QUESITO:
In un’intervista durante il racconto di un aneddoto ho sentito pronunciare questa frase: “Se nessuno avrebbe rivendicato quella partita di tabacco, quella sarebbe stata imputata come costo al gran ducato”. Ora chiedo, gentilmente, se la forma avrebbe rivendicato nella frase sia corretta. Non dovrebbe esserci il congiuntivo trapassato?
RISPOSTA:
Esatto: la frase corretta è “Se nessuno avesse rivendicato quella partita di tabacco, quella sarebbe stata imputata…”. La proposizione ipotetica non ammette, infatti, il condizionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se la seguente frase è corretta:
“Parla quello che si è fatto una competizione controllando se avrebbe vinto nelle partite restanti se non fosse uscito subito dopo i gironi”.
RISPOSTA:
La frase è corretta. La proposizione subordinata di secondo grado (se avrebbe vinto nelle partite restanti) è una interrogativa indiretta, che ha il condizionale passato perché descrive un evento passato ma successivo rispetto all’evento descritto nella proposizione reggente (controllando, al presente perché contemporanea rispetto a che si è fatto una competizione). L’interrogativa indiretta regge, a sua volta, una proposizione ipotetica (se non fosse uscito subito dopo i gironi) che descrive, mediante il congiuntivo trapassato, un’eventualità irrealistica. L’interrogativa indiretta e l’ipotetica formano, dunque, un periodo ipotetico che rappresenta l’incerta conseguenza futura (rispetto a un punto di vista passato) di una condizione non più realizzabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una foto che ritrae un manipolo di Alpini. La foto è datata 1941. Ora vorrei scrivere, come didascalia, che questi soldati hanno combattuto l’anno successivo, nel 1942, sul fronte del Don.
Quale frase si fa preferire?
1) Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don.
2) Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don.
3) Combatterono nel ’42 sul fronte del Don.
Credo che siano tutte e tre accettabili.
Io preferisco la prima.
RISPOSTA:
Come giustamente dice lei, tutte e tre le frasi sono corrette. Si tratta qui di esprimere il futuro nel passato, cioè di parlare di un’azione passata che però non si era ancora verificata al momento dell’evento che si sta narrando (evento, per inciso, a me molto caro, visto che un prozio bersagliere umbro cui ero affezionato fu ferito alla gola nella battaglia del Don!). Quindi:
1) «Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don»: si sottolinea il fatto che nel 1941, anno in cui è stata scattata la foto, la battaglia del Don non era ancora avvenuta. In questo caso si dà valore sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
2) «Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don»: si focalizza la battaglia del Don e si lascia sullo sfondo l’anno della foto. Il 1941, peraltro, cioè l’anno in cui è stata scattata la foto, non scompare dall’attenzione dello spettatore, perché diventa l’hic et nunc da cui parte la narrazione.
3) «Combatterono nel ’42 sul fronte del Don»: sì focalizza soltanto la battaglia del Don e il 1941 scompare.
Tutte e tre le frasi sono corrette, ma esprimono punti di vista diversi, come in una scena cinematografica in cui il regista decide che cosa mettere più a fuoco rispetto al resto. Nel primo caso, sono a fuoco tanto la battaglia del Don quanto l’anno precedente, in cui è stata scattata la foto. Nel secondo caso, l’anno della foto è ancora più sfocato. Nel terzo caso, l’anno in cui è stata scattata la foto scompare del tutto. Se lei preferisce la prima (scelta legittima, come del resto anche le altre due) vuol dire che vuol dare il giusto rilievo sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
Il raffinato sistema della consecutio temporum in italiano consente di scegliere il punto di vista delle azioni narrate esattamente tanto quanto le lenti della macchina da presa consentono a un regista raffinato di far capire allo spettatore che cosa deve essere in primo piano e che cosa sullo sfondo. Un accorto uso della consecutio temporum, dunque, lungi dall’essere un mero esercizio retorico-grammaticale, consente dunque maggiori sfumature nello storytelling.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto la risposta di Fabio Rossi dell’8 gennaio 2024 su «anni fa» e «anni prima», ma non chiarisce esattamente un mio dubbio.
Trovo spesso frasi al discorso indiretto di questo genere: «Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Secondo voi, in questa frase si può dire «dieci anni fa»? A me sembra sbagliato, io direi «dieci anni prima» in una frase al discorso indiretto e «anni fa» al discorso diretto: «Mario, quando ti ho conosciuto, dieci anni fa, avevi dei capelli nerissimi».
RISPOSTA:
Come chiarito nella risposta da lei citata, «La locuzione temporale “X fa” (per es. “dieci anni fa”) può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione». Quindi, non è il fatto che l’espressione si trovi nel discorso diretto oppure indiretto a far scattare la scelta tra «prima» e «fa», bensì il fatto che, quando si dice o scrive «prima» o «fa», sia in effetti dieci anni prima del momento in cui lo si scrive o dice. Nella frase da lei riportata («Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi»), si comprende chiaramente che la frase è stata detta o scritta effettivamente dieci anni prima dell’evento riportato (cioè il fatto che lui avesse dei capelli nerissimi), quindi sono corretti tanto «dieci anni fa», quanto «dieci anni prima». Diverso sarebbe il caso in cui intervenisse un terzo termine temporale, passato rispetto al momento della narrazione e al momento dell’evento riportato (come già spiegato nella risposta citata). Per esempio (siamo nel 2024): «Nina stava pensando [nel 2024] al momento in cui reincontro Mario [nel 2014] e pensò che quando, dieci anni prima [cioè nel 2004], aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi». Ma se, come ripeto, Nina narra nel 2024 di come Mario avesse i capelli nel 2014, vanno vene sia «prima» sia «fa»: «Nina pensò che quando, dieci anni fa/prima, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere quale delle tre soluzioni proposte è la più corretta: “Se io pensassi che tu fossi (sia o sei) incompetente, non ti affiderei questo compito”.
RISPOSTA:
Nella frase, la proposizione reggente ha il congiuntivo imperfetto perché è vincolata dalla semantica del periodo ipotetico; il momento di riferimento, invece, deve essere considerato presente. La consecutio temporum richiede che la contemporaneità nel presente si esprima con il presente (indicativo o congiuntivo a seconda di ragioni stilistiche e sintattiche): nella subordinata oggettiva, quindi, si possono usare sia (più formale) e sei (meno formale). Il congiuntivo imperfetto fossi, per quanto grammaticalmente ingiustificato, può essere comunque considerato un errore veniale, vista la forte attrazione esercitata da pensasse della reggente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Lo avrei fatto ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno o ne avessi bisogno.
2) Lo avrei fatto prima che fosse entrato lui o entrasse lui.
3) Sarebbe stato preso in considerazione chi/chiunque ne fosse capace o fosse stato capace.
4) Avrei chiesto scusa a patto che lo avesse fatto anche lui o la facesse anche lui.
Dando per scontato che il trapassato è corretto, lo è anche l’imperfetto congiuntivo?
RISPOSTA:
Nelle subordinate delle frasi da lei proposte si possono usare sia l’imperfetto sia il trapassato. Con con il trapassato emerge il modello ipotetico latente in tutte le quattro frasi, che spinge a completare una proposizione al condizionale passato con una al congiuntivo trapassato. L’imperfetto, invece, rappresenta gli eventi delle subordinate come contemporanei nel passato rispetto a quelli delle reggenti, in linea con la consecutio temporum. Si noti che la contemporaneità è un concetto flessibile, proiettabile nella posteriorità, come nella frase 2, in cui l’evento dell’entrare è successivo a quello del fare, e nella anteriorità, come nella 4, in cui l’evento del fare è precedente a quello del chiedere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«La Consulta, infatti, ha reputato legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni», o «La Consulta, infatti, ha reputata legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni»?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette, sebbene la prima, con il participio invariabile al maschile («ha reputato legittima l’eccezione»), sia più comune, mentre la seconda («ha reputata legittima l’eccezione») sia più letteraria. La regola dell’accordo del participio passato con l’oggetto si può leggere diffusamente in altre risposte di DICO come questa o questa o altre ancora.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) «È stata un’esperienza». È possibile che il soggetto non sia “un’esperienza”, che invece risulterebbe essere il nome del predicato, ma bensì un soggetto sottinteso e ricavabile dal contesto (come ad esempio “la relazione”, “la situazione”, eccetera)? D’altronde è come se ci domandassero “Com’è stata la relazione/situazione, etc.?”, e noi rispondessimo “È stata un’esperienza”, facendo quindi riferimento ad un soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, “la situazione”, ecc.). In aggiunta, da quello che ho capito, quando il verbo “essere” è usato in funzione di copula, come nell’esempio iniziale, è possibile sia l’accordo con il soggetto esplicito (e cioè qualora non fosse sottointeso):”La relazione è stata un’esperienza”, sia l’accordo con il nome del predicato: “Il viaggio è stata un’esperienza”. Tuttavia, in conclusione, il participio passato di “essere”, ma come anche di “andare”, “finire”, eccetera, in particolari costruzioni impersonali, quindi con un soggetto implicito, e cioè non esplicitato, prende la terminazione femminile in -a, qualora e in concordanza con il generico soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, per esempio): “Com’è stata (la relazione)?” – “È stata un’esperienza (“la relazione”)”. Al contrario, prende la terminazione in -o, qualora e in concordanza con il generico soggetto maschile e sottointeso (“il viaggio”, per esempio): “Com’è stato (il viaggio)?” – “È stato un’esperienza (“il viaggio”)”; e non *”È stata un’esperienza (“il viaggio”)?
RISPOSTA:
Sì, tutto corretto. Come già detto qui, a scuola si tende a semplificare molto, troppo, sull’analisi logica e sull’analisi del periodo, per cui un caso come quello da lei segnalato («È stata un’esperienza») verrebbe analizzato probabilmente come «un’esperienza» soggetto e «è stata» predicato verbale. Mentre invece, per tutti i motivi da lei indicati, l’analisi corretta è: SOGG sottinteso, è stata copula, un’esperienza predicato nominale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto, in una vostra risposta, che nella frase “Chi siete?” il verbo “essere” può essere interpretato o come predicato verbale o come predicato nominale. Come predicato nominale, l’analisi sarebbe la seguente: “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” è la copula, che s’accorda al plurale perché il soggetto sottinteso “voi” è plurale, e “chi” è il nome del predicato. Al contrario, come predicato verbale: “Chi”, soggetto; “siete”, predicato verbale. Ecco, qui ho un dubbio: e cioè se “essere”, a seconda dell’interpretazione datagli, fosse predicato verbale, e “chi” quindi soggetto (con il quale, anche qui, il verbo troverebbe l’accordo al plurale perché “chi”, invariabile, e rispetto al contesto, avrebbe valore plurale), il “voi” che ruolo rivestirebbe? È chiaro, di logica, che il “chi” non potrebbe essere considerato né complemento oggetto (perché “essere” è solo intransitivo), né, immagino io, complemento predicativo del soggetto (altrimenti ci avvicineremmo al predicato nominale). Conseguentemente, ma magari sbaglio, penso, in frasi di questo tipo, che il verbo “essere”, per così dire, spingerebbe maggiormente il lettore a considerarlo predicato nominale, in quanto l’attrazione del soggetto sottinteso “voi” sarebbe maggiore rispetto a quella del “chi” nel predicato verbale. In aggiunta, e in chiusura, se considerassimo la frase come predicato nominale relativamente al ragionamento sovrascritto, il “voi” rivestirebbe, trovandosi così a suo agio, il ruolo di soggetto, mentre quello di nome del predicato spetterebbe al “chi” che, diversamente e per mia ignoranza, non saprei dove collocare in un predicato verbale.
RISPOSTA:
Come già detto nella risposta cui la domanda fa riferimento, l’analisi come predicato nominale di casi quali «chi siete» è decisamente quella più elegante e, dal punto di vista della grammatica generativa e in genere di un’analisi sintattica approfondita, l’unica corretta, proprio per le ragioni che lei ben ricostruisce nella sua domanda. Di solito, l’analisi logica condotta a scuola recalcitra a spiegazioni troppo profonde, forse per non confondere le idee agli studenti e non invocare troppo i concetti di sottinteso, traccia, spostamento di sintagmi ecc. Tuttavia sarebbe bene spiegare casi simili esattamente come li spiega lei nella sua domanda: il soggetto di siete, ricavabile dalla persona verbale, è “voi”, mentre il pronome chi, che come tutti i pronomi interrogativi risale in prima posizione, svolge la funzione di nome del predicato: voi siete chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella biografia di Kim Jong-Un su Wikipedia ho trovato la seguente frase: “Nonostante i provvedimenti presi da Kim Jong-il, in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avesse davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”. Il mio dubbio è: non era chiaro se introduce oppure no un’interrogativa indiretta? E se sì, la frase avrebbe dovuto essere “Non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”? Quindi al posto del congiuntivo trapassato andava messo il condizionale passato che svolge in questo caso la funzione di “futuro nel passato”? Oppure questa subordinata può essere interpretata sia come Interrogativa Indiretta che come subordinata condizionale? A me la frase imputata è come se suonasse simile a una così: “All’epoca dei fatti non si sapeva se il governo nordcoreano avrebbe voluto seguire il percorso che gli era stato tracciato”. Inoltre, se il mio ragionamento è giusto, la frase “… se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire ecc.” puo’ svolgere anche la funzione di apodosi di un periodo ipotetico?
RISPOSTA:
La subordinata è una interrogativa indiretta, costruita con il congiuntivo trapassato. La scelta di questa forma verbale è perfettamente in linea con la norma grammaticale, se si vuole intendere che l’evento descritto nella subordinata precede quello descritto nella reggente, che è già passato. In astratto, quindi, la frase è ben costruita e significa che in seguito alla morte di Kim Jong-il non era chiaro se mentre il dittatore era in vita il governo aveva effettivamente voluto seguire il percorso da lui tracciato. Se si legge il cotesto in cui la frase è inserita (cioè le frasi che la circondano) , però, diviene chiaro che il senso inteso non è questo: la domanda riguarda l’intenzione del governo di seguire il percorso del dittatore dopo la sua morte. Il congiuntivo trapassato è, quindi, sbagliato in relazione al cotesto: la forma richiesta è il condizionale passato (avrebbe voluto). L’interrogativa indiretta se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto… può reggere una proposizione ipotetica, divenendo l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio “… in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato, se avesse avuto la possibilità di fare altrimenti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo gli schemi della consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al condizionale presente si costruisce con l’indicativo o con il congiuntivo, in base al verbo (certezza o dubbio e simili) della reggente. Mi chiedo se, sempre nel rispetto di questo rapporto di subordinazione temporale, sia possibile adoperare, quale alternativa attenuata dell’indicativo, il condizionale passato, senza che questo sia interpretato come futuro nel passato.
“Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito.”
In questo caso, avrebbe mentito rappresenta un’azione analoga, dal punto di vista temporale, a quella costruita con ha mentito, accentuando rispetto a quest’ultima una sfumatura di incertezza, ma senza mutare il rapporto di anteriorità? Oppure il condizionale passato sarebbe interpretato (al di là della semantica della frase che ho scelto per esemplificare il quesito), come
“(…) Significherebbe che Y (in un momento successivo) avrebbe mentito”?
E infine, il condizionale passato implica sempre una protasi, anche implicita (“(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito (se lo avessero costretto a confessare)”) oppure, come ho ventilato poc’anzi, può imporsi in maniera autonoma come una mera attenuazione del modo indicativo, per ridurne l’impatto diretto, senza significative differenze a livello sintattico?
RISPOSTA:
Il condizionale passato può essere usato nel contesto da lei immaginato proprio come variante condizionata dell’indicativo, senza innescare il senso di posteriorità nel passato. In questo caso la forma verbale ha una funzione epistemica, e in particolare serve a limitare la responsabilità del parlante (o dello scrivente) sul contenuto della frase. Di norma si usa in proposizioni dipendenti da altre proposizioni all’indicativo, al congiuntivo o nominali, non al condizionale, perché se la reggente è al condizionale, questo è già sufficiente a svolgere la funzione di distanziamento epistemico; per esempio: “Misura cautelare per un uzbeko che risiede a Ravenna, che sarebbe la mente del sequestro” (da un titolo di repubblica.it del 16 novembre 2024). Se la reggente è al condizionale, quindi, l’indicativo o il congiuntivo (a seconda della frase) sono scelte più logiche. Non di sola logica vive la lingua, però, per cui il condizionale attratto da quello della reggente non può dirsi sbagliato. Si noti che anche quando ha questa funzione, il condizionale presuppone la presenza di una protasi. Nel suo caso, però, la protasi implicita praticamente ripete quella già collegata alla principale (a dimostrazione del fatto che si tratta di un uso pleonastico): “Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito (se la versione di X fosse confermata)”.
L’interpretazione del condizionale passato come tempo della posteriorità nel passato non è, in astratto, esclusa neanche in questo caso: per farla emergere, però, bisognerebbe aggiungere qualche segnale, per esempio “(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito, in seguito”. Si tratta, comunque, di un esempio “d’accademia”: difficilmente si può immaginare un contesto autentico in cui si possa usare una frase con questo significato.
Fabio Ruggiano
Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.
2. (…) la seguente questione pregiudiziale:
se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:
- l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
- l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.
Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …
Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:
“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.
Nel secondo caso avremo:
“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.
Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.
RISPOSTA:
La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle costruzioni in cui il soggetto della sovraordinata coincide con quello dell’ordinata, l’infinito passato può fare ufficio del futuro anteriore?
- Andremo in banca dopo essere usciti dal lavoro.
- Ci confronteremo in privato dopo aver detto ognuno la propria versione.
Le rispettive varianti con il futuro anteriore (dopo che saremo usciti; dopo che avremo detto…) sono comunque possibili e corrette?
RISPOSTA:
Sì, l’infinito passato nei casi indicati equivale a quello che nella forma esplicita sarebbe il futuro anteriore, che dunque sarebbe altrettanto corretto. Va detto però che scelta del futuro anteriore è meno usuale, dal momento che l’italiano di norma, in caso di identità di soggetto tra reggente e subordinata, preferisce la forma implicita a quella esplicita.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento.
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non aver richiesto la prosecuzione a pagamento.
1=contemporaneità. 2=anteriorità.
Vorrei sapere se la mia osservazione è corretta.
RISPOSTA:
Sì, la sua osservazione è corretta. Va però detto che in questi e in altri casi di consecutio temporum i parlanti si muovono con maggiore elasticità rispetto alle norme astratte. Pertanto, pur trattandosi propriamente di anteriorità, nel caso in questione, entrambe le soluzioni sono accettabili. In altre parole, «Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento» può essere usato anche se la richiesta di prosecuzione è stata richiesta, o va richiesta, prima della cessazione. Del resto, per senso comune, sarebbe ben strano non formulare la richiesta prima della cessazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sai domani chi esce/escono?
2) Fatevi riconoscere, chi siete?
È esatto dire che in frasi interrogative, dirette o indirette, “chi”, come pronome, significa «quale persona, quali persone»; e per quanto riguarda l’accordo del verbo, come si legge sulla Treccani, anche quando ha valore di plurale, l’accordo del verbo si fa ugualmente al singolare: “Sai domani chi esce? (e non *”…chi escono”)”; infatti in questo esempio, rispetto a ciò che vogliamo riferire, “chi” può esprimere un’idea di collettività, di pluralità. In pratica è come se dicessimo “Sai domani quali persone (e cioè “chi”) escono?” Per converso, come si legge sempre sulla Treccani, va però al plurale il verbo, e qui il “chi” è da intendere come “nome del predicato”, in alcuni casi, e “soggetto”, in altri, quando il pronome “chi” è predicato (nominale) di un soggetto plurale: “Fatevi riconoscere, chi siete?, frase in cui “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” (quindi verbo al plurale) è la copula e “chi”, con il significato di “quali persone”, è il nome del predicato: e cioè “…Voi siete quali persone? (chi?)” = predicato nominale?
RISPOSTA:
Chi come pronome interrogativo ammette l’accordo del verbo per numero e persona soltanto quando ha valore identificativo specifico e non quando ha il valore generico di ‘quale persona’: «Chi è entrato?» / «Mi chiedo chi sia entrato» (sarebbe agrammaticale *«chi sono entrati»); «chi sei/siete/sono?» / «Mi chiedo chi sia/siate/siano».
Possibile ed elegante, ma non necessaria, l’analisi di chi come nome del predicato in frasi come «chi siete?». Più semplicemente e banalmente, è possibile analizzare la frase come «chi» soggetto e «siete» predicato verbale.
Fabio Rossi
QUESITO:
È giusto dire che nei verbi composti con l’ausiliare “essere” (dunque verbi intransitivi, passivi, riflessivi e intransitivi pronominali ecc.), il participio concorda con il soggetto (quindi metteremo la desinenza -o per il maschile oppure -a per il femminile al singolare; e metteremo la desinenza -i per il maschile, o maschile e femminile insieme, oppure -e per il femminile al plurale): “Le bambine sono andate a letto presto”; “I bambini sono stati mangiati dalle zanzare”, “I bambini e le bambine sono stati punti dalle zanzare”, “Arianna si è guardata intorno”, “Francesco si è guardato intorno”. Mentre il participio rimane invariato in -o (e cioè alla forma maschile singolare “sovraestesa”, “omnicomprensiva”, “non marcata”, valida quindi per il maschile come per il femminile) quando l’ausiliare è “avere” (sia con i verbi transitivi sia con quelli intransitivi; al plurale cambia il numero dell’ausiliare): “La gatta ha mangiato il topo”, “I topi hanno spaventato l’elefante”, “Le iene hanno terrorizzato gli elefanti”; “I ragazzi e le ragazze hanno continuato a russare”. Per converso, la concordanza con il complemento oggetto, in un verbo transitivo e quindi con l’ausiliare “avere”, è più rara: “Maria ha scritta la lettera”. Se però il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?” e “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli”?
RISPOSTA:
Decine di risposte di DICO rispondono ai suoi dubbi: basta cercare, nell’archivio, “accordo participio”. Sì, la sua ricostruzione è corretta, con una precisazione. Mentre con i pronomi di terza persona l’accordo con l’oggetto è obbligatorio, con quelli di prima e seconda è opzionale: «ci hai visto/i/e» ecc., come può utilmente leggere in questa nostra risposta.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.
Poteva scrivere: SAREBBE STATO…
RISPOSTA:
Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1)”Vorrei qualcuno che dica (e non “dicesse”) la verità”
2)”Avrei voluto (ma anche “Volevo”) qualcuno che dicesse la verità”
Sono giuste le scelte verbali nelle relative delle tre frasi? Nella frase 1 la scelta migliore è il congiuntivo presente “dica” perché lo stato dell’essere è presente, come indica il condizionale presente. Di conseguenza la frase col congiuntivo imperfetto “dicesse” è incoerente, perché il verbo della reggente “Vorrei” implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato (d’altra parte il congiuntivo imperfetto si usa principalmente per esprimere un’azione passata). Probabilmente nella costruzione della relativa “Vorrei qualcuno che dica la verità” agisce il modello della completiva “Vorrei che qualcuno dicesse la verità”, senza che ci sia, però, una ragione sintattica per questo. Si noti, quindi, che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella relativa “Vorrei qualcuno che dicesse la verità” è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto: “Vorrei qualcuno che dicesse la verità”<"Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento". Perciò l'uso del congiuntivo imperfetto in una relativa retta da un condizionale semplice dipende dal fatto che il congiuntivo imperfetto è una forma che "ricalca" il periodo ipotetico del secondo tipo: infatti è come se dicessimo "Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento", ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indicherebbe che la qualità di “qualcuno”, e cioè “Qualcuno che dica la verità ”, riguardi il passato, e ciò sarebbe un po’ bizzarro, rispetto alla reggente che invece è al condizionale presente. Viceversa, nella frase numero 2 c'è un tempo passato nella principale che si riferisce ad un momento trascorso (ieri, in passato), e perciò nella relativa troviamo il congiuntivo imperfetto "dicesse", quindi un tempo passato.
RISPOSTA:
Le soluzioni migliori nelle proposizioni relative sono quelle indicate da lei: il congiuntivo presente in dipendenza da una reggente con vorrei, l’imperfetto in dipendenza da una reggente con avrei voluto. Per maggiori dettagli si vedano questa risposta e quest’altra, collegata alla prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:
«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?
«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?
«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?
RISPOSTA:
Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Credo che tizio sappia che caio è un ragazzo simpatico.
2) Immagino che tizio pensi che caio sia intelligente.
3) Ritengo che tizio creda che caio sia bugiardo”
4) Ritenevo che tizio credesse che caio fosse bugiardo”
Vorrei sapere se l’analisi logica delle frasi seguenti è corretta. Nella prima credo è la principale; che tizio sappia è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio è (e non *sia) un ragazzo simpatico è una subordinata oggettiva di secondo grado all’indicativo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo dichiarativo, che ammette l’indicativo. Nella seconda immagino è la principale; che tizio pensi è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di opinione, giudizio, conoscenza, pensiero ed opinione; che caio sia (e non *è) intelligente è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Nella terza ritengo è la principale; che tizio creda è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio sia bugiardo è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo presente, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Sempre nella terza frase stiamo esprimendo contemporaneità al presente. Nella quarta frase il discorso è il medesimo, ma al passato, con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto perché stiamo esprimendo contemporaneità al passato.
RISPOSTA:
L’analisi del periodo (non è analisi logica, che, invece, riguarda la sola frase semplice) da lei proposta è corretta. Si possono aggiungere due particolari: quando sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo, il secondo è l’opzione più formale; un tempo verbale instaura un certo rapporto temporale con il tempo del verbo della proposizione reggente. Nella terza frase, quindi, creda è contemporaneo rispetto a ritengo e sia lo è rispetto a creda; allo stesso modo, nella quarta credesse è contemporaneo nel passato rispetto a ritenevo e fosse è contemporaneo rispetto a credesse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) «Tu sei un problema»
2) «La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi»
3) «I figli sono una grande preoccupazione»
4) «I miei amici sono la mia famiglia»
5) «La mia famiglia sono i miei amici»
6) «La famiglia sono i suoi membri»
7) «La vita non sei tu»
Sono corretti gli accordi nelle frasi? D’altro canto con un soggetto al singolare (“La villeggiatura”, “La mia famiglia”, “La famiglia”) e una parte nominale al plurale (“quattrini”, “i miei amici”, “i suoi membri”) l’accordo della copula (“sono”) è con la parte nominale (frasi 2, 5 e 6); mentre, viceversa, con un soggetto al plurale (“I figli”, “i miei amici”) e una parte nominale al singolare (“una grande preoccupazione”, “la mia famiglia”) l’accordo della copula (“sono”) è con il soggetto (frasi 3 e 4). In pratica, ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale. In più, quando la parte nominale è formata da un nome di genere non variabile (è il caso di “un problema”, nella frase 1, e “la vita” nella frase 7), esso si accorda con il soggetto (“tu” in entrambe le frasi; l’unica differenza è che nella frase 1 il soggetto è posto all’inizio, nella frase 7 è posto alla fine per dare particolare rilievo) solo nel numero (a riprova di ciò “problema” e “vita”, come nomi del predicato, non variano nel genere infatti “problemo” e “vito”, a meno che non si intenda il nome proprio, non esistono nella lingua italiana ma variano soltanto nel numero -singolare o plurale: “problemi” e “vite”). Mentre, in generale, la copula si accorda regolarmente con il soggetto nella persona e nel numero: per esempio, nella frase “Le ragazze sono brave insegnanti” il verbo copulare “sono” si accorda con il soggetto “ragazze” in numero (plurale) e persona (terza).
Pensate sia corretto?
RISPOSTA:
Sì, tendenzialmente tutte corrette, le sue deduzioni sulla base degli esempi citati, a parte qualche inesattezza sul genere: nella frase «Le ragazze sono brave insegnanti» l’accordo è anche nel genere: «le ragazze sono brave maestre» / «i ragazzi sono bravi maestri». Laddove possibile, cioè (nel caso di nomi variabili per genere), l’accordo avviene anche in base al genere. Insegnante non è un nome non variabile per genere, bensì un nome epiceno (o ambigenere, o di genere comune) il cui genere si evince dall’articolo (l’insegnante, la insegnante, gli insegnanti, le insegnanti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “Se si possiede dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro” o “Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli ecc.”? Se non erro, “dai 3 ai 10 titoli” dovrebbe essere complemento di misura e quantità, quindi il “si impersonale” non va accordato. Però mi viene il seguente dubbio: ma non è che l’espressione “dai 3 ai 10” è complemento di quantità/misura e “titoli” , invece, il complemento oggetto plurale e quindi in questo caso bisogna dire “Se si possiedono” visto che abbiamo un complemento oggetto plurale (“titoli”)???
RISPOSTA:
La frase è costruita col si passivante e dunque equivale a: «se dai 3 ai 10 titoli accademici sono posseduti…». «Dai 3 ai 10 titoli accademici» è un soggetto complesso (con attributi), esattamente come sarebbe un complemento oggetto (e non un complemento di quantità) se la frase fosse attiva: «Se qualcuno possiede dai 3 ai 10 titoli accademici…». Pertanto, visto che in caso di forma passiva il verbo va concordato col soggetto, l’accordo per numero non può che essere al plurale: «Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro».
Numerosissime risposte di DICO vertono sulle differenze e sull’accordo nei casi di si passivante. La invitiamo pertanto a (ri)leggerle, a partire da questa: https://dico.unime.it/ufaq/si-vive-o-si-vivono/
Fabio Rossi
QUESITO:
“Se si desidera far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba”. Nella frase di prima è giusto usare “Se si desidera”, e quindi il verbo desiderare alla terza persona singolare, oppure bisogna usare il verbo desiderare alla terza persona plurale (desiderano)? Credo che si debba usare “desidera” perché penso che “far giocare” sia il complemento oggetto del verbo desiderare, però mi è venuto il seguente dubbio “E se invece sia ‘desiderare’ che ‘far giocare’ vanno considerati come un unico predicato verbale e quindi gli unici complementi oggetto della frase sono Claudio e Giulio?” A quel punto, se fosse così, allora dovremmo utilizzare “desiderano” e non “desidera”. Oppure “desiderare’ va considerato come un verbo servile che viene in ausilio di “far giocare” e quindi bisogna comportarsi come se avessimo avuto al posto di ‘desiderare’ i verbi “volere, potere, dovere”? D’altro canto in italiano si dice “Si possono prendere queste cose”, e quindi “possono” (verbo servile) va al plurale proprio perché il complemento oggetto è al plurale (queste cose). Qual è la soluzione corretta al quesito?
RISPOSTA:
La frase è da intendersi con si impersonale (e non passivante) e il verbo va coniugato pertanto alla terza persona singolare: «Se si desidera [= se qualcuno desidera] far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba». La frase volta al passivo sarebbe agrammaticale: *«Claudio e Giulio sono desiderati essere fatti giocare [o fare giocare]…».
Negli esempi successivi, invece, la costruzione passivante funziona e il verbo va pertanto al plurale, accordato con il soggetto (plurale): «Si possono prendere queste cose» = «queste cose possono essere prese».
Il costrutto con verbo fattitivo o causativo (fare giocare, lasciare giocare ecc.) è diverso dal costrutto con verbo modale o servile (posso giocare, devo giocare ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei gentilmente sapere se entrambe le costruzioni sotto indicate siano valide.
«Con quella lettera mi si è comunicato la convocazione».
«Con quella lettera mi si è comunicata la convocazione».
(Mi si è comunicato/a = mi è stata comunicata.)
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è la seconda: «mi si è comunicata la convocazione». Il si ha infatti qui valore passivante e dunque la frase equivale a: «mi è stata comunicata la convocazione». L’accordo al maschile sarebbe agrammaticale: *«Mi è stato comunicato la convocazione», in quanto violerebbe la regola dell’accordo tra verbo e soggetto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “Ci sono due ampi armadi vetrati, dietro ai quali / dietro a cui si trovano due ripiani ideali per i piatti”.
2) “Sono dei componenti intorno ai quali / a cui è possibile costruire molti tipi diversi di servizi digitali”.
Quali sono le forme più corrette? Immagino che siano intercambiabili. In più, per quanto riguarda la forma a cui, la a può essere omessa (dietro cui e intorno cui)? E in aggiunta, la forma cui è invariabile e vale, dunque, per il maschile e il femminile, sia al singolare sia al plurale (come negli esempi)?
RISPOSTA:
Dietro ai quali, dietro a cui e dietro cui sono equivalenti; tra le tre varianti vige un rapporto diafasico: la prima è adatta a tutti i contesti, la seconda è più formale, la terza è raffinata. Lo stesso vale per intorno, con la precisazione che intorno cui, per quanto in astratto corretta, è talmente rara da risultare peregrina. Cui è invariabile, come che.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.
RISPOSTA:
L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«La maggior parte del tempo la/lo passa in quel paese». Volevo chiedere se l’accordo del pronome si fa al maschile, e quindi “lo” accordato con “del tempo” o al femminile, e quindi “la” accordato con “La maggior parte”. Io penso, ditemi se sbaglio, che in questi casi si possa parlare di “concordanza grammaticale” (valida, in generale, immagino non solo per il singolare/plurale, ma anche per il maschile/femminile) se l’accordo di “la” fosse con “La maggior parte”; e di “concordanza a senso” se l’accordo di “lo” fosse con “del tempo”.
RISPOSTA:
Sì, la sua risposta è corretta. Aggiungerei che la concordanza a senso, pur comune nel parlato quanto al numero («la maggioranza delle persone pensano», comunque da evitare nello scritto), è da evitare sempre nel genere. E dunque un esempio come «La maggior parte del tempo lo passa in quel paese» susciterebbe una reazione negativa anche nella gran parte degli ascoltatori.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.
RISPOSTA:
Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.
Fabio Rossi
QUESITO:
In frasi come le seguenti, “tutto” va concordato? «Tutta sé stessa» o «Tutto sé stessa / Tutto sé stessi» o «Tutti sé stessi»? e simili.
RISPOSTA:
In tutti i casi indicati “tutto” è aggettivo indefinito e come tale va sempre concordato con il nome, pronome, o aggettivo cui si riferisce, dunque: «tutta sé stessa», «tutti sé stessi», «tutte sé stesse», «erano tutte impolverate» e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.
RISPOSTA:
Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».
Fabio Rossi
Mi aiuterebbe a capire, dettagliatamente, i vari accordi del participio passato in presenza del “ne” delle seguenti frasi?
1)”In frigo c’erano cinque arance e Franco ne ha usate tre per farsi una spremuta”
2)”Ieri sera a cena ho esagerato con il vino: ne ho bevuti tre bicchieri!”
3)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiata la metà”
4)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiate molte”
5)”Hai mangiato dei biscotti?” “Sì, ne ho mangiati”.
Quella che segue è la mia analisi delle frasi.
Nella prima il complemento oggetto è rappresentato dal “tre” che è un pronome numerale, mentre il “ne” è complemento di specificazione e significa “Di arance, di quelle, di queste”. In merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle arance”/”arance”: quindi con “usate” concordato con “Delle arance/arance”, sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura” (Ah, il “tre” penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio, ma con “una”). Nella seconda “tre bicchieri” (o comunque “bicchieri”) è il complemento oggetto e il “ne” è complemento di specificazione con il significato di “Di vino, di questo, di quello”. Per quanto riguarda l’accordo, il participio passato dei tempi composti, in questi casi, prende il genere dal contenitore o dell’unità di misura, se sono specificati (“bicchieri”, contenitore): quindi con “bevuti” concordato con “bicchieri”, maschile plurale. Nella terza il complemento oggetto è il pronome indefinito “molte” e “ne” è il complemento di specificazione con il significato di “Delle pere, di quelle, di queste”. Sul versante dell’accordo, stesso discorso della prima: e quindi il participio si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”/”pere”: quindi con “mangiate” concordato con “Delle pere/pere”, sottinteso accanto a “molte”, complemento oggetto e quantificatore, inteso anche qui come “unità di misura” (Ah, “molte”, anche qui, penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio proprio con “molte”, ma anche “metà”). Discorso diverso per la quarta nella quale “ne” sta per “Dei biscotti, alcuni biscotti, biscotti (e quindi “quelli”) ed è complemento oggetto partitivo che precede il verbo il cui participio “mangiati” si accorda obbligatoriamente con le categorie grammaticali di genere e numero assegnate al nome (“biscotti”) del referente del pronome (“ne”).
Mi auguro che le mie riflessioni, alle quali tengo fortemente, siano corrette.
RISPOSTA:
In sostanza la sua analisi è corretta. Tuttavia, negli usi reali, la situazione è molto più sfaccettata. Per questo motivo, sul tema dell’accordo del participio con ne, la invitiamo a leggere le seguenti due risposte di DICO qui e qui.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Si può mangiare questi frutti?» Dove «si può» sottintende: «Una persona può mangiarli se vuole o se gli è permesso?» Oppure l’unica espressione corretta è: «Si possono mangiare questi frutti?».
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è «Si possono mangiare questi frutti?», perché il soggetto della frase è plurale («questi frutti») e dunque il verbo deve essere al plurale, accordato con il soggetto. Il si, infatti, è un si passivante (anche se usato per rendere la frase impersonale) che viene così interpretato sintatticamente: «Possono essere mangiati questi frutti?». Altre informazioni sull’uso del si impersonale, del si passivante e sull’accordo verbale si trovano nella seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/si-impersonale-passivante-o-toscano/
Fabio Rossi
QUESITO:
Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:
«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) / NEMMENO la X o lo stesso Y, / NE’ la X, NE’ lo stesso Y,
ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo, a tale processo”.
RISPOSTA:
La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».
Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».
Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.
Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due seguenti frasi è preferibile:
1. “Vorrei sapere se sarebbe possibile ricevere quanto prima questo documento”.
2. “Vorrei sapere se fosse possibile ricevere quanto prima questo documento”.
Credo che la prima frase sia preferibile; ma la seconda è sbagliata ?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono possibili, anche se nessuna delle due è davvero preferibile. La proposizione interrogativa indiretta retta da vorrei sapere può essere costruita con il condizionale, il congiuntivo e l’indicativo (sarebbe possibile anche “Vorrei sapere se è possibile…”). Il condizionale non è davvero necessario, visto che la richiesta è resa già cortese dal condizionale nella reggente; il congiuntivo imperfetto, a sua volta, non è una scelta ideale, perché nella consecutio temporum l’essere possibile è contemporaneo nel presente rispetto al sapere, quindi il tempo davvero richiesto è il presente: “Vorrei sapere se sia possibile ricevere…”. Il congiuntivo imperfetto, in astratto scorretto, diviene accettabile (ma comunque non preferibile) perché è motivato dal modello soggiacente vorrei che fosse (sul quale può trovare un approfondimento qui).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Il padre di Marco, da giovane, era molto bello, e anche la sua fidanzata di allora era tale”.
Tale = ‘era molto bella’ e sostituisce quindi una forma declinata al maschile. L’utilizzo, in questo caso, è comunque corretto, o si sarebbe dovuto impiegare una costruzione diversa che escludesse al suo interno tale?
RISPOSTA:
In astratto il rimando anaforico presenta una forzatura dell’accordo, ma l’aggettivo dimostrativo tale è abbastanza generico da tollerare bene una discrepanza di genere rispetto al sintagma ripreso. Lo stesso succederebbe con il pronome lo (… anche la sua fidanzata di allora lo era). Vista la forzatura grammaticale, comunque, bisogna considerare una soluzione di questo genere non adatta a testi molto formali. Un’alternativa del tutto corretta (ma per forza di cose un po’ ridondante) sarebbe … e la sua fidanzata di allora era, a sua volta, molto bella.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?
RISPOSTA:
La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.
Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?
RISPOSTA:
Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’
Quale delle due è corretta? La prima, vero?
RISPOSTA:
Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida
QUESITO:
Gradirei sapere se il periodo indicato più sotto sia sintatticamente corretto (sia con il congiuntivo trapassato sia con quello imperfetto) e se, eventualmente, esisterebbero delle alternative valide, senza che queste vadano ad alterarne il senso.
«Se avessi puntato su un terno che alla prima estrazione fosse uscito/uscisse, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
RISPOSTA:
Sembra migliore la prima soluzione, al trapassato congiuntivo («fosse uscito»), dal momento che l’intera azione è al passato e si riferisce a qualcosa che non è accaduto. La soluzione all’imperfetto congiuntivo («che uscisse») sarebbe un po’ strana, perché suggerirebbe l’idea che chi ha puntato già sapesse che il terno sarebbe uscito o comunque che poteva uscire (e quest’ultima ipotesi sarebbe ovvia: qualunque puntata ha la probabilità di andare a buon fine). La possibile soluzione al condizionale passato («che sarebbe uscito») sarebbe anch’essa strana, perché lascerebbe intendere, anch’essa, la certezza dell’uscita del terno, se uno l’avesse puntato. Infine, dato che uscire è un verbo inaccusativo, il soggetto posposto al verbo funziona meglio: «Se avessi puntato su un terno che fosse uscito alla prima estrazione, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
Una piccola aggiunta. Nel testo della sua domanda («Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esisterebbero delle alternative valide») si notano una assimmetria e un uso del condizionale non del tutto accettabili. Sarebbe stata migliore la forma seguente: «Gradirei sapere se […] fosse sintatticamente corretto […] e se […] esistessero delle alternative valide», oppure «Gradirei sapere se […] è sintatticamente corretto […] e se […] esistono delle alternative valide», oppure, ma peggiore: «Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esistano delle alternative valide». L’ultima alternativa è la peggiore perché da vorrei dipende preferibilmente il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente (come spiegato qui).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.
RISPOSTA:
La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?
RISPOSTA:
Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?
RISPOSTA:
In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?
Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.
RISPOSTA:
Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella frase “con i piedi lontano/lontani da terra” è corretto usare l’avverbio o l’aggettivo?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, perché lontano in italiano ha i valori di aggettivo e di avverbio. L’aggettivo richiede l’accordo di genere e numero con il nome cui si riferisce (piedi lontani), l’avverbio invece, in questo caso costruito come locuzione preposizionale (lontano da), rimane invariato. La variante con l’aggettivo è più comune, ma non per questo preferibile alla variante con l’avverbio.
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo chiedere quale delle tre versioni è corretta/preferibile o se invece sono tutte e tre ugualmente accettabili:
Questioni relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione.
RISPOSTA:
I tre esempi sono tutti e tre corretti (in quanto contemplati dal sistema grammaticale italiano), ma il primo è preferibile. Le grammatiche son tutte concordi nell’ammettere la possibilità dell’ellissi preposizionale nei casi di più elementi retti dalla medesima preposizione, ma ribadiscono anche che, per chiarezza, talora è bene ripetere la preposizione. Nel caso specifico, dato che la preposizione è articolata, sarebbe meglio ripeterla o quanto meno ripetere l’articolo: “Questioni relative all’interpretazione e l’applicazione”.
La -d eufonica va limitata a casi di incontro tra due vocali identiche, dunque, semmai, “interpretazione ed educazione”, ma “interpretazione e applicazione”.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Comunico la mia assenza per domani 10 marzo. Ne allego di seguito il giustificativo”.
Vorrei sapere se questo uso pronominale sia corretto. Dal punto di vista formale, scomponendo i rapporti sintattici, mi pare che non ci sia niente di sbagliato. (Ne allego il giustificativo = allego il giustificativo dell’assenza.) Quando ho letto il messaggio la prima volta, però, ho avuto un principio di perplessità. Chiedo a voi, come al solito, per sciogliere il dubbio.
RISPOSTA:
La frase è perfettamente corretta. Le ragioni della sua perplessità sono dovute alla distanza tra il pronome ne e il nome cui si riferisce (assenza). Dato che però nessun altro dei costituenti prima di ne (domani, 10 marzo) si presta ad essere sostituito da ne, la coreferenza tra ne e assenza, sebbene svolta nell’arco di due diverse frasi, è perfettamente rispettata.
Fabio Rossi
QUESITO:
la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?
Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.
RISPOSTA:
Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?
RISPOSTA:
Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.
Fabio Rossi
QUESITO:
vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.
Potreste cortesemente esprimervi in merito?
RISPOSTA:
La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.
Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di aiuto per sciogliere un dubbio sull’uso di proprio.
I RAGAZZI STUDIANO SPERANDO DI REALIZZARE UN GIORNO I ………… SOGNI.
Nello spazio va inserito proprio o loro?
RISPOSTA:
L’aggettivo proprio si preferisce a loro quando si riferisce al soggetto grammaticale della frase. Diviene obbligatorio per riferirsi al soggetto in una frase in cui ci sono più referenti possibili; in quel caso, infatti, loro rimanda sicuramente non al soggetto. Nella sua frase il riferimento non può che essere i ragazzi, quindi proprio (in questo caso nella forma propri) è preferibile, visto che i ragazzi è il soggetto della frase, ma non obbligatorio; in una frase come “I ragazzi hanno rivelato ai professori che studiano sperando di realizzare i _____________ sogni”, invece, propri è obbligatorio perché loro si riferirebbe ai professori (i loro sogni, cioè, sono i sogni dei professori).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.
RISPOSTA:
Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda la costruzione della seguente frase: “L’animale si chiamava Bubu e ovunque sarebbe andato avrebbe obbedito solo al suo padrone”.
È corretto il condizionale passato dopo “ovunque”, in quanto azione futura nel passato, o si deve usare il congiuntivo “ovunque fosse andato”?
RISPOSTA:
La soluzione col condizionale passato fa leva, come giustamente osserva lei, sul futuro nel passato; la proposizione è però, a sua volta, dipendente da una reggente che già esprime il futuro nel passato (“avrebbe obbedito”), pertanto è decisamente da preferire la seconda soluzione col congiuntivo trapassato (“ovunque fosse andato”), per via della carica eventuale (quasi protasi di periodo di ipotetico) della subordinata relativa introdotta da ovunque: “se fosse andato in un posto qualunque, avrebbe obbedito”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?
RISPOSTA:
Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le frasi seguenti sono corrette?
Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.
A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.
In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.
Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:
Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,
La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.
E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.
Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.
Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.
apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.
Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.
Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.
Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.
RISPOSTA:
Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.
“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.
In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio che riguarda gli aggettivi numerali cardinali invariabili ma che si estende anche a tutti gli aggettivi qualificativi.
Se io scrivo: “Le mie tre rose sono fiorite”, posso fare l’analisi grammaticale dell’aggettivo numerale cardinale “tre” come femminile plurale dato che si accorda al nome “rose”?
Genere e numero dell’aggettivo numerale cambierebbero infatti se associati al nome: “I tre palazzi”.
Se io scrivo: “la bambina è gentile” posso analizzare l’aggettivo qualificativo come femminile e singolare anche se accanto ad un nome maschile singolare scrivo comunque “gentile”?
RISPOSTA:
Gli aggettivi (di qualunque tipo) non hanno un genere proprio, ma cambiano il genere in base al nome cui si riferiscono. Pertanto tre in tre rose è femminile, mentre è maschile in tre palazzi. Altrettanto gentile: femminile in persona gentile, maschile in modi gentili. Ciò vale dal punto di vista morfosintattico (cioè per quanto riguarda l’analisi grammaticale e la funzione dell’aggettivo). Dal punto di vista meramente formale, tre è un aggettivo invariabile, cioè che non varia (nella forma) tra maschile e femminile. Anche gentile è invariabile nel genere, anche se varia nel numero (gentile, gentili). Dal punto di vista funzionale, invece, come già detto, tutti gli aggettivi assumono il genere e il numero del nome cui si riferiscono.
Fabio Rossi
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).
Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?
Secondo esempio:
(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).
A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?
Terzo esempio:
(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.
Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.
RISPOSTA:
La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che: , tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?
RISPOSTA:
Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?
RISPOSTA:
L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesse, avrebbe voluto, voleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.
-
Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;
-
L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.
RISPOSTA:
Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Quali fra queste due frasi è corretta?
Si sono create circostanze ed eventi che hanno portato…
Si sono creati circostanze ed eventi che hanno portato…
La mia intenzione è che il verbo creare comprenda sia circostanze che eventi.
RISPOSTA:
Quando due o più nomi sono sono di genere diverso, la norma prevede che l’accordo del participio (lo stesso vale per l’aggettivo) sia plurale maschile, quindi si sono creati circostanze ed eventi. In un caso come questo, però, in cui il primo nome è femminile, l’accordo risulta poco gradevole; tuttavia, questo problema può essere risolto ripetendo il participio: si sono creati le circostanze e si sono creati gli eventi; oppure, più economicamente, invertendo l’ordine dei nomi: si sono creati gli eventi e le circostanze.
Raphael Merida
QUESITO:
Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amico, l’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?
RISPOSTA:
Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: il, lo, l’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?
RISPOSTA:
L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffa, pavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guida, la guardia, la persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaio, architetto, il presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio relativo all’analisi grammaticale degli aggettivi possessivi loro e altrui.
Essendo entrambi invariabili vorrei capire se nel momento in cui devo analizzarli è sufficiente scrivere “aggettivo possessivo invariabile” o se devo anche specificare maschile, femminile, singolare e plurale osservando il nome dell’oggetto posseduto.
Per esempio: “Le formiche portavano delle provviste nel loro formicaio”.
In questa frase devo scrivere: “aggettivo possessivo invariabile” o anche “maschile e singolare” perché si riferisce a formicaio, che è appunto maschile singolare? O lo devo analizzare come femminile plurale perché è riferito a formiche?
RISPOSTA:
La questione è duplice: bisogna capire con quale sintagma concorderebbe loro se fosse variabile e come è meglio descrivere tale accordo nell’ambito dell’analisi grammaticale. Per il primo punto possiamo servirci di uno stratagemma: osserviamo come si comportano gli aggettivi possessivi variabili in italiano, per esempio nella frase “Abbiamo preso il suo zaino”. Come si vede, la scelta dell’aggettivo è determinata dalla persona o cosa che detiene il possesso (nella frase lo zaino appartiene a una terza persona, quindi si usa l’aggettivo di terza persona singolare), ma la forma dell’aggettivo dipende dal nome accompagnato (nella frase suo concorda con zaino). Allo stesso modo, nella sua frase loro è scelto perché il possessore è una terza persona plurale (le formiche), ma se l’aggettivo fosse variabile concorderebbe con formicaio (e lo stesso vale per altrui). Per quanto riguarda la descrizione dell’aggettivo nell’analisi grammaticale, loro deve essere descritto come invariabile; a rigore, infatti, attribuire a loro un genere e un numero è scorretto, perché qualsiasi scelta non corrisponderebbe all’effettiva forma della parola (che, per l’appunto, non ha né genere né numero).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel Credo si dice: «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?
RISPOSTA:
La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».
Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.
La frase, parafrasata, sarebbe questa:
«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».
Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.
RISPOSTA:
La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel linguaggio, spesso frettoloso e trascurato, della messaggistica, ho ravvisato esempi del genere:
1) Visto due film, stasera: spettacolari.
2) Fatto. Comprato pane e marmellate.
Si tratta evidentemente di due casi in cui si è scelto di omettere l’ausiliare coniugato.
(Ho) visto due film. (Ho) comprato pane e marmellate.
Innanzitutto, vi domando se le costruzioni così presentate sono corrette.
Se si volesse unire l’economicità della comunicazione, che sembra essere fondamentale in questo contesto, con il rispetto della sintassi, si potrebbe optare, secondo voi, per il compromesso di flettere il participio passato secondo il genere e il numero?
Dal punto di vista della brevità (e dell’immediatezza) non ci sarebbero differenze.
3) Visti due film, stasera: spettacolari.
4) Fatto. Comprati pane e marmellate.
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni (visto/visti, fatto/fatti) sono corrette, ma non v’è dubbio sulla maggiore formalità della seconda, che dunque è da preferire. Infatti, mentre nel primo caso («visto due film», «comprato pane e marmellate») l’unico modo per giustificare la presenza del participio passato è quello di ricorrere all’ellissi dell’ausiliare, col risultato di ottenere una frase telegrafica e, in quanto tale, traballante, assolutamente da evitare nello stile anche di media formalità, nel secondo caso, invece, il participio passato al plurale, e cioè accordato col soggetto di una frase passiva («sono stati visti due film», «sono stati comprati pane e marmellate»), è perfettamente standard e adatto a qualunque contesto, interpretabile come costrutto implicito, senza bisogno di invocare l’ellissi dell’ausiliare. Tant’è vero che le stesse proposizioni potrebbero trovarsi come subordinate implicite: «visti due film, sono poi andato a letto»; «comprati pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione». La stessa possibilità è negata al participio singolare maschile, che in questo caso sarebbe agrammaticale: *«visto due film, sono poi andato a letto»; *«comprato pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione»
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio su questa frase: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e app».
È corretto indicare «altri» al maschile anche se app è al femminile? Oppure è meglio dire: «La funzionalità non protegge gli altri servizi e le altre app»? Qual è la regola grammaticale al riguardo?
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda è più formale. L’italiano prevede il maschile sovraesteso in caso di due o più elementi di genere diverso. Certamente, però, la forma «gli altri servizi e le altre app» è preferibile, soprattutto perché, nel caso di due soli elementi, non allunga troppo il testo.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.
Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.
- Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
- Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
RISPOSTA:
La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sulla seguente frase: “Non vorrei che dopo siamo in troppi”. È preferibile usare il congiuntivo imperfetto, ma la frase è comunque corretta, oppure è sbagliata?
RISPOSTA:
In questa frase agiscono due ragioni contrarie: da una parte ci si aspetta “Non vorrei che dopo fossimo in troppi”, perché i verbi di desiderio al condizionale presente richiedono il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva (per un approfondimento su questa norma si veda qui); dall’altra l’avverbio dopo sottolinea la posteriorità dell’essere rispetto al volere, e questo rinforza la legittimità del congiuntivo presente con funzione di proiezione nel futuro. Da queste premesse si può ricavare, come soluzione ragionevole, che l’imperfetto è comunque la soluzione oggi considerata preferibile, ma il presente è giustificabile (anche se sarebbe visto con sospetto da molti parlanti, quindi dovrebbe essere riservato a contesti informali).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?
RISPOSTA:
No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere a quale persona si riferisce il pronome _questi _nella seguente frase:
“Con l’acquisto operato dal donante, Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e questi con atto del 2002 enunciava che il trasferimento avveniva nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava il cespite”.
RISPOSTA:
In base alle regole del riferimento anaforico questi riprende (o è coreferente con) Tizio, ovvero quello tra i due possibili antecedenti (Caio e Tizio) che non è il soggetto della proposizione reggente (Con l’acquisto Caio trasferiva lo stesso bene con i relativi confini). Per riprendere il soggetto di una proposizione reggente, infatti, bisogna usare l’ellissi del soggetto; per riprendere Caio nella coordinata, quindi, la frase avrebbe dovuto essere “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e con atto del 2002 enunciava…”. Esiste un’alternativa all’ellissi per riprendere il soggetto della reggente, ma non è questi, bensì un pronome esplicito come lo stesso (preferibilmente completato dal nome): “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e lo stesso Caio con atto del 2002 enunciava…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.
RISPOSTA:
Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.
Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:
1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;
2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.
Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.
Ora si osservino queste due frasi:
3. Dieci persone sono venute alla festa;
4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.
In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.
Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.
Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:
5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!
6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!
Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.
7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.
8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.
Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I bambini dovranno allegare un file in formato pdf, elaborato secondo lo schema allegato, contenente l’elenco dei disegni trasmessi, in pdf non modificabile, di seguito indicati:”
Nella frase precedente è il file contenente l’elenco che deve essere in pdf non modificabile, o ciascuno dei disegni?
RISPOSTA:
Il sintagma in pdf non modificabile non può che essere interpretato dal lettore come retto da disegni, perché si trova tra disegni e di seguito indicati, che è inequivocabilmente concordato con disegni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali frasi sono corrette?
1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi
Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone
RISPOSTA:
Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida
QUESITO:
A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?
RISPOSTA:
In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altra, uno dall’altro oppure uno dall’altra?
RISPOSTA:
I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo che “cui” si accorda sia con il singolare che con il plurale, quindi vorrei chiedere se c’è differenza tra le seguenti due frasi o se sono intercambiabili:
Vorrei persone con cui essere me stesso.
Vorrei persone con le quali essere me stesso.
RISPOSTA:
Le due forme sono sovrapponibili: cui, in questo caso, si riferisce solamente a persone, quindi non crea equivoci di numero o di genere grammaticale.
Raphael Merida
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere quale sarebbe il verbo corretto da usare in questa frase:
“Il ricordo del tuo luminoso sorriso e del tuo buon cuore sarà/saranno per sempre la nostra forza”.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è il ricordo, quindi il verbo va concordato alla terza persona singolare: sarà. Il verbo sarebbe al plurale se il soggetto fosse il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore, per esempio se la frase fosse costruita così: “Il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore saranno per sempre la nostra forza”.
Fabio Ruggiano
“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.
Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidato, tutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mi fai sentire come (ipotesi) un insegnante del dopoguerra che rimproverasse (presente o passato?) un alunno che si comporta / comporti / comportasse male”.
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato?
“Che il castigo, se al giuramento vengo / venissi / venga meno, ricada sulla mia testa”.
Le varianti sono tutte legittime?
“Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta, tu che cosa risponderesti?”.
Di nuovo, con l’imperfetto ci si riferisce al passato?
RISPOSTA:
Nella prima frase il congiuntivo imperfetto rimproverasse rappresenta correttamente l’evento come passato. La proposizione costruita intorno a rimproverasse è una subordinata di tipo relativo, che si colorisce di una sfumatura eventuale per via del congiuntivo. Le forme si comporta / comporti / comportasse sono tutte possibili: con il congiuntivo imperfetto si rappresenta l’evento del comportarsi come passato, sullo stesso piano di rimproverare; con il presente si sposta il punto di vista al passato per rappresentare l’atto del comportarsi come fosse attuale. La scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente in questo caso dipende dal grado di formalità che si vuole conferire alla frase. Sarebbe possibile anche si era comportato / si fosse comportato, per collocare l’atto del comportarsi prima di quello del rimproverare.
Nella seconda frase la subordinata è ipotetica: in questa subordinata il tempo del verbo determina il grado di realtà dell’evento: l’indicativo presente rappresenta l’evento come fattuale, il congiuntivo imperfetto come possibile, il congiuntivo trapassato come controfattuale, ovvero non più realizzabile. In questa proposizione il congiuntivo presente non si usa.
Nella terza frase la parte su cui ci si concentra (Se ti portassi qui due scale e ti chiedessi) è una sequenza di due ipotetiche coordinate. Come detto sopra, in questa proposizione la forma del verbo esprime il grado di realtà dell’evento; questa funzione è indirettamente collegata al tempo, perché la fattualità (espressa dall’indicativo presente) è legata al presente o al massimo a un futuro già programmato; la possibilità è legata ugualmente al presente o al futuro; la controfattualità è legata al passato. Per quanto riguarda l’interrogativa diretta (quale delle due fosse / sia / è / sarebbe la più alta), la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo presente dipende dal registro, come per si comporta / comporti. Il condizionale in questo caso non è giustificato, perché non è indicata nessuna ipotesi tale da condizionare la qualità dell’altezza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.
Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?
RISPOSTA:
La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori: sé è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:
Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.
La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.
RISPOSTA:
La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Vorrei sapere se entrambe le soluzioni sotto proposte possono essere giudicate valide.
1) Si è dovuto intervenire per placare gli animi.
2) Si è dovuti intervenire per placare gli animi.
A condizione di non essermi confusa durante la consultazione e l’analisi, in letteratura le due costruzioni coesistono.
RISPOSTA:
I verbi intransitivi (come intervenire) concordano il participio passato con il soggetto (Luisa è intervenuta). Nella costruzione impersonale, in cui, per definizione, manca il soggetto grammaticale, il participio viene concordato con un soggetto “logico”, che coincide con una prima persona plurale (maschile o femminile secondo le normali regole dell’accordo). La costruzione, pertanto, può essere si è intervenuti o si è intervenute. La presenza del verbo servile dovere complica questa regola, perché questo verbo ha come ausiliare avere, quindi nella forma impersonale mantiene il participio passato invariabile. Si pensi, per esempio, a una conversazione del genere:
-Siete intervenuti?
-Si è dovuto (impossibile *si è dovuti).
Come si può immaginare, le due costruzioni concorrenti entrano in conflitto, creando la doppia possibilità. Per le ragioni spiegate, entrambe le costruzioni sono giustificabili, anche se la seconda è preferibile, perché il verbo servile ha una forte tendenza a prendere la costruzione del verbo retto, che è semanticamente dominante. Questo si vede, per esempio, nella netta preferenza dei parlanti per forme come sono dovuto andare rispetto a ho dovuto andare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I rigori sono sempre una sfida di nervi tra chi calcia e il portiere, e stavolta ha vinto lui”. Lui chi? Il portiere o chi calcia?
RISPOSTA:
La frase non è ben composta, proprio perché non è decidibile quale sia l’antecedente di lui. Può essere corretta in diversi modi, per esempio sostituendo lui con il primo o il secondo (o anche quest’ultimo), a seconda di chi abbia effettivamente vinto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:
Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.
RISPOSTA:
Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.
Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
RISPOSTA:
La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei capire se in questo elenco («camicie a righe, a disegni, a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, coi monogrammi in indaco») le due coppie di colori – corallo e verde mela, lavanda e arancione chiaro – sono riferite soltanto alle camicie a scacchi o all’intero elenco di camicie. E, nel secondo, caso se a tutt’e tre i tipi di camicia.
Questa citazione è tratta da “Il grande Gatsby”.
RISPOSTA:
Il dubbio può essere sciolto controllando la versione originale del testo: «shirts with stripes and scrolls and plaids in coral and apple-green and lavender and faint orange, with monograms of Indian blue». Stando al testo in inglese, sarei orientato ad affermare che i colori non si riferiscono necessariamente ai tipi di camicie descritti prima; lo si deduce dalle preposizioni che seguono la parola shirts ‘camicie’: with, in e dopo ancora with. Si suppone, quindi, che le camicie siano di vario genere (a righe e a disegni e a scacchi) e di vari colori (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). La presenza della virgola prima di with monograms (coi monogrammi in indaco) mi pare dimostri quasi sicuramente il riferimento dei monogrammi a tutti i tipi di camicia. Del resto, una persona cifra tutte le camicie (per marcarne l’appartenenza e l’identità), non solo un certo tipo. Sia i colori sia il monogramma, quindi, si riferiscono, a mio modo di vedere, a tutte le camicie, non soltanto a quelle a scacchi.
La traduzione in italiano, pur fedele, rende meno tutta la distinzione che, invece, si nota meglio nel testo originale (anche se l’assenza della virgola dopo plaids lascia un certo margine di ambiguità). La differenza fra testo originale e traduzione risiede nel modo di elencare: il primo per polisindeto, cioè attraverso l’accumulo della congiunzione and (e); il secondo per asindeto nella prima parte (a righe, a disegni, a scacchi) e per polisindeto nella seconda (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). L’elencazione per polisindeto rallenta la prosa, quella per asindeto, al contrario, la velocizza.
Raphael Merida
QUESITO:
Potreste indicarmi quale delle due versioni che seguono sia più corretta?
- Mi ha chiamato o mi ha chiamata (se donna);
- Ci hai inibito o ci hai inibiti?
RISPOSTA:
Tutte le varianti sono corrette. In casi come questi, cioè quando le particelle pronominali ricoprono la funzione di complemento oggetto e si trovano prima del verbo, è possibile scegliere liberamente l’accordo sia per il genere (anche se il pronome indica una persona di sesso femminile), sia per il numero. Questa libertà non vale per i pronomi di terza persona singolare e plurale per i quali l’accordo di genere e numero del participio con l’oggetto è obbligatorio: «Li ho visti» (e non *li ho visto); «l(a) ho mangiata» (e non *l(a) ho mangiato).
Raphael Merida
Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?
L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:
- a) Ce ne sono (tante) di cose!
- b) Ne ha fatte (tante) di cose!
Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:
- c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
- d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
- e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.
Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.
Quello che mi chiedo è:
Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?
- f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?
RISPOSTA:
La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.
In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».
In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale fra le due seguenti affermazioni è la più corretta e formale?
1) serve un sacco di cose
2) servono un sacco di cose
Io personalmente credo che la prima sia la più formale in quanto richiama una concordanza grammaticale, mentre la seconda più diffusa nel linguaggio confidenziale sembra accordata “ad orecchio”.
RISPOSTA:
Senza dubbio la prima è più formale e ineccepibile, dal punto di vista grammaticale, dato che «un sacco», testa del sintagma, è singolare. Il secondo è un caso normalissimo (e ormai accettato anche dall’italiano standard) di concordanza a senso, in cui la concordanza del verbo al plurale si spiega con il fatto che l’intera espressione «un sacco di X» indica una molteplicità, del tutto equivalente a «molti X». Inoltre, dato che è la stessa espressione «un sacco di» ad essere informale e colloquiale, e dato che essa si è del tutto lessicalizzata come pressoché assoluto sinonimo di «molti», la concordanza “grammaticale” col verbo al singolare appare in questo caso un’inutile, e un po’ goffa, pedanteria. Si può aggiungere, infine, che talora al Nord può essere preferita la prima forma (col verbo al singolare) non in quanto più formale, bensì in quanto più vicina ad analoghi casi (ma stavolta non standard) di italiano regionale con verbo al singolare accordato a soggetto plurale, come per esempio «ce n’è molti».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il condizionale passato può essere impiegato – come spiegato a più riprese – per indicare il futuro nel passato; può, però, esprimere anche anteriorità rispetto a un dato momento di riferimento e, nel contempo, mantenere la sua funzione di eventualità?
In un periodo come quello riportato più sotto, l’azione descritta con il condizionale passato sarebbe interpretata come anteriore, posteriore (rispetto a quella della subordinata) o sarebbero possibili entrambe le soluzioni?
1. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero lasciato la spiaggia.
In assenza di altri elementi, la semantica mi porterebbe a optare per l’interpretazione posteriore; ma, in astratto, potrebbe anche essere vero il contrario.
Con verbi differenti, ad esempio, non avrei alcuna esitazione a stabilire il rapporto tra le due proposizioni.
2. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa (condizionale passato = posteriorità rispetto al congiuntivo trapassato: Laura raggiunge lo stabilimento e i suoi amici, dopo, vanno a casa).
3. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero stati a casa (condizionale passato = anteriorità rispetto al congiuntivo trapassato. Laura raggiunge lo stabilimento, ma i suoi amici se ne sono andati a casa).
In sintesi, il condizionale passato, a seconda dei casi, può esprimere anteriorità o posteriorità rispetto a un momento di riferimento (anche tralasciando l’enunciazione), come negli esempi sopra indicati?
Riguardo al periodo 1, l’inserimento di un avverbio come già potrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione temporale dell’azione, spingendo a considerare la proposizione espressa con il condizionale passato nel passato rispetto alla subordinata? (“Laura sapeva che nel momento in cui avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero già lasciato la spiaggia” = Gli amici di Laura hanno lasciato la spiaggia prima che lei abbia raggiunto lo stabilimento).
RISPOSTA:
Il condizionale descrive un evento condizionato rispetto a un altro condizionante (tipicamente costruito con una proposizione ipotetica); il rapporto tra la condizione e la conseguenza attiva automaticamente un rispecchiamento temporale in cui la condizione precede la conseguenza. Questa funzione modale e temporale che lega la proposizione con il condizionale alla proposizione con il congiuntivo (o l’indicativo) da essa dipendente si intreccia con quella relativamente temporale che lega la stessa proposizione con il condizionale a quella che la regge (se la frase la prevede). In questa seconda relazione entra in gioco il valore di futuro nel passato.
In particolare, quando la reggente è al presente, quindi il momento dell’enunciazione è presente, il condizionale passato descrive un evento anteriore, quindi passato: “Penso [adesso] che lui avrebbe agito diversamente [nel passato] se le condizioni lo avessero consentito”. Lo stesso vale se il momento dell’enunciazione è futuro: “Ti renderai conto che lui avrebbe agito diversamente…”. Se il momento dell’enunciazione è passato, la funzione relativamente temporale del condizionale passato diviene di posteriorità (è il cosiddetto futuro nel passato). Per questo, nelle sue tre frasi, gli eventi al condizionale passato sono sempre successivi a quello del sapere espresso nella proposizione principale Laura sapeva. Per quanto riguarda la relazione tra la proposizione con il condizionale e la subordinata al congiuntivo nelle sue frasi, bisogna considerare l’ambiguità provocata dalla semantica dei verbi e dalla congiunzione che introduce la subordinata stessa. Nella frase 1 non c’è dubbio che l’evento del lasciare sia conseguente, quindi anche successivo, a quello del raggiungere; nella frase 2 l’evento dell’andare potrebbe essere avvenuto precedentemente a quello del raggiungere, quindi potrebbe non esserne la conseguenza. Questa possibilità vale perché la locuzione congiuntiva nel momento in cui ammette un’interpretazione temporale, quindi è possibile che l’andare segua il sapere ma preceda il raggiungere. Questa interpretazione non sarebbe possibile se al posto di nel momento in cui ci fosse se (“Se avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa” = gli amici vanno certamente via come conseguenza dell’arrivo di Laura, quindi dopo). Lo stesso vale a maggior ragione per la frase 3, in cui il verbo essere costringe a un’interpretazione anteriore rispetto a raggiungere (ma comunque sempre successiva a sapere), perché indica uno stato e non un’azione (diversamente da lasciare e andare). Nella frase, infatti, la congiunzione se sarebbe ammessa soltanto con una sfumatura concessiva (se = anche se), perché rappresentare un evento precedente a un altro come la conseguenza di quest’ultimo sarebbe incoerente. Ovviamente, l’aggiunta di già enfatizza la precedenza dell’essere rispetto al raggiungere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?
RISPOSTA:
In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ormai siamo (quasi) tutti d’accordo che QUAL, avendo forma autonoma, non necessiti di apostrofo. Si dirà quindi: “Qual è la tua opinione, qual era la tua opinione” etc. Ma davanti a un sostantivo si usa QUAL o QUALE? Esempio: si può scrivere “Quale insalata preferisci?” oppure, avendo forma autonoma, si deve scrivere “Qual insalata preferisci?” Ancora: Lei scriverebbe “Quale evento della tua vita…” oppure “Qual evento della tua vita…”.
RISPOSTA:
La forma apocopata qual non ha restrizioni: in astratto è utilizzabile sempre. È, però, di fatto rarissima; si usa quasi esclusivamente davanti alle forme verbali è e era e nell’espressione qual buon vento. Per il resto si usa sempre quale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Tutto bene, davvero non vi preoccupate per me”, tutto è pronome, aggettivo o nessuno dei due? Inoltre, ha la funzione sintattica di soggetto?
RISPOSTA:
Nella frase tutto equivale a ‘tutte le cose, ogni cosa’, quindi è un pronome. La frase “Tutto bene” è analizzabile come frase nominale, cioè priva di verbo. In una frase senza verbo l’identificazione del soggetto è complicata, visto che quest’ultimo si definisce come il costituente sintattico con cui il verbo concorda. D’altro canto, è facile riconoscere la costruzione verbale soggiacente quella non verbale: “Va tutto bene”; in questa frase tutto ha proprio la funzione di soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Anche dopo aver fatto alcune ricerche online, con i seguenti verbi non so quale sia l’ausiliare corretto.
1.Questi Paesi sono progrediti/hanno progredito nella civiltà.
2. Sono progredito/ho progredito nel cammino.
3. Ho/sono proceduto lentamente.
4. Ho/sono proceduto lentamente negli studi.
5. Le proteste hanno proseguito/sono proseguite.
6. La casa è bruciata/ha bruciato.
7a. Ho scivolato con la moto per 20 metri (forse è intenzionale?)
7b. Sono scivolato con la moto per una ventina di metri (forse non è intenzionale).
RISPOSTA:
Non esiste una regola che determini la scelta dell’ausiliare con i verbi intransitivi e per sciogliere il dubbio spesso bisogna consultare il vocabolario. Tuttavia, una delle proposte più diffuse e accettata da grammatiche e vocabolari suggerisce di usare essere se il participio del verbo intransitivo può essere usato come attributo (per esempio “gli avvenimenti accaduti un anno fa” > “gli avvenimenti sono accaduti un anno fa”); suggerisce di usare avere se il participio del verbo non può assumere funzione attributiva (con il verbo dormire, per esempio, non si può costruire una frase come “il ragazzo dormito qua”). Ma andiamo all’analisi delle frasi qui proposte.
1. Il verbo progredire ha il significato di ‘evolversi per migliorare’ e può essere costruito sia con essere sia con avere.
2. Il verbo progredire ha il significato di ‘andare avanti’ e, anche in questo caso, può essere costruito sia con essere sia con avere.
3. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘avanzare’, può avere sia l’ausiliare essere sia l’ausiliare avere.
4. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘continuare qualcosa che si è intrapreso’ richiede soltanto l’ausiliare avere, quindi “Ho proceduto negli studi”.
5. Anche con il verbo proseguire si possono avere entrambi gli ausiliari.
6. Nel significato proprio di ‘andare a fuoco’, il verbo bruciare richiede soltanto l’ausiliare essere; quando bruciare è usato in senso transitivo, per esempio nel significato di ‘scottare’ si può avere l’ausiliare avere: “Il caffè mi ha bruciato la lingua”.
7a e 7b. In entrambe le frasi l’ausiliare richiesto è essere. L’ausiliare avere, ma sempre in alternanza con essere, è possibile soltanto nell’accezione di ‘scorrere rapidamente su una superficie che non oppone resistenza’: “Lo slittino ha scivolato sulla pista ghiacciata”, ma più comune “Lo slittino è scivolato sulla pista ghiacciata”.
Raphael Merida
QUESITO:
A) Spererei che venisse.
B) Spererei che venga.
C) Spererei che verrebbe.
Sono tutte accettabili? Il mio dubbio riguarda l’ultima opzione.
Dopo i verbi di volontà e desiderio solitamente non si può utilizzare il condizionale, e il verbo sperare mi sembra che ne faccia parte, come volere, preferire e simili.
È anche vero che la frase C potrebbe sottintendere una protasi dipendente dall’oggettiva e una dipendente dal verbo principale:
“[Se fossi lì] spererei che [se ci fosse la possibilità] verrebbe”.
RISPOSTA:
La soluzione preferibile è la A; la B è accettabile, anche se il verbo sperare rientra tra quelli di desiderio, che preferiscono il congiuntivo imperfetto nell’oggettiva per esprimere contemporaneità (si veda questa risposta). La C è la più sospetta: per quanto non ci siano ostacoli grammaticali alla costruzione di questa oggettiva con il condizionale (un caso simile è la soggettiva sarebbe impensabile che rimarrei a casa commentata nella stessa risposta a cui si è rimandato sopra), tale costruzione è sicuramente sconsigliabile, perché la sfumatura semantica aggiunta dal condizionale è appena percepibile, vista la presenza del condizionale nella proposizione reggente, ed è ottenuta al costo di appesantire notevolmente la costruzione. Anche se l’oggettiva reggesse a sua volta una proposizione condizionale, come nella sua riformulazione della frase, il condizionale non sarebbe comunque necessario (anzi, risulterebbe ancora più innaturale), e il congiuntivo imperfetto rimarrebbe la soluzione migliore: “Spererei che se ci fosse la possibilità venisse”.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1)Ripensandoci meglio, ho dovuto rettificare/emendare/correggere il mio precedente “sì” in un “no”.
2) ho dovuto specificare il mio “no, grazie, non posso venire” in “no, non verrò MAI”.
È legittimo questo uso di questi verbi con la preposizione “in”?
La sua funzione che sembra avere, ammesso che siano corrette le frasi, è la stessa che hanno verbi come “trasformare”, “cambiare” e simili:
– Lo ha trasformato in un brav’uomo.
– Ho cambiato una banconota da 20 euro in monete da 2 euro.
– Il malcontento si tradusse in rivolta.
Il complemento in questione non saprei descriverlo, in quanto in maniera generica parlerei di “complemento di moto a luogo figurato”, per via del passaggio/della transizione che sembra essere da una condizione all’altra, da uno stato all’altro.
Per quanto riguarda la prima frase sono sicuro di aver letto e sentito frasi simili.
Per quanto riguarda la seconda, col verbo “specificare”, invece no, in quanto ho pensato che potesse avere senso e rientrare in quel tipo di frase che riguarda appunto “trasformare” e affini.
RISPOSTA: solitamente
La preposizione in non è appropriata con nessuno dei quattro verbi. Semmai, potrebbe essere usata la preposizione con, con funzione di introduttore di complemento di mezzo: correggere/emendare/rettificare/specificare A con B. Inoltre, emendare solitamente è costruito soltanto con il complemento oggetto e non con altro complemento che indichi la versione sostituita a quella emendata. Più o meno lo stesso vale per rettificare. Se segue un altro complemento, oltre all’oggetto, con emendare, esso è introdotto o da da o da di, per intendere i difetti dai quali (o dei quali) il documento è stato emendato: «emendare qualcosa dai (o dei) vizi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Gli studiosi si sono chiesti come sarebbe andata a finire». In questo caso «chiesti» mi pare decisamente corretto. Se dico però: «Gli studiosi se lo sono chiesti», quel «chiesti» è altrettanto corretto o è necessario dire «chiesto»? Oppure entrambe le soluzioni sono accettabili?
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni sono corrette e con frequenze analoghe, in italiano. Infatti, se ricerchiamo le frequenze odierne in Google, troviamo 55.200 risultati per «se lo sono chiesti», contro 58.400 per «se lo sono chiesto». Quindi con una lieve prevalenza per l’accordo con l’oggetto. Come si può facilmente verificare sia nella Grammatica di Serianni (per es. la Garzantina), sia nella Grande grammatica italiana di consultazione di L. Renzi, G. Salvi e A. Cardinaletti (il Mulino), cioè le due più accreditate grammatiche dell’italiano, opposte nella concezione tanto da essere complementari, l’accordo del participio passato presenta una tipologia variegatissima in italiano, secondo mille variabili: a volte si tratta di cambiamento nel tempo, altre volte di usi regionali, altre volte di registro, altre volte ancora dipende dal tipo di verbo e finanche dal suo significato; molto spesso, infine, l’accordo è del tutto libero, cioè sono ammesse tutte le forme (cioè l’accordo o col soggetto, o con l’oggetto, o, addirittura, nessun accordo, cioè il maschile indistinto non marcato). Data la ricchezza di usi e possibilità, è impossibile ripercorrere qui le coordinate dei vari costrutti. Pensi però a usi (tutti possibili) come i seguenti:
– me ne sono bevuta/o una (di birra) – ma: ho bevuto una birra
– se lo sono visti/o davanti (l’orso) – ma: hanno visto l’orso
– ne hanno prese/o/i due (di scatole) – hanno preso due scatole
– ne ho comprati/o/e due chili (di mele) – ma: ho comprato due chili di mele
– Paola non se ne è mangiati/a per niente (di biscotti) – ma: Paola non ha mangiato i biscotti.
Come linea di tendenza molto generale, l’accordo col soggetto e la forma senza accordo sono più rari, nei verbi pronominali con oggetto, laddove la forma preferita è quella dell’accordo con l’oggetto. Ma, come ha visto, le eccezioni sono numerose.
La lingua italiana, e qualunque altra lingua del mondo, è fatta di un’estesa «zona grigia», come la chiamava Serianni, cioè di usi plurimi tutti ammessi dalla norma. Il grigio (con tutte le sue sfumature), dunque, più del bianco o del nero, è il colore che si addice alla grammatica.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale fra queste due affermazioni è corretta dal punto di vista grammaticale?
1) L’ultima sua opera è stato un libro.
2) L’ultima sua opera è stata un libro.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: il participio passato della copula può concordare con il soggetto o con il nome del predicato, se è un nome di genere diverso dal soggetto, come in questo caso. Si noti che il participio passato dei verbi copulativi preferisce di gran lunga l’accordo con il soggetto (“L’ultima sua opera è sembrata un capolavoro”; meno comune “… è sembrato un capolavoro”), mentre il participio passato dei verbi che richiedono il complemento predicativo del soggetto concorda soltanto con il soggetto (“L’ultima sua opera è stata ritenuta un capolavoro”; non *”… è stato ritenuto un capolavoro”).
Si noti che se il nome del predicato o il complemento predicativo è plurale mentre il soggetto è singolare, il verbo in qualsiasi sua forma preferisce di gran lunga la concordanza con il nome del predicato o il complemento predicativo, non con il soggetto (“Il suo miglior piatto sono / sono state / sembrano / sono sembrate / sono ritenute le lasagne”). Al contrario, nei pochi casi in cui il soggetto è plurale e il nome del predicato o il complemento predicativo è singolare, il verbo concorda con il soggetto (“I suoi amici sono la sua famiglia”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:
1) Mario era troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.
2) Mario era troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.
3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.
Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?
RISPOSTA:
Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era troppo grande perché lo si capisse”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Era uno dei miei pregi, o almeno credevo che fosse tale.”
Tale dovrebbe equivalere a un pregio. Dal punto di vista logico, non mi pare che la costruzione presenti grandi difficoltà interpretative; ma, dal punto di vista sintattico, _tale_ si riferisce a un termine che nel testo non compare, se non nella forma plurale (uno dei miei pregi).
Considerando ciò, il periodo è corretto?
RISPOSTA:
Il periodo è corretto. Bisogna precisare intanto che il referente uno dei miei pregi è singolare (appunto uno), non plurale. Può, comunque, capitare che un elemento anaforico rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore, ma semmai come una costruzione tipica del parlato; per esempio “Non c’è neanche uno yogurt in frigo? Ma se ne ho presi sei l’altro giorno!” (ovvero ho preso sei yougurt).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho preparato questo quesito perché, talvolta, ho difficoltà a capire su chi ricada l’azione della subordinata. La regola secondo cui, se non vado errata, è consigliata (tranne alcuni casi) la forma implicita, laddove vi sia identità di soggetto tra la reggente e appunto la subordinata, non so se possa essere applicata agli esempi proposti:
1) Stefano ha chiesto ad Alessia di uscire.
2) Stefano ha detto quella bugia ad Alessia per illuderla di aver ragione.
Riguardo al primo esempio: Stefano ha chiesto ad Alessia che fosse lei ad uscire, oppure Stefano ha chiesto il permesso per uscire ad Alessia?
Riguardo al secondo esempio: la bugia è stata detta ad Alessia per illuderla che Stefano avesse ragione, oppure Stefano, con quella bugia, ha voluto illudere Alessia?
Vorrei infine aggiungere un terzo esempio. Stavolta si tratta di un’interrogativa indiretta; ma l’incertezza sui rapporti semantici tra le parti permangono:
3) Stefano ha chiesto ad Alessia se poteva/potesse uscire.
Stessa criticità: chi “poteva (o potesse) uscire” tra i due?
RISPOSTA:
La regola generale dice che la subordinata completiva implicita presuppone che il soggetto sia lo stesso della reggente; ci sono, però, dei casi in cui questa regola entra in competizione con altre regole, oppure con la logica ingenua del parlante, con l’effetto di creare confusione nel parlante stesso. Nella frase 1) il problema è causato dalla polisemia del verbo chiedere: se lo intendiamo come ‘chiedere il permesso’ allora la subordinata rientra nella regola dell’identità di soggetto, per cui è Luca che vuole uscire; se, invece, lo intendiamo come ‘richiedere’, la subordinata rientra nella regola della costruzione con i verbi di comando, che prevede l’identità tra il soggetto della subordinata e l’oggetto del comando. In questo secondo caso, quindi, è Alessia che deve uscire. C’è anche una terza possibilità, attivata dal verbo chiedere in combinazione con uscire, e cioè che Luca abbia invitato Alessia a un appuntamento romantico. In questo caso la subordinata ha come soggetto loro, che non coincide né con Luca né con Alessia: la soluzione regolare sarebbe, quindi, “Luca ha chiesto ad Alessia che uscissero”, che, però, sarebbe interpretata piuttosto come ‘… ha richiesto ad Alessia di far uscire altre persone’. Con questo terzo significato, la costruzione più comune sarebbe ancora “Luca ha chiesto ad Alessia di uscire”, a rigore non corretta. La disambiguazione tra le tre possibilità sarà garantita dal contesto; la soluzione 3), invece (pure possibile), non aiuta completamente, perché l’inserimento di potere esclude la terza interpretazione, ma lascia aperte le prime due (anche se la seconda sarebbe molto favorita): nel primo caso potere sarà interpretato propriamente come ‘avere il permesso’; nel secondo sarà interpretato come segnale di cortesia, quindi la frase sarebbe la variante indiretta di “Alessia, puoi uscire, per favore?”.
Per quanto riguarda la frase 2), l’identificazione del soggetto di aver ragione è problematica perché l’oggetto pronominale della proposizione reggente (la) è sentito come un possibile candidato, anche se a rigore non lo è: il soggetto di aver è Stefano, ovvero il soggetto della proposizione reggente; se, invece, si vuole che il soggetto sia Alessia, bisognerà costruire la subordinata in modo esplicito: “…illuderla che avesse ragione”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.
1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.
Cerco di contestualizzare.
Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:
“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).
Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:
“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.
RISPOSTA:
L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).
A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.
In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La costruzione sotto indicata dovrebbe essere valida:
“Sia l’indicativo sia il congiuntivo sono ammessi.”
Due domande in proposito: sarebbe accettabile anche la coniugazione al singolare del verbo (è ammesso)?
E se il parlante decidesse di anteporre il predicato, quale soluzione sarebbe preferibile?
“È ammesso sia l’indicativo sia il congiuntivo”, “Sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo.”
RISPOSTA:
La correlazione di sia… sia equivale alla coordinazione con e, quindi sia l’indicativo sia il congiuntivo equivale a l’indicativo e il congiuntivo. Ne consegue che il verbo deve essere coniugato al plurale, qualunque sia la sua posizione rispetto al soggetto. Il verbo al singolare, attratto dalla forma singolare del soggetto più vicino (“Sia l’indicativo sia il congiuntivo è ammesso“, o “È ammesso sia l’indicativo sia il congiuntivo “), è un errore non grave, accettabile in contesti informali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulle frasi seguenti.
1a. È la prima volta che vedo questo film.
1b. È la prima volta che ho visto questo film.
1c. È stata la prima volta che ho visto questo film.
2a. Visto/viste tutte le poesie, abbiamo deciso che…
2b. Dato/dati i risultati, abbiamo deciso che…
RISPOSTA:
Nel primo gruppo di frasi la proposizione subordinata è di fatto una relativa (il che che la introduce è detto polivalente, ma la proposizione si comporta comunque come una relativa), quindi ha ampia libertà nella scelta del tempo verbale. La logica esclude la 1b, perché se la prima volta è presente anche la visione del film deve essere presente. Le altre due sono corrette. Nel secondo gruppo i participi passati concordano con i soggetti delle subordinate implicite (le poesie e i risultati): le proposizioni, infatti, sono equivalenti a “Essendo state viste tutte le poesie” e “Essendo stati dati tutti i risultati”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?
Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?
In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?
Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”
RISPOSTA:
La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.
C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».
Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tutte e tre le varianti sono ammissibili?
“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).
Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?
“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.
La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.
Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Salve quale affermazione è corretta?
Grazie per esserci stata vicinO
Grazie per esserci stata vicinA
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, perché vicino ha due diversi valori in italiano: come aggettivo o come avverbio. Come aggettivo richiede l’accordo di genere e di numero («stati vicini», «state vicine») con il nome o il pronome cui si riferisce, come avverbio è invece invariabile. Pertanto in «Grazie per esserci stata vicina», vicino è un aggettivo e come tale va accordato con il soggetto (sottinteso) cui si riferisce (cioè tu). In «Grazie per esserci stata vicino» invece vicino è un avverbio e come tale non cambia né nel genere né nel numero («stati vicino», «state vicino»). Come avverbio vicino è simile a «accanto».
Il significato delle due frasi non cambia nella sostanza, anche se il valore aggettivale è meno impersonale e dunque, in certo qual modo, più caloroso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre due quesiti che mi attanagliano:
«È/è stata la cosa migliore che avremmo/avessimo potuto fare»?
«Mi sembra tutto/tutta una follia»
Credo siano tutte forme corrette, ma vorrei capire nello specifico che cosa cambi.
RISPOSTA:
Sì, in entrambi i casi entrambe le varianti sono corrette, senza alcun cambiamento semantico rilevante.
Nella prima variante della prima frase, la prospettiva è quella di considerare la cosa da fare come un futuro nel passato: io adesso racconto che nel passato avremmo potuto fare una cosa (cioè nel futuro rispetto al passato, ma comunque nel passato rispetto a ora) che effettivamente poi abbiamo fatto (nel passato). Nel secondo caso, invece, prevale il punto di vista di considerare la cosa come semplicemente passata. Esiste inoltre una terza possibilità, cioè quella dell’imperfetto congiuntivo: «È/è stata la cosa migliore che potessimo fare». Quest’ultima variante, che indica contemporaneità (e/o possibilità) nel passato, funziona meglio con la reggenza al passato («È stata la cosa»), tuttavia funziona anche in dipendenza dal presente («È la cosa»), in quanto rimane tuttora, a ripensarci, la cosa migliore (che potessimo/avremmo potuto/avessimo potuto fare). Tra tutte le soluzioni, quella che mi pare più naturale è «È [perché lo è tuttora] la cosa migliore che potessimo fare», oppure, in modo ancora più semplice e chiaro (e dunque sempre preferibile: perché complicare e complicarci la vita?), «Abbiamo fatto la cosa migliore».
Nella seconda frase, l’accordo può avere come testa sia il soggetto ([Ciò] mi sembra tutto una follia»), sia il predicativo del soggetto («una follia»). Nel primo caso, inoltre, si può anche sostenere che «tutto» sia un soggetto posposto e comunque il significato della frase non cambierebbe.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel caso seguente, cos’è più corretto?
«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante»
oppure
«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuovo, nato da un esperimento interessante».
Ossia, la concordanza dell’aggettivo va fatta con “un tipo” o con “sedia”?
RISPOSTA:
La concordanza corretta è soltanto quella al maschile, con «un tipo», che è la testa del sintagma «un tipo di sedia». Se vuole la concordanza al femminile non deve usare «un tipo di sedia» ma «una sedia»: «La ZIPPO è una sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante».
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggo su un giornale a diffusione nazionale quanto dichiara un noto giornalista: «Vi spiego come si diventa giornalista». Io avrei usato il plurale: «Vi spiego come si diventa giornalisti». Sono corrette entrambe le varianti? Se sì, quale si fa preferire?
RISPOSTA:
Le due forme sono del tutto equivalenti, sul piano strutturale e stilistico, e dunque entrambe perfettamente corrette in italiano. Il singolare si riferisce al ruolo, mentre il plurale dà più rilievo alle persone che ricoprono quel ruolo. Capisco la sua preferenza: parlando a un uditorio ampio, per esempio a studenti e studentesse, puntare alla concreta possibilità che ciascuna/o di loro diventi giornalista può sembrare più efficace. Però a favore del singolare rema l’essere adatto sia a un uomo sia a una donna, laddove il plurale al maschile indistinto, oggi più che mai, può essere comprensibilmente avvertito come discriminatorio. Allora al plurale sarebbe bene aggiungere “e giornaliste”. Il singolare è più economico e più inclusivo e quindi, in fin dei conti, preferibile: laddove la morfologia aiuta l’inclusività è sempre bene sfruttarne le risorse.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?
«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»
O ancora:
«Perché non si è intervenuto/i prima?».
RISPOSTA:
Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.
I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo all’uso del termine quest’ultimo, per il fatto che ho paura che ci siano dei fraintendimenti nelle frasi e nei concetti espressi. L’esempio è questo:
«Carla l’ultima volta che l’ho vista indossava una giacca di lana, quest’ultima era molto bella e aveva un colore blu scuro”. In questa frase è possibile che ci sia l’ambiguità quando si usa quest’ultima insieme agli aggettivi bella e di colore blu scuro, che magari non si capisce se questi aggettivi sono riferiti alla giacca come capo d’abbigliamento nella sua interezza o specificamente e solamente alla stoffa di lana di cui è composta la giacca? Chiedo questo perché l’ultimo sostantivo in ordine di apparizione nella frase è la parola lana che viene dopo la parola giacca, quindi quest’ultima potrebbe sembrare si riferisca solo a lana anziché a giacca.
RISPOSTA:
In effetti è spesso problematico il recupero anaforico di quest’ultimo, motivo per cui, in casi dubbi, è meglio ripetere il sintagma piuttosto che pronominalizzarlo con quest’ultimo. Ora nel caso che pone lei il buon senso aiuta a non riferirsi alla lana, ma all’intero capo di abbigliamento, però ci sono casi davvero problematici, soprattutto nei giornali, e soprattutto, come dice lei, nel caso di sintagmi che dipendono da altri sintagmi. Per esempio: «Il figlio del tabaccaio è stato rapito. Quest’ultimo aveva trent’anni». Chi, il tabaccaio o suo figlio? Meglio ripetere: Il figlio aveva trent’anni.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette e ben scritte, e se non lo sono, perché. Tra parentesi inserisco i punti che mi interessano:
1) Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre, ecc. (necessaria)
2) Chi è senza, non usa le dovute maniere. (La virgola).
3) Piuttosto che: “Il lavoro nobilita l’uomo”, dovresti dire ecc. (Il “piuttosto che” con discorso diretto)
4) La scuola non solo ti insegna tante cose, ma ti dà la possibilità di conoscere tante persone. (Nessuna virgola dopo “scuola”).
5) Gli uomini hanno costruito le strade per spostarsi. (Hanno costruito).
6) Nel mondo di oggi la vita è pervasa da ecc. (L’assenza della virgola dopo “oggi).
RISPOSTA:
Su alcune si queste abbiamo già pubblicato una risposta, ma la ripetiamo in sintesi.
1) Necessario: qui l’accordo non è con amica, ma con avere un’amica.
2) La virgola può andare, per segnalare l’ellissi, che tuttavia è strana (per l’ellissi e per l’adiacenza senza non), quindi sarebbe bene evitarla (l’ellissi e conseguentemente anche la virgola) prima di aver nominato l’oggetto in forma piena. Per esempio: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarne uno», in questo caso senza virgola, per non separare il soggetto dal predicato.
3) Va bene ma elimini i due punti, perché non è né un vero e proprio discorso diretto (piuttosto la citazione di un proverbio) né un elenco, sibbene una frase linearizzata, senza bisogno di staccarne i costituenti.
4) Senza dubbio senza virgola: mai separare il soggetto dal predicato.
5) Corretta. Costruite sarebbe ridicolmente pomposo e arcaico.
6) Senza virgola, per carità: mai separare il soggetto…
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione esclusi eventi imprevedibili può essere definita corretta. Ho letto che, secondo alcuni studiosi, il termine escluso dovrebbe essere trattato come una sorta di avverbio quando significa ‘ad eccezione di’, per cui nella fattispecie sarebbe corretto usare l’espressione escluso eventi imprevedibili. Io penso che entrambe le soluzioni siano corrette, comunque vorrei il vostro piacere a riguardo.
RISPOSTA:
Il processo di grammaticalizzazione del participio passato (con valore aggettivale o nominale) di escluso, ancora in corso, non può certo dirsi concluso (come invece è accaduto per eccetto). Quindi oggi è decisamente minoritario l’uso di escluso (invariabile) come preposizione (e non avverbio), in casi come escluso la domenica. Decisamente maggioritario (43 mila contro 16 mila oggi in Google) l’uso aggettivale: esclusa la domenica (impossibile invece, oggi, eccetta la domenica). Quindi, oggi è decisamente più corretta (e accetta in tutte le varietà di lingua) la sua frase (esclusi eventi imprevedibili), piuttosto che l’altra (escluso eventi imprevedibili). Chissà, però, che tra cent’anni (più o meno, a grammaticalizzazione conclusa) le cose non si invertano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se con piuttosto che si possano usare i due punti, come nel caso: «Piuttosto che: “L’occasione fa l’uomo ladro”, si dovrebbe dire…».
Inoltre, se nella frase “Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre”, sia giusto mettere “necessaria” e non “necessario”.
RISPOSTA:
No, nel primo caso non si tratta di un elenco, ma di una frase legata, che come tale non richiede i due punti.
Nel secondo caso, l’accordo corretto è al maschile (necessario), perché l’aggettivo non si riferisce all’amica, bensì all’azione (e alla proposizione) avere un’amica.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.
Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.
La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?
RISPOSTA:
L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).
Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.
Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .
Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava, è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).
Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.
Fabio Rossi
QUESITO:
E’ giusto scrivere: “Quadri orario o quadri orari” , “Moduli orari o moduli orario”?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambe le soluzioni, in italiano. L’una, più tradizionale (quadri orari, moduli orari), tratta il secondo termine come aggettivale e dunque lo accorda col sostantivo precedente, mentre l’altra (più sul modello inglese, e dunque forse meno apprezzata in uno stile più tradizionale) tratta orario come sostantivo con ellissi della preposizione reggente: cioè quadro orario = quadro dell’orario. I sintagmi con omissione della preposizione (come anche, ad es., monte ore), ancorché ammissibili, hanno spesso un sapore tra il tecnologico e il burocratico sgradito ai palati più raffinati e pertanto, se possibile, potrebbero essere utilmente sostituiti dai costrutti più tradizionali (quadri orari, moduli orari, monte orario ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.
La lettura di questa frase all’interno di un romanzo, mi ha lasciato alquanto perplessa.
È corretta o l’autore/traduttore ha preso un abbaglio?
Mi è venuto spontaneo formulare due composizioni alternative, che vorrei sottoporre al vostro vaglio.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne compiuti trenta da qualche giorno.
Mi rendo conto che quest’ultima alternativa potrebbe risultare un po’ “pesante“, ma sarebbe grammaticalmente accettabile?
RISPOSTA:
Nessuno degli esempi riportati è corretto. Le uniche versioni corrette sono le seguenti:
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne compiuti trenta da qualche giorno.
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuti trenta da qualche giorno.
In italiano infatti il passato di compiere è ho compiuto, non certo ho avuto compiuto/i.
Per lo stesso motivo, le alternative corrette delle frasi da lei proposte sono le seguenti:
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne compiuti (o averne avuti) trenta da qualche giorno.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne (o compierne) trenta da qualche giorno.
Le ultime due frasi sono comunque troppo faticose (soprattutto la seconda, che, con quel condizionale passato riferito a potere sembra escludere, contraddittoriamente, l’ipotesi dei trent’anni): per esprimere l’eventualità del fatto (cioè l’ipotesi sull’età della sorella), basta o il verbo potere o il condizionale passato, non c’è bisogno di usarli entrambi (il troppo stroppia).
Il motivo dell’errore di avere avuto compiuti in luogo di avere compiuti (nessun errore è immotivato e ogni errore segue sue proprie regole) può essere duplice:
1) lo/la scrivente si confonde tra due possibili costrutti, che combina erroneamente: A) ho trent’anni / B) ho compiuto trent’anni. La confusione è incoraggiata dalla sintassi complessa data dalla formulazione di un’ipotesi fatta su un evento del passato.
2) lo/la scrivente è siciliano/a e dunque tende a preferire costrutti sintetici col participio passato che ritiene italiani mentre invece sono solo regionali. Per es. molti siciliani (quasi tutti) sono persuasi che “come vuoi cucinata la carne”, o “che cosa vuoi regalato per il compleanno” sia costrutti italiani, mentre invece sono validi soltanto in alcune aree regionali. In italiano si dice: “come vuoi che cucini la pasta” e “che cosa vuoi che ti regali (o per/come regalo) per il compleanno”.Fabio Rossi
QUESITO:
Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo
Marco non era a casa
Marco non c’era a casa
Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?
RISPOSTA:
“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle seguenti frasi si accorda o no il participio passato con il pronome diretto?
Frase 1:
Il senso dell’umorismo lo ha aiutato (lui)
Frase 2:
L’ironia lo ha aiutato o
L’ironia lo ha aiutata? (lui)
RISPOSTA:
Il participio passato si accorda, in questo caso, con il pronome, che esprime il complemento oggetto: dunque, essendo maschile, l’unica forma corretta è al maschile. Se ci fosse “la” come pronome, allora il participio andrebbe al femminile: L’ironia la ha (o l’ha) aiutata (cioè lei, per es. Giulia).
Di norma, il participio passato nei verbi composti o non si accorda (è cioè al maschile indistinto): ti ho scritto una lettera. Oppure si accorda con l’oggetto se è transitivo attivo (l’ho salutata), con il soggetto se è intransitivo (Giulia è andata) oppure transitivo passivo (Giulia è stata promossa).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?
RISPOSTA:
Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come già chiarito in passato, nonostante alle scuole mi abbiano insegnato che
quando si dal del Lei ad una persona si accorda al femminile (es. “Signor Verdi la
vedo stanca), Lei mi ha insegnato che al giorno d’oggi è consentito l’accordo al
maschile anche quando si da del Lei (es. “Signor Verdi La vedo stanco)…
Io sono d’accordo con Lei e la ringrazio per questo suo chiarimento, tuttavia
alcuni insegnanti di lettere miei amici dicono che accordare al maschile “la vedo
stanco” sia errato.
Ribadisco che invece io sono d’accordo con Lei.
Cosa ne pensa di questi insegnanti?
Volevo porLe una domanda ancora:
dando appunto del Lei ad una persona di sesso maschile, si dice “Signor Verdi
l’avrei chiamata o l’avrei chiamato?”
RISPOSTA:
Come giustamente ricorda Lei, sebbene l’accordo grammaticale richieda il femminile con l’allocutivo di cortesia Lei, l’italiano comune prevede che, per gli aggettivi connessi a un destinatario maschile, si violi l’accordo preferendo il maschile al femminile. Tuttavia questo non può accadere per l’accordo del participio passato, dal momento che l’accordo al maschile lascerebbe intendere, erroneamente, che ci si riferisse, non deitticamente, a qualcuno diverso dall’allocutario. Infatti, nell’esempio da Lei fornito, “Signor Verdi l’avrei chiamata” è l’unica forma corretta per rivolgersi all’uomo cui ci si sta rivolgendo, laddove, invece, “l’avrei chiamato” si riferirebbe ad altro uomo esterno alla conversazione. Naturalmente, in caso di allocutaria, il fraintendimento rimane, sebbene nel contesto dialogico l’interpretazione preferenziale sia sempre quella del riferimento alla persona cui si sta dando del Lei: “Signora l’avrei chiamata”. Ovviamente sarebbe la stessa forma anche se il “chiamata” si riferisse ad altra persona: “L’avrei chiamata, sua figlia”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quali delle seguenti varianti sono corrette?
“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.
“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.
RISPOSTA:
Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lo, la, li, le, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con mi, ti, ci, vi, ne, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atleta, artista, collega, nipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della parola ore. In un elenco di attività quale forma è corretta?
• H 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• H 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
oppure
• 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
Ne approfitto per chiarire un altro dubbio: se in un testo si elencano i tempi scuola di un Istituto, il titolo dovrà essere al singolare o al plurale, precisamente:
Tempo scuola / Tempi scuola
– Scuola Carducci dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00
– Scuola Falcone dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle 16.30
RISPOSTA:
Per la verità nei suoi esempi la parola ore non appare, ma appare H, che sta per l’inglese hour ed è entrato stabilmente nell’uso. La presenza dell’intervallo di tempo rende non necessario specificare che si tratta, appunto, di un orario, ma niente vieta di specificarlo ugualmente, come fa lei oppure con ore 12:00-13:00 saggio di chitarra… Nella stringa 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ovviamente, sarebbe bene indicare anche l’orario di chiusura dell’attività. Aggiungo che negli orari in italiano si preferisce separare i minuti dalle ore non con il punto, come fa lei (uso che rimanda al mondo anglofono), ma con la virgola o i due punti.
L’espressione polirematica tempo scuola indica i limiti temporali massimi all’interno dei quali possono essere organizzati schemi orari diversi, a seconda delle attività offerte e selezionate dalle famiglie degli studenti. Ne consegue che la forma più calzante sia il singolare nel caso ci si riferisca a un istituto, plurale, ma anche singolare, se ci si riferisce a più istituti (o più plessi dello stesso istituto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se email è da considerarsi di genere femminile o maschile
RISPOSTA:
Il nome e-mail (o email) è stabilmente usato come femminile, sulla base della vicinanza semantica con il nome italiano lettera (oppure posta). In astratto sarebbe possibile considerarlo maschile, visto che la regola del genere dei nomi stranieri stabilisce di usarli tutti come maschili (tranne quelli che nella lingua d’origine sono femminili), ma l’uso femminile è talmente radicato da essere difficilmente modificabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La seguente concordanza fra aggettivo e sostantivi è corretta? Le sue grandissime esperienza e capacità.
Grandissime sarebbe rivolto a tutti e due i nomi.
RISPOSTA:
La concordanza è corretta, anche se la sequenza aggettivo plurale – nome singolare può risultare sgradevole, per la sua rarità. Tale sequenza si può evitare ripetendo l’aggettivo: la sua grandissima esperienza e la sua grandissima capacità, oppure riformulando la frase, per esempio: la sua esperienza e la sua capacità, entrambe grandissime.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se nella frase “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA desiderano…” è scorretto l’uso del verbo al plurale.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è L’istituto comprensivo, quindi il verbo va concordato al singolare. La concordanza al plurale è accettabile soltanto in un contesto informale (quale non sembra essere quello in questione). Attenzione: bisogna anche chiudere il complemento incidentale con una virgola, pertanto: “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA, desidera…”
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra le due affermazioni è la più formale?
Quanto alto è Mario?
Quanto alto sarà Mario?
Inoltre ho visto che va molto di moda ultimamente mettere l’asterisco per rendere “neutri” i sostantivi (asterisco egualitario di genere) che se non ho capito male, sarebbe invece consigliato rivolgersi ad entrambi i sessi con il maschile plurale secondo canoni formali della lingua italiana.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette (anche se sarebbe meglio anteporre il verbo: Quanto è alto, Quanto sarà alto Mario?), soltanto che in questo caso il futuro ha un valore epistemico, cioè indica un certo grado di dubbio o probabilità: “mi chiedo quanto possa essere alto Mario” ecc. Dato che ogni domanda (che non sia retorica) contiene in sé un elemento dubitativo (altrimenti se si sapesse già la risposta non si farebbe la domanda), in questo caso il futuro è tutto sommato pleonastico, in quanto equivalente al presente.
Il problema dell’uso dell’asterisco, o dello schwa, a scopo inclusivo, ovvero per rendere sia il maschile, sia il femminile, sia per includere nel novero persone non binarie, è, soprattutto in questi giorni, più vivo che mai e non può essere riassunto in poche battute qui. Ognuno ha le sue idee, legittimamente. Ovviamente la soluzione dell’asterisco e dello schwa violano le attuali norme ortografiche e morfologiche dell’italiano, ma ogni lingua evolve anche a costo di infrazioni del sistema. Pertanto se tali istanze inclusive (di per sé nobilissime, ovviamente, in qualunque società civile) venissero sentite dalla maggioranza degli utenti come necessarie alla comunicazione, il sistema linguistico non potrà non esserne influenzato e dunque l’asterisco e/o lo schwa saranno inclusi nel nostro sistema ortografico e morfologico, con buona pace degli oppositori e delle petizioni. Del resto, non è questo l’unico caso, nella storia della lingua, di vistosi cambiamenti del sistema ortografico: quando io andavo alle scuole elementari era ancora ammessa la grafia ò, ài, à, in luogo di ho, hai ha.
Morale della favola: non parlerei di corretto/scorretto, nei casi di asterisco o di schwa, ma di sentito o no come urgente, usato o no da un congruo numero di utenti ecc. Peraltro, il fatto che oggi si utilizzi il maschile indistinto (eviterei l’uso della parola “neutro”, visto che l’italiano, differentemente da altre lingue, non ha il genere neutro) per rivolgersi sia agli uomini, sia alle donne, sia alle persone non binarie, non relega certo al rango di scorrettezza altri usi possibili, quali per esempio quello, perché no, di utilizzare il solo femminile sempre.
Accada quel che accada nella lingua italiana (che, come ripeto, è in continua evoluzione e non può non riflettere le istanze sociali di chi la usa, visto che ogni lingua umana è, in primo luogo, uno strumento sociale), di qui a qualche mese o anno o decennio, mi pare si debba comunque guardare con favore al fatto che molte persone ritengano importante ridurre il più possibile la discriminazione e l’esclusione, presenti purtroppo ancora largamente nelle nostre società e dunque, di riflesso, anche nelle nostre lingue.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice un ragazzo e una ragazza biondi (perché con l’aggettivo, il genere maschile prevale sul femminile quando il numero è plurale); però, per quanto riguarda il sostantivo, in specie quando si riferisce agli aggettivi numerali ordinali, non è così:
Questi sono il primo e il secondo posto.
Terzo e quarto premio assegnato.
Scrivendo il primo e il secondo posti o terzo e quarto premi assegnati si incorrerebbe in forme grammaticalmente errate o soltanto insolite?
RISPOSTA:
L’accordo al plurale tra il nome e l’aggettivo è corretto: è percepito come inatteso per via del forte legame sintattico che si crea tra l’aggettivo preposto al nome e il nome stesso. Se il nome è accompagnato anche dall’articolo, per giunta, si crea un paradosso: l’articolo concorda non con il nome ma con l’aggettivo. Impossibile, del resto, sarebbe una frase come *i primo e secondo posti.
Il paradosso e, almeno in parte, la sensazione di stranezza spariscono se si anticipa il nome: i posti primo e secondo; premi terzo e quarto assegnati. Per evitare la costruzione problematica con gli aggettivi preposti al nome è possibile, oltre che anticipare il nome, ripeterlo: il primo posto e il secondo posto; terzo premio e quarto premio assegnati. Possibile, in fondo, è anche la costruzione con il nome posposto al singolare, che è grammaticalmente imperfetta, ma non ambigua e giustificabile (per il già ricordato legame stretto tra l’aggettivo preposto e il nome).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono una studentessa straniera di origine russa all’università per stranieri di
Perugia, sono 4 anni che sto in Italia e ho sempre avuto difficoltà a definire il
genere delle squadre di calcio. Inizialmente pensavo che tutte le squadre fossero
di genere femminile, visto che la parola sottintesa è la squadra (come ad esempio
nel caso delle macchine: la Fiat, la Mercedes ecc) e, giustamente, la mia
convinzione è stata subito sciolta appena ho cominciato a seguire il campionato.
Quindi, la mia domanda è perché si dice Lo Spezia, il Napoli ma la Roma e la
Lazio?
RISPOSTA:
Dipende, di solito, dal sintagma reggente: se il nome della squadra dipendeva (all’epoca della nascita della squadra) da “Football club” allora la squadra è al maschile (perché in italiano club vuole in genere maschile), se dipendeva invece da “Associazione calcistica” o simili (la Roma, la Lazio ecc.) allora è femminile.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un grande dubbio. Quale frase è corretta?
– Il numero delle preferenze ottenute / Il numero delle preferenze ottenuto.
– Il numero dei voti ottenuti, conseguiti, raggiunti / Il numero dei voti ottenuto, conseguito, raggiunto.
RISPOSTA:
Entrambe le versioni sono corrette: i participi possono concordare sia con il sintagma nominale che fa da testa del sintagma complesso (il numero | delle preferenze | ottenuto, ovvero il numero ottenuto | delle preferenze), sia con quello che lo determina (il numero | delle preferenze ottenute). Diversamente, il verbo deve concordare con il sintagma che fa da testa, che rappresenta il soggetto della frase, quindi, per esempo:
– Il numero delle preferenze ottenute / ottenuto è stato 1000 (e non sono state 1000).
Anche per il verbo, comunque, l’accordo con il sintagma che determina è oggi tollerato in molti casi (è un fenomeno noto come accordo a senso) e va evitato soltanto in contesti scritti formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È possibile accordare il pronome indefinito qualcosa a un aggettivo femminile?
“Cerco qualcosa bella” è completamente sbagliato?
RISPOSTA:
L’accordo al femminile è sbagliato, perché qualcosa è maschile sia come pronome, sia come nome (un qualcosa, non *una qualcosa). Bisogna dire che tale errore è molto comune, perché i parlanti riconoscono il nome femminile cosa all’interno di questa parola e sono tratti in inganno; rimane, però, sicuramente un errore.
Fabio Ruggano
QUESITO:
Quale affermazione è corretta?
Ci porterà molto fortuna.
Ci porterà molta fortuna.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda, nella quale molta è un aggettivo che accompagna fortuna, è di gran lunga più comune. Nella prima molto è un avverbio che si riferisce a tutta la frase. Per cogliere con più chiarezza il significato della prima frase si può sostituire molto con il sinonimo grandemente: “Ci porterà grandemente fortuna”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
orrei chiedere se queste frasi con il pronome NE ma senza la quantità e con la concordanza del participio sono giuste o no:
Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato.
Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata.
Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati.
Hai comprato delle mele? Sì, ne ho comprate.
RISPOSTA:
Sì, sono corrette e sono migliori e più formali rispetto alle rispettive forme non accordate (cioè: ne ho comprato, per tutte e cinque i casi).
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto la sua voce e la sua postura” è ben costruita?
In particolare, sono corrette le ellissi della congiunzione tanto dopo colpito per stabilire la correlazione con quanto e quella del predicato verbale nella seconda metà della frase? Peraltro tale predicato, relativo a la sua voce e il suo portamento, dovrebbe essere al plurale; è comunque accettabile che il predicato non mi aveva colpito, singolare, regga tutta la frase?
RISPOSTA:
L’avverbio quanto è usato spesso in correlazione con tanto; l’assenza di quest’ultimo, però, è possibile e non può essere, pertanto, considerata un errore.
La concordanza tra il predicato singolare non mi aveva colpito e il soggetto plurale la sua voce e il suo comportamento è a rigor di grammatica scorretta, ma visto che la comprensione non è messa in discussione si può considerare accettabile, per quanto imprecisa. L’alternativa più precisa, si badi, non è non mi avevano colpito il suo sguardo, quanto…, che sarebbe ancora peggiore di quella iniziale, bensì non mi aveva colpito il suo sguardo, quanto mi avevano colpito…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?
RISPOSTA:
La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttavia, benché, acconsentire, tollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se il sintagma quest’ultimo risale sempre fino al nome più vicino in assoluto.
Il dubbio nasce da questo esempio:
“Ho sempre avuto una grande stima per il nonno di Luca e quest’ultimo ha gradito il mio sentimento”.
Chi ha gradito: Luca o suo nonno? Mi domando se sia una questione prettamente logica che prescinde da regole rigide in ambito grammaticale.
Nell’esempio
“Ho sempre avuto una grande stima per il nonno di Alice e quest’ultima ha gradito il mio sentimento” è evidente che il parlante ha in mente Alice e non suo nonno; ma il dubbio rimane, per me. Ci sono regole che stabiliscono in che modo usare il sintagma, oppure ci si affida, come nel secondo esempio, alle declinazioni, quando presenti?
RISPOSTA:
Come suggerisce l’aggettivo ultimo, il sintagma quest’ultimo rimanda all’antecedente più vicino possibile. Il problema della sua prima frase è che l’antecedente più vicino possibile è un sintagma complesso, ovvero il nonno di Luca, che raggruppa due possibili antecedenti, il nonno e Luca. A rigore, l’antecedente dovrebbe essere la testa del sintagma complesso, cioè l’elemento che identifica il referente, quindi il nonno, ma di fatto il rimando rimane ambiguo. In casi come questo si può propendere per una proforma più esplicita per evitare l’ambiguità, per esempio … per il nonno di Luca e l’anziano ha gradito… Se, invece, si intende rimandare a Luca si dovrebbe senz’altro evitare quest’ultimo e usare, invece, una proforma come Luca, oppure il nipote.
Nella seconda frase l’ambiguità è disinnescata dalla differenza di genere tra la testa e l’altro componente del sintagma. In questo caso, sebbene si debba in teoria riservare quest’ultimo alla testa del sintagma antecedente, quindi a il nonno, usare quest’ultima per rimandare ad Alice risulta del tutto accettabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Per motivi di lavoro mi trovo spesso a dovermi rivolgere a enti, istituzioni, aziende e simili.
L’impostazione iniziale è quindi al singolare; puntualmente, durante la stesura della comunicazione formale, mi viene naturale volgere la concordanza al plurale. In parole povere, aggettivi e pronomi in particolare si ricollegano alle seconda o alla terza persona plurale. Sia che mi rivolga a un ente sia che mi rivolga a un’azienda, so infatti di avere a che fare con un gruppo di persone, non con un qualcosa di inanimato (e singolare).
«Spettabile associazione, […] mi permetto di suggerire una modifica della vostra iniziativa. […] vi ringrazio per la vostra attenzione»; «vi invito a porgere i miei ringraziamenti alla giuria per il loro lavoro».
Qual è la concordanza consigliata: singolare o plurale?
RISPOSTA:
La concordanza al singolare in questi casi risulterebbe grammaticamente corretta, ma comunicativamente inaccettabile. Ovviamente, infatti, non ci si rivolge all’ente, ma ai suoi membri: sarebbe ben strano suggerire una modifica o ringraziare un ente astratto. La concordanza al plurale, quindi, è un’infrazione formale inevitabile e del tutto giustificata. L’alternativa (un po’ innaturale) che consente di ristabilire la correttezza grammaticale è intestare la lettera non all’ente ma direttamente ai destinatari effettivi: Gentili rappresentanti / membri / responsabili…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un testo che parla degli stereotipi sugli spagnoli ho trovato questa frase: “Un’altra delle nostre caratteristiche sarebbe che siamo religiosi.”
A me questa frase sembra corretta, ma vorrei una conferma.
Nello stesso testo ho trovato
“Se vieni dalla Catalogna, la tua etichetta sarà quella di “Taccagno”, avaro, radicato dal XVIII secolo, quando i catalani erano grandi commercianti, con un sacco di soldi, e diventano usurai”.
Io avrei scritto “radicata nel” e ho dei dubbi sul resto della frase. Io avrei scritto “da grandi commercianti diventano”. Secondo voi è accettabile la frase così come è scritta?
RISPOSTA:
La prima parte della frase è corretta. Il condizionale qui esprime una sfumatura di dubbio sulla veridicità di quanto affermato. La seconda parte della frase ha due punti deboli. Il primo è quello da lei individuato: l’etichetta è radicata, non radicato (ma forse si tratta di un semplice refuso). Il secondo punto infelice è il passaggio dal passato al presente nella stessa frase, che è sconsigliabile; la frase risulterebbe meglio costruita così: quando i catalani erano grandi commercianti, con un sacco di soldi, e diventarono usurai. Anche la riscrittura che lei propone sana questo problema, eliminando l’imperfetto: risulta, pertanto, corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se questa frase è corretta: “Non intendo insegnare a nessuno il suo mestiere”. Dal punto di vista grammaticale mi sembra una frase corretta perché uso l’aggettivo suo collegandolo a un complemento di termine. L’unico problema è che quel suo mi suona male: mi suonerebbe meglio proprio, che però credo sia errato.
RISPOSTA:
La scelta corretta è suo: come da lei suggerito, infatti, proprio si può riferire soltanto al soggetto, che deve, inoltre, essere di terza persona.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Il seme di un’amicizia devota o devoto”?
Si usa il maschile o il femminile? Si segue la parola seme (maschile) o la parola amicizia (femminile)?
Quale lezione di grammatica devo studiare per imparare a distinguerli?
RISPOSTA:
La lezione di grammatica da studiare è quella sull’accordo tra il nome e l’aggettivo, che lei dimostra di conoscere già bene. Per risolvere il suo dubbio dovrà soltanto chiedersi se a essere devoto sia il seme o l’amicizia. La risposta più semplice è che sia l’amicizia a essere devota, quindi l’aggettivo sarà femminile; non è, però, obbligatorio che sia così: c’è la possibilità che lei voglia esprimere un concetto meno scontato, ovvero che sia il seme a essere devoto. Se così fosse potrebbe anche decidere di anticipare l’aggettivo, in modo da evitare del tutto ambiguità: il seme devoto di un’amicizia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non si può allestire la mostra”: è corretto dire che il soggetto è la mostra?
RISPOSTA:
La frase può avere due interpretazioni, che comportano due ruoli sintattici diversi per la mostra. Se si può allestire è un’espressione impersonale la mostra ne è il complemento oggetto; se, invece, è una forma passivata di potere allestire, equivalente a può essere allestita, allora la mostra ne è il soggetto. Si noti che al plurale la frase verrebbe formata senz’altro come passivata: si possono allestire le mostre (ovvero le mostre possono essere allestite); la variante impersonale, pur possibile, è sgradita ai parlanti (perché sembra sbagliata): si può allestire le mostre.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei domandarvi se e quanto le proposizioni incidentali condizionano, a livello di accordo (e di scelta) dei modi verbali, le altre proposizioni alle quali si legano.
Presento alcuni esempi per chiarire:
1) Marco, credo, ha realizzato un buon lavoro.
2) Marco, e con lui tutti i tuoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
3) Marco, nonché i suoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
Per la frase 1 non riuscirei a immaginare un modo diverso; il congiuntivo mi parrebbe fuori luogo.
Per le frasi 2 e 3 l’accordo è al singolare, al plurale o sono permessi entrambi?
Limitatamente all’ultimo esempio, se eliminassimo le virgole e perdessimo dunque l’inciso (Marco nonché i suoi amici…) il plurale sarebbe d’obbligo (sono andati al mare)?
RISPOSTA:
Nelle sue frasi l’unica proposizione incidentale è quella inserita nella prima frase, perché contiene un verbo (anzi, in questo caso coincide con un verbo). Come detto da lei, l’unica forma possibile per il verbo della proposizione reggente è ha realizzato, perché è chiaro che la proposizione credo è sintatticamente autonoma (ha come soggetto io), sebbene si possa considerare subordinata a Marco ha realizzato…
Nella seconda e nella terza frase i sintagmi (non proposizioni) incidentali modificano il soggetto dell’unica proposizione presente nella frase, perché trasformano Marco in Marco e i suoi amici e in Marco nonché i suoi amici (assimilabile a Marco e i suoi amici). Con questi soggetti il verbo richiesto è alla terza plurale,
quindi Marco, e con lui tutti i suoi amici, sono andati… e Marco, nonché i suoi amici, sono andati…
Al contrario, l’accordo sarebbe al singolare in una frase come Marco, con i suoi amici, è andato…, perché con i suoi amici non rientrerebbe nel sintagma del soggetto.
La prova dell’accordo corretto si ottiene spostando l’inciso (anche costituito da una proposizione) dopo il verbo:
1) Marco ha realizzato un buon lavoro, credo.
2) Marco è andato al mare, e con lui tutti i tuoi amici.
3) Marco è andato al mare, nonché i suoi amici.
Come si può vedere, nella prima frase la sintassi non ha sbavature; nella seconda il sintagma finale si giustifica soltanto ipotizzando un verbo sottinteso, ovvero trasformando il sintagma in una proposizione, a dimostrazione che tutti i suoi amici è soggetto: “Marco è andato al mare, e con lui sono andati tutti i tuoi amici”.
Nella terza, infine, il sintagma finale non si può proprio giustificare, quindi si deve per forza associare al soggetto Marco.
L’eliminazione delle virgole nell’ultima frase non cambierebbe niente nell’accordo con il verbo. Va detto, però, che la congiunzione nonché richiede preferibilmente la virgola; ma se inseriamo la virgola prima di nonché siamo giocoforza indotti a inserire anche la seconda, per non trovarci con uno strano soggetto diviso in due dalla virgola e da una congiunzione. La stranezza salta meglio agli occhi se sostituiamo nonché con e: Marco, e tutti i suoi amici sono andati…
Ne consegue che o scriviamo Marco nonché tutti i suoi amici sono andati… (variante sconsigliata perché nonché preferisce la virgola), oppure Marco, nonché tutti i suoi amici, sono andati… Difficile da giustificare, invece, Marco, nonché i suoi amici sono andati al mare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei una delucidazione riguardo alla scelta tra costruzione implicita ed esplicita.
Nella frase “Ho bisogno che lei comunichi i dati per essere identificato” la logica porta chiaramente a ricollegare il sintagma per essere identificato al lei cui si rivolge il soggetto; ma questa valutazione è valida anche dal punto di vista sintattico, oppure sarebbe meglio una formula quale “Ho bisogno che lei
comunichi i suoi dati affinché possa essere identificato (in questo caso, però, mi pare che ci sarebbe ugualmente un’ambiguità, dato che il predicato possa potrebbe ricollegarsi anche a un’altra persona non menzionata nella frase)?
Nella frase “Non avrei mai immaginato che sarei stata sola” o “Non avrei mai immaginato che avrei potuto essere sola” i soggetti di subordinata e sovraordinata coincidono, ergo si dovrebbe preferire la costruzione implicita. Ma con “Non avrei mai immaginato di essere sola”, “Non avrei mai immaginato di poter essere sola” non si sfuma un po’ troppo l’enunciato sotto il profilo temporale, non distinguendo il passato dal presente o questo dal futuro?
E infine, la frase “Mi faccia sapere se le informazioni così inoltrate le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema” è corretta sintatticamente per “Mi faccia sapere (lei) se le informazioni così inoltrate consentono a lei di (le informazioni) essere elaborate e inserite nel sistema”? D’impulso, assocerei
quel di che apre la costruzione implicita al complemento di termine (= ‘consentono a lei’); ma il soggetto della frase non sono proprio le informazioni? Se è così, la costruzione implicita, che mi lascia un po’ titubante, non dovrebbe essere corretta?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima frase, la soluzione iniziale è quella migliore. Il problema della concordanza tra il pronome personale di cortesia lei e il participio passato maschile (qui identificato) è insolubile, ma fortunatamente non troppo dannoso per la comprensione (rimando su questo punto alla FAQ “… sentirla abbattuto” o “… sentirla abbattuta”? dell’archivio di DICO). La formulazione esplicita chiamerebbe in causa un terzo referente, come da lei immaginato, provocando confusione.
Anche per la seconda frase lei ha ragione: la versione implicita schiaccia tutto sul presente, perché i modi indefiniti non hanno il tempo futuro; per questo, proprio nel caso in cui la subordinata è al futuro la costruzione esplicita è legittima anche con identità di soggetti tra la stessa subordinata e la reggente.
Nella terza frase la sua ricostruzione non è corretta, perché il soggetto della proposizione oggettiva subordinata di secondo grado è lei, non le informazioni. Le completive dipendenti da verbi di comando, richiesta, consiglio, opportunità assumono come soggetto non il soggetto della reggente, ma il destinatario del comando, la richiesta, il consiglio, l’opportunità (è il caso di “Ti ordino di uscire” = ‘ordino a te che tu esca’). Nel suo caso, quindi, la costruzione della proposizione sarà (le consentono) di elaborarle e inserirle nel sistema, perché il destinatario dell’opportunità, lei, diviene il soggetto logico della proposizione oggettiva. Al contrario, le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema non è ben costruita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se, rivolgendosi ad un uomo, ci si può esprimere indifferentemente in uno dei due modi che andrò ad esporre oppure se uno solo dei due è corretto: “Mi dispiace molto di sentirla così abbattuto / abbattuta (nel senso di ‘giù di morale’)”.
RISPOSTA:
Per la risposta a questa domanda rimando alle FAQ “Lei”, “voi”, “loro” e “La avrei chiamata” dell’archivio di DICO. L’accordo con il pronome di cortesia riferito a un uomo è chiaramente frutto di un compromesso tra la grammatica e la logica: la grammatica richiederebbe che gli aggettivi concordassero con il pronome, quindi fossero femminili, mentre la logica impedisce di riferire aggettivi femminili a referenti maschili. Su questo punto vince la logica (quindi sentirla abbattuto). Sull’accordo del participio passato di un verbo in una forma composta preceduto dal complemento oggetto pronominale, invece, vince la grammatica, quindi “Signor Bianchi, l‘ho vista al bar ieri”. La stessa cosa vale con la forma implicita: “Mi dispiace di averla disturbata“.
Questo compromesso può produrre frasi con un accordo altalenante, eppure da considerarsi corrette, come “Signor Bianchi, l’ho vista stanco ieri”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un caso come il seguente, si può considerare l’ultimo elemento (né alcun’altra creatura) come riassuntivo, perciò dominante per la concordanza del verbo al singolare (potrà)?
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Lettera ai Romani 8:38, 39, CEI).
RISPOSTA:
L’aggettivo altra contenuto nel sintagma né alcun’altra creatura esclude che questo sintagma riassuma in sé tutti gli elementi precedenti, ma configura le possibili creature evocate come aggiuntive rispetto agli elementi elencati precedentemente. Del resto, il nome creatura non può essere usato correttamente come iperonimo di morte, vita, presente, avvenire, altezza, profondità, che identificano stati dell’essere o qualità, non certo creature.
Non bisogna, comunque, ritenere il verbo singolare potrà un errore (sebbene sia, in effetti, una forzatura grammaticale): quando il soggetto è rappresentato da più elementi collegati tra loro mediante la congiunzione o o, come in questo caso, mediante né, la concordanza al singolare è comune e ci sono buone ragioni per ammetterla al pari di quella al plurale. Con la congiunzione o, infatti, gli elementi dell’elenco sono l’uno in alternativa all’altro, quindi soltanto uno di essi realizza l’azione; con né, invece, addirittura tutti gli elementi sono esclusi dall’azione: nessuno di essi, infatti, è il soggetto logico, Nella sua frase, per esempio, il soggetto logico, soggiacente a tutta la costruzione, è niente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Parlando con uno straniero mi è venuto un dubbio. È meglio dire ero interessato a questa cosa o me ne ero interessato? Gli ho detto che erano due espressioni equivalenti invece ora mi rendo conto che hanno un significato diverso. Lui intendeva dire che una cosa aveva destato interesse in lui per un po’, ma voleva sapere come dirlo senza indicare quella cosa specifica.
Il mio dubbio è questo: posso dire ero interessato a questa cosa senza un pronome indiretto o devo dire
mi interessava questa cosa? Mi ha chiesto se si può usare il ne al posto di questa cosa, ma così mi sembra che cambi il senso. Leggendo sulla Treccani sembra che sia giusto solo interessarsi a, ma a me le frasi ero interessato a lui e mi sono interessata a lui sembrano diverse.
RISPOSTA:
Nella sua domanda si sovrappongono due questioni diverse: da una parte la differenza tra il verbo interessarsi e l’espressione essere interessato; dall’altra la possibilità di pronominalizzare (ovvero sostituire con un pronome) il sintagma proposizionale a questa cosa con ne.
Per quanto riguarda la prima questione, interessarsi è quasi un sinonimo di essere interessato; contiene, però, una sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto non riscontrabile in essere interessato. Con interessarsi, cioè, si descrive l’interesse come attivo, non statico; per questo motivo interessarsi significa anche ‘prendersi cura, occuparsi’, e persino ‘intervenire per la risoluzione di un problema’.
Oltre alla differenza semantica, tra le due forme c’è una differenza sintattica, perché interessarsi richiede la preposizione a quando è sinonimo di essere interessato, la preposizione di quando significa ‘prendersi cura, occuparsi’ o ‘provvedere per la risoluzione di un problema’; essere interessato, invece, richiede sempre la preposizione a, mai di. Come conseguenza, essere interessato a una cosa è molto simile a interessarsi a una cosa; interessarsi di una cosa, invece, significa tutt’altro, ovvero ‘occuparsi di una cosa’, oppure ‘provvedere’ (nel caso in cui la cosa sia una problema da risolvere).
A rigore, un complemento di termine (come a una cosa) può essere pronominalizzato con gli o le; questi pronomi, però, hanno un chiaro riferimento umano e difficilmente li associamo a oggetti inanimati; in questo caso, inoltre, il complemento di termine non indica una persona a cui viene dato qualcosa, ma soltanto l’oggetto di un interesse (e può essere definito, infatti, complemento oggetto preposizionale), quindi rifiuta a maggior ragione la pronominalizzazione con i pronomi indiretti. Per questo motivo un parlante nativo non direbbe mai esserle interessato (o io le sono interessato), ma preferirà sempre essere interessato a una / quella cosa (e io sono interessato a una / quella cosa). Lo stesso vale per interessarsi: nessun parlante direbbe interessarlesi (o io le mi interesso), ma dirà sempre interessarsi a una / quella cosa (e mi interesso a una / quella cosa).
Diversamente, un complemento di specificazione o partitivo può essere pronominalizzato quasi sempre con ne, per questo è possibile dire interessarsene. Si badi, però, che non è possibile dire *esserne interessato perché significherebbe *essere interessato di una cosa, che non è corretto. Inoltre, interessarsene non significa essere interessato a una cosa, ma ‘occuparsi di una cosa’ oppure ‘provvedere alla risoluzione di un problema’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non so quale frase – o quali, nel caso ce ne sia più di una – tra queste sia scorretta.
Il dubbio verte sulla declinazione del termine dritto.
1a) I ragazzi guardarono dritto negli occhi le ragazze.
1b) I ragazzi guardarono dritti negli occhi le ragazze.
1c) I ragazzi guardarono dritte negli occhi le ragazze.
RISPOSTA:
L’unica forma possibile è dritto, perché il termine qui è usato come avverbio di modo ed è, quindi, invariabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice lesionare una cosa o si dice ledere una cosa?
RISPOSTA:
Dipende dalla cosa e da quanto si vuole essere precisi. Lesionare significa ‘danneggiare procurando una lesione’ e può avere come complemento oggetto soltanto cose concrete che possono subire una lesione, ovvero una frattura, come muri, costruzioni, edifici, ma anche ossa e tessuti del corpo, se si intende sottolineare che si siano incrinati o fratturati. Anche ledere significa ‘danneggiare’, ma senza la specificazione della lesione; inoltre si usa raramente con complementi oggetto concreti, che sono perlopiù ossa o organi del corpo. Più frequentemente, invece, questo verbo si usa in riferimento a beni immateriali, come i diritti, la reputazione, la dignità, l’onore, l’interesse, il valore, il benessere, l’orgoglio…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta?
“Domani chiameremo ognuno di noi questo numero”.
“Domani chiamerà ognuno di noi questo numero”.
RISPOSTA:
Il soggetto è ognuno, quindi la forma corretta è chiamerà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se in italiano è più corretto dire:
“il kit si compone di una macchina e delle capsule”
oppure
“il kit è composto da una macchina e delle capsule”.
Mi è stata contestata la forma adducendo l’esistenza di un complemento oggetto implicito (?).
RISPOSTA:
Immagino che la forma contestata sia la prima. Il problema con questa costruzione è che la forma del verbo comporre con il si passivante richiede obbligatoriamenre la preposizione di, che viene a sommarsi all’articolo indeterminativo plurale delle. Si noti, infatti, che delle capsule è un complemento oggetto al pari di una macchina; in questo caso delle non serve da preposizione, ma assolve la funzione, appunto, di articolo intedeterminativo plurale. La frase dovrebbe pertanto risultare così costruita: “il kit si compone di una macchina e di delle capsule”; opzione da evitare per ovvi motivi. Sarebbe possibile sottintendere la seconda preposizione, come è fatto nel suo esempio, ma la costruzione risultante è straniante, perché non si capisce se delle funzioni da preposizione o da articolo.
Per inciso, definire delle capsule un complemento oggetto implicito è fantasioso: questo complemento oggetto è del tutto esplicito. Sottolineo, inoltre, che la costruzione con di sottinteso, per quanto poco chiara, non si può dire scorretta.
Sostituire si compone con è composta consente di aggirare il problema. Al passivo, il verbo comporre ammette tanto di quando da, quindi, scegliendo da, la seconda preposizione si può sottintendere senza cadere nell’ambiguità di delle.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I sovranisti, accortisi che manifestare senza mascherina, fare selfie a stretto contatto con la gente e urlare tutto il bene possibile nei confronti degli italiani con gli occhi fuori dalle orbite non avrebbero / avrebbe più pagato, hanno cavalcato il malcontento per alimentare lo scontro sociale”.
Il correttore mi dice avrebbe, ma è giusto?
RISPOSTA:
Il soggetto del verbo in questione è rappresentato dalle tre proposizioni soggettive ruotanti intorno ai verbi manifestare, fare, urlare, quindi dovrebbe essere coniugato alla terza plurale. Quando il soggetto del verbo è rappresentato, come in questo caso, da più di una proposizione soggettiva, però, i parlanti tendono a preferire la terza singolare, probabilmente perché non associano le proposizioni facilmente come associano i sintagmi nominali. La terza plurale rimane comunque la scelta più corretta.
Va aggiunto che la terza singolare è anche possibile se si vogliono rappresentare le tre azioni come un tutt’uno, in quanto aspetti diversi dello stesso comportamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se molti di noi non sanno ancora con chi trascorreranno / trascorrerà le feste, altri cittadini, invece, sanno già molto bene con chi non le passeranno / passerà: sono i familiari delle persone decedute per Covid.
RISPOSTA:
Il soggetto di entrambe le proposizioni relative è loro, che rimanda nel primo caso a molti, nel secondo a altri cittadini. La persona del verbo all’interno delle proposizioni relative, pertanto, deve essere la terza plurale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto il periodo “Una preoccupazione che ha spinto vari governatori a schierare la guardia nazionale, temendo scontri se la sentenza non sarebbe stata considerata esemplare.”?
RISPOSTA:
Il periodo è corretto, Un dubbio può nascere dal collegamento tra la proposizione condizionale introdotta da se e la reggente. Normalmente le proposizioni subordinate dipendono dal verbo della reggente, tranne la proposizione relativa, che dipende da un sintagma nominale presente nella reggente. La condizionale se la sentenza…, però, dipende non dal verbo temendo, bensì dal sintagma nominale scontri, e questo la rende un po’ forzata, per quanto non scorretta. Questa lieve forzatura si può superare in due modi, o trasformando scontri in una proposizione oggettiva (temendo che ci sarebbero stati scontri se la sentenza…), in modo che la condizionale si colleghi al verbo ci sarebbero stati, oppure sostituendo se con nel caso in cui, così da avere una condizionale che sintatticamente è una relativa il cui pronome introduttivo, in cui, è collegato al sintagma nominale nel caso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la più corretta di queste opzioni? Propendo per gli (resto è maschile), ma anche le, riferito a umanità, puo’ essere foneticamente, ma non so quanto grammaticalmente, accettabile. Possibile siano corrette entrambe? Ecco la frase in oggetto: “Ampio mandato al resto dell’umanità di occuparsi di quello che gli / le pare”.
RISPOSTA:
Entrambi i pronomi sono accettabili, in quanto il riferimento può essere tanto a resto quanto a umanità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In questa frase chiamato è corretto o l’accordo va al femminile?
“Valanga di nuvole chiamato anche perfetto collasso delle nuvole”.
RISPOSTA:
Il participio passato di un verbo con ausiliare essere dovrebbe concordare sempre con il soggetto. Non è raro l’accordo con il nome del predicato: “La lettura è stata / stato il mio passatempo preferito per molto tempo”.
Nei casi in cui il participio passato fa parte di un tempo composto (come nell’esempio appena fatto da me) l’accordo con il nome del predicato è una forzatura ma non si può considerare un vero e proprio errore.
Nella sua frase, però, il participio passato è autonomo, e rappresenta una proposizione relativa implicita: chiamato = che è chiamato. In questo contesto, la concordanza con valanga è decisamente più raccomandabile (e, di conseguenza, la concordanza con il nome del predicato è sconsigliabile), perché la relativa si aggancia chiaramente al soggetto della reggente, appunto valanga, di cui rappresenta un ampliamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da vocabolario Treccani: “Retrostante – Di luogo o ambiente, che sta dietro a un altro”. Gli esempi lasciano intendere che il luogo o ambiente si debba trovare dietro un altro, ma sullo stesso piano o livello (es. la stanza R., il prato R. la casa).
Vorrei sapere se si può considerare retrostante un luogo/ambiente che non si trova sullo stesso piano/livello dell’altro luogo/ambiente preso a riferimento (es. un balcone retrostante un altro, ma i due balconi sono su piani differenti).
RISPOSTA:
Il significato dell’aggettivo retrostante punta l’attenzione su una sola coordinata spaziale, avanti-dietro, e trascura le altre, quindi non esclude che l’elemento così qualificato si trovi su un piano diverso rispetto all’altro elemento che fa da riferimento. Ovviamente, se la posizione relativa dei due elementi non è ulteriormente chiarita, il ricevente potrebbe presumere che la rappresentazione di tale posizione non richieda altri dettagli, e quindi che questi si trovino sullo stesso piano.
Segnalo, a margine, che retrostante può essere usato assolutamente (la cucina retrostante); quando ha un elemento di riferimento, invece, può essere costruito direttamente (retrostante la casa), ma è più frequente con la preposizione a (retrostante alla casa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale affermazione è corretta?
“Di cosa si tratti”.
“Di cosa si tratta”.
E in questo caso?
“Basta poco, massimo 2 minuti”.
“Basta pochi minuti”.
“Bastano pochi minuti”.
“Bastano poco minuti”.
RISPOSTA:
Riguardo alla prima richiesta, se la frase è autonoma, quindi è per forza una interrogativa diretta, il modo da usare è senz’altro l’indicativo: “Di cosa si tratta?”. Se, invece, è una interrogativa indiretta il congiuntivo è una scelta più formale dell’indicativo: “Vorrei sapere di cosa si tratti” (anche corretto, ma meno formale, “Vorrei sapere di cosa si tratta”). Tranne che tale proposizione sia introdotta dal verbo dire, che preferisce sempre l’indicativo: “Dimmi di cosa si tratta”.
Per quanto riguarda la seconda richiesta, bisogna ricordare che bastare è un verbo, quindi concorda con il soggetto della frase. Nella prima frase il soggetto è il pronome poco, quindi la forma di bastare richiesta è proprio la terza singolare. Ciò che segue, massimo 2 minuti, è una apposizione del soggetto, costruita correttamente, con l’avverbio massimo (andrebbe bene anche al massimo) che accompagna l’aggettivo numerale 2, a sua volta unito al nome minuti. Si noti che se togliamo poco il soggetto diventa massimo 2 minuti, per cui il verbo deve andare al plurale: “Bastano massimo 2 minuti”.
La seconda frase è costruita male, perché il verbo non concorda con il soggetto. Il verbo, infatti, è singolare mentre il soggetto, pochi minuti, è plurale. L’errore è corretto nella terza frase: “Bastano pochi minuti”. Nell’ultima frase, infine, a essere scorretto è l’accordo tra l’aggettivo poco e il nome da questo accompagnato, minuti. Se poco è da solo, infatti (come nella prima frase), è un pronome ed è invariabile; se è accompagnato da un nome è un aggettivo e deve concordare con il nome accompagnato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “mai visto una cosa del genere” oppure “mai vista una cosa del genere”?
RISPOSTA:
Entrambi i modi sono corretti. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto (vista una cosa) è una possibilità oggi abbandonata, quindi dal sapore antiquato, ma sempre corretta. La forma più comune è visto una cosa, con il participio passato invariabile. C’è da dire che se questo vale in generale, l’espressione mai vista una cosa… è cristallizzata, tanto che risulta perfettamente normale anche la variante con l’accordo. Per approfondire la questione dell’accordo del participio passato può leggere la risposta n. 2800277 dell’archvio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase qual è il soggetto? “Là non c’è nulla da mangiare”.
RISPOSTA:
Il soggetto è nulla da mangiare, non c’è è il predicato verbale e là è il complemento di stato in luogo.
Soltanto come inutile e scolastica pignoleria si potrebbe poi analizzare ulteriormente il soggetto nulla da mangiare come formato da un soggetto (nulla) + una subordinata relativa implicita passiva: che possa essere mangiato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Dopo aver visto il video ‘Il racconto di avventura e horror’, scrivi la differenza / le differenze tra i due generi” è meglio usare differenza o differenze e perché?
RISPOSTA:
La scelta dipende dal significato che si intende dare alla frase: se si ritiene che tra i due generi ci sia una sola differenza si userà il singolare; se, invece, si ritiene che le differenze siano più di una si userà il plurale. In questo caso specifico ritengo che differenze sia la scelta migliore, visto che tra il genere di avventura e quello horror sussistono molte differenze.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È più corretto dire una volta solo o una volta sola? So che comunque si dice spesso solo una volta.
RISPOSTA:
Solo una volta e una volta sola sono espressioni comuni, corrette e praticamente sinonimiche. Nella prima solo è un avverbio, equivalente a solamente, nella seconda sola è un aggettivo, concordato con volta. Una volta solo è possibile e corretta, al pari di una volta solamente, ma è sfavorita dai parlanti rispetto a una volta sola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggendo le risposte alle domande in archivio, ho letto questa vostra risposta:
“Nella frase (“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”), […] come studente è un complemento predicativo”. Perché la grammatica di R. Zordan analizza le espressioni introdotte da “come, in
qualità di…” apposizioni?
Ho poi un dubbio su questa espressione. Si deve dire “il mio percorso di studi universitariO” o “il mio percorso di studi universitarI”?
Infine, si deve dire (se parla un uomo) “Se fossi stato una persona…” o “Se fossi stata una persona…”?
RISPOSTA:
La classificazione delle espressioni nominali costruite con come è a metà strada tra l’apposizione e il complemento predicativo. Io preferisco distinguere tra casi come lo studente Giuseppe, in cui il sintagma lo studente è strettamente legato al nome che accompagna, al pari di un aggettivo, ed è apposizione, e Giuseppe, come studente, in cui il sintagma ha maggiore autonomia sintattica (potremmo spostarlo in molte posizioni: Giuseppe è bravo, come studente, diversamente dall’altro: *Giuseppe è bravo lo studente). Per comodità, molte grammatiche non fanno una simile distinzione e accomunano le due espressioni nella categoria delle apposizioni, associando il complemento predicativo esclusivamente alla presenza di un verbo copulativo (Giuseppe è diventato uno studente modello) o di un verbo predicativo con funzione copulativa: Giuseppe è stato premiato come studente.
La concordanza dell’aggettivo con espressioni internamente solidali ma non cristallizzate è libera: entrambe le soluzioni, percorso di studi universitario e percorso di studi universitari, sono accettabili e difendibili. Propenderei, comunque, per la concordanza con percorso, visto che è il costituente più simile alla testa di un composto. Nei composti e nelle unità polirematiche (per un approfondimento sul concetto di unità polirematica rimando all’archivio di DICO), infatti, è la testa, cioè il costituente dominante, che guida la concordanza: un capostazione rigoroso (non *un capostazione rigorosa) un treno merci lunghissimo (non *un treno merci lunghissime), occhiali da sole nuovi (non *occhiali da sole nuovo).
Anche quando la parte nominale o il complemento predicativo contiene un nome di genere e/o numero diversi da quelli del soggetto (il suo terzo dubbio) si crea un problema di accordo, questa volta del participio passato o della persona del verbo. A rigore, il verbo (quindi anche il participio passato che ne fa parte, concorda con il soggetto (quindi se fossi stato una persona); l’attrazione della parte nominale, però, è molto forte, perché la parte nominale è il sintagma adiacente al verbo e perché, tutto sommato, con il verbo essere o un verbo copulativo la parte nominale identifica il soggetto al pari del soggetto stesso. Ne consegue che entrambe le soluzioni sono accettabili, con una preferenza, anche in questo caso, per l’accordo con il soggetto.
Un esempio di dubbio sull’accordo della persona del verbo potrebbe essere il seguente: “I miei amici sono la mia famiglia” / “la mia famiglia è i miei amici”. Si noterà dall’esempio che quando il soggetto è plurale e il nome del predicato è singolare il verbo difficilmente va al singolare: i miei amici è la mia famiglia è possibile al pari di se fossi stata una persona, ma sfavorito; al contrario, quando il soggetto è singolare e il nome del predicato plurale è l’accordo con il nome del predicato a essere preferito: la mia famiglia sono i miei amici. Difficile spiegare la ragione di questa differenza di trattamento dell’accordo, ma probabilmente essa dipende dalla maggiore salienza semantica del plurale rispetto al singolare: il plurale, cioè, attrae l’accordo del verbo più fortemente del singolare, a prescindere dalla funzione sintattica dei sintagmi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da sempre – spero a ragione – uso l’aggettivo suo (con le dovute declinazioni di genere e numero) in riferimento al soggetto della proposizione o del complemento, data la versatilità che lo contraddistingue; per contro, proprio nelle mie costruzioni ha avuto – e ha tuttora – un ruolo circoscritto al solo soggetto. Se la premessa è valida, mi sentirei di segnalarvi alcune criticità.
Prendiamo ad esempio la proposizione Paolo era insieme al suo amico e a sua moglie.
Mettiamo, inoltre, che per ragioni a noi ignote non si possa modificare l’assetto della costruzione (che ci permetterebbe di agevolarne la comprensione). A rigore, la moglie in esame sarebbe quella dell’amico di Paolo. Se invece si fosse trattato della moglie di Paolo, si sarebbe optato per propria.
Sviluppando però questa circostanza, per omogenità di stile e di messaggio, a mio avviso, dovremmo sostituire anche l’aggettivo suo in relazione all’amico del soggetto, vale a dire Paolo.
La frase, così rielaborata, avrebbe questo effetto (su cui vorrei interpellarvi): Paolo era insieme al proprio amico e alla propria moglie.
Per tirare le somme, e aggiungendo una subordinata, vi chiederei se le seguenti chiose sono valide: Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con la propria moglie (in questo caso la moglie è dell’amico di Paolo).
Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con sua moglie (in questo caso la moglie è di Paolo).
RISPOSTA:
La distinzione tra suo e proprio è nei termini da lei indicati: proprio si può usare soltanto in riferimento al soggetto della proposizione, mentre suo può riferire a qualsiasi sintagma della frase (immagino che lei intenda questo quando parla di soggetto del complemento). Detto questo, una frase come “Paolo era insieme al suo amico e alla propria moglie” è ineccepibile; la omogeneità di stile e di messaggio da lei evocata è un fattore del tutto soggettivo, non generalizzabile; al contrario, direi che la variante insieme al proprio amico e alla propria moglie risulterebbe inutilmente farraginosa, sebbene non scorretta. Lo stesso dicasi per la seconda frase: la variante Paolo parlò al suo amico è del tutto legittima, visto che non c’è nella frase un altro referente concorrente di Paolo. La terza frase presenta lo stesso problema della prima: a rigore tanto propria moglie quanto sua moglie possono rimandare alla moglie del soggetto della proposizione, il pronome che, a sua volta coreferente di il proprio amico; sua moglie, però, potrebbe essere la moglie di Paolo, per cui, per escludere ogni ambiguità, è preferibile usare propria moglie se la moglie è dell’amico e usare una perifrasi (per esempio con la moglie di Paolo) nel caso in cui la moglie sia di Paolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei presentarvi alcune costruzioni per chiedere lumi circa il pronome.
“Poteva anche essere un semplice amico, visto il calore con cui lui / egli / questo l’aveva salutata”. A prescindere dalla scelta tra lui / egli / questo – che suppongo libera senza tema di incorrere in un errore -, il pronome è consigliato o facoltativo?
“Domandami se io sono/sia d’accordo”. Come sopra. L’inserimento del pronome può avere una funzione enfatica se si opta per l’indicativo presente? Nel caso invece si opti per il congiuntivo, immagino che esso sia obbligatorio per disambiguare il riferimento alla persona.
“Camminando da solo per il parco che lui amava, pensai ai ricordi più vivi di mio padre”. L’anticipazione del pronome è corretta?
Infine, mi piacerebbe conoscere quali sono i contesti sintattici in cui l’inserimento del pronome è non già facoltativo o sconsigliato, ma addirittura errato.
RISPOSTA:
Nella prima frase il pronome è superfluo perché il soggetto della proposizione relativa coincide con quello della proposizione reggente. Si può, comunque, inserire per enfatizzare il soggetto (per esempio per esprimere un contrasto: lui diversamente da un altro) o disambiguarne l’identità nel caso in cui ci siano più referenti possibili. La differenza tra lui e egli è diafasica: egli è più formale; questo accentua la distinzione con un quello eventualmente presente nel cotesto più ampio. Per ottenere una sfumatura distintiva si può optare anche per questi o costui, pronomi dimostrativi soggetto singolari di sapore letterario.
Nella seconda frase è vero che il pronome è superfluo (ma comunque possibile per le stesse ragioni viste per la prima frase) se si usa l’indicativo; se si usa il congiuntivo, invece, esso non è obbligatorio, ma consigliabile. Per convenzione è obbligatorio soltanto quando il soggetto del congiuntivo presente o imperfetto è di seconda persona (se tu sia, se tu fossi).
Nella terza frase l’anticipazione, o catafora, è possibile, quindi corretta.
Un pronome può essere superfluo, come nei casi commentati sopra, ma difficilmente il suo inserimento può essere giudicato errato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Considerando corretta la seguente frase: “Nei giorni feriali sono vietate le visite”, mi domando se lo siano anche: “I giorni feriali sono vietate le visite” oppure: “I giorni feriali sono vietati alle visite”.
RISPOSTA:
La variante i giorni feriali… è corretta, visto che le espressioni nel giorno e il giorno sono entrambe valide per esprimere il tempo determinato.
Vietato a è usato tradizionalmente soltanto in relazione alla persona che non può compiere l’azione, non all’azione stessa. In altre parole, un’azione può essere vietata a qualcuno, ma non si può vietare qualcuno all’azione. Ancora meno è possibile vietare un luogo o un tempo a un’azione, come avviene nel suo esempio.
Una ricerca in Internet rivela l’esistenza attuale della struttura da lei immaginata, ma con pochissimi esempi (quindi da considerare eccezioni) e comunque tutti legati al luogo, non al tempo: monastero / ospedale / stadio vietato alle visite e pochi altri casi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Rivolgendosi ad una persona di sesso maschile con il pronome di cortesia lei è corretto dire l’avrei chiamato?
RISPOSTA:
La questione è stata affrontata nella risposta n. “Lei”, “voi”, “loro” , che si può leggere nell’archivio di DICO. La situazione è così esemplificata: “Signor Bianchi, la ho (l’ho) chiamata perché lei mi sta simpatico“. In altre parole, l’aggettivo concorda al maschile (simpatico), il participio passato del verbo composto con ausiliare avere e preceduto dal pronome (la) concorda al femminile (chiamata). Il participio passato del verbo composto con ausiliare essere, invece, concorda al maschile (si comporta, cioè, come un aggettivo): “Signor Bianchi, sono contento che lei sia arrivato“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali varianti sono corrette?
a) Ci siamo fatte / fatti / fatto un regalo.
b) Dal possibile vantaggio dei padroni di casa si è passati / passato al gol degli ospiti.
c) Hai recitato le preghiere ieri sera, o ne hai recitata / recitate / recitato più di una.
RISPOSTA:
Tutte le varianti sono corrette. Per quanto riguarda la prima frase, ci si aspetta che il participio passato di un verbo con l’ausiliare essere concordi con il soggetto, che nella frase in questione è noi. In quanto al genere (fatti o fatte) il pronome ci non è trasparente, per cui si userà fatte se il soggetto è femminile, fatti se è maschile. La variante fatto è probabilmente dovuta all’attrazione morfologica esercitata dal complemento oggetto (un regalo). La costruzione “Ci siamo fatto un regalo” è, quindi, presente nell’uso, ma è più rara e deve essere giudicata più trascurata.
Nella seconda frase non c’è un soggetto, perché il verbo è impersonale; per questo motivo il participio rimarrà invariato: si è passato. L’italiano, però, ammette anche la struttura (noi) si è passati, diffusa soprattutto in Toscana e nella tradizione letteraria (si confronti questa costruzione con “oppure, quando si è arrivati a fondare un partito” estratto da L’orologio di Carlo Levi, 1951).
Nella terza, infine, il participio può rimanere invariato (recitato), visto che ne non richiede necessariamente l’accordo del participio di un verbo con ausiliare avere (al contrario di lo, la, li, le), oppure può concordare con il complemento oggetto, che è una (quindi recitata). Discutibile, ma ammissibile, è l’accordo con il nome a cui rimanda ne, ovvero preghiere (quindi recitate).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire “Questi sono i bambini che li ha salvati” per esprimere appunto che una persona ha salvato dei bambini?
Si dice arriva subito o arriverà subito? È fallita o era fallita?
RISPOSTA:
Nella prima frase c’è un problema a monte della concordanza del participio passato. Il pronome che rimanda a i bambini e svolge, nella proposizione relativa che li ha salvati, la funzione di complemento oggetto (perché qualcun altro, il soggetto, ha salvato i bambini). La presenza di che con la funzione di complemento oggetto rende superflua la presenza di li, che svolge la stessa funzione. Se eliminiamo li, che è ridondante, cade il problema della concordanza del participio passato, perché il pronome che non richiede la concordanza (che, invece, è richiesta da li). La forma più corretta della frase, pertanto, è “Questi sono i bambini che ha salvato” (o, se vogliamo enfatizzare il soggetto, “Questi sono i bambini che lui ha salvato”). Non è esclusa “Questi sono i bambini che ha salvati”, che, però, suona artificiale e antiquata.
Entrambe le espressioni arriva subito e arriverà subito sono corrette; tra le due, quella con il futuro è più formale e quella con il presente, di conseguenza, di registro più colloquiale.
Tra è fallita e era fallita, infine, c’è una differenza semantica, legata ai due diversi tempi verbali usati: la scelta tra le due varianti può essere fatta non in astratto, ma soltanto all’interno di una frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio in merito alla comprensione di questa frase:
“Anche se ora non sono in grado di identificare l’origine e di risalire alla causa di questo mio disagio, scelgo di rilasciare ora con amore incondizionato tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate che lo hanno generato e che sono entrambe limitanti”.
In particolare, collegate deve indicare che le memorie emozionali sono collegate solamente alle convinzioni, ma la frase potrebbe avere significato ambiguo in quanto le convinzioni e le memorie emozionali potrebbero essere intese come collegate al disagio?
RISPOSTA:
In questa formulazione la frase è ambigua, ma l’interpretazione più probabile è che collegate sia concordato con il sintagma le convinzioni e memorie e rimandi al disagio. Per rimandare inequivocabilmente a convinzioni bisogna inserire l’articolo prima di memorie e aggiungere un pronome: tutte le convinzioni e le memorie emozionali a esse collegate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire portarsi in casa come nella frase “portarsi in casa un cane”?
RISPOSTA:
Portarsi in in cui in indichi l’ingresso in un luogo non è escluso, anzi in alcuni casi non ha alternative: “Che cosa bisogna portarsi in Danimarca?” (non si può entrare *a Danimarca o *alla Danimarca, mentre si può entrare a Milano); “Luca si è portato il figlio in chiesa” (non sarebbe possibile *a chiesa o *alla chiesa). Nel caso di portarsi a casa o in casa si può scegliere, ma, come sempre quando c’è una scelta, c’è una differenza tra le varianti: a casa significa ‘nell’ambiente familiare, nella propria sfera privata’; in casa significa ‘nel luogo in cui si vive’. Di conseguenza portarsi in casa un cane suggerisce, rispetto a portarsi a casa, un certo distacco emotivo, al limite un certo fastidio, per la situazione (che, ovviamente, potrebbe essere ironico, quindi, antifrastico).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Andare in pallone è un errore? Soltanto andare nel pallone è corretto?
RISPOSTA:
Le espressioni idiomatiche (come andare nel pallone ‘confondersi, perdere l’orientamento’) hanno una forma rigida. Nel caso di andare nel pallone l’unico cambiamento che si può fare (che non è veramente un cambiamento) è coniugare il verbo: io sono andato nel pallone, lui andrebbe nel pallone, non andare nel pallone ecc. La parte nel pallone, invece, non si può cambiare, altrimenti si perde il senso della frase idiomatica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei avere alcune delucidazioni in merito al verbo entrarci: perché non si può scrivere “se l’avessi fatto, NON SAREBBE C’ENTRATO PER NULLA”? Cioè: come mai nella coniugazione del verbo entrarci in tutti i tempi che non comportano l’ausiliare (essere, in quanto il verbo è intransitivo) la particella ci può essere anteposta con elisione al verbo entrare (c’entrare), mentre in quelli che necessitano dell’ausiliare la particella deve essere messa per intero prima dello stesso?
RISPOSTA:
Entrarci si comporta esattamente come tutti gli altri verbi pronominali, cioè costruiti con un pronome (o particella pronominale): all’infinito, al gerundio, all’imperativo il pronome è enclitico, cioè si appoggia (e si scrive attaccato) all’infinito, al gerundio, all’imperativo (entrarci, entrandoci, entraci), nelle forme semplici il pronome si sposta prima del verbo (ci entrai). Al participio passato il pronome si comporta in due modi: quando il participio è una forma autonoma, senza ausiliare, il pronome è enclitico: entratoci, scoprì chi vi si nascondeva); quando il participio fa parte di una forma composta, dal momento che l’unione con l’ausiliare è molto stretta il pronome non va a inserirsi in mezzo, ma “risale” fino a prima dell’ausiliare. Abbiamo così ci sarebbe entrato e simili. Venendosi a trovare prima di essere, il pronome si pronuncia e si scrive per forza per intero davanti alle forme del verbo che cominciano per consonante (ci sono entrato, ci sei entrato…), si può pronunciare attaccato e scrivere con o senza elisione davanti alle forme che cominciano per vocale (c’è / ci è entrato, c’era / ci era entrato…).
Come dicevo, tutti i verbi pronominali si comportano allo stesso modo. Prendiamo andarsene: andarsene (infinito); me ne andai (forma semplice), andatosene (participio passato senza ausiliare), me ne sono andato (forma composta con ausiliare e participio passato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è errata la frase “Anche questo è un uomo e la sua vita”.
RISPOSTA:
La frase è del tutto corretta se si considera questo come pronome “neutro”, con il significato di ‘questa cosa’. In questo caso la frase diviene equivalente a “Anche questa cosa è un uomo e la sua vita’.
Se, invece, si attribuisce a questo la funzione di aggettivo dimostrativo la frase non è perfettamente corretta, perché il sintagma concordato con questo è un uomo e la sua vita, che contiene due nomi, uno maschile e uno femminile, quindi richiede un accordo plurale maschile. La frase corretta è, pertanto, “anche questi sono un uomo e la sua vita”. Una terza alternativa, che evita questo accordo, corretto ma poco trasparente, è modificare leggermente la sintassi della frase, per esempio così: “Anche questo è un uomo, e anche questa è la sua vita”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho qualche dubbio in merito alla seguente affermazione. Il vogliate che spesso si usa all’interno di questa frase non mi convince:
“Nel caso in cui aveste ricevuto questo mail per errore, vogliate avvertire il mittente al più presto a mezzo posta elettronica e distruggere il…”
RISPOSTA:
La forma è pienamente legittima, sebbene adatta a contesti molto formali o burocratici. Si tratta del congiuntivo presente, seconda persona plurale, del verbo volere, qui con la funzione esortativa, ovvero finalizzato a indurre il ricevente a fare una certa azione. Il congiuntivo esortativo è la forma che sostituisce l’imperativo in contesti formali; l’alternativa a vogliate avvertire, infatti, è avvertite, decisamente più diretta e aggressiva.
L’accordo al maschile con il nome mail (ma in realtà dovrebbe essere e-mail, o email) è al limite dell’accettabilità. Il nome e-mail è comunemente femminile, per cui ci si aspetterebbe questa e-mail, non questo mail. Il maschile non si può definire un errore in assoluto, visto che il genere dei prestiti dall’inglese è soggetto a oscillazione, ma visto che questo nome è saldamente femminile, il maschile appare discutibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Perdonare una persona significa regarLe” oppure “regalarGLI”…?
E poi:
“Il puro potenziale è una energia con la quale è stato creato l’universo” oppure “con il quale è stato creato l’universo”?
RISPOSTA:
La persona è femminile, quindi il pronome che si riferisce a questo nome è le, non gli.
Nella seconda frase il pronome relativo deve riferirsi a una energia, quindi deve essere femminile (la quale): il pronome relativo, infatti, si riferisce sempre al nome più vicino. Se si volesse rimandare a il puro potenziale bisognerebbe cambiare la costruzione della frase, per esempio così: il puro potenziale è una energia; con esso è stato creato…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere gentilmente se la particella ci talvolta sia superflua e dunque trascurabile.
1) (Ci) tengo a precisare che…
2) La notizia (ci) ha commosso / commossi tutti.
3) Dentro la casa, (c’)è uno splendido affresco.
Infine, permettetemi una domanda collaterale: ci con valore pronominale, riferito a terza persona sia singolare che plurale, è corretto?
4) Sono diversi anni che non ci parlo (vale a dire che non parlo a lui / lei oppure a loro).
RISPOSTA:
Il pronome atono ci risulta a volte non chiaramente decifrabile, eppure necessario per completare il senso della frase. Sebbene tenere a possa significare ‘avere a cuore’, tenerci a veicola una maggiore partecipazione emotiva del soggetto (un po’ come mangiarsi un panino rispetto al neutrale mangiare un panino). Addirittura, nel verbo esserci ‘trovarsi, stare in un luogo’, la particella è del tutto desemantizzata, tanto che spesso ne ribadiamo il senso con un complemento di luogo. Succede nella sua terza frase, in cui troviamo sia dentro la casa sia ci. Sebbene la particella non abbia un significato specifico, però, non possiamo eliminarla, perché esserci è del tutto cristallizzato e i suoi componenti non possono essere più separati: la variante dentro la casa è un affresco è al limite dell’accettabilità (pochi parlanti nativi la considererebbero corretta).
Il suo secondo esempio si distingue dagli altri, perché in esso ci è un pronome personale, la cui presenza modifica chiaramente la frase:
ha commosso tutti = ‘ha commosso tutte le persone’;
ci ha commosso tutti = ‘ha commosso tutti noi’.
Ci in parlarci, infine, pronominalizza con lui / lei / loro, quindi “Non voglio parlarci” = ‘non voglio parlare con lui / lei / loro’. A lui / loro è pronominalizzato da parlargli; a lei da parlarle.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tra le due espressioni è la più formale?
– Dottore mi dispiace disturbarla;
– Dottore mi dispiace disturbarlo.
RISPOSTA:
Quando si dà del lei a una persona, i pronomi vanno concordati con lei, mentre gli aggettivi si concordano con la persona a cui ci si rivolge; quindi “Dottore, mi dispiace disturbarla, perché so che lei è occupato“. La variante dottore, … disturbarlo è scorretta, a meno che non ci si riferisca a un’altra persona: “Dottore, mi dispiace disturbarlo ma potrebbe passarmi suo figlio?”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “Questo verbo regge il dativo della persona che si comanda” oppure bisogna dire “Questo verbo regge il dativo della persona a cui si comanda”?
RISPOSTA:
Molti verbi italiani (e anche latini) hanno diverse reggenze. Comandare, In particolare può reggere in italiano:
1. il complemento oggetto della cosa e il complemento di termine della persona (comandare qualcosa a qualcuno);
2. il complemento oggetto della persona e un complemento che indica una destinazione (comandare qualcuno a un luogo o una mansione);
3. solo il complemento oggetto della persona.
Nel primo caso il verbo prende il significato di ‘dare un ordine’ e la cosa che viene comandata è quasi esclusivamente rappresentata da una proposizione oggettiva all’infinito introdotta da di: “Ho comandato a Luca di star fermo”.
Nel secondo caso il verbo significa ‘inviare, destinare, spostare’: “Luca è stato comandato a un nuovo ufficio”. Come si vede, questo uso è prettamente burocratico.
Nel terzo caso il verbo significa ‘dirigere, governare’: “Luca comanda suo figlio a bacchetta”; “Il generale comanda l’esercito con fermezza” (ma, per esempio, comanda all’esercito di avanzare).
In conclusione, la risposta alla sua domanda è che si comanda se il verbo significa ‘dirigere, governare, avere il comando di’ (o, ma è meno probabile, se significa ‘inviare’), oppure a cui si comanda se significa ‘dare un ordine’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La mamma, che insieme al papà ha fatto… o hanno fatto?
RISPOSTA:
Il soggetto della proposizione relativa è che, che rimanda a la mamma. Il verbo, pertanto, deve andare alla terza singolare: ha fatto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito delle preposizioni che servono a caratterizzare una persona, perché le seguenti espressioni si formano con preposizioni differenti? Mi sembrano avere la stessa struttura. O potrebbero essere intercambiabili?
con una grande umanità;
di bassa statura;
dal cuore d’oro;
dall’intelligenza non comune.
Inoltre, molte volte le preposizioni di / da + articolo segnano il motivo: piangere di gioia, dalla gioia. Ma posso usare anche per? piangere dalla / di / per la commozione.
E infine: andare da una stanza all’altra. Perché si dice cosi? Perché non si dice andare da una stanza nell’altra?
RISPOSTA:
Le qualità delle persone o delle cose possono essere espresse in modi diversi. Prima di tutto c’è la possibilità di usare un aggettivo qualificativo (una donna di bassa statura = una donna bassa). Se si vuole usare un sintagma preposizionale si può scegliere soprattutto tra di e da. La differenza tra le due preposizioni è vaga e la scelta tra l’una e l’altra dipende soprattutto dalla preferenza dei parlanti. Volendo essere precisi, di è piuttosto rara, è seguita preferibilmente da un aggettivo e non vuole l’articolo: di bassa statura (non *della bassa statura), di poco conto (non *del poco conto). Dal punto di vista del significato, di rappresenta la qualità come inseparabile dal possessore: questa preposizione, infatti, indica una relazione stretta tra due elementi (è usata, non a caso, nel complemento di specificazione); da, invece, rappresenta la qualità come caratterizzante, posseduta in modo parziale o temporaneo. Con, infine, introduce una qualità che accompagna una persona o una cosa rimanendo ben distinta dalla persona o la cosa. Introduce anche il modo in cui un’azione è compiuta. Si osservino i seguenti esempi:
Luca è una persona di grande umanità;
Luca è una persona dalla grande umanità;
Luca è una persona con una grande umanità.
Il primo indica che l’umanità è connaturata in Luca, tanto che l’uno e l’altra non sono separabili.
Il secondo indica che Luca è caratterizzato dall’umanità, ma quest’ultima non lo identifica.
Il terzo è un po’ forzato; nell’uso sarebbe costruito con una proposizione relativa (Luca è una persona che ha una grande umanità) oppure con dalla grande umanità. Rispetto a da, con indica che la qualità è associabile a Luca, ma in modo non stabile. Questa preposizione è più comunemente legata a un verbo, per introdurre il modo in cui l’evento descritto dal verbo avviene: “Luca si è comportato con grande umanità” (meno comune con una grande umanità).
Di, da + articolo e per + articolo possono esprimere anche la causa di un evento. Anche in questo caso di è raro e indica una relazione stretta tra i due elementi collegati (in questo caso il verbo e la causa). Piangere di gioia, quindi, è la descrizione di un tipo speciale di pianto, diverso da tutti gli altri. Piangere dalla gioia instaura una relazione meno stretta tra i due elementi, ma ancora speciale, tipica. Piangere per la gioia, infine, indica semplicemente la causa del pianto in una determinata situazione. Si noti che di e da non si possono usare sempre per esprimere la causa, ma descrivono soltato situazioni uniche o tipiche: si può, per esempio, piangere di dolore, ma piangere dal dolore è forzato; si può, invece, piangere dal gran dolore (e, al contrario, non è possibile *piangere di gran dolore). Non si può *piangere di fidanzato, né *piangere dal fidanzato, ma si può piangere per il fidanzato.
Infine, andare da un luogo a un altro è preferito ad andare da un luogo in un altro perché il verbo andare non esprime l’ingresso, ma soltanto l’avvicinamento a un luogo. Andare in una stanza, infatti, è un po’ forzato (molto meglio è entrare in una stanza), anche se in un contesto poco sorvegliato è accettabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due frasi è corretta?
1. L’esercito Romano è stata l’entità militare più potente di tutti i tempi.
2. L’esercito Romano è stato l’entità militare più potente di tutti i tempi.
RISPOSTA:
La regola generale è che l’accordo sia tra il soggetto e il verbo, quindi la frase corretta è la 2. L’accordo con il nome del predicato nel caso in cui quest’ultimo abbia un genere o un numero diverso dal soggetto (come nella frase 1.) non è esattamente un errore, ma è piuttosto un’imprecisione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dopo cento e uno è possibile dire cento e due, cento e tre, cento e tredici eccetera?
Si dice centouno favole / libri (plurale) però cento e una favola / cento e uno libro (singolare)?
E con mille vale la stessa regola? Mille e due, mille e tredici, mille e trecentodue, e poi milleuno favole, mille e una favola?
Lo stesso vale per un milione e novantunmila, due milioni e centocinquemila, quattrocentoottantottomila e novecentocinquantuno. Dopo milione, miliardo, mila si mette la e?
Ancora, si scrive anni ’80 o anni 80, nel 45 o nel ’45?
E quando si scrivono insieme e attaccati i numeri grandi?
RISPOSTA:
I composti con cento, mille e -mila si possono scrivere attaccati, senza e o staccati, con la congiunzione; sono, quindi, corretti, sia centotredici sia cento e tredici, sia milletredici sia mille e tredici, sia duemila e novantanove sia duemilanovantanove. Molto più comune oggi, comunque, è la forma unita. Si noti che la decina ottanta perde l’iniziale in composizione con cento: centottanta, centottantuno (oppure cento e ottanta, cento e ottantuno) ecc. Quindi non quattrocentoottantottomila ma quattrocentottantottomila.
Centouno e centouna sono per forza plurali, visto che indicano un gruppo numeroso di elementi. Quando si scrivono separati può sembrare strano concordare uno e una con un nome plurale, ma è ancora possibile: mille e una case, cento e un libri. Diviene possibile, però, anche concordarli al singolare: mille e una casa, cento e un libro.
Milione e miliardo si scrivono sempre separati dalle altre cifre, con la congiunzione e: un milione e novantunmila (non un milionenovantunmila), due milioni e centocinquemila (non due milionicentocinquemila).
I decenni e gli anni si scrivono sempre con l’apostrofo quando viene omesso il migliaio corrispondente al secolo: gli anni ’80 (= gli anni 1980), il ’45 (= il 1945). Possibile anche riferirsi a decenni di altri secoli, specificando il secolo: gli anni ’80 dell’Ottocento.
Queste regole coprono tutti i casi possibili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi chiedo da sempre come mai si dice la fine (femminile), la settimana (femminile), ma il fine settimana (maschile). In italiano, il genere delle parole composte non è collegato ai generi delle parole singole che contengono?
RISPOSTA:
La questione è effettivamente aperta. Di norma il genere dei composti corrisponde al genere della loro testa, ovvero del costituente che detta le caratteristiche morfologiche e semantiche. Per esempio, un pescecane è maschile e definisce un tipo di pesce perché la testa del composto è pesce.
Nel caso di fine settimana ci si aspetterebbe che il genere fosse femminile, perché fine, che è la testa del composto, è femminile (ma può essere anche maschile, con il significato di ‘obiettivo, scopo’). La ragione della scelta del genere maschile per questo composto è probabilmente che esso è un calco traduzione dell’inglese week end, e quindi è trattato come una parola straniera. Le parole straniere che entrano in italiano provenendo da lingue prive del genere (come è l’inglese) sono di solito maschili, ma possono essere anche femminili se richiamano alla memoria dei parlanti altre parole femminili già esistenti in italiano (per esempio, e-mail è femminile perché richiama posta o lettera). Nel caso di fine settimana i parlanti non hanno sentito l’eco di la fine, ma hanno, invece, assimilato questa parola ai giorni della settimana, che sono tutti maschili tranne uno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un insegnante, rivolgendosi agli studenti, dice:’ “Per malattia domani non sarò presente per la lezione di scienze”. La frase è corretta oppure avrebbe dovuto dire presente alla lezione di scienze? C’è una qualche differenza?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Presente a sottolinea il luogo, la situazione in cui si è (o non si è) presenti; presente per sottolinea la funzione, lo scopo per cui si è (o non si è) presenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se mi rivolgo ad un uomo con la forma di cortesia, dirò: ” La terrò informato” oppure ” la terrò informata”?
RISPOSTA:
Lo stile più formale, e anche il rispetto più rigoroso della regola dell’accordo grammaticale, imporrebbero il femminile, dal momento che Lei, anche come allocutivo di cortesia, è femminile e non maschile.
Per taluni, tuttavia, l’affiancamento di un pronome rivolto a un uomo e parole (participi passati o aggettivi) con desinenze femminili pare assai stridente, per cui optano per (o inconsapevolmente adottano) l’accordo al maschile.
A questi ultimi “risentiti”, tuttavia, ricordiamo che una cosa è il genere in natura (o anche nella personale immagine di sé), un’altra cosa è il genere grammaticale. Il pronome Lei rimane femminile (nel genere grammaticale) indipendentemente dal genere (fisico o psicologico) della persona cui si riferisce,
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto in un testo due periodi che a mio parere non sono propriamente corretti. Riporto il primo: “C’erano diverse persone, uno solo era uomo”. Non mi convincono né la sintassi né la punteggiatura. Avrei scritto: “C’erano diverse persone: tra queste c’era solo un uomo”, oppure “C’erano diverse persone: tra di esse c’era solo un uomo”.
RISPOSTA:
La sua critica è fondata: la coesione della frase che ha letto è imprecisa, visto che uno solo rimanda a persona, quindi dovrebbe essere femminile. Dobbiamo sottolineare che si tratta di una imprecisione non grave, perché non intacca la coerenza (non si crea ambiguità ed è facile capire il senso della frase). L’imprecisione, inoltre, non è immotivata, ma è indotta dall’accordo “logico” di uno solo con uomo, referente profondo del pronome.
Neanche la scelta della virgola al posto di un segno di interpunzione più forte, che sarebbe più adatto, impedisce la comprensione della frase.
In conclusione, la frase che lei ha letto è costruita in modo trascurato e sarebbe adatta a un contesto informale, specie se parlato.
Le sue due riscritture sanano l’imprecisione e rendono la frase più formale.
A margine faccio notare che sarebbe possibile anche sostituire i due punti con un punto e virgola, per sottolineare il passaggio a una nuova unità informativa senza implicare che essa sia da considerarsi la conseguenza logica della prima. La separazione tra le due unità potrebbe essere anche più netta, con un punto fermo, che creerebbe due enunciati distinti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
se scrivo a proposito di Mario : “Quella persona (Mario) è un ipocrita”. Dovrei scrivere un’ ipocrita con l’apostrofo (persona è femminile) oppure, essendo Mario un uomo, senza l’apostrofo? Propendo per il femminile, quindi con l’apostrofo. Del resto, se dicessi, sempre a proposito di Mario, che un falso, dovrei dire “Quella persona è falsa” (al femminile) e non “Quella persona è falso”.
RISPOSTA:
I suoi due esempi (“Quella persona è un ipocrita” e “Quella persona è falsa”) non si equivalgono, perché nel primo la parte nominale è rappresentata da un nome (un ipocrita), nel secondo è rappresentata da un aggettivo (falsa). Questa differenza è determinante: l’aggettivo, infatti, concorda con il nome a cui si riferisce in numero e genere (quindi Mario è falso ma la persona è falsa); il nome concorda soltanto in numero.
In questo caso specifico c’è una difficoltà: ipocrita è un nome di genere comune, che può essere sia maschile che femminile, rimanendo invariabile. In teoria i nomi che hanno sia il maschile che il femminile possono essere concordati anche nel genere con l’altro nome a cui si riferiscono, come propone lei. In pratica, però, questo non avviene, perché il soggetto logico (nel suo caso Mario) è più strettamente collegato al nome che funge da parte nominale di quanto non sia collegato all’aggettivo. La frase, pertanto, viene di norma costruita con un ipocrita. Questo è un caso in cui la logica vince sulla grammatica.
Il caso di ipocrita le sembra particolarmente dubbio perché questo nome può essere usato come aggettivo; ma se proviamo a confrontarlo con ci sono altri nomi di genere mobile che non lasciano dubbi: “Quella persona (Mario) è un giornalista” (e non *”Quella persona (Mario) è una giornalista”).
Lo stesso dubbio relativo a ipocrita potrebbe valere per alcuni nomi mobili (quelli che cambiano la desinenza a seconda del genere): “Quella persona (Mario) è un amico” o “Quella persona (Mario) è un’amica”? Inevitabilmente, se si scegliesse la seconda soluzione si darebbe l’impressione che la persona sia una donna. Al contrario: “Mario è una persona amica”, perché qui amica è usato come aggettivo. Nessun dubbio con un nome mobile come maestro / maestra: “Quella persona (Mario) è un maestro”, e non *”Quella persona (Mario) è una maestra”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Credo che la tua tesi di rara completezza e profondità”.
Questa frase può apparire ambigua? La collocazione di rara prima o dopo completezza e profondità altererebbe il senso della frase?
RISPOSTA:
La posizione dell’aggettivo qualificativo rispetto al nome altera sempre il valore dell’aggettivo. Di norma, gli aggettivi preposti al nome (quindi nella posizione più insolita) servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome. Così rara completezza comunica una certa enfasi emotiva, assente in completezza rara. Non si apprezza, invece, alcun cambiamento nel significato dell’aggettivo raro in ragione della sua posizione rispetto al nome. Questo avviene per altri aggettivi, per esempio grande: un grande artista (‘molto capace’) / un artista grande (‘corpulento’, oppure ‘anziano’).
Per un approfondimento di questo tema rimando alla FAQ Usi enfatici di aggettivi come “determinato” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’espressione La vedo stanco è corretta? La prima lettera dentro le virgolette va maiuscola? E quella dopo le virgolette? Comunque stanco può essere usato al maschile dando del lei?
RISPOSTA:
Per l’iniziale della prima parola all’interno delle virgolette c’è una convenzione molto radicata che la vuole maiuscola sempre se le virgolette contengono un discorso diretto (disse: “Vieni”.). Se le virgolette non contengono un discorso diretto non richiedono la lettera maiuscola (il tuo “mal di testa” è molto sospetto). All’esterno delle virgolette (quindi anche dopo) vigono le regole comuni: la maiuscola è, quindi, regolata dalla punteggiatura (disse: “Vieni” e le fece un cenno / disse: “Vieni”. E le fece un segno).
Per la concordanza del pronome di cortesia rimando alla FAQ “Lei”, “voi”, “loro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo stamane quanto scrive un quotato giornalista italiano in un articolo pubblicato su un giornale a diffusione nazionale: “La sinistra è insorta indignata e non so dargli torto”. Ora, sinistra è femminile, quindi il giornalista avrebbe dovuto scrivere non so darle torto. A meno che il giornalsta non intendesse non so dare torto a quelli di sinistra. Non saprei altrimenti come giustificare questo strafalcione di un giornalista da tutti considerato un vero intellettuale.
RISPOSTA:
La distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ è un caposaldo della norma grammaticale italiana contemporanea, sebbene sia molto comune, in contesti informali, usare gli per entrambi i generi. Non c’è dubbio che, in astratto, la sinistra vada pronominalizzato con le, ma, a difesa del giornalista, faccio notare che i pronomi personali lui, lei, gli, le suonano un po’ male quando sono riferiti a entità non animate. Tra questi pronomi, poi, quelli più stridenti sono proprio quelli femminili, che ci si aspetta rimandino a referenti animati (ci si aspetta, cioè, che il genere coincida con il sesso). Pensi a quanto sia strana una frase come questa: “Non ho visto la porta e le ho dato una testata”. Di solito, il parlante tenta di evitare questa situazione, usando altri pronomi o modificando la frase. Nel mio esempio, potremmo risolvere il problema così: “Non ho visto la porta e ci ho dato una testata”, trattando la porta come un luogo. Con la sinistra non si può usare ci; si potrebbe usare non so dare torto a essa, che, però, suonerebbe artificioso. Ecco, allora, che il giornalista ha optato per quello che gli sembrava il male minore, ovvero gli, che è più accettabile (sebbene non ineccepibile) in riferimento a entità inanimate.
Così facendo, però, ha prodotto un errore per evitare una sbavatura. Per giunta, il referente la sinistra non è del tutto inanimato, quindi non so darle torto non stride troppo.
La sua interpretazione (gli = ‘a loro) è ingegnosa, ma, se anche il giornalista avesse inteso questo, la frase risulterebbe infelice, perché ambigua. Si potrebbe, però, cogliere il suo spunto e superare qualsiasi difficoltà così: “La sinistra è insorta indignata e non so dare torto ai suoi militanti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se dico la grande attenzione e passione con l’intento di rivolgere grande sia ad attenzione che a passione la frase è corretta?
RISPOSTA:
In un contesto informale la costruzione andrebbe bene; formalmente, però, l’aggettivo al singolare non può riferirsi a due nomi. Si dovrebbe, allora, riformulare l’espressione con le grandi attenzione e passione, oppure la grande attenzione e la grande passione, la grande attenzione e l’altrettanto grande passione o simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire “Non manca la professionalità e l’attenzione”? Forse va usato non mancano.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è la professionalità e l’attenzione, che è equivalente alla terza persona plurale; il verbo, pertanto, deve essere mancano.
L’accordo al singolare è ammissibile in un contesto di parlato informale; nello scritto, invece, è bene rispettare la regola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio in merito alla frase che segue: “A meno di necessità specifiche da parte tua che potrai fare presenti…”; è corretto declinare al plurale presenti?
RISPOSTA:
Certo: presenti concorda con necessità (come specifiche), che è femminile plurale. Essendo un aggettivo a due uscite, una (presente) per il singolare, una (presenti) per il plurale, il genere del nome con cui concorda non conta: necessità presenti / alunni presenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se nei numeri composti con uno è possibile o obbligatorio il troncamento: ventun o ventuno libri, ventun, ventuno o ventuna ragazze, ventun o ventuno aule, centuno, centouno o cento uno ragazze?
Il numero ordinale, inoltre, come si forma? centounesimo o centunesimo? centoduesimo o centoundicesimo,
millesimo primo o milleunesimo?
RISPOSTA:
I composti di uno sono invariabili: ventuni, ventuna e ventune non esistono. Il troncamento, o apocope, con questi composti è possibile, ma non obbligatorio: ventuno libri ma anche ventun libri, ventuno ragazze ma anche ventun ragazze, ventuno aule ma anche ventun aule. La forma non apocopata è la più frequente nell’italiano contemporaneo, soprattutto davanti a parole femminili inizianti per a: ventuno aule è molto più comune di ventun aule.
Diversamente dall’apocope, l’elisione con questi numerali è impossibile: *ventun’amici o *ventun’amiche sono forme scorrette.
Quando nei numerali composti oltre il cento si incontrano due vocali, queste si mantengono: centouno, milleuno ecc., persino se sono uguali: centootto. Al contrario, al di sotto di cento la prima vocale cade: ottantuno, ottantotto ecc. Per il numerali cardinali oltre il mille, inoltre, è possibile la forma mille e uno (mille e due…), accanto a milleuno (milledue…). Al di sopra di un milione, la forma separata diviene l’unica possibile: un milione e uno. Nelle forme in cui è separato dal resto, uno si accorda anche al femminile: mille e una stella (o milleuno stelle), un milione e una stella.
Anche per gli ordinali, le vocali si mantengono al di sopra di cento: centounesimo (e ovviamente centoduesimo), centoundicesimo ecc. Al di sopra di millesimo gli ordinali divengono rarissimi; le forme ufficiali, comunque, sono milleunesimo, milleduesimo ecc.
La forma alternativa degli ordinali, composta dall’ordinale che indica la decina, il centinaio o il migliaio seguito da quello che indica le unità, è possibile per tutti i numeri oltre il dieci: decimoprimo, decimosecondo, centesimoprimo, millesimoprimo ecc. Si può scrivere sempre anche staccata: decimo primo ecc.
Queste forme, che corrispondono alla traduzione delle cifre romane (MI = millesimoprimo), sono usate in contesti molto formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la forma giusta di queste frasi?
1. Necessita / necessiti cambiare il parabrezza della tua auto (forma impersonale).
2. La si è fatta / si è fatto la composizione (forma passiva al passato).
3. Lo si sono fatti…
Bisogna, insomma, concordare il participio con il soggetto?
4. Quando (non avere) ________________ la febbre alta e il mal di gola, è meglio non prendere antibiotici.
In questa frase bisogna usare non si ha o non si hanno?
RISPOSTA:
Nella prima frase si deve scegliere necessita, perché la forma impersonale è sempre la terza singolare. L’altra forma, necessiti, non sarebbe sbagliata, ma non è impersonale: assume come soggetto tu. Va detto che il verbo necessitare è raro e usato quasi esclusivamente con il complemento oggetto (“Quel palazzo necessita una ristrutturazione”, ma anche “Quel palazzo necessita di una ristrutturazione”); quando il complemento diretto è rappresentato da una proposizione (di tipo soggettivo) si preferisce c’è bisogno di o è necessario.
Nella seconda frase l’accordo del participio con il complemento oggetto, la composizione, è obbligatorio se interpretiamo il verbo come passivo. In questo caso, però, la composizione è il soggetto e non può essere ripreso con un pronome diretto. Il pronome si può usare se interpretiamo il verbo come impersonale, e quindi la composizione ne è il complemento oggetto. Si noti che, senza il pronome, il verbo impersonale diviene invariabile, quindi si è fatto la composizione.
In conclusione, la frase può prendere queste forme: 1. la si è fatta la composizione (il verbo non è passivo, bensì impersonale e la composizione è complemento oggetto); 2. si è fatto la composizione (il verbo è impersonale, senza pronome di anticipazione); 3. si è fatta la composizione (il verbo è passivo e la composizione ne è il soggetto).
Lo stesso vale per la terza frase. Lo si sono fatti è impossibile (come anche li si sono fatti); possibili forme sono li si è fatti e si è fatto (con il verbo impersonale) e si sono fatti (con il verbo passivo, equivalente a sono stati fatti).
Nella quarta frase, la forma verbale più comune è non si hanno, perché la febbre alta e il mal di gola sono il soggetto della frase equivalente (molto improbabile nell’uso): “Quando la febbre alta e il mal di gola non sono avuti”. Possibile, ma raro, anche non si ha, con il verbo impersonale, quindi invariabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il correttore mi ha mandato nel pallone: mi suggerisce di sostituire stavano con stava. Chi ha ragione?
È meglio assopendo o facendo assopire nella seguente frase?
Il leggero movimento del vagone, il rumore ritmato e lo scorrere del paesaggio fuori dai finestrini stavano facendo assopire (assopendo) i viaggiatori e, dopo pochi minuti di viaggio, anche Marco cedette al dolce arrivo della sonnolenza.
RISPOSTA:
Vista la presenza di più soggetti singolari (il leggero movimento, il rumore ritmato, lo scorrere del paesaggio), il verbo richiesto è di sesta persona, perciò stavano. Il correttore digitale ha spesso difficoltà a riconoscere i soggetti multipli.
Sulla scelta del gerundio deve pesare il genere (transitivo o intransitivo) del verbo assopire. Dal momento che il verbo è transitivo, esso non necessita della perifrasi fattitiva (fare + infinito) per essere completato dal complemento oggetto; può, al contrario, reggere direttamente il complemento oggetto: stavano assopendo i viaggiatori.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ci sono un tavolo e una sedia”, oppure “C’è un tavolo e una sedia”?
“Ci sono una camera, un bagno e un salotto” oppure “C’è una camera, un bagno e un salotto”.
RISPOSTA:
In entrambe le frasi il soggetto è rappresentato da più di un elemento (nella prima un tavolo e una sedia), nella seconda una camera, un bagno e un salotto). Il verbo, pertanto, deve andare al plurale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente affermazione quale pronome si usa? “Ho visto Lisa a pranzo e gli / le ho detto di venire stasera”.
RISPOSTA:
Dal momento che il complemento di termine è femminile (= a Lisa), si usa le. Il pronome gli si riferisce, invece, a nomi maschili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando si dà del lei a una persona di sesso maschile si dice ad esempio: la vedo stanco, o la vedo stanca? L’accordo va fatto al maschile o al femminile?
Se ad esempio dico: tavoli e specchi quadrati, l’aggettivo quadrati riguarda solo gli specchi? Mi verrebbe da dire tavoli e specchi entrambi quadrati.
Se fosse pennelli e scarpe rossi si intenderebbe entrambi perché rossi è accordato al plurale. Ma è corretto dire rossi per comprendere entrambi?
RISPOSTA:
Quando si dà del lei a qualcuno l’accordo con il pronome va fatto alla terza persona e secondo il genere della persona. Quindi, ad esempio: signora Verdi, la vedo stanca, ma signor Verdi, la vedo stanco (e inoltre, ovviamente non signor Verdi, lo vedo stanco). Quest’uso, oggi praticamente obbligatorio, non è l’unico possibile in teoria (e si noti che si tratta di una infrazione della regola grammaticale dell’accordo); se fosse ancora vitale l’espressione sua signoria, sottintesa dal lei, l’accordo sarebbe sempre al femminile: vedo la sua signoria stanca (signor Verdi).
L’aggettivo che si riferisce a più nomi dello stesso genere si accorda al plurale nel genere dei nomi. Questo può ingenerare ambiguità; nella frase tavoli e specchi quadrati, ad esempio, l’aggettivo quadrati può riferirsi tanto a specchi quanto a tavoli e specchi. Non può, invece, riferirsi al solo tavoli, perché altrimenti dovrebbe essere posto accanto a questo nome (tavoli quadrati e specchi). Per evitare questa ambiguità si può costruire la frase come fa lei, aggiungendo l’aggettivo entrambi. L’aggettivo entrambi, però, suona un po’ strano riferito a due gruppi di elementi, perché per la precisazione significa ‘tutti e due’, non ‘tutti’. Al suo posto si potrebbe usare tutti (in questo caso non è possibile intendere tutti quadrati come ‘completamente quadrati’, perché completamente quadrati non ha senso). Un’altra soluzione ineccepibile potrebbe essere ugualmente quadrati.
Ancora, se quadrati fosse riferito soltanto a specchi, si potrebbe dire specchi quadrati e tavoli, o tavoli e, inoltre, specchi quadrati o in altri modi (bisognerebbe considerare l’intera frase).
Quando l’aggettivo si riferisce a più nomi di generi diversi, come nel suo terzo esempio, l’accordo va fatto al plurale maschile: pennelli e scarpe rossi, quindi, significa ‘pennelli rossi e scarpe rosse’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere se è giusto dire “La vita non è qualcosa che merita di essere PRESO sul serio”.
Preso si riferisce a qualcosa e quindi va al maschile?
RISPOSTA:
Per essere precisi, il soggetto di essere preso è lo stesso della proposizione reggente, quindi che, a sua volta collegato all’antecedente qualcosa. Sebbene attraverso passaggi intermedi, quindi, preso va concordato con qualcosa, ovvero al maschile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Può capitare che il soggetto non concordi nel genere e nel numero con il sostantivo che funge da nome del predicato del predicato nominale?
RISPOSTA:
Il soggetto può non concordare con il nome del predicato rappresentato da un sostantivo quando siano coinvolti nomi collettivi; per esempio: “La famiglia è i suoi membri”. I parlanti di solito evitano tali costruzioni, che istintivamente ritengono scorrette, preferendo concordare la copula con il nome del predicato: “La famiglia sono i suoi membri”. Anche così, però, si crea una stranezza, perché il verbo non concorda con il soggetto. L’unico modo per aggirare il problema è formulare la frase diversamente, per esempio “La famiglia è rappresentata dai suoi membri”.
Il mancato accordo può avvenire anche quando il nome collettivo è nel predicato; per esempio: “I giocatori sono la squadra”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due varianti di ognuna delle coppie di frasi presentate si differenziano a livello di formalità:
1a. Non sono io a dover rispondere.
1b. Non sono io che devo rispondere.
2a. Lei mi prese la mano.
2b. Lei prese la mia mano.
RISPOSTA:
Nella prima coppia, la soluzione con la subordinata implicita è più formale. Essa ha il vantaggio di nascondere il problema dell’accordo del verbo con il soggetto della subordinata (detta pseudorelativa). Se si considera attentamente, infatti, il che che introduce la subordinata è a metà strada tra la prima e la terza persona, come se ci fosse un colui (o quello o simili) sottinteso: “Non sono io (colui) che deve rispondere”. A riprova di questo, se capovolgiamo le posizioni del soggetto e del verbo essere nella proposizione reggente colui diventa obbligatorio, e di conseguenza l’accordo del verbo della subordinata è alla terza persona: “Io non sono colui / quello / la persona che deve rispondere”. La concordanza alla terza persona, che in presenza di colui è obbligatoria, è, però, innaturale senza colui, quindi preferiamo concordare il verbo “logicamente” con io, oppure aggirare il problema con l’infinito.
Nella seconda coppia, la variante con l’aggettivo possessivo è decisamente poco comune e formale, tanto da essere adatta a uno scritto letterario ed essere, invece, da evitare in qualsiasi altra sede. Si pensi a quanto suonerebbe ironica tale costruzione associata a un evento quotidiano: “Il parrucchiere taglia i miei capelli”. Se, però, rendiamo la frase più aulica, ecco che la costruzione diviene accettabile: “Il parrucchiere acconciò la mia chioma con maestria”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?
1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro.
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata.
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo.
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.
RISPOSTA:
Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale.
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato.
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi e sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi e sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto su un libro di scrittura e comunicazione il seguente passo: “La lettura – e intendiamo riferirci alla lettura in quanto attività anche libera,disinteressata – è stato il vero serbatoio della scrittura”. Il passato prossimo non si dovrebbe concordare con lettura: “La lettura è stata il vero serbatoio della scrittura”?
RISPOSTA:
L’accordo del participio passato è un motivo ricorrente di dubbio. Nel suo caso, il participio di essere può accordarsi sia con il soggetto sia con il nome del predicato, quindi entrambe le forme (“La lettura è stato il vero serbatoio” / “la lettura è stata il vero serbatoio”) sono corrette.
Per un approfondimento sull’accordo del participio passato, la rimando alla risposta della FAQ Tutti gli accordi del participio passato dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Sono corrette queste frasi?
1. Se rappresentava il compenso per una settimana di lavoro, lo considerava inadeguato; se invece fosse stato un regalo per le sue prestazioni sullo yacht, significava che era stata considerata una puttana.
2. Se a te fa piacere, sarei felice di invitarti a prendere un gelato o se preferisci, potremmo andare al cinema.
3. Due giorni prima dell’esame, Marco ricordò alla sua ragazza l’impegno che si era preso/a? di accompagnarlo.
4. Inoltre, vista la mia situazione, un aumento di stipendio era proprio ciò che ci volesse / voleva?
5. Ci vorranno ancora secoli perché tutto questo cambi.
RISPOSTA:
1. Corretta; l’alternanza tra un periodo ipotetico con protasi all’indicativo imperfetto (rappresentava) e al congiuntivo trapassato (fosse stato) è ammissibile come scelta stilistica.
2. L’unica sbavatura è la mancanza delle virgole prima della coordinata disgiuntiva (non sempre richiesta, ma in questo caso preferibile perché la coordinata presenta un’alternativa netta rispetto alla prima proposizione), e in apertura dell’incidentale. Quindi, un gelato, o, se preferisci,.
3. l’impegno che si era presa. Il participio passato unito all’ausiliare essere concorda con il soggetto.
4. Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è più formale.
5. Corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una frase come “loro si vestono eleganti”, l’aggettivo, che mi pare un avverbio, si concorda con il soggetto o no?
RISPOSTA:
La frase “loro si vestono eleganti” è corretta, ma informale. Sarebbe più formale “loro si vestono elegantemente”, con l’avverbio al posto dell’aggettivo (che, infatti, ha funzione avverbiale). Possibile, ma molto informale, anche “loro si vestono elegante”, con l’aggettivo che rimane invariato proprio perché ha la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Posso scrivere “I diversi membri del gruppo hanno ognuno la sua parte specifica”? Oppure dovrei scrivere hanno ognuno la loro parte specifica?
Cioè ognuno può essere anche accordato al singolare con sua?
RISPOSTA:
Ognuno è singolare, quindi richiede l’accordo al singolare. La forma corretta, pertanto, è ognuno la sua parte. Ognuno la loro parte, che è scorretto, può essere descritto come un caso di concordanza a senso, cioè non con la parola effettivamente usata (ognuno), ma con il referente “logico” (i diversi membri).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla concordanza degli aggettivi. Si dice maglie e scarpe rosse o rossi se intendo entrambe? Sono due soggetti femminili e non so come accordarli se voglio considerarli entrambi.
Si dice i minerali e sostanze ferrosi intendendoli entrambi? O ancora gli applausi e le risate furono uditi o udite?
Se dico tutte le case e i condomini, infine, quel tutte è riferito ad entrambi i nomi?
RISPOSTA:
Nel caso di due o più nomi tutti femminili l’accordo dell’aggettivo sarà plurale femminile, quindi maglie e scarpe rosse. Nel caso di due o più nomi tra i quali almeno uno sia maschile l’accordo sarà plurale maschile, quindi gli applausi e le risate furono uditi. Nell’espressione i minerali e sostanze ferrosi è necessario inserire l’articolo davanti a sostanze (ogni nome dovrebbe avere il suo articolo, soprattutto se è di genere o numero diversi da quelli dell’articolo inserito): i minerali e le sostanze ferrosi.
In astratto la regola dell’accordo vale anche quando l’aggettivo precede i nomi con cui deve concordare. In questo caso, però, se il primo nome è femminile risulta molto sgradevole mettere l’aggettivo al maschile (tutti le case e i condomini), come vuole la regola. Si può ovviare facilmente al problema ripetendo l’aggettivo: tutte le case e tutti i condomini. In alternativa, si può cambiare l’ordine dei nomi: tutti i condomini e le case.
Si noti che nell’espressione tutti i condomini e le case l’aggettivo può, ma non deve necessariamente, riferirsi a entrambi i sintagmi nominali: rimane, cioè, la possibilità che tutti sia riferito soltanto a condomini. Se fosse davvero necessario specificare oltre ogni dubbio che tutti va riferito a condomini e a case l’unica soluzione è ripetere l’aggettivo: tutti i condomini e tutte le case. Se fosse, al contrario, necessario specificare che tutti va riferito soltanto a condomini si potrebbe optare per una forma come tutti i condomini, nonché le case, che separa i due sintagmi nominali. Si tratta, comunque, di una sottolineatura un po’ pignola, perché l’ambiguità risultante da tutti i condomini e le case non pregiudica, nella maggior parte dei contesti, la comprensione del significato della frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tra le due forme è corretta?
Sapevamo che vi sareste presi cura di lui.
Sapevamo che vi sareste preso cura di lui.
RISPOSTA:
La forma corretta è la prima (se il soggetto è maschile). Quando l’ausiliare è essere, il participio passato concorda con il soggetto; se il soggetto è femminile, quindi, avremo “Sapevamo che vi sareste prese cura di lui”. Maggiori informazioni sull’accordo del participio passato sono nella risposta Tutti gli accordi del participio passato dell’archvio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sarò molto grato se Loro potranno aiutarmi e spiegare quando si usano agg. poss. Sua, Vostra, Loro in formule di cortesia e di cerimoniale.
Nel Vocabolario online (http://www.treccani.it/vocabolario/maesta) ho trovato la seguente spiegazione:
Cioè, se ho capito bene, quando si rivolge direttamente a un Re o Imperatore, si dice: Vostra Maestà (con valore di 2a persona sing.), le Vostre Maestà (con valore di 2a persona pl.). Per es.: “Il sottoscritto chiede alla Vostra Maestà / alle Vostre Maestà”. Quando parliamo di un Re o Imperatore, invece, si dice: Sua Maestà (con valore di 3a persona sing.), le Loro Maestà (con valore di 3a persona pl.). Per es.: “Vorrei parlare con Sua Maestà”; “le Loro Maestà sono occupate e non possono riceverLa”.
Lo stesso principio nell’articolo (http://www.treccani.it/vocabolario/signoria):
Però nello Zingarelli 2004, p. 1017 trovo:
Questo significa che le Loro maestà si può usare come forma equivalente a le Vostre Maestà quando si rivolge direttamente al Re e alla Regina?
Vorrei anche sapere:
– se il principio spiegato nel Vocabolario Treccani è valido anche per: Altezza, Eccellenza, Grazia, Santità, Signoria, Eminenza?
– Se questi titoli / appellativi si possono usare quando ci si rivolge a una donna (per es. una principessa, una ambasciatrice, una donna autorevole.
RISPOSTA:
I pronomi di cortesia e gli aggettivi possessivi che li accompagnano, Lei / Loro (Suo e Loro) e Voi (Vostro), si distinguono soprattutto per il grado di formalità che veicolano: il Voi (quindi l’aggettivo Vostro) è sentito come massimamente rispettoso, mentre il Lei / Loro (con gli aggettivi Suo e Loro) è leggermente meno formale. L’unica distinzione funzionale tra le due persone riguarda le allocuzioni: Vostra Maestà / Signoria / Grazia difficilmente può essere sostituito da Sua Maestà o simili, che suona al limite dell’accettabilità. Fuori da questo contesto, Voi e Lei (e i rispettivi aggettivi possessivi) sono intercambiabili; si può dire, per esempio: “Vostra Signoria, la prego di concedermi il suo perdono”, oppure “Vostra Signoria, vi prego di concedermi il vostro perdono”. Nel caso ci si rivolga a un re, sarebbe più indicata questa seconda soluzione, più ossequiosa.
Si noti che, se è comune scrivere con lettera maiuscola i pronomi di cortesia, meno comune è scrivere con maiuscola anche gli aggettivi possessivi. È, inoltre, possibile sostituire Lei con Ella (quando è soggetto), ma la rarità di questo pronome nell’italiano contemporaneo rischia di caratterizzare il discorso come troppo cerimonioso.
La possibilità di passare al Lei dopo una allocuzione con il Voi è ben attestata anche nella tradizione; si legga questa lettera di Giacomo Leopardi del 1823:
Come si vede, Leopardi passa dal Vostra al Lei rivolgendosi alla stessa persona, e in ogni caso usa il verbo alla terza persona singolare quando il soggetto è questa persona (ho sperato che V.S. Ill. si sarebbe compiaciuta). Quando si riferisce a un terzo personaggio illustre, usa ovviamente il Lei e l’aggettivo sua (sua Eminenza), perché non si tratta di una allocuzione, ma di un riferimento.
Per quanto riguarda il genere, i pronomi e gli aggettivi possessivi di cortesia sono ambigenere: potremmo dire che quando li usiamo ci rivolgiamo e ci riferiamo non alle persone ma ai ruoli politici che ricoprono, quindi non facciamo distinzione tra uomini e donne.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riferendosi ad una donna la frase corretta è “Carla non ti abbiamo mai dimenticato” oppure “Carla non ti abbiamo mai dimenticata”?
RISPOSTA:
La variante con il participio passato accordato con il complemento oggetto è in linea di principio preferibile, sul modello delle frasi in cui il verbo è preceduto da un pronome di terza persona (ad esempio “Non la abbiamo mai dimenticata”), nelle quali l’accordo è obbligatorio. La variante senza l’accordo, però, non può dirsi scorretta, anche se è meno precisa; su essa opera l’analogia con la costruzione più comune, nella quale il participio passato è invariabile (“Non abbiamo mai dimenticato Carla”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I miei dubbi sono i seguenti:
1. nella frase “Al giorno d’oggi è importante essere sul web”, è giusto scrivere sul web?
2. È più corretto dire cerco in Internet o su Internet?
3. nella frase “L’agenzia si occupa della realizzazione di siti internet in provincia di Genova, di Savona e di La Spezia”, è corretto ripetere la preposizione di oppure è meglio scrivere di Genova, Savona e La Spezia?
4. Nella frase “È necessaria una fase di studio e progettazione iniziali”, è corretto il plurale iniziali?
RISPOSTA:
1. Sul web, sul Web, o sul web (vale a dire “sul web“) è la costruzione più comune, motivata dal fatto che i contenuti del web ci raggiungono sotto forma di stringhe di testo e immagini su uno schermo. I parlanti, quindi, assimilano per metonimia il contenuto al contenitore. Più preciso è nel web, visto che il web è l’ambiente figurato nel quale si trovano i contenuti. Si ripropone con questa espressione la stessa alternanza che c’era già tra in un libro e su un libro, nel giornale e sul giornale.
2. Come sopra.
3. Le due varianti sono ugualmente corrette; visto che non c’è ragione di ripetere la preposizione, però, è preferibile non ripeterla.
4. Sì, un aggettivo riferito con due o più nomi di genere diverso (a prescindere dal loro numero) concorda di norma al maschile plurale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggevo in un giornale: “è anni che il marito la tradisce”. E’ accettabile, oppure è corretto scrivere solamente: “sono anni che il marito…”
RISPOSTA:
Il costrutto da Lei segnalato “è anni che” è detto, in linguistica, frase scissa, ed è molto frequente (almeno a partire dal Settecento) e molto studiato. Serve a dare maggiore rilievo, a mettere in evidenza, a focalizzare, la parte dell’enunciato subito dopo il verbo essere. Benché si possa trovare in ogni tipo di lingua, è chiaro che, al pari degli altri costrutti di sintassi marcata, la frase scissa sia più frequente, e appropriata, in quei tipi di testo in cui sale l’esigenza di coinvolgere l’attenzione dell’interlocutore, o anche in quelli in cui è necessario ripristinare la coesione riagganciandosi a quanto già detto. Pertanto, il regno delle frasi scisse saranno, per esempio, i testi giornalistici e anche alcuni tipi di testo più informali, più vicini alla mimesi del parlato. Ma, a differenza di altri costrutti marcati (come le dislocazioni a destra o gli anacoluti), le frasi scisse si trovano anche in testi letterari e molto formali, proprio come tecnica di coesione e di focalizzazione. Proprio perché il verbo essere e il che sono, per dir così, abbastanza desemantizzati e grammaticalizzati, cioè utili al fenomeno della focalizzazione (si tratta infatti di un che pseudorealtivo, e non relativo puro, come dimostra l’impossibile sostituzione con il quale), non è infrequente, nell’italiano di ieri e di oggi, incontrare l’accordo di è singolare con un soggetto plurale, perché, come ripeto, il verbo serve qui a introdurre qualcosa da focalizzare (focus), indipendentemente dal suo ruolo sintattico. Per es., nelle quattrocentesche lettere di Alessandra Macinghi Strozzi (nel CD della Biblioteca italiana Zanichelli) leggo: “ma egli è anni che tu cominciasti a fare delle cose non ben fatte”. È chiaro che la forma senza accordo (“è anni che”) sia da intendersi come la soluzione meno formale, meno adatta a un testo scritto ufficiale, ma comunque possibile e non scorretta tout court.
Ciò detto, possiamo provare a istituire una sorta di scala di formalità, dal più al meno formale, per esprimere un concetto analogo:
1. il marito la tradisce da anni
2. sono anni che il marito la tradisce
3. è anni (o anche “è da anni”) che il marito la tradisce.
Aggiungo in coda che recentemente m’è capitato di studiare un fenomeno analogo, sempre sul terreno del labile accordo nelle frasi scisse. Il verso, splendido, è nella conclusione del Falstaff di Verdi/Boito: “Son io che vi fa scaltri”. In questo caso ci si aspetterebbe l’accordo “faccio”, ma proprio la natura della focalizzazione pseudorelativa consente di considerare quel che come una ripresa neutra, svincolata da quanto riprende. In verità, il discorso sarebbe ben più complesso, ma questa è un’altra storia.
Fabio Rossi
QUESITO:
Facendo un piccolo ritorno all’uso di NE vorrei chiedere se queste forme sono giuste con l’accordo e se esso *è obbligatorio*:
Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno.
Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni. // *Ne ho letto due/molti/parecchi… ???*
Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno.
Non ne ho letto nessuna (delle poesie)
Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una. // *Ne ho preso una. ???*
Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune. // *Ne ho preso molte/tante…
???*
Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna. // *Non ne ho mangiato nessuna. ???*
*E in questo caso e obblagatorio la concordanza o possiamo prescinderne?*
Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato. /ne ho comprato
Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata. /ne ho comprato
Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati. /ne ho
Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili.
Alla domanda: Hai mangiato del pane? Hai preparato degni gnocchi?
qual e la risposta giusta?
Si, l’ho mangiato. o : Si, ne ho mangiato.
Si, li ho preparati. o Si, ne ho preparato. / ne ho preparati alcuni.
RISPOSTA:
Rispondo caso per caso:
“Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno”: va bene la forma al maschile singolare: uno si riferisce a libro. Buonissimi però non è adatto ai libri, ma a qualcosa che si mangia, o altro, ma non ai libri. Meglio Bellissimi, interessantissimi, ottimi o altro.
“Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni”: l’accordo al plurale è fortemente richiesto, anche se nell’uso informale esiste la variante senza accordo: “Ne ho letto due”.
“Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno”: va bene.
“Non ne ho letto nessuna (delle poesie)”: vale lo stesso che per “Ne ho letto / letti due”, l’accordo al femminile è corretto; la variante senza accordo è ammessa ma meno formale.
“Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una”: va bene con accordo.
“Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune”: va bene accordato.
“Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna”: va bene con accordo.
“Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato”. “Ne ho comprato” va bene, ma andrebbe bene anche: “sì, l’ho comprato”, visto che il partitivo di qualcosa di cui non ci specifica la quantità si presta sempre ad essere interpretato come un intero, a meno che non si specifichi un peso preciso, o una misura ecc., per es.: “Sì, ne ho comprati due litri”, meglio di “ne ho comprato due litri”. Sarebbe scorretto, invece, in questo caso: “L’ho comprato due litri”, appunto perché in presenza di quantità va specificato il partitivo ne.
“Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata”: identico al discorso fatto sopra per il vino: se non si specifica la quantità il partitivo è inutile, e dunque si può rispondere anche: “Sì, l’ho comprata”, ma: “Ne ho comprati due chili”, meglio di “ne ho comprato due chili”. Possibile in astratto, ma rarissima, anche la variante “Ne ho comprata due chili”, con il participio accordato con pasta.
“Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati”: come sopra.
“Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili”. La forma più corretta è “Ne ho comprati due chili”, ma andrebbe bene, in astratto, anche “Ne ho comprate due chili”, con l’accordo con mele. Più informale, ma possibile, “Ne ho comprato due chili”, senza accordo.
Quanto infine alle ultime due domande, entrambe le risposte alla prima sono giuste, per il discorso fatto sopra sulla quantità non specificata. Alla seconda domanda, sono corrette, per lo stesso motivo, tutte le varianti; tra “Ne ho preparati alcuni” e “Ne ho preparato alcuni” la prima è più formale.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Provo a riassumere le cose:
Con l’avverbio NE e obbligatorio la concordanza se c’e solo un pronome indefinito o un numerale:
Delle banane ho comprata una/ho comprate due/ ho comprate molte, parecchie.
Ma se c’e una quantità: pagina, chilo, pezzi, fette: come va l’accordo? Cioè non posso concordare con il soggetto se c’e la quantità come oggetto.
Delle arance ne ho presi due chili. va bene con la concordanza con la quantità.
Ne ho preso due chili. va bene-non è obbligatorio la concordanza, il participio rimane invariato
Ne ho prese due chili. non va bene, non posso concordare con le arance, o rimane invariato il participio o va concordato con la quantità.
Mi scusino per insistere su questo punto, insegno l’italiano e ho spiegato secondo le vecchie regole questo uso e adesso quando mi correggo non voglio sbagliare di nuovo.
Adesso sono nel giusto?
RISPOSTA:
I suoi dubbi sono più che legittimi, anche per un madrelingua, dal momento che l’accordo con il ne è uno dei punti d’ombra della nostra grammatica, ovvero uno di quelli poco normati e in cui gli usi valgono più delle regole. Le risposte presenti nell’archivio di DICO sull’argomento (si vedano almeno le domande “Ancora sull’accordo con “ne” e Ancora sull’uso del ne: con o senza accordo del participio passato con l’oggetto? ) riflettono le scelte più comuni e quelle che non destano alcuna reazione negativa nella gran parte dei parlanti. Tutti gli altri usi che cita Lei sono in realtà pure attestati, ma non da tutti condivisi. Pertanto, riassumendo a partire dalle sue parole: tutto vero quello che scrive nella prima parte del suo messaggio. Per quanto riguarda la seconda parte, ovvero in presenza di un quantificatore, la scelta più comune (e dunque da me suggerita) è quella dell’accordo con l’oggetto. Quindi:
“Delle arance ne ho presi due chili” va bene sempre. Le altre due possibilità suscitano qualche perplessità nei parlanti e nei grammatici: “Ne ho preso due chili” (più frequente, ma meno formale) e “Ne ho prese due chili” (più rara).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del pronome ne. Come si sa, si può concordarlo sia con il sostantivo sia con la quantità: “Delle caramelle ne ho comprate tre / ne ho comprati due chili”. Mi pare che anche le seguenti frasi abbiano due risposte giuste.
1. Ho tutti i libri di Harry Potter in fila in libreria e ne ho regalato / regalata qualche copia agli amici.
2. Mi sono addormentato guardando la tv e del film ne ho visto / vista solo una parte.
3. Ne ho bevuto / bevuti due bicchieri (di vino).
4. Ne ho bevuta / bevuto un bicchiere (della birra).
5. Ne ho mangiata / mangiate due fette (della torta).
RISPOSTA:
Come spiegato in questa risposta dell’archivio, il participio passato dei verbi transitivi preceduto dal pronome ne può concordare con il complemento oggetto oppure rimanere invariato (quest’ultima possibilità è meno formale) . Tutte le sue frasi, quindi, ammettono entrambe le soluzioni: “Delle caramelle ne ho comprate tre” (con comprate concordato con caramelle, sottinteso accanto a tre ) e “Delle caramelle ne ho comprato tre” (con comprato invariabile) . “Delle caramelle ne ho comprati due chili” e “Delle caramelle ne ho comprato due chili”. L’accordo con il referente di ne, pur attestato, è la soluzione più rara (e in alcuni casi risulta artificiosa) : “Ne ho bevuta un bicchiere (della birra) “; più comune: “Ne ho bevuto un bicchiere (della birra) “, perché la forma bevuto è sia quella invariabile, sia quella concordata con il complemento oggetto, un bicchiere. Lo stesso vale per la frase 5: le due forme ineccepibili sono mangiate (concordato con il complemento oggetto, due fette ) e mangiato (invariabile) ; mangiata suscita perplessità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del plurale in questa frase: “Mantenendo meglio che possiamo la dignitosa posizione seduta che abbiamo adottato, ci concentriamo sulle sensazioni date dal respiro nelle parti del corpo in cui sono più evidenti, di solito le narici o l’addome.”
La mia domanda è questa: utilizzando la congiunzione o tra le parole le narici e l’addome, non si dovrebbe scrivere “nella parte del corpo”?
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni, parte del corpo e parti del corpo, sono accettabili, con un piccolo scarto semantico tra l’una e l’altra. Il singolare suggerisce che la prima parte nominata, le narici, sia l’unica propriamente contemplata, e l’altra sia marginale. Per questo motivo, se si usa parte, ci si aspetta una separazione più netta tra le narici e l’addome, per esempio così: “di solito le narici, o, più difficilmente, l’addome”. Il plurale, invece, mette le due parti sullo stesso piano, suggerendo che abbiano la stessa probabilità di essere interessate dal fenomeno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se, in un testo scolastico (es. la simulazione di una lettera o di un diario), si può accettare l’espressione “Siamo migliori amiche”.
RISPOSTA:
La lettera a un amico o a un’amica e il diario sono generi caratterizzati da un registro informale, nel quale figurano a loro agio, e sono pienamente giustificate, espressioni “brillanti”, non canoniche, vicine al parlato.
Ma vediamo perché migliore amico/a e migliori amici/amiche sono espressioni non canoniche. Molto diffuse oggi, presentano tre difficoltà se passate al vaglio della grammatica standard: non hanno l’articolo determinativo e non hanno il complemento partitivo, entrambi richiesti dal superlativo relativo migliore; mancano del complemento di specificazione (o dell’aggettivo possessivo), richiesto dal nome amico.
In una frase standard come “Il migliore amico dell’uomo è il cane” si nota che l’aggettivo al grado superlativo relativo sia preceduto dall’articolo determinativo; amico, inoltre, è correttamente specificato (molto strano sarebbe *”Il miglior amico è il cane”). Anche in questa frase, invece, manca il complemento partitivo, che, per la verità, può facilmente essere sottinteso nel caso in cui coincida con tra tutti gli altri o simili: “(Tra tutti gli altri amici,) il migliore amico dell’uomo è il cane”.
Delle tre difficoltà individuate nell’espressione qui analizzata, quindi, una è trascurabile: migliore amico presuppone tra tutti.
Più strana sembra la mancanza del complemento di specificazione per amico/a/i/e. A ben vedere, però, anche questa si spiega con il sottinteso: “Siamo migliori amiche” è implicitamente completata da l’una dell’altra. Come si vede, questo costrutto appesantisce l’espressione e la rende molto meno agevole e immediata: si capisce, quindi, perché i parlanti lo eludano. Rispetto allo standard, questa scelta rappresenta uno scarto, non grave ma sufficiente per abbassare di un gradino la formalità dell’espressione.
La terza mancanza, quella dell’articolo prima di migliore/i, è l’unica davvero grave, perché contrasta con una regola sintattica molto rigida (migliore è comparativo di maggioranza; il migliore è superlativo relativo), sebbene si giustifichi sul piano della convenienza. Se inseriamo l’articolo, infatti, otteniamo “Siamo le migliori amiche”, che renderebbe il sottintendimento del complemento di specificazione inaccettabile per la maggioranza dei parlanti.
Questa disamina dei “difetti” insiti nell’espressione ci consegna, per contrasto, la variante standard della stessa: “Siamo le migliori amiche l’una dell’altra”. Si noterà, nella formulazione, oltre alla minore efficacia espressiva, la “stranezza” del mancato accordo tra il nome del predicato le migliori amiche e il costrutto reciproco, che è grammaticalmente singolare. La variante “Siamo la migliore amica l’una dell’altra”, pure possibile, sana questa “stranezza”, ma provoca la sgrammaticatura (quindi è formalmente più trascurata) del mancato accordo tra la copula (a sua volta concordata con il soggetto), plurale, e il nome del predicato, singolare.
A margine rilevo che la lettera e la pagina di diario, generi testuali familiari ai ragazzi fino a qualche anno fa, oggi appaiono anacronistici e, per questo, poco motivanti. Si possono sostituire con l’articolo di un blog, l’e-mail, il post di un social network (purché siano rese chiare le finalità e le caratteristiche formali che questi prodotti devono avere).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Porto alla vostra attenzione il seguente brano:
“Mettiamo che il medico voglia approfondire l’origine dei tuoi disturbi. Tra uno o due mesi potrebbe suggerirti un semplice prelievo venoso per controllare i tuoi valori; e se, nel frattempo, fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, potrebbe prescriverti un esame diagnostico più invasivo”.
Apprezzerei la vostra opinione relativamente alla validità di tre aspetti:
1. Il punto e virgola prima della congiunzione e;
2. L’uso del congiuntivo trapassato (fosse maturata), anziché del congiuntivo imperfetto, nella protasi, per introdurre un’ipotesi di cui non si ha contezza al momento dell’enunciazione;
3. L’accordo del sostantivo plurale mesi con l’aggettivo numerale due nonostante il precedente uno avrebbe richiesto il singolare. In questo caso sarebbe stato maggiormente formale ripetere il sostantivo (“Tra un mese o due mesi…”)?
RISPOSTA:
Il punto e virgola è corretto: separa, all’interno di un enunciato complesso, due unità informative, la seconda delle quali è ulteriormente divisa in più unità informative, ben separate da virgole.
Quello che non convince, piuttosto è il connettivo e dopo il punto e virgola, che introduce quella che si rivela essere un’alternativa. Propongo questa correzione: “… i tuoi valori; oppure, se nel frattempo fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, …”.
Il congiuntivo trapassato è ugualmente corretto: indica che il parlante giudichi l’evento improbabile. Vista la delicatezza dell’argomento, si tratta di una sfumatura fortemente indotta dalle convenzioni della cortesia, per sottolineare che l’ipotesi peggiore è anche quella più remota. Remota, ma sempre possibile, come rivela l’apodosi al condizionale presente (potrebbe prescriverti).
L’accordo di mesi con uno o due, infine, segue la regola dell’accordo al plurale tra referenti di generi diversi e una proforma che li raggruppa. Si pensi a “Ieri ho incontrato i miei amici Laura, Giulia e Andrea”. Tale regola è largamente accettata, anche in contesti formali, perché evita ridondanze come un mese o due mesi, o le mie amiche Laura e Giulia e il mio amico Andrea. Rimane, però, possibile, e tutto sommato più preciso (quindi anche più formale), fare tale distinzione, se il contesto lo richiede.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È meglio dire (o scrivere): “Un gruppo di persone è arrivato o sono arrivate? Quale è la differenza? Meglio considerare un gruppo come il soggetto oppure concordare by proximity e usare il plurale? Cambia in qualche modo il registro?
RISPOSTA:
Nello stile formale non c’è dubbio che la soluzione della concordanza con il sostantivo principale del sintagma (la cosiddetta testa) sia la soluzione più appropriata: “Un gruppo di persone è arrivato”. Va tuttavia ricordato che da sempre, in un registro un po’ più rilassato, l’italiano (come del resto già il latino) prevede anche la concordanza a senso, dunque con il senso di collettività espresso dall’intero sintagma: “sono arrivate un milione di persone”, e simili.
Dunque: verbo al singolare nello stile formale, singolare o plurale indifferentemente in quello meno formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Qual è la forma giusta tra i due periodi: 1. “Se c’è un tempo per morire, 21 anni e 33 anni non è quello giusto”. 2. “Se c’è un tempo per morire, 21 anni e 33 anni non sono quello giusto”. È o sono?
RISPOSTA:
In realtà, entrambi i periodi da lei indicati sono corretti, visto che in 1 l’accordo del verbo è con il soggetto dell’ipotetica (“tempo”, nonché soggetto logico di “21 anni e 33 anni…”), mentre in 2 con il soggetto della reggente (“21 anni e 33 anni”). Il fatto che in 2 la parte nominale del predicato sia singolare (“quello”) non costituisce alcun problema, visto che il verbo può essere accordato, in italiano, tanto con il soggetto quanto con il predicativo del soggetto (o con la parte nominale). Pensi al seguente caso: “Il suo ritorno è stata una sorpresa” o “Il suo ritorno è stato una sorpresa”. Nei Suoi esempi, inoltre, “21 anni e 33 anni” sono in realtà dei plurali anomali, in quanto il soggetto vero e proprio non è tanto “anni”, quanto “età” (il “tempo” per morire, appunto, che è singolare: l’età di 21 anni o l’età di 33 anni).
Forse, per evitare il più possibile ogni ambiguità e ogni fastidio dovuto a un uso poco razionale della lingua (sebbene nessuna lingua possa essere giudicata secondo un assolutismo razionalistico), propenderei per una terza opzione: “Se c’è un tempo per morire, né 21 anni né 33 anni è quello giusto”. O, meglio ancora: “quello giusto non è né 21 né 33 anni”. Mi pare che in questo modo, con una coppia negativa (né né, vale a dire ‘nessuno dei due’) piuttosto che aggiuntiva (e), il verbo al singolare sia più facilmente giustificabile.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei approfondire le applicazioni d’uso del pronome ne. Esso può riferirsi a soggetti o complementi collocati in un periodo precedente già concluso o, in generale, a soggetti e complementi, per così dire, distanti? Oppure, per evitare inconvenienti di interpretazione, sarebbe consigliato che tra soggetto / complemento e ne non ci fossero altri nomi compatibili con la funzione di tale pronome?
Ad esempio: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Ne lesse (riferimento a lettera) due righe…”.
Vi chiedo infine se, al livello di accordo del participio, vi sia libera scelta, seguendo le regole base in proposito, oppure con il ne partitivo si debbano seguire indicazioni diverse?
Ad esempio: “Ho comprato il libro e ne ho letto / lette tre pagine”.
RISPOSTA:
Il pronome ne può essere usato con funzione coreferenziale (cioè per riprendere un referente introdotto precedentemente, o per anticiparlo) al pari degli altri pronomi atoni e con gli stessi accorgimenti. Nel caso di referente molto lontano o confondibile, cioè, bisogna preferire coesivi più espliciti. Nella seguente frase, ad esempio, il pronome atono lo è ambiguo, perché può rimandare tanto a Mario quanto a il suo cane: “Ho incontrato Mario a spasso con il suo cane. L’ho trovato, come sempre, molto simpatico”.
Rispetto ai pronomi atoni diretti, inoltre, ne, non essendo marcato nel genere e nel numero, deve essere usato con particolare cautela, per evitare fraintendimenti. Nella sua frase, ad esempio, il rimando di ne a lettera è ricavabile solamente grazie al verbo lesse; se sostituissimo tale verbo con uno dal significato più generico, il rimando sarebbe ambiguo: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Non se ne sarebbe separato per ore” (dalla lettera, dal bicchiere o dal cognac?).
Per quanto riguarda l’accordo di ne con il participio passato dei verbi transitivi, bisogna ricordare che l’obbligo riguarda i pronomi lo, la, li, le, che rappresentano i complementi oggetti di verbi: “Hai visto Maria? No, non l’ho (= la ho) vista”. Il pronome ne, invece, presuppone un complemento oggetto esterno, ed è con questo che il participio passato può concordare o no. Nella sua frase, per esempio, il participio passato può rimanere invariabile (letto) oppure concordare con pagine (lette), non certo con ne. Lo stesso vale nel caso in cui il complemento oggetto sia rappresentato da un pronome indefinito o un numerale: “Ho comprato una scorta di riviste e ne ho già letto / lette molte“, “Ho comprato tre libri e ne ho letto / letti due“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.
RISPOSTA:
Il pronome di cortesia si distingue solamente al singolare, ed è sempre lei (terza persona). Ad esso corrispondono le particelle pronominali la per il complemento oggetto e le per il complemento di termine.
Esempi: “Sa che le [complemento di termine] dico? Lei [soggetto] è proprio una brava persona”; “Ho chiamato lei [complemento oggetto] per avere un aiuto”; “La ho (l’ho) [complemento oggetto] chiamata per avere un aiuto”; “Voglio regalare a lei [complemento di termine] questa penna”; “Le [complemento di termine] voglio regalare questa penna”.
Si noti che lei come pronome di cortesia si concorda al femminile se si riferisce a una donna, al maschile se si riferisce a un uomo: “Le dispiace essere più chiara, signora Bianchi?”; “Le dispiace essere più chiaro, signor Bianchi?”.
Al plurale, il pronome di cortesia coincide con il pronome voi. In alcune regioni d’Italia, soprattutto al Sud, voi si usa anche per il singolare: “Posso parlarvi, signor Bianchi?”.
Fino a qualche decennio fa, e ancora oggi in un registro estremamente formale, era ed è possibile usare, come pronome di cortesia per il plurale, il pronome loro: “(Loro) non abbiano timore: siano certi che fugherò i loro dubbi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’accordo corretto del participio passato?
RISPOSTA:
Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando si dice giocare a qualcose quando con qualcosa? Per esempio giocare a o con un gioco di società?
RISPOSTA:
Si gioca a un gioco di società. In generale, si gioca a qualcosa quando si partecipa a un’attività organizzata e con un regolamento: giocare a calcio, a carte, a scacchi, a Monopoli. Si gioca con qualcosa, invece, quando si usa un oggetto per divertirsi: giocare con il pallone ‘giocare usando un pallone’ (mentre giocare a pallone significa ‘giocare a calcio’), con il frisbee, con le bambole ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un paragrafo incluso in una grammatica, leggo, a proposito dell’accordo del participio passato, il seguente esempio: “Non si è vinta la partita”.
Domanda: la costruzione “Non si è vinto la partita”, anche se non riconducibile alla regola cui si riferisce l’esempio precedente, sarebbe corretta quale forma impersonale, equivalente a “Noi non abbiamo vinto la partita”?
Accordo con negazione né.
Leggo la frase: “Né io né tu né lei né gli altri sanno…”.
Domanda: non sarebbe stato più giusto coniugare il verbo alla prima persona plurale: “Né io né tu né lei né gli altri sappiamo”? O esiste oppure una terza coniugazione più appropriata?
Ultimo caso: congiunzione disgiuntiva o. Leggo che quando si presenta una scelta netta, il verbo si accorda al singolare (se ovviamente lo sono anche i soggetti). Evinco che la regola decada se i soggetti siano di numero misto: “O io o loro andremo”.
Domanda: il verbo può essere accordato al plurale anche se i soggetti sono singolari e se il primo di essi non è preceduto dalla congiunzione: “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi”?
RISPOSTA:
Quando il verbo costruito con il si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione si considera non impersonale ma passiva; la forma corretta nel suo caso è, pertanto, “Non si è vinta la partita” (equivalente a “la partita non è stata vinta”). La variante “Non si è vinto la partita” non è impossibile, però: viene a coincidere con il tipo di costruzione impersonale tipica del toscano e della tradizione letteraria, quindi non proprio comune (ma comunque legittima), noi si fa qualcosa (e noi si fa alcune cose). Si considerino, per un confronto, questi due esempi giornalistici: “Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo” (la Repubblica, 27 gennaio 2018); “Dare la colpa a qualcuno che per una volta si è vinto le elezioni: non è ancora successo, ma dal PD possiamo aspettarci anche di peggio” (l’Espresso, 11 giugno 2013). Nel secondo esempio “si è vinto le elezioni” sottintende un soggetto noi, ovvero “noi si è vinto le elezioni”. Si consideri, comunque, che anche la forma impersonale del tipo noi si fa alcune cose si può costruire come se fosse passivante: noi si fanno cose (si veda l’esempio letterario riportato in questa risposta dell’archivio di DICO).
In una frase con soggetti multipli, se è presente io il verbo va alla prima persona plurale, come da lei suggerito (se ci fosse tu senza io, il verbo andrebbe alla seconda plurale). La versione da lei letta è scorretta; in essa il verbo è accordato “per prossimità” con l’ultimo soggetto introdotto, come si farebbe nel parlato poco sorvegliato.
“O io o loro andremo” è corretto (rappresenta un caso sovrapponibile a quello appena discusso). Il verbo va comunemente alla terza plurale anche con soggetti di terza persona singolare uniti da o. Può andare al singolare quando i soggetti stanno tra loro in un rapporto di alternativa: “Verrà a chiamarti un mio amico o mio fratello”. Niente vieta, però, di concordare il verbo alla terza plurale anche in questo caso: “Fu stabilito che, nei giorni seguenti, lui o la governante mi avrebbero portato da mangiare” (Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970).
Infine, la presenza della seconda o correlativa non cambia niente ai fini dell’accordo; quindi “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi” è ben formata, come anche “Il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì” o “O il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì”. Possibili anche, ricollegandoci alla questione appena discussa, “(O) il prof. Rossi o il prof. Verdi riceverà i genitori venerdì” e “Riceverà i genitori (o) il prof. Rossi o il prof. Verdi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi pongo un quesito relativo alla declinazione dei pronomi reciproci l’un l’altro e derivati. Quando ci si riferisce a soggetti maschili, il problema, almeno per me, non sussiste; la questione si complica in presenza di soggetti femminili o misti.
Le frasi:
“Le ragazze si stimano le une le altre”,
“Lucia e Paolo si amano l’una l’altro” (laddove non fosse possibile invertire le posizioni dei soggetti),
“I bambini e le bambine giocano gli uni con le altre”
sono valide?
Sarebbe inoltre possibile usare soluzioni, per così dire, “al maschile”, come se fossero cristallizzate, quando il genere è misto?
“Lucia e Paolo si amano l’un l’altro”.
RISPOSTA:
Il pronome reciproco l’un l’altro è soggetto all’accordo di genere e numero con i nomi a cui si riferisce. Le forme senza identità di genere tra i due membri (l’un l’altra, gli uni le altre) sono più rare di quelle “omogenee”, ma ugualmente ben formate. Decisamente rara, sebbene in linea di principio ineccepibile, è l’inversione dei termini, con la precedenza data al membro femminile. Va detto, comunque, che, proprio in virtù della reciprocità, l’accordo funziona a prescindere dall’ordine relativo dei due membri: “Lucia e Paolo si amano l’un l’altra” è corretto nonostante la mancata corrispondenza simmetrica tra i generi dei soggetti e quelli del pronome. “Lucia e Paolo si amano l’una l’altro”, invece, pur non essendo scorretto, risulta sgradito ai parlanti, come dimostra la quasi totale assenza di esempi, tanto on line quanto nell’archivio della BIZ (Biblioteca Italiana Zanichelli). Rari, sebbene attestati, sono, infine, l’una l’altra e le une le altre.
L’alta frequenza d’uso di varianti plurali e con il secondo membro femminile sconsigliano l’uso cristallizzato di l’un l’altro. Vero è che una certa tendenza alla cristallizzazione esiste; essa è, però, attualmente un fenomeno popolare, non accolto nella lingua comune.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “quando le ha telefonato era allegro”, allegro può riferirsi sia alla persona che telefona, sia a quella a cui si telefona?
RISPOSTA:
Nella sua frase il pronome le, femminile, impedisce la concordanza con l’aggettivo maschile allegro. Se sostituiamo il pronome con un nome questa impossibilità risulta ancora più chiara: “Quando ha telefonato a Maria era allegro”. Evidentemente, non può essere Maria a essere allegro.
Se il pronome avesse come referente una seconda persona a cui si dà del lei, l’ambiguità dovrebbe essere comunque esclusa; se dicessimo, infatti, “Signor Rossi, quando le ha telefonato era allegro” potremmo intendere solamente che a essere allegro era l’autore della telefonata, perché l’ellissi del soggetto è ammessa solamente quando il soggetto è immediatamente adiacente o identificabile senza alcuno sforzo. Se volessimo dire che a essere allegro era il signor Rossi dovremmo riformulare la frase, ad esempio così: “Signor Rossi, quando le ha telefonato lei era allegro”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La concordanza al plurale maschile dell’aggettivo, in relazione a soggetti o complementi di genere e numero diversi, è applicabile a elementi collegati dalla negazione né o dalla congiunzione o?
“Nessuno dispone (né) di competenze né di tempo sufficienti per gestire l’attività”.
“Mi porteresti un quaderno o una penna gialli?”
RISPOSTA:
Certamente sì. Le congiunzioni coordinative si comportano, da questo punto di vista, tutte allo stesso modo: i sintagmi coordinati possono essere seguiti da un’attribuzione che li comprende. Lo stesso vale per la predicazione: “Né la pasta né il pane fanno ingrassare, se mangiati con moderazione”.
Ovviamente, è anche possibile qualificarli in modo distinto: “Preferiresti avere una casa spaziosa in campagna o un appartamento piccolo in città?”.
Fabio Ruggiano
DOMANDA
Gentilissimi professori, sottopongo alla vostra analisi le seguenti frasi lette di recente:
a. Proprio ieri mi hanno domandato se era vero che due mesi fa ho incontrato il mio socio.
b. L’alunno si è ammalato ieri e starà a casa fino alla prossima settimana. È un vero peccato: la prossima settimana sarebbe stato in gita per due giorni.
c. Tutte le donne presenti, a quelle parole, si toccarono la bocca.
d. Quando eravamo piccoli si cantava le canzoni. Oggi si hanno i minuti contati.
Esempio a: non pensate che il secondo passato prossimo ho incontrato debba essere sostituito dal trapassato prossimo? Forse sbaglio, ma mantenerlo, come nell’esempio, non significherebbe situare l’azione di due giorni fa sullo stesso piano temporale di ieri?
Esempio b: se avessimo sostituito sarebbe stato con avrebbe dovuto essere o doveva essere, avremmo ottenuto costruzioni equivalenti e ugualmente corrette oppure no? Qual è, secondo voi, quella preferibile?
Esempio c: una volta per tutte: la frase è corretta o sarebbe stato meglio declinare al plurale anche il sostantivo bocca? Aggiungo: si dice la cima dei monti o le cime dei monti? la punta delle dita o le punte delle dita? la grammatica ci viene in soccorso con un regola universale per gestire la concordanza oppure ogni caso va analizzato a sé?
Esempio d: se non sbaglio, la prima frase riporta un si riflessivo che sostituisce la prima persona plurale. È sempre tollerato o si tratta di un toscanismo da evitare? La seconda è, invece, sempre se non sbaglio, una costruzione con il si passivante. Come si fa (o fanno???) a conoscere i casi in cui il si riflessivo è da preferire al si passivante e viceversa?
RISPOSTA
a. Entrambe le varianti sono possibili; il passato prossimo indica semplicemente che l’incontro è avvenuto nel passato rispetto al momento dell’enunciazione (adesso), il trapassato (avevo incontrato) aggiunge il dettaglio che l’incontro è avvenuto prima rispetto a un momento diverso da quello dell’enunciazione, coincidente con quello in cui è stata fatta la domanda. Proprio per questo motivo, se usiamo il trapassato prossimo, dobbiamo cambiare anche il complemento di tempo relativo a quell’evento, da due mesi fa a due mesi prima: l’avverbio (originariamente una forma verbale) fa, infatti, può riferirsi solamente al momento dell’enunciazione.
Va detto che, sebbene il passato prossimo ho incontrato sia formalmente equivalente al passato prossimo hanno domandato, non bisogna pensare che i due eventi siano rappresentati come contemporanei: essi sono, piuttosto, rappresentati entrambi come passati, senza una relazione reciproca esplicita. Tale relazione, peraltro, si ricava chiaramente dai complementi di tempo, ieri e due mesi fa.
b. La variante con il verbo servile non cambia molto dal punto di vista sintattico, ma aggiunge, ovviamente, una sfumatura semantica potenziale. La costruzione con l’imperfetto del verbo dovere dal punto di vista semantico presenta l’evento della gita come già stabilito, dal punto di vista sintattico è meno formale, sebbene molto comune.
c. Il singolare è la forma più attesa, sebbene il plurale non sia scorretto. Il singolare suggerisce che ognuno dei soggetti toccò la sua bocca; il plurale specifica che le bocche sono più di una, come i soggetti che le toccano (una specificazione, ovviamente, superflua).
Una considerazione simile si può fare per la punta delle dita, con la differenza che le dita sono più di una per ogni persona (diversamente dalla bocca), quindi la specificazione del plurale è meno superflua: la frase idiomatica sarà sempre “si contano sulla punta delle dita”, ma è del tutto giustificata una frase come “Può capitare di sentire le punte delle dita addormentate” (come anche, del resto, “Può capitare di sentire la punta delle dita addormentata”). Il caso di la cima / le cime dei monti è diverso: le due varianti hanno due significati diversi. La cima dei monti indica il punto più alto di una catena montuosa; le cime dei monti indica la cima di ognuno dei monti considerati. Come si può vedere, più che una questione di grammatica, qui è in gioco la logica.
d. La costruzione noi si cantava non è passiva, bensì impersonale; indica, infatti, che l’azione è compiuta da un soggetto imprecisato, non che essa ricade sul soggetto stesso. L’esplicitazione del soggetto di prima persona plurale, tipica della Toscana, ma ben attestata nella tradizione letteraria in italiano, sembra confliggere con l’impersonalità del costrutto, ma in realtà bisogna ricordare che i costrutti sintatticamente impersonali sottintendono sempre un soggetto logico. Anche il secondo si è impersonale, e infatti sottintende il soggetto logico noi: “Oggi si hanno i minuti contati” equivale a “Oggi abbiamo i minuti contati”, oppure a “Oggi tutti hanno i minuti contati”. Anche in “Come si fa a conoscere i casi”, si fa è impersonale (equivalente a facciamo). La costruzione “Come si fanno a conoscere i casi”, pertanto, è scorretta, sebbene molto diffusa in contesti informali; è indotta dall’attrazione esercitata dal complemento oggetto plurale i casi sul verbo fare, come se proprio i casi fosse il soggetto di fare (infatti nessuno direbbe mai *”Come si fanno a conoscere il caso”).
La prego, per il futuro, di mandarci una domanda alla volta. Le domande complesse ci mettono in difficoltà perché non si possono classificare con precisione per l’archivio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, ho riportato qui sotto alcuni esempi di frasi sui quali nutro dei dubbi circa la lo composizione. Ho usato la barra per separarne le alternative:
“Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”.
“Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”.
“Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema”.
“Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”.
“Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda”.
“Tutti i terzi livello/terzo livello/terzi livelli in seno all’azienda, dovranno presentare formale disdetta”.
RISPOSTA:
Il dubbio relativo alla scelta tra il condizionale e il congiuntivo accomuna le seguenti frasi: “Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”, “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”, “Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Nei tre casi, entrambe le opzioni sono valide: il condizionale rappresenta la scelta richiesta dalla consecutio temporum, visto che il verbo esprime un evento successivo rispetto a un altro evento passato (posteriorità nel passato). In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate. L’evento è quello espresso dal verbo di dire, pensare o simili della proposizione principale, esplicitato nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avrebbero acquistato i biglietti”, sottintesa nelle altre due: “(Dichiarò/pensò che) avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero presentati”, “(Dichiararono/pensarono che) quando sarebbero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Rispetto a questa relazione temporale, quella tra gli eventi delle due subordinate passa in secondo piano e non viene rappresentata al livello morfologico. La sostituzione dei condizionali con i congiuntivi conferisce agli eventi una sfumatura di potenzialità: ad esempio, nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero acquistato i biglietti” si suggerisce che l’acquisto dei biglietti è ancora da decidere e potrebbe non avvenire.
Nella protasi del periodo ipotetico della realtà “Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema” è preferibile l’indicativo presente.
Nella frase “Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda” è preferibile il plurale; il singolare costituisce un caso di concordanza ad sensum, fenomeno largamente accettato, ma da evitare in contesti di media e alta formalità, e soprattutto nello scritto.
Infine, l’unica parola ben formata (tecnicamente si tratta di una unità polirematica) è i terzo livello, che è invariabile perché fa parte di un’espressione più ampia, nella quale la parte variabile è sottintesa: il (soggetto inquadrato / i soggetti inquadrati nel) terzo livello. Si tratta, comunque, di un termine burocratico, da evitare in contesti estranei all’ambito dell’amministrazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice comunemente, ad esempio: “E’ mezzogiorno e un quarto”. Dato che la congiunzione designa un soggetto plurale, la concordanza non stabilirebbe l’uso del verbo “sono”?
“Sarebbe bello incontrarci” o “incontrarsi” nel senso di “sarebbe bello che noi ci incontrassimo”?
RISPOSTA:
Mezzogiorno e un quarto è considerato un’entità unica, anche se è identificata linguisticamente da un’espressione con la congiunzione e: per questo si concorda con il verbo al singolare. Espressioni che si comportano allo stesso modo sono pane e formaggio, tira e molla e simili.
“Sarebbe bello incontrarci” e “sarebbe bello incontrarsi” sono varianti della stessa frase che non hanno la stessa accettabilità: il primo caso è meno corretto, perché incontrarci, essendo infinito, richiede identità di soggetto con la proposizione reggente, che è, invece, impersonale. Il secondo caso, al contrario, mantiene correttamente l’impersonalità anche nella subordinata all’infinito.
Bisogna comunque considerare che la variante incontrarci ha il vantaggio di specificare chi si dovrebbe incontrare, risultando più amichevole, laddove incontrarsi è più distaccata, per via dell’impersonalità. In un contesto colloquiale, pertanto, la variante più scorretta sarà preferita e, tutto sommato, accettabile; in un contesto più formale e sostenuto, invece, è preferibile quella sintatticamente corretta.
Una terza alternativa, personale ma corretta, è la seguente: “Sarebbe bello che ci incontrassimo”; tale costruzione articolata, però, rischia di essere ancora meno apprezzata in un contesto colloquiale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
a) “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” oppure “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dicesse/dica cosa fare”?
b) “Non è concesso astio” o “Non è concessa rabbia”?
c) “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo ti avvicinerai a me…” o “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”?
d) “Non è venuto Mario, né i suoi genitori” o “Non è venuto Mario, né sono venuti i suoi genitori”?
e) “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia poteva determinare” oppure “Quando Marco ha saputo che quell’uomo è un ufficiale, ha pensato subito alle ripercussioni che la notizia avrebbe potuto/potrà/potrebbe determinare”?
f) “Se (domani) non fossi stato impegnato, ti avrei accompagnato io (domani) al concerto”.
g) “Potrai consumare i ticket quando metterai di nuovo piede in quel locale” oppure “Potrai consumare i ticket quando mettessi di nuovo piede in quel locale”?
RISPOSTA:
a) La frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi direbbe cosa fare” è corretta, perché la proposizione relativa introdotta da che è attratta nello stesso modo (condizionale) della reggente (“non ci sarebbe nessuno”). La proposizione relativa restrittiva rappresenta un’espansione che qualifica in qualche modo il referente (in questo caso nessuno): è normale, quindi, che venga costruita con lo stesso modo della reggente quando quest’ultima proposizione è all’indicativo o al condizionale.
La variante con il congiuntivo presente, e persino quella con l’indicativo presente, nella relativa non sono scorrette, sebbene suonino innaturali per via della forte attrazione del condizionale della reggente. La relativa, infatti, può effettivamente prendere il congiuntivo per esprimere una qualche sfumatura semantica, per esempio epistemica (se chi parla non è certo di ciò che sta dicendo: “Non c’è mai nessuno che mi aiuti quando mi serve”). Nella frase “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno che mi dica cosa fare” il congiuntivo esprime una sfumatura volitiva rispetto alla situazione reale, come se fosse “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece, per mia fortuna, c’è, che mi dica cosa fare”. Rispetto a questa frase, l’indicativo esprimerebbe la fattualità della presenza del consigliere: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come invece c’è, che mi dice cosa fare”. Il significato cambia pochissimo rispetto alla versione con il congiuntivo presente, ma la costruzione è meno formale.
Il congiuntivo imperfetto, a sua volta, esprimerebbe una volizione più ipotetica: “Se fossi solo, non ci sarebbe nessuno, come io vorrei, che mi dicesse cosa fare”. La frase così costruita suggerisce che il consigliere non c’è, diversamente dalle altre varianti, che danno il consigliere come esistente.
b) Tanto “Non è concesso astio” quanto “Non è concessa rabbia” sono combinazioni libere, cioè non cristallizzate nell’uso (come, ad esempio “guardare con astio” o “sfogare la rabbia”); le due varianti, pertanto, vanno considerate ugualmente valide e la scelta dell’una o dell’altra va valutata in base alla sfumatura di significato che distingue i due sinonimi astio e rabbia, ma anche in base al fatto che astio è meno comune, più ricercato di rabbia.
c) Sicuramente da preferire la sua variante. Nel caso di più soggetti di terza persona uniti dalla congiunzione o, il verbo può concordare con uno solo oppure con tutti: “Se Luca o qualcun altro si avvicina/si avvicinano mi metto a urlare”). Nella sua frase, però, il cambio di persona tra il primo e il secondo soggetto rende molto forzata la concordanza con uno solo dei due, che esclude l’altro. La concordanza alla seconda persona plurale risolve il problema: “La prossima volta che tu o qualunque altro uomo vi avvicinerete a me…”.
d) La ripetizione del verbo ogni volta che cambia la persona del soggetto è la scelta più corretta e formale; un’altra alternativa ugualmente corretta, che permette di risparmiare la ripetizione, è “Non sono venuti né Mario, né i suoi genitori”, che riunisce entrambi i soggetti nella terza persona plurale (allo stesso modo della frase precedente “Se Luca o qualcun altro si avvicinano mi metto a urlare”). Molto comune è, comunque, la concordanza implicita con solo il primo dei soggetti, favorita dalla correlazione tra le congiunzioni né… né, che non lasciano dubbi sul fatto che il secondo sintagma nominale abbia la stessa funzione del primo (sia, quindi, un altro soggetto). Questa soluzione è più sbrigativa, ma, ovviamente, meno formale.
e) La variante corretta e più formale è il condizionale passato (avrebbe potuto), che esprime il futuro nel passato. La variante con l’imperfetto indicativo (poteva) è anche corretta (perché l’imperfetto ha, tra le sue funzioni, anche quella di esprimere il futuro nel passato), ed è di gran lunga la più comune, ma è meno formale. Le altre non sono valide.
f) Se ho ben capito, questa domanda riguarda il posto migliore nel quale inserire l’avverbio di tempo. Le due varianti sono ugualmente ben formate e quasi identiche in quanto al significato. Sarebbe superfluo, invece, ripeterlo in entrambe le proposizioni.
g) Le frasi sono ben formate, ma non equivalenti per il significato. Se manteniamo tutto all’indicativo il periodo risulta costruito con una proposizione principale e una subordinata temporale. Se, però, inseriamo il congiuntivo nella subordinata, la funzione di quando passa da temporale a ipotetica (la congiunzione diviene, cioè, assimilabile a se), trasformando tutta la frase in un periodo ipotetico. La proposizione principale, “Potrai consumare i ticket”, diviene, pertanto, l’apodosi, e “quando (tu) mettessi/metta di nuovo piede in quel locale” diviene la protasi. L’apodosi all’indicativo di solito richiede il congiuntivo presente nella protasi, che, infatti, risulta l’opzione migliore anche in questo caso: “Potrai consumare i ticket quando tu metta di nuovo piede in quel locale”. Il congiuntivo imperfetto è possibile, ma un po’ forzato: “Potrai consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale” indicherebbe che la possibilità remota del ritorno del soggetto nel locale comporterebbe la certezza della consumazione dei ticket. Con il congiuntivo imperfetto, infatti, sarebbe più atteso il condizionale nell’apodosi: “Potresti consumare i ticket quando tu mettessi di nuovo piede in quel locale”.
Si noti che davanti alla seconda persona del congiuntivo presente e imperfetto va sempre esplicitato il soggetto tu, altrimenti il ricevente è indotto a credere che il verbo sia alla prima o alla terza persona: nel congiuntivo presente, infatti, le prime tre persone coincidono; nell’imperfetto coi
QUESITO:
Buongiorno, mi è sorto un dubbio sulla concordanza tra soggetto e verbo, la frase: “la sua opera più importante, I Promessi sposi, è/sono il tentativo riuscito di realizzare una letteratura nazionale popolare”.
RISPOSTA:
Decisamente meglio il verbo al singolare (è), che si accorda con il soggetto “la sua opera”, mentre “I promessi sposi” è apposizione: “La sua opera più importante, I promessi sposi, è il tentativo” ecc.. Esistono, in italiano, numerosi casi di concordanza a senso, ma sarebbe meglio ridurli al minimo e soprattutto ad ambiti informali. L’ambito d’uso e il registro stilistico di un compito scolastico sono formali, pertanto eviterei esempi come: “la maggior parte delle persone pensano”, “l’opera I promessi sposi sono” ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se è corretto usare il termine “durata”, come sostantivo, al plurale (es. durate diverse).
RISPOSTA:
Scorretto non è, nel senso che l’italiano prevede il plurale anche per questo sostantivo. Certo, il più delle volte non c’è ragione di usarlo al plurale, visto che sono gli eventi, semmai, ad essere plurali, più che la loro durata. O le loro durate… Insomma, una qualità astratta mal si presta al numero plurale, sebbene sia sempre possibile intenderla, con una sorta di metonimia, come qualità al posto dell’oggetto o del fenomeno cui si riferisce. Stessa sorte hanno altri sostantivi che esprimono qualità astratte: lunghezza, larghezza, bellezza ecc.: “tronchi di diversa lunghezza”, “donne di diversa bellezza” ecc. Ma posso pur sempre dire: “al mondo vi sono diverse bellezze di donna (o donne)” o “donne di diversa bellezza”.
Insomma, sempre tenendo conto dei contesti (o del contesto…), quasi sempre meglio il singolare, ma il plurale non può essere definito errato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Buonasera,
vi scrivo per chiedere informazione riguardo all’espressione molte grazie, che è stata oggetto di un’accesa discussione con un signore che sosteneva fosse errata. Secondo codesto signore l’espressione giusta sarebbe molto grazie. Vi chiedo gentilmente se mi potete chiarire la questione.
RISPOSTA:
Grazie è un nome (è il plurale di grazia), e come tutti i nomi concorda con l’aggettivo in genere e numero: molte grazie, tante grazie, infinite grazie ecc. La parola, però, si usa spesso come interiezione, da sola, con un significato del tutto diverso rispetto al singolare: infatti non posso dire *No, grazia. La specializzazione del plurale in questa funzione induce alcuni parlanti a considerare questa parola come un avverbio (al pari, ad esempio, di bene o male) e, di conseguenza, a pensare che debba essere accompagnata solamente da avverbi. Da qui il *molto grazie (sul modello di molto bene) proposto dal suo interlocutore, in realtà scorretto, ma anche il grazie assai, diffuso in alcune regioni meridionali e accettabile solamente in contesti molto informali.
L’uso di grazie come interiezione, quindi, non ha fatto perdere a questa parola la sua natura di nome; tanto che può ancora essere usata in frasi come “Madonna del Bosco – La Vergine che dispensa le sue grazie da un castagneto” (a proposito di una apparizione mariana in un bosco).
Si noti che l’interiezione grazie è una semplificazione dell’espressione rendere grazie ‘restituire benevolenze’ (dal latino gratias agere, dal significato simile). Quando ringraziamo, quindi, dichiariamo di contraccambiare con la benevolenza il favore ricevuto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Il servizio regolamenterà i rapporti con i nonni materni con modalità protette, almeno inizialmente, e comunque solo se rispondenti alle esigenze del minore.”
La frase sopra riportata è scritta su un decreto del Tribunale dei minorenni che è oggetto di diverse interpretazioni. La prima sostiene che la precisazione “solo se rispondenti alle esigenze del minore” si riferisca esclusivamente alle modalità protette, mentre la seconda sostiene si riferisca ai rapporti con i nonni materni sia protetti che no.Qual è quella giusta?
Grazie infinite e cordiali saluti.
RISPOSTA:
La frase da lei sottoposta è complicata dalla sintassi molto sintetica, e in particolare dalla possibile doppia concordanza di rispondenti, sia con rapporti, sia con modalità. Una ragione sintattica, comunque, ci induce a ritenere rispondenti certamente concordato con rapporti, non con modalità: la proposizione “e comunque solo se rispondenti alle esigenze del minore”, infatti, è simmetrica al sintagma “con modalità protette”, quindi va messa sullo stesso piano di quest’ultimo, in relazione a rapporti. Vale a dire che i rapporti in questione saranno regolamentati secondo due criteri: la protezione del minore e la rispondenza degli stessi rapporti alle esigenze del minore. Il secondo criterio, inoltre, è da intendersi prioritario rispetto al primo, vista la presenza di comunque.
Al contrario, rispondenti risulterebbe concordato con modalità se la frase fosse stata costruita così: “Il servizio regolamenterà i rapporti con i nonni materni con modalità protette, almeno inizialmente, e comunque rispondenti alle esigenze del minore”. In questo modo, rispondenti sarebbe stato simmetrico solamente a protette, quindi in relazione con modalità, non a tutto il sintagma “con modalità protette” (in relazione a rapporti).
Come conseguenza dell’interpretazione che ritengo corretta, al servizio è attribuito il potere non solamente di regolamentare i rapporti con modalità protetta, ma anche di escludere tali rapporti, se ritenuti non rispondenti alle esigenze del minore. L’interpretazione alternativa, che ritengo non corrispondente alla lettera, ridurrebbe, invece, il potere del servizio alla regolamentazione dei rapporti già legittimati da un’altra autorità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
[…] ho un dubbio su come coniugare il verbo in
questa frase: La povertà, nonché la guerra, è/sono causa delle migrazioni.
RISPOSTA:
Se si usa nonché come inciso, allora il verbo è meglio metterlo al singolare: “La povertà, nonché la guerra, è causa delle migrazioni”. Tuttavia, suggerirei di non usare il nonché, che ha un sapore burocratico, ma di usare direttamente due soggetti, e dunque con il verbo al plurale: “Le due principali cause delle migrazioni sono la povertà e la guerra”. Sempre meglio essere chiari, semplici e lineari: se le cause sono due, meglio dirlo subito, anziché occultarne una dietro un nonché.
Fabio Rossi
QUESITO:
Buongiorno! Vi scrivo perché c’è un dubbio che mi attanaglia ogni volta che
ordino le pizze: si dice “2 margherite” o “2 margherita”? Grazie per
l’attenzione. Cordiali saluti
RISPOSTA:
Vanno bene entrambe le forme, dal momento che il singolare si giustifica come nome proprio (“due macchine Panda”), mentre il plurale si giustifica (per metonimia e per antonomasia) come passaggio da nome proprio a nome comune (“due coche”, da Coca Cola). Suggerirei il plurale perché, benché meno formale, è decisamente più comune. Sono abbastanza convinto che il cameriere che si sentisse ordinare “due margherita” rimarrebbe spiazzato al punto da chiederle: “quante? una o due?”.
Un’altra possibilità, anch’essa formale, è: “Due pizze margherita” (migliore di “Due pizze margherite”), magari addirittura con la maiuscola, “Margherita”, che salva capra e cavoli: il plurale e il rispetto del nome proprio.
Fabio Rossi