Quando le sgrammaticature diventano arte e storia

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Come può DICO, devoto al culto della forma e ossessionato dal mito del bello scrivere, tessere le lodi di un romanzo composto da un semianalfabeta, fitto di errori, regionalismi, gergalismi, punteggiatura a sproposito e con un flusso quasi indistinto di parole al limite della leggibilità?

Eppure la capacità di penetrare la storia del Novecento di Terra matta, di Vincenzo Rabito (questo il romanzo autobiografico, pubblicato da Einaudi nel 2007, e prima ancora vincitore del «Premio Pieve – Banca Toscana» della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano) non ha pari, né precedenti, in nessun altro romanzo storico, in nessun diario, in nessun manuale di storia, in nessun resoconto giornalistico ecc. Per saperne di più, su questo caso letterario ancora, ahimè, poco noto, si veda qui.

Chi era Vincenzo Rabito? Un bracciante semianalfabeta (che conseguì la licenza elementare a trent’anni) nato nella provincia di Ragusa nel 1899 e morto nel 1981. Dopo aver attraversato tutti gli eventi salienti del secolo, dalla Grande guerra al fascismo, dall’emigrazione in Africa prima e in Germania poi alla Seconda guerra mondiale, dalla corruzione e il trasformismo politico alle illusioni del boom economico, Rabito decide di mettersi a raccontare tutta la sua vita. Quasi di nascosto a figli e nipoti, inizia a battere a macchina quaderni e quaderni fitti fitti di migliaia di pagine, con una lingua a metà tra il dialetto e uno stentatissimo italiano, fatto di grafie errate, accorpamenti di parole, uso abnorme del punto e virgola che tende a separare quasi ogni grumo verbale dall’altro.

Si tratta, apparentemente, di una delle tante manifestazioni di quell’italiano popolare unitario, cioè «il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto» (Cortelazzo 1972), di cui DICO si è già occupato (qui). Ma si avverte subito qualcosa di diverso. Laddove le lettere popolari sembrano un “vorrei ma non posso” e, a causa delle inibizioni di una forma scritta non dominata, non riescono quasi mai ad esprimere sinceramente la sostanza del parlato e dei pensieri dello scrivente, in Terra matta invece è proprio quella stessa lingua incerta a rendere ancora più credibile, e apparentemente senza filtri, lo spirito dell’autore.

Dopo un primo sconcerto, infatti, il lettore si lascia irretire da questa lingua che sembra l’unica adatta a esprimere i cortocircuiti del Novecento, a sforzarsi di trovare un senso nell’essere nel mondo, a farci toccare con mano i paradossi di un uomo che, almeno in teoria, non dovrebbe possedere il distacco e la consapevolezza critica necessari per esporre i fenomeni storici, e che invece, proprio grazie alla forma linguistica che si fa essa stessa sostanza della fatica della ricerca, riesce a penetrare l’indicibilità della Grande guerra, per esempio, o del fascismo. E, così facendo, ci regala un profilo inedito delle sfumate identità italiane. Un unico esempio per dimostrare quanto stiamo tentando di dire:

«E per tutta l’Italia, li operaie, da fasciste, tutte diventareno comuniste. E quinte, era tempo che campiaveno le cose. E io, che era fascista dalla prima ora, di fascista subito mi offatto parteciano e comunista, perché altremente umposto non lo poteva capitare» (p. 306).

In seguito all’edizione Einaudi del 2007 (curata, con interventi linguistici, da Evelina Santangelo e Luca Ricci), venne tratto anche un adattamento teatrale di e con Vincenzo Pirrotta (a partire dal 2009). Ma la trasposizione più felice è senza dubbio quella della regista Costanza Quatriglio che, nel 2012, con la collaborazione alla sceneggiatura e alla produzione di Chiara Ottaviano, decise di trarne un film (ripristinando, tra l’altro, molto opportunamente, la grafia univerbata del titolo, seguita da un punto e virgola, così come scritto nei quaderni di Rabito: Terramatta;). La straordinaria voce recitante dell’attore Roberto Nobile, l’uso delle dissolvenze, dei suoni (l’ossessivo battere sui tasti della macchina da scrivere), del montaggio di filmati di repertorio e soprattutto la presenza costante delle parole dattiloscritte (originali) di Rabito che popolano dal primo all’ultimo fotogramma del film, rendono ancora più evidente, se possibile, espressiva ed espressionistica la narrazione del romanzo. L’immagine dell’Isonzo, che Rabito rivede a distanza di decenni dalla Grande guerra, deformato dalla Quatriglio imprimendo alle lente onde del fiume i fiumi di parole rabitiani, sono tra le sequenze più vivide della cinematografia italiana degli ultimi anni. Così come le righe scritte che scorrono diventando treni e strade, anch’esse metafore di attraversamento della storia e dei luoghi alla ricerca faticosa di un senso.

E allora, per tornare alle domande da cui eravamo partiti, forse sarà il caso, grazie al romanzo di Rabito, di riconsiderare tanti luoghi comuni sull’italiano, tanti paletti epistemologici posti tra le nostre discipline, tante forzature che più e più volte hanno caratterizzato gli studi del sottoscritto e di tanti suoi colleghi. Ebbene sì, ammettiamolo: se la potenza della narrazione e dello sguardo, se la capacità di penetrare la storia e di mettersi a nudo, impietosamente, davanti ai lettori raggiungono vette così alte, e se a tutto questo coopera proprio lo sforzo di una lingua quasi agrammaticale, una sorta di non finito materico che tenta in ogni modo di ridefinirsi a ogni frase, a ogni sintagma, allora, sì, anche la scrittura di un semianalfabeta può diventare grande letteratura. Anzi, quella scrittura, meglio di altre, riesce a portarci dentro la storia italiana.

Fabio Rossi