QUESITO:
I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:
«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?
«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?
«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?
RISPOSTA:
Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentare, potenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.
RISPOSTA:
Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implemento, implementabile, implementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.
RISPOSTA:
Né sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida
QUESITO:
Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?
RISPOSTA:
L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffa, pavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guida, la guardia, la persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaio, architetto, il presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“L’amore non deve c’entrare mai con il possesso”, una frase ascoltata in un discorso televisivo, ma che mi è suonata molto cacofonica. È corretta la forma? Si sarebbe potuta formulare in modo diverso?
RISPOSTA:
La forma, in effetti, è sempre più comune. Le forme più usate del verbo entrarci, che hanno il pronome proclitico (collocato prima del verbo), nonché l’esistenza dell’omofono verbo centrare, stanno probabilmente provocando la ristrutturazione del verbo nella coscienza dei parlanti: da forme come che c’entra, cioè, si producono sempre più spesso le forme analogiche deve c’entrare e simili. Il conflitto tra le forme analogiche innovative e quelle etimologiche, regolari, è attestato dalla diffusione di varianti ibride come c’entrarci, ancora meno giustificabili di quelle analogiche.
Attualmente il processo di ristrutturazione del verbo è substandard (ma non possiamo prevedere se in futuro tale processo avrà successo), pertanto le forme indefinite con il pronome proclitico (e nello scritto addirittura univerbato: non deve centrare) non possono essere ritenute accettabili, se non in contesti molto trascurati. Le forme che può prendere il verbo pronominale entrarci sono descritte qui.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?
RISPOSTA:
A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una discussione, un mio caro amico mi indica che – a suo dire – taciamo è una possibile versione alternativa, ma corretta, di tacciamo.
Ogni riferimento che ho trovato sembra smentirlo. Tuttavia, a sostegno della sua ipotesi mi segnala una pagina di Wikipedia. In effetti la voce taciamo è riportata, anche se priva della relativa pagina grammaticale.
Così c’è rimasto il dubbio che possa esistere un uso grammaticalmente corretto, e non relegato a questioni dialettali o di usanze regionali tra i parlanti.
RISPOSTA:
La forma tacciamo è quella sicuramente corretta, anche se taciamo esiste: i pochi verbi in cere (tacere, giacere, (s)piacere…) hanno una radice che cambia (polimorfica) a seconda della desinenza. In fiorentino antico, e da lì in italiano, la consonante prepalatale si rafforza se si trova dopo vocale e davanti a [j], ovvero al suono della i seguita da un’altra vocale (o semivocalica). Per questo taccio, tacciamo, tacciono, taccia, tacciano, ma taci (qui la i è una vocale, non una semivocale, perché non è seguita da un’altra vocale), tacete, tacere ecc. Le radici polimorfiche sono facilmente soggette a processi analogici; i parlanti, cioè, spesso adattano le forme minoritarie, per quanto etimologicamente corrette, a quelle maggioritarie, pure corrette, ma derivate da trafile di formazione diverse. Proprio un processo analogico è quello che ha creato taciamo sulla base del modello maggioritario tac rispetto a quello minoritario tacc-. Si noti che il participio passato taciuto non ha la consonante rafforzata perché nasce già come forma analogica (in latino era tacitus) modellata sulla maggioranza dei participi passati dei verbi della seconda coniugazione (creduto, cresciuto, voluto…).
Il processo di adattamento può avere successo nel tempo e, effettivamente, creare forme nuove; taciamo (ma anche piaciamo e giaciamo) oggi esistono, ma per queste parole il processo è in fieri, come testimonia l’atteggiamento dei vocabolari: il GRADIT, che è aperto all’uso vivo, riporta taciamo accanto a tacciamo (e piaciamo accanto a piacciamo, giaciamo accanto a giacciamo); lo Zingarelli e il Treccani, invece, pur essendo vocabolari dell’uso, non registrano affatto la variante. In conclusione, attualmente la forma taciamo è percepita come scorretta, quindi va evitata anche in contesti informali, specie se scritti; in futuro, però, è probabile che diventi comune accanto a tacciamo e, addirittura, che la sostituisca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
RISPOSTA:
La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vai, seppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi essere e stare sono intercambiabili?
Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?
C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?
Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?
RISPOSTA:
La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.
Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»
RISPOSTA:
L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?
RISPOSTA:
Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Chi fosse interessato mi contatti” o “chi sia interessato mi contatti”?
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato? (Chi era interessato, tre giorni fa, mi contatti adesso).
RISPOSTA:
La variante con il congiuntivo presente è ingiustificata, quindi da considerare errata. Le alternative possibili sono chi fosse… e chi è... Lei ha ragione a rilevare nell’imperfetto un valore di passato: in effetti il significato della prima frase potrebbe essere quello da lei inteso; tale significato astratto, però, sarebbe senz’altro scartato dai parlanti per via dell’incoerenza tra un interesse passato e l’azione presente. In altre frasi potrebbe, comunque, essere attivo; per esempio “Chi fosse vivo nel 1910 oggi è certamente morto”. Rimane da spiegare quale sia la differenza tra chi è… e chi fosse…. Il congiuntivo imperfetto aggiunge alla proposizione relativa una sfumatura di ipoteticità (chi fosse = se qualcuno fosse) assente nell’indicativo presente. A ben vedere, tale sfumatura è superflua, visto che la situazione descritta è già ipotetica in sé (il parlante non sa se qualcuno lo contatterà e chi sia questo qualcuno); i parlanti, però, dimostrano di apprezzare l’enfatizzazione di questo tratto, ottenuta proprio con il congiuntivo imperfetto, che avvicina, come detto, chi fosse a se qualcuno fosse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È possibile usare i termini: avvocata, architetta, ingegnera ecc.? Rimangono formali in questa maniera?
RISPOSTA:
I nomi di professione femminili come quelli da lei elencati, pur scarsamente o per niente usati in passato, sono regolari e possono essere usati in ogni contesto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le espressioni carteggio informatico e carteggio digitale, usate al fine di indicare uno scambio di e-mail, messaggi WhatsApp o sms, possono essere considerate corrette? Se così non fosse, quali altre espressioni potrebbero essere usate in loro vece?
RISPOSTA:
Sì, entrambe le espressioni potrebbero essere usate per indicare uno scambio di sms, di messaggi inviati tramite e-mail o servizi di messaggistica istantanea. Per avere il requisito di carteggio (digitale o informatico), però, è necessario che lo scambio di messaggi fra due persone sia continuo nel tempo. Sarebbe possibile usare anche il termine corrispondenza, già adottato nel linguaggio informatico per indicare uno scambio di messaggi che hanno in comune lo stesso destinatario o lo stesso oggetto.
Raphael Merida
QUESITO:
Leggo su un giornale a diffusione nazionale quanto dichiara un noto giornalista: «Vi spiego come si diventa giornalista». Io avrei usato il plurale: «Vi spiego come si diventa giornalisti». Sono corrette entrambe le varianti? Se sì, quale si fa preferire?
RISPOSTA:
Le due forme sono del tutto equivalenti, sul piano strutturale e stilistico, e dunque entrambe perfettamente corrette in italiano. Il singolare si riferisce al ruolo, mentre il plurale dà più rilievo alle persone che ricoprono quel ruolo. Capisco la sua preferenza: parlando a un uditorio ampio, per esempio a studenti e studentesse, puntare alla concreta possibilità che ciascuna/o di loro diventi giornalista può sembrare più efficace. Però a favore del singolare rema l’essere adatto sia a un uomo sia a una donna, laddove il plurale al maschile indistinto, oggi più che mai, può essere comprensibilmente avvertito come discriminatorio. Allora al plurale sarebbe bene aggiungere “e giornaliste”. Il singolare è più economico e più inclusivo e quindi, in fin dei conti, preferibile: laddove la morfologia aiuta l’inclusività è sempre bene sfruttarne le risorse.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.
– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.
– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile
– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.
RISPOSTA:
Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:
– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.
Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.
– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).
In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.
L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.
– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.
Esclusa fosse.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
Tutte le forme sono possibili.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.
Tutte le forme sono possibili.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.
Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
Tutte le forme sono possibili.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).
Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.
Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.
In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.
La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.
Impossibile avessimo trovato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se i verbi sono usati correttamente negli esempi 1-4:
(1) Mi ha chiesto se io lo avrei chiamato quando sarei tornato in Italia
(2) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando sarei tornato in Italia.
(3) Mi ha chiesto se lo avrei chiamato quando io fossi tornato in Italia.
(4) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando io fossi tornato in Italia
Inoltre, so che posso dire “Lo chiamerò quando sarò tornato in Italia”, ma penso che la forma “Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarò tornato in Italia” venga considerata sbagliata dato che non rispetta la consecutio temporum. Giusto?
Altre variazioni della stessa frase con le stesse domande:
(5) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarei tornato in Italia.
(6) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando fossi tornato in Italia.
RISPOSTA:
Le forme verbali nelle frasi 1-4 sono corrette (ma eviterei di esplicitare il soggetto pronominale io tanto nella proposizione interrogativa indiretta quanto nella temporale). Per descrivere un evento futuro rispetto a un momento di riferimento passato (mi ha chiesto) nelle proposizioni completive si può usare sia il condizionale passato sia il congiuntivo imperfetto. Quest’ultimo è più formale, ma anche più ambiguo, visto che la stessa forma si usa per esprimere la contemporaneità nel passato. Il congiuntivo imperfetto, insomma, esprime una contemporaneità nel passato proiettata nella posteriorità; il condizionale passato esprime soltanto la posteriorità rispetto al passato. La proposizione temporale descrive un evento da una parte posteriore rispetto al momento di riferimento (mi ha chiesto), dall’altra anteriore rispetto all’evento del chiamare, che diventa un secondo momento di riferimento. In questa situazione si può scegliere se collegare l’evento del tornare a quello del chiedere o a quello del chiamare. Nel primo caso avremo le frasi 3 e 4, con il congiuntivo trapassato che esprime anteriorità rispetto al passato (visto che la contemporaneità e la posteriorità nel passato si comportano come passati); nel secondo caso avremo le frasi 1 e 2, con il condizionale passato che esprime posteriorità rispetto al passato (mi ha chiesto), trascurando il rapporto temporale con il chiamare. Va detto, inoltre, che la proposizione temporale introdotta da quando con il congiuntivo viene a coincidere con la ipotetica (quando fossi tornato = qualora fossi tornato), quindi assume una sfumatura di incertezza.
Nella completiva può essere usato anche l’indicativo futuro, come nelle ultime due frasi, se si vuole sganciare l’evento dal rapporto con il momento di riferimento (mi ha chiesto) e si considera rilevante il momento dell’enunciazione (ora). In questo modo l’evento del chiamare è rappresentato come posteriore rispetto al presente, ovvero come futuro. Se si fa questa scelta (che sarebbe adatta al parlato e allo scritto poco sorvegliato), nella temporale bisogna usare o il futuro semplice tornerò o il futuro anteriore sarò tornato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo
Marco non era a casa
Marco non c’era a casa
Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?
RISPOSTA:
“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?
Fabio Rossi
QUESITO:
Siamo studenti di italiano e ci stiamo imbattendo in una questione riguardante l’evoluzione dei dialetti italiani. Sappiamo che l’italiano standard evolve quotidianamente mentre ci chiediamo se anche i dialetti subiscano influenze. Dunque, vorremmo sapere se e come i diletti possono essere influenzati.
Inoltre ci stiamo chiedendo se nella frase sopra sia corretto usare o meno il congiuntivo: subiscono o subiscano.
RISPOSTA:
I dialetti sono lingue come l’italiano, il francese o il cinese. La differenza tra una lingua e un dialetto non è nel funzionamento, ma nell’ampiezza d’uso: i dialetti sono usati da comunità ristrette che hanno anche un’altra lingua, l’italiano, con la quale comunicano a un livello più ampio e in contesti ufficiali.
Anche i dialetti evolvono, quindi, e subiscono l’influenza dell’italiano e delle altre lingue (e in misura ridotta influenzano l’italiano e persino le altre lingue).
I rapporti tra l’italiano e i dialetti sono molto complessi, tanto che vengono scritti diversi libri ogni anno su questo argomento: non è possibile, quindi, sintetizzare la questione in una breve risposta. In generale possiamo dire che l’italiano si è diffuso tra tutta la popolazione, anche come lingua del parlato informale, non solo per lo scritto ufficiale e letterario, a partire dalla seconda metà del Novecento. Da allora i dialetti hanno cominciato a perdere funzionalità, ovvero a essere usati sempre meno anche in famiglia e tra amici. Questo processo ha rallentato l’evoluzione dei dialetti, impoverendone il lessico e riducendo il numero dei parlanti nativi di queste lingue, ovvero delle persone che nascono in famiglie in cui queste lingue si parlano spontaneamente (anche se la situazione è diversa da regione a regione e tra le città e le zone rurali). Da qualche decennio si nota un nuovo interesse per i dialetti: sono nati movimenti e associazioni che vogliono salvare queste lingue dalla morte. Queste iniziative potrebbero portare, in futuro, a recuperare non solo la conoscenza dei dialetti, ma anche l’uso.
Per quanto riguarda la seconda domanda, nella vostra frase vanno bene sia subiscono sia subiscano. Il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ovvero più adatto a contesti ufficiali, specialmente scritti: in questo contesto, quindi, è preferibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra le due affermazioni è la più formale?
Quanto alto è Mario?
Quanto alto sarà Mario?
Inoltre ho visto che va molto di moda ultimamente mettere l’asterisco per rendere “neutri” i sostantivi (asterisco egualitario di genere) che se non ho capito male, sarebbe invece consigliato rivolgersi ad entrambi i sessi con il maschile plurale secondo canoni formali della lingua italiana.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette (anche se sarebbe meglio anteporre il verbo: Quanto è alto, Quanto sarà alto Mario?), soltanto che in questo caso il futuro ha un valore epistemico, cioè indica un certo grado di dubbio o probabilità: “mi chiedo quanto possa essere alto Mario” ecc. Dato che ogni domanda (che non sia retorica) contiene in sé un elemento dubitativo (altrimenti se si sapesse già la risposta non si farebbe la domanda), in questo caso il futuro è tutto sommato pleonastico, in quanto equivalente al presente.
Il problema dell’uso dell’asterisco, o dello schwa, a scopo inclusivo, ovvero per rendere sia il maschile, sia il femminile, sia per includere nel novero persone non binarie, è, soprattutto in questi giorni, più vivo che mai e non può essere riassunto in poche battute qui. Ognuno ha le sue idee, legittimamente. Ovviamente la soluzione dell’asterisco e dello schwa violano le attuali norme ortografiche e morfologiche dell’italiano, ma ogni lingua evolve anche a costo di infrazioni del sistema. Pertanto se tali istanze inclusive (di per sé nobilissime, ovviamente, in qualunque società civile) venissero sentite dalla maggioranza degli utenti come necessarie alla comunicazione, il sistema linguistico non potrà non esserne influenzato e dunque l’asterisco e/o lo schwa saranno inclusi nel nostro sistema ortografico e morfologico, con buona pace degli oppositori e delle petizioni. Del resto, non è questo l’unico caso, nella storia della lingua, di vistosi cambiamenti del sistema ortografico: quando io andavo alle scuole elementari era ancora ammessa la grafia ò, ài, à, in luogo di ho, hai ha.
Morale della favola: non parlerei di corretto/scorretto, nei casi di asterisco o di schwa, ma di sentito o no come urgente, usato o no da un congruo numero di utenti ecc. Peraltro, il fatto che oggi si utilizzi il maschile indistinto (eviterei l’uso della parola “neutro”, visto che l’italiano, differentemente da altre lingue, non ha il genere neutro) per rivolgersi sia agli uomini, sia alle donne, sia alle persone non binarie, non relega certo al rango di scorrettezza altri usi possibili, quali per esempio quello, perché no, di utilizzare il solo femminile sempre.
Accada quel che accada nella lingua italiana (che, come ripeto, è in continua evoluzione e non può non riflettere le istanze sociali di chi la usa, visto che ogni lingua umana è, in primo luogo, uno strumento sociale), di qui a qualche mese o anno o decennio, mi pare si debba comunque guardare con favore al fatto che molte persone ritengano importante ridurre il più possibile la discriminazione e l’esclusione, presenti purtroppo ancora largamente nelle nostre società e dunque, di riflesso, anche nelle nostre lingue.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Entro stasera bisogna che il capoufficio mi chiami/mi abbia chiamato.”
“Entro stasera bisognerebbe che il capoufficio mi chiamasse/mi avesse chiamato.”
Se le due varianti proposte per ognuna delle frasi sono corrette, domando:
le forme verbali in questi casi sono riconducibili alla consecutio (abbia chiamato e avesse chiamato sono rispettivamente anteriori a bisogna e bisognerebbe), oppure indicano il grado di probabilità dell’evento (abbia chiamato e avessi chiamato sono meno probabili rispetto a chiami e chiamasse)?
RISPOSTA:
Il verbo bisognare (e analoghi: è necessario, richiesto ecc.) regge una completiva che ha due marche di subordinazione: il connettivo che (talora omesso) e il congiuntivo, che nel registro meno formale può tranquillamente sempre essere sostituito dall’indicativo. Il congiuntivo, pertanto, retaggio di antiche reggenze latine, serve a indicare la subordinazione e non il grado di eventualità (come erroneamente detto dalle grammatiche), tranne in alcuni ovvi casi come il periodo ipotetico ecc. (ma su questo troverà ampia documentazione nel nostro archivio delle risposte DICO digitando la parola congiuntivo). La completiva retta da bisogna non ha bisogno (scusi il gioco di parole) di specificare finemente il tempo dell’azione rispetto alla reggente; in altre parole, da adesso (momento dell’enunciazione, ovvero di chi dice bisogna) a quando l’enunciatore/trice ritiene che “bisogni”, l’azione si esprime di norma al presente (o all’imperfetto in dipendenza da bisognava). Oltretutto, nel suo esempio, l’azione della chiamata non è anteriore, bensì posteriore alla reggente (bisogna adesso), ma è semmai anteriore rispetto alla circostanza posta dallo/a stesso/a enunciatore/trice (entro stasera). Motivo per cui, a maggior ragione, non c’è alcun bisogno di utilizzare il passato (mi abbia chiamato / mi avesse chiamato), né c’entra nulla l’eventualità; come ripeto, infatti, il congiuntivo è richiesto (nello stile formale) come marca di subordinazione, non come indicazione di eventualità (bisogna, oltretutto, esprime la necessità non certo l’eventualità, sebbene non sia certo se la persona chiami o no). Quindi, la consecutio temporum non richiede affatto il passato e l’azione espressa al presente (o all’imperfetto) rappresenta l’alternativa migliore. Possiamo dunque dire che l’alternativa mi abbia / avesse chiamato sia (o è) scorretta? Non direi: con la lingua si può fare quasi tutto quel che si vuole e pertanto se un/a parlante sente l’esigenza di esprimere l’azione come anteriore vuol dire che la lingua gli/le consente di farlo, però mi sento di affermare che la soluzione al passato / trapassato sia / è meno appropriata, soprattutto a un contesto formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?
RISPOSTA:
La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttavia, benché, acconsentire, tollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella FAQ “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, a proposito della frase “Vorrei un’auto che avesse/abbia il cambio automatico” è stato detto che il congiuntivo imperfetto in una proposizione relativa viene giudicato valido solo in riferimento a un’azione/condizione passata. Ma il congiuntivo imperfetto non potrebbe essere interpretato in chiave ipotetica, veicolando non tanto il passato quanto un grado di probabilità del verificarsi dell’evento inferiore a quello che sarebbe stato determinato dal congiuntivo presente?
Congiuntivo imperfetto = meno probabile; congiuntivo presente = più probabile.
Come avviene, grosso modo, nelle subordinate condizionali costruite con qualora, nel caso che.
“Nel caso piovesse / piova, resto a casa”; “Qualora non potessi / possa uscire per la pioggia, resterei a casa”.
Onestamente, sovente ho scritto o detto “In Italia servirebbe un governo che aiutasse [nel presente e nel futuro, nda] i giovani”.
“Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino”.
“Si potrebbe studiare una soluzione che desse risalto a tutti i problemi finora discussi”.
Non ho mai collegato l’imperfetto al passato, ma, come spiegato, ho attribuito alla subordinata un taglio – mi verrebbe da dire – relativo-ipotetico.
Ho sempre sbagliato?
RISPOSTA:
Come scritto nella FAQ “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, nella costruzione della relativa vorrei X che agisce il modello della completiva vorrei che X. La preferenza sempre più marcata per il congiuntivo imperfetto in quest’ultimo tipo di proposizione in dipendenza dal condizionale (anche di verbi non di desiderio, opportunità, necessità) si trasmette anche all’altro tipo (la relativa), senza, però, che ci sia una ragione sintattica per questo. Si noti che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella completiva è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico, nel quale il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto (vorrei che tu fossi < vorrei se tu fossi; mi aspetterei che tu venissi < mi aspetterei se tu venissi). Se consideriamo questi passaggi, è prevedibile che il senso ipotetico rimanga percepibile nella completiva e nella relativa dipendente da un condizionale. Dobbiamo, però, rilevare che nella completiva e nella relativa l’ipoteticità dipende non da ragioni sintattiche, ma di analogia: il congiuntivo imperfetto, infatti, non veicola in astratto una sfumatura semantica particolare, ma si carica di questa sfumatura quando è inserito nello schema del periodo ipotetico. La proposizione completiva e quella relativa, pertanto, dovrebbero essere estranee a questo significato.
Insomma “Guarderei volentieri un film che abbia come protagonista Al Pacino” è la forma attesa per la relativa al presente; “Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino” è una forma che ricalca il periodo ipotetico del secondo tipo, ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indica che la qualità del film (avere come protagonista Al Pacino) riguarda il passato (e, al pari della frase della FAQ citata, è un po’ bizzarra, perché la qualità passata non può che permanere nel presente). A riprova di questa ricostruzione, osserviamo che cosa succede se sostituiamo l’indicativo al congiuntivo nella proposizione relativa: guarderei un film che abbia come protagonista… è del tutto equivalente (ma più formale) a guarderei un film che ha come protagonista…; guarderei un film che avesse come protagonista… è equivalente a guarderei un film che aveva come protagonista…
Non mi spingerei fino a definire sbagliato il congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa retta da un condizionale: vero è, infatti, che il modello del periodo ipotetico è forte e che molti parlanti attribuiscono all’imperfetto, per via di questo modello, un maggiore grado di ipoteticità rispetto al presente. Dopo tutto, la lingua è fatta di percezione: non ci sono strutture obbligate per natura, ma soltanto strutture alle quali gruppi di parlanti assegnano concordemente gli stessi significati. Finché si potrà scegliere tra il presente e l’imperfetto (è possibile, infatti, che in futuro l’imperfetto diventi la forma dominante), però, propenderei ancora per il presente; oltre a essere la forma sintatticamente attesa, si noti, il presente evita l’ambiguità tra guarderei un film che avesse (= ‘eventualmente ha’) e guarderei un film che avesse (= ‘aveva’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Titoli come avvocato, professore ecc., se non accompagnati dal cognome, vanno maiuscoli?
Come si comportano i titoli con il sesso delle persone? Sindaco e sindaca? Architetto e architetta?
RISPOSTA:
Non c’è alcuna ragione per scrivere con lettera maiuscola i titoli di professione, anche quando non siano seguiti dal nome della persona. Il maiuscolo può essere usato (ma non è obbligatorio neanche in questo caso) quando il titolo è usato per antonomasia per riferirsi a una persona specifica: l’Avvocato (Giovanni Agnelli), il Professore (Romano Prodi). I titoli di professioni comunemente ritenute prestigiose (Onorevole, ma anche Presidente, Papa, Direttore…) sono spesso scritti con la maiuscola, per sottolinearne il valore distintivo, anche se non è affatto necessario farlo. Quindi, se scrivere l’Avvocato fa pensare a una persona specifica, ovvero l’avvocato Giovanni Agnelli, scrivere l’Onorevole può rimandare a qualunque onorevole che sia stato nominato precedentemente.
I nomi di professione femminili sindaca e architetta sono ben formati e perfettamente legittimi; è preferibile, quindi, usarli quando ci si riferisce a professioniste. Sui nomi di professione femminili rimando a questo articolo pubblicato in DICO.
Nell’articolo è inserito anche il link alla guida Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, che spiega dettagliatamente tutti i casi dubbi (il link è questo: https://accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?
RISPOSTA:
Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo tenetur, beati monoculi in terra caecorum, carpe diem, est modus in rebus, risus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”. Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?
RISPOSTA:
Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (lui, lei, te) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi piacerebbe avere dei chiarimenti in merito all’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo al posto di o / oppure. Ad esempio: “Sono stata al mercato e non sapevo se comprare pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Potreste fornirmi delle delucidazioni in merito a questo strano uso?
Il significato di piuttosto che a cui sono abituata è quello di invece di, come in questo esempio: “Piuttosto che sgridarmi, spiegami dove ho sbagliato”.
RISPOSTA:
Il significato di piuttosto che a cui lei è abituata, cioè di ‘invece di’ o ‘anziché’, è l’unico appartenente all’italiano standard (quello codificato dalle grammatiche e dai dizionari). Con questo significato, il connettivo ha valore comparativo ed eccettuativo; l’esempio da lei fornito, infatti, può essere trasformato nel seguente modo: “Spiegami dove ho sbagliato, invece di sgridarmi”.
Da più di un decennio, e specialmente nell’italiano centrosettentrionale, piuttosto che ha assunto il significato proprio della congiunzione disgiuntiva o. Le ragioni di questa moda sono da ricercarsi nella percezione di piuttosto che come nobilitante rispetto a o da parte dei ceti medio-alti del Settentrione che, poi, hanno influenzato gli altri parlanti. Sono gli stessi motivi, per esempio, che inducono a pronunciare rùbrica invece di rubrìca, mòllica piuttosto che mollìca.
L’uso disgiuntivo di piuttosto che è ancora da considerare scorretto e non è consigliabile in nessun contesto; non solo perché in contrasto con la grammatica e con la storia etimologica del sintagma, ma anche perché può creare importanti ambiguità nella comunicazione, rischiando di compromettere la funzione del linguaggio. Una frase come “Stasera vado al cinema piuttosto che al teatro” indica una preferenza (‘Stasera vado al cinema, non al teatro’) e non un’alternativa (‘Stasera vado al cinema o al teatro’). L’uso disgiuntivo è, comunque, tipico di catene di alternative, come nell’esempio da lei proposto “pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Si noti che la frase, se interpretata con il valore standard di piuttosto che, significherebbe: ‘[compro] i pomodori e non le cipolle, né dell’aglio”.
Già nel 2002 la linguista Ornella Castellani Pollidori ipotizzava che alla base dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo ci fossero frasi come “Andiamo a Vienna in treno o piuttosto in aereo” (in cui piuttosto dà maggiore plausibilità al secondo elemento della coppia disgiuntiva).
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei chiederVi, dopo aver letto alcuni articoli in internet che utilizzano questa forma, se è giusto dire “mi hai svoltato la giornata”. Io sarei più propenso ad utilizzare la forma “hai dato una svolta alla mia giornata” ma vedo che in alcuni casi viene utilizzata, quindi mi chiedevo se fosse utilizzabile anche questa forma.
RISPOSTA:
L’uso del verbo svoltare nella frase da lei segnalata è d’ambito gergale, molto comune, almeno nell’Italia centrale, tra i giovani (e meno giovani) da molti anni. In quanto uso gergale, è limitato perlopiù al parlato informale, tra pari, o allo scritto che ne imita le movenze. Sicuramente sarebbe bene evitare simili usi in scritti d’ambito formale o anche nel parlato rivolto a persone che non condividono il medesimo orizzonte socioculturale. L’alternativa da lei proposta andrebbe benissimo per usi più formali, ma risulterebbe artefatta in un dialogo (o in una chat, per fare un esempio di scrittura informale) tra pari che condividano il medesimo gergo. Svoltare, in gergo, può essere utilizzato sia intransitivamente (ho svoltato, cioè ‘ho riportato un successo’: “Ho svoltato col lavoro”; “Quella ragazza m’ha dato il suo numero di telefono: ho proprio svoltato!”), sia transitivamente, come appunto in “M’hai svoltato la giornata”, cioè ‘hai determinato un esito molto positivo, magari insperato, nella mia giornata’, o ‘hai risolto un problema’ e simili. Naturalmente, può essere usato anche ironicamente, cioè per esprimere l’esatto contrario. Se avessi un incidente d’auto, potrei esprimere il mio disappunto esclamando: “Oggi ho proprio svoltato”, o “Ho svoltato la giornata”, o, rivolgendomi non proprio euforicamente a chi mi ha tamponato: “M’hai svoltato la giornata!”.
In una prospettiva stilistica, può essere utile conoscere l’uso di queste espressioni gergali, per esempio se si sta scrivendo un romanzo d’ambiente giovanile e si vogliono creare dialoghi agili e credibili tra i personaggi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si può scrivere in un tema la seguente frase: trucco e parrucco?
RISPOSTA:
L’espressione trucco e parrucco è un idiotismo, cioè una costruzione caratteristica di una lingua (dal greco idiotes ‘particolare, specifico’), intraducibile e difficilmente sostituibile con una perifrasi analoga. Gli idiotismi, anche detti espressioni idiomatiche, determinano sempre un abbassamento del tono del discorso, soprattutto se, come in questo caso, contengono parole storpiate al fine di creare un effetto fonico (come, per fare un altro esempio, in il troppo stroppia). L’adeguatezza di simili espressioni va valutata alla luce delle variabili testuali: chi sono l’emittente e il ricevente del testo, e in che rapporto sociale sono tra loro, in quale ambiente è inserito il testo (familiare, scolastico, universitario, lavorativo…), qual è il suo scopo, è scritto (quindi tendenzialmente più formale) o parlato (tendenzialmente più permeabile agli abbassamenti di tono)?
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno la mia per chiedervi se è corretto un errore che hanno segnato a mio figlio di 11 anni sul tema e cioè lui ha scritto “poi andammo in classe ed i maestri ci spiegarono tutto”, la professoressa ha corretto con “poi andammo in classe ed i professori ci spiegarono tutto”. È un errore scrivere maestro al posto di professore? Vi ringrazio in anticipo della vostra cortese risposta in quanto il bambino è rimasto sbalordito da questa correzione.
RISPOSTA:
Immagino che suo figlio frequenti la prima media, giusto? Se ho ragione, allora in effetti il personale docente che insegna alle scuole medie si denomina con l’etichetta di “professore” e non con quella di “maestro”. “Maestro/maestra” è invece la denominazione del personale docente delle scuole elementari e materne. In questo senso, l’insegnante di suo figlio (che infatti lei stessa definisce “professoressa”) ha corretto giustamente l’errore. Naturalmente, non si tratta di un errore di grammatica, bensì di lessico. Ma le lingue sono fatte anche di lessico.
È bene abituare i ragazzi, fin dai primi di anni di scuola, ad usare le parole secondo il loro significato più preciso e più adatto alle situazioni comunicative. Non è che un “maestro” valga di meno di un “professore” (si figuri che in ambito musicale il rapporto è ribaltato: “maestro” è il titolo che spetta al direttore d’orchestra, mentre “professore” è il titolo degli orchestrali da lui diretti), ma semplicemente la lingua è fatta di convenzioni (anche sociali) e di abitudini. Visto che l’uso odierno dell’italiano assegna un nome per gli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia (maestre e maestri) e un nome per quelli di scuola secondaria e dell’università (professoresse e professori), chi viola tale uso viola una regola della nostra lingua.
Ciò detto, spieghi a suo figlio che non deve certo mortificarsi per la correzione: è in ottima compagnia. Anche mio figlio, di dodici anni (e chissà quante migliaia di bambini italiani!), all’inizio delle medie si confondeva spesso tra “maestra” e “professoressa”. Ma, come si sa, e per fortuna, “sbagliando si impara”.
Un caro saluto
Fabio Rossi