qualunque onorevole che sia stato nominato precedentemente.
I nomi di professione femminili sindaca e architetta sono ben formati e perfettamente legittimi; è preferibile, quindi, usarli quando ci si riferisce a professioniste. Sui nomi di professione femminili rimando a questo articolo pubblicato in DICO.
Nell’articolo è inserito anche il link alla guida Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, che spiega dettagliatamente tutti i casi dubbi (il link è questo: https://accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Riconosco di incontrare talvolta un qualche problema nel risalire alla cosa o alla persona cui si riferisce il ne. Un esempio è questo:
1a) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché ne acquisisca il metodo”.
Ecco: chi deve acquisire il metodo di chi?
Supporrei che sia Giulia a dover imparare da Valentina. Nel caso la mia interpretazione sia giusta, se volessimo ribaltare i ruoli, dovremmo escogitare formule più precise (ma meno snelle) come
1b) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché questa acquisisca il metodo di quella” oppure basterebbe
1c) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché quest’ultima ne acquisisca il metodo”?
Mi chiedo inoltre se la grammatica ci dia regole ferree a tal proposito, oppure se ci si possa sempre affidare alla logica.
Porto un altro esempio che mi è capitato di formulare:
2a) “Bisogna associare l’autorimessa all’appartamento, affinché ne diventi pertinenza”.
Seguendo la sola logica, la frase è di immediata comprensione: l’unico immobile destinato a diventare pertinenza può essere l’autorimessa. Ma prescindendo dalla logica, la frase è corretta sotto il profilo sintattico?
Se essa fosse stata costruita diversamente, invertendo le posizioni dei complementi, per ottenere lo stesso messaggio, avremmo potuto scrivere
2b) “Bisogna associare l’appartamento all’autorimessa, affinché quest’ultima diventi la sua pertinenza”?

 

RISPOSTA:

Il collegamento tra i pronomi e i nomi (o gli altri pronomi) a cui questi si riferiscono è un punto in cui la grammatica incontra la testualità. Da una parte, infatti, abbiamo l’accordo morfologico, ovvero l’adattamento del pronome al nome a cui si riferisce (nel caso di ne questo adattamento non si vede, perché questo pronome è invariabile), dall’altra abbiamo la coreferenza, ovvero la capacità di più parole di rimandare allo stesso referente. Nella sua frase 1a, per esempio, Valentina ne rimandano allo stesso referente, che è la persona di Valentina. La coreferenza richiede sempre un minimo di sforzo interpretativo da parte del ricevente, perché non è di per sé evidente che, rimanendo al nostro esempio, Valentina ne rimandino alla stessa persona, visto che sono parole così diverse. Nella stessa proposizione finale in cui si trova ne c’è anche un’altra forma coreferenziale: l’ellissi del soggetto di acquisisca. L’ellissi è una forma coreferenziale perché rimanda a un referente presentato attraverso un nome da qualche parte nella stessa frase (come in questo caso), oppure in un’altra frase del testo. Risalire alla parola con cui l’ellissi è coreferente è in teoria molto difficile, proprio perché l’ellissi si realizza come la sottrazione di una parola o un gruppo di parole (o sintagma). 
Per favorire l’interpretazione coreferenziale da parte del ricevente, ovvero il corretto rimando da un pronome, o da un’ellissi, all’elemento coreferente, l’emittente deve rispettare alcune regole nella costruzione della frase. La coreferenza, quindi, coinvolge anche la sintassi. Nell’esempio, il dubbio sul collegamento tra ne Valentina potrebbe nascere a causa della presenza, nella proposizione reggente, di due nomi in astratto collegabili a neGiulia Valentina, e dall’ellissi del soggetto del verbo acquisire. In questa situazione, il ricevente potrebbe rimanere nel dubbio su chi sia che deve acquisire il metodo da chi. Tale dubbio è risolto immediatamente dalla regola secondo cui il soggetto ellittico di una subordinata deve coincidere con il soggetto della proposizione reggente. Ne consegue che il soggetto di acquisisca è lo stesso di studi, ovvero Giulia. Per esclusione, quindi, ne rimanda a Valentina. Lo stesso vale per la frase 2a: il soggetto di diventi deve essere l’autorimessa, quindi ne rimanda all’appartamento.
Il suo ragionamento sull’inversione dei ruoli sintattici nelle subordinate è corretto: per farlo bisogna esplicitare il soggetto delle subordinate, attraverso un pronome (come nelle frasi 1b e 2b) o anche attraverso un sintagma nominale, per esempio: “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché Valentina acquisisca…”. Una volta esplicitato il soggetto della subordinata, si può usare anche ne per rimandare all’altro possibile elemento coreferente, non più ambiguo, come nella frase 1c.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Coerenza, Coesione, Nome, Pronome, Retorica
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QUESITO:

Andare in pallone è un errore? Soltanto andare nel pallone è corretto?

 

RISPOSTA:

Le espressioni idiomatiche (come andare nel pallone ‘confondersi, perdere l’orientamento’) hanno una forma rigida. Nel caso di andare nel pallone l’unico cambiamento che si può fare (che non è veramente un cambiamento) è coniugare il verbo: io sono andato nel pallonelui andrebbe nel pallonenon andare nel pallone ecc. La parte nel pallone, invece, non si può cambiare, altrimenti si perde il senso della frase idiomatica.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome, Verbo
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Categorie: Semantica

QUESITO:

Perché si dice maschera per la persona che lavora nel cinema? Le maschere hanno portato o messo delle maschere un tempo in passato? E se sì, perché?

 

RISPOSTA:

L’etimologia della parola maschera è discussa: l’ipotesi più accreditata è che la parola base sia il latino tardo MASCA ‘strega’. Il significato originario di ‘finto volto che nasconde i veri lineamenti della persona’  già nel Cinquecento si allarga per indicare anche la persona che porta una maschera. A questo significato risale quello di ‘inserviente di un teatro o di un cinema che svolge vari servizi di accompagnamento degli spettatori’. Nel Settecento, soprattutto a Venezia, infatti, tali inservienti portavano una maschera (quindi erano delle maschere) per nascondere la propria identità e potere quindi decidere con libertà a quale spettatore dare ragione in caso di dispute (in un periodo in cui i teatri erano ambienti meno regolati e formali di oggi).
Fabio Ruggiano 

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Mi è capitato di scrivere questo messaggio: “Lei è un amore”. Pensando al soggetto della frase, femminile, mi è sorto un dubbio sull’uso dell’apostrofo. Quindi chiedo: amore è sempre maschile e quindi accompagnato da un? O nel caso ci si riferisca a persone può variare in base al genere?

 

RISPOSTA:

I nomi che si riferiscono a cose inanimate in italiano hanno un genere dato, che non può variare, e un numero variabile, perché possono essere singolari e plurali. Ne consegue che *una amore non è possibile, perché il nome amore è maschile, mentre è possibile gli amori (o semplicemente amori), perché il nome amore può essere singolare e plurale. Anche se amore nella sua frase è usato per definire una persona, il significato del nome rimanda comunque a una cosa (in senso lato), quindi rimane unicamente maschile.
Diversamente dai nomi di cosa, i nomi che si riferiscono a esseri viventi possono cambiare di genere in base al sesso dei referenti. Nel cambiare di genere quasi tutti cambiano in parte la loro forma (l’amico / l’amical’imprenditore l’imprenditrice), pochi rimangono uguali: l’artista (lo) / l’artista (la); pochi cambiano totalmente: l’uomo / la donna.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Nome
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QUESITO:

È corretto dire che fotografia fotosintesi sono parole che contengono il prefissoide foto- derivato dal greco, mentre invece fotogenico fotomontaggio sono composti la cui prima parte foto- è una forma nominale abbreviata?

 

RISPOSTA:

È un modo corretto di descrivere la differenza tra i due tipi di parola, nei quali da una parte abbiamo foto- come componente morfologico isolato che entra in composizione con altri morfemi (si ricordi che anche le parole formate con affissoidi sono composte) e dall’altro abbiamo l’accorciamento di fotografia che entra in composizione con altre parole. Da questa descrizione, si badi, emerge che fotogenico deve essere associato a fotografia e fotosintesi, perché è il risultato della unione di due affissoidi, foto- e -genico
La stessa distinzione vige tra parole come automatico, in cui auto- è il prefissoide originario, e automunito, in cui auto- è l’accorciamento di automobile.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Ho qualche dubbio in merito alla seguente affermazione. Il vogliate che spesso si usa all’interno di questa frase non mi convince:
“Nel caso in cui aveste ricevuto questo mail per errore, vogliate avvertire il mittente al più presto a mezzo posta elettronica e distruggere il…”

 

RISPOSTA:

La forma è pienamente legittima, sebbene adatta a contesti molto formali o burocratici. Si tratta del congiuntivo presente, seconda persona plurale, del verbo volere, qui con la funzione esortativa, ovvero finalizzato a indurre il ricevente a fare una certa azione. Il congiuntivo esortativo è la forma che sostituisce l’imperativo in contesti formali; l’alternativa a vogliate avvertire, infatti, è avvertite, decisamente più diretta e aggressiva.
L’accordo al maschile con il nome mail (ma in realtà dovrebbe essere e-mail, o email) è al limite dell’accettabilità. Il nome e-mail è comunemente femminile, per cui ci si aspetterebbe questa e-mail, non questo mail. Il maschile non si può definire un errore in assoluto, visto che il genere dei prestiti dall’inglese è soggetto a oscillazione, ma visto che questo nome è saldamente femminile, il maschile appare discutibile.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sulla corretta forma scritta di un aggettivo (es. agitato) con i suffissi super-ultra- ecc.
Quali di queste forme sono considerate corrette: superagitatosuper-agitato o super agitato?

 

RISPOSTA:

Super-ultra-extra-mega- e simili non sono suffissi, ma prefissi, perché si aggiungono sempre prima della parola (mentre i suffissi si aggiungono dopo). I prefissi e i suffissi, che raggruppiamo nell’unica categoria degli affissi, non possono essere usati da soli, perché non sono parole, ma solo parti di parole; non a caso, quando li scriviamo isolati li facciamo seguire o precedere da un trattino (super--o), a segnalare che manca una parte di parola. 
Alcuni affissi (detti affissoidi; categoria nella quale possiamo annoverare super- e gli altri dal significato simile) sono speciali, perché hanno un significato più complesso rispetto agli altri, come se fossero parole a tutti gli effetti. La scelta su come scrivere le parole che contengono questi affissoidi dipende da diverse considerazioni: se la parola è acclimata nella sua forma univerbata (extrafondentesupermercatoiperspazio…) non c’è motivo di scriverla diversamente; se, invece, non c’è una tendenza nell’uso comune, è consigliabile usare il trattino. La grafia separata è sicuramente possibile con alcuni affissoidi di questo gruppo, visto che si possono usare anche come aggettivi: una spesa extraun vino super. Per gli altri è discutibile: un concerto mega (?), una cena ultra (?) ecc., ma la vicinanza con gli altri rende giustificabile anche questi casi. 
Su questo stesso argomento si può vedere anche la risposta Come si scrive e di che grado è “extrafondente”? dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta?
1. L’esercito Romano è stata l’entità militare più potente di tutti i tempi.
2. L’esercito Romano è stato l’entità militare più potente di tutti i tempi. 

 

RISPOSTA:

La regola generale è che l’accordo sia tra il soggetto e il verbo, quindi la frase corretta è la 2. L’accordo con il nome del predicato nel caso in cui quest’ultimo abbia un genere o un numero diverso dal soggetto (come nella frase 1.) non è esattamente un errore, ma è piuttosto un’imprecisione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome, Verbo
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QUESITO:

Dopo cento e uno è possibile dire cento e duecento e trecento e tredici eccetera?
Si dice centouno favole / libri (plurale) però cento e una favola / cento e uno libro (singolare)?
E con mille vale la stessa regola? Mille e duemille e tredicimille e trecentodue, e poi milleuno favole, mille e una favola?
Lo stesso vale per un milione e novantunmiladue milioni e centocinquemilaquattrocentoottantottomila e novecentocinquantuno. Dopo milionemiliardomila si mette la e?
Ancora, si scrive anni ’80 o anni 80nel 45 o nel ’45?
E quando si scrivono insieme e attaccati i numeri grandi?

 

RISPOSTA:

I composti con centomille e -mila si possono scrivere attaccati, senza e o staccati, con la congiunzione; sono, quindi, corretti, sia centotredici sia cento e tredici, sia milletredici sia mille e tredici, sia duemila e novantanove sia duemilanovantanove. Molto più comune oggi, comunque, è la forma unita. Si noti che la decina ottanta perde l’iniziale in composizione con centocentottantacentottantuno (oppure cento e ottantacento e ottantuno) ecc. Quindi non quattrocentoottantottomila ma quattrocentottantottomila.
Centouno centouna sono per forza plurali, visto che indicano un gruppo numeroso di elementi. Quando si scrivono separati può sembrare strano concordare uno e una con un nome plurale, ma è ancora possibile: mille e una casecento e un libri. Diviene possibile, però, anche concordarli al singolare: mille e una casacento e un libro.
Milione e miliardo si scrivono sempre separati dalle altre cifre, con la congiunzione eun milione e novantunmila (non un milionenovantunmila), due milioni e centocinquemila (non due milionicentocinquemila).
I decenni e gli anni si scrivono sempre con l’apostrofo quando viene omesso il migliaio corrispondente al secolo: gli anni ’80 (= gli anni 1980), il ’45 (= il 1945). Possibile anche riferirsi a decenni di altri secoli, specificando il secolo: gli anni ’80 dell’Ottocento.
Queste regole coprono tutti i casi possibili.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Se Dio è un nome proprio, non è sbagliato se io lo uso senza riferirmi al dio del paradiso e dell’inferno, ma riferendomi a un dio qualunque? Se dico: “Non so se Dio esiste” non mi sto riferendo a UN DIO in particolare. O no?

 

RISPOSTA:

Il nome dio può adattarsi a qualunque divinità. Senza articolo e con lettera maiuscola è usato come nome proprio, riferito al dio di una religione monoteistica, mentre per gli dei che hanno nomi si usa come nome comune, quasi sempre in funzione di apposizione (il dio Apolloil dio Ganesh). In questi casi, quando non accompagna il nome proprio può essere sostituito da la divinità.
Di solito, con Dio senza ulteriori attributi o modificatori si intende il dio cristiano; sebbene questa identificazione non sia giustificata sul piano linguistico, ma dipenda da ragioni sociali e culturali, non si può fingere che non sia attiva. Una frase come quella da lei proposta, pertanto, sarà facilmente interpretata come ‘non so se il dio cristiano esista’, piuttosto che ‘non so se esista alcun dio’. Servirà, quindi, una ulteriore specificazione se con Dio si intende ‘qualsiasi dio’ (a meno che non si ricerchi volutamente l’ambiguità).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

se scrivo a proposito di Mario : “Quella persona (Mario) è un ipocrita”. Dovrei scrivere un’ ipocrita con l’apostrofo (persona è femminile) oppure, essendo Mario un uomo, senza l’apostrofo? Propendo per il femminile, quindi con l’apostrofo. Del resto, se dicessi, sempre a proposito di Mario, che un falso, dovrei dire “Quella persona è falsa” (al femminile) e non “Quella persona è falso”. 

 

RISPOSTA:

I suoi due esempi (“Quella persona è un ipocrita” e “Quella persona è falsa”) non si equivalgono, perché nel primo la parte nominale è rappresentata da un nome (un ipocrita), nel secondo è rappresentata da un aggettivo (falsa). Questa differenza è determinante: l’aggettivo, infatti, concorda con il nome a cui si riferisce in numero e genere (quindi Mario è falso ma la persona è falsa); il nome concorda soltanto in numero. 
In questo caso specifico c’è una difficoltà: ipocrita è un nome di genere comune, che può essere sia maschile che femminile, rimanendo invariabile. In teoria i nomi che hanno sia il maschile che il femminile possono essere concordati anche nel genere con l’altro nome a cui si riferiscono, come propone lei. In pratica, però, questo non avviene, perché il soggetto logico (nel suo caso Mario) è più strettamente collegato al nome che funge da parte nominale di quanto non sia collegato all’aggettivo. La frase, pertanto, viene di norma costruita con un ipocrita. Questo è un caso in cui la logica vince sulla grammatica.
Il caso di ipocrita le sembra particolarmente dubbio perché questo nome può essere usato come aggettivo; ma se proviamo a confrontarlo con ci sono altri nomi di genere mobile che non lasciano dubbi: “Quella persona (Mario) è un giornalista” (e non *”Quella persona (Mario) è una giornalista”).
Lo stesso dubbio relativo a ipocrita potrebbe valere per alcuni nomi mobili (quelli che cambiano la desinenza a seconda del genere): “Quella persona (Mario) è un amico” o “Quella persona (Mario) è un’amica”? Inevitabilmente, se si scegliesse la seconda soluzione si darebbe l’impressione che la persona sia una donna. Al contrario: “Mario è una persona amica”, perché qui amica è usato come aggettivo. Nessun dubbio con un nome mobile come maestro / maestra: “Quella persona (Mario) è un maestro”, e non *”Quella persona (Mario) è una maestra”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?

 

RISPOSTA:

Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Ha seguito un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana (,) conseguendo buoni risultati” è necessario inserire la virgola prima del gerundio?

 

RISPOSTA:

La virgola è facoltativa e influisce sul senso generale della frase. Senza la virgola, la frase risulta un’unità informativa unica, con il focus sul conseguimento di buoni risultati; con la virgola, l’unità informativa viene separata in due focus, la frequenza del corso, con una sua importanza autonoma, e il conseguimento di buoni risultati, ugualmente rilevante.
Sottolineo che il sintagma alfabetizzazione della lingua italiana non è ben formato, sebbene sia piuttosto diffuso nello “scolastichese”. La diffusione di questa espressione è dovuta al suo depotenziamento semantico, che la assimila a insegnamento della lingua italiana o, in modo ancora più approssimativo, a apprendimento della lingua italiana.
Ovviamente, c’è una sostanziale differenza tra insegnamento e alfabetizzazione, mentre davvero impossibile è confondere l’alfabetizzazione, che procede dall’insegnante verso l’apprendente, con l’apprendimento, che procede al contrario.
Soprattutto, però, il nome alfabetizzazione ha un comportamento sintattico particolare. Come il verbo alfabetizzare non può reggere il complemento oggetto dell’ambito del processo (nessuno direbbe mai *alfabetizzare la lingua italiana), ma può reggere il complemento oggetto del destinatario del processo (alfabetizzare gli stranieri), così il nome derivato dal verbo, alfabetizzazione, non ammette il complemento di specificazione dell’ambito, della lingua italiana, mentre ammette il complemento di specificazione del destinatario: “La scuola deve farsi carico dell’alfabetizzazione degli stranieri”.
Questa restrizione riguarda tutti i verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base nominale:
– sponsorizzare una squadra (non *sponsorizzare un contributo per le magliette) e sponsorizzazione di una squadra (non *sponsorizzazione di un contributo per le magliette); 
– parcellizzare gli sforzi (non *parcellizzare le piccole quantità) e parcellizzazione degli sforzi (non *parcellizzazione delle piccole quantità); 
– categorizzare i propri amici ‘dividere in categorie’ (non *categorizzare le classificazioni) e categorizzazione dei propri amici (non *categorizzazione delle classificazioni);
ecc.
Come si vede, questi verbi indicano la realizzazione della propria base: alfabetizzare ‘insegnare l’alfabeto’, sponsorizzare ‘attribuire un finanziamento’ ecc.; non possono, quindi, ammettere un complemento oggetto che ribadisca la base: *alfabetizzare la lingua italiana ‘insegnare l’alfabeto la lingua italiana’. I nomi derivati da questi verbi, come appunto alfabetizzazione, trasferiscono al complemento di specificazione questa restrizione relativa al complemento oggetto.
I verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base aggettivale si comportano esattamente al contrario, perché indicano la qualità che apportano al complemento oggetto: estremizzare la tensione ‘far diventare la tensione estrema’ (estremizzazione della tensione), realizzare un progetto ‘far diventare un progetto reale’ (realizzazione di un progetto), concretizzare le idee ‘far diventare le idee concrete’ (concretizzazione delle idee), ufficializzare una decisione ‘far diventare una decisione ufficiale’ (ufficializzazione di una decisione) ecc.
Alfabetizzazione della lingua italiana deve essere, quindi, evitato. Alfabetizzazione si può tranquillamente lasciare senza specificazione, oppure accompagnare con l’aggettivo linguistica (alfabetizzazione linguistica) o, al limite, con un complemento di limitazione: alfabetizzazione in lingua italiana
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome, Tema e rema, Verbo
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nell’analisi grammaticale un nome falso alterato può essere definito anche come primitivo? E un nome semplicemente alterato? I nomi in questione sono salvietta e musetto.

 

RISPOSTA:

I falsi alterati possono essere primitivi, come il suo salvietta (adattamento del francese serviette) o derivati con suffissi polifunzionali, come, per esempio, ciabattino, che non è una piccola ciabatta ma un artigiano che ripara le scarpe. Qualche problema di classificazione pongono i nomi formati per alterazione che oggi sono percepiti come primitivi, come bambino (da bambo + -ino) o cucciolo. Molti di questi sono nati con significati specifici, o li hanno assunti nel tempo, anche molto distanti da quelli dei nomi base: pinolopoltronalibrettocannonelunotto… 
A questi nomi possono applicarsi entrambe le etichette, a seconda che li si guardi in prospettiva storica o sincronica. Dal punto di vista morfologico, però, sono innegabilmente derivati. 
I nomi alterati, come musetto ‘piccolo muso’, sono, in quanto alterati, non primitivi. Ricordo che i suffissi alterativi non sono diversi dagli altri suffissi dal punto di vista morfologico: i nomi (ma anche gli aggettivi, gli avverbi e i verbi) alterati sono, pertanto, una sottocategoria dei derivati.
Fabio Ruggiano 

Parole chiave: Analisi grammaticale, Nome
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QUESITO:

Mi è sorto un dubbio relativamente alla parola gelato. È un nome primitivo o derivato da gelo? In quest’ultimo caso come vanno considerati i nomi gelataiogelateriagelatiera ecc.: derivati anch’essi da gelo o da gelato?

 

RISPOSTA:

Gelato è il participio passato del verbo gelare ed è usato comunemente come aggettivo. È usato anche come nome, soltanto con il significato di ‘cono gelato’.
Etimologicamente, si potrebbe pensare che gelare derivi da gelo per suffissazione, ma il dizionario GRADIT ci ricorda che il verbo è stato accolto in italiano già formato, direttamente dal latino GELARE, indipendentemente da gelo, che continua il latino GELUM (o GELU). Esso è, pertanto, una parola primitiva. Una volta entrato in italiano, però, i parlanti lo hanno interpretato come derivato di gelo, tanto che ne hanno costruito la coniugazione sul modello dei verbi regolari della prima classe a partire dalla base (o tema) gel(o)-. Definirlo derivato di gelo, pertanto, non sarebbe un errore. Più precisamente si potrebbe definire pseudoderivato.
Per quanto riguarda gelataiogelatiera e gelatieregelateria, essi sono derivati di gelato, che infatti si riconosce alla base di tutte questa parole (gelat(o)-aio ecc.). Dalla base gelat(a)-, invece (femminile di gelato nel senso di ‘formazione di ghiaccio’), deriva gelatina. Da quest’ultima parola abbiamo avuto gelatinaregelatinizzaregelatinoso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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QUESITO:

Chiedo il vostro aiuto per sapere qual è la preposizione giusta da mettere davanti al nome di un’associazione che si chiama Lortobio, volutamente scritto tutto attaccato.
Quale delle seguenti forme é corretta? venite a Lortobio o venite al Lortobio?

RISPOSTA:

Se consideriamo l’articolo come parte del nome, dobbiamo smettere di considerarlo articolo, per cui il nome Lortobio diviene a tutti gli effetti assimilabile a, per esempio, locale. Ne consegue che si dirà venite al Lortobio (come si direbbe venite al locale).
L’altra soluzione non è impossibile, ma è molto improbabile: sarebbe valida soltanto se si considerasse Lortobio alla stregua di un nome di città, come Londra. In quel caso, ovviamente, avremmo venite a Lortobio (come venite a Londra). Osservando come si comportano i nomi propri di aziende (la Fiat), istituzioni (l’INPS), associazioni di vario genere (la CGILil CONI), la soluzione con l’articolo è senz’altro la migliore.
Non è, invece, possibile considerare l’articolo separato dal nome, se lo si scrive univerbato con il nome, perché graficamente Ortobio richiederebbe l’articolo apostrofato, quindi venite all’Ortobio
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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QUESITO:

Vi propongo due questioni riguardanti la scelta tra i modi indicativo e condizionale.
Prima questione.

1a. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non vengo / verrò alla festa.
1b. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non verrei alla festa.

Le frasi sono entrambe ben costruite?
Ci sono casi in generale in cui sia debba usare obbligatoriamente soltanto uno dei due modi (indicativo o condizionale) in frasi introdotte dalla congiunzione altrimenti?
Seconda questione.

2. Non ho intenzione di vendere la mia casa al mare. Se lo facessi, l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrei ristrutturato da poco.

Il condizionale passato (avrei ristrutturato) potrebbe essere interpretato meramente come azione precedente a quella dell’entrare in possesso da parte dell’acquirente, oppure, sulla scorta del classico periodo ipotetico, porta con sé soltanto l’irrealizzabilità dell’evento?
Provo a snebbiare un po’ la domanda esplicando la base logica della frase: in questo contesto mi sentirei di adottare il condizionale passato per creare un rapporto temporale tra le due azioni (entrerebbe in possesso e avrei ristrutturato) distinguendole appunto sul piano della successione cronologica e non su quello semantico. L’azione eventuale del ristrutturare sarebbe difatti precedente a quella dell’entrare in possesso. Con un altro condizionale presente (ristrutturerei) tale stacco per me non sarebbe evidenziabile.
Avevo valutato anche due tempi dell’indicativo (passato prossimo e futuro anteriore), che però non mi sembrano adeguati al messaggio da trasferire all’interlocutore. Scegliendo tali forme verbali, a patto che siano valide, in che modo cambierebbe la semantica?

 

RISPOSTA:

Tutte le frasi sono legittime. Nella 1, la proposizione disgiuntiva introdotta da altrimenti può essere costruita con il presente indicativo (vengo), il futuro semplice (verrò) e il condizionale presente (verrei). La scelta fra le tre opzioni è determinata da fattori semantici e diafasici: l’indicativo presente e il futuro rappresentano l’alternativa come un fatto certo nel futuro immediato o lontano. Il presente è, a questo scopo, meno formale del futuro. Il condizionale rappresenta la stessa alternativa come una conseguenza condizionata da un altro evento. In assenza di altre indicazioni, tale evento sarebbe automaticamente fatto coincidere dal ricevente con l’indisposizione di lei: “Spero che lei sia indisposta, altrimenti (se lei non fosse indisposta) non verrei alla festa.
Nella frase 2, come ha giustamente notato lei, il valore del condizionale passato è relativo alla consecutio temporum, non al grado di possibilità della conseguenza di un evento. Il condizionale passato, cioè, indica che l’evento del ristrutturare è passato rispetto a quello di riferimento, cioè la vendita, ma futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora. Non va dimenticato, però, che il condizionale veicola sempre una sfumatura di potenzialità; dalla frase, infatti, traspare, per via del condizionale, che la ristrutturazione non sia stata ancora decisa. 
Si noterà che il momento dell’enunciazione è considerato passato nella frase, perché è osservato dalla prospettiva futura del momento di riferimento; per questo si giustifica l’uso del condizionale passato, che, come è noto, esprime il futuro nel passato, cioè un evento futuro rispetto a un altro evento passato (qui coincidente, per l’appunto, con il presente). Non è necessario spostare il centro deittico, cioè il punto di vista, al futuro per costruire correttamente la frase: è possibile anche mantenere quello del momento dell’enunciazione. In questo modo, il momento in cui avviene la ristrutturazione è futuro rispetto al presente, ma passato rispetto alla vendita, ovvero è futuro anteriore: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrò ristrutturato da poco. Con l’indicativo, però, si perderebbe la sfumatura potenziale veicolata dal condizionale e la ristrutturazione apparirebbe concreta, già decisa.
Il condizionale presente (ristrutturerei) al posto del passato cambia il senso della frase perché la funzione temporale preminente nel condizionale passato sarebbe in questo caso esclusa ed emergerebbe soltanto quella potenziale: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che ristrutturerei (se potessi). Il condizionale presente, inoltre, impedisce l’uso della locuzione da poco, visto che indica un’azione ancora da venire (forse).
Con il passato prossimo (ho ristrutturato) la frase sarebbe ancora corretta, ma la ristrutturazione sarebbe rappresentata come già avvenuta al momento in cui l’emittente sta parlando.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida

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QUESITO:

Sono il segretario di una Associazione nazionale di professionisti di una disciplina del benessere denominata Wa… Il nome è un marchio registrato, ma identifica ormai comunemente la nostra professione e disciplina. Stiamo realizzando il nuovo logo dell’associazione sotto il quale dobbiamo usare la parola Professionisti Wa… È stato proposto Professionisti del Wa…, ma alcuni lo ritengono grammaticalmente scorretto perché prima di un nome proprio, come ritengono essere Wa…, andrebbe semmai la preposizione di. Suggeriscono, quindi, Professionisti di Wa… Altri invece ritengono Wa… il nome comune della disciplina e utilizzerebbero senza problemi la preposizione articolata. 
Anche l’articolo da utilizzare crea dubbi. Dobbiamo scrivere il Wa… o lo Wa…?

 

RISPOSTA:

Il nome della disciplina dovrebbe essere allineato con altri nomi di sport come calciotennisaquagym ecc. Dovrebbe, quindi, essere comune, non proprio. Detto questo, ricordiamo che anche i nomi comuni singolari, che di norma sono preceduti da un articolo, possono non avere l’articolo; ma solo ad alcune condizioni. Rimanendo nell’ambito dei nomi di sport, notiamo che essi sono spesso senza articolo quando sono preceduti dalle preposizioni di o da, a loro volta rette da alcuni nomi o aggettivi (esperto di calciotifoso di calciosquadra di calcioscarpette da calcio…). La caduta dell’articolo si può avere anche dopo a retta da alcuni verbi: giocare a calcio.
Dopo professionisti di di solito l’articolo è mantenuto (professionisti del calciodel tennisdella pallavolo); molto forte, però, è l’attrazione di esperti di, che, invece, di solito non ha l’articolo (esperti di calcio): ne deriva la possibilità di scegliere liberamente tra le due varianti, considerando, però, che quella con l’articolo è la più regolare.
L’articolo da scegliere è anche una questione aperta. In italiano il suono [w] (corrispondente alla vocale u seguita da un’altra vocale) è preceduto da lo, che, però, è sempre apostrofato: l’uomol’uovo (molto innaturale lo uomo ecc.). Davanti alle parole straniere inizianti per w, però, è invalsa l’abitudine di usare il (il würstelil wasabi), sebbene il suono della lettera w coincida perfettamente con [w]. Paradossalmente, la scelta più corretta, l’w-, è percepita come scorretta dalla maggioranza dei parlanti, che propende per il w- (ma l’u-). Chiaramente, la ragione per cui i parlanti non accettano l’wasabi è che graficamente il nome comincia per consonante (sebbene foneticamente, che è ciò che conta, cominci per vocale). A dimostrazione di questo, il nome di un gruppo musicale famoso qualche anno fa, One direction, era quasi sempre preceduto da gli, sebbene one si pronunci [wa-] (come wasabi).
In conclusione, il mio consiglio è professionisti del Watsu®, ma tutte le altre opzioni sono più o meno valide. 
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome, Preposizione
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Come si dovrebbe scrivere il plurale di pomodoro ciliegino oppure pomodoro datterino, semplicemente pomodori ciliegino e pomodori datterino?

 

RISPOSTA:

Ciliegino e datterino sono due nomi, quindi, quando sono usati da soli, si declinano al plurale normalmente: ciliegini e datterini. Quando sono in composizione con la base pomodoro, però, costituiscono con quest’ultima delle parole uniche (che possono essere definite parole composte o composti, oppure possono rientrare nella categoria delle unità polirematiche, come stanza da letto e occhiali da sole), come buono scontocasa albergoparola chiavepausa pranzo ecc. Al pari di buoni scontocase albergoparole chiavepause pranzo, quindi, anche pomodori ciliegino e pomodori datterino declinano solamente la testa, ovvero la parola delle due che domina sull’altra.
​Fabio Ruggiano

Parole chiave: Nome
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QUESITO:

Buongiorno,

cortesemente siete in grado di aiutarmi a scoprire se esiste un significato per il nome di una ragazza conosciuta giorni fa? Il nome è MAVILLA; secondo la ragazza significa ‘prediletta’.

 

RISPOSTA:

Mavilla è un cognome italiano, piuttosto raro (ma comunque meno raro del nome proprio), presente soprattutto in provincia di Ragusa e in provincia di Parma. Potrebbe rientrare nel gruppo dei cognomi derivanti da toponimi, di varia origine, composti con villa ‘fattoria, tenuta di campagna’ oppure ‘città’ (nei derivati francesi). Ve ne sono con villa nella seconda parte (AltavillaBiancavillaFrancavilla…) o nella prima (VillanovaVillarosaVillasanta…). Per quanto riguarda il costituente Ma-, troppo facile sarebbe l’identificazione con l’aggettivo francese ma ‘mia’, che darebbe a Mavilla il significato complessivo di ‘la mia città’ (ma ville); in alternativa si può pensare che Ma- sia una deformazione di un costituente originariamente più lungo, che, però, non sono in grado di ipotizzare.
Proprio la difficoltà a identificare l’origine del primo costituente (ma anche il fatto che non risultano città, villaggi o contrade con questo nome) fa pensare che Mavilla non sia da accostare ai cognomi/toponimi con base villa, ma sia, bensì, un’altra delle tante varianti di un cognome molto diffuso in tutta Italia, MabiliaMobiliMobiliaMobilio, attestato fin dal Medioevo come nome proprio di donna, nella forma Mobilia (la o al posto della a può essere l’esito di una dissimilazione provocata dalla vocale finale), e plausibilmente evoluzione del nome latino *AMABILIA, legato all’aggettivo AMABILEM ‘amabile, degno di essere amato’ (vicino al significato supposto di ‘prediletta’). Non ho trovato attestazioni di AMABILIA nel mondo romano antico, ma l’esistenza di Mobilia giustifica l’ipotesi che esistesse un antenato AMABILIA, da cui, con una trafila diversa rispetto a quella che ha prodotto Mobilia, si è sviluppato Mavilla.
L’evoluzione da AMABILIA a Mavilla si spiega con una serie di passaggi: la caduta (aferesi) della vocale iniziale, provocata dalla confusione con la vocale finale delle parole precedenti (casi come cara Amabilia, che si pronuncia caramabilia, hanno prodotto alla lunga cara Mabilia); la spirantizzazione della labiale intervocalica (ovvero la trasformazione della [b], quando si trova tra due vocali, in [v]), come in habere > averedebere > doverecaballum > cavallo). La terminazione -lla invece che -lia (come in Mobilia), infine, può essere stata indotta dall’analogia con il suffisso -illa di altri nomi femminili antichi come CommodillaDomitillaPriscilla, forse rafforzata dalla somiglianza con il suffisso -ella, tipico, per varie ragioni, dei nomi femminili (AntonellaGabriella, Gisella…). Anche Mavilia è, comunque, attestato, soprattutto in Veneto.
Per quanto io parteggi per quest’ultima etimologia, riporto anche una terza possibilità, registrata dal dizionario I nomi di persona in Italia, di Alda Rossebastiano e Elena Papa (UTET, 2005): Mavilla potrebbe essere, secondo questa opzione, una variante del nome non latino (dal significato oscuro) Mavilo, legato, tra l’altro, a un martire cristiano del secondo secolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Etimologia, Nome
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Categorie: Morfologia, Semantica

Sublime ha comunemente il significato di ‘eccelso, nobilissimo’; è, quindi, pleonastico farne il superlativo (il più sublime equivale, appunto, a *il più nobilissimo). Quando accompagna alcuni nomi, però, l’aggettivo prende la sfumatura filosofica di ‘relativo al sublime’, cioè legato alla sensazione di elevazione spirituale e intellettuale comunicata da un’opera d’arte o da un’esperienza particolarmente intensa; in questi casi il superlativo relativo è accettabile (il superlativo assoluto, *sublimissimo o *molto sublime, è comunque impossibile). Tra i nomi che accettano il superlativo relativo di sublime ci sono sentimentoattoopera d’artesignificato. Qualche esempio: “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera […] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana” (Giacomo Leopardi, Pensiero LXVIII); “Il pittore o lo scultore, il cui genio è tale che riescono a ritrarre l’anima nel corpo, esprimono senza moti veementi il più sublime dei sentimenti” (Piero Giordanetti e Maddalena Mazzocut-Mis, I luoghi del sublime moderno, 2005, p. 77); “Allora ‘l’opera d’arte più sublime’, quando essa, come dall’altro lato il crimine classico, si avvicina mimeticamente alle cose, rappresenta un medium cognitivo attraverso il quale possono essere acquisite non concettualmente conoscenze sulla realtà” (Axel Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, 1986); “Nel suo significato più sublime, l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità umana” (http://libreriamo.it/arte/che-cose-unopera-darte/, 5 febbraio 2015); “Nell’adorazione, compiamo l’atto più sublime, più miracoloso del creato” (Luca Asprea, Il previtocciolo, 2003, p. 336).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Nome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Vorrei sapere se è corretto usare il termine “durata”, come sostantivo, al plurale (es. durate diverse).

 

RISPOSTA:

Scorretto non è, nel senso che l’italiano prevede il plurale anche per questo sostantivo. Certo, il più delle volte non c’è ragione di usarlo al plurale, visto che sono gli eventi, semmai, ad essere plurali, più che la loro durata. O le loro durate… Insomma, una qualità astratta mal si presta al numero plurale, sebbene sia sempre possibile intenderla, con una sorta di metonimia, come qualità al posto dell’oggetto o del fenomeno cui si riferisce. Stessa sorte hanno altri sostantivi che esprimono qualità astratte: lunghezza, larghezza, bellezza ecc.: “tronchi di diversa lunghezza”, “donne di diversa bellezza” ecc. Ma posso pur sempre dire: “al mondo vi sono diverse bellezze di donna (o donne)” o “donne di diversa bellezza”.
Insomma, sempre tenendo conto dei contesti (o del contesto…), quasi sempre meglio il singolare, ma il plurale non può essere definito errato.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Buongiorno! Vi scrivo perché c’è un dubbio che mi attanaglia ogni volta che
ordino le pizze: si dice “2 margherite” o “2 margherita”? Grazie per
l’attenzione. Cordiali saluti

 

RISPOSTA:

Vanno bene entrambe le forme, dal momento che il singolare si giustifica come nome proprio (“due macchine Panda”), mentre il plurale si giustifica (per metonimia e per antonomasia) come passaggio da nome proprio a nome comune (“due coche”, da Coca Cola). Suggerirei il plurale perché, benché meno formale, è decisamente più comune. Sono abbastanza convinto che il cameriere che si sentisse ordinare “due margherita” rimarrebbe spiazzato al punto da chiederle: “quante? una o due?”.
Un’altra possibilità, anch’essa formale, è: “Due pizze margherita” (migliore di “Due pizze margherite”), magari addirittura con la maiuscola, “Margherita”, che salva capra e cavoli: il plurale e il rispetto del nome proprio.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Nome
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QUESITO:

Perché alcune regioni hanno l’articolo maschile e altre l’articolo femminile
visto che il sostantivo “regione” è comunque femminile ?? ( es. Il Piemonte,
la Lombardia) Stesso dubbio sui fiumi… il Po, la Senna. Grazie.

 

RISPOSTA:

La scelta dell’articolo dipende unicamente da ragioni storiche e di tradizione etimologica: per es., il Piemonte deriva dal ‘piede del monte’, cioè ai piedi delle Alpi. Il Friuli deriva da ‘forum Iulii’, cioè ‘il foro di Giulio (Cesare)’, antico nome di Cividale. Lo stesso vale per i fiumi e per tutti i nomi di luogo (l’etimologia di Po è assai controversa, ma evidentemente è sempre stata percepita al maschile). In molti casi, sicuramente ha influito anche la desinenza finale: una -a finale incoraggia l’articolo femminile, a differenza della -o finale. Quindi alla base della scelta dell’articolo non c’è il nome generale (regione, o fiume, ecc.) bensì l’etimologia (solitamente latina) del nome di luogo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Articolo, Etimologia, Nome
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Categorie: Morfologia

QUESITO:

C’è un supermercato che si chiama Famila, e vorrei sapere se per dire che sto andando lì, bisogna dire “Sto andando al Famila” o “Sto andando alla Famila”.

 

RISPOSTA:

Il genere dell’articolo dipende, ovviamente dal genere del nome da esso accompagnato. Nel caso di un nome proprio, il genere grammaticale si ricava dal sesso della persona designata dal nome, per questo in alcune varietà di italiano regionale settentrionale si dice il Paolo, la Giovanna ecc. Quando il nome proprio non designa una persona, ma un oggetto inanimato, le cose si complicano: in questo caso l’articolo si accorda con il nome comune sottinteso, quindi il (monte) Cervino, il (mar) Mediterraneo, il (fiume) Tevere, la (autostrada) Torino-Milano, la (corsa) Liegi-Bastogne-Liegi ecc. Nel caso dei supermercati, il nome comune sottinteso è proprio supermercato, per cui l’articolo che accompagna il nome proprio è maschile. Le poche eccezioni a questa regola sono dovute all’interferenza di altri fattori: ad esempio la Coop dipende da la cooperativa, la Rinascente sottintende Italia (il nome fu coniato da Gabriele D’Annunzio associando il grande magazzino alla rinascita nazionale dopo la Prima guerra mondiale). Un altro fattore che può interferire con la regola è l’assonanza del nome proprio con un nome comune femminile, come nel suo caso: famila-famiglia.

Tirando le somme, l’articolo maschile è più fondato e per questo preferibile, ma non è il caso di essere troppo rigidi su questo punto: il femminile, frutto dell’assonanza, è discutibile ma non da censurare.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Articolo, Nome
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