QUESITO:
I nomi inglesi menzionati al plurale vanno declinati? Faccio degli esempi:
«l’elevazione degli standard per l’affidabilità della scienza» o «l’elevazione degli standards per l’affidabilità della scienza»?
«Gli stakeholder della società» o «gli stakeholders della società»?
«ho preparato le slide per il convegno» o «ho preparato le slides per il convegno»?
RISPOSTA:
Entrambe le possibilità sono corrette, ma solitamente i linguisti e i grammatici consigliano di non flettere mai i nomi stranieri, dal momento che essi vengono accolti in italiano come elemento, per l’appunto, allotrio, tale da non dover scardinare la morfologia dell’italiano, che non prevede la marca del plurale con -s, nel caso dell’inglese. Fino a qualche tempo fa si suggeriva di non flettere gli anglismi del tutto acclimati in italiano (i film), mentre di flettere quelli ancora avvertiti come estranei (i microfilms, le slides ecc.), ma oggi, come ripeto, la tendenza è quella di lasciare tutti i termini stranieri sempre invariabili, e di scriverli preferibilmente in corsivo, se se ne vuole marcare, per l’appunto, l’estraneità rispetto all’italiano. Sempre più di frequente, tuttavia, accade di trovare forestierismi non segnalati col corsivo. Anche questa del corsivo è più una tendenza d’uso, una convenzione (ma anche una comodità, per indicare al lettore parole che possano avere fonetica e morfologia difformi dalle nostre) che una regola inderogabile della grammatica propriamente detta. Sempre poi perché la lingua è una convenzione sociale, e più che regole ferree (peraltro raramente disattese dagli utenti madrelingua) ha varietà, tendenze e convenienze, anche l’invito alla mancata flessione dei forestierismi ha qualche deroga. Per esempio, specialmente in ambito musicale, chi scrivesse Lied ‘canto, ma anche specifica forma musicale’ al plurale, in luogo del plurale tedesco Lieder, verrebbe tacciato d’imperdonabile ignoranza. Conclusione e morale della favola spicciola (e socialmente utile): non fletta mai gli anglismi, fletta preferibilmente i tedeschismi, soprattutto Lied/Lieder.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sara, tu sei vicina allo stadio
2) Sara, tu stai vicino allo stadio
3) Noi siamo lontani da te
4) Noi stiamo lontano da te
5) Ti sono vicina, credimi!
6) Ti sto vicino in teatro
…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…
RISPOSTA:
Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».
Fabio Rossi
QUESITO:
Pensate che tutte le soluzioni siano corrette?
1) Voi potete andare dritto (avverbio)
2) Voi potete andare dritti/e (aggettivo)
3) Andiamo dritto, senza svoltare a destra (avverbio)
4) Andiamo dritti/e, senza svoltare a destra (aggettivo)
5) Mi stavano lontano (avverbio)
6) Loro mi stavano lontani/e (aggettivo)
7) La ragazza mi stava lontano (avverbio)
8) La ragazza mi stava lontana (aggettivo).
D’altra parte “dritto”, come “lontano”, può essere o avverbio, e rimanere invariato in -o, oppure aggettivo, e quindi accordarsi in genere e numero al nome, o pronome, cui si riferisce. Ovviamente, immagino, questi discorsi valgono anche qualora usassimo altri verbi, e non soltanto per i verbi “stare” o “andare”?
RISPOSTA:
Certamente, tutte le frasi sono corrette e aggettivi come lontano, vicino, dritto (o diritto) ecc. possono avere sia funzione avverbiale (invariabili), sia aggettivale (variabili). La possibilità di scegliere tra le due funzioni si ha anche con altri verbi: «correre diritto/diritti alla meta»; «sono vicino/vicina a te»; «la meta risultò più lontano/lontana del previsto» ecc. I verbi che non ammettono (o ammettono raramente) costruzioni copulative e con complementi predicativi inibiscono l’uso aggettivale: «abbiamo parcheggiato vicino», ma non *«abbiamo parcheggiato vicini», che, semmai (e con difficoltà), significherebbe altro (cioè non ‘in un luogo vicino’ ma ‘vicini io e te’).
Fabio Rossi
È preferibile dire: “Nel periodo ellenistico sorsero città importanti di cultura greca fuori dalla Grecia”, oppure “fuori della Grecia”?
Fuori è costruito preferenzialmente con da quando la preposizione è articolata (come nel suo caso); nei pochi casi in cui la preposizione non è articolata (quindi in espressioni cristallizzate), invece, è preferita di: fuori di casa, fuor( i ) di dubbio, fuori di testa, fuori di sé, fuori d’Italia. Fuori seguito da di articolata è possibile, ma si tratta di una variante ricercata da limitare a contesti molto formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Dimmi quando sei nato che ti faccio l’oroscopo”.
Quel che è corretto? Sta per perché poi potrò farti l’oroscopo, quindi sarebbe un’abbreviazione di perché e penso che, per questo motivo, richiederebbe l’accento. Vi sarei grata se voleste chiarirmi questo dubbio.
RISPOSTA:
Non è un’abbreviazione, ma è proprio la congiunzione che, che, effettivamente, ha in questo caso una funzione consecutivo-finale. Questa funzione, come anche quella causale e altre meno comuni, è stata assunta dalla congiunzione che nell’italiano contemporaneo. In virtù di tale allargamento di funzionalità, la congiunzione è chiamata anche che polifunzionale. Per approfondire questo tratto dell’italiano contemporaneo è possibile consultare l’archivio delle risposte cercando la parola chiave polifunzionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.
RISPOSTA:
L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.
RISPOSTA:
Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel libro «La piscina» scritto da Giacomo Papi, l’autore usa molto il condizionale. Mi ha fatto pensare a due esempi che mi pesano da un po’. Ho provato a trovare una spiegazione nel libro «Le facce del parlare» (che il prof. Rossi mi ha suggerito un paio di anni fa) senza successo.
a) Mia moglie non FAREBBE mai niente di male a nessuno della nostra famiglia.
b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile.”
DOMANDA 1
Nei due esempi (a) e (b) mi sembra simile la ragione per cui viene usato il condizionale. Per me nella frase a) l’uso del condizionale FAREBBE attenua la frase che è un’opinione personale o un giudizio/supposizione sulla moglie. Nell’esempio b) volevo seguire il modello di a), ma quando dico sarebbe molto difficile invece di potrebbe essere molto difficile, i miei amici italiani mi correggono.
Potrebbe spiegarmi qual è la differenza nell’uso del condizionale tra l’esempio a) e l’esempio b)? Come mai è necessario impiegare il servile potere nell’esempio b?
DOMANDA 2
Nel libro referito ho trovato due esempi con lo stesso verbo:
a) «Delle tue responsabilità per le morti dello zio Klaus e di Magnoni possiamo discutere, questo invece SI QUALIFICHEREBBE come un furto bell’e buono».
b) «Invece per la morte di Mario Spini questo video SI QUALIFICHEREBBE come istigazione al suicidio per lapidazione».
Come mai potere non è necessario (rispetto a sarebbe difficile)?
Tutte e due le frasi esprimono opinioni personali/supposizioni?
RISPOSTA:
La risposta è semplice: tutte le frasi proposte (con uso del condizionale potenziale) sono corrette e d’uso normale, in tutte l’uso del verbo potere è soltanto opzionale ma mai necessario (dato che esprime esso stesso possibilità) e i suoi amici sono ingenuamente e inutilmente prescrittivi. In particolare:
-
«Mia moglie non farebbe / potrebbe fare mai niente di male a nessuno della nostra famiglia».
-
«Potrebbe essere / sarebbe molto difficile».
-
«questo invece si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come un furto bell’e buono».
-
«questo video si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come istigazione al suicidio per lapidazione».
In tutti e quattro gli esempi, come al solito nell’uso del condizionale, la carica potenziale è analoga a quella dell’apodosi di un periodo ipotetico, per questo in tutte e quattro le frasi è come se ci fosse sottintesa una protasi:
-
Se se ne presentasse l’opportunità
-
Se lo studiassi
-
Se avvenisse
-
Se fosse girato il video.
Il motivo per cui la 2 sembra più naturale col verbo potere (ma ciò non giustifica l’inutile purismo dei suoi amici) è dovuto forse alla parziale complicazione posta dal verbo volere nella domanda, tanto che la protasi potrebbe mettere in dubbio la volontà piuttosto che la difficoltà del cinese.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».
RISPOSTA:
«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: né, infatti, significa ‘e non’.
Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché né, come già detto, significa già ‘e non’.
Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:
«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) / NEMMENO la X o lo stesso Y, / NE’ la X, NE’ lo stesso Y,
ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo, a tale processo”.
RISPOSTA:
La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».
Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».
Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.
Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due frasi è preferibile?
«Non credete a quello che raccontano».
«Non crediate a quello che raccontano».
RISPOSTA:
Le due frasi sono pressoché equivalenti (ma la seconda risulta quasi troppo letteraria, come vedremo), dal momento che sia il congiuntivo esortativo, sia l’imperativo servono per esprimere un ordine, un’esortazione e simili. Il congiuntivo esortativo supplisce l’imperativo nei casi di allocuzione di cortesia, cioè quando si dà del Lei a qualcuno che si vuole esortare, dal momento che l’imperativo ha due sole persone (la seconda singolare e la seconda plurale), mentre il congiuntivo ha anche la terza, necessaria per il Lei. Quanto appena detto vale anche per l’imperativo negativo, costruito con non + l’infinito per la seconda persona singolare, con non + l’imperativo affermativo per la seconda persona plurale. Dato che nella frase in questione, alla seconda persona singolare, non c’è alcun bisogno di sostituire l’imperativo con il congiuntivo esortativo, la scelta dell’imperativo («Non credete») è la più normale e consigliata in tutti i contesti, mentre quella al congiuntivo, comunque possibile e corretta, come già detto, risulta quasi ipercorretta, nella sua formalità (come se chi la usa temesse d’esser tacciato, ingiustamente, di non conoscere il congiuntivo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei conoscere qual è la forma corretta: “Dite loro che volete loro bene” o “Dite loro che gli volete bene”?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette: gli è ormai pienamente accettato nella funzione di pronome complemento indiretto di terza persona plurale (quindi si potrebbe anche dire “Ditegli che gli volete bene”. Il pronome loro è ancora percepito come più formale, ma in questa frase conviene non ripeterlo a così breve distanza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Soffro a vederla indifesa” è corretto usare la preposizione a o andrebbe meglio nel o anche di?
RISPOSTA:
Il verbo soffrire può reggere un complemento di causa introdotto da per (soffro per la perdita dei valori) o, se la causa della sofferenza è permanente o ciclica, di (soffro di mal di testa). Il verbo può reggere anche varire proposizioni (causale, temporale, condizionale…), costruite regolarmente, ma non una completiva, quindi non ammette la preposizione di. La proposizione subordinata nella sua frase è a metà tra la causale e la temporale e può essere introdotta da a o nel (soffro a / nel vederla = soffro perché la vedo + soffro quando la vedo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) La voglio tutta.
2a) Vi ho visti tutti.
3a) Noi veniamo tutti da Roma.
4a) Noi verremo in tanti alla festa.
Le frasi si possono riformulare così:
1b) Voglio tutta la torta (aggettivo).
2b) Ho visto tutti voi (aggettivo).
3b) Tutti noi veniamo da Roma (aggettivo).
4b) In tanti/tanti di noi verranno alla festa (pronome).
Nelle frasi “a” si fa un uso avverbiale dei pronomi e aggettivi?
RISPOSTA:
Nelle frasi del primo e del secondo gruppo tutto è sempre aggettivo e non ha mai la funzione di un avverbio: accompagna, infatti, sempre un nome o un altro pronome, anche se la sua posizione cambia. Anche la locuzione in tanti, che è aggettivale nella frase del primo gruppo, mentre è pronominale nella frase del secondo gruppo, non ha mai la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?
RISPOSTA:
La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?
RISPOSTA:
La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?
RISPOSTA:
In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di in o a; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.
RISPOSTA:
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.
1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».
2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).
RISPOSTA:
No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».
Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.
Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?
RISPOSTA:
Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.
L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:
A: Come mai sei interessato all’italiano?
Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.
Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.
Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.
RISPOSTA:
Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».
Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice che i pronomi personali rispondano alla domanda A CHI? Il pronome personale indiretto me = a me, ti = a te, gli = a lui, le = a lei, ci = a noi, vi = a voi e loro = a loro (anche gli).
Ho letto un pezzo nel Corriere della Sera qualche anno fa in cui un pronome personale indiretto era usato per far riferimento a una cosa inanimata, non a una persona. Ho pensato a un altro esempio in cui il pronome personale indiretto dovrebbe essere accettabile per far riferimento a una cosa: “Hai lasciato l’assegno alla banca?” “Sì, le ho lasciato l’assegno”, o “Sì, gliel’ho lasciato”. Le = alla banca.
Se il mio esempio con la banca è corretto, potrebbe spiegarmi come mai viene accettato? È perché in quel esempio, le vuol dire ‘alla commessa’ o ha a che fare con il verbo? Potrebbe fornirmi altri esempi in cui un pronome personale indiretto può far riferimento a una cosa invece di una persona? Immagino che sia una cosa molto particolare.
RISPOSTA:
Nessun uso irregolare, né particolare. Oggi gli e le (come anche lo, la) possono essere senza timore riferiti a cose, anche nell’uso scritto, nonostante le obiezioni di qualche grammatico attardato. La domanda cui rispondono non è dunque «a chi?» bensì «a chi, a che cosa?». Già negli anni Ottanta Serianni osservava, nella sua Grammatica, l’assoluta normalità di frasi come «Quest’orologio non funziona: che cosa gli hai fatto?». L’alternativa con esso è del tutto innaturale, e dunque da evitare: «che cosa hai fatto a esso?». L’unica alternativa possibile, se non piacciono gli/le riferiti a cose (che però, come ripeto, sono assolutamente corretti e normali) è ripetere il nome: «L’orologio non funziona. Che cosa hai fatto all’orologio?». Gli esempi di le riferiti a cose femminili sono innumerevoli e tutti corretti e normali (non eccezionali): «quando le dai una verniciata?», riferito a parete; «le ho dato una spinta per farla ripartire» (riferito a automobile) ecc. ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”
Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?
RISPOSTA:
La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida
QUESITO:
Leggendo la risposta sui termini croccantino e crocchetta non sono riuscito a trovare la forma che ho sentito diverse volte: crocchini. Esempio: “Ho comperato i crocchini per il gatto”. Può considerarsi una forma errata oppure un mutamento linguistico?
RISPOSTA:
Il nome crocchino non è registrato né nel Grande dizionario della lingua italiana né nei dizionari dell’uso più aggiornati. Se ne trovano sporadiche attestazioni in Internet in siti commerciali specializzati in prodotti per animali domestici e in recensioni a prodotti del genere pubblicate nelle piattaforme commerciali generaliste. A giudicare da questi dati, si può affermare che questo nome sia un regionalismo, ovvero un tratto linguistico tipico di alcune regioni italiane, in questo caso quelle del Nord, e assente nelle altre. I regionalismi non sono errori, ma forme nate e diffuse in un’area geografica limitata (una città, una regione, una serie di regioni). Queste forme a volte vengono adottate dalla lingua nazionale, divenendo dialettalismi; è il caso, per esempio, di molti termini gastronomici, come burrata, mozzarella, crescentina…
Dal punto di vista della formazione, crocchino è certamente il frutto di un mutamento: dubito che sia un derivato deverbale formato da crocc(are) + -ino, perché il verbo croccare è uscito dall’uso, quindi difficilmente può produrre parole nuove; potrebbe, invece, essere una variante di crocchetta con la sostituzione del suffisso apparente -etta (crocchetta non è suffissato, ma è l’adattamento del francese croquette) con -ino, oppure un accorciamento da crocc(ant)ino.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?
RISPOSTA:
In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?
Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.
RISPOSTA:
Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella frase “con i piedi lontano/lontani da terra” è corretto usare l’avverbio o l’aggettivo?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, perché lontano in italiano ha i valori di aggettivo e di avverbio. L’aggettivo richiede l’accordo di genere e numero con il nome cui si riferisce (piedi lontani), l’avverbio invece, in questo caso costruito come locuzione preposizionale (lontano da), rimane invariato. La variante con l’aggettivo è più comune, ma non per questo preferibile alla variante con l’avverbio.
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo chiedere quale delle tre versioni è corretta/preferibile o se invece sono tutte e tre ugualmente accettabili:
Questioni relative all’interpretazione e all’applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione,
Questioni relative all’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione.
RISPOSTA:
I tre esempi sono tutti e tre corretti (in quanto contemplati dal sistema grammaticale italiano), ma il primo è preferibile. Le grammatiche son tutte concordi nell’ammettere la possibilità dell’ellissi preposizionale nei casi di più elementi retti dalla medesima preposizione, ma ribadiscono anche che, per chiarezza, talora è bene ripetere la preposizione. Nel caso specifico, dato che la preposizione è articolata, sarebbe meglio ripeterla o quanto meno ripetere l’articolo: “Questioni relative all’interpretazione e l’applicazione”.
La -d eufonica va limitata a casi di incontro tra due vocali identiche, dunque, semmai, “interpretazione ed educazione”, ma “interpretazione e applicazione”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di aiuto per sciogliere un dubbio sull’uso di proprio.
I RAGAZZI STUDIANO SPERANDO DI REALIZZARE UN GIORNO I ………… SOGNI.
Nello spazio va inserito proprio o loro?
RISPOSTA:
L’aggettivo proprio si preferisce a loro quando si riferisce al soggetto grammaticale della frase. Diviene obbligatorio per riferirsi al soggetto in una frase in cui ci sono più referenti possibili; in quel caso, infatti, loro rimanda sicuramente non al soggetto. Nella sua frase il riferimento non può che essere i ragazzi, quindi proprio (in questo caso nella forma propri) è preferibile, visto che i ragazzi è il soggetto della frase, ma non obbligatorio; in una frase come “I ragazzi hanno rivelato ai professori che studiano sperando di realizzare i _____________ sogni”, invece, propri è obbligatorio perché loro si riferirebbe ai professori (i loro sogni, cioè, sono i sogni dei professori).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere, cortesemente, se lasagne è un nome comune o proprio.
RISPOSTA:
Lasagna (nei vocabolari questa parola è messa a lemma al singolare) è un nome comune che indica un tipo di pasta tagliata a strisce larghe.
Raphael Merida
QUESITO:
Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.
RISPOSTA:
L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.
Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.
RISPOSTA:
Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio che riguarda gli aggettivi numerali cardinali invariabili ma che si estende anche a tutti gli aggettivi qualificativi.
Se io scrivo: “Le mie tre rose sono fiorite”, posso fare l’analisi grammaticale dell’aggettivo numerale cardinale “tre” come femminile plurale dato che si accorda al nome “rose”?
Genere e numero dell’aggettivo numerale cambierebbero infatti se associati al nome: “I tre palazzi”.
Se io scrivo: “la bambina è gentile” posso analizzare l’aggettivo qualificativo come femminile e singolare anche se accanto ad un nome maschile singolare scrivo comunque “gentile”?
RISPOSTA:
Gli aggettivi (di qualunque tipo) non hanno un genere proprio, ma cambiano il genere in base al nome cui si riferiscono. Pertanto tre in tre rose è femminile, mentre è maschile in tre palazzi. Altrettanto gentile: femminile in persona gentile, maschile in modi gentili. Ciò vale dal punto di vista morfosintattico (cioè per quanto riguarda l’analisi grammaticale e la funzione dell’aggettivo). Dal punto di vista meramente formale, tre è un aggettivo invariabile, cioè che non varia (nella forma) tra maschile e femminile. Anche gentile è invariabile nel genere, anche se varia nel numero (gentile, gentili). Dal punto di vista funzionale, invece, come già detto, tutti gli aggettivi assumono il genere e il numero del nome cui si riferiscono.
Fabio Rossi
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I prefissi come super-, arci-, iper-, ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?
RISPOSTA:
Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutino, mensile, architettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendo, fantastico, meraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimo: supermeraviglioso, iperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimo, fantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste correggere le seguenti frasi?
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.
RISPOSTA:
Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Nord, a Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nord, al Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro
RISPOSTA:
Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra le due seguenti affermazioni è corretta da un punto di vista grammaticale?
Fai il saggio e TRANNE vantaggio.
Fai il saggio e TRAINE vantaggio.
RISPOSTA:
La forma verbale corretta è traine, formata da trai seconda persona singolare dell’imperativo del verbo trarre, e ne, particella pronominale che in questo caso può essere parafrasata con ‘da questo comportamento’. La forma tranne (che coincide con la preposizione tranne ‘eccetto’) non fa parte della coniugazione di questo verbo; non bisogna, quindi, confondersi con gli imperativi di altri verbi correttamente formati con il raddoppiamento della n di ne: danne (da dare), fanne (da fare), dinne (da dire), vanne (da andare), stanne (da stare).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito è duplice. Mi farebbe piacere sapere se nella frase “Non feci in tempo a scansarmi che l’uomo in bicicletta mi travolse” ci troviamo di fronte a un caso di che polivalente. Io lo percepisco come tale e mi sentirei di segnalarlo e correggerlo in un tema. Non trovo però una forma valida con cui sostituirlo senza intervenire su tutta la struttura della frase, ad esempio “L’uomo in bicicletta mi travolse senza che potessi fare in tempo a scansarmi”. Più in generale mi chiedo spesso se i tratti di italiano neo-standard vadano corretti o accettati in ambito scolastico.
RISPOSTA:
In frasi come la sua il connettivo che è usato con una funzione esplicativo-consecutiva, che rientra tra quelle raggruppate sotto l’etichetta di che polivalente. La stessa funzione può essere ravvisata in frasi come “Tu esercitati, che prima o poi avrai successo”, o “Vieni che ti spiego tutto”. Quest’uso è certamente tipico del parlato di formalità medio-bassa (come suggerisce il senso stesso delle frasi esempio); la sua accettabilità nello scritto di media formalità, invece, oscilla in relazione alla sensibilità dei parlanti e alla costruzione dell’intera frase. Nella sua frase, per esempio, l’uso ha un’accettabilità più alta che negli esempi fatti da me, perché non fare in tempo che è un costrutto quasi cristallizzato (un costrutto pienamente cristallizzato di questo tipo è fare in modo che). Per la verità, un’alternativa del tutto standard (e per questo meno espressiva) alla costruzione che non richieda lo stravolgimento della frase esiste: “Non feci in tempo a scansarmi: l’uomo in bicicletta mi travolse”. La variante sintattica, si noti, rivela che il che polivalente è spesso un “riempitivo” coesivo per un collegamento logico che altrimenti rimarrebbe implicito; anche nei miei esempi, infatti, il che si può semplicemente eliminare (con l’effetto secondario di elevare il registro).
Anche per altri tratti del neostandard l’accettabilità dipende oltre che, ovviamente, dal contesto, dalla sensibilità dei parlanti e dalla costruzione dell’intera frase. Per esempio, una dislocazione a sinistra come “Questo argomento lo tratteremo la prossima volta” è più accettabile di “Di questo argomento ne parleremo la prossima volta”, perché anche se in entrambe le frasi la tematizzazione del costituente rafforza il collegamento con la frase precedente, nella seconda la ripresa pronominale non è necessaria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?
RISPOSTA:
Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entro: entro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.
RISPOSTA:
L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.
RISPOSTA:
Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le due frasi sono corrette?
1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.
2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.
RISPOSTA:
Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?
RISPOSTA:
La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Perché a volte l’articolo si concorda con l’aggettivo (ovvero con la parola che lo segue)? Ad esempio: il tuo amico invece di lo tuo amico, l’ultimo compito da fare invece di il ultimo compito da fare. Si concorda così per evitare la cacofonia?
RISPOSTA:
Bisogna distinguere tra l’accordo, che regola la scelta del genere e del numero dell’articolo, e l’armonizzazione della catena fonica, che regola la scelta della forma dell’articolo. L’articolo concorda sempre con il nome; infatti, nei suoi esempi, il e l’ sono maschili singolari perché amico e compito sono nomi maschili singolari. La forma dell’articolo, poi, cambia a seconda dell’iniziale della parola subito successiva per facilitare la pronuncia dell’intera espressione che contiene l’articolo. L’articolo determinativo maschile singolare, per esempio, ha tre forme: il, lo, l’, ognuna selezionata in base all’iniziale della parola successiva nella frase. Come lei stesso ha notato, del resto, la forma dell’articolo cambia anche se l’articolo è seguito direttamente dal nome (l’amico, ma il compito); in questo caso, infatti, il nome è non solo la testa che governa l’accordo, ma anche la parola subito successiva all’articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamata notaio anziché notaia. Come devo accordare l’aggettivo quando mi riferisco a lei? È corretto dire “Il mio notaio è bravissimA / preparatissimA” o devo usare sempre e solo l’aggettivo al maschile?
RISPOSTA:
L’accordo è un fenomeno grammaticale; è, quindi, regolato dal genere, non dal sesso. Questo principio funziona senza sbavature quando i nomi designano oggetti inanimati (“La porta è rossa” / “Il tavolo è basso”), e non desta particolari problemi neanche con gli animali (“La giraffa maschio è altissima”, ma “Il maschio della giraffa è altissimo”). I dubbi, invece, sorgono nei rari casi in cui un nome che designa una categoria di persone ha un genere che non corrisponde al sesso del designato. L’italiano possiede un piccolo numero di questi nomi (che rientrano nel gruppo dei nomi promiscui, insieme a quelli come giraffa, pavone ecc.), quasi tutti femminili ma riferiti tanto a uomini quanto a donne: la guida, la guardia, la persona e pochi altri. Anche a questi nomi si applica la regola dell’accordo, per cui “Mario è una guida bravissima / una persona generosa” ecc.
I nomi mobili (come amico / amica) adattano il genere al sesso del designato modificando la desinenza; non hanno, quindi, il problema dell’accordo. In questo gruppo, però, rientrano alcuni nomi di professione e carica pubblica usati al maschile anche quando designano referenti femminili (notaio, architetto, il presidente e tanti altri). Questi nomi non fanno eccezione per l’accordo; Il femminile con nomi maschili va considerato scorretto anche in questi casi: non solo, quindi il notaio sarà sempre bravissimo e mai bravissima, ma anche la frase iniziale della sua domanda dovrà essere corretta in “Il mio notaio è una donna, ma preferisce essere chiamato notaio anziché notaia).
L’uso di un nome mobile maschile per un designato femminile – ricordiamo – è scorretto: così come non si può dire “Il mio amico Maria è una ragazza simpatica”, non si può dire “Il mio avvocato / notaio / architetto… Maria Rossi è una professionista eccellente”. La maggiore tolleranza per il maschile sovraesteso di nomi come notaio è un fatto puramente culturale e non riguarda le regole della lingua italiana. Bisogna, certo, ammettere che le regole della lingua sono permeate dalla cultura; per questo motivo, per esempio, alcune parole usate comunemente in una certa epoca divengono inappropriate e persino censurate in un’altra (inutile fare degli esempi). Se, però, l’italiano è stato modellato dalla cultura nel senso della sovraestensione del maschile dei nomi di professione in un’epoca in cui questo era normale e accettato, per lo stesso principio il femminile di questi nomi deve tornare a essere usato in un’epoca in cui il pensiero comune è cambiato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio relativo all’analisi grammaticale degli aggettivi possessivi loro e altrui.
Essendo entrambi invariabili vorrei capire se nel momento in cui devo analizzarli è sufficiente scrivere “aggettivo possessivo invariabile” o se devo anche specificare maschile, femminile, singolare e plurale osservando il nome dell’oggetto posseduto.
Per esempio: “Le formiche portavano delle provviste nel loro formicaio”.
In questa frase devo scrivere: “aggettivo possessivo invariabile” o anche “maschile e singolare” perché si riferisce a formicaio, che è appunto maschile singolare? O lo devo analizzare come femminile plurale perché è riferito a formiche?
RISPOSTA:
La questione è duplice: bisogna capire con quale sintagma concorderebbe loro se fosse variabile e come è meglio descrivere tale accordo nell’ambito dell’analisi grammaticale. Per il primo punto possiamo servirci di uno stratagemma: osserviamo come si comportano gli aggettivi possessivi variabili in italiano, per esempio nella frase “Abbiamo preso il suo zaino”. Come si vede, la scelta dell’aggettivo è determinata dalla persona o cosa che detiene il possesso (nella frase lo zaino appartiene a una terza persona, quindi si usa l’aggettivo di terza persona singolare), ma la forma dell’aggettivo dipende dal nome accompagnato (nella frase suo concorda con zaino). Allo stesso modo, nella sua frase loro è scelto perché il possessore è una terza persona plurale (le formiche), ma se l’aggettivo fosse variabile concorderebbe con formicaio (e lo stesso vale per altrui). Per quanto riguarda la descrizione dell’aggettivo nell’analisi grammaticale, loro deve essere descritto come invariabile; a rigore, infatti, attribuire a loro un genere e un numero è scorretto, perché qualsiasi scelta non corrisponderebbe all’effettiva forma della parola (che, per l’appunto, non ha né genere né numero).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla corretta analisi del participio passato nella seguente frase: “Luigi è stato colpito da una tegola MOSSA dal vento”. il participio mossa lo considero come un predicato verbale che introduce un’altra proposizione di cui dal vento è una causa efficiente?
In altre parole, può un modo indefinito introdurre un predicato verbale? Ho consultato un paio di grammatiche ma ho sempre trovato esempi con modi finiti.
RISPOSTA:
Il participio passato e, in generale, una qualsiasi forma indefinita del verbo possono essere analizzati come predicato verbale (sebbene il participio possa fungere anche da sintagma nominale e aggettivale e l’infinito da sintagma nominale). Nel caso specifico, mossa equivale a che era (stata) mossa, quindi è il predicato verbale di una proposizione relativa implicita, completata dal complemento di causa efficiente dal vento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In qualche reminiscenza della mia memoria era presente la regola per cui in un elenco si debba mettere solo il primo articolo e i successivi si omettono. Può essere che fosse riferito solo al caso in cui l’articolo sia il medesimo per tutti i nomi, non ricordo con esattezza. Perciò è corretta la seguente frase?
Ha il corpo tozzo, gambe corte e coda lunga.
E questa?
Ha la testa tonda, coda lunga e bocca piccola.
RISPOSTA:
L’articolo che accompagna il primo nome di un elenco non dovrebbe valere anche per gli altri nomi dell’elenco, ma ogni nome dovrebbe essere accompagnato dal proprio articolo. Una frase come “Ho comprato il martello, regolo e chiave inglese che mi avevi chiesto” è chiaramente scorretta; si dice, invece, “Ho comprato il martello, il regolo e la chiave inglese che mi avevi chiesto”. Se tutti i nomi dell’elenco sono dello stesso genere e numero la regola non cambia: ciascuno deve avere il proprio articolo.
Ovviamente, l’articolo va inserito se è richiesto: nei casi in cui il nome non avrebbe l’articolo fuori dall’elenco esso non lo deve avere neanche nell’elenco. Per esempio, così come potrei dire “Ho comprato (dei) chiodi” potrei anche dire “Ho comprato un martello, (dei) chiodi e (dei) ganci”.
I suoi elenchi presentano una specificità ancora diversa: sono costruiti in modo da ammettere sia la soluzione con sia quella senza articolo per tutti e tre i membri (anche per il primo): avere (e verbi simili, come presentare, mostrare, essere composto da) seguito da un elemento descrittivo, ma soprattutto da un elenco di elementi descrittivi, è, infatti, un costrutto quasi cristallizzato con il nome o i nomi senza articolo. Si veda, per esempio, la seguente frase tratta dal sito catalogo.beniculturali.it: “L’oggetto ha bocca piccola con doppio bordo in rilievo, collo lungo, due manici ad ansa”. Si potrebbe argomentare che, stante la possibilità di omettere l’articolo per tutti i membri di questo tipo di elenco, si dovrebbe fare la stessa scelta per tutti: o “Ha il corpo tozzo, le gambe corte e la coda lunga” o “Ha corpo tozzo, gambe corte e coda lunga”; per quanto, però, questa soluzione sia ragionevole e per questo preferibile in contesti formali, l’inserimento dell’articolo soltanto per alcuni dei membri dell’elenco non può essere considerato una scelta scorretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel Credo si dice: «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?
RISPOSTA:
La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?
RISPOSTA:
L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:
L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.
Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?
RISPOSTA:
Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».
La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.
La costruzione è corretta?
RISPOSTA:
No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre detto, e credo anche scritto sprono, inteso come sostantivo, sinonimo di stimolo. Poi, di recente, un amico mi ha detto che non ha mai sentito sprono ma solo sprone. Ho cercato un po’ dappertutto. In effetti pare che si dica solo sprone. Eppure questa “mia” variante pensavo fosse corretta. Posso credere che sia solo un po’ desueta?
RISPOSTA:
No, il sostantivo sprone è una variante della parola sperone con la quale condivide il significato di ‘arnese per stimolare i fianchi della cavalcatura’; da questo significato, successivamente, sprone ha sviluppato quello figurato di ‘incitamento, stimolo’ (“Il suo è esempio è di sprone per tutti noi”). Morfologicamente, quindi, la parola corretta è sprone e non sprono.
Quest’ultima non è attestata, se non anticamente e in sporadici casi, stando al Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia. La confusione fra sprone e sprono è facilmente intuibile per due ragioni: per la particolarità dei nomi di III classe, cioè nomi maschili che terminano in –e al singolare e in –i al plurale (sprone/sproni; occasione/occasioni ecc.); per la possibile attrazione della prima persona singolare del verbo spronare, cioè sprono.
Raphael Merida
QUESITO:
Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?
RISPOSTA:
La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che ci, vi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, lì, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Noi non li assomigliamo o li assomigliamo troppo poco” è corretto l’uso di li per loro?
RISPOSTA:
No: il verbo assomigliare regge un sintagma introdotto da a (assomiglio a mio padre), mentre il pronome li può fungere soltanto da complemento oggetto, non da complemento indiretto. Pertanto è corretto li chiamiamo (ovvero chiamiamo loro), mentre con il verbo assomigliare si possono usare gli oppure a loro (quindi gli assomigliamo o assomigliamo a loro). In teoria è possibile anche loro (assomigliamo loro), visto che loro può sostituire a loro, ma tale sostituzione è più comune quando il pronome ha una chiara funzione di complemento di termine (per esempio do loro un regalo); in questo caso, invece, in cui il sintagma è piuttosto un complemento oggetto obliquo (sul quale si veda questa risposta), è preferibile a loro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?
RISPOSTA:
I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadretti, a losanghe, a pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti a, fuori da, invece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?
RISPOSTA:
La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggendo in rete questa frase: “Michelangelo disegnava la lista della spesa siccome la sua domestica era analfabeta”, mi sono imbattuto in un commento che criticava l’uso della congiunzione causale (siccome può essere usato soltanto a inizio frase). Dal momento che mi sembra una vera e propria regola fantasma, approfitto del portale per chiedere se ciò sia vero o meno.
RISPOSTA:
Possiamo definirla una regola fantasma per due ragioni: 1. non c’è una vera e propria restrizione dell’uso di siccome in tutte le posizioni, per quanto questa congiunzione in contesti formali preferisca una certa posizione; 2. la posizione preferita della congiunzione non è a inizio frase, cioè prima della principale, ma prima della reggente, anche quando quest’ultima segue la principale (si pensi a una frase come “Sono stanco di sentire che siccome sono basso non posso giocare a pallacanestro”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?
RISPOSTA:
In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio reltivo alla seguente frase esterapolata dagli atti di un processo:
“i coniugi dichiarano di avere provveduto alla divisione dei beni mobili e di ogni altro oggetto di valore al di fuori di questa convenzione e di non avere null’altro a pretendere una dall’altra”.
Qual è la forma corretta: una dall’altra, uno dall’altro oppure uno dall’altra?
RISPOSTA:
I pronomi uno e altro hanno quattro forme (diversamente, per esempio, da che, che ne ha una sola), quindi concordano con la parola a cui si riferiscono. Quando i due pronomi sono usati nell’espressione reciproca l’un l’altro o in varianti della stessa, può capitare che la concordanza influenzi soltanto il genere, non il numero. Questo avviene quando la parola a cui entrambi i pronomi si riferiscono è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare. L’esempio della frase da lei proposta è proprio il caso in cui la parola a cui i pronomi si riferiscono, coniugi, è plurale, mentre ciascuno dei due pronomi rimanda a un referente singolare, ovvero ciascuno dei due coniugi. Da questo consegue che la forma grammaticalmente ineccepibile sia, nel suo caso, l’uno dall’altro (ovvero ‘un coniuge dall’altro coniuge’). Comunemente, se i due referenti dei due pronomi sono uno maschile, l’altro femminile, è possibile anche costruire un accordo “logico”, cioè non con la parola, ma con i referenti. In questo modo, se i coniugi in questione sono un uomo e una donna la forma sarà uno dall’altra (ovvero ‘il marito dalla moglie’) o, viceversa, una dall’altro. Un testo come una sentenza o simili, comunque, richiede il maggior rigore grammaticale possibile; in un simile testo, pertanto, è preferibile usare la forma che concorda con coniugi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.
Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidato, tutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto l’uso di conosciuto come sinonimo di noto?
RISPOSTA:
Sì, conosciuto e noto sono sinonimi. Come tutti i sinonimi, comunque, non sono intercambiabili sempre: ovviamente conosciuto non può essere sostituito da noto quando è usato come participio passato, non come aggettivo (“L’ho conosciuto in un bar”); a sua volta noto è preferito a conosciuto quando si riferisce a qualcosa che deriva la qualità dall’essere stata trattato o discusso in precedenza: “L’argomento è noto a tutti; non serve tornarci su”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio che riguarda le proposizioni correlative costruite con non solo… ma anche, come nel periodo seguente:
“Si occuperà non solo della gestione, ma anche della programmazione”.
Ma se io scrivessi:
“Marco si occuperà non solo della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli (anche) la programmazione”, per la correttezza del periodo è necessario che ci sia anche?
Inoltre, avendo un rapporto di interdipendenza, sono considerate entrambe proposizioni coordinate correlative? E la principale?
RISPOSTA:
Anche può essere omesso sempre, non solo nel suo caso; i parlanti, però, preferiscono inserirlo perché chiarisce il rapporto di correlazione con non solo, che il solo ma lascia in parte sospeso (aumentando l’ambiguità della frase). Nella seconda frase, in ogni caso, il problema è un altro: i due termini in correlazione non sono la gestione e la programmazione, bensì i comportamenti di Marco e Andrea; la frase risulta, pertanto, più chiara se entrambe le locuzioni correlative vengono inserite prima dei due nomi (“Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà anche lasciargli la programmazione”). Si noti che anche non può essere inserito prima di Andrea, perché questo avverbio (che molti considerano una congiunzione) ha una portata ristretta: si riferisce al costituente immediatamente adiacente, quindi anche Andrea significherebbe ‘Andrea oltre a qualcun altro’. La posizione obbligata di anche, però, non è un problema, perché la correlazione tra Non solo Marco si occuperà e ma Andrea dovrà anche lasciargli (ovvero ‘dovrà in più lasciargli la programmazione’) funziona perfettamente. La frase sarebbe ben formata anche così: “Non solo Marco si occuperà della gestione, ma Andrea dovrà lasciargli anche la programmazione”; in questo caso si metterebbe in evidenza che Andrea dovrà lasciare a Marco la programmazione oltre alla gestione.
Dal punto di vista dell’analisi del periodo, la proposizione che contiene ma anche è coordinata all’altra, che possiamo considerare reggente, in cui appare l’altra parte della correlazione (non solo). La prima parte della correlazione funziona da anticipazione della seconda parte; un po’ come tanto funziona da anticipazione del che che introduce la proposizione consecutiva: “Sono tanto stanco che vado subito a letto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.
Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?
RISPOSTA:
La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori: sé è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire in quali situazioni è obbligatorio affiancare il congiuntivo imperfetto al condizionale presente, come nel caso di un periodo ipotetico.
Queste due frasi rischiano di essere avvertite come errate per il semplice fatto che si è abituati ad associare il condizionale al congiuntivo imperfetto, e ciò a volte manda in confusione anche me:
“Non potrei stabilire se l’abbia fatto un bambino o un adulto”.
“Vorrei che venga espulsa” (In questo caso il condizionale è una forma ingentilita del presente).
RISPOSTA:
Nel quadro della consecutio temporum, il condizionale presente richiede gli stessi tempi del congiuntivo richiesti dall’indicativo presente. Per esempio, quindi, immagino che venga = immaginerei che venga (contemporaneità); immagino che venisse / sia venuto / fosse venuto = immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto (anteriorità). A questa regola si sottraggono i verbi di volontà, desiderio, opportunità (come volere, desiderare, pretendere, essere conveniente e simili), che instaurano il rapporto di contemporaneità con il congiuntivo non presente, ma imperfetto (probabilmente perché sono influenzati dal modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui al condizionale presente corrisponde il congiuntivo imperfetto). A immaginerei che venga, quindi, corrisponde vorrei che venisse. La variante vorrei che venga in astratto è corretta, ma è di fatto giudicata decisamente trascurata. Coerentemente, per l’anteriorità alla costruzione immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto corrisponde il solo vorrei che lui fosse venuto. La variante vorrei che lui venisse per esprimere l’anteriorità è sconsigliata perché sarebbe interpretata come esprimente la contemporaneità.
Per ulteriori informazioni sui tempi del congiuntivo dipendenti da vorrei è possibile consultare questa risposta e questa risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.
Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?
- La differenza è poco/poca
- Due settimane è poco/sono poche
RISPOSTA:
Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.
Raphael Merida
QUESITO:
Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:
Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.
La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.
RISPOSTA:
La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»
RISPOSTA:
L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?
RISPOSTA:
Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I rigori sono sempre una sfida di nervi tra chi calcia e il portiere, e stavolta ha vinto lui”. Lui chi? Il portiere o chi calcia?
RISPOSTA:
La frase non è ben composta, proprio perché non è decidibile quale sia l’antecedente di lui. Può essere corretta in diversi modi, per esempio sostituendo lui con il primo o il secondo (o anche quest’ultimo), a seconda di chi abbia effettivamente vinto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dovrebbe scrivere: “Lei recitò un Ave Maria” con l’apostrofo o senza? L’Ave Maria è una preghiera e quindi si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo, il che significa “Recitare una Ave Maria”. Però nessuno direbbe: “Recitare una Padre Nostro”.
RISPOSTA:
Visto che Ave Maria (anche nelle grafie avemaria e avemmaria) è un sostantivo femminile, l’articolo da usare sarà la/una, quindi “un’Ave Maria”. Anche se si tratta di una preghiera, Padre nostro (anche nella grafia univerbata Padrenostro) è un sostantivo maschile; quindi, avrà come articolo il/un: “un Padre nostro”.
Raphael Merida
QUESITO:
So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:
Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.
RISPOSTA:
Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le due proposizioni introdotte dalla negazione “né” sono ben collegate al resto del periodo?
1) Ho effettuato due chiamate al vostro numero: non sono riuscita a parlare con un operatore, né sono stata richiamata, come (invece) promesso.
2) Ho effettuato due chiamate al vostro numero senza aver parlato con un operatore, né essere stata richiamata, come (invece) promesso.
Domando, a latere, se l’avverbio “invece” in questi casi sia consigliato, da evitare perché ridondante, oppure sbagliato.
RISPOSTA:
Nel primo periodo la congiunzione né è usata del tutto correttamente, nel secondo no. Né vuol dire e non, quindi «e non sono stata richiamata» ecc. Invece è del tutto pleonastico in entrambi i periodi, quindi da evitare, anche se non è errato. Nel secondo periodo, non si può sostituire né con e non: *«senza… e non…». Tuttavia, la coordinazione copulativa negativa né correlata a senza è abbastanza diffusa (perché senza, sebbene non sia una negazione, esprime un concetto di negazione, cioè di privazione di qualcosa), nell’italiano colloquiale, quindi si può anche ammettere, nei registri meno sorvegliati. Ma è senza dubbio da evitare nello scritto più sorvegliato.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Tante di cose” o “tante di persone”, come dice Lei, sono agrammaticali, ma in caso di ripresa nominale, cioè col “ne” come ripresa pronominale in aggiunta al “di” partitivo (“Ne vede tante di cose/persone”), sarebbero legittime.
Se non si vuole utilizzare il pronome di ripresa “ne” allora bisognerebbe modificare il nome “cose”:
“Ogni giorno vede tante di queste cose/persone”.
Secondo lei, se cambiassimo ”vede tante di cose/persone” in “Vede tante di cose/persone interessanti” cambierebbe qualcosa o si resterebbe nell’agrammaticalità?
RISPOSTA:
Secondo me sì, sarebbe agrammaticale; accettabile, forse, soltanto in uno stile molto informale. L’indefinito tanto può reggere il partitivo, ma in contesti in cui sia chiara la ripartizione di un sottogruppo: «tanti dei miei amici non sono laureati», oppure: «vedo qui presenti tante delle persone che ho conosciuto al corso di francese» o simili. Invece, nel suo esempio («vede tante di persone interessanti») non c’è questa ripartizione, perché «tante persone» indica genericamente un numero elevato di persone e non un sottogruppo nell’ambito di un gruppo più ampio o di una totalità.
Fabio Rossi
Non so se esista una regola precisa per quanto riguarda l’uso dell’apostrofo in casi come quello che segue: “Hai visto le due sorelle?” “Sì, le ho viste ieri”. Si potrebbe anche scrivere con l’apostrofo: “Sì, l’ho viste ieri”? Sono corrette entrambe le forme?
L’elisione degli articoli e dei pronomi è da evitare quando questi sono plurali: l’amica, ma non l’amiche; l’ho visto, ma non l’ho visti. Impossibile è l’elisione di gli, perché in una sequenza come gl’alberi il nesso -gl- sarebbe pronunciato come in glabro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:
- a) Ce ne sono (tante) di cose!
- b) Ne ha fatte (tante) di cose!
Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:
- c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
- d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
- e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.
Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.
Quello che mi chiedo è:
Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?
- f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?
RISPOSTA:
La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.
In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».
In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».
Fabio Rossi
QUESITO:
“È arrivato il momento che il proprietario venga a ritirare la macchina”. La frase è corretta o si dovrebbe scrivere con in cui?
“È arrivato il momento in cui il proprietario venga a ritirare la macchina”.
Perché mi suona meglio la prima?
RISPOSTA:
Subordinate come quella da lei presentata si collocano a metà strada tra le relative, le temporali e le soggettive. Se la consideriamo una relativa dobbiamo costuirla con in cui, perché un evento succede in un momento; se la consideriamo temporale la costruiremo con quando; se la consideriamo soggettiva useremo la congiunzione che (in questo caso è il momento che viene assimilato a è il caso che o simili). I parlanti sfavoriscono decisamente l’opzione temporale e oscillano tra la relativa e la soggettiva, per via della somiglianza tra le due costruzioni (non a caso il che usato in casi come questi rientra nella casistica del cosiddetto che polivalente), preferendo, di solito, la seconda. Quest’ultima è da considerarsi del tutto regolare e utilizzabile in ogni contesto. A conferma della vicinanza di questa subordinata alle soggettive, se il soggetto della subordinata è impersonale essa si costruisce con di + infinito, proprio come le soggettive: “È arrivato il momento di andare”. Va detto, però, che la costruzione relativa diviene preferibile se il momento non è all’interno di un costrutto presentativo, per esempio “Nel momento stesso in cui l’ho visto ho provato una forte emozione”. In questo caso la costruzione con che è percepita come più trascurata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Lo fai pentire delle sue azioni.
2) Lo fai pentirsi delle sue azioni
3) Lo lasci pentire delle sue azioni.
4) Lo lasci pentirsi delle sue azioni.
Per quanto mi riguarda, penso che con “fare” sia sbagliata l’inserzione del pronome riflessivo “si”, nonostante il verbo sia intransitivo pronominale e lo richiede.
Per quanto riguarda il verbo “lasciare” credo che si possa utilizzare il riflessivo, o almeno l’ho sempre fatto, ma non so se sia necessario al 100%.
Quindi significa che per me sono corrette la prima e la quarta, la terza potrebbe forse essere corretta, infine c’è la seconda che è errata.
Non ho i mezzi per stabilirlo, quindi chiedo a lei.
Magari saprebbe dirmi se ci sono delle regole e ragioni grammaticali ben precise in merito, con cui si può stabilire la correttezza o la non correttezza delle quattro frasi?
RISPOSTA:
Come si legge nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino, 1991, vol. 2, p. 509, «I verbi riflessivi appaiono nella costruzione fattitiva senza il clitico riflessivo», pertanto le sole frasi corrette sono la 1 e la 3. In altri termini, quanto il verbo fattitivo o causativo (fare, lasciare) determina lo spostamento del soggetto della subordinata infinitiva, ingloba in sé anche il clitico riflessivo, che invece deve essere espresso se lo spostamento del soggetto (e l’infinitiva) manca, cioè: «Fai (o lasci) che si penta delle sue azioni». Lo stesso vale per soggetto/oggetto espresso in forma piena: «Fai/lasci pentire (e non pentirsi) Marco delle sue azioni», ma «fai/lasci che Marco si penta (e non penta) delle sue azioni.
Fabio Rossi
Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.
“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.
Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.
L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a lì oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?
2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?
3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?
4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?
5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?
Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?
La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.
Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:
6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene
6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*
A pensarci bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.
È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?
RISPOSTA:
La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):
– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).
Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:
1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».
2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.
3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.
4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.
5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.
6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.
6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».
Fabio Rossi
QUESITO:
“Le parole scritte restano”. In analisi grammaticale qual è la funzione di “scritte”?
RISPOSTA:
Aggettivo qualificativo, femminile, plurale. Naturalmente, trattasi di participio passato del verbo scrivere usato, nella frase in questione, con funzione aggettivale. Dato che le parole non funzionano in isolamento, in nessuna lingua, bensì inserite in un contesto (frase), è bene analizzarle nella funzione (non a caso, lei nella sua domanda utilizza la parola funzione) che svolgono all’interno della frase. In questo caso non v’è alcun dubbio che la funzione di scritte sia aggettivale (ovvero attributo in analisi logica). Vi sono peraltro dei casi limite: «Le parole scritte da te restano». In questo caso la presenza del complemento d’agente lascerebbe propendere per l’analisi come verbo, cioè participio passato. Tuttavia, dato che anche gli aggettivi (e i nomi) possono reggere argomenti («sensibile ai complimenti», «utile a/per scopi diversi» ecc.), non è questo un discrimine per stabilire se un participio sia verbale o aggettivale. Ancora una volta, come spesso accade nelle lingue, non si tratta di bianco o nero ma di come si decide di ritagliare la realtà linguistica: chi opta per valorizzare sempre la natura verbale del participio (che, per inciso, si chiama così proprio perché partecipa della doppia natura di verbo e di nome, ovvero aggettivo), chi invece (e io mi colloco tra questi ultimi) pensa che si debba valutare caso per caso a seconda del contesto sintattico. Non vi sarebbe alcun dubbio, per esempio, nel considerare verbale il participio della frase seguente: «Scritte, le parole restano», nella quale «scritte», isolato dal resto della frase, non può che assumere la funzione di subordinata (ipotetica implicita: «se scritte…»). Anche nella sua frase si potrebbe sostenere che «scritte» sia una relativa implicita: «Le parole che sono scritte restano», ma sarebbe una spiegazione antieconomica: perché mai scomodare una struttura sottintesa quando la linearità della frase è chiarissima? Come vede, la distinzione tra analisi grammaticale e analisi logica, necessaria in teoria per tener distinti i piani dell’analisi linguistica, è meno netta nella realtà dei fatti: per stabilire se analizzare «scritte» come aggettivo o come verbo è prima necessario comprendere la sintassi della frase. In conclusione, ribadisco la mia opinione: «scritte», nella frase in questione, va analizzato come aggettivo e non come participio passato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Ne ha preparate tre, poi gliele ha spedite per congratularsi del suo successo” quali sono le funzioni sintattiche dei pronomi? Ecco la mia proposta:
Ne = pronome personale atono, compl. specificazione o partitivo
Tre = pronome numerale, complemento di quantità? O forse più genericamente compl. specif.
Gliele = pronome personale. Gli: compl. termine. Le: compl. ogg.
Si (congratularsi) = pron. personale, intransitivo pronominale.
Suo = agg. possessivo, compl. specif.
RISPOSTA:
Le sue analisi sono sostanzialmente corrette, tranne i seguenti punti:
Tre = complemento oggetto. Il si contenuto nel verbo congratularsi, che è intransitivo pronominale, non ha una funzione sintattica precisa, ma contribuisce alla costituzione del significato del verbo (forse lei intendeva proprio questo nella sua analisi, ma non è chiaro). Suo è l’unica parola tra quelle analizzate che non è un pronome, ma un aggettivo; dal punto di vista sintattico gli aggettivi non svolgono la funzione di complementi ma sono analizzati come attributi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “porta il latte con te, ma che sia freddo”, il “che” si riferisce a latte?
RISPOSTA:
No, il che è un mero introduttore del congiuntivo desiderativo. Come se fosse: «[fa’ in modo] che sia freddo».
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?
RISPOSTA:
In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Tutto bene, davvero non vi preoccupate per me”, tutto è pronome, aggettivo o nessuno dei due? Inoltre, ha la funzione sintattica di soggetto?
RISPOSTA:
Nella frase tutto equivale a ‘tutte le cose, ogni cosa’, quindi è un pronome. La frase “Tutto bene” è analizzabile come frase nominale, cioè priva di verbo. In una frase senza verbo l’identificazione del soggetto è complicata, visto che quest’ultimo si definisce come il costituente sintattico con cui il verbo concorda. D’altro canto, è facile riconoscere la costruzione verbale soggiacente quella non verbale: “Va tutto bene”; in questa frase tutto ha proprio la funzione di soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere la differenza tra : di questa e su questa.
Es: “non mi hanno detto nulla di questa cosa”;
“non mi hanno detto nulla su questa cosa”.
RISPOSTA:
Dire di o dire su si equivalgono perché sia la preposizione di sia la preposizione su introducono un complemento di argomento. L’oscillazione tra queste due preposizioni è da sempre presente in italiano, basti vedere alcuni titoli di opere del passato come “Sulle guerre di Fiandra” o “Dei sepolcri” (in quest’ultimo caso la preposizione di ricalca il complemento di argomento latino, costruito con la preposizione DE + ablativo come “De bello gallico”).
Raphael Merida
QUESITO:
Le proposizioni relative nelle frasi di seguito sono limitative o esplicative? La virgola serve oppure no? In certi casi potrebbe essere utile un “rinforzo” pronominale per il che?
1a) Queste sono le sue parole(,) su cui vorrei soffermarmi.
1b) Queste sono le sue parole, quelle su cui vorrei soffermarmi.
2a) Ho dovuto accettare le sue ragioni(,) che non condivido.
2b) Ho dovuto accettare le sue ragioni, quelle che non condivido.
3a) Ero attratta dal suo ragionamento(,) che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
3b) Ero attratta dal suo ragionamento, quello che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
RISPOSTA:
Tutte le frasi proposte sono possibili; in esse le relative sono costruite prima come limitative (che non richiedono la virgola), poi come esplicative, e questo cambiamento influisce sul significato della frase. Nella prima coppia, per esempio, la variante a indica che il soggetto vuole soffermarsi su alcune parole proferite da qualcuno; la variante b prima presenta le parole, poi indica che il soggetto vuole soffermarsi sulle parole presentate. L’inserimento del pronome dimostrativo nelle relative esplicative, possibile ma non necessario, ha l’effetto di separare ancora più nettamente le subordinate dalle reggenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra queste due affermazioni è corretta dal punto di vista grammaticale?
1) L’ultima sua opera è stato un libro.
2) L’ultima sua opera è stata un libro.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: il participio passato della copula può concordare con il soggetto o con il nome del predicato, se è un nome di genere diverso dal soggetto, come in questo caso. Si noti che il participio passato dei verbi copulativi preferisce di gran lunga l’accordo con il soggetto (“L’ultima sua opera è sembrata un capolavoro”; meno comune “… è sembrato un capolavoro”), mentre il participio passato dei verbi che richiedono il complemento predicativo del soggetto concorda soltanto con il soggetto (“L’ultima sua opera è stata ritenuta un capolavoro”; non *”… è stato ritenuto un capolavoro”).
Si noti che se il nome del predicato o il complemento predicativo è plurale mentre il soggetto è singolare, il verbo in qualsiasi sua forma preferisce di gran lunga la concordanza con il nome del predicato o il complemento predicativo, non con il soggetto (“Il suo miglior piatto sono / sono state / sembrano / sono sembrate / sono ritenute le lasagne”). Al contrario, nei pochi casi in cui il soggetto è plurale e il nome del predicato o il complemento predicativo è singolare, il verbo concorda con il soggetto (“I suoi amici sono la sua famiglia”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali sono i tempi e i modi verbali piú adatti nelle proposizioni comparative? Il modo condizionale é corretto?
È piú stupido di quanto tu pensi (indicativo o congiuntivo?) / pensassi / abbia pensato / avessi pensato.
È stato piú semplice di quanto tu creda / credessi / abbia creduto / avessi creduto.
RISPOSTA:
Tutte le varianti da lei ipotizzate sono corrette, e le possibilità sono ancora di più. Al variare del modo cambia il grado di formalità (il congiuntivo è più formale dell’indicativo) o si aggiunge una sfumatura semantica (il condizionale presenta l’evento della subordinata come condizionato da un altro evento o come eventuale); al variare del tempo cambia la collocazione dell’evento descritto dalla subordinata sulla linea temporale (e solo secondariamente il rapporto temporale tra questo e l’evento della reggente). Si noti che le possibilità prescindono dal tempo della reggente, perché i due eventi rappresentati nella reggente e nella subordinata sono reciprocamente autonomi dal punto di vista temporale. Possiamo, dunque, avere in entrambe le frasi:
“… di quanto tu credi / creda” (indicativo e congiuntivo presente), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel presente;
“… di quanto tu credevi / credessi” (indicativo e congiuntivo imperfetto), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato per un certo tempo;
“… di quanto tu hai creduto / abbia creduto” (indicativo passato prossimo e congiuntivo passato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito ed è ancora ben presente nella mente del parlante;
“… di quanto tu credesti” (indicativo passato remoto), per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito lontano dalla percezione del parlante;
“… di quanto tu avevi / avessi creduto” (indicativo e congiuntivo trapassato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene in un momento del passato precedente a un altro momento (per esempio “È più stupido di quanto tu avevi / avessi creduto prima che succedesse quell’incidente”;
“… di quanto tu crederai” (indicativo futuro), per indicare che il credere avviene nel futuro;
“… di quanto tu crederesti” (condizionale presente), per indicare che il credere è condizionato (per esempio “È più stupido di quanto tu crederesti se lo guardassi in faccia”) o semplicemente eventuale, e avviene nel presente;
“… di quanto tu avresti creduto” (condizionale passato), per indicare che il credere è condizionato o semplicemente eventuale, e avviene nel passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Un uomo attraversava i ghiacciai…: era equipaggiato, era armato ed era in viaggio verso chissà dove”. Il correttore del testo considera i verbi era equipaggiato ed era armato come forme passive. Avrei qualche perplessità in merito.
RISPOSTA:
Fa bene: in questo caso equipaggiato e armato sono usati come aggettivi e funzionano da parti nominali dei predicati nominali era equipaggiato e era armato. Può trovare maggiori spiegazioni sulla distinzione tra participio passato verbale e nominale in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:
1) Mario era troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.
2) Mario era troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.
3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.
Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?
RISPOSTA:
Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era troppo grande perché lo si capisse”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A) Ci sono degli studenti, molti dei quali non si impegnano abbastanza.
B) Ci sono degli studenti, di cui molti non si impegnano abbastanza.
La A ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma nominale, come per esempio:
‘Molti di quelli che vedi non si impegnano abbastanza’.
La B invece ha un complemento partitivo che funge da modificatore del sintagma verbale, come per esempio:
‘Di quelli che vedi molti non si impegnano abbastanza’.
È un’analisi corretta la mia? Se così fosse, non ci sarebbe nessuna differenza d’uso tra A e B?
RISPOSTA:
L’unica differenza tra A e B è la forma del pronome relativo (di cui / dei quali). A prescindere dalla forma, la funzione del relativo è sempre quella di introdurre una proposizione relativa, che è un modificatore di un sintagma nominale (in questo caso gli studenti). Per quanto le due varianti del relativo siano funzionalmente identiche, quella analitica, formata dall’articolo determinativo e quale, è meno comune e più formale di quella sintetica, formata dal solo cui. Va aggiunto che la proposizione relativa richiesta qui è certamente limitativa, cioè contenente informazioni che identificano l’antecedente; questo tipo di proposizione relativa non va separato dalla reggente con alcun segno di punteggiatura e preferisce senz’altro la forma sintetica del relativo. Diversamente, la relativa esplicativa, che contiene informazioni aggiuntive sull’antecedente, va separata e può essere costruita con entrambe le forme (per esempio: “Quest’anno ho una classe con molti studenti, molti dei quali / di cui molti non si impegnano abbastanza”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel mio lavoro di rilevazione degli incidenti stradali, quando si raccoglie la dichiarazione è prassi scrivere: “proveniente da Via X percorrevo Via Y in direzione di Piazza Z …”. Io però preferisco cominciare usando il gerundio: “Provenendo da …”. L’inizio con il participio presente in funzione verbale è da ritenersi errato, tollerato o corretto? Se corretto non è comunque preferibile il gerundio?
RISPOSTA:
Il participio presente con funzione verbale è raro e solitamente sgradito dai parlanti (anche se non può essere definito scorretto). Si usa quasi esclusivamente in ambito burocratico, da cui proviene, non a caso, il suo esempio; anche in questo contesto, però, può essere sostituito da altre forme, come il gerundio, nell’ottica di un salutare avvicinamento del burocratese alla lingua comune.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Era uno dei miei pregi, o almeno credevo che fosse tale.”
Tale dovrebbe equivalere a un pregio. Dal punto di vista logico, non mi pare che la costruzione presenti grandi difficoltà interpretative; ma, dal punto di vista sintattico, _tale_ si riferisce a un termine che nel testo non compare, se non nella forma plurale (uno dei miei pregi).
Considerando ciò, il periodo è corretto?
RISPOSTA:
Il periodo è corretto. Bisogna precisare intanto che il referente uno dei miei pregi è singolare (appunto uno), non plurale. Può, comunque, capitare che un elemento anaforico rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore, ma semmai come una costruzione tipica del parlato; per esempio “Non c’è neanche uno yogurt in frigo? Ma se ne ho presi sei l’altro giorno!” (ovvero ho preso sei yougurt).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho preparato questo quesito perché, talvolta, ho difficoltà a capire su chi ricada l’azione della subordinata. La regola secondo cui, se non vado errata, è consigliata (tranne alcuni casi) la forma implicita, laddove vi sia identità di soggetto tra la reggente e appunto la subordinata, non so se possa essere applicata agli esempi proposti:
1) Stefano ha chiesto ad Alessia di uscire.
2) Stefano ha detto quella bugia ad Alessia per illuderla di aver ragione.
Riguardo al primo esempio: Stefano ha chiesto ad Alessia che fosse lei ad uscire, oppure Stefano ha chiesto il permesso per uscire ad Alessia?
Riguardo al secondo esempio: la bugia è stata detta ad Alessia per illuderla che Stefano avesse ragione, oppure Stefano, con quella bugia, ha voluto illudere Alessia?
Vorrei infine aggiungere un terzo esempio. Stavolta si tratta di un’interrogativa indiretta; ma l’incertezza sui rapporti semantici tra le parti permangono:
3) Stefano ha chiesto ad Alessia se poteva/potesse uscire.
Stessa criticità: chi “poteva (o potesse) uscire” tra i due?
RISPOSTA:
La regola generale dice che la subordinata completiva implicita presuppone che il soggetto sia lo stesso della reggente; ci sono, però, dei casi in cui questa regola entra in competizione con altre regole, oppure con la logica ingenua del parlante, con l’effetto di creare confusione nel parlante stesso. Nella frase 1) il problema è causato dalla polisemia del verbo chiedere: se lo intendiamo come ‘chiedere il permesso’ allora la subordinata rientra nella regola dell’identità di soggetto, per cui è Luca che vuole uscire; se, invece, lo intendiamo come ‘richiedere’, la subordinata rientra nella regola della costruzione con i verbi di comando, che prevede l’identità tra il soggetto della subordinata e l’oggetto del comando. In questo secondo caso, quindi, è Alessia che deve uscire. C’è anche una terza possibilità, attivata dal verbo chiedere in combinazione con uscire, e cioè che Luca abbia invitato Alessia a un appuntamento romantico. In questo caso la subordinata ha come soggetto loro, che non coincide né con Luca né con Alessia: la soluzione regolare sarebbe, quindi, “Luca ha chiesto ad Alessia che uscissero”, che, però, sarebbe interpretata piuttosto come ‘… ha richiesto ad Alessia di far uscire altre persone’. Con questo terzo significato, la costruzione più comune sarebbe ancora “Luca ha chiesto ad Alessia di uscire”, a rigore non corretta. La disambiguazione tra le tre possibilità sarà garantita dal contesto; la soluzione 3), invece (pure possibile), non aiuta completamente, perché l’inserimento di potere esclude la terza interpretazione, ma lascia aperte le prime due (anche se la seconda sarebbe molto favorita): nel primo caso potere sarà interpretato propriamente come ‘avere il permesso’; nel secondo sarà interpretato come segnale di cortesia, quindi la frase sarebbe la variante indiretta di “Alessia, puoi uscire, per favore?”.
Per quanto riguarda la frase 2), l’identificazione del soggetto di aver ragione è problematica perché l’oggetto pronominale della proposizione reggente (la) è sentito come un possibile candidato, anche se a rigore non lo è: il soggetto di aver è Stefano, ovvero il soggetto della proposizione reggente; se, invece, si vuole che il soggetto sia Alessia, bisognerà costruire la subordinata in modo esplicito: “…illuderla che avesse ragione”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
- “Stiamo parlando di voi stessi, ragazzi miei.”
- “Stavo parlando ai ragazzi di loro stessi.”
In questi due casi, stessi è corretto quale rafforzativo, oppure si tratta di un uso scorretto, in quanto il soggetto della proposizione non coincide con il pronome cui si riferisce l’aggettivo?
RISPOSTA:
L’uso è corretto in entrambi i casi; l’aggetto stesso può accompagnare i sintagmi nominali della frase (anche costruiti con un pronome) a prescindere dalla funzione sintattica da questi svolta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.
1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.
Cerco di contestualizzare.
Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:
“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).
Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:
“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.
RISPOSTA:
L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).
A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.
In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.
“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”
Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.
Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”
In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:
“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?
“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?
RISPOSTA:
Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.
La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La preposizione di può essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.
Esempio:
“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.
Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:
“il panettone si mangia sempre di dicembre / Natale” = ‘ogni dicembre / Natale’.
In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:
“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.
Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.
Ecco una frase tratta da un dizionario:
“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.
Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:
“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).
RISPOSTA:
La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.
I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, leggere è un verbo o un sostantivo, e ha funzione di complemento oggetto?
“Amo tanto leggere, in particolare mi piacciono i libri fantasy”.
RISPOSTA:
Nella frase non è possibile decidere se l’infinito abbia valore di verbo o di nome: entrambe le analisi sono, pertanto, legittime. Il fatto che la parola non sia preceduta dall’articolo, comunque, fa propendere per l’analisi come verbo; diversamente, in una frase come “Amo tanto il leggere” la parola sarebbe certamente da analizzare come nome. Al contrario, se leggere fosse seguito da un complemento oggetto (per esempio “Amo tanto leggere romanzi d’avventura”) emergerebbe più chiaramente la funzione verbale.
Se leggere è un nome, esso rappresenta il complemento oggetto del verbo amo; se, invece, è un verbo, allora rappresenta una proposizione oggettiva subordinata alla reggente amo tanto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.
Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:
«Mi mangio la mela»: uso intensivo.
«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.
Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?
RISPOSTA:
Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.
Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).
«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».
Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.
«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.
«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.
Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?
Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?
In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?
Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”
RISPOSTA:
La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.
C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».
Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tutte e tre le varianti sono ammissibili?
“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).
Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?
“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.
La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.
Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo un altro quesito.
- Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.
Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.
Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:
- Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
- Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.
Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.
Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.
RISPOSTA:
Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
Salve quale affermazione è corretta?
Grazie per esserci stata vicinO
Grazie per esserci stata vicinA
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, perché vicino ha due diversi valori in italiano: come aggettivo o come avverbio. Come aggettivo richiede l’accordo di genere e di numero («stati vicini», «state vicine») con il nome o il pronome cui si riferisce, come avverbio è invece invariabile. Pertanto in «Grazie per esserci stata vicina», vicino è un aggettivo e come tale va accordato con il soggetto (sottinteso) cui si riferisce (cioè tu). In «Grazie per esserci stata vicino» invece vicino è un avverbio e come tale non cambia né nel genere né nel numero («stati vicino», «state vicino»). Come avverbio vicino è simile a «accanto».
Il significato delle due frasi non cambia nella sostanza, anche se il valore aggettivale è meno impersonale e dunque, in certo qual modo, più caloroso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.
1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.
2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.
(Verbo intransitivo/participio passato verbale)
3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.
4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione
(Verbo passivo/participio passato verbale)
5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.
6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.
7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.
(Participio presente verbale)
8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia
9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione
(Participio passato con funzione aggettivale)
10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno
(Participio presente con funzione aggettivale)
11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.
12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.
13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.
(Aggettivo)
Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.
Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:
“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.
In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.
Per esempio:
Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.
Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.
Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.
Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?
RISPOSTA:
Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».
«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).
«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».
«I partecipanti al convegno»: uso nominale.
«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.
«I laureati in economia»: nominale.
«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.
«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.
«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.
Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ci sono dei casi in cui è possibile usare sia l´imperfetto che il passato prossimo? Ad esempio, come si comportano questi tempi verbali nelle frasi sottostanti? Grazie.
Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte.
Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati.
Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato.
Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato.
Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva.
Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto.
Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici.
Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava.
Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore.
Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare.
Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica , da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola.
Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo.
RISPOSTA:
La differenza di massima tra imperfetto e passato prossimo è nell’aspetto, ovvero nel modo in cui l’azione e il tempo vengono espressi dal verbo. In questo senso, mentre il passato (prossimo o remoto) indica soltanto che l’evento si è concluso (sebbene le sue conseguenze possano essere ancora presenti e determinanti: ho capito, ho ricordato, ho imparato ecc.), l’imperfetto invece qualifica l’azione come in continuo svolgimento o abituale, sia pur sempre nel passato. L’imperfetto, inoltre, può assumere anche molte sfumature modali (indicando, dunque, l’atteggiamento del parlante/scrivente su quanto sta dicendo/scrivendo), che lo rendono una delle forme verbali più usate in italiano e tale da sostituirsi spesso anche ad altre, come per es. al congiuntivo: «Se mi aiutavi facevamo prima» (equivalente, ma più informale, a «Se mi avessi aiutato avremmo fatto prima»). Fin quei la regola e la giustificazione del fatto che l’imperfetto sia molto diffuso, anche al posto di altre forme verbali. Nell’uso, poi, le cose sono sempre più sfumate, rispetto alle regole rigide. Ecco perché, in molte delle sue frasi, la differenza tra i due tempi verbali (imperfetto o passato prossimo) è minima o quasi nulla, perché quello che cambia è una sfumatura aspettuale (cioè un modo di guardare all’evento) talmente piccola da annullarsi o quasi. Quindi la risposta alla sua domanda è sì, spesso si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo. Analizziamo ora caso per caso per vedere che cosa cambia nell’una e nell’altra opzione.
«Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte»: meglio il passato prossimo, perché l’indicazione di tempo centinaia di volte comunque circoscrive l’evento. L’imperfetto è comunque possibile, perché sottolinea l’abitualità e la ripetitività dell’azione, sebbene il suo uso sia più naturale con un’espressione di tempo che ne indichi, per l’appunto, la ricorsività, per es. tutti i giorni, dieci volte al mese ecc.
«Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati»: il significato è praticamente identico; il far caldo è un evento che si protrae nel tempo (mentre tuffarsi è puntuale), e dunque ben si presta all’uso anche all’imperfetto.
«Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato / Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato». Meglio il passato prossimo (sono tutte azioni puntuali), a meno che non si trasformi all’imperfetto anche «cucinavo uno stufato» e si aggiunga però un’espressione al passato che rappresenti l’evento che si è verificato mentre lei faceva tutte quelle altre cose (espresse all’imperfetto, cioè con continuità mentre si è verificato l’evento); per es.: «Ieri facevo il bucato, pulivo casa e cucinavo uno stufato, quanto è arrivato Gianni e finalmente mi sono riposata».
«Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva / Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto»: pressoché identici: potere, avere le capacità di fare qualcosa ben si prestano ad un uso continuato nel tempo.
«Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici»: decisamente meglio l’imperfetto, dato che l’azione di abitare è continuata e abituale, non certo puntuale.
«Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava»: meglio il passato prossimo, per via dell’espressione di tempo specifica oggi pomeriggio. Andrebbe bene l’imperfetto se seguisse un evento puntuale: «Oggi pomeriggio aspettavo all’aeroporto (cioè: stavo aspettando), quanto mi hanno rubato la borsa».
«Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore»: l’imperfetto non si può usare, perché arrivare è un’azione momentanea: l’aereo è arrivato in un momento specifico. Sorvolo sulle eccezioni in cui anche arrivare potrebbe assumere una sfumatura continua (per es. «Quando ero piccolo la fine dell’inverno non arrivava mai»).
«Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare»: meglio l’imperfetto (ma il passato è comunque possibile), perché l’essere previsto e l’essere chiuso sono eventi continuati nel tempo e non momentanei.
«Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica, da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola»: è preferibile il passato prossimo perché, anche se il convincersi e l’essere (riferito al fatto) possono essere fotografati nel loro svolgersi continuo nel tempo, in questo caso c’è un singolo elemento (il fatto che l’amica non lavorasse in quel periodo) che ha convinto a prendere la decisione di andare.
«Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo»: vanno bene entrambe le forme, ma il senso della frase cambia lievemente; all’imperfetto indica che queste azioni avvenivano abitualmente, mentre al passato prossimo si suggerisce l’idea di qualcosa di limitato in un tempo. Chiaramente si potrebbe anche aggiungere un elemento temporale al passato: «Per tutto il mese siamo andate in spiaggia dove abbiamo alternato letture e chiacchierate. Con lei è (o era) possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo». E anche altre sfumature di differenza possono essere colte in un testo del genere, che conferma quanto detto all’inizio sulle numerose sfumature aspettuali (e modali) dell’imperfetto. Per es. questo mi mancava molto sottolinea che manchi ancora, mentre in questo mi è mancato molto potrebbe anche darsi che sia mancato fino a questo momento ma che ora non manchi più (dato che le due amiche si sono riviste o si stanno per rivedere). Ma, come ripeto, sono davvero dettagli minimi.
Fabio Rossi
QUESITO:
A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.
«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».
C’è qualche regola da seguire?
Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.
Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».
RISPOSTA:
In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).
Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.
«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».
«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».
Fabio Rossi
QUESITO:
“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?
RISPOSTA:
Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».
Fabio Rossi
QUESITO:
Nell’analisi grammaticale dei nomi collettivi trovo difficile indicare se si tratti di nomi di persona, animale o cosa. In un esercizio scolastico, sarebbe opportuno tralasciare tale dicitura oppure è possibile far rientrare questi nomi in una categoria? Ed eventualmente quale? Ad esempio, gregge può essere definito un nome comune di animale? O un nome comune di cosa? Oppure semplicemente un nome comune, collettivo?
RISPOSTA:
Semplicemente nome comune, collettivo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem.
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Potrebbe gentilmente chiarirmi un dubbio riguardo all’uso della vocale I nel digramma GN? I verbi impegniamo, bagniamo, insegniamo si scrivono con la I?
Potrebbe inoltre dirmi come fare la divisione in sillabe delle stesse parole?
RISPOSTA:
Le forme verbali da lei segnalate si scrivono con la i, alla prima persona del presente indicativo e congiuntivo, perché la i fa parte della desinenza verbale (-iamo), non della radice (e infatti i verbi sono impegnare, bagnare, insegnare ecc., senza i). Diciamo amiamo, non *amamo. Naturalmente la i si scrive ma non si pronuncia, perché viene assorbita dalla pronuncia palatale del nesso GN. La divisione in sillabe è la seguente: im-pe-gnia-mo; ba-gnia-mo; in-se-gnia-mo.
Fabio Rossi
QUESITO:
L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione esclusi eventi imprevedibili può essere definita corretta. Ho letto che, secondo alcuni studiosi, il termine escluso dovrebbe essere trattato come una sorta di avverbio quando significa ‘ad eccezione di’, per cui nella fattispecie sarebbe corretto usare l’espressione escluso eventi imprevedibili. Io penso che entrambe le soluzioni siano corrette, comunque vorrei il vostro piacere a riguardo.
RISPOSTA:
Il processo di grammaticalizzazione del participio passato (con valore aggettivale o nominale) di escluso, ancora in corso, non può certo dirsi concluso (come invece è accaduto per eccetto). Quindi oggi è decisamente minoritario l’uso di escluso (invariabile) come preposizione (e non avverbio), in casi come escluso la domenica. Decisamente maggioritario (43 mila contro 16 mila oggi in Google) l’uso aggettivale: esclusa la domenica (impossibile invece, oggi, eccetta la domenica). Quindi, oggi è decisamente più corretta (e accetta in tutte le varietà di lingua) la sua frase (esclusi eventi imprevedibili), piuttosto che l’altra (escluso eventi imprevedibili). Chissà, però, che tra cent’anni (più o meno, a grammaticalizzazione conclusa) le cose non si invertano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.
Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.
La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?
RISPOSTA:
L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).
Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.
Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .
Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava, è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).
Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di sciogliere questo dubbio:
1 Si sono cominciate a introdurre nuove regole.
2 Si è cominciato a introdurre nuove regole.
Sono entrambe frasi corrette?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambe frasi corrette e significano la stessa cosa. La prima è costruita con il si passivante, e dunque letteralmente equivale a «Nuove regole hanno cominciato a essere introdotte». La seconda è costruita con il si impersonale: «Qualcuno ha cominciato a introdurre nuove regole». In Toscana quest’ultima frase avrebbe anche il significato di «Noi abbiamo cominciato a introdurre nuove regole».
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se è possibile usare i pronomi lui, lei, loro riferendoli a cose o ad animali. Mi suonerebbe piuttosto strano riferirmi ad un gatto usando il pronome esso (o essa se fosse una gatta) o essi se si tratta di più animali. Lo stesso vale per animali considerati, più o meno a torto inferiori come, per esempio, gli scarafaggi. Così pure mi suonerebbe male parlare di un mobile usando il pronome esso anzichè lui o di più mobili servendomi del pronome essi anzichè usare loro.
RISPOSTA:
I pronomi esso, essa, essi, esse sono usati preferibilmente in riferimento a oggetti inanimati (anche se non è escluso l’uso riferito a esseri animati). Il caso degli animali è problematico, perchè gli animali sono esseri animati, ma generalmente considerati non come individui, bensì come “copie” dello stesso prototipo (per quanto questa convinzione sia discutibile). La scelta del pronome per gli animali, pertanto, è delegata alla sensibilità del parlante, e non è soggetta a una regola precisa; spesso i parlanti sono indotti a usare lui, lei, loro in riferimento ad animali domestici, con i quali hanno un legame affettivo, e negli altri casi esso, essa, essi, esse, oppure questo ecc. o, quando possibile, nessun pronome o alternative al pronome, come la ripetizione del nome che definisce il genere dell’animale. Va anche detto che esso ;e varianti sono divenuti in generale rari in italiano, per cui in ogni caso i parlanti cercano modi per evitarli.
L’uso di esso e varianti in riferimento a mobili o altri oggetti inanimati non crea nessun problema, a parte, appunto, l’avversione per il pronome ormai raro, a cui vengono preferite sempre alternative come i pronomi dimostrativi, sintagmi nominali o l’omissione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere una precisazione sull’analisi grammaticale dei nomi astratti. È corretto in analisi grammaticale scrivere… “nome astratto, individuale”? Esempio: tristezza = nome comune di cosa, astratto, individuale etc.
Individuale è solo per i nomi concreti, giusto?
RISPOSTA:
I nomi individuali sono tutti quelli che si riferiscono a un singolo individuo di qualsiasi categoria; sono, quindi, tutti i nomi che non sono collettivi. Stando alla definizione, quindi, anche i nomi astratti possono essere distinti in individuali e collettivi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali delle seguenti varianti sono corrette?
“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.
“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.
RISPOSTA:
Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lo, la, li, le, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con mi, ti, ci, vi, ne, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atleta, artista, collega, nipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti frasi qual è la diversa funzione grammaticale di una?
“Vorrei una sola fettina di arrosto”;
“La zia abita in una bella casa”.
RISPOSTA:
Nella prima una è un aggettivo numerale cardinale; nella seconda è un articolo indeterminativo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della parola ore. In un elenco di attività quale forma è corretta?
• H 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• H 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
oppure
• 12.00-13.00 SAGGIO DI CHITARRA
• 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ECC.
Ne approfitto per chiarire un altro dubbio: se in un testo si elencano i tempi scuola di un Istituto, il titolo dovrà essere al singolare o al plurale, precisamente:
Tempo scuola / Tempi scuola
– Scuola Carducci dal lunedì al sabato dalle ore 8.00 alle 16.00
– Scuola Falcone dal lunedì al venerdì dalle ore 8.30 alle 16.30
RISPOSTA:
Per la verità nei suoi esempi la parola ore non appare, ma appare H, che sta per l’inglese hour ed è entrato stabilmente nell’uso. La presenza dell’intervallo di tempo rende non necessario specificare che si tratta, appunto, di un orario, ma niente vieta di specificarlo ugualmente, come fa lei oppure con ore 12:00-13:00 saggio di chitarra… Nella stringa 15.30 SAGGIO PIANOFORTE, ovviamente, sarebbe bene indicare anche l’orario di chiusura dell’attività. Aggiungo che negli orari in italiano si preferisce separare i minuti dalle ore non con il punto, come fa lei (uso che rimanda al mondo anglofono), ma con la virgola o i due punti.
L’espressione polirematica tempo scuola indica i limiti temporali massimi all’interno dei quali possono essere organizzati schemi orari diversi, a seconda delle attività offerte e selezionate dalle famiglie degli studenti. Ne consegue che la forma più calzante sia il singolare nel caso ci si riferisca a un istituto, plurale, ma anche singolare, se ci si riferisce a più istituti (o più plessi dello stesso istituto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se email è da considerarsi di genere femminile o maschile
RISPOSTA:
Il nome e-mail (o email) è stabilmente usato come femminile, sulla base della vicinanza semantica con il nome italiano lettera (oppure posta). In astratto sarebbe possibile considerarlo maschile, visto che la regola del genere dei nomi stranieri stabilisce di usarli tutti come maschili (tranne quelli che nella lingua d’origine sono femminili), ma l’uso femminile è talmente radicato da essere difficilmente modificabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.
RISPOSTA:
Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosa: tu vedi di fare la stessa cosa con me; non so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Monica ha braccia più che robuste, spalle larghe, ecc.”,
robuste è aggettivo, invece “più che” è una locuzione oppure serve per formare il
superlativo assoluto?
RISPOSTA:
Più che robuste è superlativo assoluto, dunque più che in questo caso è una locuzione avverbiale che sta per ‘molto’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggendo la frase “L’autunno arrivò precocemente” mi è venuto un dubbio: precocemente è un avverbio di tempo o di modo?
RISPOSTA:
Per rispondere bisogna chiedersi se l’avverbio fornisca informazioni sul tempo o sul modo in cui è avvenuto l’evento dell’arrivare. A ben vedere, ci sono ragioni a favore dell’una e dell’altra opzione, ma concluderei che l’informazione temporale è in questo avverbio più forte di quella modale. Dobbiamo, insomma, considerare questo avverbio affine più a prima (avverbio di tempo) che a bene (avverbio di modo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale affermazione è corretta?
Ci porterà molto fortuna.
Ci porterà molta fortuna.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, ma la seconda, nella quale molta è un aggettivo che accompagna fortuna, è di gran lunga più comune. Nella prima molto è un avverbio che si riferisce a tutta la frase. Per cogliere con più chiarezza il significato della prima frase si può sostituire molto con il sinonimo grandemente: “Ci porterà grandemente fortuna”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?
RISPOSTA:
Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se, quando il noi non è un soggetto logico, bensì un soggetto e vero e proprio, anche se sottinteso, il si impersonale è sempre possibile.
Ad esempio:
a) (Le mie amiche ed io = noi) quando si era (= eravamo) giovani, si ballava (= ballavamo) tutte le canzoni dell’estate.
Suppongo che si potrebbe optare per il passivante, in quanto il verbo è transitivo e l’oggetto è espresso, ma
b) “Quando si era giovani si ballavano tutte le canzoni dell’estate” mi sembrerebbe una generalizzazione quasi spersonalizzante.
Oppure:
c) Chiamami al telefono, stasera, così si fa (noi due) due chiacchiere.
Sarebbe possibile, pure qui, se non vado errata, la costruzione passivante, ma non si verrebbe a creare la stessa situazione succitata?
d) Chiamami al telefono, stasera, così si fanno due chiacchiere.
e) (Noi ragazze) l’anno scorso si sarebbe potute andare (= saremmo potute andare) all’estero.
Benché presiedute da differenti contesti semantici, tutte le frasi sopra riportate sarebbero conformi alla grammatica?
RISPOSTA:
Tutte le costruzioni da lei proposte sono corrette (il tipo noi si è è oggi tipico del toscano, ma la sua presenza nella tradizione letteraria lo rende familiare a tutta l’Italia) e sintatticamente equivalenti. L’esplicitazione del soggetto mitiga l’effetto di spersonalizzazione della costruzione impersonale; ricordiamo, però, che la costruzione impersonale serve proprio a non esplicitare il soggetto: se, quindi, non è necessario nascondere il soggetto si può optare per la costruzione del tutto personale (ad esempio “Le mie amiche e io quando eravamo giovani ballavamo tutte le canzoni dell’estate”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le convinzioni limitanti da cancellare sono le seguenti: io sono…, io ho…”. Se, invece, dico: “Vanno cancellate tutte le convinzioni limitanti” non sono obbligato ad elencarle. Giusto?
RISPOSTA:
La sua idea è corretta. Il participio presente seguenti significa letteralmente ‘che seguono’: ci si aspetta, quindi, che effettivamente le convinzioni seguano; l’aggettivo tutte, invece, può anticipare l’elencazione delle convinzioni, rimandare alle convinzioni limitanti che sono state introdotte precedentemente, o riferirsi a tutte le convinzioni in generale, senza richiedere che esse vengano elencate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei il vostro parere a proposito della classificazione del nome. In un manuale di grammatica ho trovato la seguente classificazione gerarchica a due livelli:
- Proprio
- Comune
- concreto
- astratto
- individuale
- collettivo
In un altro manuale ho trovato una classificazione differente (a tre livelli):
- Proprio
- Comune
- Concreto
- individuale
- collettivo
- Astratto
- Concreto
In un terzo, infine, si ha una classificazione in cui concreto, astratto, individuale, collettivo sono allo stesso livello di proprio e comune, anziché sottogruppi.
Quale classificazione è la migliore?
RISPOSTA:
Classificare un oggetto grammaticale è sempre un problema: si rischia sempre di lasciare fuori dalla classe un elemento, creando la cosiddetta eccezione. Nel caso specifico la classificazione meno problematica è quella meno gerarchizzata, ovvero la terza. I nomi propri, infatti, sono individuali, perché designano elementi singoli (singolari o plurali: Paolo, Italia, Alpi), quindi non dovrebbero essere esclusi da questo tratto, come fanno le prime due classificazioni. Per non parlare del fatto che un nome come Dio è proprio, individuale e astratto (ma il concetto di astrattezza applicato ai nomi è sempre discutibile, quindi meglio non spaccare il capello su questo punto).
La seconda classificazione, inoltre, esclude indebitamente non solo i propri ma anche gli astratti dal tratto individuale / collettivo.
Come si può vedere, ogni gerarchizzazione semantica è una forzatura: i nomi propri possono essere concreti e astratti, individuali e persino collettivi (l’Appennino è una catena montuosa) al pari dei comuni. L’unica precisazione non problematica nella classificazione è diadica: i nomi propri sono opposti ai comuni; i concreti agli astratti; gli individuali ai collettivi. Questa è l’unica precisazione che manca nello schema della terza classificazione, che risulta, pertanto, comunque non ottimale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
C’è qualche differenza tra cuocere e far cuocere, verbi che si leggono nelle ricette?
RISPOSTA:
Il verbo cuocere può essere transitivo (ho cotto la pasta) e intransitivo (la pasta cuoce), ma nell’uso vivo attuale la costruzione transitiva è sfavorita, probabilmente perché l’evento del cuocere è percepito come intrinsecamente intransitivo: è, infatti, il cibo che cuoce come conseguenza della somministrazione di calore; del cuoco, al contrario, si preferisce dire che cucina, ovvero ‘prepara i cibi’, anche, ma non soltanto, cuocendoli. In sostituzione di cuocere transitivo si è, dunque, diffuso far(e) cuocere, per cui, per esempio, fate cuocere per mezz’ora è preferito a cuocete per mezz’ora.
La costruzione fattitiva (quella con fare) ha anche il vantaggio di sottolineare la duratività dell’evento (spesso utile nelle ricette), visto che far cuocere è molto vicino a lasciare cuocere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come bisogna analizzare freddo nella frase “Oggi fa freddo”? È un soggetto oppure un complemento oggetto?
E la frase “Si vendono appartamenti” è impersonale o riflessiva?
RISPOSTA:
Le espressioni fa freddo, fa caldo, come anche fa giorno e fa notte, sono del tutto assimilabili ai verbi atmosferici (piove, nevica…); vanno, quindi, analizzate complessivamente come forme verbali impersonali.
Nella frase “Si vendono appartamenti” il verbo non può essere impersonale perché è plurale. Per definizione, infatti, il verbo impersonale è sempre alla terza persona singolare. La frase, pertanto, equivale ad appartamenti sono venduti e il verbo è passivo. Attenzione, passivo, non riflessivo: gli appartamenti, infatti, non vendono sé stessi, ma sono venduti da qualcuno che non è esplicitato. La differenza tra si passivante e impersonalizzante è oggetto di diverse risposte consultabili nell’archivio di DICO usando la parola chiave impersonale. L’ultima risposta sull’argomento in ordine cronologico è la seguente “Riflessivo, passivato o intransitivo pronominale“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi indicate di seguito – tutte contenenti l’avverbio e congiunzione come – sono ben costruite?
1 – Come non avete capito la prima né la seconda volta, pensereste forse di capire adesso?
2 – Ha riso di gusto, come mai prima (= come mai prima d’ora).
3 – Rise di gusto, come mai prima (= come mai prima d’allora).
4 – Come promesso, ti invio queste foto.
5 – Come da lei indicatomi, le fornirei i dati richiesti.
6 – Come da bando, allego un mio documento di riconoscimento.
RISPOSTA:
Le frasi sono corrette. La prima è un po’ forzata logicamente, ma comunque accettabile: paragona, infatti, un evento che non è avvenuto a una domanda sulla possibilità che un altro evento accada. Suggerirei, per questa frase, di sostituire come con se (se non avete capito…, pensereste di capire adesso?).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se scrivo “Penso che l’ossessione di Carla per Marco sia di gran lunga inferiore DELLA tua per lei (Carla)” è sbagliato?
RISPOSTA:
Il secondo termine di paragone è sempre introdotto da di (o che se è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio), tranne che con gli aggettivi inferiore e superiore, che richiedono a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sto preparando un concorso e la banca dati è priva di risposte esatte. Ho qualche dubbio sulle seguenti 10 domande di grammatica.
1) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome indefinito?
a) Colui che parla è un buffone qualunque
b) Vado matto per certi tuoi dolci!
c) Riceveremo dei bei regali
d) Qualsiasi mezzo sarà buono per venire al mare
e) Quel tuo amico non mi ha detto niente
2) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Io e Giulia frequentiamo un corso di lingua tedesca
b) Credi a me, lo hai punito abbastanza
c) Luca ha preso in prestito tre libri dalla biblioteca
d) Quelle calze colorate potrebbero piacere molto a mia nipote
e) Egli non mi dà alcuna garanzia di riuscita
3) In quale delle seguenti frasi è presente un pronome personale con funzione di complemento?
a) Beati i miei cugini , che vanno tutti gli inverni per due settimane sulla neve!
b) Sono rimasta scioccata all’idea che pure lei, la mia vicina di casa, si è sposata!
c) Persino lui capì che dovevamo cambiare il nostro modo di fare!
d) Voi siete colleghe dilavoro di mia sorella?
e) Potete contare sempre su di noi, anche se non ci facciamo vivi spesso
4) In quale delle seguenti frasi la particella pronominale “si” svolge la funzione di riflessivo apparente?
a) Prima di uscire Linda si accertò che tutto fosse in ordine come voleva lei
b) Si narrano molte leggende sull’origine di quel lago
c) All’uscita da scuola Nina e Piero si aspettano a vicenda
d) Il raffreddore si attacca molto facilmente
e) Marta si macchiò le mani con il toner della fotocopiatrice
5) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo intransitivo pronominale?
a) Mio figlio si agita sempre tanto e ciò succede ogni volta che incontra il tuo
b) Giulia si impossessò della mia comoda poltrona e lì si addormentò
c) Non appena vi ha visti, lo zio vi ha salutati molto calorosamente
d) Per cucinare in casa mia si usano solo prodotti macrobiotici e di origine vegetale
e) Si inoltrerà la pratica inerente il tuo nuovo contratto di lavoro all’ufficio competente
6) In quale delle seguenti frasi è presente un verbo alla forma passiva?
a) Un abile chirurgo di fama internazionale operò con successo mia zia
b) Durante quell’alluvione andarono perse numerose opere d’arte
c) Quel museo chiuderà per molto tempo al pubblico a causa di ingenti lavori di restauro
d) Studenti di una scuola francese attendono ancora di ricevere una lettera dagli alunni della II E
e) Se continuerà a non studiare non andrà in vacanza durante l’estate
7) In quale delle seguenti frasi è presente una preposizione impropria?
a) A colazione siamo soliti mangiare dei biscotti al cioccolato e bere del latte caldo
b) Potrà presentare le sue rimostranze presso l’ufficio reclami
c) Purtroppo mi si è già rotta la montatura degli occhiali
d) Tutti sono venuti a sapere del coraggio che hai dimostrato in quell’impresa
e) I tuoi genitori desiderano sopra ogni cosa la tua felicità
8) In quale delle seguenti frasi “che” ha funzione di complemento oggetto?
a) Ho appena finito di leggere il libro che mi è stato regalato per Natale
b) Pirro capì che aveva perso molti uomini in battaglia
c) Mio padre non ha compreso una sola parola di ciò che è stato detto
d) Cesare pensò di rendere onore ai nemici che aveva sconfitto
e) Dobbiamo continuare a camminare ora che siamo quasi arrivati
9) Quale delle seguenti frasi contiene un pronome relativo?
a) Non so chi sia la persona alla tua destra
b) Da questo colle vedremo l’orso che esce dalla sua tana
c) Mi chiedo quale sia la data del prossimo colloquio
d) Mario crede che tu sia ancora all’estero
e) Penso che tu comprenda quale sensazione io stia provando
10) Che tipo di proposizione contiene la frase “Resta pure a casa fino all’ora di cena, perché non è importante che tu venga per la riunione”?
a) Consecutiva
b) Temporale
c) Concessiva
d) Finale
e) Soggettiva
RISPOSTA:
Come spesso avviene con questo tipo di domande così puntuali, la risposta può essere non univoca. Alcune delle domande, infatti, ammettono una doppia risposta.
1) = e): il pronome indefinito è niente.
2) = b): il pronome personale complemento è lo, ma anche me si trova all’interno di un complemento.
3) = e): il pronome è noi.
4) = e).
5) = a) e b). Sono verbi intransitivi pronominali agitarsi, impossessarsi, addormentarsi.
6) = b): andarono perse (ovvero furono perse).
7) = b): presso, e e): sopra.
8) = d).
9) = b).
10) = e). La proposizione è che tu venga per la riunione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Si concentrava sui suoni di quel luogo, finché la testa non le si svuotava e non si sentiva altro che un oggetto inanimato, piante tra le piante, terra che si fondeva con la terra”.
Si concentrava è un verbo intransitivo pronominale, oppure riflessivo?
Si svuotava: riflessivo o forma passiva con si passivante?
Si sentiva: riflessivo o forma passiva con si passivante?
Si fondeva: riflessivo?
RISPOSTA:
La prova della riflessività di un verbo è data dalla identità tra il soggetto e il complemento oggetto. Nel caso del verbo concentrarsi possiamo dire che il soggetto, qui sottinteso, concentri sé stesso? No: il verbo, piuttosto, esprime un’azione nella quale il soggetto è intensamente coinvolto. Questo verbo, pertanto, è pronominale ma non riflessivo, ed è intransitivo perché non regge alcun complemento oggetto. Lo stesso vale per svuotarsi e fondersi, che quindi non sono né riflessivi né passivati, bensì ancora intransitivi pronominali.
Diverso il discorso per si sentiva: l’espressione non si sentiva altro equivale a niente altro era sentito, quindi è una forma passivata tramite il pronome si (detto per questo passivante). Ricordo che al singolare non c’è modo di distinguere il si passivante dal si impersonalizzante: non si sentiva altro, infatti, può essere parafrasato anche come nessuno sentiva altro (impersonale). Al plurale, invece, l’espressione sarebbe senz’altro passivata: non si sentivano altri rumori (molto strana, anche se in teoria possibile, sarebbe la costruzione impersonale non si sentiva altri rumori).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due affermazioni è corretta?
1. Non accessibile alle persone.
2. Non accessibile dalle persone.
RISPOSTA:
L’aggettivo accessibile regge la preposizione a. Non è escluso, comunque, l’uso assoluto, cioè senza altro complemento, e il completamento con il generico complemento di agente, che si costruisce con la preposizione da. Questa preposizione, però, si usa anche per indicare il percorso attraverso cui un luogo è accessibile: accessibile da computer, dalla strada, dal mare, per cui accessibile alle persone è più preciso e immediato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In analisi grammaticale la parola museo è un nome collettivo o individuale?
RISPOSTA:
Il nome museo è collettivo se è usato nel senso di ‘raccolta di opere d’arte’; se, invece, è usato (come è comunemente) nel senso di ‘luogo nel quale è conservata una raccolta di opere d’arte’ è individuale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice i migliori vini d’Italia o dell’Italia?
I jeans robusti sono quelli larghi, non stretti?
RISPOSTA:
L’espressione comune è i migliori vini d’Italia. Si userebbe dell’Italia soltanto se l’Italia fosse il secondo termine di un paragone: la Francia ha più vini dell’Italia.
L’aggettivo robusto significa anche ‘adatto a persone robuste’, quindi ‘largo’. Non può significare mai ‘stretto’. Con il significato di ‘largo’, però, non si usa riferito ai capi di abbigliamento, ma soltanto alle taglie; si dice jeans di taglia robusta, non jeans robusti. Ovviamente si può dire jeans robusti, ma solo se si intende ‘jeans forti, resistenti, che non si rompono facilmente’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se devo chiedere ad una persona se lei, la citata persona, è in possesso di una determinata cosa, un oggetto ad esempio, è corretto dire: “Le chiedo di comunicare il possesso, da parte sua, della documentazione ecc.” oppure basta dire: “Le chiedo di comunicare il possesso della documentazione ecc.”
Si può omettere da parte sua?
Tale omissione potrebbe non chiarire a quale soggetto debba riferirsi il possesso di quella cosa?
RISPOSTA:
L’espressione da parte sua può essere omessa senza che si crei ambiguità su questo aspetto della frase: è logico supporre, infatti, che si chieda alla persona di comunicare informazioni che la riguardano, non che riguardano altri. Se fosse quest’ultimo il caso, piuttosto, sarebbe necessario specificare chi sarebbe l’eventuale possessore.
Il problema maggiore della frase, comunque, non è quello da lei prospettato, bensì la soppressione della sfumatura potenziale causata dalla nominalizzazione. Il possesso, infatti, è soltanto possibile, ma questo non si evince dalla frase, che sembra riferirsi al possesso come a un fatto.
In altre parole, comunicare il possesso potrebbe significare tanto comunicare di essere in possesso (fatto), quanto comunicare se lei sia in possesso (possibilità), ed è proprio il primo significato, quello fattuale, a essere preminente. Questo problema si può superare o optando per la forma verbale della frase: le chiedo di comunicare se lei sia in possesso, oppure inserendo un avverbio che esprima la potenzialità: le chiedo di comunicare l’eventuale possesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?
RISPOSTA:
Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardente, dormiente).
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?
RISPOSTA:
L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare forte, tenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunista, mangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere dove e come potrei attingere informazioni per capire quando è possibile usare l’espressione e non, come nella frase “Si è servito di strumenti tecnologici e non”.
RISPOSTA:
L’avverbio non si usa davanti al sintagma o la frase negata dall’avverbio stesso. In alternativa, può essere usato davanti a un inciso, seguito dal sintagma o la frase negata: “Mario ha 40 anni e non, come lui sostiene, 36”.
Quando, invece, la negazione riguarda il sintagma precedente si usa no.
L’espressione e non è usata comunemente, nel parlato e nello scritto, anche al posto di e no. La ragione di questo uso è che il parlante suppone che non sia comunque seguito dal sintagma precedente sottinteso; per esempio: tecnologici e non (tecnologici). Si tratta di una possibilità non necessaria, vista la presenza di e no, ma, visto che è di uso comune, può essere accettata in contesti informali; in contesti formali e ufficiali, invece, è preferibile la forma normale.
Si consideri che la sostituzione di e no con e non è impossibile quando a essere negata è una frase o un verbo: “Vieni o no al cinema?” (*”Vieni o non al cinema?”); “Quello lo conosco, quell’altro no” (*”Quello lo conosco, quell’altro non”).
Una breve illustrazione dell’alternanza tra no e non è nel volume Italiano di Luca Serianni, Milano, Garzanti, 1997, p. 352.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale versione della seguente frase è preferibile?
1. “Il ragazzo si è servito di strumenti tecnologici e non in modo corretto”;
2. “Il ragazzo si è servito di / degli strumenti, tecnologici e non, in modo corretto”.
RISPOSTA:
Ci sono diversi modi per rendere non ambigua questa frase. Innanzitutto bisogna fare una piccola correzione: l’espressione e non non è corretta; si dice e no, perché non richiede l’esplicitazione del sintagma o della frase negati (per esempio tecnologici e non tecnologici). Con questa correzione, entrambe le versioni della frase (nella seconda degli strumenti va preferito a di strumenti) risultano chiare. La 2, con l’inciso, mette in secondo piano il tipo di strumenti, facendo risaltare l’uso corretto che è stato fatto degli strumenti. Nella 1, invece, si definisce corretto l’uso proprio degli strumenti tecnologici e no.
Ancora meglio, comunque, sarebbe chiarire quali siano questi strumenti non tecnologici, per esempio: tecnologici e cartacei (ma non posso essere preciso perché non so di quali altri strumenti si è servito il ragazzo). Un’ulteriore alternativa sarebbe si è servito delle TIC e degli strumenti analogici (ma, anche qui, dovrei sapere di quali strumenti si sta parlando).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’analisi grammaticale un nome falso alterato può essere definito anche come primitivo? E un nome semplicemente alterato? I nomi in questione sono salvietta e musetto.
RISPOSTA:
I falsi alterati possono essere primitivi, come il suo salvietta (adattamento del francese serviette) o derivati con suffissi polifunzionali, come, per esempio, ciabattino, che non è una piccola ciabatta ma un artigiano che ripara le scarpe. Qualche problema di classificazione pongono i nomi formati per alterazione che oggi sono percepiti come primitivi, come bambino (da bambo + -ino) o cucciolo. Molti di questi sono nati con significati specifici, o li hanno assunti nel tempo, anche molto distanti da quelli dei nomi base: pinolo, poltrona, libretto, cannone, lunotto…
A questi nomi possono applicarsi entrambe le etichette, a seconda che li si guardi in prospettiva storica o sincronica. Dal punto di vista morfologico, però, sono innegabilmente derivati.
I nomi alterati, come musetto ‘piccolo muso’, sono, in quanto alterati, non primitivi. Ricordo che i suffissi alterativi non sono diversi dagli altri suffissi dal punto di vista morfologico: i nomi (ma anche gli aggettivi, gli avverbi e i verbi) alterati sono, pertanto, una sottocategoria dei derivati.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su questa frase: “La mia mamma è la più bella del mondo”. La più bella è superlativo relativo o assoluto?
RISPOSTA:
Superlativo relativo: lo si riconosce dalla forma (articolo + più + grado positivo dell’aggettivo) e dalla presenza del complemento partitivo (del mondo = ‘tra tutte quelle del mondo’). Proprio il complemento partitivo, che può essere esplicito o implicito, rende relativa (rispetto a un insieme) la qualità superlativa. Il superlativo assoluto ha forma diversa (bellissima oppure molto bella) e non è seguito dal complemento partitivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi su alcuni esercizi sui pronomi proposti da un sussidiario di scuola primaria, secondo me un po’ confusi…
Nella frase “Molte volte veniamo disturbati per nulla”, nulla ha valore di pronome indefinito o di avverbio?
Nella frase “Mia sorella ha quattordici anni, ma vorrebbe averne diciannove per andare all’università”, diciannove è pronome numerale pur essendoci la particella ne che già sostituisce il nome?
Nella frase “Siamo due fratelli: Gianni ha quattro anni, io ne ho il doppio”, doppio ha funzione di pronome numerale?
RISPOSTA:
Il problema della prima frase è dovuto forse all’ambiguità dell’espressione per nulla. Questa, infatti, può significare tanto ‘per motivi futili, senza una vera ragione’, quanto ‘affatto, assolutamente no’. Il significato inteso nella frase è certaemente il primo (visto che il secondo si usa quasi esclusivamente in frasi negative): in questo caso nulla è pronome indefinito, sostituibile con nessuna cosa. Nel secondo caso nulla sarebbe, per la verità, sempre un pronome indefinito, che, però, insieme alla preposizione per forma una perifrasi o locuzione avverbiale. In una frase come “Dimmi pure, non mi disturbi per nulla”, per esempio, per nulla significa letteralmente ‘per nessuna cosa, per nessuna ragione, in nessun modo’; partendo da questo significato, la perifrasi si è cristallizzata dinenendo a tutti gli effetti un avverbio.
Nulla si può usare come avverbio anche senza per: “Non me ne importa nulla”; anche qui è chiara la funzione di partenza di pronome (= ‘non me ne importa nessun aspetto’), che si è cristallizzata trasformando la parola in un avverbio.
Per quanto riguarda i numerali, nella prima frase diciannove è un pronome, e la presenza di ne non cambia la sua natura. Si noti che lo stesso avviene con nulla (“Non me ne importa nulla“) e avverrebbe con qualsiasi altro aggettivo/pronome indefinito: ne vorrebbe avere alcuni.
Nell’ultima frase, il doppio è ancora pronome numerale. In questo caso, il dubbio potrebbe essere se doppio non sia da considerarsi nome (non può essere, invece, aggettivo, visto che è preceduto dall’articolo e ha chiaramente la funzione di rimandare a un altro referente). La natura quasi nominale degli aggettivi che non accompagnano nomi è già stata discussa nella risposta n. 2800253 dell’archivio di DICO (ma si può vedere anche la 2800269).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto che per definizione gli aggettivi indefiniti indicano una qualità o una quantità imprecisata. Non riesco però a immaginare un esempio in cui un aggettivo indefinito possa esprimere una qualità. Ancor meno dopo aver letto l’esempio riportato dal sito che ho consultato: era alquanto difficile. Non si tratta di avverbio?
RISPOSTA:
Ha ragione: gli aggettivi indefiniti non esprimono qualità, bensì caratteristiche legate alla quantità di un oggetto. Tale differenza si vede bene se confrontiamo l’aggettivo qualificativo diverso con l’aggettivo indefinito diverso (o, se vogliamo, l’uso qualificativo dall’uso indefinito dell’aggettivo diverso): 1. “I tuoi amici sono diversi dai miei” (= i miei amici hanno una certa qualità); 2. “Ho diversi amici a Genova” (= ho un numero imprecisato di amici). Ancora più chiara è la differenza nell’aggettivo certo: 1. “Sono certo della mia affermazione”; 2. “Ho una certa idea che tu mi stia mentendo”. Quando è usato come indefinito, certo significa ‘imprecisato’, che è per certi versi il contrario del significato assunto dall’aggettivo qualificativo.
Un’altra caratteristica degli aggettivi indefiniti è che alcuni possono essere usati come avverbi. Uno degli aggettivi con questa capacità è proprio certo: “Non è certo (= certamente) lui che stavo cercando”. Un altro è alquanto, che è, appunto, avverbio nella frase da lei riportata. Proprio alquanto, tra l’altro, al singolare è usato raramente, e soltanto con nomi non numerabili: alquanto zucchero, alquanto traffico; più spesso è usato al plurale (alquante persone, alquanti invitati). Ancora più spesso, invece, è usato come avverbio, per modificare un aggettivo, come nella sua frase, o un altro avverbio (alquanto velocemente, alquanto presto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ognuno ha le sue idee, ma bisogna rispettare quelle altrui”, ognuno è un pronome; invece altrui che funzione ha?
RISPOSTA:
Ha la funzione che gli è propria sempre nell’italiano moderno, ovvero quella di aggettivo possessivo. Anticamente era possibile usarlo anche come pronome, con il singificato di ‘qualcun altro’ o ‘a qualcun altro’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel seguente brano vicino è un aggettivo o un avverbio?
Bello di persona, gentile di modi, venne chiamato a Roma, dove il Papa lo volle sempre vicino e gli affidò i lavori più delicati.
Forse si tratta di un predicativo dell’oggetto?
RISPOSTA:
Quando vicino (ma anche lontano) è singolare maschile non si distingue nella forma dall’avverbio, ed è, pertanto, difficile stabilire se abbia funzione di aggettivo o di avverbio. Ovviamente, se l’aggettivo si riferisce a un nome femminile e/o plurale il problema si risolve automaticamente: in il papa la volle vicina o il papa li volle vicini la parola è un aggettivo; in il papa la volle vicino o il papa li volle vicino è un avverbio di luogo. La coincidenza morfologica rende difficile stabilire la funzione della parola perché, a monte, è difficile stabilire la differenza di funzione, quindi di significato, tra vicino aggettivo e vicino avverbio di luogo. Un modo per rilevare questa differenza è considerare che l’aggettivo rappresenta una qualità del nome a cui si riferisce, mentre l’avverbio indica una posizione relativa nello spazio. Per questo quando vogliamo comunicare la nostra partecipazione al dolore di una persona diciamo ti siamo vicini, non ti siamo vicino, perché vogliamo esprimere un sentimento, una caratteristica che in quel momento ci qualifica, non una posizione nello spazio. Con il verbo essere costruiamo comunemente espressioni che contrastano con questo principio: “- Dove sono i cani? – Sono vicini” (più insolito, sebbene più logico, sono vicino). Questo, però, si spiega con l’ambiguità semantica propria del verbo essere, che è prima di tutto la copula, quindi seleziona preferibilmente l’aggettivo, e solo secondariamente è un verbo spaziale, equivalente a trovarsi. L’ambiguità tocca comunque quasi tutti i verbi, perché è insita nella parola stessa vicino (così come in lontano): la posizione nello spazio, infatti, è affine a una qualità. Per questo, anche se sostituiamo si trovano a sono nell’esempio precedente, la costruzione non cambia di molto: “- Dove si trovano i cani? – Si trovano vicini”. Va detto, però, che con trovarsi l’avverbio diviene molto più accettabile (si trovano vicino), perché il verbo seleziona più decisamente l’informazione relativa al luogo.
In definitiva, quindi, nel suo esempio vicino può essere tanto un aggettivo quanto un avverbio. Se è aggettivo, l’espressione è parafrasabile come il papa volle che lui gli fosse vicino; se è avverbio, propende per il papa volle che lui gli stesse vicino. Difficilmente, comunque, il parlante medio coglierebbe tale distinzione; sarebbe portato, invece, a considerare le due versioni della frase assolutamente equivalenti.
Dal punto di vista dell’analisi logica, l’aggettivo può essere considerato un attributo o un complemento predicativo dell’oggetto (a seconda dell’impostazione seguita); l’avverbio è, invece, un complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Adesso ti ci metti anche tu a prendermi in giro” come si analizza la parola anche? È un avverbio o una congiunzione? E la parola neppure nella frase “Non c’era neppure un libro”? A me paiono avverbi, ma i libri da cui sono tratte le indicano come congiunzioni… Perché? Cosa uniscono?
RISPOSTA:
Le grammatiche scolastiche tendono a considerare queste parole congiunzioni sulla scorta di frasi come “Ho incontrato lui e anche quell’altro” e “Non voglio studiare e neppure leggere”; è chiaro, però, che anche in esempi del genere la parola che congiunge è un’altra (e, ma potrebbe essere anche ma o o), mentre anche e neppure si legano a un nome, un verbo, un pronome, un aggettivo, come fanno gli avverbi.
In conclusione concordo con lei: si tratta di avverbi.
Fabio Ruggiano