QUESITO:
Vorrei sapere se la seguente frase è corretta:
“Parla quello che si è fatto una competizione controllando se avrebbe vinto nelle partite restanti se non fosse uscito subito dopo i gironi”.
RISPOSTA:
La frase è corretta. La proposizione subordinata di secondo grado (se avrebbe vinto nelle partite restanti) è una interrogativa indiretta, che ha il condizionale passato perché descrive un evento passato ma successivo rispetto all’evento descritto nella proposizione reggente (controllando, al presente perché contemporanea rispetto a che si è fatto una competizione). L’interrogativa indiretta regge, a sua volta, una proposizione ipotetica (se non fosse uscito subito dopo i gironi) che descrive, mediante il congiuntivo trapassato, un’eventualità irrealistica. L’interrogativa indiretta e l’ipotetica formano, dunque, un periodo ipotetico che rappresenta l’incerta conseguenza futura (rispetto a un punto di vista passato) di una condizione non più realizzabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda l’ammissibilità del congiuntivo presente nella relativa esplicita dopo il passato prossimo nella reggente:
“Nel mio libro ho immaginato qualcosa che abbia anche un valore pedagogico”; che quindi abbia tale valore oggi e ogniqualvolta venga letto”.
Ora se, come da consecutio, mettessi qualcosa che avesse anche… farei riferimento al presente della scrittura, cioè a qualcosa di passato, concluso. Ma poiché il libro è di per sé rivolto a futuri lettori mi sembrerebbe più calzante il congiuntivo presente.
RISPOSTA:
La proposizione relativa è svincolata dalla consecutio temporum: al suo interno, il tempo verbale si riferisce non alla relazione con il tempo della reggente, ma al tempo in sé: passato, presente o futuro. Di conseguenza il congiuntivo presente è pienamente legittimo, per sottolineare che il possesso del valore pedagogico è pancronico, cioè valido sempre. Va comunque rilevato che è possibile usare il congiuntivo imperfetto avesse nella relativa, mantenendo la prospettiva fissata dal verbo della reggente, che parte dal passato. L’imperfetto, del resto, non esclude l’interpretazione pancronica del contenuto della relativa: non solo, infatti, il passato prossimo nella reggente descrive un evento agganciato al presente, ma la relativa al congiuntivo assume anche una sfumatura consecutivo-finale che ne proietta il contenuto nella posterità.
L’imperfetto non è escluso neanche nella relativa giustapposta e nella coordinata seguente, che sono inequivocabilmente collocate nel presente e nel futuro: che quindi avesse tale valore oggi e ogniqualvolta venisse letto; qui, però, il congiuntivo presente è preferibile, perché l’accostamento di avesse e oggi nella giustapposta crea un effetto di discorso indiretto libero che può risultare straniante (per quanto non possa dirsi scorretto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una presentazione ho trovato questa frase:
“Sin da quando avevo 10 anni sognavo di studiare lingue straniere e viaggiare in giro per il mondo”.
Io credevo che dopo da quando si dovesse usare il presente, mentre l’imperfetto si usasse nel caso in cui l’azione fosse terminata. Questa frase è corretta?
RISPOSTA:
La frase è comprensibile e accettabile, ma migliorabile: avevo è giustificato dal fatto che effettivamente chi scrive non ha più 10 anni, quindi lo stato è concluso; meno giustificato è sognavo, visto che l’azione perdura nel momento dell’enunciazione. Ci si aspetterebbe, pertanto, Sin da quando avevo 10 anni sogno di…. L’imperfetto sognavo è motivato dall’attrazione operata da avevo: quando si parla, e spesso anche quando si scrive, si tende spesso a replicare la stessa forma usata in precedenza, soprattutto se a poca distanza, trascurando le regole astratte. A una prima considerazione, del resto, l’accostamento del tempo imperfetto con il presente, che in questo caso è corretto, può risultare sospetto. Una soluzione che consente di rimanere formalmente nel passato, pur rappresentando il sognare come attuale è ho sognato: il passato prossimo, infatti, descrive un evento iniziato nel passato ma ancora attivo, direttamente o attraverso una qualche conseguenza, al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io dico «non penso che ricapiti a me» e mi rispondono con «speriamo» vuol dire che sperano che quell’azione accada o non accada?
RISPOSTA:
Se la lingua funzionasse soltanto grazie alle regole sintattiche e se gli elementi sottintesi fossero da recuperare rigidamente in quel che è stato detto o scritto subito prima, non c’è dubbio che la reazione «speriamo» alla frase «non penso che ricapiti a me» si possa interpretare soltanto come ‘speriamo che ricapiti a te’. Sempre secondo il rigido rispetto delle regole sintattiche, la reazione atta a esprimere l’auspicio che la cosa non ricapiti dovrebbe essere «speriamo di no». Tuttavia, dato che la lingua, o per meglio dire l’attività comunicativa, funziona anche in base alle inferenze e alla cooperazione tra gli interlocutori, ovvero grazie alla capacità di ricostruire la coerenza degli enunciati in base alla propria esperienza del mondo, oltreché in base a quanto detto negli enunciati precedenti, considerando anche la presenza della negazione all’inizio della prima frase («non penso che…»), la reazione «speriamo» può anche essere interpretata, con buona probabilità, nel senso di ‘speriamo che non ricapiti a te’. In casi come questi, in cui si pone il dubbio che qualcosa possa o non possa essere, possa o non possa accadere e simili, sarebbe meglio, a scanso di equivoci, precisare sempre «speriamo di sì» / «speriamo di no», e simili. Tuttavia, dato che il contesto aiuta quasi sempre a disambiguare gli enunciati, è probabile che gli interlocutori siano in grado di dare la giusta interpretazione del caso in questione. Se l’interlocutore che dice «speriamo» si mostra solidale con il primo interlocutore, se non gli dimostra astio o simili, perché mai dovrebbe augurarsi che all’altro capiti qualcosa che il primo spera che non accada? In conclusione, è sempre bene sforzarsi di essere chiari, senza però dimenticare che la comunicazione è un’attività da compiere in due (o più di due), cioè un mittente (o più d’uno) e un ricevente (o più d’uno), che si scambiano di ruolo e che debbono necessariamente cooperare alla codifica e alla decodifica degli atti comunicativi, se davvero vogliono comprendersi reciprocamente. L’inferenza, cioè la capacità di comprendere anche le informazioni non dette, è un’abilità cognitiva indispensabile alla comunicazione, poiché non è possibile rendere sempre tutto esplicito negli enunciati. In caso contrario, gli enunciati sarebbero sempre di una lunghezza snervante al punto da essere inservibili e da far fallire la comunicazione. Ogni comunicazione si regge dunque sul sottile equilibrio tra esplicito e implicito, tra detto e non detto, e soprattutto sulla volontà degli interlocutori di cooperare e di venirsi incontro reciprocamente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Preferire può essere considerato un verbo servile? Dalle principali grammatiche non mi risulta. Un periodo come: “Preferisco restare a casa” è da intendersi quindi come formato da due proposizioni (Preferisco = principale; restare a casa = subordinata oggettiva di 1º alla principale, implicita)?
RISPOSTA:
I verbi servili servono a modificare il significato di altri verbi aggiungendovi una sfumatura; devono, pertanto, essere semanticamente quasi vuoti. Il verbo volere, infatti, può anche essere non servile, se non accompagna un altro verbo, ma è usato da solo (“Voglio che tu mi chieda scusa”). Preferire significa grosso modo ‘volere maggiormente’, quindi è molto vicino al significato di volere; anche quando accompagna direttamente un infinito, però, veicola una piccola quantità di significato autonomo e tanto basta per non considerarlo servile. Inoltre, i verbi servili condividono la caratteristica sintattica di ammettere la risalita del clitico (evidentemente perché sono percepiti come strettamente solidali con il verbo retto): voglio farlo, ma anche lo voglio fare; lo stesso non vale per preferire: *lo preferisco fare risulta del tutto innaturale. L’analisi della periodo fatta da lei, in conclusione, è corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Lo avrei fatto ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno o ne avessi bisogno.
2) Lo avrei fatto prima che fosse entrato lui o entrasse lui.
3) Sarebbe stato preso in considerazione chi/chiunque ne fosse capace o fosse stato capace.
4) Avrei chiesto scusa a patto che lo avesse fatto anche lui o la facesse anche lui.
Dando per scontato che il trapassato è corretto, lo è anche l’imperfetto congiuntivo?
RISPOSTA:
Nelle subordinate delle frasi da lei proposte si possono usare sia l’imperfetto sia il trapassato. Con con il trapassato emerge il modello ipotetico latente in tutte le quattro frasi, che spinge a completare una proposizione al condizionale passato con una al congiuntivo trapassato. L’imperfetto, invece, rappresenta gli eventi delle subordinate come contemporanei nel passato rispetto a quelli delle reggenti, in linea con la consecutio temporum. Si noti che la contemporaneità è un concetto flessibile, proiettabile nella posteriorità, come nella frase 2, in cui l’evento dell’entrare è successivo a quello del fare, e nella anteriorità, come nella 4, in cui l’evento del fare è precedente a quello del chiedere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Invito un amico ad una festa per l’indomani. Mi risponde che non può partecipare. Al che gli dico:
1 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi venuto.
(Ma non è giusto, così sembra che la festa sia già passata, mentre avrà luogo in futuro).
2 – Mi sarebbe piaciuto se tu potessi venire.
(Neanche qui è giusto. L’amico ha già detto che non verrà).
3 – Mi sarebbe piaciuto se tu saresti venuto.
(Credo che sia totalmente sbagliata).
4 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi potuto venire.
(Qui ho dei dubbi: perchè in effetti la festa non ha avuto ancora luogo).
Naturalmente, nel linguaggio informale potremmo dire
5 – Mi sarebbe piaciuto se potevi venire.
(Ma mi sembra una forma un po’ sciatta).
RISPOSTA:
La variante 1 è legittima: che la festa non sia avvenuta è ininfluente; quello che conta è che l’amico ha già dichiarato che non parteciperà, quindi la sua mancanza deve essere rappresentata come avvenuta. Proprio per questa ragione è impossibile se tu potessi venire (come anche se tu venissi, non presente tra le alternative): c’è una incoerenza interna in questa frase tra mi sarebbe piaciuto, che presenta lo stato d’animo come condizionato da un evento irrealizzabile, e la protasi con il congiuntivo imperfetto, che presenta l’ipotesi come possibile. L’alternativa “Mi piacerebbe se tu venissi” (o potessi venire), del resto, risulterebbe incoerente con il contesto, visto che, come si è detto, la partecipazione è stata già esclusa. La 3 è impossibile, perché la proposizione ipotetica non ammette il modo condizionale. La 4 è equivalente alla 1, con la sola aggiunta del verbo servile, che non modifica la costruzione generale della frase. La 5 è la variante informale della 4.
Aggiungo anche un’ulteriore variante: “Mi sarebbe piaciuto che tu venissi (o potessi venire)”. Con la sostituzione di_se_ con che la proposizione subordinata diviene soggettiva; al suo interno il congiuntivo imperfetto non indica l’ipotesi possibile ma la contemporaneità nel passato con proiezione nella posteriorità rispetto alla reggente. In questo modo la reggente esprimerebbe ancora il dispiacere condizionato da un evento non realizzabile (la partecipazione dell’amico alla festa), ma tale evento sarebbe lasciato implicito, mentre la subordinata descriverebbe semplicemente l’argomento del dispiacere. Possibile sarebbe anche “Mi sarebbe piaciuto che tu fossi venuto (o fossi potuto venire)”, che rappresenterebbe il venire come precedente al dispiacere, sottolineando il rapporto di causa-effetto tra i due eventi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre usato l’aggettivo abitudinario; oggi, però, in un testo ho letto abitudinale. È corretto?
RISPOSTA:
L’aggettivo abitudinale è registrato dal Grande Dizionario della Lingua italiana come variante alternativa di abituale, formata per derivazione dal nome abitudine. L’aggettivo non ha avuto successo e oggi è uscito dall’uso (infatti non è registrato nei dizionari dell’uso); usarlo oggi, pertanto, non può essere giudicato un errore, ma è certamente una scelta estremamente ricercata, adatta soltanto a contesti altamente formali. Attenzione, non bisogna confondere abituale (e la variante non più in uso abitudinale) con abitudinario, che ha un significato diverso: ‘consuetudinario, che segue abitudini acquisite per mancanza di iniziativa’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella biografia di Kim Jong-Un su Wikipedia ho trovato la seguente frase: “Nonostante i provvedimenti presi da Kim Jong-il, in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avesse davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”. Il mio dubbio è: non era chiaro se introduce oppure no un’interrogativa indiretta? E se sì, la frase avrebbe dovuto essere “Non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”? Quindi al posto del congiuntivo trapassato andava messo il condizionale passato che svolge in questo caso la funzione di “futuro nel passato”? Oppure questa subordinata può essere interpretata sia come Interrogativa Indiretta che come subordinata condizionale? A me la frase imputata è come se suonasse simile a una così: “All’epoca dei fatti non si sapeva se il governo nordcoreano avrebbe voluto seguire il percorso che gli era stato tracciato”. Inoltre, se il mio ragionamento è giusto, la frase “… se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire ecc.” puo’ svolgere anche la funzione di apodosi di un periodo ipotetico?
RISPOSTA:
La subordinata è una interrogativa indiretta, costruita con il congiuntivo trapassato. La scelta di questa forma verbale è perfettamente in linea con la norma grammaticale, se si vuole intendere che l’evento descritto nella subordinata precede quello descritto nella reggente, che è già passato. In astratto, quindi, la frase è ben costruita e significa che in seguito alla morte di Kim Jong-il non era chiaro se mentre il dittatore era in vita il governo aveva effettivamente voluto seguire il percorso da lui tracciato. Se si legge il cotesto in cui la frase è inserita (cioè le frasi che la circondano) , però, diviene chiaro che il senso inteso non è questo: la domanda riguarda l’intenzione del governo di seguire il percorso del dittatore dopo la sua morte. Il congiuntivo trapassato è, quindi, sbagliato in relazione al cotesto: la forma richiesta è il condizionale passato (avrebbe voluto). L’interrogativa indiretta se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto… può reggere una proposizione ipotetica, divenendo l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio “… in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato, se avesse avuto la possibilità di fare altrimenti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo gli schemi della consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al condizionale presente si costruisce con l’indicativo o con il congiuntivo, in base al verbo (certezza o dubbio e simili) della reggente. Mi chiedo se, sempre nel rispetto di questo rapporto di subordinazione temporale, sia possibile adoperare, quale alternativa attenuata dell’indicativo, il condizionale passato, senza che questo sia interpretato come futuro nel passato.
“Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito.”
In questo caso, avrebbe mentito rappresenta un’azione analoga, dal punto di vista temporale, a quella costruita con ha mentito, accentuando rispetto a quest’ultima una sfumatura di incertezza, ma senza mutare il rapporto di anteriorità? Oppure il condizionale passato sarebbe interpretato (al di là della semantica della frase che ho scelto per esemplificare il quesito), come
“(…) Significherebbe che Y (in un momento successivo) avrebbe mentito”?
E infine, il condizionale passato implica sempre una protasi, anche implicita (“(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito (se lo avessero costretto a confessare)”) oppure, come ho ventilato poc’anzi, può imporsi in maniera autonoma come una mera attenuazione del modo indicativo, per ridurne l’impatto diretto, senza significative differenze a livello sintattico?
RISPOSTA:
Il condizionale passato può essere usato nel contesto da lei immaginato proprio come variante condizionata dell’indicativo, senza innescare il senso di posteriorità nel passato. In questo caso la forma verbale ha una funzione epistemica, e in particolare serve a limitare la responsabilità del parlante (o dello scrivente) sul contenuto della frase. Di norma si usa in proposizioni dipendenti da altre proposizioni all’indicativo, al congiuntivo o nominali, non al condizionale, perché se la reggente è al condizionale, questo è già sufficiente a svolgere la funzione di distanziamento epistemico; per esempio: “Misura cautelare per un uzbeko che risiede a Ravenna, che sarebbe la mente del sequestro” (da un titolo di repubblica.it del 16 novembre 2024). Se la reggente è al condizionale, quindi, l’indicativo o il congiuntivo (a seconda della frase) sono scelte più logiche. Non di sola logica vive la lingua, però, per cui il condizionale attratto da quello della reggente non può dirsi sbagliato. Si noti che anche quando ha questa funzione, il condizionale presuppone la presenza di una protasi. Nel suo caso, però, la protasi implicita praticamente ripete quella già collegata alla principale (a dimostrazione del fatto che si tratta di un uso pleonastico): “Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito (se la versione di X fosse confermata)”.
L’interpretazione del condizionale passato come tempo della posteriorità nel passato non è, in astratto, esclusa neanche in questo caso: per farla emergere, però, bisognerebbe aggiungere qualche segnale, per esempio “(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito, in seguito”. Si tratta, comunque, di un esempio “d’accademia”: difficilmente si può immaginare un contesto autentico in cui si possa usare una frase con questo significato.
Fabio Ruggiano
Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.
2. (…) la seguente questione pregiudiziale:
se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:
- l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
- l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.
Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …
Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:
“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.
Nel secondo caso avremo:
“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.
Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.
RISPOSTA:
La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho delle incertezze circa l’uso del termine struttura. Questo termine può essere usato in modo generico per definire qualunque cosa anche semplice, cioè non formata da più parti macroscopiche interagenti fra di loro (es. un sasso o un oggetto non definibile ma comunque non articolato) oppure deve essere usato esclusivamente per definire un oggetto complesso (es. un televisore, un computer)?
RISPOSTA:
La risposta alla sua domanda non è semplice, come tutte le questioni relative alla semantica, perché i significati delle parole sono in continua rinegoziazione negli usi dei parlanti, con sfumature ora metaforiche, ora metonimiche, ora ironiche ecc. Sarebbe meglio limitare struttura a oggetti (più o meno concreti) costituiti dall’interrelazione tra più elementi. La struttura, come un edificio, implica che tutti gli elementi coinvolti siano necessari gli uni agli altri e anche l’alternazione di uno solo di essi compromette l’insieme, cioè la struttura stessa. Per la minuta casistica e l’esemplificazione rimando al Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro, consultabile gratuitamente nel sito di internazionale.it. In linea di massima, a meno che non ci si riferisca proprio all’interrelazione e all’intelaiatura di qualcosa (la struttura di un discorso, di un edificio, di un’azienda, della mente, della lingua, di uno stato, dell’economia ecc.) sarebbe meglio non abusare di un simile termine, troppo spesso (nei media) usato per imbellettare il discorso economico, burocratico o politico. Chiaramente anche un sasso è formato di elementi (cellule, atomi ecc.), pertanto nulla vieterebbe, in ambito scientifico, di definirlo una struttura, ma eviterei di farlo nel discorso comune. Così come, fuor dall’ambito tecnico-scientifico, potrei pure riferirmi alla struttura di un televisore o di un computer, ma mai e poi definirei un computer o un televisore come una struttura.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se l’affermazione «non vorrei apparire tautologica ma le ripeto che eccetera» è corretta o meno. Mi viene il sospetto che l’aggettivo tautologico non possa essere applicato ad una persona; d’altro canto mi sembra piuttosto arzigogolato ricorre ad affermazioni del tipo
«non vorrei usare una affermazione tautologica o esprimermi in modo tautologico eccetera» per veicolare lo stesso concetto.
RISPOSTA:
Secondo i dizionari e gli usi correnti tautologico può essere riferito a concetti, espressioni, ragionamenti e simili, non a una persona. Però la lingua funziona anche grazie a questi piccoli slittamenti semantici (metafore, metonimie), per cui, nell’uso meno formale, non mi parrebbe un errore così grave riferire tautologico a una persona che fa uso di tautologie.
Forse, per maggior precisione, in riferimento a una persona si potrebbero utilizzare termini non proprio sinonimi ma contigui alla sfera semantica della tautologica. Per esempio: Non vorrei apparire pleonastica, ridondante, puntigliosa, ripetitiva, didascalica…
Fabio Rossi
QUESITO:
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento.
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non aver richiesto la prosecuzione a pagamento.
1=contemporaneità. 2=anteriorità.
Vorrei sapere se la mia osservazione è corretta.
RISPOSTA:
Sì, la sua osservazione è corretta. Va però detto che in questi e in altri casi di consecutio temporum i parlanti si muovono con maggiore elasticità rispetto alle norme astratte. Pertanto, pur trattandosi propriamente di anteriorità, nel caso in questione, entrambe le soluzioni sono accettabili. In altre parole, «Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento» può essere usato anche se la richiesta di prosecuzione è stata richiesta, o va richiesta, prima della cessazione. Del resto, per senso comune, sarebbe ben strano non formulare la richiesta prima della cessazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».
«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?
Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?
RISPOSTA:
Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.
Poteva scrivere: SAREBBE STATO…
RISPOSTA:
Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1)”Vorrei qualcuno che dica (e non “dicesse”) la verità”
2)”Avrei voluto (ma anche “Volevo”) qualcuno che dicesse la verità”
Sono giuste le scelte verbali nelle relative delle tre frasi? Nella frase 1 la scelta migliore è il congiuntivo presente “dica” perché lo stato dell’essere è presente, come indica il condizionale presente. Di conseguenza la frase col congiuntivo imperfetto “dicesse” è incoerente, perché il verbo della reggente “Vorrei” implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato (d’altra parte il congiuntivo imperfetto si usa principalmente per esprimere un’azione passata). Probabilmente nella costruzione della relativa “Vorrei qualcuno che dica la verità” agisce il modello della completiva “Vorrei che qualcuno dicesse la verità”, senza che ci sia, però, una ragione sintattica per questo. Si noti, quindi, che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella relativa “Vorrei qualcuno che dicesse la verità” è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto: “Vorrei qualcuno che dicesse la verità”<"Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento". Perciò l'uso del congiuntivo imperfetto in una relativa retta da un condizionale semplice dipende dal fatto che il congiuntivo imperfetto è una forma che "ricalca" il periodo ipotetico del secondo tipo: infatti è come se dicessimo "Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento", ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indicherebbe che la qualità di “qualcuno”, e cioè “Qualcuno che dica la verità ”, riguardi il passato, e ciò sarebbe un po’ bizzarro, rispetto alla reggente che invece è al condizionale presente. Viceversa, nella frase numero 2 c'è un tempo passato nella principale che si riferisce ad un momento trascorso (ieri, in passato), e perciò nella relativa troviamo il congiuntivo imperfetto "dicesse", quindi un tempo passato.
RISPOSTA:
Le soluzioni migliori nelle proposizioni relative sono quelle indicate da lei: il congiuntivo presente in dipendenza da una reggente con vorrei, l’imperfetto in dipendenza da una reggente con avrei voluto. Per maggiori dettagli si vedano questa risposta e quest’altra, collegata alla prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ci vuole o no l’accento sulla e nella frase “E / È certo che spengo le luci”?
Io credo che ci voglia, eppure, dopo essermi confrontato con dei conoscenti, loro hanno detto di no. Sinceramente non capisco perché non ci voglia. Mi è sempre stato insegnato che se si sostituisce la e con essere oppure con un tempo passato del verbo essere e la frase ha senso, allora ci vuole l’accento sulla e, e in questo caso a me sembra proprio che le sostituzioni possono essere fatte: “Essere certo che spengo le luci” oppure “Era certo che spegnevo le luci” o ancora “Era (un fatto) certo che spegnevo le luci”. Se non ci vuole l’accento, potete spiegarmi, cortesemente, il perché?
RISPOSTA:
In questo caso avete ragione sia lei sia i suoi conoscenti: la frase può cominciare sia con e sia con è. Nel primo caso la e serve come segnale discorsivo, cioè come elemento che segnala la presa di turno nel parlato, e nello stesso tempo rafforza l’assertività dell’affermazione, un po’ come se facesse intendere “Non potrei fare altrimenti”. Un uso simile lo vediamo in una frase come “E come no?”, in cui, appunto, la e iniziale conferisce maggiore enfasi all’affermazione nascosta sotto la domanda retorica (“E come no?” = “Certamente sì, non potrebbe essere altrimenti”). Nel secondo caso vale la sua spiegazione; con il verbo essere il parlante intende soltanto confermare che l’azione è certa. Nove volte su dieci il parlante intenderà “E certo che spengo la luce”, non “È certo che spengo la luce”: qust’ultima costruzione, infatti, per quanto corretta in astratto, sarebbe coerente in ben poche situazioni comunicative autentiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è corretto utilizzare il verbo imputare anche in un’accezione non negativa. Si può di certo affermare: “Gli è stata imputata la responsabilità della sconfitta”. Ma possiamo dire: “Gli è stato imputato il merito della vittoria”? Il verbo imputare, secondo i dizionari, è anche sinonimo di “attribuire”.
Ma non credo lo si possa usare in un’accezione che implica un merito.
RISPOSTA:
Il significato più comune e utilizzato del verbo imputare è certamente quello di ‘attribuire come motivo di colpa’. Nella storia dell’italiano, anche recente, non mancano però esempi di imputare usato con valore positivo in frasi come “imputare a merito”, dove imputare è usato come sinonimo di ascrivere. Tuttavia, quest’accezione, così come registrano i principali dizionari dell’uso, è da considerarsi non comune e arcaica.
Anche se i dizionari registrano come sinonimo di imputare il verbo attribuire, occorre sempre ragionare sul fatto che la sinonimia perfetta è un concetto astratto e che è opportuno scegliere la parola in base al contesto d’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso faccio confusione nel distinguere i verbi andare e venire in determinati contesti.
“Lara è uscita di casa ed è venuta a prendere il figlio a scuola.”
Il parlante in questo esempio usa venire sottintendendo che nel momento in cui Lara si è presentata a scuola era in quel luogo. Se invece tale verbo fosse stato sostituito da andare, il parlante avrebbe evidenziato tutta la sua distanza dall’azione. La mia interpretazione è corretta?
RISPOSTA:
Sì, la sua interpretazione è corretta, perché i verbi andare e venire esprimono un movimento di allontanamento o di avvicinamento da chi parla. Nel caso di andare, il parlante si trova lontano dalla destinazione di spostamento; nel caso di venire, il parlante si trova vicino o è già nella destinazione di riferimento.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.
RISPOSTA:
La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Dimmi quando sei nato che ti faccio l’oroscopo”.
Quel che è corretto? Sta per perché poi potrò farti l’oroscopo, quindi sarebbe un’abbreviazione di perché e penso che, per questo motivo, richiederebbe l’accento. Vi sarei grata se voleste chiarirmi questo dubbio.
RISPOSTA:
Non è un’abbreviazione, ma è proprio la congiunzione che, che, effettivamente, ha in questo caso una funzione consecutivo-finale. Questa funzione, come anche quella causale e altre meno comuni, è stata assunta dalla congiunzione che nell’italiano contemporaneo. In virtù di tale allargamento di funzionalità, la congiunzione è chiamata anche che polifunzionale. Per approfondire questo tratto dell’italiano contemporaneo è possibile consultare l’archivio delle risposte cercando la parola chiave polifunzionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi su queste frasi:
1) Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (o fosse calato), avresti potuto comprarla.
2) Non appena/Quando sarebbe arrivato (fosse arrivato) il tuo turno, avresti potuto alzare la mano.
3) Finché non sarebbe sorto il sole, non si sarebbe svegliato.
Mi viene spontaneo usare il condizionale passato dopo Quando/Non appena/Finché, eppure, dopo aver fatto una piccola ricerca su internet, ho potuto constatare che è molto più diffuso il congiuntivo trapassato (come se quando, non appena e finché eqivalessero a se). È corretto usare il condizionale passato nelle frasi che vi ho sottoposto?
RISPOSTA:
Il condizionale passato è corretto tanto quanto il congiuntivo trapassato. In particolare, nelle prime due frasi il condizionale rappresenta gli eventi come successivi ad altri eventi passati (e secondariamente condizionati dagli stessi eventi). Si noti che se trasportiamo la prima frase al presente avremo “Quando il prezzo calerà potrai comprarla”: tanto il calare quanto il poter comprare sono rappresentati come fatti che avverranno nel futuro. Ebbene, se l’evento futuro è collocato nel passato, esso si costruisce, per l’appunto, con il condizionale passato: questa forma corrisponde, quindi, al futuro nel passato. Gli eventi rispetto a cui il calare e l’arrivare sono sucessivi non sono esplicitati, ma il ricevente non può che presupporre la loro esistenza proprio per via dell’uso del condizionale passato. Il ricevente, cioè, rappresenta nella sua mente la prima frase come “Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…” e la seconda, ugualmente, come “Non appena/Quando sarebbe arrivato il tuo turno (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…”.
Il congiuntivo trapassato rappresenta gli stessi eventi come non fattuali, e più precisamente come ipotetici; il suo uso è attratto dal condizionale passato della proposizione reggente, che viene identificato dal parlante come una conseguenza, rispetto alla quale è necessario individuare un’ipotesi. Le congiunzioni che introducono le proposizioni sono, quindi, equivalenti a se (come suggerito da lei) e tutta la frase diventa una sorta di periodo ipotetico del terzo tipo.
La terza frase è apparentemente diversa dalle prime due perché il sorgere del sole è per definizione non ipotetico. Immagino che per questo motivo lei proponga soltanto la variante con il condizionale passato. Il congiuntivo trapassato è, invece, corretto anche in questo caso: con finché non fosse sorto, infatti, l’emittente intenderebbe non se non fosse sorto, che sarebbe illogico, ma se non prima fosse sorto, che sottolinea la consecutività del rapporto tra il sorgere del sole e lo svegliarsi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.
RISPOSTA:
L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.
RISPOSTA:
Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere se il termine qualunquista definisce una persona disinteressata nei confronti dei problemi politici e sociali oppure una persona che, pur interessandosi di queste tematiche, emette giudizi grossolani, banali, da uomo della strada e non da persona competente. Sento usare frequentemente questo termine con il secondo significato, ma, stando al vocabolario, dovrebbe essere usato esclusivamente con il primo significato.
RISPOSTA:
Come sempre quando si entra nell’ambito della semantica, non è possibile fissare confini netti. In questo caso specifico, il termine qualunquismo ha subito diversi ampliamenti di significato a partire da quello originario, legato al movimento politico promosso da Guglielmo Giannini negli anni Quaranta. L’obiettivo del movimento era il superamento della democrazia parlamentare in favore di un sistema statale puramente amministrativistico. Tale obiettivo era motivato da una visione critica del parlamentarismo, giudicato corporativistico e contrario agli interessi della classe media, rappresentata simbolicamente dall’uomo qualunque. A partire da questa visione, il termine assunse presto il significato, connotato negativamente, di ‘sfiducia pregiudiziale e generalistica nelle forme, nei riti, nell’organizzazione della politica’. Già questa evoluzione è sorprendente, se si considera che il termine era nato come nome di un movimento politico. Il processo non è, però, finito: una volta associato alla sfiducia per la politica, il termine scivolò gradualmente verso il riferimento al disinteresse e al disimpegno, e nei confronti non solo della politica, ma di ogni ambito della vita sociale e civile. Ecco come si è arrivati al significato attuale del termine.
Veniamo, così, allo specifico della sua domanda: l’atteggiamento di chi si interessa a una questione ma esprime sulla stessa opinioni banali e grossolane può essere definito qualunquista? Certo, perché le opinioni superficiali rivelano che l’interesse è simulato. In altre parole, non c’è differenza sostanziale tra chi non partecipa e chi partecipa, ovvero finge di partecipare, in modo superficiale: entrambe queste persone possono essere definite qualunquiste secondo il significato correntemente associato alla parola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da professore riesco a capire che la lingua non è la matematica e che ci sono diversi fattori che influenzano l’uso di una lingua che non sono così semplice da spiegare. Ma per me buoni esempi sono fondamentali per la pedagogia e spero che ci sia qualche valore per Lei in questo scambio.
Comunque mi piacerebbe provare a estrarre i fattori communi in diversi gruppi di questi esempi col motivo di usare il condizionale in modo corretto. Spero di non farla annoiato.
Gruppo I
Gli esempi in cui il condizionale da solo secondo Lei esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità, ecc.:
Volevo capire se la ragione di base per cui va bene il condizionale da solo in questi esempi I.a – I.c fosse è perché in tutti e tre gli esempi LA PERSONA CHE RISPONDE ALLA RICHIESTA POTREBBE RIMANERE SUL VAGO INVECE DI RISPONDERE CON UN SECCO NO CHE SAREBBE TROPPO DIRETTO. Se quest’analisi è giusta, chiamerò Gruppo I
L’USO DEL CONDIZIONALE PER RIPONDERE IN MODO VAGO/ELEGANTE A UNA RICHIESTA.
(a) Tu: <<Andiamo a bere un ultimo bicchiere?
Io: <<Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello».
(b) Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato» dove l’uso del condizionale semplice ha valore dubitativo o potenziale.
(c) «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso».
GRUPPO II.
In questo gruppo non riesco a estrarre la ragione di base per cui II.a vada bene, ma II.b sia incompleta.
(a) «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» secondo lei e Prof Tartaglioine sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi.
(b) Sarebbe difficile studiare la lingua cinese. (Il mio esempio di partenza. È corretta anche da sola o soltanto come risposta alla domanda “vuoi studiare la lingua cinese?)
COME MAI II.B va bene ma II.A come scritta non è completa?
Se avessi cambiato II.a per creare II.a1 “Sarebbe un bel film AL MIO PARERE ” reggerebbe il condizionale da solo? (non sono un giornalista, ma ho messo in evidenza che è la mia opinione che è soggettiva).
La mia frase II.a1 mi sembra molto simile a una che ho trovato sul sito LEARNAMO:
(c) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. SAREBBE una cosa carina A MIO PARERE.
Secondo Lei la frase sopra (c) è corretta e chiara? Per me ha il significato sottinteso “se lei la facesse”.
Se togliamo A MIO PARERE per creare
(c1) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. “Sarebbe una cosa carina”
il condizionale regge da solo? o no? Se regge, c’è una ragione per “Sarebbe una cosa carina” va bene, ma “Sarebbe un bel film” non è completa.
Gruppo III
Un altro esempio dal video da Prof Tartaglione.
(a) Marco avrebbe da fare (errata)
Marco dovrebbe avrebbe da fare (corretta – è un’ipotesi)
Come mai non va bene senza dovrebbe?
Due variazioni che faccio io con altro contesto:
(b) Non vedo Marco da tanto tempo. Lui avrebbe da fare.
(c) Non vedo Marco da tanto tempo. AL MIO PARERE lui avrebbe da fare.
Con l’aggiunto del contesto “ non vedo Marco da tanto tempo” o “con al mio parere” il condizionale da solo regge? (Sottointeso “se io non sbagliassi”).
RISPOSTA:
A profitto di chi legge, questa risposta fa riferimento ai temi trattati da ultimo qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/) e qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-e-la-pragmatica/).
Gruppo I: va bene, niente da aggiungere.
Gruppo II: Sarebbe difficile il cinese (se lo studiassi): meno naturale di “è difficile” ma comunque possibile (non scorretto). Funziona solo in risposta alla domanda. Il motivo per cui questo è più naturale di IIa non è chiarissimo, secondo me: non sempre è semplice risalire induttivamente da una consuetudine dell’uso a una regola, perché talora è la sola frequenza, o le convenzioni culturali, a far scattare la preferenza per una versione piuttosto che un’altra. Credo però che il motivo della preferenza risieda nella protasi sottintesa (cioè nelle presupposizioni attivate negli interlocutori: ancora una volta conta la pragmatica): Se lo studiassi il cinese sarebbe difficile (presentata come giudizio oggettivo, in un certo senso: nessuno chiederebbe perché); Se lo vedessi, quel film, sarebbe bello (è ambiguo: perché non puoi vederlo? Oppure è questione di gusti, è bello o no?).
Stesso discorso sulla festa: l’aggiunta di “a mio parere” non rende meno ambiguo il caso del film: forse è bello, è bello a mio parere. Mentre, nel caso della festa, sia con sia senza “a mio parere”, il giudizio non desta ambiguità: senza dubbio organizzare una festa a qualcuno è un’idea carina. Anche se lo esprimo al condizionale o in forma (pseudo)dubitativa: può essere un’idea carica, potrebbe essere un’idea carina.
Marco avrebbe / dovrebbe avere da fare. In certi contesti, anche “Marco avrebbe da fare” può essere accettabile: “In teoria, Marco avrebbe da fare, ma forse se sa che viene anche Liz vedrai che viene di corsa!”.
Ancora una volta: questioni di pragmatica, direi, cioè di presupposizioni attivate dai diversi contesti (e dai presupposti attivati su certi argomenti: film, soggettivo; cinese, considerato da tutti difficile; festa, considerata da tutti una idea carina ecc.).
No, l’aggiunta di “a mio parere” non è dirimente, non è questo che rende migliore o peggiore una frase, ma, come ripeto, il contesto e l’attivazione di questa o quella presupposizione. Le frasi naturali sono: Ha da fare, Forse ha da fare, Dovrebbe avere da fare, ma non “Avrebbe da fare”, neppure se aggiunge “A mio parere”.
Lei ha messo il dito in una piaga molto interessante, cioè questa: una lingua non è fatta solo di morfosintassi ma anche di convenzioni (NON SCRITTE) che vanno di là dalla grammatica e che rientrano nelle presupposizioni, nell’enciclopedia dei parlanti, nelle convenzioni culturali, nella frequenza d’uso e in molto altro ancora.
L’uso del condizionale, inoltre, è in continuo e rapido movimento, nella lingua italiana. Costrutti vivi fino a venti-trenta anni fa oggi sono inaccettabili e viceversa. Proprio perché è legato alle sfumature modali (epistemico), il condizionale ha una quantità di oscillazioni non ancora tutte sondate dai linguisti. Lo stesso discorso vale per l’imperfetto indicativo. Per questo, a suo tempo, le suggerii il precoce Le facce del parlare della compianta Carla Bazzanella, studiosa di pragmatica.
Fabio Rossi
QUESITO:
Non voglio fare polemica, soltanto vorrei avere il suo giudizio su una cosa detta da un “professore” Roberto Tartaglione che lavoro con l’editrice Alma. Lui dice in questo video del esprimere dubbio in italiano con diversi modi/tensi qui à https://www.almaedizioni.it/video-alma-tv/esprimere-un-dubbio/?srsltid=AfmBOorzT7QjoinvWZqfkLwx25Ng1uOqwFVyz8gV3brFIpy1xgcwXwDp
che per esprimere un dubbio su un film, non si può dire SAREBBE UN BEL FILM quando non si usa la voce giornalistico.
Secondo lei, seguendo gli esempi sotto, sarebbe sbagliato dire “sarebbe un bel film” (la mia opinione personale) non per esprimere un dubbio, ma una possibilità? È necessario dire “dovrebbe essere un bel film”? (So perfettamente che l’uso epistemologo del futuro per esprimere un dubbio è qualcosa diversa).
So che sono un po’ academico, ma è soltanto per approfondire.
RISPOSTA:
L’ottimo professor Tartaglione (tra i miei primi datori di lavoro) ha perfettamente ragione. Ma vi sono contesti in cui il condizionale da solo esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità..: «A. Andiamo a bere un ultimo bicchiere? B. Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello». Se mi chiedono: «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi: (per esempio) «Se non fosse così lungo», oppure, giornalisticamente, «secondo la critica». Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato», e moltissimi altri esempi sarebbero (appunto!) ancora possibili, d’uso del condizionale semplice con valore ora dubitativo, ora potenziale. Tartaglione giustamente semplifica il discorso limitandolo a un solo esempio facile: «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso». E dunque sarebbe una risposta errata per esprimere invece: «Alcuni pensano che sia bello», «Dicono che è bello» ecc. Anche «Potrebbe essere bello», in questo caso, sarebbe ambiguo, perché chi ascolta capirebbe «Può essere bello andare al cinema» e non «può essere bello il film».
Ma la lingua è sempre più sfaccettata di quanto le sue schematizzazioni non riescano a rappresentare. Nel suo primo esempio sul cinese (b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile”, di cui alla domanda DICO https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/), il contesto e le presupposizioni dei parlanti (cioè la pragmatica) ammettono l’uso del condizionale, nell’esempio sul film no. Questo perché tutte le componenti della lingua (fonetica, morfologia, sintassi, lessico, semantica, pragmatica) cooperano tra loro simultaneamente nella realizzazione di atti linguistici. Se separiamo le componenti, come pure dobbiamo fare per semplificarne la spiegazione e la didattica, non riusciamo a dar conto del funzionamento complessivo degli enunciati. In certa misura potremmo dire che tanti sono i significati di una lingua quanti ne sono i contesti d’uso. Morale della favola, la contraddizione tra l’esempio del cinese e quello del film è solo apparente: i contesti, infatti, disambiguano l’uso. Come livello didattico basico per spiegare l’impiego del condizionale il modello di Tartaglione è più che sufficiente. Per un livello più avanzato si può aggiungere il modello della protasi sottintesa (se potessi, se lo studiassi ecc.), che aggiunge un ulteriore livello di spiegazione
Fabio Rossi
QUESITO:
«Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del padre» oppure «di suo padre». Vorrei sapere quale delle due opzioni è consigliata e se, tra esse, ve ne sia una errata.
RISPOSTA:
Le due opzioni sono entrambe corrette. Sebbene si debba spesso evitare l’uso pleonastico dei possessivi, talora indotto da calco dall’inglese per influenza del doppiaggio («devo lavare le mie mani» è decisamente da evitare rispetto a «devo lavarmi le mani»), in certi contesti può essere utile il possessivo per evitare ambiguità. Pertanto, se nel caso specifico può esservi il dubbio che «la stessa malinconia del padre» venga riferito a un altro padre, piuttosto che a quello della ragazza, è allora meglio essere precisi scrivendo: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia di suo padre». In realtà, anche in quest’ultimo caso potrebbe sussistere l’ambiguità sul padre di qualcun altro, ambiguità che soltanto l’uso di «proprio» (riferito alla ragazza) potrebbe evitare: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del proprio padre», che però sarebbe davvero pesante, e dunque da evitare, anche a costo di una piccola ambiguità sicuramente poi sanabile nel resto della narrazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».
I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?
RISPOSTA:
Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».
Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».
Fabio Rossi
QUESITO:
«A quelli come me la pazienza sta finendo». Ho sentito e letto che in latino era comune il verbo in fondo alla frase, mentre in italiano non è raccomandabile se non sbagliato. Vorrei sapere, se possibile, perché. Secondo me, il verbo è posto in fondo alla frase per essere enfatizzato/focalizzato, quindi non intravedo errori.
RISPOSTA:
Ha ragione lei, non è un errore. Nella frase «A quelli come me la pazienza sta finendo» il soggetto «la pazienza» è topicalizzato, svolge cioè il ruolo di secondo topic (il primo è «A quelli come me»), mentre il verbo «sta finendo» in questo caso svolge il ruolo di comment ed è focalizzato. Quindi in questo caso non c’è alcuna influenza regionale (come nel caso di «Montalbano sono») nella posizione conclusiva del verbo, bensì è la struttura informativa che influenza quella sintattica, cioè il ruolo del topic e del comment condiziona l’ordine dei sintagmi nella frase.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».
RISPOSTA:
«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: né, infatti, significa ‘e non’.
Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché né, come già detto, significa già ‘e non’.
Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo un chiarimento sulla seguente espressione: «aver svolto una attività negli ultimi dieci anni».
Indica lo svolgimento dell’occupazione nella totalità dei precedenti 10 anni oppure, in modo meno definito, la preposizione “in” sta a significare un espletamento cronologico più “aleatorio” dell’azione nel lasso temporale decennale ma non nell’interezza dei 10 anni pregressi?
RISPOSTA:
Locuzioni come «negli ultimi dieci anni», «in due mesi» e simili hanno un significato generico e possono, eventualmente, essere disambiguate soltanto da altri elementi del contesto. Quindi, nel caso qui segnalato, entrambi i significati sono possibili: 1) l’attività ha occupato interamente i dieci anni; 2) l’attività è durata soltanto per un periodo limitato di tempo, compreso entro i dieci anni.
Se si vuole essere più previsi, si possono aggiungere alla frase altri sintagmi con valore temporale, quali per es.: 1) «negli ultimi dieci anni ha sempre (o continuativamente) lavorato come giardiniere; 2) «negli ultimi dieci anni ha lavorato come consulente editoriale per un totale di tre mesi».
Diverso sarebbe il caso della preposizione “per”, che invece indicherebbe il tempo continuato, ovvero lo svolgimento dell’azione per gli interi dieci anni: «Per dieci anni ha lavorato come chirurga».
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.
RISPOSTA:
Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Che differenza c’è tra al solito e di solito?
RISPOSTA:
Le due espressioni sono molto diverse. Al solito significa ‘come avviene di solito’, quindi mette a confronto un evento con tutti gli altri eventi simili accaduti in passato: “Al solito, quando non prendo l’ombrello piove”. Questo confronto è usato tipicamente in commenti polemici oppure amaramente ironici (come quello dell’esempio). Di solito significa semplicemente ‘abitualmente, normalmente’, quindi non instaura nessun confronto e non suggerisce nessuna sfumatura polemica o ironica. Per questo motivo, una frase come “Di solito, quando non prendo l’ombrello piove” sarebbe un po’ strana, perché rappresenterebbe l’evento come un fatto effettivamente abituale (mentre, ovviamente, non può essere così).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentare, potenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.
RISPOSTA:
Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implemento, implementabile, implementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?
RISPOSTA:
La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?
RISPOSTA:
In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito di se con valore concessivo, vi chiedo se la seguente frase sia corretta utilizzando il condizionale nella protasi e se la stessa sia possibile omettendo la congiunzione anche: “Ho pochissimo denaro e non ho niente da comprare. Anche se mi piacerebbe avere una bicicletta nuova, non posso permettermela”.
RISPOSTA:
La frase è corretta; la proposizione anche se mi piacerebbe, però, non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una concessiva. La protasi del periodo ipotetico, ovvero la proposizione ipotetica, detta anche condizionale, non ammette il modo condizionale. Se si elimina anche dalla proposizione concessiva, chiunque continuerà a interpretare la proposizione come concessiva, sulla base del significato complessivo della frase, e della presenza del condizionale; la proposizione sarebbe, però, mal composta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’
Quale delle due è corretta? La prima, vero?
RISPOSTA:
Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida
QUESITO:
La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di in o a; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.
RISPOSTA:
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.
1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».
2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).
RISPOSTA:
No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».
Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.
Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?
RISPOSTA:
Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.
L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:
A: Come mai sei interessato all’italiano?
Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.
Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.
Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.
RISPOSTA:
Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».
Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”
Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?
RISPOSTA:
La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida
QUESITO:
Dopo la parola giardino, alla fine del terzo verso è opportuno l’uso del punto e virgola o sarebbe stato corretto l’utilizzo dei due punti?
È facile mimare le vocazioni dell’egoismo,
basta ammutolire la coscienza e la sete va libera
come una bimba nel primo giardino;
la mano si allunga, compulsiva nel prendere,
e senza uno specchio più largo della faccia,
restano dietro persino i fanghi del rimorso.
RISPOSTA:
Entrambe le proposte sono legittime. Con il punto e virgola si separano due unità informative logicamente e sintatticamente autonome; con i due punti, invece, si introduce una conseguenza di quanto detto prima.
Raphael Merida
QUESITO:
Dopo mare e prima di che (al primo verso) è opportuno inserire la virgola (come nel testo) o sarebbe stato meglio l’uso del punto?
“Sogno il mare, che ancora mi sveli
il petto incostante, le possibilità!”
RISPOSTA:
La proposizione in questione (“che ancora mi sveli) è senza dubbio un’oggettiva introdotta dal verbo sognare, quindi prima di che non va inserita la virgola. Si può, eventualmente, spezzare la frase, ma cambiandone il significato, aggiungendo i due punti (“Sogno il mare: che ancora mi sveli…); in questo modo, quella introdotta da che è una proposizione indipendente di tipo esclamativo (segnalata, appunto, dal segno interpuntivo finale). In ogni caso, in un testo poetico la punteggiatura raramente è vincolata dalla grammatica.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.
RISPOSTA:
La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?
RISPOSTA:
Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
Nelle due frasi, come introduce proposizioni di natura diversa, che si costruiscono diversamente. Nella prima frase la proposizione è un’interrogativa indiretta, che preferisce sempre il congiuntivo, e in particolare lo richiede decisamente quando è introdotta da come; nella seconda è una comparativa, che, al contrario, richiede l’indicativo quando è introdotta da come. Si noti che nella prima subordinata l’uso dell’indicativo non è escluso: “Mi aveva colpito come era riuscito a raccontare la storia” è possibile, con uno slittamento della proposizione verso il valore di oggettiva, non più di interrogativa indiretta. Con l’indicativo, in altre parole, come diviene equivalente a che.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?
RISPOSTA:
In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?
Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.
RISPOSTA:
Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:
“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,
– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)
– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”
– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.
RISPOSTA:
Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.
Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.
Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.
Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “esprimo la mia opinione in relazione alla mia esperienza con voi”, il sintagma introdotto da “in relazione alla” esprime un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Sì. Potrebbe peraltro anche essere considerato un complemento di argomento, dal momento che le aree semantiche di questi due complementi sono spesso limitrofe, se non addirittura in parte sovrapponibili. Dipende dal contesto: se l’opinione verte sulla relazione, allora si tratta di complemento di argomento, se l’opinione verte su altre cose, ma è data nell’ambito di una relazione, allora è complemento di argomento. Naturalmente, come ben si vede, queste considerazioni riguardano la sfera meramente semantico-contestuale e nulla hanno a che vedere con la sintassi. Il che ci fa ribadire, per l’ennesima volta, la suprema inutilità (a non dir di peggio) dell’analisi logica (che di logica non ha nulla) tradizionalmente intesa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.
RISPOSTA:
L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.
Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?
Uomo = soggetto
Era impegnato = pred. verbale
Per conto di una ditta = complemento di sostituzione
In una attività = stato in luogo figurato
Di manutenzione = complem. di specificazione
Su un impianto = stato in luogo
Di zuccherificio = compl. specificazione
RISPOSTA:
L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto dire “La Ficht conferma il rating BBB dell’Italia” oppure “per l’Italia”?
Inoltre:
1) dell’Italia = compl. specificazione?
2) per l’Italia= compl. di vantaggio?
RISPOSTA:
Le due varianti sono corrette ma cambiano il significato della frase: conferma il rating BBB dell’Italia indica che il rating era già stato assegnato (è, appunto, il rating dell’Italia) e ora l’agenzia lo conferma; conferma il rating BBB per l’Italia indica che il rating era stato annunciato, se ne era parlato, ma soltanto adesso è stato effettivamente assegnato (quindi la conferma riguarda non il rating già assegnato, ma l’anticipazione a proposito del rating che sarebbe stato assegnato). In analisi logica dell’Italia è complemento di specificazione, per l’Italia è complemento di vantaggio (o di svantaggio, se la frase lascia intendere che il rating è una brutta notizia) se si intende il rating come un servizio reso all’Italia; è, in alternativa, complemento di argomento se si intende il rating come un voto che riguarda l’Italia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?
RISPOSTA:
Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le frasi seguenti sono corrette?
Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.
A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.
In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.
Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:
Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,
La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.
E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.
Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.
Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.
apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.
Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.
Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.
Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.
RISPOSTA:
Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.
“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.
In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei una consulenza sul significato della frase complessa riportata di seguito: “La frase è una forma linguistica indipendente, non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore, escluso il testo”.
La frase è una forma linguistica indipendente = frase reggente principale;
Non compresa (che non è compresa = subordinata relativa) mediante alcuna costruzione grammaticale (attributo + complemento di esclusione) in una forma linguistica maggiore (complemento di stato in luogo figurato) escluso il testo (subord. di esclusione).
Come può essere parafrasata, ossia cosa significa in concreto, la frase in questione?
RISPOSTA:
Cominciamo dall’analisi del periodo.
“La frase è un forma linguistica indipendente”: proposizione principale;
“non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”: subordinata relativa implicita;
escluso il testo (subordinata esclusiva implicita).
Analisi logica della proposizione relativa:
la frase: soggetto sottinteso evincibile dal predicato verbale “non compresa”;
non compresa: predicato verbale;
mediante alcuna costruzione grammaticale: attributo + complemento di mezzo;
in una forma linguistica maggiore: complemento di stato in luogo figurato + attributo.
Il senso (e quindi la parafrasi) della frase in questione, che è una delle tante possibili definizioni di “frase”, è il seguente. La frase è, dal punto di vista sintattico, indipendente da altre frasi, cioè non fa parte di nessuna frase complessa (in quanto è essa stessa una frase, semplice o complessa, che si conclude con un punto, senza altri vincoli sintattici con strutture esterne alla frase stessa). Naturalmente, bisogna tener conto del contesto, o per meglio dire del cotesto, cioè dell’intero testo in cui la frase è inserita, per comprenderne a pieno il significato. Quindi, benché autonoma sul piano sintattico, sul piano semantico la frase non è del tutto autonoma, perché va inquadrata in un’unità di rango superiore detta testo.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretta l’analisi della seguente frase? “Tiziano propone classi separate per studenti disabili, una mossa lesiva dei diritti di queste persone, in contrasto con i principi pedagogici”.
Tiziano = soggetto
Propone = predicato Verbale
Classi separate = compl. Oggetto + attributo
Per studenti disabili = complemento di destinazione + attributo
Una mossa lesiva = apposizione + attributo
Dei diritti = complemento di termine
Delle persone = compl. di specificazione
In contrasto con i principi pedagogici = complemento di paragone e attributo
RISPOSTA:
Secondo l’analisi logica tradizionale, vi sono alcune inesattezze o precisazioni da fare. Quello che lei chiama complemento di destinazione può essere classificato anche come complemento di vantaggio. “Dei diritti” è complemento di specificazione, anziché di termine. Come si vede e come chiarito più volte nelle risposte di DICO, però, una analisi siffatta non spiega nulla della struttura sintattica della frase, limitandosi ad apporre impressionistiche etichette semantiche ai vari sintagmi. Più utile sarebbe invece comprendere e distinguere, per esempio, il valore argomentale di “classi separate” e di “dei diritti” (che completa il sintagma “mossa lesiva”), rispetto al valore di circostante o di espansione degli altri sintagmi. In particolare, il circostante “una mossa lesiva dei diritti” (del tutto omologa a una relativa “che lede i diritti”) amplifica tutto ciò che precede (“propone classi separate per studenti disabili”); questa funzione di amplificazione (o circostante) si perde nella banale etichetta di apposizione, che sembra limitare (erroneamente) il riferimento di “una mossa lesiva dei diritti” al solo “classi separate”, quando invece è evidente che ad essere una mossa lesiva non siano soltanto le classi separate, bensì la proposta delle classi separate. Ancora una volta, dunque, più che la sciocca, inutile e dannosa analisi logica tradizionale sarebbe importante che la scuola insegnasse un’oculata e semplificata versione della grammatica valenziale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.
Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?
RISPOSTA:
Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Si fa presto a dire amore” potrebbe essere analizzata nel seguente modo?
Si fa presto = reggente impersonale
A dire amore = subordinata limitazione
RISPOSTA:
Sì, la subordinata è una limitativa implicita. Tenga poi conto, però, che per le implicite il confine tra diversi tipi di subordinata è molto sfumato (limitativa, causale, finale, consecutiva, tra le altre, spesso possono legittimamente essere confuse), in virtù della estrema polisemia dei connettivi (per, di, a ecc.) e dei modi verbali. Dunque, vale per le subordinate quanto detto spesso per i complementi: più che accanirsi sul tipo (semantico), è meglio comprendere la funzione sintattica della subordinata. In questo caso, non v’è alcun dubbio sulla natura avverbiale della subordinata.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “I romani, sotto la guida di Cesare Giulio, conquistarono le Gallie”, sotto la guida può considerarsi complemento di mezzo?
“Voteremo sulla base/ in base a queste considerazione”….”Sulla base di” introduce un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Le due risposte sono entrambe corrette. Resta l’insensatezza della tipologia dei complementi secondo l’analisi logica tradizionale, che si limita a porre etichette semantiche (e impressionistiche) del tutto inutili a spiegare il funzionamento sintattico e logico della frase. Su questo aspetto, si rimanda alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/il-complemento-di-quantita-e-il-complemento-di-specificazione-linutilita-dellanalisi-logica-tradizionale/
Fabio Rossi
QUESITO:
In un recente intervento di una parlamentare ho sentito questa frase: “Non vorrei che nessuna donna che in questo momento VORREBBE abortire si sentisse attaccata da questo stato”. Si tratta di un intervento emotivamente concitato, però l’uso del condizionale non mi convince, per via della sfumatura ipotetica. Cosa ne pensate, è accettabile?
RISPOSTA:
Il condizionale nella relativa di questa frase non è accettabile, ma va sostituito con il congiuntivo imperfetto: la relativa, infatti, è fortemente attratta dal modello della proposizione ipotetica (che in questo momento volesse abortire = se in questo momento volesse abortire).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).
“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.
Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?
RISPOSTA:
A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascolto, fare il proprio ingresso, prendere una decisione, mettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I prefissi come super-, arci-, iper-, ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?
RISPOSTA:
Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutino, mensile, architettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendo, fantastico, meraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimo: supermeraviglioso, iperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimo, fantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.
RISPOSTA:
Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).
Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?
Secondo esempio:
(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).
A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?
Terzo esempio:
(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.
Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.
RISPOSTA:
La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che: , tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste correggere le seguenti frasi?
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.
RISPOSTA:
Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Nord, a Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nord, al Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro
RISPOSTA:
Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Il file è in fase di caricamento”, il complemento in fase di caricamento può considerarsi predicativo del soggetto o stato in luogo? L’espressione in sciopero della fame si può analizzare così?
In sciopero = c. di luogo figurato;
della fame = c. di fine
RISPOSTA:
La fase di caricamento non è una qualità del file, ma è un processo nel quale si trova il file; si può, quindi, interpretare il sintagma come luogo figurato. Volendo sottolineare che tale luogo si configura come un processo, si può anche sostenere che il complemento sia di moto per luogo.
In sciopero indica una situazione in cui si trova una persona, quindi può rientrare nell’idea di stato in luogo figurato; della fame, invece, specifica di che tipo è lo sciopero, cioè che cosa lo caratterizza, quindi è un complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In “Fattelo spiegare da Giulio”, il complemento da Giulio si può considerare un complemento di origine?
RISPOSTA:
Sì. In alternativa, considerando che la costruzione fattitiva (fare + infinito) è parafrasabile con quella passiva: io mi faccio spiegare un argomento da Giulio = io faccio in modo che l’argomento mi sia spiegato da Giulio, è giustificabile anche l’interpretazione del sintagma come complemento d’agente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “in risposta alle sue richieste, Le daremo appuntamento per giovedì prossimo” è corretta la seguente analisi logica?
In risposta alle sue richieste = complem di fine+ attributo;
Le = c. di termine;
daremo = predicato verbale;
appuntamento = c. oggetto;
per giovedì prossimo = c. di tempo determinato + attributo.
RISPOSTA:
L’analisi ha un solo problema: il sintagma In risposta alle sue richieste non dovrebbe essere considerato insieme, ma dovrebbe essere diviso in In risposta e alle sue richieste. Di questi due, alle sue richieste è un complemento di termine, mentre In risposta può essere considerato un complemento di fine, se intendiamo il sintagma equivalente a al fine di rispondere, oppure – opzione per me più ragionevole – un complemento predicativo dell’oggetto (che è appuntamento) se lo consideriamo equivalente a in qualità di risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?
RISPOSTA:
La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?
RISPOSTA:
L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesse, avrebbe voluto, voleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.
-
Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;
-
L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.
RISPOSTA:
Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se nella frase che segue è consentito l’uso della virgola prima della preposizione “per”, e se non sia il caso di inserire una virgola prima del “che” (anche in relazione alla presenza o assenza del termine “altrettanto”): “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che vedranno il nostro gruppo offrire servizi sempre migliori, per una crescita in linea con quelle che sono le richieste dei propri fornitori”.
RISPOSTA:
La virgola prima della subordinata introdotta da per è facoltativa; inserendola, poniamo la subordinata sullo stesso piano informativo della altre proposizioni. L’assenza o la presenza della virgola prima della proposizione relativa influisce sul significato della frase (nel primo caso si parla di relative limitative, nel secondo di relative esplicative: la rimando a quest’articolo per approfondire il tema). Nella frase esemplificata l’interpretazione più ovvia della relativa è quella limitativa perché l’informazione è determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa.
In generale, però, l’intera frase risulta appesantita da costrutti ridondanti (quelle che sono le richieste) e da costruzioni sintattiche poco chiare (vedranno il nostro gruppo offrire servizi). Le suggerisco, quindi, una possibile riscrittura: “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che permetteranno al nostro gruppo di offrire servizi migliori, per una crescita in linea con le richieste dei fornitori”.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se nello scritto è più corretta la forma con il congiuntivo o l’indicativo: “Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti” oppure “Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti”?
RISPOSTA:
Le due frasi sono ugualmente corrette, ma diverse. La prima è un periodo ipotetico del primo tipo, o della realtà, con l’indicativo sia nell’apodosi (la proposizione principale), sia nella protasi (la proposizione ipotetica); la seconda è un periodo ipotetico misto, con un’apodosi della realtà e una protasi del secondo tipo, o della possibilità. La scelta tra le due frasi dipenderà dal significato ricercato: con la prima l’ipotesi è rappresentata come fattuale, con la seconda la stessa ipotesi è rappresentata come possibile, eventuale, incerta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?
RISPOSTA:
In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?
RISPOSTA:
Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entro: entro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.
RISPOSTA:
L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due frasi è corretta: “Sarà difficile che ti ricorderai di me” oppure “sarà difficile che ti ricordi di me”?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Un evento futuro espresso con una proposizione completiva dipendente da una reggente al futuro o al presente può essere descritto con il congiuntivo presente (qui ricordi) o con l’indicativo futuro (qui ricorderai). Il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più adatta al parlato e allo scritto medio-basso. Per un approfondimento della questione si veda questa risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.
RISPOSTA:
In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.
RISPOSTA:
Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Maria traduce il testo dall’italiano all’inglese”. Che complementi sono dall’italiano e all’inglese?
RISPOSTA:
Sono, rispettivamente, complemento di origine o provenienza e complemento di moto a luogo figurato. Quest’ultimo può anche essere definito in questo caso complemento di destinazione, ma questa etichetta non rientra tra quelle più comunemente usate nei manuali di grammatica italiana (è usata, invece, per descrivere la funzione del caso dativo delle lingue antiche).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le due frasi sono corrette?
1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.
2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.
RISPOSTA:
Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida
QUESITO:
È corretto iniziare una frase, che non ne precede altre, con affinché?
RISPOSTA:
Sì, l’ordine delle proposizioni all’interno di una frase può variare, quindi una proposizione subordinata finale introdotta dalla congiunzione affinché può precedere la reggente, come nel seguente esempio: “Affinché la torta sia cotta [subordinata], il forno deve mantenere una temperatura di 150 gradi [reggente]”. Sarebbe sbagliato, invece, lasciare la subordinata sospesa, cioè senza la proposizione reggente; una frase come *Affinché la torta sia cotta risulterebbe priva di senso.
Raphael Merida
QUESITO:
Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.
RISPOSTA:
Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida
QUESITO:
Si nota l’influenza dell’arte africana sulla sua opera.
Buonasera! In analisi logica, “l’influenza” è soggetto o oggetto? Ovvero “si nota” è passivante o impersonale? Inoltre mi permetto di chiedere che complemento sia “sulla sua opera”: luogo figurato?
RISPOSTA:
Nel suo esempio, il verbo è costruito con il si impersonale. Si nota assume la funzione di soggetto (è come se si intendesse “Qualcuno nota”), l’influenza è complemento oggetto, dell’arte africana complemento di specificazione, sulla sua opera complemento di stato in luogo figurato.
Per un approfondimento sul si impersonale / si passivante, la esorto a consultare l’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.
RISPOSTA:
No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.
RISPOSTA:
Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mario, la porta di casa, il tavolo di legno, mangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddo, di caldo, di fame, di sete, di gioia ed altre emozioni (di paura, di dolore, di felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria fredda. Per ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.
RISPOSTA:
Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.
RISPOSTA:
Né sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?
RISPOSTA:
La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano
Quale delle seguenti è una forma passiva del verbo andare?
a) Io vado
b) Io sono andato
c) Andando
d) Nessuna delle precedenti; il verbo andare non ha la forma passiva
La risposta corretta è d. Il verbo andare non ha la diatesi passiva, come tutti i verbi intransitivi; non è possibile, infatti, rappresentare il processo dell’andare come subito da qualcuno o qualcosa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere la differenza che c’è tra i due tempi verbali delle due frasi che seguono:
1. Ora Luca mangia un gelato;
2. Ora Luca sta scrivendo al computer.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi descrivono un evento che avviene mentre l’emittente sta parlando o scrivendo, quindi Luca mangia un gelato mentre io sto parlando, o Luca sta scrivendo al computer mentre io mangio. A differenza della prima frase all’indicativo presente (mangia), la seconda è costruita con la perifrasi progressiva stare + gerundio (sta scrivendo), che indica un processo in corso di svolgimento la cui durata si protrae oltre il momento in cui l’emittente si focalizza.
Raphael Merida
QUESITO:
Nel periodo: “Avevo visto Mario e gli avevo chiesto di passare dal mio studio, ma non ha portato i documenti che avrei dovuto consultre” la coordinata avversativa ma non ha portato i documenti è da considerare legata alla coordinata copulativa e gli avevo chiesto oppure alla subordinata oggettiva di passare dal mio studio?
RISPOSTA:
La coordinata introdotta da ma è formalmente collegata alla coordinata alla principale e gli avevo chiesto; nessun elemento al suo interno, infatti, può collocarla su un piano della gerarchia sintattica diverso dal primo. Certo, se sottraessimo la subordinata oggettiva, il contenuto della seconda coordinata non sarebbe comprensibile (e gli avevo chiesto, ma non ha portato i documenti); questo, però, è un effetto della forza del legame di subordinazione completivo (quello che lega gli avevo chiesto e di passare dal mio studio), per il quale la reggente risulta incompleta senza la subordinata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Parlerò soltanto con chi conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
“Non parlerò con chi non conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
Con chi parlerò?
RISPOSTA:
La relativa introdotta da chi ha un valore consecutivo (chi (non) conosca = ‘le persone tali da (non) conoscere’), che giustifica l’uso del congiuntivo. Il tempo del congiuntivo nella relativa è deittico, cioè allineato con il tempo extralinguistico: se il conoscere è presente o futuro (quindi comunque presente ai fini della scelta del tempo del congiuntivo) si dovrà usare il presente; se, invece, il conoscere è passato (“parlerò ora o domani con chi conoscesse ieri i principi essenziali”), si userà l’imperfetto. L’imperfetto, per la verità, potrebbe essere usato anche per il presente, perché chi (non) conoscesse può essere interpretato come se qualcuno (non) conoscesse; si tratterebbe, però, di un uso ambiguo e, in più, la sfumatura ulteriore di eventualità aggiunta dall’imperfetto sarebbe superflua. In questa risposta può trovare la spiegazione di un caso analogo al suo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice «ha constatato che il sig. X fosse presente» o «ha constatato che il sig. X era presente»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: quella al congiuntivo è più formale, ma quella all’indicativo è più comune. Nelle subordinate completive l’indicativo e il congiuntivo sono intercambiabili, sebbene con gradi di accettabilità differenti a seconda del verbo reggente e anche del fatto che vi sia o no la negazione, oltre che in base al grado di formalità. Con la negazione, per esempio, il congiuntivo è sempre preferibile: «Non ha constatato se X fosse presente». Con la negazione, tra l’altro, la completiva non è un’oggettiva, bensì una interrogativa indiretta, introdotta da se. Nelle frasi affermative, vi sono verbi che ammettono, e quasi prediligono, l’indicativo, quali constatare, appurare, dire, vedere, sentire (una frase come «sento che Luca sia affannato», ancorché non erronea, è al limite dell’inaccettabile, in un italiano comune); e verbi che invece preferiscono il congiuntivo (la maggior parte: volere, temere, credere, pensare, ritenere, dubitare, sognare…). In linea di massima, i verbi che esprimono una percezione diretta della realtà prediligono l’indicativo (tranne che con la negazione), mentre i verbi che esprimono un’ipotesi, un timore, una volontà e simili prediligono il congiuntivo. Oltre che dal grado di formalità, la presenza dell’indicativo o del congiuntivo nelle subordinate, dunque, non dipendono tanto dal grado di certezza (come erroneamente spesso si dice), quanto dalla percezione più o meno diretta. Se dipendesse dalla certezza, allora frasi come le seguenti sarebbero impossibili: «credo fermamente che Dio esista»; «ho sognato che volevi uccidermi», mentre invece sarebbero poco naturali «credo fermamente che Dio esiste» e «ho sognato che volessi uccidermi». Questo perché sognare si riferisce comunque al frutto di una percezione diretta, mentre il verbo credere (così come avere fede), pur non mettendo in dubbio il frutto di quanto viene creduto, lo esprime comunque con un verbo che indica una elaborazione del pensiero (come pensare).
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:
L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.
Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?
RISPOSTA:
Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel seguente esempio la proposizione che inizia con dovreste esprime una possibilità, giusto?
Non mi pare che dovreste avere troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note (M. Morazzoni).
È possibile formulare la proposizione senza dovere (“Non mi pare che avreste troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note”)?
Un altro esempio: “Penso che Mario potrebbe uscire stasera” (possibilità); se cambio la frase con “Penso che Mario uscirebbe stasera” dovrei esplicitare una condizione, ad esempio se avesse tempo?
Nella frase “Io penso che dovremmo tenerla unita, questa fortuna, tenere insieme i figli, e le donne e noi stessi, tutti insieme” (U. Riccarelli), mi sembra che dovremmo esprima in modo cordiale un consiglio invece che una possibilità. Per questo tipo di completiva penso che sia necessario usare dovere, potere, o volere e non sarebbe possibile scrivere la proposizione senza un verbo servile; giusto?
RISPOSTA:
I verbi servili aggiungono sempre una sfumatura di significato al verbo che reggono. Nella prima frase, dovreste rappresenta il non avere difficoltà come ipotizzato dall’emittente, quindi che il parlante è incerto se quello che sta dicendo si avvererà. Il condizionale, in questo caso, non è legato a una premessa, ma esprime il dubbio dell’emittente (come se nella frase fosse sottinteso se avessi ragione, se la mia idea fosse corretta o simili). Se eliminiamo il verbo servile, viene meno la sfumatura ipotetica; avreste indicherebbe che il non avere difficoltà è la conseguenza di una premessa. Tale premessa dovrebbe essere esplicitata, altrimenti la frase rimane in sospeso. Lo stesso vale per la seconda frase: come da lei proposto, il servile potere rappresenta l’uscire come potenziale; senza il servile, uscirebbe diviene la conseguenza di una premessa che deve essere esplicitata.
Nella terza frase, dovremmo esprime ancora un’ipotesi dell’emittente; visto il significato della frase, però, in questo caso l’ipotesi è interpretata automaticamente come un auspicio, quindi anche come un invito all’interlocutore a realizzare il contenuto della frase. Anche qui senza il verbo servile il tenerla unita e le altre azioni diventerebbero conseguenze di premesse che devono essere esplicitate. Ovviamente, se sostituiamo dovere con un altro verbo servile il significato della frase cambia: con potere l’invito si trasforma in una possibilità, con volere in un desiderio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mario è nato al rombo del cannone” o “Mario era nato al rombo del cannone”? A mio parere la prima espressione è corretta a patto che Mario sia ancora in vita, la seconda invece è da preferirsi qualora Mario sia ormai defunto. Vorrei sapere se questa mia opinione è corretta.
RISPOSTA:
La sua interpretazione, ancorché non del tutto priva di qualche intuizione, è troppo rigida e quindi, sì, infondata nella sua assolutezza. Sebbene il passato prossimo indichi di norma una conseguenza o una ricaduta (talora in verità più teorica, o “pragmatica”, che reale) dell’azione al passato sul tempo presente, e il remoto tenda a escludere, invece, tale ricaduta, i due tempi sono ampiamente intercambiabili in italiano (tranne che per verbi dal significato decisamente durativo, non puntuale, quali capire e sentire in espressioni quali hai capito, hai sentito e simili, decisamente substandard, o regionali, se al passato remoto in certi contesti: *capisti, *sentisti e simili), con una maggiore formalità per il passato remoto. Quindi, anche per una persona defunta, posso ben dire, per esempio: «Giacomo Leopardi è nato a Recanati» (e non necessariamente «nacque»). Quanto al trapassato prossimo, esso implica di norma il rapporto di anteriorità rispetto ad altro evento sempre al passato. Nel suo esempio, peraltro sempre corretto, dunque, «era nato» non ha nulla a che vedere col fatto che Mario sia morto o vivo e vegeto, bensì con l’eventuale prosecuzione del discorso, al passato, con altre azioni o eventi legati a Mario: «era nato al rombo del cannone mentre era in corso la seconda guerra mondiale».
Fabio Rossi
QUESITO:
1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
RISPOSTA:
La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida
QUESITO:
Una giornalista, alla radio, ha detto: «Era un artista che metteva tutti i suoi discepoli a proprio agio». Forse sono troppo pedante, fossilizzandomi sulle regole della sintassi e trascurando così il messaggio che il parlante voleva chiaramente suggerire, o, forse, sono io a essere in errore; ma quell’aggettivo, proprio, non dovrebbe riferirsi al soggetto?
Se così fosse, il significato della frase sarebbe alquanto bizzarro: l’“agio” sarebbe stato dell’artista stesso invece che dei discepoli di quest’ultimo. Al posto della giornalista, avrei detto «a loro agio».
RISPOSTA:
Ha perfettamente ragione, proprio è un errore, perché può riferirsi soltanto al soggetto della proposizione nella quale è inserito. Viceversa, a volte in luogo di proprio è ammesso anche loro, se non genera equivoci: «gli studenti, con le loro brave cartelle sulle spalle» (o «proprie cartelle»).
Fabio Rossi
QUESITO:
Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».
La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.
La costruzione è corretta?
RISPOSTA:
No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.
Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.
Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.
- Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
- Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
RISPOSTA:
La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le mogli litigano con i mariti.
Le fidanzate ballano con i fidanzati.
Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.
Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.
È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.
Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?
Le donne litigano con i (propri) mariti.
Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.
Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…
Quali soluzioni suggerireste?
RISPOSTA:
L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
È possibile dire «Vorrei che faccia» invece che «Vorrei che tu facessi»? È corretto pensare che il congiuntivo presente dia al mio desiderio una sfumatura di maggiore cogenza, un senso imperioso? Normalmente, da quello che trovo anche nelle grammatiche, si usa il congiuntivo imperfetto nella subordinata, poiché l’evento è dato come realizzabile solo se si attua il mio desiderio. Ma nel caso in cui io parlante intenda il mio vorrei come ‘obbligo’, e usi il condizionale solo in quanto formula di cortesia, è accettato il congiuntivo presente? In sintesi: è un vero e proprio errore usare il congiuntivo presente nella frase citata in apertura, o si tratta di una forma poco usuale, ma in alcuni casi prevista e possibile? Si tratta di un problema di grammatica o di semantica?
RISPOSTA:
Come spesso accade, di errori veri e propri nella lingua ve ne sono pochi; il più delle volte si tratta di varietà, improprietà, sfumature. In questo caso, se non errato, l’uso del presente congiuntivo in associazione col condizionale presente, possibile in astratto, è improprio e decisamente minoritario (nelle persone colte), sia per ragioni semantiche, sia per ragioni grammaticali, o per meglio dire di analogia con altri costrutti che associano congiuntivo a condizionale. Dal punto di vista semantico, come giustamente ricorda lei, la spiegazione che si dà al condizionale è che il parlante/scrivente «mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63). Può trovare approfondimenti al riguardo in numerose altre domande di DICO, riassunte qui. Quel che più conta, però, è l’uso dei parlanti e degli scriventi, più che le loro eventuali intenzioni recondite. Nell’uso comune, quando compare il condizionale presente nella reggente, scatta quasi sempre l’uso combinato del congiuntivo imperfetto. Perché? Evidentemente per via del costrutto che più d’ogni altro (come frequenza d’uso) combina i due modi e tempi, vale a dire il periodo ipotetico del secondo tipo (il più frequente dei periodi ipotetici): «verrei se potessi» (e non «se possa»!). Per questa ragione, i parlanti e gli scriventi colti (e conseguentemente le grammatiche) associano all’uso combinato di condizionale presente più congiuntivo presente un valore di estrema trascuratezza, prossimo all’errore. La giustificazione che lei dà dell’opzione del congiuntivo presente è ineccepibile, ma logicistica: le lingue non funzionano con astratte logiche a posteriori, bensì in base a consuetudini consolidate.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».
RISPOSTA:
La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).
Fabio Rossi
QUESITO:
Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?
RISPOSTA:
A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?
RISPOSTA:
La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che ci, vi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, lì, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se entrambe le soluzioni riportate di seguito sono corrette, oppure se ve ne sia una meno formale rispetto all’altra:
È una sfumatura semantica che risulta difficile cogliere.
È una sfumatura semantica che risulta difficile da cogliere.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono possibili e praticamente equivalenti dal punto di vista semantico; la prima, però, ha una costruzione sintattica intricata, per quanto del tutto comprensibile e ammessa dalla grammatica.
L’intrico dipende dalla natura della proposizione che cogliere, contemporaneamente relativa e soggettiva; da una parte, infatti, che riprende il sintagma una sfumatura semantica (quindi introduce una relativa), dall’altra la proposizione funge da soggetto di risulta difficile (quindi è una soggettiva). Per evidenziare questa sovrapposizione di funzioni, potremmo parafrasare questa parte della frase con cogliere la quale risulta difficile.
La seconda frase è più lineare dal punto di vista sintattico: che è il soggetto della proposizione relativa che risulta difficile; da cogliere è una proposizione completiva assimilabile a una oggettiva, retta dall’aggettivo difficile. Non è facile associare le due frasi a determinati registri: in linea generale, mentre la seconda è adatta a tutti i contesti, la prima è più adatta a contesti medio-alti, soprattutto scritti, per via della complessità della costruzione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito di, grazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?
RISPOSTA:
La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.
La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?
RISPOSTA:
Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.
RISPOSTA:
Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?
RISPOSTA:
I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mail, richiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mail, per mezzo pec?
RISPOSTA:
Le locuzioni preposizionali a mezzo, con il mezzo, per il mezzo, per mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo di, con il mezzo di, per il mezzo di, per mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?
RISPOSTA:
In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi di, servirsi di, contare su, obbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Mario, il cancello della scuola, l’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcuno, obbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.
RISPOSTA:
Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.
Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:
1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;
2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.
Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.
Ora si osservino queste due frasi:
3. Dieci persone sono venute alla festa;
4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.
In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.
Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.
Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:
5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!
6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!
Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.
7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.
8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.
Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?
RISPOSTA:
I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato far seguire il congiuntivo presente all’espressione come se, oppure è obbligatorio l’imperfetto?
“Ne parli come se sia colpa mia!”
“Apri le finestre come se faccia caldo”.
È possibile omettere se fosse senza alterare il significato della frase dal punto di vista temporale?
“Carlo cammina come se fosse un ubriaco che non riuscisse a reggersi in piedi”.
“Carlo cammina come un ubriaco che non riuscisse / riesca a reggersi in piedi”.
La seconda alternativa conserva la stessa sfumatura ipotetica oppure colloca l’azione nel passato?
RISPOSTA:
La proposizione comparativa ipotetica, introdotta da come se, presenta un evento ipotetico che somiglia a quello descritto nella reggente e che potrebbe, pertanto, spiegarlo. L’ipoteticità dell’evento presentato richiede una costruzione che ricalca quella della proposizione ipotetica, ovvero il congiuntivo imperfetto per la possibilità, il congiuntivo trapassato per l’irrealtà. L’irrealtà, si noti, corrisponde in questa proposizione all’atteggiamento di incertezza dell’emittente riguardo alla somiglianza tra gli eventi); ad esempio: “Rispose come se avesse paura” (l’avere paura è presentato come potenzialmente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, spiegarlo), “Rispose come se avesse avuto paura” (l’avere paura è presentato come incertamente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, essere preso in considerazione tra le spiegazioni possibili).
Per quanto riguarda le due frasi confrontate, la prima presenta una comparazione ipotetica, la seconda presenta una comparazione oggettiva; con la prima, pertanto, l’emittente è più cauto nell’accostare il modo di camminare di Carlo a quello di un ubriaco. In ogni caso, la rappresentazione della comparazione non condiziona la costruzione della proposizione relativa (che non riesca / riuscisse). Questa proposizione può essere costruita nella prima e nella seconda frase tanto con il presente quanto con l’imperfetto; nel primo caso il riuscire è semplicemente rappresentato come presente, nel secondo si aggiunge una sfumatura ipotetica, conferita dalla sovrapposizione tra che non riuscisse e se non riuscisse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadretti, a losanghe, a pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti a, fuori da, invece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.
L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.
RISPOSTA:
Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Nella frase “Stringo la coppa tra le mani” che funzione logica ha il sintagma tra le mani? Indica uno stato in luogo o un complemento di mezzo?
RISPOSTA:
Indica uno stato in luogo, ma l’interpretazione come complemento di mezzo è legittima. Non è raro che un’indicazione di luogo sia ulteriormente interpretabile come informazione circa un mezzo. Succede, per esempio, in espressioni come in treno, in macchina, in bicicletta…: in una frase come “Vado a scuola in bicicletta”, infatti, il complemento introdotto da in indica il luogo in cui mi trovo mentre vado a scuola, ma quel luogo ha anche la funzione del mezzo con cui copro il tragitto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Può essere ritenuto corretto (o almeno non scorretto) un uso della virgola dopo espressioni come a seguire e al termine?
Ad esempio: “Al termine, consegna della medaglia al vincitore”, “A seguire, assegnazione di una borsa di studio al miglior studente”.
RISPOSTA:
La virgola non è affatto scorretta; al contrario, è preferibile inserirla. In generale, i sintagmi che hanno la funzione di espansioni (ovvero contengono informazioni che non sono collegate al verbo o a un singolo argomento del verbo, ma riguardano l’intera frase) e sono inseriti all’inizio della frase vanno separati con la virgola dal resto della frase. Se, invece, le espansioni si trovano in coda, la virgola è opzionale: “Consegna della medaglia al vincitore al termine” / “Consegna della medaglia al vincitore, al termine”. L’inserimento della virgola accentua la rilevanza informativa dell’espansione. Se, infine, la frase lo consente, l’inserimento dell’espansione al centro della frase richiede tipicamente la separazione dal resto della frase con le virgole di apertura e chiusura: “La medaglia sarà consegnata, al termine, al vincitore”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.
RISPOSTA:
La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?
RISPOSTA:
La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?
RISPOSTA:
La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano
Quale complemento rappresenta il sintagma introdotto da in base a nella seguente frase?
“È necessario agire in base alle esigenze del volgo”.
L’analisi logica non permette di classificare con la stessa precisione tutti i sintagmi possibili, nonostante la tipologia sia ricca (secondo alcuni persino troppo ricca). Nel caso in questione, il complemento più vicino alla funzione sintattico-semantica svolta dal sintagma in base alle esigenze è quello di causa, visto che si può parafrasare il sintagma con ‘in modo che il nostro agire sia l’effetto di’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.
RISPOSTA:
Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Quali frasi sono corrette?
1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi
Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone
RISPOSTA:
Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida
QUESITO:
A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?
RISPOSTA:
In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Mi piacciono molto i romanzi, soprattutto quelli di avventura”, di avventura è un complemento di specificazione o di argomento?
RISPOSTA:
Entrambe le risposte sono giustificate. Volendo essere pignoli, possiamo osservare che un romanzo di avventura non ha come argomento l’avventura, ma racconta una storia avventurosa, ovvero caratterizzata da avventurosità. Propenderei, pertanto, per il complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?
RISPOSTA:
In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
“Hai scelto il brano peggiore tra i tanti possibili”.
Vorrei sapere se l’aggettivo possibili nella suddetta costruzione è corretto.
Sì, la costruzione è corretta: l’aggettivo possibile è comunemente usato in contesti simili senza un significato preciso, ma con la funzione di rafforzare proprio l’aggettivo o il pronome (ogni possibile candidato, tutti i libri possibili…).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto l’uso di conosciuto come sinonimo di noto?
RISPOSTA:
Sì, conosciuto e noto sono sinonimi. Come tutti i sinonimi, comunque, non sono intercambiabili sempre: ovviamente conosciuto non può essere sostituito da noto quando è usato come participio passato, non come aggettivo (“L’ho conosciuto in un bar”); a sua volta noto è preferito a conosciuto quando si riferisce a qualcosa che deriva la qualità dall’essere stata trattato o discusso in precedenza: “L’argomento è noto a tutti; non serve tornarci su”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non riesco a capire bene quale ausiliare usare con il verbo volare se non si è in presenza di un moto a luogo e da luogo. Come posso comportarmi in queste frasi?
1. Questo è l´aereo su cui ho volato/sono volato.
2. Ho volato in Italia (qui inteso come stato in luogo).
3. Cosa ha volato/è volato in cielo?
4. Sono volato/ho volato (con il deltaplano).
5. L’uccellino ha volato/è volato (ma non via).
6. I partecipanti sono volati/hanno volato sulla pista (inteso come stato in luogo).
Quanto al verbo vincere, esso regge la preposizione contro?
RISPOSTA:
Il verbo volare può essere costruito con entrambi gli ausiliari quando si riferisce a persone (che possono volare grazie all’uso di mezzi di trasporto aerei o in significati figurati), di animali dotati di ali e di veicoli deputati al volo. In questi casi avere è il più utilizzato, mentre è preferibile utilizzare essere quando il verbo è accompagnato da complementi di moto da luogo o a luogo, in quasi tutti i significati figurati e per le azioni in corso di svolgimento. Di conseguenza, negli esempi 1, 2, 4 e 5 sarebbe preferibile selezionare l’ausiliare avere. Al contrario, richiedono l’ausiliare essere l’esempio 3, in quanto qui il soggetto potrebbe essere un oggetto che si libra in volo sospinto dal vento o altre forze, e l’esempio 6, perché qui volare è usato con il significato figurato di ‘muoversi velocemente’ (lo stesso che si userebbe in frasi come “Sono volato, ma sono arrivato comunque tardi”).
Nell’esempio 5 la scelta dell’ausiliare influisce sul significato della frase: ha volato significa ‘è riuscito a volare’; è volato, preferibilmente seguito da un sintagma che indica il luogo (via, lontano, fuori dalla finestra…), significa ‘si è spostato in volo’.
In quanto alla seconda domanda, il verbo vincere può essere transitivo (vincere la partita), ma è più spesso intransitivo (vincere a dadi, di due punti, con l’inganno). In entrambi i casi può essere accompagnato da complementi indiretti che indicano l’avversario sconfitto e sono costruiti con con o contro. Quando è transitivo, inoltre, l’avversario può essere costruito come complemento oggetto: vincere il nemico.
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato usare “proprio” al posto di “nostro” come nell’esempio che segue?
“E per colpa tua, mettiamo anche oggi in dubbio la propria conoscenza”.
RISPOSTA:
Proprio può sostituire soltanto i possessivi di terza persona suo e loro. La frase proposta quindi non è corretta perché propria non si riferisce a un soggetto di terza persona (“E per colpa tua, Mario anche oggi mette in dubbio le sue/proprie conoscenze”), ma a un soggetto di prima persona plurale: “E per colpa tua, (noi) mettiamo anche oggi in dubbio la nostra conoscenza”.
Raphael Merida
QUESITO:
Chiedo delucidazioni sull’uso dell’espressione proseguire gli studi.
Queste forme sono tutte corrette e alternative?
PROSEGUIRE GLI STUDI AL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI PRESSO IL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI NEL CORSO DI STUDI…
RISPOSTA:
La variante più naturale è nel corso di studi. Accanto a questa si può usare presso il; presso, infatti, è usato comunemente con il significato di ‘in, dentro’, sebbene significhi propriamente ‘vicino a’ e sebbene l’uso con il significato di ‘in’ sia più adatto all’ambito burocratico. La scelta più insolita sarebbe al, visto che la preposizione a _è preferita per introdurre ambienti associati fortemente a specifiche esperienze (_a casa, a scuola, all’università) oppure ambienti dai confini non facilmente determinabili (a Roma, a Venezia, ma in Italia). Possibile sarebbe anche riformulare la frase inserendo il verbo iscriversi, per esempio così: proseguire gli studi iscrivendosi al corso di (o anche nel corso). In questo caso la preposizione a _(o _in) sarebbe richiesta direttamente dal verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
RISPOSTA:
La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vai, seppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei esprimere un dubbio in merito all’uso del congiuntivo passato e trapassato con il pronome relativo misto chiunque. Nella frase “Chiunque abbia pronunciato un giudizio così avventato, avrebbe dovuto documentarsi più scrupolosamente”, dopo il pronome chiunque potrebbe andarci bene anche il trapassato congiuntivo avesse pronunciato? Se sì, perché?
RISPOSTA:
La frase chiunque avesse pronunciato… è corretta: il trapassato avesse pronunciato può servire a collocare l’evento prima di un altro evento passato, per esempio in una frase come “Luca pensò che chiunque avesse pronunciato…” (in questo caso il passato non sarebbe corretto: *”Luca pensò che chiunque abbia pronunciato…”). Il trapassato è anche comunemente usato in relazione al presente, non al passato; in questo caso la relazione temporale rimane identica a quella instaurata dal passato: (penso che) chiunque abbia pronunciato… = (penso che) chiunque avesse pronunciato…. Quest’uso deriva dalla sovrapposizione sulla proposizione relativa introdotta da chiunque del modello della proposizione ipotetica (chiunque avesse pronunciato = se qualcuno avesse pronunciato); a ben vedere, però, la sovrapposizione è indebita, perché la sostituzione del passato con il trapassato non modifica il senso generale della proposizione relativa. Proprio perché il trapassato in queste condizioni (nella proposizione relativa introdotta da chiunque senza un rapporto di anteriorità rispetto al passato) è di fatto equivalente al passato, se ne può sconsigliare l’uso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho bisogno del vostro aiuto per capire come interpretare uno dei criteri previsti per l’authorship di un articolo su una rivista scientifica.
La frase, tradotta da me in italiano è la seguente:
“Contributi sostanziali all’ideazione o alla progettazione dell’opera; o all’acquisizione, analisi o interpretazione di dati per il lavoro”.
Dalla prima parte della frase mi è chiaro che è sufficiente avere contribuito in maniera sostanziale all’ideazione O alla progettazione dell’opera; ho però un dubbio su come interpretare la seconda parte della frase, laddove si tratta dell’analisi dei dati. Tra acquisizione e analisi è possibile che si intenda una E, oppure, visto che l’ultima congiunzione dell’elenco può essere solo sottintesa (senza alcun dubbio) una O?
Per completezza riporto anche la frase originale inglese:
“The ICMJE recommends that authorship be based on the following 4 criteria:
Substantial contributions to the conception or design of the work; or the acquisition, analysis, or interpretation of data for the work; AND (…)”.
RISPOSTA:
Si tratta di tre alternative; per attribuirsi il titolo di author, cioè, bisogna aver contribuito sostanzialmente almeno a una delle tre fasi di elaborazione del lavoro (oppure anche a nessuna delle tre, se si è contribuito alla ideazione o alla progettazione).
Ovviamente, bisogna considerare anche gli altri tre criteri (qui non riportati), che sono chiaramente indicati come aggiuntivi (non alternativi) tramite AND.
Sottolineo che in italiano bisogna ripetere la preposizione articolata o almeno l’articolo davanti a tutti i membri dell’elenco: oppure all’acquisizione, all’analisi o all’interpretazione / oppure all’acquisizione, l’analisi o l’interpretazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.
Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?
RISPOSTA:
La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori: sé è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).
RISPOSTA:
Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso di riferirsi in questa situazione comunicativa:
“Per ogni informazione si riferisca a quanto indicato sul programma”.
Può essere qui usato come sinonimo di attenersi?
RISPOSTA:
Qui riferirsi a significa ‘prendere con punto di riferimento’, non ‘riguardare, avere come argomento’ (che è il significato più comune). Con questo significato, il verbo si avvicina ad attenersi, ma non può essere considerato suo sinonimo: attenersi, infatti, contiene una sfumatura di precisione che non ammette deroghe assente in riferirsi a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire in quali situazioni è obbligatorio affiancare il congiuntivo imperfetto al condizionale presente, come nel caso di un periodo ipotetico.
Queste due frasi rischiano di essere avvertite come errate per il semplice fatto che si è abituati ad associare il condizionale al congiuntivo imperfetto, e ciò a volte manda in confusione anche me:
“Non potrei stabilire se l’abbia fatto un bambino o un adulto”.
“Vorrei che venga espulsa” (In questo caso il condizionale è una forma ingentilita del presente).
RISPOSTA:
Nel quadro della consecutio temporum, il condizionale presente richiede gli stessi tempi del congiuntivo richiesti dall’indicativo presente. Per esempio, quindi, immagino che venga = immaginerei che venga (contemporaneità); immagino che venisse / sia venuto / fosse venuto = immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto (anteriorità). A questa regola si sottraggono i verbi di volontà, desiderio, opportunità (come volere, desiderare, pretendere, essere conveniente e simili), che instaurano il rapporto di contemporaneità con il congiuntivo non presente, ma imperfetto (probabilmente perché sono influenzati dal modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui al condizionale presente corrisponde il congiuntivo imperfetto). A immaginerei che venga, quindi, corrisponde vorrei che venisse. La variante vorrei che venga in astratto è corretta, ma è di fatto giudicata decisamente trascurata. Coerentemente, per l’anteriorità alla costruzione immaginerei che lui venisse / sia venuto / fosse venuto corrisponde il solo vorrei che lui fosse venuto. La variante vorrei che lui venisse per esprimere l’anteriorità è sconsigliata perché sarebbe interpretata come esprimente la contemporaneità.
Per ulteriori informazioni sui tempi del congiuntivo dipendenti da vorrei è possibile consultare questa risposta e questa risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei farvi una domanda riguardo all’uso delle congiunzioni condizionali (escluso se).
Come sappiamo, nella parte condizionale va messo il congiuntivo, ma non sono certa se la scelta tra il presente e l’imperfetto dipenda soltanto dalla possibilità oppure anche dal tempo presente / passato?
A condizione che / purché / a patto che / casomai studi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, avrai / avresti superato l’esame.
Ho anche un altro dubbio: dopo aver scelto il tempo della parte condizionale, cosa posso fare con quella reggente? Uso l’indicativo per esprimere una certezza e il condizionale per una possibilità?
RISPOSTA:
Le proposizioni introdotte da a patto che, purché, a condizione che e casomai (o caso mai) sono condizionali (nel periodo ipotetico sono chiamate protasi e contengono la descrizione della condizione) e richiedono il modo congiuntivo; il tempo dipende sia dal grado di possibilità dell’evento espresso sia dal rapporto temporale (la cosiddetta consecutio temporum) con il verbo della reggente (che nel periodo ipotetico è chiamata apodosi e contiene la conseguenza della condizione contenuta nella protasi). La sua prima frase è un caso canonico di periodo ipotetico della realtà. Questo costrutto serve a rappresentare l’evento della reggente come certo.
La seconda frase presenta un esempio di apodosi della realtà e protasi della possibilità: il costrutto, corretto, esprime un dubbio circa la possibilità della condizione (il parlante non è certo che l’interlocutore si metta a studiare bene) e la certezza riguardo alla conseguenza della condizione.
Il terzo e ultimo esempio presenta nuovamente nella subordinata il congiuntivo imperfetto, mentre nella reggente propone due opzioni diverse: un verbo all’indicativo (il futuro anteriore avrai superato) e un verbo al modo condizionale composto, o passato (avresti superato).
Il futuro anteriore si usa per indicare un evento che avverrà in un futuro più prossimo rispetto a un altro più lontano nel futuro. Si tratta di un tempo verbale usato raramente, perché il rapporto di successione tra gli eventi risulta quasi sempre chiarito dal contesto. In questo caso specifico non è presente un altro evento di riferimento successivo, di conseguenza il futuro anteriore non è giustificato. L’opzione diventerebbe possibile se si aggiungesse un evento di riferimento; per esempio: “A patto che studiassi bene avrai superato l’esame prima di accorgertene”. Bisogna, però, ammettere che la frase, corretta in astratto, difficilmente sarebbe prodotta da un parlante, per via della sua complessità.
L’ipotesi con avresti superato è impossibile se studiassi si riferisce al presente: presenta, infatti, la conseguenza come precedente rispetto alla condizione. La frase diviene corretta se il congiuntivo imperfetto è usato con valore astorico, legato non al presente, ma a un principio generale: “Se tu studiassi (= avessi l’abitudine di studiare) bene avresti superato l’esame”.
Prima di selezionare i tempi e modi verbali è opportuno valutare il grado di possibilità degli eventi selezionati a partire dalla reggente: è il verbo della reggente che governa quello della subordinata, in relazione al rapporto temporale e, nel caso del periodo ipotetico, al grado di possibilità che si vuole rappresentare.
Per ulteriori informazioni sull’uso di a patto che è possibile consultare questa risposta nell’archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
L’aggettivo poco concorda in genere e numero con il sostantivo al quale si riferisce. A tal proposito riprendo parte di un testo di una canzone: “Una è troppo poco, due sono tante”.
Di conseguenza, come devo comportarmi nelle seguenti espressioni?
- La differenza è poco/poca
- Due settimane è poco/sono poche
RISPOSTA:
Nel testo della canzone troppo poco è una locuzione avverbiale. In questo caso l’avverbio poco si unisce all’avverbio troppo per sottolineare un eccesso di scarsità. Negli altri due esempi poco invece è un aggettivo in funzione predicativa (cioè si collega al nome tramite il verbo), quindi: “La differenza è poca” e “Due settimane sono poche”. Nell’alternativa “Due settimane è poco”, poco è un pronome indefinito in un’espressione ellittica in cui è sottinteso un sostantivo ricavabile dal contesto: “Due settimane è poco (tempo)”.
Raphael Merida
QUESITO:
Se una persona è defunta in quale maniera ci si riferisce “all’essere” della stessa: “Non credo che tutti sappiano chi lei sia / fosse / fu”?
RISPOSTA:
Tutt’e tre le alternative sono corrette. Il congiuntivo imperfetto fosse è ineccepibile; il passato remoto fu è legittimo, ma è più informale del congiuntivo. Anche il congiuntivo presente sia, pur insolito, potrebbe andar bene in questo contesto: per un fattore psicologico e affettivo, ci si potrebbe riferire al defunto come a una persona ancora viva nei nostri pensieri.
Raphael Merida
QUESITO:
I verbi essere e stare sono intercambiabili?
Ad esempio alla domanda “Dove sei?”, potrei rispondere usando il verbo stare e dire “Sto qui”?
C’è differenza tra “Sono alla cassa” e “sto alla cassa”?
Ci sono dei casi in cui il verbo stare non andrebbe usato?
RISPOSTA:
La confusione deriva dal fatto che spesso il verbo stare è usato legittimamente al posto del verbo essere in frasi, per esempio, che esprimono una condizione psicologica di una persona (“Sono in ansia” / “Sto in ansia”). Tuttavia, anche se esiste una forte continuità semantica fra essere e stare, ci sono dei casi in cui questi due verbi non sono intercambiabili. Per esempio, rispondere a “Dove sei?” con “Sto qui” in luogo di “Sono qui” è un tratto tipico dei dialetti meridionali, inclini a sostituire il verbo essere con il verbo stare (“Sto nervoso” al posto di “Sono nervoso”; “La sedia sta rotta” al posto di “La sedia è rotta”). Vista la sua natura regionale, occorre evitare questa forma in contesti formali.
Riguardo alla seconda domanda, la risposta è sì: sto alla cassa significa ‘svolgere la mansione di cassiere’; sono alla cassa, invece, ‘trovarsi vicino alla cassa’. A differenza di essere, il verbo stare, infatti, racchiude alcuni significati che designano una situazione duratura nel tempo (“Sono a Roma” significa ‘mi trovo a Roma’, “Sto a Roma”, invece, ‘abito a Roma’).
Raphael Merida
QUESITO:
Mi accade frequentemente che dei non madrelingua condividano con me i propri dubbi sull’omissione dell’articolo determinativo, desiderosi di trovare una (suppongo inesistente) sistematizzazione definitiva della regola. Oltre ai casi citati da Serianni nella “Grammatica italiana” (IV 72-75) non sono in grado di trovare una sistematizzazione di altri casi in cui l’articolo debba (o possa) venire omesso. La mia domanda è questa: I casi che non rientrano in quelli “canonici” descritti da Serianni come devono essere considerati? Come omissioni determinate da variazione diastratica/diamesica/diafasica, e quindi che non riguardano l’italiano standard, o come qualcos’altro che non riesco a comprendere cosa sia?
Ad esempio, l’ultimo dubbio che mi è stato posto riguarda la frase “Come conciliare lavoro e maternità?” e “Oggi a pranzo ho mangiato pastasciutta al tonno.”
RISPOSTA:
L’omissione dell’articolo è obbligatoria soltanto in alcuni dei casi elencati da Serianni (con i nomi propri, i titoli di opere d’arte, i nomi di mesi, i vocativi); in altri è comune ma non obbigatoria: “Il lunedì è il mio giorno preferito”, “Dov’è la mamma?”. In questi casi l’alternanza si spiega con la natura affine ai nomi propri di questi nomi, oppure con la loro alta frequenza d’uso come vocativi. Un’altra categoria di nomi per cui l’omissione è obbligatoria è quella dei nomi inseriti in espressioni cristallizzate: con calma, per favore, di fretta, da sballo, a rigore, ma anche a casa, in ufficio, a scuola, a teatro. Con questa categoria il problema è che la cristallizzazione delle espressioni non è predicibile; per esempio a teatro ma al cinema, in banca ma alla posta, in ufficio ma allo studio. Per di più, la cristallizzazione è “in movimento”: per esempio è già presente nell’uso panitaliano a studio accanto a allo studio (mentre in alcuni italiani regionali esistono a mare, a spiaggia e altre costruzioni simili).
Di là da questi casi, l’omissione è possibile con tutti i nomi comuni al plurale, per indicare oggetti indeterminati non specifici: “Per tutta la vita ho fatto il venditore di automobili” / “Mi piacciono le automobili veloci“. Diversamente, al singolare, l’omissione è tipica dei nomi massa, come pastasciutta nel suo esempio (ma anche caffè, oro, acqua ecc.); in questo caso la presenza o assenza dell’articolo modifica fortemente la percezione del nome: “Avete caffè?” (si riferisce alla merce) / “Abbiamo finito il caffè” (si riferisce alla riserva conservata in casa) / “Vuoi un caffè?” (si riferisce a una dose della bevanda). Nel primo caso, quello in cui il nome esprime pienamente la sua natura di sostanza non specifica, si può anche optare per del caffè, con il cosiddetto articolo partitivo.
Come i nomi massa si comportano anche i nomi astratti, come quelli del suo primo esempio: con lavoro e maternità si rappresentano i due nomi come valori astratti; con il lavoro e la maternità si allude alle loro manifestazioni concrete (dover alzarsi presto la mattina, dover rispettare orari, consegne e scadenze, dover reagire prontamente in caso di emergenze ecc.).
Per concludere, nei casi in cui l’omissione dell’articolo è facoltativa scegliere sulla base della sfumatura che si intende dare alla frase è arduo: l’unica soluzione per essere sicuri è chiedere a un madrelingua, che quasi mai avrà dubbi su quale variante sia preferibile, anche se quasi mai saprà spiegare perché. I madrelingua, infatti, memorizzano una gran quantità di casi, da cui ricavano le regole automaticamente e inconsapevolmente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere se la parola competenza può essere usata in un contesto come il seguente: “Non è di mia competenza pagare questa somma”. Il termine competenza farebbe pensare ad ‘abilità, conoscenza’ ecc, quindi dovrebbe essere improprio usarlo in una espressione come quella precedentemente citata; tuttavia mi capita frequentemente di sentirlo espresso in simili contesti.
RISPOSTA:
Nel contesto da lei presentato la parola competenza è pienamente legittima. Come giustamente osserva, competenza vuol dire ‘abilità, conoscenza’; questi significati, però, che non sono gli unici e, anzi, rappresentano soltanto uno dei campi semantici di questa parola. Nel suo significato più ampio, competenza indica la ‘capacità di orientarsi in un determinato campo’ (“Quella professoressa parla con competenza di ogni aspetto della storia moderna”); in quello tecnico, invece, cioè quello legato alla sfera giuridica, designa la ‘legittimazione di un’autorità o di un organo a svolgere specifiche funzioni’: “Questa causa è di competenza del giudice amministrativo”. Dal significato tecnico, il campo semantico di competenza si è esteso per indicare la ‘pertinenza’, cioè ciò che spetta a qualcuno (come nel suo esempio). Sempre connesso a questa sfera, il sostantivo plurale competenze indica il compenso: “Dobbiamo pagare all’avvocato le sue competenze”.
Raphael Merida
QUESITO:
Mi permetto di dissentire da questa vostra risposta. Quel chiunque sia non può essere inteso come nel caso di qualora o nel caso in cui?: “Qualora qualcuno fosse interessato, mi contatti”.
Oppure come nel caso di un passato: “(…) la denuncia può essere fatta da chiunque sia stato presente ad un fatto punibile o ne abbia avuta cognizione in altro modo, senza essere stato offeso, né danneggiato (…)” (“Codice di procedura penale del Regno d’Italia”, 1871).
O come nel caso di una concessiva: “Chiunque sia stato, non la passerà liscia”.
O come la formulazione di una ipotesi: “Una macchina che sia rotta non potrebbe gareggiare”.
RISPOSTA:
Se assimiliamo la costruzione chi fosse a se qualcuno fosse, con riferimento al presente, la costruzione chi sia dovrebbe essere assimilata a se qualcuno sia, che non è prevista in italiano (e si sovrapporrebbe funzionalmente a se qualcuno fosse). Gli esempi che lei fa per contestare questa spiegazione riguardano non chi, ma chiunque: quest’ultimo pronome contiene un tratto di forte indeterminatezza che ne favorisce l’associazione al congiuntivo anche al presente a prescindere dalla sovrapposizione del costrutto ipotetico. Per la verità, chiunque è obbligatoriamente accompagnato dal congiuntivo, proprio in virtù del suo significato indeterminato, particolarmente coerente con la sfumatura non-fattuale attribuita al congiuntivo.
Chi può comportarsi come chiunque, quindi prendere il congiuntivo anche al presente, se nella relativa c’è il tempo passato, che accentua la non-fattualità dell’evento (chi sia stato interessato è del tutto legittima). Questa osservazione risponde alla sua seconda ipotesi: il passato cambia le condizioni d’uso del congiuntivo (e faccio comunque notare che nella citazione del Codice non c’è chi, ma chiunque). Un’altra circostanza che favorisce l’uso del congiuntivo nella relativa è l’indeterminatezza dell’antecedente. Questa non si applica a chi, che non ha un antecedente esplicito, ma a che; la cito qui perché spiega il suo ultimo esempio: “Una macchina che sia rotta…”.
Per quanto riguarda il terzo esempio, infine, non solo questo ripropone l’associazione tra chi sia e chiunque sia stato, doppiamente indebita perché chiunque sia stato è indeterminato e passato, ma viene definito “caso di una concessiva”, mentre nella frase non è presente alcun legame logico di concessione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Alcuni vocabolari riportano la forma grafica “neoassunto”, altri no.
Scrivere “neo assunto” è comunque corretto?
RISPOSTA:
La grafia corretta è neoassunto, riportata anche dai principali dizionari dell’uso.
Neo-, che significa ‘nuovo, recente’, è un prefissoide di origine greca; si tratta cioè di un elemento lessicale dotato di autonomia semantica che può essere premesso a parole di qualsiasi origine (si pensi per esempio ad auto- nel significato di ‘da sé’ da cui si formano parole come autocoscienza, autocritica, automobile). Per queste ragioni, le parole composte con un prefissoide prediligono la forma univerbata a quella staccata.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se nell’esempio il presente indicativo del verbo potere è corretto: “Va in ospedale, dove incontra Virginia che gli chiede se può avere il fine settimana libero”.
RISPOSTA:
La frase è corretta. Se può avere è un proposizione interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro.
Può approfondire l’argomento inserendo come parole chiave “interrogativa indiretta” all’interno dell’Archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Gradirei sapere se l’affermazione “persona impositiva”, riferita ad un soggetto capace di farsi valere, può essere definita corretta.
RISPOSTA:
No, perché l’aggettivo impositivo è usato perlopiù in riferimento al tono, oppure in contesti burocratici, in riferimento a un provvedimento, un’autorità, una legislazione e simili, non a una persona. Naturalmente, è sempre possibile, con una certa forzatura semantica, che in qualche testo impositivo venga riferito a una persona, ma per esprimere il concetto di “che impone il proprio volere o autorità” esistono altri aggettivi in italiano, quali autoritario, oppure, con significato ancora più fortemente connotato negativamente, arrogante, dispotico, sopraffattore ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sarebbe possibile inserire una virgola tra un sostantivo e il suo aggettivo?
“Ha una bella macchina, rossa”
Oppure prima di una preposizione?
“È andato via, a casa”
RISPOSTA:
Sì, in certi contesti la virgola può dividere in più unità informative una struttura semantica altrimenti addensata in una singola unità testuale. In questo caso, l’aggettivo rossa in posizione conclusiva e separato dal nome attraverso la virgola crea un doppio fuoco informativo che mette in rilievo sia il fatto che la macchina è bella sia il fatto che la macchina è rossa.
La virgola si inserisce perfettamente anche nel secondo esempio: la separazione del sintagma preposizionale (a casa) dal resto della frase è favorita dalla posizione conclusiva del sintagma. Non avremmo potuto separare, invece, la preposizione dal nome con cui essa costituisce un sintagma (*a, casa).
Raphael Merida
QUESITO:
Non ho ben capito se il verbo interessare regge il complemento oggetto o il complemento di termine. Ad esempio nella frase «Mi interessa questo libro», «mi» che complemento è?
Quanto all’uso di anch’io/neanch’io, vanno bene queste frasi?
«Non vado al cinema». «Anch´io non vado» / «Neanch´io».
RISPOSTA:
Interessare può essere usato sia transitivamente (cioè col complemento oggetto: interessare qualcuno), sia intransitivamente (cioè col complemento di termine: interessare a qualcuno). Nonostante le sottili differenze semantiche rilevate dai vocabolari (interessare + compl. oggetto ha un valore meno intenso, e può significare sia ‘incuriosire’ sia ‘riguardare’: «l’esenzione interessa soltanto i maggiori di 60 anni»; interessare + compl. di termine significa ‘avere a cuore’: «a Laura interessava molto Raphael»), i due usi sono spesso intercambiabili, anche se la costruzione con il complemento di termine (cioè di interessare come verbo intransitivo) è molto più frequente. Per cui una frase come «Mi interessa questo libro» può valere sia ‘interessa me’, sia, più probabilmente ‘interessa a me’, tanto più se il complemento è espresso dal pronome clitico mi, ti ecc., che ha la medesima forma all’accusativo e al dativo. La costruzione transitiva, a differenza di quella intransitiva, può essere usata anche in riferimento alle cose: «l’interruzione interessa la strada statale 113» (e non *alla strada).
Anche non non è corretto in italiano. Con la negazione anche si trasforma in neanche, neppure o nemmeno: «Neanch’io» / «Neanche io varo al cinema» / «Non vado al cinema neanche io».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se una frase che comincia con “che peccato” abbia bisogno dei puntini di sospensione (tralasciando il punto esclamativo) o possa farne anche a meno. Esempi:
Che peccato dover andarmene così presto…
Che peccato sia morto così giovane…
RISPOSTA:
Che peccato! è di per sé una formula esclamativa che può indicare dolore, dispiacere o, in alcuni casi, ironia, quindi il segno interpuntivo richiesto è il punto esclamativo; in frasi che cominciano con che peccato però è possibile aggiungere i puntini di sospensione. Aggiungendoli, infatti, il discorso rimane sospeso volontariamente (in questo caso per reticenza o per un sottinteso allusivo) lasciando intendere però gli impliciti sviluppi. La prima frase può essere, per esempio, interpretata così: “Che peccato dover andarmene così presto… mi stavo proprio divertendo!”; la seconda, invece: “Che peccato sia morto così giovane… era un bravissimo ragazzo!”. Le stesse considerazioni valgono per “Che peccato…”, che lascia intendere all’interlocutore o al lettore qualcosa di non detto.
Raphael Merida
QUESITO:
“Chi fosse interessato mi contatti” o “chi sia interessato mi contatti”?
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato? (Chi era interessato, tre giorni fa, mi contatti adesso).
RISPOSTA:
La variante con il congiuntivo presente è ingiustificata, quindi da considerare errata. Le alternative possibili sono chi fosse… e chi è... Lei ha ragione a rilevare nell’imperfetto un valore di passato: in effetti il significato della prima frase potrebbe essere quello da lei inteso; tale significato astratto, però, sarebbe senz’altro scartato dai parlanti per via dell’incoerenza tra un interesse passato e l’azione presente. In altre frasi potrebbe, comunque, essere attivo; per esempio “Chi fosse vivo nel 1910 oggi è certamente morto”. Rimane da spiegare quale sia la differenza tra chi è… e chi fosse…. Il congiuntivo imperfetto aggiunge alla proposizione relativa una sfumatura di ipoteticità (chi fosse = se qualcuno fosse) assente nell’indicativo presente. A ben vedere, tale sfumatura è superflua, visto che la situazione descritta è già ipotetica in sé (il parlante non sa se qualcuno lo contatterà e chi sia questo qualcuno); i parlanti, però, dimostrano di apprezzare l’enfatizzazione di questo tratto, ottenuta proprio con il congiuntivo imperfetto, che avvicina, come detto, chi fosse a se qualcuno fosse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho notato che appurare e constatare sono dati per sinonimi dai vocabolari. Appurare dovrebbe stare per ‘accertare’, ‘verificare’; l’utilizzo di questo verbo presuppone che non si sia certo di un qualcosa.
Esempio:
- A) Ho appurato l’esattezza di questa teoria.
Il senso della frase dovrebbe essere questo: “Ho verificato/valutato l’esattezza di questa teoria”.
Quindi il verbo appurare si dovrebbe usare quando c’è un dubbio e si vuole verificare se un qualcosa sia vero o falso. Questo qualcosa potrebbe rivelarsi vero o anche falso, in questo caso una teoria, quindi non si sa se sia vera o falsa, in quanto ho fatto una verifica senza dare l’esito.
Esemplifico la stessa frase con il verbo constatare:
- B) Ho constatato l’esattezza della teoria.
In questo caso, il verbo mi dà l’impressione di non mettere in dubbio la cosa, bensì confermare e dimostrare, dare conferma del fatto e non investigare sulla veridicità, ma riconoscere come vero un qualcosa che è stato verificato in precedenza e il riscontro alla fine è stato favorevole, ovvero la teoria che poi si è rivelata esatta ed è una verità fattuale.
Si possono fare altri esempi:
- C) “Ho appurato la sincerità di quella persona. Ti posso dire che è meglio starne alla larga.”
D)”Ho constatato la sincerità di quella persona.”
Nella frase C con appurare dico di aver indagato, ma solo dopo la successiva frase ti faccio capire implicitamente che è una persona falsa facendoti capire l’esito del controllo che ho svolto
Nella frase D invece non ho bisogno di aggiungere altro, in quanto mi sono reso conto della sua sincerità e la posso confermare.
È proprio per questa enorme differenza, forse, che mi sembrerebbe strano dire: “Hai constatato se ci sono tutti”, in quanto constatare, oltre a verificare qualcosa, dà anche l’impressione proprio di confermare positivamente la cosa, senza lasciare la sfumatura del dubbio.
RISPOSTA:
I verbi appurare e constatare significano ‘accertare’, quindi sono legati da un rapporto di sinonimia. La distinzione più netta, che ha permesso la conservazione di entrambi i verbi, è di tipo diafasico; ciò significa che il loro uso varia a seconda del contesto situazionale: constatare è usato in ambito giuridico, appurare no.
In tutte le sue frasi i due verbi sono equivalenti. L’ultima frase (“Hai constatato se ci sono tutti”, alla quale occorre aggiungere il punto interrogativo alla fine), invece, è costruita in modo sbagliato: il verbo constatare, in questo caso, richiede l’uso di che + indicativo, quindi: “Hai constatato che ci sono tutti?”.
Per trovare una sfumatura di significato occorre risalire all’etimo: il latino constat (da constare) significa ‘è certo’, mentre purus significa ‘puro’, cioè il risultato dell’eliminazione delle impurità. Da queste considerazioni si ricava che appurare(derivato di purus) allude al processo di eliminazione dei dubbi per arrivare alla verità e constatare invece al risultato dello stabilire la verità.
Raphael Merida
QUESITO:
Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:
Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
RISPOSTA:
Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.
Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.
Raphael Merida
QUESITO:
“Le ricordo che, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”
Vorrei sapere se il periodo è sintatticamente corretto, oppure se sarebbe preferibile evitare di “spezzare” la proposizione principale con una subordinata (in questo caso, “qualora ci fosse…”).
RISPOSTA:
La frase è ben costruita e l’inciso, segnalato opportunamente dalle due virgole, non crea problemi alla comprensione del messaggio. Tuttavia, il testo, che sembra di natura amministrativa, può essere semplificato:
- spostando l’inciso all’inizio o alla fine del periodo, in modo tale da non spezzare la proposizione principale (“Qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.” / “Le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale”);
- sostituendo la congiunzione composta qualora con quella semplice se (“Se ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”);
- riducendo le informazioni non necessarie o ridondanti (in tempo reale non si presta bene a designare un servizio telefonico; semmai, potrebbe essere attribuito a un servizio di messaggistica istantanea).
Raphael Merida
QUESITO:
Ho dubbi sulla correttezza del condizionale in una frase indipendente come: “tranquillo: lui non si ALLONTANEREBBE” (senza il nostro consenso)
È corretto? Grazie
RISPOSTA:
Il condizionale nella dichiarativa (“lui non si allontanerebbe”) è ammesso e accentua la sfumatura semantica potenziale. Al posto del condizionale potremmo trovare anche un indicativo presente “lui non si allontana”, che sottolinea, invece, un’affermazione (“sono sicuro che lui non si allontana”).
Raphael Merida
QUESITO:
So che bene si usa con un verbo, ma non il verbo essere. Esempio: “Sto bene”, ma “La pizza è buona”. Vorrei sapere se le seguenti frasi siano corrette:
Non è bene fare questa cosa.
Non è buono fare questa cosa.
Non è un bene fare questa cosa.
RISPOSTA:
Bene può essere avverbio o nome: quando accompagna stare è usato come avverbio (sto bene = ‘mi sento in salute, a mio agio’); quando accompagna essere è usato come nome (è bene = ‘è cosa giusta, utile, vantaggiosa’, è un bene ‘è una cosa giusta, utile, vantaggiosa’). La variante “Non è buono fare questa cosa” è anche possibile (come, per esempio, “Non è onesto evadere le tasse”), ma è sfavorita proprio per la concorrenza di bene.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non mi è molto chiara la differenza tra i verbi essere e esserci.
Ad esempio alla domanda “C’è Mario?”, possiamo rispondere “Sì, c’è /Sì, è qui”, ma non va bene “Sì, c’è qui”, ma non capisco perchè, invece, va bene dire “C’è un uomo qui”.
RISPOSTA:
Il verbo esserci significa proprio ‘essere in luogo’, quindi l’espressione c’è qui è inutilmente ripetitiva. La ripetizione, però, è ammessa, e in certi casi necessaria, se la frase è marcata, cioè è costruita per mettere in forte evidenza una certa informazione, per segnalare il collegamento tra la frase e il resto del testo o per precisare quale sia la rilevanza della frase nel contesto situazionale. Nella frase “C’è un uomo qui”, per esempio, il parlante precisa che l’uomo si trova nello stesso luogo in cui si svolge la conversazione, perché dal suo punto di vista la presenza dell’uomo è rilevante soltanto in relazione al luogo (per esempio perché è sorpreso di trovare un uomo in quel luogo). Va detto che tale frase sarà pronunciata con una pausa prima di qui, a dimostrazione del fatto che l’informazione qui è isolata rispetto a c’è un uomo, come se fosse un elemento aggiunto a parte. Nello scritto, tale pausa può essere rappresentata con una virgola, quindi “C’è un uomo, qui”. La stessa costruzione può adattarsi a “C’è Mario, qui” soltanto in assenza della domanda precedente (“C’è Mario?”): se il parlante risponde alla domanda, non ha motivo di precisare qui, perché la presenza nel luogo è presupposta proprio nella domanda. A sua volta, la domanda può essere costruita in modo marcato: “C’è Mario, qui”, per precisare che l’interesse per la presenza di Mario è legato proprio al luogo in cui si svolge la conversazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?
RISPOSTA:
La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta questa frase?
“Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che coloro che anche ultimissimi saranno premiati”.
Il senso è che anche gli ultimi arrivati in una gara porteranno a casa qualcosa.
RISPOSTA:
La frase non è corretta dal punto di vista sintattico e necessita di essere riscritta. Suggerirei alcune riscritture semplificate:
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che anche gli ultimissimi saranno premiati”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che saranno premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu coloro che saranno arrivati anche ultimissimi premiati”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati coloro che saranno arrivati anche ultimissimi”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”.
Raphael Merida
QUESITO:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.
Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
RISPOSTA:
La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).
Raphael Merida
QUESITO:
In frasi come la seguente, il valore del costrutto mi sembra temporale o causale:
- Alla mia vista, è rimasto sorpreso = quando mi ha visto è rimasto sorpreso.
Nelle seguenti frasi mi sembra più vicino ad un complemento di luogo che temporale o causale:
- È davvero piacevole alla vista.
- Si trova tutto alla tua vista = si trova tutto davanti a te.
- È stato messo più alla vista di qualsiasi altra cosa.
Nella 4. si potrebbe utilizzare anche “in vista”, che infatti suona (quantomeno a me) più naturale.
In ogni caso, è un ragionamento corretto il mio o ci sono delle falle evidenti?
RISPOSTA:
- Alla vista assume un valore temporale-causale, perfettamente traducibile come ha fatto lei (“quando mi ha visto, è rimasto sorpreso”, oppure “a causa del fatto che mi ha visto, è rimasto sorpreso”).
- Si tratta di un complemento di vantaggio (“è piacevole [a vantaggio di che cosa?] alla vista”).
- Indica un complemento di stato in luogo (“si trova tutto [dove?] alla tua vista).
- Alla vista coincide con la locuzione in vista; tuttavia, riformulerei la frase 4 cambiando il verbo mettere, che richiama alla mente la locuzione cristallizzata mettere in (bella) vista ‘esporre qualcosa alla vista di tutti’. Sostituendo il verbo mettere con esporre possiamo scrivere la seguente frase senza alcuna ambiguità nell’uso delle locuzioni alla vista/in vista: “È stato esposto alla vista più di qualsiasi altra cosa”.
L’ultima frase, in cui alla vista o in vista rappresenterebbe comunque un complemento di stato in luogo, evidenzia bene un concetto già espresso più volte in molte risposte di DICO (può cercare le varie risposte scrivendo la parola chiave complementi): per comprendere le strutture sintattiche e lessicali di una lingua, alle volte, non è necessario applicare acriticamente la tassonomia dei complementi a tutti i sintagmi della frase, ma occorre proporre diversi tipi di analisi che tengano conto dei parametri sintattici e semantici della frase.
Raphael Merida
QUESITO:
1) “Non riesco a crederci che sia andata così”. È corretto l’uso della particella ci oppure sarebbe più corretto usare solamente l’infinito “Non riesco a credere che …”. Perché?
2) “Se ne hai voglia, leggi questo libro”. È corretto l’uso di ne oppure sarebbe più corretto scrivere/dire “Se hai voglia…”. Qual è la differenza?
3) “In più, consiglio di dare un’occhiata, anche a questi libri”. È ammissibile la virgola dopo consiglio di dare un’occhiata oppure viola le norme della punteggiatura?
4) Dei clienti entrano in un ristorante; dovrebbero dire: “Buongiorno, siamo quattro” oppure “… siamo in quattro?” C’è una differenza?
RISPOSTA:
1) Il pronome atono ci in crederci serve ad anticipare il tema: “Non riesco a crederci che sia andata così”. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato. Si tratta di un costrutto tipico del parlato o dello scritto informale.
2) Sì, è corretto. Il sostantivo voglia unito al verbo avere (“avere voglia”) richiede l’argomento di ciò di cui si ha voglia, per avere senso; deve essere seguito, quindi, dalla preposizione di (“ho voglia di”). La frase può essere infatti parafrasata come segue: “Se hai voglia di leggere, leggi questo libro”. Il ne sostituisce il complemento di tipo argomentale di leggere.
3) No, non è ammissibile. Non bisogna mai separare con una virgola il predicato dall’oggetto. In questo caso il predicato è formato dalla locuzione dare un’occhiata, facilmente parafrasabile con guardare. Questo tipo di costrutti è definito dai linguisti “a verbo supporto” (per questo argomento la rimando alla risposta Fare piacere, i verbi supporto e i verbi causativi).
4) In questo caso non esiste una regola precisa, ma potrebbe esserci una sottilissima sfumatura semantica tra le due varianti. La presenza della preposizione tra il verbo e il numerale (“siamo in quattro) sembra indicare un gruppo definito di persone, il cui numero non è casuale ma già stabilito; l’assenza della preposizione (“siamo quattro”), invece, dà l’idea di un gruppo il cui numero è variabile e in corso di definizione. La preposizione in è essenziale, infine, con i verbi diversi da essere: “Giocheremo in cinque”, “Abbiamo viaggiato in venti” ecc.
Raphael Merida
QUESITO:
- Forse al 23 di Ottobre saremo già salvi.
In italiano standard si direbbe:
- Forse il 23 di Ottobre saremo già salvi.
Tuttavia (a proposito della frase “a”) la preposizione articolata al posto dell’articolo mi sembra piuttosto ricorrente, sentendo anche parlare gente di diverse zone d’Italia, da nord a sud.
È solo un regionalismo/dialettalismo oppure è ammissibile anche in italiano standard?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette e si differenziano per una leggera sfumatura semantica. La frase 1., formata con la preposizione articolata al prima della data, indica l’idea di tempo continuato, cioè per quanto tempo dura l’azione o la circostanza espressa dal verbo: “forse (da questo momento fino) al 23 ottobre saremo salvi”; la frase 2., formata con l’articolo determinativo il, specifica un tempo determinato, cioè il momento esatto in cui si verificherà l’azione espressa dal verbo. Entrambe le frasi possono essere scritte anche senza la preposizione di prima del mese senza che il significato cambi.
L’indicazione della data con l’articolo determinativo maschile singolare è una caratteristica dell’italiano moderno. Anticamente, infatti, l’articolo era condizionato dal numerale seguente: per il numero ‘1’ l’articolo era il (oppure al, nelecc.: «il primo di giugno»; dal numero ‘2’ in poi i (oppure ai, nei ecc.: «ai 23 di ottobre»). L’articolo plurale li (oggi non più in uso) permane tuttora in alcuni formulari burocratici: Roma, li 13 luglio (sull’erronea accentazione di li rimando alla risposta Numeri, date, forme con q e con g dell’archivio di DICO).
Segnalo, infine, che i nomi dei giorni della settimana e dei mesi vanno scritti con la lettera minuscola, quindi lunedì, giugno ecc.
Raphael Merida
QUESITO:
“Mai che qualcuno dica” o “dicesse la verità”?
Quale delle due va bene? E di che tipo di costruzione si tratta?
RISPOSTA:
L’alternativa con il congiuntivo presente è certamente preferibile, quella con il congiuntivo imperfetto sarebbe corretta nell’italiano standard per riferirsi al passato: «mai che qualcuno dicesse la verità quando frequentavo quelle persone»; può, però, valere anche per riferirsi al presente: «mai che qualcuno dicesse la verità quando gli chiedi spiegazioni». Questo secondo uso è di provenienza regionale ed è substandard (cioè ancora non del tutto corretto), ma sempre più accettato e diffuso nella lingua parlata.
Il costrutto mai che + congiuntivo, di recente diffusione, è sicuramente informale perché il che è polivalente (come nei costrutti, ugualmente di recente diffusione, mica che, solo che, certo che…). Sui vari usi di che la rimando alla risposta Un che, tante funzioni dell’Archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della virgola. Sono abituata a scrivere frasi del tipo “vi comunico, con grande piacere, che oggi pomeriggio…”. È corretto mettere “con grande piacere” tra le virgole? Io lo considero un inciso.
RISPOSTA:
Nel suo esempio le virgole sono corrette, così come sarebbe corretta la variante senza virgole. La scelta di separare dal nucleo della frase un complemento con funzione di espansione (con grande piacere, in questo caso) è arbitraria. Sarebbe indispensabile, invece, se l’inciso fosse composto da una subordinata che precede la proposizione principale: «Manifestando il mio grande piacere, vi comunico che…».
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei capire se in questo elenco («camicie a righe, a disegni, a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, coi monogrammi in indaco») le due coppie di colori – corallo e verde mela, lavanda e arancione chiaro – sono riferite soltanto alle camicie a scacchi o all’intero elenco di camicie. E, nel secondo, caso se a tutt’e tre i tipi di camicia.
Questa citazione è tratta da “Il grande Gatsby”.
RISPOSTA:
Il dubbio può essere sciolto controllando la versione originale del testo: «shirts with stripes and scrolls and plaids in coral and apple-green and lavender and faint orange, with monograms of Indian blue». Stando al testo in inglese, sarei orientato ad affermare che i colori non si riferiscono necessariamente ai tipi di camicie descritti prima; lo si deduce dalle preposizioni che seguono la parola shirts ‘camicie’: with, in e dopo ancora with. Si suppone, quindi, che le camicie siano di vario genere (a righe e a disegni e a scacchi) e di vari colori (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). La presenza della virgola prima di with monograms (coi monogrammi in indaco) mi pare dimostri quasi sicuramente il riferimento dei monogrammi a tutti i tipi di camicia. Del resto, una persona cifra tutte le camicie (per marcarne l’appartenenza e l’identità), non solo un certo tipo. Sia i colori sia il monogramma, quindi, si riferiscono, a mio modo di vedere, a tutte le camicie, non soltanto a quelle a scacchi.
La traduzione in italiano, pur fedele, rende meno tutta la distinzione che, invece, si nota meglio nel testo originale (anche se l’assenza della virgola dopo plaids lascia un certo margine di ambiguità). La differenza fra testo originale e traduzione risiede nel modo di elencare: il primo per polisindeto, cioè attraverso l’accumulo della congiunzione and (e); il secondo per asindeto nella prima parte (a righe, a disegni, a scacchi) e per polisindeto nella seconda (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). L’elencazione per polisindeto rallenta la prosa, quella per asindeto, al contrario, la velocizza.
Raphael Merida
QUESITO:
1) Sarebbe stato meglio che tu fossi andato via.
2) Sarebbe stato meglio che tu andassi via.
Parliamo di due frasi corrette, anche se credo sia preferibile la a.
Io ho sempre visto, in questi contesti, l’imperfetto congiuntivo e il congiuntivo trapassato come due opzioni altamente interscambiabili, ma forse è una mia percezione erronea.
C’è invece qualche differenza tra la prima e la seconda frase da un punto di vista semantico?
RISPOSTA:
Le due frasi hanno significato diverso. La frase 2 indica un rapporto di contemporaneità tra il momento di riferimento (quello dell’essere meglio) e il momento dell’azione (quello dell’andare); il momento dell’andare, cioè, era lo stesso in cui l’azione sarebbe stata preferibile. La frase 1, invece, esprime un rapporto di anteriorità del momento dell’azione rispetto a quello di riferimento. La differenza si capisce meglio se allarghiamo il contesto:
- Grazie per aver fatto la spesa, ma sarebbe stato meglio che ci fossi andato io.
- Sei stato imprudente: sarebbe stato meglio che tu non parlassi così apertamente durante l’intervista.
Anche se la 2 è legittima, essa viene sfavorita dalla sovrapposizione di questa costruzione con quella del periodo ipotetico, per cui a un condizionale passato nell’apodosi di solito corrisponde un congiuntivo trapassato nella protasi (sarebbe stato meglio che tu fossi andato = sarebbe stato meglio se tu fossi andato). In seguito a questa confusione, la 1 viene usata sia nel suo valore proprio (anteriorità dell’azione rispetto a un momento di riferimento passato), sia in quello che sarebbe proprio della 2 (contemporaneità dell’azione con un momento di riferimento passato).
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non mi è del tutto chiaro quando è considerato accettabile sostituire che con il quale/la quale/i quali/le quali.
Da quanto ho capito è frequente e accettata la sostituzione in una relativa esplicativa in cui il pronome è soggetto (es: «Più tardi verrà a trovarci il nuovo vicino, il quale si è trasferito qui da sole due settimane».)
Sono considerate accettabili le forme composte come oggetto nelle relative esplicative (es: Paola e Giovanna, le quali hai conosciuto l’altro giorno alla festa, mi hanno detto che hanno intenzione di trasferirsi a Parigi.)
Inoltre, sono ancora considerate accettabili le forme composte nelle relative restrittive, o è ormai percepita come “strana”, se non errata?
Ad esempio:
Mi piacciono i fumetti che/*i quali propongono avventure.
Mi porteresti la borsa che/*la quale ho dimenticato nel portabagagli?
Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.
Stavo alla finestra a osservare le persone che/*le quali passavano.
Cerco un gatto che/il quale* ha il pelo nero e il muso bianco.
È raro incontrare una persona che/*la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio.
RISPOSTA:
Le sue considerazioni sono tutte giuste. Nelle relative esplicative il quale è usato in modo intercambiabile con che, sebbene ne rappresenti la variante più formale. Nelle relative limitative il quale è ancora usato, sebbene in modo minoritario, quando l’antecedente è un numerale, un pronome indefinito o un sintagma indeterminato come nell’esempio «È raro incontrare una persona la quale abbia dedicato tutta la vita allo studio»; quando invece l’antecedente è un sintagma determinato è impossibile la sostituzione: «Il mio amico *il quale ti ho presentato l’altro anno è morto ieri». Sulle relative esplicative e limitative la rimando alla risposta Relative limitative o esplicative contenuta nell’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
(1) Chiedo alle persone che conoscessero già la risposta di restare in silenzio.
(1a) Volevo confermare che nella proposizione relativa possiamo sostituire conoscessero sia al congiuntivo presente conoscano sia all’indicativo conoscono senza cambiare la semantica della proposizione. In altre parole, il valore del congiuntivo (sia all’imperfetto sia al presente) è diafasico, giusto? La proposizione relativa è propria, giusto? È soltanto una questione del registro.
Prendiamo un’altra frase che mi sembra strutturalmente simile:
(2) Possono iscriversi al primo anno tutti coloro che abbiano passato l’esame di amissione.
(2a) La struttura della frase sembra uguale alla frase dell’esempio 1 nel senso che c’è un requisito o una limitazione, giusto?
(2b) Possiamo sostituire avessero passato e avevano passato per abbiano passato senza cambiare la semantica della frase? Anche qui i diversi modi dei verbi sono soltanto una cosa del registro e i valori sono diafasici?
(2c) Come possiamo capire che il pronome relativo che non può essere sostituto per esempio con “tale che” per darle una sfumatura di una proposizione consecutiva.
RISPOSTA:
Nelle frasi 1 e 2 si può sostituire il congiuntivo con l’indicativo senza alcun cambiamento di significato; la scelta tra i due modi è un fatto che determina il maggior o minor grado di formalità. Sulla scelta fra presente e imperfetto congiuntivo la rimando alle seguenti risposte nell’archivio di DICO: Congiuntivo e consecutio nella proposizione relativa e Relative improprie.
QUESITO:
La frase di partenza viene da Moravia:
(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.
Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:
(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).
Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?
(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:
“Mi ci faceva credere”.
Per me, il pronome mi ha valore di “a me”. Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.
RISPOSTA:
Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.
L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.
Raphael Merida
Quesito:
Ho un dubbio riguardo alla corretta interpretazione dell’uso di anche nella seguente frase:
Si consiglia intervento psico-educativo (2-4 ore a settimana, anche in piccolo gruppo).
Sulla base delle diverse definizioni del significato di anche“, sembrerebbe che la frase dovrebbe interpretarsi nel seguente modo:
Si consigliano 2/4 ore di intervento psico-educativo e anche 2/4 ore del medesimo intervento da svolgersi in piccolo gruppo (per un totale dunque di 4/8 ore).
L’interpretazione in senso “additivo” di anche del secondo elemento intervento in gruppo rispetto al primo elemento intervento sottinteso è corretta? L’interpretazione, se corretta, può definirsi univoca o può essere ambigua?
RISPOSTA:
Il significato di anche nella frase è senza dubbio rafforzativo; con esso, cioè, si ammette che l’intervento descritto precedentemente venga svolto nella modalità indicata subito dopo (in piccolo gruppo). Non bisogna, quindi, considerare l’intervento in piccolo gruppo come aggiuntivo rispetto a un altro intervento da svolgere con modalità diversa. Si tratta comunque di un’aggiunta, a ben vedere, ma ciò che viene aggiunto è una modalità alternativa per lo stesso intervento, non un ulteriore intervento. Se fosse aggiunto un intervento, la frase sarebbe stata formulata diversamente, esplicitando i termini salienti dell’intervento aggiuntivo (2-4 ore); per esempio (2-4 ore a settimana in seduta individuale e anche / inoltre 2-4 ore in piccolo gruppo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “una madre di un ragazzo ogni giorno mette il suo zaino nell’entrata per ricordarglielo”, non ci sono errori o possibili equivoci nel pronome “suo”? Come ci si deve regolare in questi casi per non sbagliare?
RISPOSTA:
In questo caso non mi sembra vi siano equivoci, sia per motivi contestuali (perché mai la madre dovrebbe indurre il figlio a prendere il proprio, anziché il suo, zaino, per andare a scuola?), sia per motivi morfologici: infatti, se si volesse specificare l’appartenenza dello zaino al soggetto della frase (cioè, alla madre), si sarebbe potuto utilizzare proprio, per evitare ambiguità. In altri contesti, qualora vi fosse ambiguità, è suggeribile sostituire il possessivo con un sintagma disambiguante: «Luca accompagna Laura a casa di lei»; anche se, pure in questo caso, basterebbe sua, se ci si riferisce alla casa di Laura, propria se ci si riferisce a quella di Luca.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.
RISPOSTA:
Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei capire meglio la differenza tra i seguenti termini: serio / serioso: una persona seriosa è una persona pesante?
Emozionante / emozionale: può un bracciale essere emozionale perché richiama delle emozioni?
A tempo, per tempo, in tempo-di fretta, in fretta: comprendo la differenza tra andare in fretta e andare di fretta ma, ad esempio, nel caso di «mangiare» si dice «mangiare di fretta» o «mangiare in fretta»?
Solo, da solo
RISPOSTA:
Sì, una persona seriosa è una persona pesante, che si prende troppo sul serio; anche un argomento può essere serioso.
Emozionale ha un uso molto limitato, sebbene oggi se ne abusi per influenza dell’inglese emotional, per cui non mi meraviglierei se anche un bracciale venisse (impropriamente) definito emozionale, anche se a rigore emozionale non è ciò che produce emozioni, bensì ciò che riguarda le emozioni, quindi si può parlare di stato emozionale (o emotivo).
Meglio «mangiare in fretta»; «di fretta» di solito si riferisce a andare o essere (ma non solo): «vado di fretta», «sono di fretta» = «ho fretta». Comunque, non è scorretto dire «mangiare di fretta».
Solo e da solo sono spesso intercambiabili: «sono sempre solo / da solo». Ma a volte non sono equivalenti: «riesci a farlo da solo» vuol dire ‘senza l’aiuto di nessuno’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo questa frase che ho avuto modo di leggere recentemente: “Il tempo è una dimensione nell’ambito della quale avviene la trasformazione della materia”. È corretto il termine “dimensione” riferito al tempo? Se sì, sarebbe altrettanto corretto usare il termine “entità” che, nella sua estrema genericitâ, dovrebbe contenere anche il concetto di tempo?
RISPOSTA:
Da un punto di vista fisico, secondo la teoria della relatività, il tempo è una dimensione, per la precisione la quarta; tuttavia, da un punto di vista più generale, qualunque oggetto o concetto può essere definito entità (cioè qualcosa che è), e dunque anche il tempo. Quindi entità è l’iperonimo (cioè il termine più generale), mentre dimensione è l’iponimo (cioè il termine più specifico). Ed è sempre possibile definire un iponimo con il suo iperonimo: dire di un fiore con le spine che è una rosa non esclude che sia anche un fiore e prima ancora un vegetale.
Fabio Rossi
QUESITO:
mi sarebbe gradito il vostro parere relativamente alla correttezza del termine metafora riferito ad un’opera letteraria. Mi sembra molto più appropriato, in questo caso, l’uso del termine allegoria; però mi è capitato frequentemente di imbattermi anche nella prima soluzione. Faccio un esempio: “Quest’opera è una metafora della vita”.
RISPOSTA:
Senza dubbio il termine allegoria sarebbe più appropriato, dal momento che rimanda, usualmente, a un complesso di concetti simbolici, piuttosto che al singolo uso traslato di una singola parola o espressione (come invece fa la metafora). Tuttavia, spesso il termine metafora è usato nel senso meno tecnico e più lato (e prossimo quindi a quello di allegoria) di ‘uso allusivo, simbolico’, e dunque si può accettare anche «un’opera come metafora della vita».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Quell’esame di laboratorio si avvale dell’uso di sostanze radioattive”. Desidererei sapere se il verbo in questione può riferirsi ad una procedura oltre che a colui o a coloro che tale procedura pongono in atto.
RISPOSTA:
Non sono sicuro di aver ben compreso la sua domanda: vuole sapere se il verbo avvalersi può ammettere un soggetto inanimato (quell’esame), oppure soltanto animato (i tecnici di laboratorio)? Se la domanda è questa, la risposta è sì, il verbo avvalersi, benché propriamente riferito a soggetti animati, può, per metonimia, riferirsi anche a soggetti inanimati che indichino, per traslato, le persone. È evidente che con esame di laboratorio si intende qui la persona o le persone che hanno eseguito quell’esame.
Fabio Rossi
QUESITO:
1.Probabilmente non ci sarebbe nessuno che mi desse/darebbe una mano.
2.Se avessi cercato aiuto, non avrei trovato qualcuno che mi desse/avrebbe dato una mano.
3.Se fosse il caso, te lo direi prima che tu te ne vada/andassi/andresti.
4.Se fosse stato il caso, te lo avrei detto prima che tu ne andassi/fossi andato/saresti andato.
Secondo me, nelle prime due frasi si può usare sia il congiuntivo imperfetto che il condizionale presente (1) e passato (2).
In merito alla terza, per una questione di orecchiabilità, direi corretto l’imperfetto e un po’ meno il congiuntivo presente, mentre “no” assoluto per il condizionale presente, che con “prima che” non penso sia compatibile.
In merito alla quarta, va bene l’imperfetto e congiuntivo trapassato, mentre, come dicevo prima, no per il condizionale passato in quanto incompatibile con “prima che”.
Cosa ne pensa? Sono considerazioni corrette oppure ravvisa degli errori di valutazione?
RISPOSTA:
Le sue interpretazioni mi sembrano ineccepibili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il condizionale passato può essere impiegato – come spiegato a più riprese – per indicare il futuro nel passato; può, però, esprimere anche anteriorità rispetto a un dato momento di riferimento e, nel contempo, mantenere la sua funzione di eventualità?
In un periodo come quello riportato più sotto, l’azione descritta con il condizionale passato sarebbe interpretata come anteriore, posteriore (rispetto a quella della subordinata) o sarebbero possibili entrambe le soluzioni?
1. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero lasciato la spiaggia.
In assenza di altri elementi, la semantica mi porterebbe a optare per l’interpretazione posteriore; ma, in astratto, potrebbe anche essere vero il contrario.
Con verbi differenti, ad esempio, non avrei alcuna esitazione a stabilire il rapporto tra le due proposizioni.
2. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa (condizionale passato = posteriorità rispetto al congiuntivo trapassato: Laura raggiunge lo stabilimento e i suoi amici, dopo, vanno a casa).
3. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero stati a casa (condizionale passato = anteriorità rispetto al congiuntivo trapassato. Laura raggiunge lo stabilimento, ma i suoi amici se ne sono andati a casa).
In sintesi, il condizionale passato, a seconda dei casi, può esprimere anteriorità o posteriorità rispetto a un momento di riferimento (anche tralasciando l’enunciazione), come negli esempi sopra indicati?
Riguardo al periodo 1, l’inserimento di un avverbio come già potrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione temporale dell’azione, spingendo a considerare la proposizione espressa con il condizionale passato nel passato rispetto alla subordinata? (“Laura sapeva che nel momento in cui avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero già lasciato la spiaggia” = Gli amici di Laura hanno lasciato la spiaggia prima che lei abbia raggiunto lo stabilimento).
RISPOSTA:
Il condizionale descrive un evento condizionato rispetto a un altro condizionante (tipicamente costruito con una proposizione ipotetica); il rapporto tra la condizione e la conseguenza attiva automaticamente un rispecchiamento temporale in cui la condizione precede la conseguenza. Questa funzione modale e temporale che lega la proposizione con il condizionale alla proposizione con il congiuntivo (o l’indicativo) da essa dipendente si intreccia con quella relativamente temporale che lega la stessa proposizione con il condizionale a quella che la regge (se la frase la prevede). In questa seconda relazione entra in gioco il valore di futuro nel passato.
In particolare, quando la reggente è al presente, quindi il momento dell’enunciazione è presente, il condizionale passato descrive un evento anteriore, quindi passato: “Penso [adesso] che lui avrebbe agito diversamente [nel passato] se le condizioni lo avessero consentito”. Lo stesso vale se il momento dell’enunciazione è futuro: “Ti renderai conto che lui avrebbe agito diversamente…”. Se il momento dell’enunciazione è passato, la funzione relativamente temporale del condizionale passato diviene di posteriorità (è il cosiddetto futuro nel passato). Per questo, nelle sue tre frasi, gli eventi al condizionale passato sono sempre successivi a quello del sapere espresso nella proposizione principale Laura sapeva. Per quanto riguarda la relazione tra la proposizione con il condizionale e la subordinata al congiuntivo nelle sue frasi, bisogna considerare l’ambiguità provocata dalla semantica dei verbi e dalla congiunzione che introduce la subordinata stessa. Nella frase 1 non c’è dubbio che l’evento del lasciare sia conseguente, quindi anche successivo, a quello del raggiungere; nella frase 2 l’evento dell’andare potrebbe essere avvenuto precedentemente a quello del raggiungere, quindi potrebbe non esserne la conseguenza. Questa possibilità vale perché la locuzione congiuntiva nel momento in cui ammette un’interpretazione temporale, quindi è possibile che l’andare segua il sapere ma preceda il raggiungere. Questa interpretazione non sarebbe possibile se al posto di nel momento in cui ci fosse se (“Se avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa” = gli amici vanno certamente via come conseguenza dell’arrivo di Laura, quindi dopo). Lo stesso vale a maggior ragione per la frase 3, in cui il verbo essere costringe a un’interpretazione anteriore rispetto a raggiungere (ma comunque sempre successiva a sapere), perché indica uno stato e non un’azione (diversamente da lasciare e andare). Nella frase, infatti, la congiunzione se sarebbe ammessa soltanto con una sfumatura concessiva (se = anche se), perché rappresentare un evento precedente a un altro come la conseguenza di quest’ultimo sarebbe incoerente. Ovviamente, l’aggiunta di già enfatizza la precedenza dell’essere rispetto al raggiungere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non sempre riesco a trovare la preposizione giusta, proprio come nel caso dei verbi e aggettivi seguenti:
discutere di politica so che é corretto ma va anche bene ´discutere di Carlo o su Carlo´?
parlare di musica o sulla musica
persuado Ines a iscriversi…
sono persuaso di o a
mi sono persuaso di o a
convinco Ines di o a
mi convinco di o a
mi sono convinto di o a
fortunato di o a
sono d´accordo di o a
badare di non cadere o a non cadere
sono deluso di o per aver perso
Come ci si comporta quando non si riescono a trovare le giuste preposizioni per un verbo, un aggettivo … nel dizionario?
RISPOSTA:
La scelta della preposizione è tutt’altro che semplice, anche per i madrelingua. In caso di dubbio, i vocabolari migliori aiutano quasi sempre, perché di solito specificano le principali reggenze preposizionali soprattutto dei verbi, talora anche dei sostantivi e degli aggettivi. I dizionari più utili in questo senso sono il Sabatini Coletti (gratuitamente consultabile nel sito del Corriere della sera), il GRADIT di Tullio De Mauro (gratuitamente consultabile nel sito internazionale.it) e il Nuovo Devoto Oli. Vediamo ora i suoi casi specifici.
«Discutere di politica», «di Carlo» vanno benissimo. Si può anche discutere su qualcosa, però è sicuramente una scelta più formale o adatta a una discussione più specifica, non per parlare del più e del meno, per cui «discutere su Carlo», ancorché corretto, suonerebbe un po’ strano.
«Parlare di musica» è la scelta migliore. Se si sta parlando a un convegno si può dire anche «fare una conferenza sulla musica di Chopin». Su presuppone un parlare più specificamente, mentre di ha un uso esteso a tutte le situazioni.
«Persuado Ines a iscriversi»: benissimo.
«Sono persuaso di» va bene, ma è possibile anche a, che accentua il fine: «mi persuasi ad ascoltarlo», «sono persuaso di volerlo fare».
«Convinco Ines di o a» vanno bene entrambi, ma, se il contesto sottolinea il fine, allora è meglio a, come per persuadere: «Convinco Ines a venire a cena con me», «sono convinto di volerla invitare a cena».
«Fortunato di» è meglio di «fortunato a», se segue una proposizione infinitiva, ma se segue un nome si può usare solo a: «sono fortunato di giocare a tennis con te», ma «sono fortunato al gioco», «a carte». Ma è possibile anche di in alcuni casi: «fui fortunato del risultato». Ed è possibile anche in: «fortunato in amore». Dipende dal contesto: in certe espressioni è meglio a, in altre di, in altre in: in casi simili la consultazione del vocabolario è indispensabile.
«Sono d’accordo» può reggere sia di sia a. «Sono d’accordo di finire prima», «è d’accordo a vendermi la moto». Per l’argomento su cui si è d’accordo si usa su: «essere d’accordo su qualcosa».
«Badare di non cadere» o «a non cadere» vanno bene entrambi, il primo è più comune.
«sono deluso di» o «per aver perso» vanno bene entrambi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Ne ha preparate tre, poi gliele ha spedite per congratularsi del suo successo” quali sono le funzioni sintattiche dei pronomi? Ecco la mia proposta:
Ne = pronome personale atono, compl. specificazione o partitivo
Tre = pronome numerale, complemento di quantità? O forse più genericamente compl. specif.
Gliele = pronome personale. Gli: compl. termine. Le: compl. ogg.
Si (congratularsi) = pron. personale, intransitivo pronominale.
Suo = agg. possessivo, compl. specif.
RISPOSTA:
Le sue analisi sono sostanzialmente corrette, tranne i seguenti punti:
Tre = complemento oggetto. Il si contenuto nel verbo congratularsi, che è intransitivo pronominale, non ha una funzione sintattica precisa, ma contribuisce alla costituzione del significato del verbo (forse lei intendeva proprio questo nella sua analisi, ma non è chiaro). Suo è l’unica parola tra quelle analizzate che non è un pronome, ma un aggettivo; dal punto di vista sintattico gli aggettivi non svolgono la funzione di complementi ma sono analizzati come attributi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tre esempi da <> Elisa Morante
(1) (p234 ): Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza CHE subito appena svegli incominciavano a mischiarsi fra loro due in giochi e risate……
Il che mi pare una congiunzione. Quale tipo di proposizione èa la subordinata? Una dichiarativa?
Possiamo trasformare la frase cosi:
Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza INCOMINCIARE subito appena svegli a mischiarsi far loro due in giochi e risate…
(2) p227 e mentr’esse, in coro, gli magnificavano quel nuovo figlio, lui gli accordò solo un’attenzione opaca distratta, con l’aria di un ragazzo forastico, e cresciuto fuori della famiglia, A CUI LE SORELLE MINORI MOSTRASSERO la propria bambola.
La subordinata dopo a cui è una proposizione relativa impropria consecutiva? Possiamo scriverla cosi:
in modo tale che le sorelle minori mostrassero la propria bambola?
L’indicativo e’ anche accettabile?
(3) p. 264 Intanto SI SAPPIA …che il fatale bacio, nella mia memoria capricciosa, s’era fatto più ingenuo del vero (come una musica di cui SI RAMMENTI solo il semplice tema).
Si sappia viene considerata l’imperativo o l’esortativo?
Possiamo anche usare Si RAMMENTA senza cambiare il significato della subordinata? (non mi sembra ne’ una proposizione finale ne’ consecutiva).
RISPOSTA:
1) Il primo caso è una relativa dipendente da verbi di percezione, che può essere trasformata in una completiva. Pertanto: in «li udivo che incominciavano» il che è relativo, ma se trasformiamo la frase in una completiva (con il medesimo significato) il che diventa completivo: «udivo che loro incominciavano». È, come dice lei, possibile anche la trasformazione in relativa/completiva implicita: «li udivo incominciare».
2) Sì, può sostituire l’indicativo al congiuntivo senza alcun cambiamento di significato. Il congiuntivo si spiega non tanto per la sfumatura consecutiva (pure possibile) quanto per la sfumatura comparativo-ipotetica di tutta la frase: aveva l’aria come uno che…, come se…
3) «Si sappia» è congiuntivo esortativo impersonale. Anche in «ri rammenti/a» la sostituzione dell’indicativo al congiuntivo non cambia in nulla il significato della frase. Non occorre ipotizzare, ancora una volta, una sfumatura consecutiva (pure possibile, mentre è del tutto sbagliata la sfumatura finale), perché, ancora una volta, il congiuntivo si giustifica con la sfumatura eventuale.
Fabio Rossi
QUESITO:
1a)Il segreto per il successo, te lo potranno svelare quanti sono arrivati al successo.
2a)Tendo ad apprezzare quanti hanno il coraggio di rischiare la vita.
1b)Questo lo sanno quanti ne sono arrivati l’anno scorso.
2b)Prendo quanti ne restano sul vassoio.
1c)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti sono sopravvissuti alla strage.
2c)Ho salutato (in?) quanti hanno partecipato alla riunione.
1d)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti ne sono arrivati l’anno scorso.
2d)Ho salutato (in?) quanti ne sono arrivati oggi.
È giusto usare quanti / in quanti come soggetto nelle varianti 1 e come complemento oggetto nelle varianti 2?
In linea di massima, le frasi sono ben costruite?
Sui vari dizionari quanti viene classificato anche come pronome, quindi pensavo che potesse avere la funzione di soggetto o di oggetto in base al contesto.
RISPOSTA:
Alcuni pronomi indefiniti (molti, pochi, tanti) e il pronome quanti sia come relativo sia come interrogativo possono essere costruiti con la preposizione in quando hanno la funzione di soggetto e si riferiscono a un gruppo di persone. In particolare, il pronome quanti ammette la costruzione con in quando è soggetto o della reggente, o della subordinata o di entrambe le proposizioni. In tutte le frasi proposte è possibile sostituire quanti con in quanti tranne che nella 2b, in cui quanti non si riferisce a un gruppo di persone ma agli oggetti rimasti sul vassoio.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta dal punto di vista grammaticale?
1. La sua destinazione? l’Italia.
2. La sua destinazione? Italia.
Oppure sono corrette entrambe?
RISPOSTA:
In italiano i nomi degli Stati richiedono l’articolo determinativo (l’Italia, il Cile, gli Stati Uniti, lo Zambia ecc.). Fanno eccezione Israele, che non vuole l’articolo perché è un nome proprio di persona (infatti la dizione corretta sarebbe lo Stato di Israele), San Marino, per la stessa ragione di Israele, Andorra, che tende a coincidere con una città, e le isole piccole (Cipro, Malta), per la stessa ragione.
La frase 2, comunque, non è impossibile, ma veicola una sfumatura retorica: in essa Italia suggerisce che nel nome siano comprese implicazioni più ampie di quelle legate allo Stato, che riguardano, per esempio, la vita futura della persona. Possiamo fare un altro esempio con un nome comune, per chiarire il concetto: “- Che cosa desideri? – La pace” / “- Che cosa desideri? – Pace”. Nella seconda risposta il nome pace è caricato di un valore più pregnante, come se, appunto, il desiderio riguardasse non soltanto la pace, ma anche le conseguenze e le implicazioni della pace stessa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho la necessità di esprimere un concetto che potrei sintetizzare così: prima arriveranno, prima se ne andranno.
Per ragioni più narrative che prettamente linguistiche, ho dovuto scartare la suddetta soluzione, a favore di un’altra che sposasse un modello sintattico affine a quello del periodo ipotetico con la coppia di correlativi quanto più/tanto più.
Il risultato è stato questo: “Quanto prima fossero arrivati, tanto prima se ne sarebbero andati”.
La frase in questione è corretta dal punto di vista della scelta dei modi (congiuntivo/condizionale), oppure sarebbe stato preferibile adottare il condizionale per entrambi i predicati?
Se i suddetti correlativi non fossero adattabili a questa costruzione, e si scegliesse dunque di limitarsi alla forma prima… prima, il modello ipotetico “congiuntivo-condizionale” sarebbe comunque possibile? “Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”.
RISPOSTA:
I due avverbi correlativi prima… prima introducono una sfumatura ipotetica nel periodo, tanto che questo viene assoggettato alla costruzione tipica con l’indicativo (“Prima arriveranno, prima se ne andranno”) o il congiuntivo nella proposizione che contiene la condizione, ed è quindi assimilabile alla protasi, e il condizionale in quella che contiene la conseguenza, ed è quindi assimilabile all’apodosi (“Prima fossero arrivati, prima se ne sarebbero andati”). Si noti che, diversamente dal periodo ipotetico, in questo caso il congiuntivo imperfetto nella proposizione dipendente è molto innaturale (?“Prima arrivassero, prima se ne andrebbero”, ma “Se arrivassero prima, se ne andrebbero prima”). L’aggiunta di quanto / tanto non cambia niente nella costruzione (né, per la verità, aggiunge alcunché al significato della frase): i modi e i tempi richiesti rimangono quelli indicati per prima… prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Anche dopo aver fatto alcune ricerche online, con i seguenti verbi non so quale sia l’ausiliare corretto.
1.Questi Paesi sono progrediti/hanno progredito nella civiltà.
2. Sono progredito/ho progredito nel cammino.
3. Ho/sono proceduto lentamente.
4. Ho/sono proceduto lentamente negli studi.
5. Le proteste hanno proseguito/sono proseguite.
6. La casa è bruciata/ha bruciato.
7a. Ho scivolato con la moto per 20 metri (forse è intenzionale?)
7b. Sono scivolato con la moto per una ventina di metri (forse non è intenzionale).
RISPOSTA:
Non esiste una regola che determini la scelta dell’ausiliare con i verbi intransitivi e per sciogliere il dubbio spesso bisogna consultare il vocabolario. Tuttavia, una delle proposte più diffuse e accettata da grammatiche e vocabolari suggerisce di usare essere se il participio del verbo intransitivo può essere usato come attributo (per esempio “gli avvenimenti accaduti un anno fa” > “gli avvenimenti sono accaduti un anno fa”); suggerisce di usare avere se il participio del verbo non può assumere funzione attributiva (con il verbo dormire, per esempio, non si può costruire una frase come “il ragazzo dormito qua”). Ma andiamo all’analisi delle frasi qui proposte.
1. Il verbo progredire ha il significato di ‘evolversi per migliorare’ e può essere costruito sia con essere sia con avere.
2. Il verbo progredire ha il significato di ‘andare avanti’ e, anche in questo caso, può essere costruito sia con essere sia con avere.
3. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘avanzare’, può avere sia l’ausiliare essere sia l’ausiliare avere.
4. Il verbo procedere, qui con il significato di ‘continuare qualcosa che si è intrapreso’ richiede soltanto l’ausiliare avere, quindi “Ho proceduto negli studi”.
5. Anche con il verbo proseguire si possono avere entrambi gli ausiliari.
6. Nel significato proprio di ‘andare a fuoco’, il verbo bruciare richiede soltanto l’ausiliare essere; quando bruciare è usato in senso transitivo, per esempio nel significato di ‘scottare’ si può avere l’ausiliare avere: “Il caffè mi ha bruciato la lingua”.
7a e 7b. In entrambe le frasi l’ausiliare richiesto è essere. L’ausiliare avere, ma sempre in alternanza con essere, è possibile soltanto nell’accezione di ‘scorrere rapidamente su una superficie che non oppone resistenza’: “Lo slittino ha scivolato sulla pista ghiacciata”, ma più comune “Lo slittino è scivolato sulla pista ghiacciata”.
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo sapere la differenza tra : di questa e su questa.
Es: “non mi hanno detto nulla di questa cosa”;
“non mi hanno detto nulla su questa cosa”.
RISPOSTA:
Dire di o dire su si equivalgono perché sia la preposizione di sia la preposizione su introducono un complemento di argomento. L’oscillazione tra queste due preposizioni è da sempre presente in italiano, basti vedere alcuni titoli di opere del passato come “Sulle guerre di Fiandra” o “Dei sepolcri” (in quest’ultimo caso la preposizione di ricalca il complemento di argomento latino, costruito con la preposizione DE + ablativo come “De bello gallico”).
Raphael Merida
QUESITO:
Si dice: “questi discorsi non c’entrano nulla” oppure “questi discorsi non centrano nulla”?
RISPOSTA:
La forma corretta è c’entrano. Entrarci è un verbo procomplementare che, come ci ricorda il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), può essere usato con valore intensivo nel significato di ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’ («In questa stanza c’entrano mille persone») o con il significato figurato di ‘avere attinenza con qualcosa’, come nel caso da lei presentato. In una frase come «questi discorsi non centrano l’argomento» il verbo in questione è, invece, centrare nel significato figurato di ‘cogliere con precisione il punto centrale di un tema’.
Per approfondire la morfologia del verbo entrarci la invito a leggere la risposta La posizione del pronome.
Raphael Merida
QUESITO:
Gradirei sapere se negli esempi elencati di seguito l’uso di “quale” è corretto in sostituzione di “come”.
- Ha adottato lo stoicismo quale filosofia di vita per affrontare i problemi della quotidianità.
- Si è posto la realizzazione di una mostra personale quale obiettivo artistico e professionale.
- L’aggettivo “espansivo” non è preciso quale sinonimo di “intraprendente”.
- Ho scelto il cinema quale alternativa alla solita birra al pub.
RISPOSTA:
L’aggettivo quale può assumere la funzione di aggettivo relativo con il significato di ‘come’; tutte le frasi da lei proposte, quindi, sono corrette.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sapere se in queste due frasi è possibile inserire (oppure omettere) la virgola:
- «Questo inoppugnabile assioma, proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato(,) e costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze, […]».
C’è il rischio che “costato” venga inteso per il Paese e non per l’umanità?
- «È esattamente nelle questioni forse “banali” e riguardanti la scelta da parte dell’individuo (,) che raggiunge la sua massima potenza giuridica.»
C’è il rischio che senza la virgola si confonda il senso della frase (“riguardanti la scelta da parte dell’individuo che raggiunge”), che insomma sia l’individuo a raggiungere la sua massima potenza giuridica e non l’assioma (come invece vorrei fare intendere)?
Inoltre, vorrei sapere se, quando la virgola viene aggiunta prima di e in frasi che hanno il soggetto diverso e sono distanti per contenuto e grammatica («eravamo arrivati puntuali, e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar»), possa essere anche omessa: «eravamo arrivati puntuali e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar».
RISPOSTA:
Suppongo che le due frasi da lei esemplificate facciano parte di un unico periodo, cioè: «Questo inoppugnabile assioma, proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato (,) e costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze, è esattamente nelle questioni forse “banali” (,) e riguardanti la scelta da parte dell’individuo che raggiunge la sua massima potenza giuridica».
La presenza della virgola prima di e costato non è indispensabile ma produce una sfumatura di significato diversa perché mette sullo stesso livello entrambe le unità informative («proprio di ogni cittadino di un Paese sviluppato» e «costato all’umanità sangue, lotte e sofferenze»); anche senza la virgola però non c’è il pericolo di confondersi perché il participiocostato fa riferimento ad assioma e poi ad umanità mentre sviluppato è soltanto l’aggettivo di Paese. La verifica è semplice perché basta aggiungere il verbo per capire che si tratta di due subordinate alla principale: «Questo inoppugnabile assioma, che [l’assioma] è proprio…, e che [l’assioma] è costato…».
Nel secondo caso non va inserita la virgola perché la proposizione introdotta da che («che raggiunge la sua massima potenza giuridica») è una completiva e si riferisce naturalmente alla reggente («Questo inoppugnabile assioma è nelle questioni banali»); si può inserire la virgola soltanto se si mette per inciso (quindi fra due virgole) la proposizione «…, riguardanti la scelta da parte dell’individuo, …».
Sull’uso della virgola prima della congiunzione e, e in generale sugli usi della punteggiatura, non esistono delle regole ferree. Nel caso di «Eravamo arrivati puntuali e Maria avrebbe voluto essere con i suoi amici al bar» il soggetto della coordinata diverso rispetto a quello della reggente rappresenta un segnale di autonomia. La frase, quindi, può ammettere anche la virgola.
Raphael Merida
QUESITO:
Il quesito a cui volevo sottoporre la sua attenzione è quello di frasi che apparentemente sembrano delle relative, o che forse lo sono in parte.
Questo tipo di frasi contiene spesso un che, che potrebbe forse trattarsi di un che polivalente.
Proporrei qualche frase che secondo me possono rientrare in questa definizione:
- Sono arrivato qui che ero piccolo.
- Ho iniziato che ero ricchissimo.
- Ho finito che sono diventato povero.
- L’ho conosciuto che non era ancora così famoso.
- L’ho trovato che dormiva beato.
- Sono qui che aspetto.
Le frasi in questione, per quanto contengano il pronome relativo che, mi sembrano abbiano tutt’altra funzione.
Per esempio, da 1 a 5 direi che quel che sia molto vicino ad un complemento di tempo.
Nella sesta il che mi sembra abbia valore finale: «Che aspetto» = per aspettare/ad aspettare.
RISPOSTA:
Sì, ha ragione, sono relative improprie, ovvero il che in esse usato può rientrare nell’ampia tipologia del che polivalente. Proviamo a spiegarne alla svelta l’uso caso per caso.
- Sono arrivato qui che ero piccolo: valore temporale, ma in uno stile meno informale può essere risolto anche con un complemento predicativo del soggetto: sono arrivato qui da piccolo.
- Ho iniziato che ero ricchissimo. Come sopra.
- Ho finito che sono diventato povero. Qui l’equivalente meno informale sarebbe più o meno un verbo aspettuale o fraseologico: ho finito per (o col) diventare povero.
- L’ho conosciuto che non era ancora così famoso. Questa e la frase successiva rientrano nella tipologia delle relative con verbi di percezione (o simili): l’ho visto che dormiva / l’ho visto dormire.
- L’ho trovato che dormiva beato. Come sopra.
- Sono qui che aspetto. Valore finale: sono qui ad aspettarti, ma anche: ti sto aspettando qui.
Fabio Rossi
QUESITO:
L’altro giorno osservavo mia moglie che si stava gustando una salsiccia che mio figlio, di ritorno da Norcia, le aveva portato. La mangiava a piccoli pezzetti per farla durare di più e con più gusto rievocando antichi sapori in quanto da bambina, per sfuggire dai bombardamenti su Roma, era stata ospitata da alcuni lontani parenti che abitavano nei dintorni di Norcia. Nel guardarla ho usato il termine “stai centellinando quella salsiccia da oramai tre giorni…..” e mi è venuto il dubbio che il termine centellinare potesse essere usato correttamente solo per bevande e non anche in senso figurato per cibo a piccoli morsi anche se l’obiettivo in fondo è lo stesso: ‘gustare di più’, ‘far durare più a lungo’, assaporare evocando antichi sapori. È corretto usare il termine in questo senso?
RISPOSTA:
Il verbo centellinare ha come significato principale ‘bere a piccoli sorsi’ (il centellino o centello è il ‘piccolo sorso’) ma può essere usato anche in senso figurato per riferirsi al cibo e, più in generale, a tutto ciò che è connesso alla sfera sensoriale del gusto; non può essere usato, invece, nel significato da lei proposto di ‘assaporare evocando antichi sapori’. Possiamo quindi “centellinare un buon caffè”, “centellinare una salsiccia”, “centellinare un libro”: se nel primo caso il significato di centellinare sarà quello di ‘bere a piccoli sorsi per assaporare meglio’, negli altri due sarà quello di ‘gustare lentamente qualcosa per trarne il massimo piacere’. Inoltre, centellinare può essere usato in senso figurato anche con il significato di ‘usare con parsimonia’ come nel caso di “centellinare le energie”.
Raphael Merida
QUESITO:
Scritta così, questa frase «Dovresti aiutarmi, non chiudermi la porta in faccia», vuol dire: «Dovresti aiutarmi, non, invece chiudermi la porta in faccia» (insomma, esprimere un giudizio), oppure può essere interpretata come una frase esortativa: «Non chiudermi la porta in faccia! Devi aiutarmi»? C’è il rischio di fare confusione?
RISPOSTA:
Non c’è il rischio di confondersi perché, come nota lei, per avere la sfumatura esortativa dovremmo scrivere la frase in un altro modo. Tra le due proposizioni “Dovresti aiutarmi” e “non chiudermi la porta in faccia”, unite per asindeto dalla virgola, c’è una relazione di opposizione (o di sostituzione) interpretabile come: “Dovresti aiutarmi, non, invece, chiudermi la porta in faccia”.
Raphael Merida
QUESITO:
Nelle frasi indicate, l’uso del gerundio è appropriato?
1a) Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, vincendo però la guerra.
1b) Chi non avesse la possibilità di presenziare alla cerimonia di premiazione [domanda un candidato, nda] perderebbe esclusivamente il diritto al ritiro del premio, mantenendo quindi il piazzamento ottenuto, oppure no?
RISPOSTA:
Sì, il modo gerundio è appropriato in entrambe le frasi, dal momento che esprime una subordinata implicita (in entrambi i casi di tipo avversativo, con le precisazioni fatte sotto) con identità di soggetto rispetto alla reggente. Per quanto riguarda la consecutio temporum, è perfetta nella seconda frase (perderebbe il diritto ma manterrebbe il piazzamento), mentre nella prima sarebbe in realtà preferibile usare il gerundio passato, se davvero si vuole mantenere un rapporto di parallelismo con l’aver perso la prima battaglia (anteriore rispetto a immaginava) e l’aver vinto la guerra. Dunque una versione più corretta della frase sarebbe: «Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, avendo però vinto la guerra». Se invece si volesse intendere che la vittoria della guerra è causa della sconfitta della prima battaglia, allora andrebbe bene il gerundio presente; ma quest’ultima interpretazione sarebbe incoerente: semmai, dovrebbe essere ribaltata (per quanto anche in questo caso la coerenza sarebbe labile): «Non immaginava che avesse vinto la guerra perdendo la prima battaglia». Per evitare equivoci sull’esatto significato della frase, sarebbe meglio trasformare la gerundiva in una subordinata esplicita, oppure utilizzando comunque un connettivo che ne chiarisca il rapporto logico tra gli elementi. Per es. «Non immaginava di aver vinto la guerra pur avendo perso la prima battaglia»; oppure (visto che il verbo immaginare, a differenza di sapere, fa ipotizzare che ancora non si sapesse l’esito della guerra, che dunque non era ancora finita all’epoca dell’immaginava; pertanto bisognerebbe ipotizzare una subordinata posteriore, e non anteriore, alla reggente): «Non immaginava che avrebbe vinto la guerra, dato che aveva perso la prima battaglia». Quest’ultima mi sembra la versione più coerente della frase 1a, e dunque forse la più fedele all’intento dell’emittente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedervi una consulenza sintattica sulla frase “questo quadro è stato comprato da qualcuno che se ne intende”. In particolare, mi interessava capire il valore sintattico della particella se. Ne è complemento di specificazione (o forse di argomento), m non riesco a comprendere la funzione di se.
RISPOSTA:
Se ne intende equivale a intendersene ‘essere competente in qualcosa’, che rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso si, nella forma se, e ne) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo. L’appendice pronominale –sene, quindi, non ha un significato autonomo ma arricchisce il verbo base attraverso una sfumatura emotiva; nel caso da lei proposto, intendersene (o il corrispettivo intendersi), a differenza del transitivo intendere, richiede un complemento di specificazione: “se ne intende di arte” / “si intende di arte”.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.
Raphael Merida
QUESITO:
Nonostante abbia già letto molte grammatiche su imperfetto e passato prossimo, continuo ad avere dei dubbi. Ad esempio, se voglio raccontare del concerto dove sono andata, che tempo devo usare nella frase seguente: “C’erano / ci sono stati tanti cantanti al concerto”.
E in queste altre frasi qual è il tempo piú adatto?
– Stavo benissimo / sono stato benissimo in vacanza.
– Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?
– Oggi pomeriggio ero / sono stato al cinema.
– Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto.
– Ieri al concerto ero seduto / sono stato seduto dietro.
– Non hanno mai ricevuto i soldi di cui hanno avuto bisogno / hanno bisogno / avevano bisogno.
RISPOSTA:
Bisogna ricordare che l’imperfetto rappresenta l’evento come continuato nel passato, mentre il passato prossimo come concluso, sempre nel passato, ma con una persistenza delle conseguenze nel presente. A volte un tempo esclude l’altro, ma più spesso entrambi possono essere usati, modificando il significato della frase. Nella prima frase, il tempo più naturale è l’imperfetto, perché lo scopo della frase è descrivere lo svolgimento del concerto, non darne una visione complessiva; al contrario, molto strana sarebbe la frase “Il concerto era entusiasmante”, mentre del tutto naturale sarebbe “Il concerto è stato entusiasmante”, proprio perché, in questo caso, ciò che conta è la visione d’insieme, non lo svolgimento. La seconda frase è simile alla mia riscrittura della prima, per cui ci si aspetta il passato prossimo, che rappresenta la visione d’insieme della vacanza; l’imperfetto, si badi, non è del tutto escluso, ma andrebbe meglio in un contesto come “Quanto mi pesa tornare al lavoro; stavo così bene in vacanza!”. Nella terza frase le due opzioni sono ugualmente valide: con la prima ci si riferisce, ancora una volta, alla situazione nel suo svolgimento; con la seconda si considera la situazione nel suo complesso. Lo stesso vale per la quarta. Nella quinta la scelta tra volevo e ho voluto produce una conseguenza importante: con la prima forma la frase significa che la volontà del soggetto caratterizzava quel periodo, ma non esclude che, passato quel periodo, essa sia cessata e l’incontro sia avvenuto; con la seconda forma, invece, si esclude che l’incontro sia avvenuto, perché il processo del non volere è rappresentato come concluso, ovvero definitivo. Per la sesta frase vale quanto detto per la terza (“Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?”). Per l’ultima vale quanto detto per la quinta (“Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto”): avevano bisogno comporta che forse in un momento successivo non ne hanno avuto più bisogno; hanno avuto bisogno comporta che il fine per cui avevano bisogno dei soldi si è concluso, quindi in qualche modo i soggetti sono riusciti a risolvere il problema anche senza aver ricevuto i soldi. In quest’ultima frase il presente hanno bisogno cambierebbe anche il tempo, implicando che il bisogno è ancora in corso nel momento in cui il parlante sta parlando.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste due frasi, nonostante contengano il non, hanno lo stesso significato?
“Incapacità di fare silenzio”
“Incapacità di non fare silenzio”
Io le interpreto entrambe con il significato di ‘urlare’.
RISPOSTA:
Nelle espressioni (più che frasi sono parti di frasi) il non è determinante: se parafrasiamo non frase silenzio con parlare (non è necessario ricorrere al verbo urlare), la seconda espressione significa ‘incapacità di parlare’, che è, come ci si aspetta, data la presenza della negazione, il contrario del significato della prima espressione, in cui non non c’è.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le proposizioni relative nelle frasi di seguito sono limitative o esplicative? La virgola serve oppure no? In certi casi potrebbe essere utile un “rinforzo” pronominale per il che?
1a) Queste sono le sue parole(,) su cui vorrei soffermarmi.
1b) Queste sono le sue parole, quelle su cui vorrei soffermarmi.
2a) Ho dovuto accettare le sue ragioni(,) che non condivido.
2b) Ho dovuto accettare le sue ragioni, quelle che non condivido.
3a) Ero attratta dal suo ragionamento(,) che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
3b) Ero attratta dal suo ragionamento, quello che mi trasportava nei luoghi in cui amavo perdermi.
RISPOSTA:
Tutte le frasi proposte sono possibili; in esse le relative sono costruite prima come limitative (che non richiedono la virgola), poi come esplicative, e questo cambiamento influisce sul significato della frase. Nella prima coppia, per esempio, la variante a indica che il soggetto vuole soffermarsi su alcune parole proferite da qualcuno; la variante b prima presenta le parole, poi indica che il soggetto vuole soffermarsi sulle parole presentate. L’inserimento del pronome dimostrativo nelle relative esplicative, possibile ma non necessario, ha l’effetto di separare ancora più nettamente le subordinate dalle reggenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradasso può essere considerato un sinonimo di spavaldo, visto che entrambi hanno come sinonimo spaccone?
RISPOSTA:
In una lingua difficilmente esistono sinonimi perfetti: a ben vedere, tra le parole c’è sempre una differenza anche solo sfumata di significato. Nella terna spaccone, spavaldo, gradasso il primo nome ha un significato vicino a quello degli altri due, perché condivide con essi il tratto della vanteria eccessiva; in spavaldo, però, è più forte che negli altri due il tratto dell’esibizione del coraggio di fronte agli altri.
Tra spaccone e gradasso, invece, la differenza sta nella maggiore arroganza del gradasso rispetto allo spaccone, che risulta più legato all’esibizione di qualità non necessariamente possedute.
Le differenze si notano maggiormente se ricostruiamo le etimologie delle tre parole. Nell’etimologia di spavaldo, probabilmente dal latino pavor ‘paura’ + il prefisso s- e il suffisso germanico -aldo, si nota già un riferimento alla mancanza di paura connotato però negativamente dal suffisso –aldo (come nella parola ribaldo). Il sostantivo gradasso, che caratterizza in negativo una persona che si vanta in modo eccessivo delle proprie qualità inesistenti, è un’antonomasia formata sul nome del guerriero saraceno Gradasso, un personaggio dell’Orlando innamorato e dell’Orlando Furioso descritto come impulsivo e arrogante. Spaccone è un sostantivo derivato dal verbo spaccare più il suffisso accrescitivo –one. A differenza del gradasso, dietro il quale si nasconde un tipo di carattere ben definito, lo spaccone è colui che, iperbolicamente, vanta la forza di spaccare il mondo (senza però riuscirci).
Raphael Merida
QUESITO:
Quali sono i tempi e i modi verbali piú adatti nelle proposizioni comparative? Il modo condizionale é corretto?
È piú stupido di quanto tu pensi (indicativo o congiuntivo?) / pensassi / abbia pensato / avessi pensato.
È stato piú semplice di quanto tu creda / credessi / abbia creduto / avessi creduto.
RISPOSTA:
Tutte le varianti da lei ipotizzate sono corrette, e le possibilità sono ancora di più. Al variare del modo cambia il grado di formalità (il congiuntivo è più formale dell’indicativo) o si aggiunge una sfumatura semantica (il condizionale presenta l’evento della subordinata come condizionato da un altro evento o come eventuale); al variare del tempo cambia la collocazione dell’evento descritto dalla subordinata sulla linea temporale (e solo secondariamente il rapporto temporale tra questo e l’evento della reggente). Si noti che le possibilità prescindono dal tempo della reggente, perché i due eventi rappresentati nella reggente e nella subordinata sono reciprocamente autonomi dal punto di vista temporale. Possiamo, dunque, avere in entrambe le frasi:
“… di quanto tu credi / creda” (indicativo e congiuntivo presente), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel presente;
“… di quanto tu credevi / credessi” (indicativo e congiuntivo imperfetto), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato per un certo tempo;
“… di quanto tu hai creduto / abbia creduto” (indicativo passato prossimo e congiuntivo passato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito ed è ancora ben presente nella mente del parlante;
“… di quanto tu credesti” (indicativo passato remoto), per indicare che il credere avviene nel passato in un momento definito lontano dalla percezione del parlante;
“… di quanto tu avevi / avessi creduto” (indicativo e congiuntivo trapassato), senza differenza di significato, per indicare che il credere avviene in un momento del passato precedente a un altro momento (per esempio “È più stupido di quanto tu avevi / avessi creduto prima che succedesse quell’incidente”;
“… di quanto tu crederai” (indicativo futuro), per indicare che il credere avviene nel futuro;
“… di quanto tu crederesti” (condizionale presente), per indicare che il credere è condizionato (per esempio “È più stupido di quanto tu crederesti se lo guardassi in faccia”) o semplicemente eventuale, e avviene nel presente;
“… di quanto tu avresti creduto” (condizionale passato), per indicare che il credere è condizionato o semplicemente eventuale, e avviene nel passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Se leggerò un’ora tutti i giorni, quando arriverò al 31 di dicembre avrò letto almeno una decina di libri”.
Il periodo dovrebbe essere corretto. Se volessimo accentuare la componente ipotetica, potremmo introdurre il congiuntivo imperfetto al posto dei due futuri semplici e, in relazione al futuro anteriore, il condizionale passato?
Mi spiego meglio con un esempio:
“Se leggessi un’ora tutti giorni, quando arrivassi al 31 di dicembre, avrei letto almeno dieci libri”.
RISPOSTA:
La trasformazione del futuro semplice in congiuntivo imperfetto e del futuro anteriore in condizionale passato è corretta, ma non è l’unica possibile. Nel periodo ipotetico del secondo tipo si usa il congiuntivo imperfetto per esprimere la condizione possibile e il condizionale presente per esprimere la conseguenza (quindi nel suo caso avremmo “Se leggessi un’ora tutti giorni, al 31 di dicembre leggerei almeno dieci libri”). Se, però, vogliamo sottolineare che la conseguenza è collocata nel futuro rispetto a una condizione che è collocata nel passato, possiamo optare per il condizionale passato, che assommerà in sé le due funzioni di condizionale e di forma verbale della posteriorità rispetto al passato. Si potrebbe osservare che se leggessi è collocato nel presente, non nel passato, ma bisogna considerare che questa azione entra in relazione con la data futura, per cui finisce con l’essere considerata da una prospettiva futura.
A margine faccio notare che il secondo futuro (arriverò) non può diventare condizionale nella trasformazione della frase, ma deve rimanere futuro, perché altrimenti il parlante rappresenterebbe l’evento dell’arrivare come possibile, come se avesse qualche ragione per credere che non arriverà al 31 dicembre.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Un uomo attraversava i ghiacciai…: era equipaggiato, era armato ed era in viaggio verso chissà dove”. Il correttore del testo considera i verbi era equipaggiato ed era armato come forme passive. Avrei qualche perplessità in merito.
RISPOSTA:
Fa bene: in questo caso equipaggiato e armato sono usati come aggettivi e funzionano da parti nominali dei predicati nominali era equipaggiato e era armato. Può trovare maggiori spiegazioni sulla distinzione tra participio passato verbale e nominale in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Se io, in caso accadesse una disgrazia, mi comportassi come se nulla fosse accaduto, trasparirebbe la mia recita e si capirebbe comunque quel che è accaduto”. Ragionandoci sopra, mi pare che sarebbe più logico dire quel che sarebbe accaduto (cioè sarebbe accaduto se tutto ciò fosse avvenuto davvero): quale delle due versioni è la più corretta?
RISPOSTA:
Non è necessario usare il condizionale (per quanto si possa comunque scegliere di farlo), perché l’ipoteticità dell’evento è resa chiarissima dai due periodi ipotetici precedenti e non c’è bisogno di ribadirla.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho preparato questo quesito perché, talvolta, ho difficoltà a capire su chi ricada l’azione della subordinata. La regola secondo cui, se non vado errata, è consigliata (tranne alcuni casi) la forma implicita, laddove vi sia identità di soggetto tra la reggente e appunto la subordinata, non so se possa essere applicata agli esempi proposti:
1) Stefano ha chiesto ad Alessia di uscire.
2) Stefano ha detto quella bugia ad Alessia per illuderla di aver ragione.
Riguardo al primo esempio: Stefano ha chiesto ad Alessia che fosse lei ad uscire, oppure Stefano ha chiesto il permesso per uscire ad Alessia?
Riguardo al secondo esempio: la bugia è stata detta ad Alessia per illuderla che Stefano avesse ragione, oppure Stefano, con quella bugia, ha voluto illudere Alessia?
Vorrei infine aggiungere un terzo esempio. Stavolta si tratta di un’interrogativa indiretta; ma l’incertezza sui rapporti semantici tra le parti permangono:
3) Stefano ha chiesto ad Alessia se poteva/potesse uscire.
Stessa criticità: chi “poteva (o potesse) uscire” tra i due?
RISPOSTA:
La regola generale dice che la subordinata completiva implicita presuppone che il soggetto sia lo stesso della reggente; ci sono, però, dei casi in cui questa regola entra in competizione con altre regole, oppure con la logica ingenua del parlante, con l’effetto di creare confusione nel parlante stesso. Nella frase 1) il problema è causato dalla polisemia del verbo chiedere: se lo intendiamo come ‘chiedere il permesso’ allora la subordinata rientra nella regola dell’identità di soggetto, per cui è Luca che vuole uscire; se, invece, lo intendiamo come ‘richiedere’, la subordinata rientra nella regola della costruzione con i verbi di comando, che prevede l’identità tra il soggetto della subordinata e l’oggetto del comando. In questo secondo caso, quindi, è Alessia che deve uscire. C’è anche una terza possibilità, attivata dal verbo chiedere in combinazione con uscire, e cioè che Luca abbia invitato Alessia a un appuntamento romantico. In questo caso la subordinata ha come soggetto loro, che non coincide né con Luca né con Alessia: la soluzione regolare sarebbe, quindi, “Luca ha chiesto ad Alessia che uscissero”, che, però, sarebbe interpretata piuttosto come ‘… ha richiesto ad Alessia di far uscire altre persone’. Con questo terzo significato, la costruzione più comune sarebbe ancora “Luca ha chiesto ad Alessia di uscire”, a rigore non corretta. La disambiguazione tra le tre possibilità sarà garantita dal contesto; la soluzione 3), invece (pure possibile), non aiuta completamente, perché l’inserimento di potere esclude la terza interpretazione, ma lascia aperte le prime due (anche se la seconda sarebbe molto favorita): nel primo caso potere sarà interpretato propriamente come ‘avere il permesso’; nel secondo sarà interpretato come segnale di cortesia, quindi la frase sarebbe la variante indiretta di “Alessia, puoi uscire, per favore?”.
Per quanto riguarda la frase 2), l’identificazione del soggetto di aver ragione è problematica perché l’oggetto pronominale della proposizione reggente (la) è sentito come un possibile candidato, anche se a rigore non lo è: il soggetto di aver è Stefano, ovvero il soggetto della proposizione reggente; se, invece, si vuole che il soggetto sia Alessia, bisognerà costruire la subordinata in modo esplicito: “…illuderla che avesse ragione”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.
“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”
Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.
Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”
In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:
“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?
“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?
RISPOSTA:
Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.
La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La preposizione di può essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.
Esempio:
“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.
Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:
“il panettone si mangia sempre di dicembre / Natale” = ‘ogni dicembre / Natale’.
In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:
“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.
Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.
Ecco una frase tratta da un dizionario:
“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.
Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:
“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).
RISPOSTA:
La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.
I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alla possibile collocazione dei modificatori nominali in diversi contesti e situazioni.
Modificatori del nome preceduti da un modificatore verbale:
1a. Ho messo una cosa qui bellissima / di marmo / che potrebbe aiutarmi.
Modificatori del nome dopo il verbo dell’interrogativa:
2a. Quale cosa hai venduto di plastica / plasticosa / che non andava venduta?
3a. Quante ne hai dezuccherate / senza zucchero / che non fanno male alla salute?
4a. Cosa hai osato toccare di colore giallo / di legno / che non andava toccato?
5a. Di quale parte sei della Svezia?
Questione ancora più complicata:
Modificatori del nome, preceduti da un modificatore verbale, collocati dopo il verbo di un’interrogativa:
6a. Quale cosa hai messo qui di colore rosso / rossa / che non apprezzi più di tanto?
7a. Quale cosa hai comprato senza nemmeno avvisarmi di colore rosso / rossa / che ti piace?
Chiaramente tutte le frasi possono essere riformulate in questo modo:
1b. Ho messo qui una cosa bellissima / di vetro / che potrebbe aiutarmi.
2b. Quale cosa di plastica / plasticosa / che non andava venduta hai venduto?
3b. Quante dezuccherate / senza zucchero / che fanno male ne hai?
4b. Cosa di colore giallo / di legno / che non andava toccato hai osato toccare?
5b. Di quale parte della Svezia sei?
6b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che non apprezzi hai messo qui?
7b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che ti piace hai comprato senza avvisarmi?
La questione potrebbe farsi più intricata se si pensa che in alcune di queste frasi il complemento preposizionale / aggettivo potrebbe essere interpretato come modificatore verbale, più precisamente come complemento predicativo del soggetto / oggetto, non come modificatore nominale, vista la sua posizione postverbale, per la precisione negli esempi da 2 e 4.
Inoltre, l’esempio 7 potrebbe essere ambiguo, in quanto che ti piace potrebbe essere anche inteso come subordinata esplicita del verbo avvisare, dando il senso che qualcuno compra un qualcosa che gli piace, senza però avvisare qualcun altro.
Chiaramente queste situazioni di ambiguità si possono creare, ma quello che mi chiedo è questo: sintatticamente e grammaticalmente parlando, possiamo parlare di frasi corrette in questi significati e nel senso che vorrei dare? Cioè, i vari modificatori nominali (di legno, che non andava toccato, della Svezia, bellissima ecc.) delle frasi b si possono considerare dei modificatori nominali tanto nelle varianti a quanto nelle varianti b?
RISPOSTA:
Qualunque sia la posizione del modificatore, esso sarà sempre ricondotto al sintagma modificato; anche se interpretiamo i modificatori come complementi predicativi (o predicazioni supplementari), dal punto di vista sintattico e semantico essi modificano ancora i sintagmi nominali a cui si riferiscono. Va, però, detto, che il modificatore è tipicamente adiacente al modificato, tranne che non ci siano ragioni per allontanarlo (per esempio l’inserimento di un altro modificatore più strettamente legato al modificatore o la funzione predicativa del modificatore): alcune frasi a, pertanto, risultano innaturali e al limite dell’accettabilità (per esempio “Ho messo una cosa qui bellissima”, perché difficilmente si può accettare che l’aggettivo qualificativo sia legato al sintagma nominale qualificato meno strettamente di un’indicazione di luogo). La proposizione esclusiva nella frase 7 non è in nessun caso un modificatore del nome (infatti non può essere in alcun modo trasformata in una relativa il cui pronome introduttore riprenda il sintagma nominale o in un aggettivo); modificatori di sintagmi nominali introdotti da senza sarebbero, ad esempio, borsa senza manici (ovvero che non ha i manici), oppure maglietta senza maniche (smanicata).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tutte queste frasi e alternative sono corrette?
“Mi ha chiesto che cosa significasse quel gesto”
“Mi ha chiesto che cosa significhi quel gesto”
“Mi ha chiesto che cosa significherebbe quel gesto”
“Mi ha chiesto che cosa significa quel gesto”
“Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia(,) imparerebbe tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli”.
“Un amico che diffami / diffama / diffamasse non è / sarebbe un buon amico”.
Attenendomi, per esempio, a queste tabelle della “Treccani”, una frase del genere sarebbe agrammaticale: “Credo che l’avesse visto”?
A che attenersi per sapere se si sta (o stia?) costruendo una frase che rispetta (o rispetti?) la concordanza dei tempi verbali?
RISPOSTA:
Tutte le varianti dei tre gruppi sono corrette. Nel primo gruppo la subordinata è una interrogativa indiretta, che è strettamente vincolata alla consecutio temporum; non tutte le varianti presentate, però, hanno a che fare direttamente con il sistema della consecutio. Le varianti con significa / significhi sono semanticamente equivalenti; in questo caso la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo è di tipo diafasico, cioè di registro (lo stesso vale per sta / stia e rispetta / rispetti della frase finale della sua domanda). Quella con il condizionale contiene, ovviamente, una sfumatura di condizionalità; presuppone, cioè, che ci sia una condizione (espressa altrove o implicita) per l’avverarsi dell’evento del significare (per esempio “…che cosa significherebbe quel gesto se lui lo facesse“). In alternativa (ma la corretta interpretazione dipende dal contesto), il condizionale può essere interpretato come un segnale di cortesia, ovvero come una variante indiretta di significa. Per quanto riguarda la consecutio temporum, queste tre varianti esprimono tutte la contemporaneità con il presente; il passato prossimo (qui ha chiesto), infatti, può funzionare da passato ma anche da presente, se descrive un evento che è ancora in corso (ha chiesto comporta che la domanda è ancora valida nel momento in cui l’emittente parla). Diversamente da queste tre, la variante all’imperfetto esprime (anche qui l’interpretazione dipende dal contesto) la contemporaneità con il passato, l’anteriorità rispetto al presente o anche l’anteriorità rispetto al passato; per esempio “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (contemporaneità con il passato) il nostro incontro”; “L’ho appena incontrato e mi ha chiesto (domanda ancora valida = presente) che cosa significasse il mio discorso di ieri (anteriorità rispetto al presente)”; “L’ho incontrato ieri e mi ha chiesto (passato) che cosa significasse (anteriorità rispetto al passato) il mio discorso del giorno prima”.
La seconda e la terza frase contengono subordinate relative, che non sono strettamente legate alla consecutio temporum; le varianti legge / legga funzionano come significa / significhi del gruppo precedente; leggesse qui non è interpretabile come passato, per via del verbo della reggente (imparerebbe), che è presente; esso va, quindi, interpretato come una variante di legga favorita dalla sovrapposizione del modello del periodo ipotetico: che leggesse …imparerebbe = se leggesse …imparerebbe. Si noti che se il verbo della reggente fosse passato, leggesse sarebbe interpretato come passato (per esempio “Un bambino che cinquant’anni fa leggesse per bene una enciclopedia avrebbe imparato…”).
Per “…tutto ciò che una scuola può / potesse / possa / potrebbe offrirgli” vale quanto appena detto, tranne che qui è ammesso sia il congiuntivo imperfetto, con la stessa sfumatura ipotetica della prima relativa, sia il condizionale presente (non ammesso nella prima relativa per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico), attratto dal condizionale della proposizione reggente. A margine sottolineo che la virgola tra enciclopedia e imparerebbe non va inserita, perché si configurerebbe come virgola tra il soggetto (Un bambino che legga / leggesse / legge per bene una enciclopedia) e il verbo.
Per la relativa della terza frase vale tutto quello che è stato detto per la prima relativa della seconda. Chiaramente, se si opta per diffamasse la reggente prenderà il condizionale sarebbe per via della sovrapposizione del modello del periodo ipotetico.
La frase “Credo che l’avesse visto” non è affatto agrammaticale, ma descrive una situazione in cui un parlante riferisce di un evento passato precedente un altro; per esempio “Luca ieri è rimasto a guardare il film per pura gentilezza; credo che l’avesse già visto”. Lo schema presentato nella pagina a cui lei rimanda contiene soltanto i casi più comuni di relazione temporale tra reggente e subordinata completiva; i tanti casi non contemplati non sono esclusi, ma solo tralasciati per brevità. Sulla consecutio temporum in generale rimando alle tante risposte dell’Archivio di DICO che contengono la parola consecutio; in particolare la scelta dei tempi nelle relative è al centro di questa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) Le parole che iniziano / terminano per a.
1b) La lettera per cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.
1c) Per quale lettera inizia / termina questa parola?
2a) Le parole che iniziano / terminano in a.
2b) La lettera in cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.
2c) In quale lettera inizia / termina questa parola?
Sempre con per e in, a livello sportivo, ho sentito frasi come:
3a) La partita che è finita per 1-1.
4a) La partita che è finita in 1-1.
Azzarderei anche delle frasi (che ovviamente sono di mia invenzione e non ho ancora sentito, onestamente, ma che sono la versione in forma di frase interrogativa e relativa delle due frasi precedenti) come ad esempio:
3b) Questo è il risultato per cui è finita la partita.
4b) Questo è il risultato in cui è finita la partita.
3c) Per quale risultato è finita la partita?
4c) In quale risultato è finita la partita?
Quali sono rispettivamente i complementi introdotti da per e in nelle frasi?
Per quanto riguarda in azzarderei che si possa trattare di complemento di luogo figurato, mentre per quanto riguarda per non saprei che dire.
RISPOSTA:
Dobbiamo distinguere tra le frasi del gruppo 1, in cui il verbo iniziare significa ‘essere formato nella parte iniziale’ e terminare significa ‘essere formato nella parte finale’, e le altre, in cui finire significa ‘raggiungere un certo stato’, quindi ‘diventare alla fine’. Nelle frasi 1 i due verbi sono completati da un sintagma argomentale (cioè sintatticamente necessario alla costruzione della frase) che nell’analisi logica rientrerebbe nel complemento di mezzo e può essere formato con le preposizioni per, in o anche con. Si noti che termina in a va interpretato non come ‘nella a’ (complemento di stato in luogo), ma, appunto, come ‘per mezzo di a’ (complemento di mezzo). Nelle altre frasi, il verbo finire richiede un complemento predicativo (anch’esso argomentale), che di norma non è preceduto da alcuna preposizione; la forma più comune della frase 3a sarebbe, infatti, “La partita è finita 1 a 1”, ovvero ‘alla fine è diventata 1 a 1’. In questo stesso contesto il verbo finire può anche prendere il significato di ‘completarsi, essere chiuso’, avvicinandosi molto al terminare delle frasi del gruppo 1; quando è usato con questo significato esso può richiedere il completamento con il complemento di mezzo formato con le proposizioni per, in e con. Per la verità, in questo contesto quest’uso è limitato a pochi casi e a poche espressioni, spesso cristallizzate (quindi soltanto con un po’ di sforzo inquadrabili nello schema dei complementi): in particolare il complemento formato con per si usa soltanto nella forma semplice e affermativa della frase (le frasi 3b e 3c sono del tutto innaturali), in si usa soltanto nell’espressione in parità o in espressioni come in modo imprevedibile, che dal complemento di mezzo sfuma nel complemento di modo (tutte le frasi 4 sono, invece, impossibili), con si usa in espressioni come con un pareggio, con la vittoria di…, con la sconfitta di…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io dico “Siamo in 4 con mamma”, quest’ultima è inclusa nel 4?
RISPOSTA:
Sì, il con in questo caso indica che il numero viene raggiunto considerando anche la persona nominata. Se si volesse aggiungere una persona al numero si direbbe più, o anche oltre a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.
Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:
«Mi mangio la mela»: uso intensivo.
«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.
Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?
RISPOSTA:
Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.
Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).
«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».
Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.
«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.
«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.
Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel verso della canzone “Dammi solo un’ora baby / e un po’ di coca-cola che mi graffi la gola”, la relativa è consecutivo-finale, ma se al posto del congiuntivo graffi usassimo l’indicativo graffia la semantica della frase cambierebbe?
RISPOSTA:
Nel verso la relativa con che e il congiuntivo ha un valore a metà strada tra il consecutivo e il finale; il modo migliore per trasformarla è tale che + congiuntivo. La trasformazione con tale che + indicativo non sarebbe equivalente; tale costruzione sarebbe, anzi, molto strana, perché il graffiare è qui rappresentato non come una qualità della Coca-Cola (come sarebbe in una frase come “La Coca-Cola contiene una tale quantità di anidride carbonica che graffia la gola”), ma come lo scopo per cui il parlante chiede la Coca-Cola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tutte e tre le varianti sono ammissibili?
“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).
Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?
“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.
La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.
Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase (1) “Possono candidarsi al concorso solo persone che abbiano compiuto i 18 anni di età”, la relativa è definita da alcune fonti condizionale-restrittiva. L’uso del congiuntivo in questo tipo di proposizione relativa è diafasico?
Mi domando se sia anche possibile considerarla una proposizione relativa impropria consecutiva? Volevo provare a modellare altre frasi di questo genere:
(2) Gli anziani che abitino nella zona 5 possono vaccinarsi domani.
(3) Le persone che abbiano paura dei vaccini possono parlare con il rappresentante regionale della sanità.
(4) Gli anziani che abbiano paura del covid dovrebbero vaccinarsi.
Non sono sicuro se le frase 3 e 4 funzionino con il congiuntivo e sembrano un po’ diverse dalla prima, ma non riesco a descrivere come mai.
RISPOSTA:
La proposizione relativa in 1 non è di tipo consecutivo; il congiuntivo al suo interno ha un valore diafasico, ovvero innalza lo stile rispetto all’indicativo. Se sostituiamo abbiano con hanno il significato complessivo non cambia. Bisogna, ovviamente, considerare che i parlanti associano al congiuntivo una sfumatura di eventualità; a ben vedere, però, persone che abbiano compiuto e persone che hanno compiuto descrive esattamente la stessa circostanza. Lo stesso vale per le proposizioni relative nelle altre frasi; queste frasi, però, risultano più forzate perché l’antecedente del relativo è determinato, quindi in contrasto con la sfumatura eventuale associata al congiuntivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette
1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre
2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre
RISPOSTA:
Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.
Le pongo qualche esempio:
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.
In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:
Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.
Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.
Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.
Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.
Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.
Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.
Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.
Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?
RISPOSTA:
L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo un altro quesito.
- Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.
Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.
Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:
- Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
- Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.
Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.
Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.
RISPOSTA:
Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia capitata ad altre persone.
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia potuta capitare ad altre persone.
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa possa essere capitata ad altre persone.
In una costruzione come questa il verbo servile “potere” serve per modificare leggermente il senso del messaggio (varianti 2 e 3), oppure la frase può essere privata di tale verbo (esempio 1) senza comportare sostanziali differenze semantiche?
- Non mi ricordo neppure quale fosse il suo nome, e questa la dice lunga su quanto (poco) mi importasse di lui.
L’avverbio “poco”, in questo caso, costituisce un elemento ridondante?
RISPOSTA:
In entrambi i casi gli elementi sono ridondanti, a rigore, in quanto ricavabili dal contesto. Non è però scorretto specificarli, se si vuole sottolineare un aspetto particolare. Dato che personalmente opto sempre per una sintassi e una semantica ergonomiche, suggerirei di eliminare entrambi gli elementi.
In tutte le prime tre frasi, la stessa reggente «non esclude che» implica che il capitare o no di una certa esperienza sia una possibilità, non una certezza, e questo rende pleonastico il servile potere. Suggerirei di evitarlo per non appesantire ulteriormente la sintassi frasale.
Nella quarta frase il disinteresse del soggetto è talmente evidente («Non mi ricordo» ecc.) da rendere inutile «poco». Anche in questo caso ne suggerirei l’eliminazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre visto come corrette delle frasi come «sarebbe impossibile / difficile che tu ce la faresti» o «sarebbe stato impossibile / difficile che tu ce l’avresti fatta».
In particolare la prima venne posta come quesito sul Treccani e tale frase venne giudicata scorretta: https://eur01.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Ft.ly%2FcAH1&data=05%7C01%7Cdico%40unimeit.onmicrosoft.com%7C6e16b9f793c349bff4b108db1c545e1f%7C84679d4583464e238c84a7304edba77f%7C0%7C0%7C638134920903056748%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C3000%7C%7C%7C&sdata=ksgYbWZ1G3CzalQb%2FG%2BomQ7%2Fa%2BcHdSo%2Fl88W%2F%2BRGhhU%3D&reserved=0.
Sinceramente, pensandoci e ripensandoci, non ne capisco il motivo, perché:
-Penso che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Penserei che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Pensavo che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
-Avrei pensato che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
Per lo stesso motivo riterrei corrette anche:
-È impossibile / difficile che tu ce la faresti (protasi implicita nella soggettiva).
-Era impossibile / difficile che tu ce la avresti fatta (protasi implicita nella soggettiva).
Seguendo la stessa logica, anche le due frasi iniziali mi sembrano corrette.
Lei cosa ne pensa?
RISPOSTA:
Come giustamente spiegato nella risposta del sito Treccani, la protasi implicita («se ci provassi» o «se ci avessi provato») è dipendente dall’apodosi «sarebbe (stato) impossibile / difficile», non certo da «che tu ce la facessi», che dipende, come completiva soggettiva, dall’apodosi stessa. Quindi la frase da lei proposta, al condizionale, è sbagliata, poiché in dipendenza da «è difficile / impossibile» le uniche alternative possibili sono il congiuntivo o, informalmente, l’indicativo: «sarebbe (stato) impossibile / difficile che tu ce la facevi».
In tutti gli altri casi, in cui la completiva è oggettiva e non soggettiva, la protasi sottintesa («se ci provasse / avesse provato») dipende dall’oggettiva stessa, e non dalla proposizione da cui l’oggettiva dipende («penso» ecc.), ecco perché, in questi ultimi casi, il condizionale è ammesso, mentre nei casi da lei proposti no, perché, come ripeto, l’apodosi non è rappresentata dalla soggettiva bensì dal verbo da cui la soggettiva dipende, cioè «sarebbe impossibile / difficile», che infatti è regolarmente al condizionale. Il suo errore è pertanto duplice: 1) nel credere che l’apodosi sia costituita dalla soggettiva (anziché dalla proposizione che regge la soggettiva) e 2) nell’estendere indebitamente il condizionale (già esistente) nell’apodosi alla completiva che ne dipende.
Dunque il condizionale in dipendenza da una soggettiva è sempre impossibile? No, è raro, ma non impossibile. Per es. in dipendenza da verbi che indicano certezza o conoscenza: «È certo / noto che tu potresti farcela», perché in questo caso, effettivamente, la protasi sottintesa dipende dalla completiva: «se ci provassi [è certo che] ce la faresti / potresti farcela». Perché? La risposta, non semplicissima, risiede nel differente statuto semantico-strutturale di verbi impersonali come è noto, è sicuro ecc. rispetto a verbi (con un diverso grado di impersonalità) quali è difficile e simili. Infatti posso trasformare in personale «è noto» con «qualcuno sa» (trasformando dunque la soggettiva in oggettiva), mentre l’unico soggetto possibile di «è difficile» è la stessa cosa che è difficile. Tant’è vero che «è difficile» (e simili) ammette una dipendente implicita («È difficile riuscirci»), mentre «è noto» (e simili) no (*«È noto riuscirci» è inammissibile in italiano).
Fabio Rossi
QUESITO:
Trattandosi di una interrogativa indiretta, la correttezza circa gli usi del condizionale e dell’indicativo è fuori discussione: «Vorrei sapere se sarebbe […]».
Il congiuntivo imperfetto è possibile soltanto nel caso in cui si voglia riferirsi al passato, e non esprime quindi contemporaneità: «Vorrei sapere se fosse – tempo addietro, anni prima – […]». Mentre il congiuntivo presente attenua il tono diretto della richiesta espressa tramite l’indicativo.
Ma, se sapere non regge il congiuntivo, come fanno questi ultimi modi a essere leciti?
RISPOSTA:
L’interrogativa indiretta implica comunque una non certezza (cioè una modalità epistemica), che autorizza quindi sempre il congiuntivo. Anzi, le grammatiche più tradizionaliste suggeriscono di utilizzare sempre il congiuntivo in tutte le interrogative indirette. Ecco spiegato come mai sapere, che pure di solito regge l’indicativo, nelle interrogative indirette possa reggere (o regga preferibilmente) il congiuntivo. Come al solito, inoltre, il congiuntivo ha comunque un grado di formalità superiore rispetto all’indicativo. Inoltre, non è vero che il congiuntivo imperfetto si possa usare soltanto al passato (o meglio, per la contemporaneità nel passato), perché, nel caso del verbo volere, come spiegato più volte da Luca Serianni e anche nelle nostre risposte di DICO, l’imperfetto congiuntivo è preferibile per via del fatto che l’oggetto del volere subisce una sorta di proiezione al passato (tanto lo vorrei che lo considero già come avvenuto). Tant’è vero che si dice, come nella traduzione italiana del capolavoro dei Pink Floyd, «Vorrei che tu fossi qui» e non «Vorrei che tu sia qui». È vero che ciò accade perlopiù quando volere è usato come verbo autonomo, e non come servile. Tuttavia anche come servile il congiuntivo imperfetto è ammissibile, se non preferibile, con volere. Come opportunamente osserva lei, inoltre, il congiuntivo (e spesso ancor più il congiuntivo imperfetto, con una carica di potenzialità maggiore rispetto al presente, dovuta all’uso nel periodo ipotetico della possibilità) attenua il tono diretto della richiesta, rispetto all’indicativo. Quindi: «Vorrei sapere se fosse disposto ad aiutarmi» oppure «se sia disposto ad aiutarmi», oppure «se sarebbe disposto ad aiutarmi», oppure (più informalmente e un po’ troppo direttamente) «se è disposto ad aiutarmi» o «se era disposto ad aiutarmi». Come vede in quest’ultimo caso, informale, comunque l’imperfetto (sebbene stavolta all’indicativo) serve ad attenuare l’azione proiettandola nel passato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre due quesiti che mi attanagliano:
«È/è stata la cosa migliore che avremmo/avessimo potuto fare»?
«Mi sembra tutto/tutta una follia»
Credo siano tutte forme corrette, ma vorrei capire nello specifico che cosa cambi.
RISPOSTA:
Sì, in entrambi i casi entrambe le varianti sono corrette, senza alcun cambiamento semantico rilevante.
Nella prima variante della prima frase, la prospettiva è quella di considerare la cosa da fare come un futuro nel passato: io adesso racconto che nel passato avremmo potuto fare una cosa (cioè nel futuro rispetto al passato, ma comunque nel passato rispetto a ora) che effettivamente poi abbiamo fatto (nel passato). Nel secondo caso, invece, prevale il punto di vista di considerare la cosa come semplicemente passata. Esiste inoltre una terza possibilità, cioè quella dell’imperfetto congiuntivo: «È/è stata la cosa migliore che potessimo fare». Quest’ultima variante, che indica contemporaneità (e/o possibilità) nel passato, funziona meglio con la reggenza al passato («È stata la cosa»), tuttavia funziona anche in dipendenza dal presente («È la cosa»), in quanto rimane tuttora, a ripensarci, la cosa migliore (che potessimo/avremmo potuto/avessimo potuto fare). Tra tutte le soluzioni, quella che mi pare più naturale è «È [perché lo è tuttora] la cosa migliore che potessimo fare», oppure, in modo ancora più semplice e chiaro (e dunque sempre preferibile: perché complicare e complicarci la vita?), «Abbiamo fatto la cosa migliore».
Nella seconda frase, l’accordo può avere come testa sia il soggetto ([Ciò] mi sembra tutto una follia»), sia il predicativo del soggetto («una follia»). Nel primo caso, inoltre, si può anche sostenere che «tutto» sia un soggetto posposto e comunque il significato della frase non cambierebbe.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei proporvi queste tre parole: pleonastico, ridondante e tautologico. A mio parere si tratta di sinonimi che significano ‘eccessivo’, ‘superfluo’.
Questi termini hanno a che fare con un aspetto quantitativo, cioè con la ripetizione dello stesso concetto facendo ricorso a parole diverse (es. bella, attraente e fisicamente perfetta) e non qualitativo (es. uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate). Inoltre ritengo che i termini pleonastico e ridondante si riferiscano soltanto ad un discorso, mentre il vocabolo tautologico si possa attribuire tanto ad un discorso quanto ad un parlante. Ovviamente non sono sicuro di ciò ed è per questo motivo che mi sarebbe gradita la vostra opinione a riguardo.
RISPOSTA:
Tra le tre parole non vi è un rapporto di sinonimia assoluta (del resto rarissima), bensì di quasi sinonimia. Tautologico si riferisce perlopiù all’uso di termini che non aggiungono nulla in più rispetto a quanto già espresso dal significato di altri termini, per es. «il cantante canta». Tautologico non si riferisce, di norma, a una persona, ma soltanto a un uso linguistico, a un testo, e perlopiù a una definizione o simili (concetto, ragionamento ecc.).
Pleonastico si usa perlopiù in riferimento a pronomi o costrutti ridondanti, in quanto rimandano allo stesso referente già designato da un altro sintagma, per es. «il mare lo vedo» (dove lo si riferisce a il mare). In questo senso, pleonastico e ridondante, nella lingua comune, possono essere usati come sinonimi, sebbene ridondante abbia un campo semantico più ampio, mentre pleonastico sia più specifico. Ridondante, di tutti e tre gli aggettivi, è quello che più si presta a un uso più generale, e dunque si può riferire anche, genericamente, a un discorso eccessivamente carico e ampolloso: «testo ridondante di tecnicismi», «discorso ridondante di complimenti» (in nessuno dei due casi ridonante può essere sostituito da pleonastico o da tautologico), «stile o prosa ridondante» ecc. In questo senso, dunque, ridondante è l’unico dei tre aggettivi a potersi riferire anche, qualitativamente, all’uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ci sono dei casi in cui è possibile usare sia l´imperfetto che il passato prossimo? Ad esempio, come si comportano questi tempi verbali nelle frasi sottostanti? Grazie.
Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte.
Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati.
Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato.
Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato.
Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva.
Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto.
Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici.
Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava.
Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore.
Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare.
Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica , da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola.
Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo.
RISPOSTA:
La differenza di massima tra imperfetto e passato prossimo è nell’aspetto, ovvero nel modo in cui l’azione e il tempo vengono espressi dal verbo. In questo senso, mentre il passato (prossimo o remoto) indica soltanto che l’evento si è concluso (sebbene le sue conseguenze possano essere ancora presenti e determinanti: ho capito, ho ricordato, ho imparato ecc.), l’imperfetto invece qualifica l’azione come in continuo svolgimento o abituale, sia pur sempre nel passato. L’imperfetto, inoltre, può assumere anche molte sfumature modali (indicando, dunque, l’atteggiamento del parlante/scrivente su quanto sta dicendo/scrivendo), che lo rendono una delle forme verbali più usate in italiano e tale da sostituirsi spesso anche ad altre, come per es. al congiuntivo: «Se mi aiutavi facevamo prima» (equivalente, ma più informale, a «Se mi avessi aiutato avremmo fatto prima»). Fin quei la regola e la giustificazione del fatto che l’imperfetto sia molto diffuso, anche al posto di altre forme verbali. Nell’uso, poi, le cose sono sempre più sfumate, rispetto alle regole rigide. Ecco perché, in molte delle sue frasi, la differenza tra i due tempi verbali (imperfetto o passato prossimo) è minima o quasi nulla, perché quello che cambia è una sfumatura aspettuale (cioè un modo di guardare all’evento) talmente piccola da annullarsi o quasi. Quindi la risposta alla sua domanda è sì, spesso si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo. Analizziamo ora caso per caso per vedere che cosa cambia nell’una e nell’altra opzione.
«Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte»: meglio il passato prossimo, perché l’indicazione di tempo centinaia di volte comunque circoscrive l’evento. L’imperfetto è comunque possibile, perché sottolinea l’abitualità e la ripetitività dell’azione, sebbene il suo uso sia più naturale con un’espressione di tempo che ne indichi, per l’appunto, la ricorsività, per es. tutti i giorni, dieci volte al mese ecc.
«Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati»: il significato è praticamente identico; il far caldo è un evento che si protrae nel tempo (mentre tuffarsi è puntuale), e dunque ben si presta all’uso anche all’imperfetto.
«Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato / Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato». Meglio il passato prossimo (sono tutte azioni puntuali), a meno che non si trasformi all’imperfetto anche «cucinavo uno stufato» e si aggiunga però un’espressione al passato che rappresenti l’evento che si è verificato mentre lei faceva tutte quelle altre cose (espresse all’imperfetto, cioè con continuità mentre si è verificato l’evento); per es.: «Ieri facevo il bucato, pulivo casa e cucinavo uno stufato, quanto è arrivato Gianni e finalmente mi sono riposata».
«Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva / Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto»: pressoché identici: potere, avere le capacità di fare qualcosa ben si prestano ad un uso continuato nel tempo.
«Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici»: decisamente meglio l’imperfetto, dato che l’azione di abitare è continuata e abituale, non certo puntuale.
«Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava»: meglio il passato prossimo, per via dell’espressione di tempo specifica oggi pomeriggio. Andrebbe bene l’imperfetto se seguisse un evento puntuale: «Oggi pomeriggio aspettavo all’aeroporto (cioè: stavo aspettando), quanto mi hanno rubato la borsa».
«Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore»: l’imperfetto non si può usare, perché arrivare è un’azione momentanea: l’aereo è arrivato in un momento specifico. Sorvolo sulle eccezioni in cui anche arrivare potrebbe assumere una sfumatura continua (per es. «Quando ero piccolo la fine dell’inverno non arrivava mai»).
«Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare»: meglio l’imperfetto (ma il passato è comunque possibile), perché l’essere previsto e l’essere chiuso sono eventi continuati nel tempo e non momentanei.
«Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica, da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola»: è preferibile il passato prossimo perché, anche se il convincersi e l’essere (riferito al fatto) possono essere fotografati nel loro svolgersi continuo nel tempo, in questo caso c’è un singolo elemento (il fatto che l’amica non lavorasse in quel periodo) che ha convinto a prendere la decisione di andare.
«Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo»: vanno bene entrambe le forme, ma il senso della frase cambia lievemente; all’imperfetto indica che queste azioni avvenivano abitualmente, mentre al passato prossimo si suggerisce l’idea di qualcosa di limitato in un tempo. Chiaramente si potrebbe anche aggiungere un elemento temporale al passato: «Per tutto il mese siamo andate in spiaggia dove abbiamo alternato letture e chiacchierate. Con lei è (o era) possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo». E anche altre sfumature di differenza possono essere colte in un testo del genere, che conferma quanto detto all’inizio sulle numerose sfumature aspettuali (e modali) dell’imperfetto. Per es. questo mi mancava molto sottolinea che manchi ancora, mentre in questo mi è mancato molto potrebbe anche darsi che sia mancato fino a questo momento ma che ora non manchi più (dato che le due amiche si sono riviste o si stanno per rivedere). Ma, come ripeto, sono davvero dettagli minimi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il quesito di cui vorrei parlare in questo filone è la questione della protasi e apodosi del periodo ipotetico dell’irrealtà all’interno di un’oggettiva / una soggettiva.
Ciò che penso per quanto riguarda le seguenti 3 frasi è che l’unica soluzione corretta è col condizionale, ma a me è capitato di sentire soluzioni differenti dal condizionale:
A-Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto.
B-Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto.
C-Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa.
Sono soluzioni con l’imperfetto indicativo, l’imperfetto congiuntivo e l’infinito.
Io, per logica, come già detto, direi che l’unica possibilità sia quella del condizionale, visto che si parla di una situazione non realizzata (periodo ipotetico dell’irrealtà), ma a pensarci bene, ragionando sui tempi presenti, le possibilità mi sembrano molte di più e tutte (più o meno) accettabili:
-Non penso di pentirmi se lo facessi.
-Non penso di pentirmi se lo faccio.
-Non penso che Mario si arrabbi se passassi.
-Non penso che Mario si arrabbi se passo.
-So che lui arriva se ci fosse pure gli altri.
-So che lui arriva se ci sono pure gli altri.
Che ne pensa delle tre frasi in questione?
Quella che mi lascia più perplesso è la B, che ho sentito in televisione, di sfuggita, in una serie americana doppiata in italiano.
La frase era “non pensavo ti desse fastidio se lo facevo”.
RISPOSTA:
Cercando di semplificare il più possibile la casistica da lei presentata, diciamo subito che anche nel periodo ipotetico dipendente vale il divieto di utilizzare il condizionale nella protasi, possibile (ma non obbligatorio) soltanto nell’apodosi. Vediamo ora di commentare alla svelta tutte le frasi.
- A) Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto: come al solito, l’indicativo è possibile, ma più informale del congiuntivo.
- B) Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto: come sopra. Entrambe le completive di A e B sono possibili anche con il condizionale in quella che di fatto è l’apodosi del periodo ipotetico: «Non pensavo che mi sarei pentito…»; «Non pensavo che ti avrebbe dato fastidio…».
- C) Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa: come sopra: indicativo possibile ma meno formale del congiuntivo. Anche qui è possibile il condizionale in apodosi: «… che non saresti dovuta rimanere da sola…».
– Non penso di pentirmi se lo facessi: va bene.
– Non penso di pentirmi se lo faccio: non solo è meno formale, ma implica anche una probabilità maggiore di farlo: se lo faccio non mi pento.
– Non penso che Mario si arrabbi se passassi: non funziona. O si mette il condizionale in apodosi («Non penso che Mario si arrabbierebbe se passassi») o il presente in protasi («se passo»), come nella frase successiva.
– Non penso che Mario si arrabbi se passo: va bene, come pure «…si arrabbierebbe…».
– So che lui arriva se ci fossero pure gli altri: non funziona. O si usa il condizionale in apodosi («…lui arriverebbe…») o si usa il presente in protasi come nella frase successiva.
-So che lui arriva se ci sono pure gli altri: va bene.
Fabio Rossi
QUESITO:
Esprimerò la mia richiesta in forma esemplificata in quanto una diversa strategia espressiva la renderebbe alquanto farraginosa. La TV riprende una partita di calcio e non la trasmette in diretta e il giorno dopo la manda in onda. Se io vedo la partita in questa seconda fase si può dire che la vedo in differita. Poniamo ora che la TV riprenda la partita e la mandi in diretta e poi, domani, la invii di nuovo in onda tutta o in parte. Io che la guardo in questa seconda fase, posso asserire di vederla in differita o in questo caso (visto che il giorno prima c’era stata la diretta) questo termine diventerebbe improprio?
RISPOSTA:
Con il sostantivo differita si intende una trasmissione radiofonica o televisiva registrata e mandata in onda in un momento successivo (Zingarelli 2023), perciò l’uso di questa parola va bene nel suo primo caso; un programma già andato in onda e nuovamente trasmesso in un momento successivo prende, invece, il nome di replica.
Raphael Merida
QUESITO:
So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.
RISPOSTA:
Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un mio amico mi ha detto che non ci sarebbe stato al mio compleanno, ma che avrebbe voluto esserci. La risposta corretta è: «sarà come tu ci fossi» oppure «sarà come tu ci sia»?
RISPOSTA:
Si presume che la festa non ci sia ancora stata, pertanto la risposta, con il verbo reggente al futuro, richiederebbe, in teoria, il presente e non l’imperfetto, che invece implicherebbe un riferimento al passato. Del resto, il futuro è allineato al presente nella consecutio temporum, e se il verbo reggente fosse al presente avremmo il congiuntivo presente nella subordinata: «(adesso) è come se tu ci sia» (o, informalmente, «come se tu ci sei»). Tuttavia, le comparative ipotetiche (introdotte da come se, con possibile ellissi di se) hanno per l’appunto una forte componente ipotetica che rende pienamente giustificabile (e tutto sommato preferibile) anche l’alternativa al congiuntivo imperfetto, in analogia con quanto avviene nel periodo ipotetico della probabilità: «se tu ci fossi sarebbe bello». Proprio per la carica epistemica (comunque tu non ci sei), dunque, qui anche l’imperfetto congiuntivo è corretto, e anzi preferibile: «è come (se) tu ci fossi», «sarà come (se) tu ci fossi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggo su un giornale a diffusione nazionale quanto dichiara un noto giornalista: «Vi spiego come si diventa giornalista». Io avrei usato il plurale: «Vi spiego come si diventa giornalisti». Sono corrette entrambe le varianti? Se sì, quale si fa preferire?
RISPOSTA:
Le due forme sono del tutto equivalenti, sul piano strutturale e stilistico, e dunque entrambe perfettamente corrette in italiano. Il singolare si riferisce al ruolo, mentre il plurale dà più rilievo alle persone che ricoprono quel ruolo. Capisco la sua preferenza: parlando a un uditorio ampio, per esempio a studenti e studentesse, puntare alla concreta possibilità che ciascuna/o di loro diventi giornalista può sembrare più efficace. Però a favore del singolare rema l’essere adatto sia a un uomo sia a una donna, laddove il plurale al maschile indistinto, oggi più che mai, può essere comprensibilmente avvertito come discriminatorio. Allora al plurale sarebbe bene aggiungere “e giornaliste”. Il singolare è più economico e più inclusivo e quindi, in fin dei conti, preferibile: laddove la morfologia aiuta l’inclusività è sempre bene sfruttarne le risorse.
Fabio Rossi
QUESITO:
A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.
«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».
C’è qualche regola da seguire?
Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.
Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».
RISPOSTA:
In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).
Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.
«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».
«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».
Fabio Rossi
QUESITO:
“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?
RISPOSTA:
Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle frasi sotto riportate, l’articolo e la proposizione, a seconda dei casi, posti tra parentesi, sono facoltativi (e quindi corretti) oppure errati?
La loro presenza nel testo, specie nel caso dell’articolo dei primi due esempi, modifica, anche lievemente, il senso generale del messaggio; oppure non c’è differenza tra le frasi complete e quelle ellittiche?
1) (Il) pensarti mi fa star bene.
2) (Il) leccarsi le ferite è un inutile atteggiamento di autocompatimento.
3) Mi spiace (di) non essere venuta alla festa.
4) Cerco (di) te.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte ben formate, sia con l’articolo (o la preposizione), sia senza. Nessuno dei quattro casi è però configurabile come ellissi, perché si tratta di costrutti alternativi e dotati di loro autonomia senza dover ipotizzare la caduta di un elemento. Nei primi due casi, addirittura, la trafila storica è esattamente al contrario: prima nasce la forma senza articolo, poi quella con articolo.
1) e 2) È sempre possibile trasformare un infinito in un infinito sostantivato, mediante l’aggiunta dell’articolo. Non c’è alcuna apprezzabile differenza semantica tra l’interpretazione come infinito sostantivato e l’interpretazione come completiva soggettiva; stilisticamente, la variante con l’infinito sostantivato è un po’ più pesante, dunque meno adatta a un contesto formale.
3) Le due frasi sono del tutto equivalenti. In molti casi l’italiano presenta alternative nella reggenza verbale, con o senza preposizione. La forma senza preposizione è la più antica (cioè come il latino, che non ammetteva la preposizione davanti all’infinito), mentre quella con la preposizione è più recente; quella con la preposizione è meno formale.
4) La forma con di è decisamente rara e ha anche una sfumatura semantica diversa: ‘chiedere di qualcuno’: «cercano dell’avvocato Rossi», cioè chiedono se c’è l’avvocato.
Fabio Rossi
QUESITO:
All’epoca, dopo che era avvenuta quella disgrazia, eravamo come foglie che il vento…
- a) portasse via
- b) portava via.
Suppongo che entrambe le soluzioni siano valide.
Mi chiedo però se la differenza tra l’una e l’altra sia di tipo (come insegnate voi) diafasico, oppure se essa sia di tipo semantico.
RISPOSTA:
Come al solito, la differenza è essenzialmente di tipo diafasico (più formale il congiuntivo, meno formale l’indicativo), ma, come spesso avviene, le ragioni diafasiche non escludono quelle sintattiche e/o semantiche. In questo caso, in virtù della frequente associazione del congiuntivo (soprattutto imperfetto) a contesti ipotetici quali la protasi del periodo ipotetico, la versione al congiuntivo conferisce al periodo da lei segnalato una sfumatura epistemica (cioè di probabilità o possibilità), quasi a sottolineare che il vento può portare via (o anche non portarle) quelle foglie. Ricordo che le relative al congiuntivo possono assumere sfumature varie (finali, consecutive, epistemiche ecc.). Nel caso specifico, però, c’è davvero bisogno di indicare che il vento può portare o non portare via le voglie? Non è in certo qual modo ovvio dal contesto semantico complessivo? Occorre sempre chiedersi se il congiuntivo sia necessario o no, magari se sia un mero sfoggio di “bello stile” (in realtà retaggio di certe malintese pseudonorme scolastiche). Inoltre, sempre a proposito di stile, non sarebbe molto meno faticoso il periodo senza proposizione relativa? Cioè così: «…eravamo come foglie al vento».
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto l’utilizzo del verbo provvedere in questo modo? “Avresti dovuto PROVVEDERE IN QUELLA DIREZIONE per evitare problemi”.
RISPOSTA:
Sì; in una frase come la sua il verbo provvedere è usato assolutamente, ovvero come verbo intransitivo monovalente (o inergativo). Con questa costruzione, il verbo assume il significato di ‘cercare una soluzione’ e può certamente essere arricchito da sintagmi aggiunti (o espansioni) come in quella direzione, che restringe l’ambito dell’intervento a quello nominato precedentemente nel discorso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo di propormi la vostra analisi del periodo di questo breve testo.
“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nei buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Claudio Magris, Un altro mare).
RISPOSTA:
Di seguito l’analisi del periodo; in coda si forniranno alcune note.
Carlo gli aveva detto, lui = principale
che, nell’ora sarebbe salito sull’abbaino della soffitta = sub. oggettiva di I grado;
in cui la nave doveva salpare, = sub. relativa di II grado;
per guardare, nella sera in direzione di Trieste, là = sub. finale di II grado;
che si spegneva, = sub. relativa di III grado;
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di III grado;
quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio = sub. comparativa ipotetica di III grado;
e salvare le cose dall’oscurità = coord. alla sub. comparativa ipotetica di III grado;
che aveva insegnato = sub. relativa di I grado;
che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire = sub. oggettiva di II grado;
vedere le cose lontane = sub. oggettiva di III grado;
come fossero vicine, = sub. comparativa ipotetica di IV grado;
abolire la brama = coord. alla sub. oggettiva di III grado;
di afferrarle, = sub. dichiarativa di IV grado;
perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere = sub. causale di V grado.
La proposizione principale nel testo è divisa in due parti, che si trovano a grande distanza l’una dall’altra; la prima parte (Carlo gli aveva detto) è continuata da una serie di subordinate contenenti descrizioni di luoghi e azioni, la seconda (il pronome lui) prolunga a distanza la principale per aggiungere alla frase un’informazione astratta (nella quale, però, si rispecchia il soggetto). Il sintagma complesso in direzione di Trieste, là è quasi certamente aggiunto al verbo guardare, ma non è escluso che ruoti intorno al verbo spegnere. Se si segue questa seconda interpretazione l’analisi di quella parte diventa:
per guardare, nella sera = sub. finale di II grado;
che si spegneva, in direzione di Trieste, là = sub. relativa di III grado.
Ancora, la relativa dove lui, Enrico, partiva può essere interpretata come dipendente da quest’ultima proposizione, per cui avremmo:
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di IV grado.
In questo caso guardare cambia valenza e significato; non è più bivalente con il significato di ‘osservare un oggetto o un processo’, ma monovalente con il significato di ‘soffermarsi a contemplare’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho diverse domande sull’uso dei modi nelle subordinate.
1. L’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo ha una valore diafasico nelle completive?
2. Per quanto riguarda la proposizione relativa, nelle frasi seguenti il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo senza cambiamento di significato?
a. E poiché il denaro, in America come altrove, si guadagna in mille modi ma difficilmente con lo studio delle lettere e delle arti e alle lettere si dedicano volentieri soprattutto i facoltosi che vi siano inclinati (Soldati, America primo amore).
b. La stazione della vecchia Delhi di notte è uno di quei posti dove un viaggiatore che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).
c. Per un professionista sessantenne, che a suo tempo abbia fatto buoni studi superiori ma poi si sia occupato di altro – poniamo di import-export o di ortopedia –, la storia sarà probabilmente la disciplina che si interessa di guerre… (Serianni, Prima lezione di grammatica, p. 3).
d. Ho sentito storie da favola su tante notti passate all’aperto, non un problema che sia uno, tutto liscio come nei film (Daniele Mencarelli, Sempre tornare, p. 34).
e. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (Corriere della Sera, 31 gennaio 2023, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?).
f. Era l’unico che avesse la qualità per farlo.
3. Nella frase “Ho trovato qualcuno che potrebbe / può aiutarci” il congiuntivo possa non va bene. È vero?
4. Nei prossimi esempi la scelta tra il congiuntivo e l’indicativo è libera?
I ragazzi che non studino / studiano bene la lingua italiana non riusciranno a lavorare come giornalisti.
Un ragazzo che non studi bene….
5. Nella seguente frase è possibile sostituire pigliassero con pigliavano senza cambiare la semantica?
Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo (Pavese, La luna e il falò, p. 109).
6. In questi esempi la relativa è investita di un senso ipotetico di improbabilità?
Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia. (Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, p. 46).
Un viaggiatore armato di binocolo che si trova / si trovi a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia (frase da Ammaniti modificata).
RISPOSTA:
1. Nei casi in cui l’alternanza è possibile (quindi esclusi i casi in cui è obbligatorio usare o l’indicativo o il congiuntivo) essa ha valore diafasico: la variante con il congiuntivo è più formale di quella con l’indicativo.
2. Nelle proposizioni relative a-d il congiuntivo ha ancora valore diafasico. Nell’esempio e la relativa è consecutivo-finale (un’intelligenza artificiale che possa prendere = un’intelligenza artificiale tale da poter prendere); la variante all’indicativo presenterebbe il poter prendere come fattuale. L’esempio f presenta una relativa apparentemente consecutiva, ma in cui, invece, il congiuntivo ha valore diafasico (avesse = aveva). Consecutivo-finale sarebbe una frase come “Era l’unico che avesse la possibilità di farlo; mentre, infatti, la qualità è certamente posseduta dal soggetto, e non può essere rappresentata come un’acquisizione possibile, la possibilità è per definizione un’acquisizione possibile.
3. Nella frase l’uso del congiuntivo è impedito dal verbo trovare al passato, che presenta l’antecedente qualcuno come certamente reale. Si noti che la relativa consecutivo-finale al congiuntivo sarebbe possibile se al posto di trovare ci fosse, per esempio, pensare (“Ho pensato a qualcuno che possa aiutarci”) e anche se il verbo trovare fosse presente (“Trova qualcuno che possa aiutarci”), perché in quel caso qualcuno non sarebbe certamente reale, ma sarebbe ipotetico.
4. Nella frase con l’antecedente i ragazzi la relativa al congiuntivo è molto innaturale, perché l’antecedente è determinato e complessivamente la frase è di formalità media. In quella con l’antecedente singolare si possono usare entrambi i modi, perché l’antecedente è indeterminato; in questo caso non sarebbe facile stabilire se il congiuntivo avrebbe valore diafasico o la funzione di rendere la relativa consecutiva: le due funzioni si sovrapporrebbero.
5. L’indicativo si può sostituire al congiuntivo, ma cambia il significato della frase. Il congiuntivo, infatti, è attratto dalla proposizione finale reggente (per non avere i sergenti che mi pigliassero in giro = affinché i sergenti non mi pigliassero in giro); l’indicativo darebbe, invece, alla relativa la funzione di qualificare fattualmente l’antecedente.
6. Nella frase originale che si trovasse = se si trovasse; nella frase modificata l’alternanza ha un valore simile a quello della seconda frase dell’esempio 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.
– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.
– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile
– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.
RISPOSTA:
Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:
– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.
Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.
– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).
In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.
L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.
– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.
Esclusa fosse.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
Tutte le forme sono possibili.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.
Tutte le forme sono possibili.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.
Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
Tutte le forme sono possibili.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).
Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.
Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.
In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.
La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.
Impossibile avessimo trovato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando scrivo utilizzo molto spesso la virgola insieme alla congiunzione, sempre con una specifica motivazione determinata dal senso che desidero attribuire alla frase. Talvolta, nemmeno così raramente, mi capita di usare la virgola anche negli elenchi in cui è presente una “e”.
Mi sento spesso dire che non so scrivere, che non conosco l’uso della punteggiatura. Solitamente sorrido, ascolto, mi stanco. Mi piacerebbe capire se ho torto, ed ammettere i miei limiti.
Faccio degli esempi: “pane, pasta, e pomodoro” ha un significato diverso da “pane, pasta e pomodoro”. Lo stesso vale anche per “l’amava, e l’odiava”. Anche questa espressione è diversa e differente da “l’amava e l’odiava”. Così “Dio, patria e famiglia” non è esattamente lo stesso di “Dio, patria, e famiglia”. Giusto?
RISPOSTA:
Ha ragione lei su tutta la linea: questa del divieto della virgola prima della congiunzione è una delle tante regole di fantagrammatica (come la chiama Sgroi, o, per essere più generosi, di norma sommersa, come la chiama Serianni) inventate senza alcuna ragione dai maestri di scuola. A volte l’errore, come in molti dei suoi begli esempi, è proprio nel non metterla, la virgola prima della e.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel mio lavoro da copywriter, creo spesso delle campagne pubblicitarie per i social, la carta stampata e le affissioni.
Nelle “headline” (i titoli delle campagne pubblicitarie) io non metto mai il punto, a meno che non sia un punto interrogativo o esclamativo.
Tantissimi altri miei colleghi invece lo fanno.
Ad esempio nella headline “La colazione dei campioni” secondo me il punto non ci va. Mentre altri lo mettono.
Ho ragione io, hanno ragione i miei colleghi, o è una scelta stilistica?
RISPOSTA:
Ha ragione lei: nei titoli di norma il punto non va. È pur vero che, soprattutto nella testualità online, lo stile la fa da padrone, come anche l’espressività, le consuetudini scrittorie (mutate) e le attese dei lettori. Motivo per cui taluni argomentano sostenendo che il punto può conferire maggiore perentorietà, sicurezza, affidabilità (come a dire: punto e basta, so quello che dico e che offro). Per queste ragioni, all’opposto, in altri tipi di testo il punto viene bandito anche fuor dai titoli: se ha esperienza di testualità nei social, sa come un punto alla fine di un post di fb o di un messaggio whatsapp può rompere amicizie e amori (è successo più volte veramente), perché viene interpretato come una chiusura all’altro, un atto di violenza, una rottura del rapporto.
Cionondimeno, da affezionato tradizionalista alla testualità analogica, mi sento di suggerirle di rimanere fedele alla nostra vecchia e amata norma di non mettere mai il punto fermo alla fine di un titolo. Punto (ma sia qui detto e scritto senza alcuna ostilità, anzi…)
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.
Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta piacergli la pizza?
Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.
Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.
RISPOSTA:
I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta piacergli la pizza.
In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».
Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
Causa la mia ignoranza vorrei sapere con certezza se in questo slogan pubblicitario la mancanza del congiuntivo sia da considerarsi errore (da bocciatura) o se invece è corretto così com’è per quanto possa forse suonare male o poco abituale:
NON VOGLIAMO CHE TU INVESTI. VOGLIAMO CHE INVESTI MEGLIO.
Ora, INVESTA, suonerebbe meglio; ma non è forse anche artificioso, o comunque non obbligatorio, nel senso: questa frase, la cui reggente è all’indicativo, non richiederebbe, nella subordinata, sempre l’indicativo? In considerazione anche del fatto che la frase sì esprime una speranza, un desiderio, ma la sua forma però è assertiva, imperativa. La forma con cui non avrei dubbio alcuno se usare il congiunto sarebbe la seguente e la più corretta (ma per nulla adatta allo slogan): NON VORREMMO CHE INVESTISSI TANTO. VORREMMO CHE INVESTISSI MEGLIO.
RISPOSTA:
La frase è corretta, ma non per una questione di suono, bensì di sintassi e di stile. Senza dubbio la versione al congiuntivo è più formale, ma il significato di entrambe le frasi è identico. Nelle subordinate completive (come quelle dipendenti da voglio) sono ammessi tanto il congiuntivo (più formale) quanto l’indicativo (meno formale). Per il resto, la sua spiegazione non è corretta: non c’entra (quasi) nulla il modo verbale della reggente. Decisamente da preferire il congiuntivo nella seconda frase: «Vorremmo che investissi…». Altresì giusta la riflessione che l’indicativo nella prima frase renda forse meglio la decisa volontà che le persone investano. Però, ripeto, a governare l’uso del congiuntivo è più il registro di formalità che la semantica, per cui, per evitare di sentirsi dare dell’ignorante dai puristi, le suggerirei comunque la forma al congiuntivo «vogliamo che investa».
Fabio Rossi
QUESITO:
Premetto che sono un cantautore e si tratta di una frase di un nuovo testo di una canzone. Non riesco a capire se è corretta o meno, ho chiesto anche a mia moglie diplomata al liceo classico e laureata in lingue…
La frase è la seguente: «Direi, anche una frase ti direi se la ricorderai».
Per questioni di metrica deve essere così, il dubbio è se grammaticalmente devo usare necessariamente «se la ricordassi». Il significato non vuole essere retorico, ovvero non voglio dire che non ti dico una frase perché poi non te la ricordi ma è quasi interrogativa, ovvero se tu mi prometti, o mi dici che la ricorderai allora quasi quasi ti direi anche una frase…
RISPOSTA:
Il verso va benissimo, è corretto e anche efficace: l’indicativo nel periodo ipotetico è sempre possibile, ancorché meno formale del congiuntivo. Inoltre, in questo caso, oltre ai motivi metrico-poetici (già validissimi di per sé, in una canzone), c’è anche una ragione semantico-pragmatica, cioè la (quasi) certezza, la garanzia, del ricordo: devi proprio promettermi «me la ricorderò».
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.
Fabio Rossi
QUESITO:
vorrei sapere la differenza tra in frigorifero e nel frigorifero.
Inoltre, se nella frase «Chi è senza, dovrebbe indossare un cappello», la virgola sia errata.
RISPOSTA:
In è più adatto a espressioni generiche (come conservare in frigorifero, da tenere in frigorifero, mettere la spesa in frigorifero), mentre nel è più indicato per espressioni specifiche, in cui si sottolinei il luogo o l’azione di riporre qualcosa di specifico nel luogo: ho messo il latte nel frigorifero (ma anche in frigorifero); nel frigorifero non c’è niente (ma anche in frigorifero) ecc. Come vede dagli esempi, in (in quanto più generico) è molto più comune di nel, che invece è usato in un numero minore di frasi: nessuno direbbe mai (o quasi) il vino bianco va tenuto nel frigorifero. Una piccola prova di frequenza relativa: in Google adesso in frigorifero conta oltre 6 milioni di occorrenze, a fronte delle 277 mila di nel frigorifero.
La frase da lei segnalata si può scrivere con o senza la virgola; anche se sarebbe più elegante e più chiaro fare l’ellissi dopo (e non prima) che si è nominato l’elemento pieno: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarlo» (oppure «indossarne uno»), che è meglio scrivere senza virgola. Nel primo caso la virgola può andare (pur contravvenendo alla regola di non separare mai il soggetto dal predicato) proprio per arginare la stranezza dell’adiacenza di senza con dovrebbe e segnalare dunque una forte ellissi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Cordiali linguisti,
«Indipendentemente dal fatto che io…
- Sia o non sia religiosa
- Sia religiosa o meno
- Sia religiosa
- Possa essere religiosa».
Quando mi sono imbattuta nella redazione di questa frase, ho incontrato non poche difficoltà nello scegliere quale soluzione adottare tra quelle prospettate.
Alla fine ho optato per la numero 3, giudicando le altre, in particolare la numero 1 e la numero 2, ridondanti.
La numero 4, invece, mi pare, per così dire, cauta, con una sfumatura attenuativa del messaggio.
Gradirei molto una vostra opinione in merito.
RISPOSTA:
Nulla da aggiungere alla sua interpretazione, che non fa una piega. Forse si potrebbe spezzare una lancia a favore della 1 dicendo che è di più immediata perspicuità per i lettori più pigri. La 3, in effetti, potrebbe indurre il lettore distratto a credere che, comunque, lei stia ammettendo (il fatto) di essere religiosa, senza alternative esplicite. Cionondimeno convengo con lei che la presenza del congiuntivo e l’intera costruzione della frase fanno optare per l’interpretazione dubitativa: potrei esserlo come non esserlo, e ciò è indipendente da quel che segue. A volte, peraltro, la ridondanza serve proprio a scongiurare ogni rischio di ambiguità nei lettori (sempre più distratti).
Fabio Rossi
QUESITO:
L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio riguardo l’utilizzo del congiuntivo nella frase che riporto qui sotto:
«ci vediamo domenica per chi ci fosse».
In un gruppo di persone che si ritrovano ogni fine settimana per delle gare sportive c’è una di queste che, dando appuntamento per la domenica successiva, dice «ci vediamo domenica per chi ci fosse».
Non è più corretto «per chi ci sarà»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, quella al congiuntivo è più formale. Trattandosi di una relativa con sfumatura potenziale/ipotetica (alcune persone possono esserci oppure non esserci) il congiuntivo sottolinea proprio questa eventualità, che però è lievemente ridondante, visto che la semantica della frase esprime già di per sé (visto che nessuno può prevedere il futuro e che non ci si può vedere con chi non c’è) il fatto che le persone possono esserci o no. Alla base della scelta del congiuntivo imperfetto è il seguente periodo ipotetico soggiacente alla semantica dell’intera frase: se ci foste (domenica prossima), ci vedremmo, altrimenti non ci vedremmo. Che però, in uno stile lievemente meno formale, può essere espresso anche così: se ci siete (o sarete) ci vediamo (o vedremo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Molti amici italiani mi dicono che non devo dire frase (1) quando fissiamo un appuntamento per fare un’altra chiacchierata nella settimana prossima.
(1) Se non riuscissi a parlare (nella data fissata) ti scriverei.
Volevo usare questo tipo di ipotesi per indicare che è improbabile che non ci sia. è sbagliato?
So che posso esprimere (1) come
(1a) Nel caso in cui non riuscissi a parlare ti scriverò.
Domanda 1: Quale potrebbe essere il problema con il mio uso della frase (1)?
Nel Corriere della Sera (29/10/22), ho trovato questo esempio che sembra non seguire le regole del periodo ipotetico:
(2) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……
Capisco che vuol dire
(2a) Nel caso in cui i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……
Domanda 2: l’uso del l’imperfetto del congiuntivo in (2) permette il futuro nella frase conseguenza? Non trovo nessun esempio nei miei libri.
Domanda 3 Se (2) viene scritta come (2b) cambia il significato?
(2b) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterebbe la liberta delle persone……
RISPOSTA:
1) La frase va bene. Anche 1a va bene: la 1 è leggermente più formale ed entrambe lasciano aperta la possibilità che lei non possa riuscire a parlare nella data stabilita, oppure che possa.
2) Stessa cosa: le frasi vanno tutte bene sia col condizionale (che è la scelta più canonica per il periodo ipotetico della possibilità), sia col futuro, che contamina la possibilità con la realtà (è cioè un periodo ipotetico misto). Le sfumature sono molto sottili e non da tutti percepite allo stesso modo. Diciamo che, in linea di massima, in entrambi i casi del gruppo 1 e del gruppo 2, la scelta del futuro sembra rendere più probabile il verificarsi dell’ipotesi e quindi della conseguenza, mentre viceversa il condizionale sembra rendere molto più improbabile sia l’eventualità del non riuscire a parlare, sia quella del peggioramento dei dati del Covid. La presenza di anche (anche se), inoltre, esclude in ogni caso che il governo limiti la libertà, sia col futuro sia col condizionale.
Rilegga bene Serianni e gli altri libri di grammatica: casi di periodo ipotetico misti sono sempre ammessi, in italiano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase seguente «ll Dirigente scolastico e gli insegnanti hanno il piacere di incontrarvi per presentare la nostra scuola», non sarebbe meglio scrivere presentarvi?
RISPOSTA:
Non è indispensabile, il senso è chiarissimo ugualmente. Del resto il verbo presentare richiede il dativo soltanto se si presenta una persona a un’altra, ma per altri contesti si può presentare una relazione, un progetto, una scuola, senza specificare a chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un brano tratto da un dialogo cinematografico.
«Quando sarà svelato il contenuto delle carte, la verità verrà a galla una volta per tutte. Sarebbero i miei parenti, eventualmente, a correre i rischi maggiori. Alla fine, che cosa ne saprebbero? Io, nel frattempo, potrei essermi rivolta a un legale per tutelarmi».
La proposizione «potrei essermi rivolta…» è corretta?
Se, invece, fosse stato detto (o scritto) «sarei potuta rivolgermi…» il periodo complessivo sarebbe stato comunque corretto nonostante la modifica del suo senso generale?
RISPOSTA:
Sì, corrette entrambe (oppure «avrei potuto rivolgermi»). Con i verbi servili è ammesso sia l’ausiliare del servile, sia l’ausiliare dell’infinito che dipende dal servile. Inoltre, nel caso specifico, il passato (condizionale) può essere costruito sia per il servile (avrei potuto rivolgermi) sia per il verbo che da esso dipende (potrei essermi rivolta). Sorvolo sulle sfumature (opinabili e personali) associabili a ciascuna opzione. In questo caso la sintassi sembra comunque molto involuta, per rendere la forte carica epistemica (ipotetica e di proiezione degli eventi nel futuro: ancora non è accaduto nulla di quello che si sta preventivando) del testo. Il fatto che si usi il passato (nel futuro) indica una sorta di proiezione: se tutto ciò accadesse/accadrà, io da adesso a quando (non) accadrà (nel frattempo), potrei decidere di rivolgermi a un legale. Quindi, se io mi rivolgo al legale adesso, quando la cosa accadrà io mi ci sarò già rivolto. Proprio per questo la prima soluzione (che enfatizza per l’appunto il passato nel futuro del verbo rivolgersi) mi pare più felice rispetto a avrei potuto rivolgermi, che invece mi sembra schiacciare il senso sull’irrealtà, cioè sul fatto che avrei potuto ma non l’ho fatto. Ma, come ripeto, sono sfumature molto sottili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.
Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.
La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?
RISPOSTA:
L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).
Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.
Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .
Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava, è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).
Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se sia sempre errato inserire una virgola prima o dopo un complemento («Hai lasciato altre cose in macchina», «Qui, nevica», «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia», «Con il vocativo, ci va la virgola», «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania, ecc.), oppure prima del che («L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»).
Mentre sono certo che una frase del genere è agrammaticale: «Il gatto di Luca, è un persiano.», «È un persiano, il gatto di Luca.»
RISPOSTA:
L’uso della punteggiatura, poco sistematico nelle trattazioni grammaticali, risponde a una molteplicità di funzioni, almeno sintattiche, pragmatiche, testuali, espressive, stilistiche, mimetiche dell’intonazione.
Quindi in molti degli esempi da lei riportati la virgola può esserci, oppure no, a seconda del contesto e della sfumatura pragmatico-semantica da dare al testo. Vediamoli in dettaglio.
1) «Hai lasciato altre cose, in macchina»: la presenza della virgola prima di in macchina attribuisce al sintagma il valore di informazione condivisa, per esempio perché è stata già introdotta: so che sai di aver lasciato alcune cose in macchina, ma ti faccio notare che ne hai lasciato anche altre (in macchina).
2) «Qui, nevica»: efficace nei casi di contrasto: qui, nevica, mentre da te in Sicilia immagino ci sia un sole che spacca, beato te!
3) «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia»: la virgola prima di dall’Australia mette lui in relazione con qualcun altro che parte dall’Australia (per es. “Non saremo gli unici australiani alla riunione; domani parte anche lui, dall’Australia”).
4) «Con il vocativo, ci va la virgola»… mentre col soggetto no.
5) «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania»: la virgola attribuisce pari importanza a entrambe le proposizioni.
6) «L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»: con le relative la virgola ne segnala la natura esplicativa, anziché limitativa. Cioè, se c’è la virgola la relativa aggiunge un particolare accessorio, non determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa, come in: «La macchina, che può avere dei problemi, è di Luca»: c’è solo una macchina, che è di Luca e che può avere dei problemi; «La macchina che può avere dei problemi è di Luca»: ci sono almeno due macchine, una con problemi (e di Luca) e l’altra no.
7) «Il gatto di Luca, è un persiano»: mai separare il soggetto dal predicato con una virgola, a meno che non si voglia mettere in evidenza il soggetto, come in «È un persiano, il gatto di Luca», che va benissimo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di sciogliere questo dubbio:
1 Si sono cominciate a introdurre nuove regole.
2 Si è cominciato a introdurre nuove regole.
Sono entrambe frasi corrette?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambe frasi corrette e significano la stessa cosa. La prima è costruita con il si passivante, e dunque letteralmente equivale a «Nuove regole hanno cominciato a essere introdotte». La seconda è costruita con il si impersonale: «Qualcuno ha cominciato a introdurre nuove regole». In Toscana quest’ultima frase avrebbe anche il significato di «Noi abbiamo cominciato a introdurre nuove regole».
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando il verbo essere viene usato in una costruzione tipo il fatto è che, dato che essere è un verbo copulativo, non è possibile che la proposizione introdotta dal pronome che sia un’oggettiva, è vero? Il fatto diventa il predicato nominale?
Prendiamo questo esempio: “Sono contento che sia andata così”. Qui abbiamo il verbo copulativo essere. Io è il soggetto, giusto? Contento sembra un predicato nominale, giusto? La proposizione dopo il che non può essere una soggettiva anche se il verbo nella prima frase è essere: come mai? È a causa del predicato nomiale contento o a causa del soggetto io? O è qualcos’altro?
Prendiamo questo esempio dal libro Il francese di Massimo Carlotto:
Si era convinto che quella bella ragazza non POSSEDESSE altro che il suo corpo (p. 9-10).
Sembra un’altra proposizione oggettiva (dopo che). Non riesco a capire come mai non è scritto “Si era convinto del fatto che quella bella ragazza non possedesse altro che il suo corpo”. Quale tipo di proposizione segue il che nella frase scritta da Carlotto?
RISPOSTA:
La copula non può reggere il complemento oggetto, quindi se la reggente è il fatto è o espressioni simili la subordinata è soggettiva. In effetti questa subordinata potrebbe rappresentare sia il soggetto del verbo essere (per esempio “Il fatto è che non voglio venire” = “Che non voglio venire è il fatto”), sia il completamento del predicato di cui fa parte il verbo essere (che non potremmo chiamare predicato nominale, visto che sarebbe formato dalla copula più un’intera proposizione); per semplicità, comunque, la consideriamo soggettiva (e in nessun caso oggettiva). Nella frase “Sono contento che sia andata così” la proposizione subordinata non può fare da soggetto del verbo essere: in questo caso il soggetto della reggente non può che essere io e il predicato nominale è sono contento. L’aggettivo contento può essere completato da un argomento preposizionale (che prende il nome di oggetto obliquo), per esempio sono contento del risultato, oppure da una proposizione argomentale (ovvero completiva) oggettiva. L’aggettivo convinto ha la stessa costruzione di contento: può reggere un argomento preposizionale (per esempio sono convinto della mia opinione) o una proposizione oggettiva, come nel suo esempio. Nella variante della frase sono convinto del fatto che… l’aggettivo convinto è completato dall’argomento preposizionale del fatto, il quale, a sua volta, regge una proposizione argomentale. Questa proposizione può essere classificata ancora come oggettiva, se consideriamo convinto che equivalente a convinto del fatto che, oppure (come farei io) dichiarativa, visto che è retta non da un verbo, ma dall’argomento di un verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi una frase la cui correttezza mi è stata contestata a torto, secondo il mio parere: “Che sia la prima e l’ultima volta che vi permettete di agire in questo modo”. La frase corretta sarebbe: “Che
sia la prima e l’ultima volta che vi permettiate di agire in questo modo”.
Quest’ultima formulazione a me pare inaccettabile, comunque ci terrei molto a conoscere il vostro parere a riguardo.
RISPOSTA:
Come giustamente dice lei, la sua frase è corretta e non richiede affatto la sostituzione dell’indicativo col congiuntivo, che è tuttavia possibile. Essa, oltre, come la solito, a innalzare il livello diafasico della frase, le conferisce un valore potenziale: “che vi permettiate”, nel senso di ‘qualora pensaste di potervelo permettere un’altra volta’… Dato il senso della frase, tuttavia, questa sfumatura potenziale è del tutto superflua, perché di fatto “ve lo siete già permesso”.
Insomma: la sua è la versione migliore della frase e chi gliel’ha corretta mostra di non avere le idee chiarissime sul funzionamento dell’indicativo e del congiuntivo in italiano.
Fabio Rossi
QUESITO:
L’ambiguita’ fa parte della bellezza e della frustrazione della lingua italiana dato che la particella <> puo’ indicare diverse cose. Lo sapevo gia’.
Per evitare questi malintesi, che cosa puo’ consigliarmi? Devo evitare questo uso di ci nelle frasi che le ho girato o devo cambiare i miei interlocutori (scherzo).
Questo tipo di cosa mi succede abbastanza frequentemente anche se provo a fare pratica con gli italiani colti. A volte mi fa impazzire quando va cosi’. Vuol dire che la lingua italiana debba essere semplificata? Forse vuol dire che in questi giorni con la tecnologia, i bombardamenti delle informazioni, non c’e’ tempo per studiare bene la lingua italiana in Italia. Ne sono molto curioso.
Questo tipo di cosa succede anche tra le madrelingue? Immagino di si’ dato che la lingua e’ a volte ambigua. Potrebbe fare un’ipotesi per spiegarmi come mai due dei miei interlocutori non mi abbiano fatto una domanda per farmi chiarire quello che volevo dire con la particella ci???
RISPOSTA:
Come dice lei, l’ambiguità fa parte di tutte le lingue naturali del mondo. Se così non fosse, ci vorrebbe una quantità infinita di segni (parole, frasi ecc.) per esprimere un rapporto univoco segno / significato, ma la memoria umana non è fato per gestire l’infinito, pertanto ci si deve rassegnare alla polisemia (cioè al fatto che uno stesso segno, parola, frase, abbiano più significati) e all’ambiguità. Ambiguità che peraltro 99 volte su cento il contesto e la collaborazione tra gli interlocutori contribuiscono a limitare. Proprio per questo i suoi interlocutori, in quanto parlanti nativi e attivi, cioè collaborativi, non hanno avuto alcun problema a disambiguare, grazie al contesto, il suo enunciato.
Di casi come questi ne troverà a miliardi, in tutte le lingue del mondo, e non sono un male, bensì un bene delle lingue. Appunto perché consentono di risparmiare le risorse della nostra limitata memoria. La polisemia non ha nulla a che vedere né con lo studio, né con l’imperizia dei parlanti, né con la decadenza, o la semplificazione, delle lingue. Comunque, tutte le lingue tendono alla semplificazione delle risorse.
Quindi dorma pure sonni tranquilli e confidi nella forza del contesto e nello spirito collaborativo dei suoi interlocutori.
Per quanto riguarda (tra i miliardi) altri esempi possibili di polisemia di ci, nei vari contesti, pensi anche a un verbo pronominale come tenerci, che può indicare sia ‘avere interesse per qualcuno o qualcosa’, sia ‘tenere in un luogo’:
1) (riferito a una scatola): ci tengo (nel senso di ‘mi piace molto’)
2) ci tengo le sigarette.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato. (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
Le ho risposto: Spero che tu CI abbia portato dei soldi.
Intendevo “a Madrid” per CI. E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano. Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male. E’ una questione del verbo? E’ locuzione? Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire). Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?
RISPOSTA:
Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario.
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Se si dice: “L’esame è andato abbastanza bene” vuol dire che è andato meglio o un po’ meno bene di quando si dice: “L’esame è andato bene”?
È preferibile che il nostro esame vada bene o abbastanza bene?
RISPOSTA:
Il siciliano abbastanza non ha lo stesso significato dell’equivalente parola italiana. In italiano con abbastanza si indica di solito una quantità appena sufficiente, o di poco superiore alla sufficienza, cioè quanto basta, laddove il siciliano l’intende come quasi sinonimo di molto. Motivo per cui, se in Sicilia un esame passato abbastanza bene è lodevole, in italiano esso rappresenta un risultato mediocre. Insomma, in italiano è preferibile che l’esame vada bene, piuttosto che abbastanza bene.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se i verbi fraseologici e modali adottati negli esempi sotto indicati confliggano con le costruzioni nelle quali sono stati inseriti.
1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge.
RISPOSTA:
Non c’è un conflitto sintattico, bensì una ridondanza semantica, che invita a eliminare i modali e i fraseologici, in quanto il loro valore è già implicito nel sintagma reggente o nel contesto generale della frase:
1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa: è chiaro che lo spavento sia legato a qualcosa che viene vissuto come un obbligo. Quindi meglio: L’idea di affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti: è chiaro che il dono riguarda una abilità, una capacità, cioè il saper fare qualcosa. Quindi meglio: Il dono di dipingere [meglio ancora: il dono della pittura] viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara: se è una capacità, il senso del riuscire è implicito. Quindi meglio: La capacità di trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me: opportunità è sinonimo di possibilità, quindi poter è del tutto pleonastico. Meglio: L’opportunità di parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge: il pensiero, cioè la preoccupazione, è legato proprio alla necessità, quindi dover è del tutto pleonastico. Meglio: Il pensiero di lasciar perdere mi affligge.
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggendo una raccolta di indovinelli per adolescenti ho trovato questa frase:
Un re decide di offrire una grande somma di denaro al suddito che gli racconti una bugia “intelligente”.
Mi potreste spiegare il perché è stato usato il congiuntivo con il verbo raccontare?
RISPOSTA:
Il congiuntivo è qui necessario perché conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica che altrimenti, con l’indicativo, si perderebbe. Il congiuntivo non ha a che vedere con il verbo raccontare, bensì, per l’appunto, con la relativa. Se il verbo fosse al modo indicativo (che gli racconta una
bugia “intelligente”), vorrebbe dire che il suddito effettivamente gli racconta una storia intelligente e il re lo paga. Invece il re ancora non ha pagato il suddito, perché ancora non sa se ne troverà uno in grado di raccontargli una storia da lui ritenuta “intelligente”. Ed è proprio questa incertezza (troverà un suddito? Saprà raccontargli una storia? Sarà la storia ritenuta intelligente dal re oppure no?) che viene espressa solo grazie al modo congiuntivo.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase
a) “Si sarebbero voluti far guidare dal leader del partito”
è equivalente (e quindi corretta, anche se meno elegante) di
b) “Avrebbero voluto farsi guidare”
o
c) “Avrebbero voluto essere guidati”?
RISPOSTA:
La frase a) è semanticamente equivalente alla b), rispetto alla quale si distngue soltanto per l’anticipazione del pronome si, che provoca il cambiamento di ausiliare. L’anticipazione del pronome (o risalita del clitico) è effettivamente una scelta che abbassa leggermente la formalità della frase. La c) è anche molto simile alle altre due, ma la sostituzione di farsi guidare con essere guidati produce un cambiamento di significato: essere guidati è più neutrale di farsi guidare, che implica un maggiore grado di dipendenza del soggetto dalla guida.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se questa espressione è corretta: “È cominciata male ed è finita peggio”. È possibile anche dire: “Ha cominciato male ed ha finito peggio”? Istintivamente vedrei meglio la prima espressione se il soggetto sottinteso fosse una situazione, mentre vedrei meglio la seconda se il soggetto sottinteso fosse una persona.
RISPOSTA:
L’espressione cristallizzata è quella con l’ausiliare essere. L’altra variante non è scorretta, ma non ha il valore idiomatico proprio della prima e, inoltre, ha un significato leggermente diverso: è cominciata significa ‘ha avuto inizio’ e sottintende un soggetto come la cosa, la situazione; ha cominciato significa ‘ha dato inizio’ e sottintende un soggetto animato, oltre che un complemento oggetto come la cosa, la situazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei proporvi queste tre parole: sollecito, solerte e alacre. Per quanto ne so io, sollecito e alacre sono sinonimi di veloce, pronto nell’agire, quindi i termini sopracitati si riferiscono alla prontezza nell’agire e nulla dicono circa la qualità dell’azione, mentre solerte non ha a che fare con la velocità della risposta bensì con la qualità, l’accuratezza dell’azione. Se ciò fosse vero io potrei tranquillamente dire: “Costui ha agito con sollecitudine (o alacremente)” ma “Il lavoro svolto è di scarsa qualità (cioè non è svolto con solerzia)”. Mi capita sempre più spesso però di sentire che il termine solerte è usato come sinonimo di alacre o sollecito.
RISPOSTA:
La semantica lessicale è l’ambito della lingua più difficile da fissare e più soggetto al cambiamento nel tempo. Un punto fermo nell’individuazione del significato di una parola è fornito dall’etimologia, che, però, deve essere valutata con cautela, proprio perché i significati cambiano nel tempo. Sollecito viene dal latino sollicitus, a sua volta composto di sollus ‘tutto’ e citus ‘agitato’. Questo aggettivo, in linea con la sua etimologia, indica una persona che agisce con velocità, ma anche con cura e diligenza, quindi che non sacrifica la qualità alla velocità. Può essere riferito anche a un’azione o un comportamento. Lo stesso costituente sollus è in solerte, unito ad ars ‘arte’: una persona solerte agisce a regola d’arte, rispettando tutte le regole previste, compresa la velocità di esecuzione; un’azione solerte, a sua volta, è compiuta velocemente e a regola d’arte. Come si può vedere, sollecito e solerte sono vicini nel significato; li distingue una sfumatura, che è quella individuata da lei: sollecito enfatizza l’aspetto della velocità (coerentemente con il costituente citus), mentre solerte quello della diligenza (coerentemente con ars). Alacre è dal latino alacer ‘allegro’, da cui proviene anche allegro, che ne è, quindi, l’allotropo popolare. Il dizionario GRADIT elenca, tra i sinonimi di questo aggettivo, sia solerte sia sollecito; anche questo, però, si distingue dagli altri per una sfumatura specifica: più che al modo di compiere un’azione, si riferisce all’atteggiamento, persino al carattere, di chi la compie. Alacre, insomma, è una persona dal carattere attivo, vivace, operativo, a prescindere dalla singola azione compiuta; non a caso, questo aggettivo, diversamente dagli altri due, non si può associare a un’azione, ma può solo riferirsi a una persona.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Di che tipo sono le seguenti proposizioni introdotte da che, e come mai la prima è costruita con l’indicativo e la seconda con il congiuntivo?
(1) Il lato positivo è che è andata bene.
(2) Ciò che conta è che io riesca a uscire di casa.
RISPOSTA:
Le due proposizioni sono soggettive; possono essere interpretate, infatti, come il soggetto del verbo essere della reggente. La scelta del modo verbale in queste proposizioni, come anche nelle altre completive, è legata a ragioni prima di tutto stilistiche: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. Entrambe le proposizioni possono, infatti, essere costruite con l’indicativo e il congiuntivo: “Il lato positivo è che sia andata bene”; “Ciò che conta è che io riesco a uscire di casa”. Oltre alla ragione stilistica, altri fattori possono spingere a usare l’indicativo o il congiuntivo. Primo fra tutti è la cristallizzazione dell’uso, cioè l’abitudine dei parlanti di costruire una certa costruzione tipica sempre allo stesso modo: nella prima frase, per esempio, il lato positivo è che somiglia alla costruzione tipica è che o il fatto è che, che normalmente sono seguite dall’indicativo. Il congiuntivo, inoltre, può veicolare, in alcuni casi, una sfumatura di non fattualità, ovvero di eventualità, possibilità, incertezza: nella seconda frase, per esempio, che io riesco a uscire sarebbe facilmente interpretato come la constatazione del fatto che il parlante può effettivamente uscire; che io riesca a uscire, invece, sarebbe interpretato come la proiezione della possibilità nel futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sono chiesta spesso se verbi come “aumentare“, “crescere“, “diminuire“ e simili si prestano alla formazioni delle costruzioni correlative.
Ecco due esempi:
“(Tanto) più la materia prima scarseggia, (quanto) più i prezzi al dettaglio crescono“.
“(Tanto) più l’inflazione aumenta, (quanto) più il potere d’acquisto diminuisce“.
RISPOSTA:
Sì, si prestano come tutti gli altri verbi, e le frasi da lei portate a esempio sono perfettamente costruite e adatte a tutti gli usi. Sicuramente le costruzioni correlative, specialmente se basate sulla contrapposizione (più A sale, più B scende) richiedono un certo sforzo cognitivo, per essere comprese. Sforzo cognitivo che oggi sembra creare problemi sempre maggiori nei lettori. Il problema, però, sta in quei lettori (o meglio, in un mondo che sembra relegare la lettura, lo studio e la riflessione agli ultimi posti e che pensa che ogni testo debba essere ipersemplificato, addomesticato, reso immediatamente digeribile senza alcuno sforzo, ovvero in una società che a forza di semplificare tutto quello che scrive giungerà presto a instupidire milioni, miliardi di lettori, scrittori, utenti delle lingue), non certo nella lingua italiana, né nei costrutti correlativi, né nel significato di certi verbi.
Mi scuso per la lunghezza della parentesi, volutamente lunga e complicata, per dimostrare come la semplicità non sia sempre un valore: la realtà, il mondo, le lingue sono fatti di pensieri complessi, che se troppo semplificati si svuotano di senso. Viva la complessità, in tutte le sue forme!
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.
Fabio Rossi
QUESITO:
Da giorni mi tormenta l’analisi di questo periodo:
“Quanto più egli ha fatto al di là del proprio merito, tanto più è ritenuto degno
di ammirazione”.
È corretto dire che si tratta di due principale legati dalla correlazione “quanto
più… tanto più “?
RISPOSTA:
Sì, sono due proposizioni coordinate dalla coppia di congiunzioni correlative quanto, tanto.
Fabio Rossi
QUESITO:
il mio dubbio riguarda una frase del tipo: “Tutti quelli che si fossero schierati
dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze”. Potrebbe
essere riscritta utilizzando il condizionale anche nel gruppo del soggetto?
(“Tutti quelli che si sarebbero schierati dalla sua parte, sarebbero andati
incontro a terribili conseguenze”)
Se sì, sarebbero entrambe valide e corrette? Una sarebbe preferibile all’altra?
RISPOSTA:
Il condizionale da lei proposto è al limite dell’inaccettabilità in quanto la frase è come se fosse un periodo ipotetico: Se si fossero (e non sarebbero!) schierati dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze. Diverso il caso di una frase costituita da un’unica proposizione: Si sarebbero schierati dalla sua parte. In quest’ultima caso, infatti, il condizionale passato indica il valore potenziale o di futuro nel passato (sappiamo che sarebbe successo questo). Questa carica potenziale, però, non può occultare la sintassi che, in caso di periodo ipotetico (o di strutture analoghe, come quella da lei proposta), impone il congiuntivo, e non il condizionale, in protasi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Gli chiese di darle delle lezioni, ma lui preferì “dirottarla” verso un altro insegnante”. La mia domanda è: quel dirottarla, posto fra virgolette, è da considerarsi corretto oppure no?
RISPOSTA:
Dirottare ha, come accezione metaforica, proprio quella di “convogliare in altra direzione”, quindi va benissimo usarlo senza virgolette, dal momento che si tratta di un uso perfettamente italiano. L’uso delle virgolette, ancorché un po’ ingenuo, non è però da considerarsi scorretto, per segnalare ulteriormente questo scarto semantico rispetto al significato meno figurato.
Fabio Rossi
QUESITO:
vorrei riallacciarmi a una frase inviata qualche settimana fa ´´L’otto febbraio
era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Come mi avete spiegato, il contesto è passato.
Ma se invece le due riunioni non fossero ancora avvenute e se fossimo ad esempio
ai primi di gennaio, il pensiero generale sarebbe: ´´chiunque parteciperà
(partecipi/partecipasse) alla riunione del 23 gennaio, sa che ci sarà anche quella
dell´otto febbraio´´
Sarebbe allora possibile scrivere così:
La riunione dell’otto febbraio è(sará/sarebbe) prevedibile da chiunque
assisterà(assisti/assista/assistesse/assisterebbe) alla seduta del ventitré
gennaio.
Per esprimere, invece, il futuro nel passato andrebbe bene la seguente frase?
´´La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile da chiunque avrebbe
(avesse) assistito alla seduta del ventitré gennaio´´.
RISPOSTA:
Cominciamo dalle prime alternative proposte nella domanda. L’unica versione totalmente corretta, rispettosa cioè delle regole della consecutio temporum, è la seguente: La riunione … è prevedibile da chiunque assista (oppure assisterà) …
Sulle altre si può osservare: assisti non è italiano (è cioè un errore di italiano popolare). Sará prevedibile può andare ma è inutile (se è prevedibile è ovvio che è un evento non ancora avvenuto). Sarebbe prevedibile è inutile (sempre perché la carica eventuale è già inclusa nell’aggettivo prevedibile).
Assistesse non va bene perché non è un rapporto di contemporaneità nel passato. Assisterebbe è scorretto perché la frase dipendente qui richiede il congiuntivo, come se fosse un periodo ipotetico: se assistesse all’incontro…
Passiamo all’ultima frase. Visto che il 23 gennaio è prima dell’8 febbraio, in questo caso si tratta di anteriorità, non di posteriorità, quindi la scelta corretta è: La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile [solo questo è il futuro nel passato] da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se l’espressione “credo che Dio esiste” in sostituzione di “credo che Dio esista” (che ritengo esatta) è corretta o meno. Nel primo caso (“credo che Dio esiste”)quel “credo” non ha il significato di “suppongo”, ma quello di “sono fermamente convinto” e quindi mi sembrerebbe che anche questa via espressiva possa essere accettata.
RISPOSTA:
Su questo problema del congiuntivo/indicativo in dipendenza da credo, e anche sull’esempio specifico, può leggere un libro che dirime la questione in modo chiaro: S. C. Sgroi, Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet, 2013. In breve: l’indicativo può sempre sostituirsi al congiuntivo, in italiano. La differenza non risiede nel valore di dubitatività del congiuntivo, rispetto a quello di certezza dell’indicativo, bensì nel maggior grado di formalità del congiuntivo rispetto all’indicativo.
Quindi credo che Dio esiste/a sono entrambe frasi corrette e non hanno nulla a che vedere con l’ipotesi o la certezza. Nel senso che il verbo credere può valere tanto ‘essere sicuri’, quanto ‘ipotizzare’ indipendentemente dal modo verbale che segue, ma solo in base al contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le frasi introdotte da “non è un caso che“ si possono costruire anche con il modo indicativo? Personalmente, ho sempre e soltanto adoperato il congiuntivo, ma effettuando una consultazione in rete, ho riscontrato che l’indicativo spopola, anche in seno ad autori di indubbia fama.
Vorrei inoltre domandarvi se questo sintagma accetta tutti i tempi del congiuntivo, oppure se sussistano delle limitazioni d’uso.
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Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.
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Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.
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Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.
A proposito di quest’ultimo esempio, quale dei due tempi è da preferire? Potrebbero essere ammessi entrambi?
RISPOSTA:
Come quasi sempre accade in italiano, le ragioni per preferire il congiuntivo all’indicativo solo esclusivamente di tipo diafasico, non sintattico. Detto in parole più semplici: l’indicativo al posto del congiuntivo va quasi sempre bene, fin dalle origini dell’italiano, solo che conferisce al testo un livello di formalità più basso rispetto al congiuntivo. Pertanto, in tutti i suoi esempi retti da non è un caso che (o se) va bene anche l’indicativo, che è però più informale.
Le regole della consecutio temporum sono sempre le stesse: presente per contemporaneità nel presente tra le due proposizioni, imperfetto per contemporaneità nel passato, passato per anteriorità dipendente dal presente, trapassato per anteriorità dipendente dal passato. Questo a rigore, anche se poi in questo come in altri casi è ammessa una certa flessibilità, data anche dalla reggente che di fatto si comporta quasi come un avverbio o un complemento (si è cioè quasi grammaticalizzata: non è un caso che/se = non a caso).
Veniamo ora al commento dei suoi casi specifici uno per uno.
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Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.
Come già detto, risieda rappresenta la scelta più formale, risiede quella meno formale ma altrettanto corretta.
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Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.
parlasse formale, parlava informale. Per quanto riguarda il tempo verbale, l’imperfetto in questo caso non si motiva per la contemporaneità nel passato, visto che siamo qui in regime di anteriorità in dipendenza dal presente, bensì dalla natura continuativa, e non puntuale dell’azione: lo parlava abitualmente, non una volta soltanto. Infatti se usassimo il passato (abbia parlato / ha parlato) il senso della frase cambierebbe: lo ha parlato una sola volta, in un momento specifico.
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Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.
Meglio abbia sconfessato (anteriorità, in dipendenza dal presente: non è un caso), ma avesse sconfessato non può dirsi scorretto. Il trapassato (sia indicativo sia congiuntivo) oggi sempre più spesso può sostituirsi al passato, per motivi non semplicissimi da individuare.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Sei talmente ingenuo che non ti accorgeresti di essere in una dittatura, nemmeno quando, appeso a testa in giù, CREDERESTI di avere il cielo sotto i tuoi piedi” quando può reggere il condizionale o era indispensabile CREDESSI?
RISPOSTA:
Nella sua frase quando equivale a se, quindi introduce una proposizione ipotetica. Tale proposizione rifiuta il condizionale, in quanto esprime la condizione al cui avverarsi un altro evento avviene, mentre il condizionale esprime proprio l’evento condizionato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale fra queste due espressioni è quella corretta (oppure se lo sono entrambe): “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” oppure “Se io volessi che tu lo faccia”.
RISPOSTA:
Sono corrette entrambe. A rigore, secondo la consecutio temporum, sarebbe migliore “Se io volessi che tu lo faccia”, dal momento che si suppone che il rapporto tra l’azione del volere e quella del fare sia di contemporaneità nel presente. Il fatto che ci sia l’imperfetto congiuntivo in volessi non ha a che vedere col tempo dell’azione bensì con la sua eventualità.
Tuttavia anche “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” non può dirsi scorretto. Infatti, benché l’imperfetto congiuntivo serva di norma a indicare la contemporaneità nel passato, in dipendenza dal verbo volere (se quest’ultimo è usato al condizionale) si preferisce di solito l’imperfetto, piuttosto che il presente, congiuntivo: “vorrei che tu lo facessi”, meglio di “vorrei che tu lo faccia”. Ne ha parlato Luca Serianni e più di un quesito di DICO è dedicato a questo fenomeno. Dato che nel suo caso l’eventualità del verbo volere non può essere resa dal condizionale (perché ci troviamo in protasi di periodo ipotetico), essa si esplica comunque col congiuntivo, dal quale dunque, trattandosi del verbo volere, può in questo caso dipendere l’imperfetto, anziché il presente, benché ci si stia riferendo al presente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo sapere quale delle seguenti frasi è scritta meglio dal punto di vista interpuntivo. So benissimo che non ci sono regole ferree nella punteggiatura, però volevo un vostro consiglio su quale delle due fosse migliore, come pure conoscere la differenza fra entrambe. Inoltre desideravo sapere se nei rispettivi casi fosse meglio usare il corsivo oppure le virgolette, nonché se fosse necessaria la maiuscola per il testo tra gli apici o quello scritto in corsivo. Se poi conoscete un modo migliore per formulare la frase, non esitate a suggerirmelo.
Ecco le seguenti frasi:
1) Quando hai effettuato la ricarica postepay inviami la foto della ricevuta, con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com“
2) Quando hai effettuato la ricarica postepay, inviami la foto della ricevuta con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com“
RISPOSTA:
Entrambe le frasi da Lei proposte vanno bene.
Nello specifico: la virgola dopo una subordinata premessa alla reggente (Quando hai effettuato la ricarica postepay,) si può mettere, ma non è mai obbligatoria. Anche la virgola prima del complemento (, con su scritto…) si può mettere o no.
In generale, la presenza delle virgole (entrambe quelle segnalate) ha come risultato quello di dare maggiore rilievo semantico, in certo qual modo maggiore autonomia, alle due componenti separate dalla virgola stessa.
Quanto all’alternativa virgolette/corsivo, decisamente meglio le virgolette, dal momento che si tratta di una citazione diretta della frase scritta o da scrivere. Il corsivo, comunque, non sarebbe del tutto errato, dal momento che segnalerebbe, metalinguisticamente, l’oggetto della citazione.
Quanto all’iniziale maiuscola o minuscola all’interno della citazione, anche in questo caso entrambe le soluzioni sarebbero accettabili: di solito si preferisce la minuscola quando la citazione è integrata sintatticamente alla frase citante (per es.: la frase “scrivi il tuo nome” è corretta), la maiuscola quando la frase citata è sintatticamente autonoma dal contesto (come nel suo caso, dopo i due punti). Un’altra ratio è quella filologica: cioè si usa la minuscola o la maiuscola a seconda che nell’originale citato (o nell’esempio fornito) vi sia, o debba esservi, la minuscola o la maiuscola.
Fabio Rossi
QUESITO:
In quali casi è corretto il SE con il condizionale?
Es. ‘Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere’ è corretta?
Come si chiama, in questo periodo, la subordinata introdotta dal SE?
RISPOSTA:
Di norma, se + condizionale si usa nelle interrogative indirette per esprimere un rapporto di posteriorità, cioè quando l’oggetto della domanda è futuro rispetto alla richiesta. Per es.: “Mi chiedo se mi daresti una mano”; Mi chiedevo se mi avresti dato una mano”.
In rari casi il condizionale dopo se si può usare anche nelle ipotetiche, come quella da lei segnalata, che però, di fatto, sembra un’ipotetica ma in realtà è un avversativa:
“Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”, che in uno stile più formale sarebbe espressa con mentre: “Mentre potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
In questo caso (cioè in una ipotetica con valore di avversativa), l’imperfetto congiuntivo (cioè il tempo e il modo corretti se fosse stata un’ipotetica pura) sarebbe scorretto:
*”Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
Se fosse un’ipotetica pura sarebbe per es. così:
“Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, probabilmente lo faremmo”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo
Marco non era a casa
Marco non c’era a casa
Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?
RISPOSTA:
“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione “vuoto a perdere” può essere usata come sinonimo di “cosa inutile”, “cosa che non serve più”. Io l’ho sempre usata in questo senso, ma ho letto recentemente che il significato corretto è “cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo”. Il significato che ho finora dato io al termine può essere accettato oppure no?
RISPOSTA:
Il significato con cui usa lei l’espressione è quello corrente e va benissimo. Per comprenderlo, bisogna pensare a una vecchia abitudine italiana (io me la ricordo ancora, e ho 55 anni). Essa prevedeva che, in casi di liquidi acquistati in bottiglie di vetro, si potesse optare per due soluzioni: 1) restituire la bottiglia al venditore, avendone indietro una piccola somma di denaro (soluzione detta “vuoto a rendere”); 2) non restituire la bottiglia e dunque non avere indietro alcuna somma di denaro (soluzione detta “vuoto a perdere”). Poteva capitare che i vuoti a perdere (donde il significato metaforico di ‘cosa che non serve a niente’, visto che il vuoto a perdere non comportava alcuna restituzione di denaro) si accumulassero e che ci si trovasse nella fastidiosa condizione di non riuscire a disfarsene, o comunque doversi scomodare per disfarsene, a differenza di quelli a rendere che venivano prontamente restituiti al venditore, col duplice vantaggio del denaro e dello smaltimento. In virtù di quest’ultima considerazione, è anche possibile usare l’espressione nella seconda accezione metaforica da lei segnalata, cioè ‘cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo’, che però non scalza, semmai direi rafforza, la prima: una cosa talmente inutile da diventare un fastidioso accumulo, che alla fine risulta difficile anche da smaltire e che si finisce dunque per lasciare lì a far ingombro e sporco.
Insomma, la metafora è in ogni caso altamente spregiativa, come si può ben vedere nelle varie attestazioni presenti in Google libri e nella magnifica canzone di Noemi Vuoto a perdere (2011).
Fabio Rossi
QUESITO:
Propongo questa frase: “Qualora ciò dovesse accadere, per la presenza di un fanatico che agisce (o agisse?) in modo sconsiderato, sarebbero guai”. A me sembra più corretto dire agisse perché, nell’ambito dell’ipotesi (l’esistenza del fanatico), l’azione sconsiderata non è del tutto scontata. Comunque, non essendo certo di ciò, ci terrei a conoscere il suo parere al riguardo.
RISPOSTA:
Sono possibili sia agisce sia agisse. Il presente indica semplicemente che il fanatico agisce nel presente (con una proiezione nel futuro). Si può anche sostituire l’indicativo con il congiuntivo agisca, che eleva il registro. L’imperfetto agisse ha un significato ambiguo: può avere valore temporale o può dipendere dall’attrazione dell’imperfetto dovesse della proposizione reggente. Nel primo caso esso indica che il fanatico agiva nel passato; nel secondo caso si riferisce al presente e assume la stessa sfumatura ipotetica di dovesse. La prima interpretazione è un po’ forzata, considerando la costruzione di tutta la frase: se il fanatico agiva nel passato, è preferibile descrivere questa situazione con l’indicativo imperfetto (… per la presenza di un fanatico che agiva in modo sconsiderato…).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta la frase “non so se sarei capace di farlo”?
RISPOSTA:
La frase è corretta: la proposizione se sarei capace di farlo è una interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro richiesto dall’occasione comunicativa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta la frase “Temo che per le 20 di oggi non abbiano ancora finito i lavori”, oppure dovrei dire “temo che per le 20 di oggi non FINIRANNO / FINISCANO i lavori”?
RISPOSTA:
Tutte le varianti vanno bene: finiscano è quella più formale. Il congiuntivo passato può essere usato per descrivere un evento futuro perché il momento evocato per il termine dei lavori (le 20 di oggi) viene considerato il punto rispetto al quale i lavori sono o non sono finiti come se il parlante immaginasse di osservare la fine dei lavori da quel momento. Con l’indicativo futuro anteriore, pure possibile (“Temo che per le 20 di oggi non avranno ancora finito i lavori”), il parlante osserverebbe la fine dei lavori dal momento in cui parla (quindi la considererebbe futura), ma rispetto al momento evocato (quindi anteriore).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Avrei paura che tu lo liquidi con poche, asciutte parole”, “Non te lo confesserei, perché avrei paura che tu ne risentissi”.
In questi due passaggi narrativi, i relativi autori hanno compiuto scelte diverse. Muovendo dall’articolo 2800821 dell’archivio delle domande incluso nel vostro sito, deduco che entrambi i tempi siano ammessi.
Una volta mi pare di aver letto – non ricordo se in rete o in una pubblicazione cartacea – un passaggio costruito invece con il condizionale del verbo potere.
È possibile che per una frase iniziante per avrei paura che, o per predicati ascrivibili al medesimo concetto, la scelta sintattica abbracci in linea teorica tre soluzioni?
1. Avrei paura che tu possa fallire.
2. Avrei paura che tu potessi fallire.
3. Avrei paura che tu potresti fallire.
È inoltre possibile – domando ancora – che i servili, in particolare potere, facilitino l’introduzione del modo condizionale in una subordinata normalmente incline al congiuntivo?
Al mio orecchio, linguisticamente imperfetto, la frase numero 3 suona meglio rispetto a un’ipotetica
4. Avrei paura che tu falliresti.
RISPOSTA:
Le frasi con la completiva al condizionale sono ugualmente problematiche: non ci sono regole che vietino questa costruzione (e comunque la presenza del verbo servile non è rilevante), ma essa è comunque sfavorita, probabilmente perché la coppia formata dalla reggente al condizionale presente e dalla completiva al congiuntivo è assimilata al periodo ipotetico con apodosi al condizionale presente e protasi al congiuntivo quasi sempre imperfetto. Lo stesso motivo potrebbe essere alla base della preferenza del congiuntivo imperfetto nella completiva retta da una proposizione al condizionale presente, laddove la consecutio temporum richiede il congiuntivo presente. Eviterei la costruzione della completiva al condizionale, tranne nel caso in cui quest’ultima è a sua volta l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio: “Avrei paura che tu falliresti / potresti fallire se ci provassi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
(1) C’è un modo per controllare se le informazioni scritte sul sito per i DVD sono / siano sbagliate?
Il congiuntivo presente viene anche accettato? Qual è la ragione grammaticale se siano viene accettato?
(2) E come spiegare che un Nero su cinque abbia votato Trump? (Rampini, Fermare Pechino, p. 269).
È una proposta soggettiva e questa è la ragione per cui il congiuntivo va bene nella proposizione principale? È uguale a E come si spiega che…
RISPOSTA:
Nella prima frase vanno bene sia l’indicativo sia il congiuntivo; il secondo è la soluzione più formale. Nella seconda frase nella principale non c’è un congiuntivo ma un infinito (spiegare). La presenza dell’infinito si spiega con l’omissione del verbo servile potere: E come si può spiegare…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho ascoltato in TV la seguente frase:
“Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che sarà stato comunicato l’esito del voto”.
La frase è corretta?
Il congiuntivo passato non sarebbe stato più indicato? E inoltre, il congiuntivo imperfetto avrebbe potuto essere parimenti ammesso?
RISPOSTA:
Nella frase si scontrano due prospettive diverse, quella ipotetica della vittoria e quella fattuale della comunicazione dell’esito; da qui la doppia costruzione, con il congiuntivo e l’indicativo, che non è sbagliata, per quanto risulti sgradevole. Addirittura, è possibile anche sostituire il futuro anteriore con il passato prossimo: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che è stato comunicato l’esito del voto”. Il passato prossimo, infatti, può indicare un momento precedente a un altro momento futuro. In alternativa, si può costruire anche la temporale con il congiuntivo imperfetto (non trapassato), attratto nella sfera della proposizione ipotetica: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che fosse comunicato l’esito del voto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto questa frase e vorrei approfondire l´uso dei verbi in presenza di un pronome indefinito.
“L’otto febbraio era prevedibile da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Mi stavo chiedendo quale sarebbe il significato assunto dal congiuntivo trapassato, forse di evento passato ipotetico ed eventuale?
Se invece dicessi da chiunque aveva assistito, l´evento é passato è avvenuto?
Potrei anche usare il condizionale passato (da chiunque avrebbe assistito) per esprimere il futuro nel passato? Sarebbero possibili altri tempi?
RISPOSTA:
Le proposizioni relative introdotte da pronomi indefiniti reggono preferibilmente il congiuntivo; l’indicativo, però, è corretto: “L’otto febbraio era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”. La differenza tra le due forme è che l’indicativo è meno formale: il significato delle frasi rimane uguale. Il condizionale passato non può essere usato in questa relativa, perché il ventitré gennaio precede l’otto febbraio, quindi non si giustifica la posteriorità rispetto al passato. La struttura standard della proposizione non ammette altre forme verbali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non capisco in che senso l’aggettivo stesso indicherebbe identità tra due cose: “Io e mia fratello abbiamo lo stesso prof di matematica”… il prof è uno solo, quindi perché si parla di identità?
RISPOSTA:
L’identità si ricava per inferenza: il professore del primo fratello coincide con il professore del secondo fratello.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo gli schemi della consecutio, una proposizione (oggettiva) introdotta dal condizionale presente ammette, sulla scorta della sfera di certezza o di incertezza-soggettività del verbo introduttore, tanto l’indicativo quanto il congiuntivo quanto il condizionale: “Crederei che potrebbe farcela”.
Eccettuati tutti quei predicati indicanti volontà, desiderio e simili che, come tutti sappiamo, richiedono il congiuntivo imperfetto nella subordinata (“Vorrei che fosse già inverno”); negli altri casi, la scelta tra il congiuntivo e il condizionale è libera dal punto di vista sintattico, oppure il modo che introduce la subordinata alle volte “condiziona“ quello di quest’ultima?
Anche se lui provasse, penso che non ce la farebbe.
Anche se lui provasse, penserei che non ce la faccia.
Parto da tali esempi perché, per risalire una volta per tutte dal particolare al generale e cogliere la regola, se esistente, ero giunto alla conclusione che, al di là delle differenze semantiche, entrambi i modi fossero ammessi dalla sintassi. Ma poi mi sono imbattuto nella frase, contenuta nel vostro archivio, “Penso che
non ce la faccia, anche se provasse”, giudicata scorretta, e sono di nuovo sprofondato nel caos. La proposizione che non ce la faccia non dipende direttamente dalla principale penso, a prescindere dalla concessiva? Secondo la consecutio, una subordinata dipendente da un indicativo presente non può essere costruita con un congiuntivo presente, oltreché con un altro indicativo?
In presenza di una ipotetica e di una concessiva, anche sottintese, il condizionale è l’unico modo possibile, come spiegato a proposito dell’ultimo vostro esempio? Quando il verbo della reggente indica volontà o desiderio questo non avviene:
Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole.
Per concludere, al solo scopo di sgomberare il campo dai dubbi sopraccitati, apprezzerei se poteste cortesemente indicarmi, tra gli esempi riepilogati in elenco (in parte già segnalati), quelli scorretti.
1) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini possano protestare.
2) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini potrebbero protestare.
3) Anche se provassi, penserei che non ce la faccia.
4) Anche se provassi, penserei che non ce la farebbe.
5) Anche se provassi, penso che non ce la faccia.
6) Anche se provassi, penso che non ce la farebbe.
RISPOSTA:
Tanto nella frase “Penso che non ce la faccia” quanto in “Penserei che non ce la faccia” la subordinata oggettiva che non ce la faccia è legittima, quindi il suo ragionamento tiene: in dipendenza da un indicativo e da un condizionale è ammesso il congiuntivo. Se, però, l’oggettiva diviene la reggente di una proposizione condizionale o concessiva costruita con il congiuntivo (come nel caso della frase “Penso che non ce la faccia anche se provasse”) la situazione cambia e ci aspettiamo che sia costruita al condizionale. In una frase con più subordinate, insomma, la costruzione delle singole proposizioni può dipendere dall’incrocio di più reggenze. Si noti che nella risposta “Penso che userei il condizionale se…” dell’archivio (a cui lei fa riferimento) la frase è etichettata come ingiustificata, non scorretta: in ragione della presenza della proposizione concessiva al congiuntivo imperfetto “ci si aspetta” il condizionale presente.
Tra tutte le frasi che porta come esempi e controesempi (sia “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole” sia quelle numerate da 1 a 6) non sono pertinenti, perché in esse la conseguenza della condizione concessiva è descritta nella proposizione che regge l’oggettiva, non dall’oggettiva. In “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole”, per esempio, la conseguenza dell’eventualità che non andiamo in ferie è che vorrei (che succedesse qualcosa); allo stesso modo, se ballassimo tutta la notte avrei paura (l’oggetto della paura è indipendente dalla condizione) ecc. Nella frase “Penso che non ce la farebbe anche se provasse”, invece, la condizione eventuale anche se provasse origina la conseguenza non ce la farebbe, descritta nell’oggettiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?
RISPOSTA:
Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Due amiche si incontrano di domenica. Una vuole organizzare una festa per il sabato seguente e l’altra le confermerà la sua partecipazione o meno il giorno dopo, dicendole: “Te lo dirò domani, se verrò o meno alla tua festa”. Purtroppo non dice nulla il lunedì. Si incontrano poi il martedì e viene pronunciata questa frase: “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere ieri se saresti venuta sabato alla festa”.
Potrebbe essere corretta? Oppure sarebbero preferibili altri tempi verbali? Per esempio “Mi hai detto che me lo avresti fatto sapere ieri se vieni / venivi / verrai / fossi venuta sabato alla festa”.
In aggiunta, sono corrette queste altre frasi?
Te lo avrei detto, se sarei venuta o meno.
Te lo avrei detto, se fossi venuta o meno
RISPOSTA:
La frase “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato saresti venuta alla festa” è corretta (anche se un po’ complicata). In questa frase la proposizione se sabato saresti venuta alla festa è una interrogativa indiretta; questo tipo di proposizione richiede il condizionale passato se descrive un evento successivo a un altro evento passato, proprio come in questa frase. Anche la proposizione che lunedì me lo avresti fatto sapere ha la stessa caratteristica, e infatti è correttamente costruita con il condizionale passato. Quindi: Domenica mi hai detto [= dire è un evento passato] che lunedì me lo avresti fatto sapere [= fare sapere è un evento successivo a dire, ma è comunque passato] se sabato saresti venuta alla festa [= venire è un evento successivo a fare sapere]. Il condizionale passato può essere sostituito dall’indicativo imperfetto (non dal futuro verrai né dal congiuntivo trapassato fossi venuta): “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato venivi alla festa”; e persino “Domenica mi hai detto che lunedì me lo facevi sapere, se sabato venivi alla festa”. Per scegliere se usare l’indicativo imperfetto o il condizionale passato bisogna considerare che il significato della frase rimane uguale con entrambe le forme verbali, ma l’indicativo imperfetto è più informale, cioè adatto a contesti privati. Aggiungo che la frase così costruita indica che se saresti venuta alla festa è un argomento già toccato in precedenza nella conversazione, perché è anticipato dal pronome lo. Se, invece, le due amiche si sono appena incontrate, quindi non hanno ancora parlato dell’argomento, la frase sarà costruita così: “Domenica mi hai detto che lunedì mi [non me lo] avresti fatto sapere se sabato saresti venuta alla festa”.
Per quanto riguarda le ultime due frasi, la prima è analoga a quella che abbiamo commentato adesso, quindi è corretta alle stesse condizioni. La seconda è anche corretta, ma ha un significato diverso: in questo caso la proposizione introdotta da se non è una interrogativa indiretta, ma una ipotetica e indica che la persona non è andata alla festa (che è già passata) e che, se fosse andata, avrebbe avvisato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il periodo sotto indicato e vorrei sapere se l’uso del trapassato nella frase introdotta da da quando è corretto.
“Da quando il quartiere era finito sotto il controllo della microcriminalità, i residenti si erano organizzati in un comitato a favore della legalità urbana”.
Non potendo, per ragioni pratiche, riportare altri elementi del contesto, segnalo, a margine, che ho estrapolato il passaggio da un testo scritto prevalentemente al passato remoto. L’autore, per indicare anteriorità, ha costruito vari periodi al trapassato.
Fino ad oggi mi sono sempre imbattuta nel passato prossimo dopo il sintagma da quando.
RISPOSTA:
La scelta del tempo verbale dipende in pochissimi casi dalla congiunzione che introduce la subordinata. Per esempio, una proposizione introdotta da da quando può difficilmente avere l’indicativo presente. Per il resto, la scelta del tempo dipende da due coordinate testuali: il collocamente dell’evento sull’asse del tempo (passato, presente, futuro) e il rapporto tra il tempo dell’evento descritto e quello dell’evento della proposizione reggente (precedenza, contemporaneità, posteriorità). Queste due coordinate si intrecciano in vario modo, producendo di volta in volta risultati diversi (per un approfondimento può fare una ricerca nell’archivio di DICO con le chiavi consecutio temporum e tempo verbale). Nel caso specifico, l’evento del finire non solo è passato, ma è anche precedente rispetto a un altro evento, quello dell’organizzarsi, a sua volta passato (più precisamente trapassato, ma ai fini di questa analisi questo dettaglio non importa). Per descrivere un evento precedente a un altro evento passato si usa (tranne che in casi speciali) proprio il trapassato. Per quanto riguarda la scelta tra il trapassato prossimo e il remoto va ricordato che quest’ultimo è divenuto raro nell’italiano contemporaneo e viene quasi sempre sostituito dal primo. Il trapassato remoto, inoltre, veicola una sfumatura di momentaneità, per via della costruzione con il passato remoto dell’ausiliare, non adatta a questa frase, nella quale l’evento del finire sotto il controllo è percepito come un processo svoltosi in un certo lasso di tempo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità”. Le due virgole che delimitano l’inciso (oltre alla sua competenza professionale) è preferibile porle oppure no? Mi faccio questa domanda perché, tolto l’inciso, la frase dovrebbe mantenere una sua scorrevolezza, ma, in questo caso, ciò non accade (ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità). Quell’anche non ci sta, acquista un senso solo In dipendenza al contenuto dell’inciso. In definitiva, in questo caso, le virgole vanno poste oppure no?
RISPOSTA:
Il sintagma va messo tra virgole; è, infatti, un’espansione e può, pertanto, prendere molte posizioni (purché, appunto, racchiusa tra virgole):
Oltre alla sua competenza professionale, ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità, oltre alla sua competenza professionale.
Chiaramente, anche è inserito perché si suppone che l’espansione ci sia, qualsiasi posizione essa prenda: bisogna, quindi, distinguere il piano sintattico, sul quale la frase “Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità” è corretta, da quello semantico, sul quale la stessa frase è leggermente strana proprio perché privata di un pezzo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?
RISPOSTA:
Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da a (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho ottenuto una coppia del libro consigliato per l’imperfetto e ho letto un po’. In particolare penso di aver trovato un altro esempio del imperfetto epistemico nel libro Fermare Pechino da Federico Rampini. Volevo
chiederle se ho capito bene:
P.104
<<A qualcuno è andata molto peggio. Fang Fang forse è stata protetta dalla sua
fama letteraria. Per aver scritto cose simili sconta quattro anni di carcere Zhang
Zhan, una reporter le cui cronache da Wuhan sono state accusate di <<seminare
zizania e disordini>>. Zhang Zan ha 37 anni. Di formazione avvocato, ERA una di
quelle figure sempre più rare in Cina…….>>
Dato che è ancora viva, anche se è adesso in carcere, era qui viene considerato
l’uso epistemico dell’imperfetto? Se fosse morta, verrebbe usato è stata una….
No?
Potrebbe farmi qualche altro esempio con il verbo essere con l’uso dell’imperfetto
epistemico senza un avverbio temporale come domani (che riferisce al futuro)?
RISPOSTA:
L’esempio da Lei riportato non è un uso epistemico, bensì un normale uso temporale-aspettuale dell’imperfetto per esprimere una condizione nel passato. D’accordo, è ancora viva, però si suppone che dal carcere non eserciti più, e dunque “era” ecc. va benissimo sia per persona morta, sia per persona viva, ma non più nelle condizioni di prima. Se fosse morta, si sarebbero potuti usare anche “è stata”, “fu”, meno bene anche “era stata”, che invece, nel caso specifico (di persona viva ma non più in determinate condizioni) non sarebbero molto appropriati. Come comprende, si tratta di sfumature sottilissime, e dunque non c’è un giusto/sbagliato, in questi casi, bensì un più o meno naturale, più o meno appropriato ecc. Come al solito al lingua procede per sfumature e per gradi piuttosto che per salti bruschi e rigide dicotomie.
L’uso epistemico di un verbo (non importa se essere o altro verbo), per essere tale, deve esprimere l’idea o della possibilità, dell’ipotesi, del dubbio, o comunque della non perfetta aderenza al tempo comunemente espresso. Quindi, nel caso dell’imperfetto, sono epistemici sia gli usi potenziali sia quelli controfattuali riferiti al futuro.
Un esempio del primo tipo: “se venivi con me era meglio”, che in uno stile più formale sarebbe: “se fossi venuto con me sarebbe stato meglio”.
Un esempio del secondo tipo: “Ma non era martedì?”, che può essere detto sia oggi, se non ricordo che giorno sia, sia in riferimento al futuro, per es. tra due giorni, se pensavo che avessimo un impegno martedì prossimo, ma non ne sono sicuro e sto chiedendo conferma. Oppure, analogamente, “Ma non era Ralph”? Oppure, per riprendere il suo esempio: “Ma Zhang Zhan non era ancora viva?”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sarebbe gradito sapere se queste due frasi possono essere considerate corrette dal punto di vista sintattico:1)”Se io credessi che tu fossi pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu fossi pazzo”. Ovviamente il problema che mi interessa riguarda il “se io credessi che tu fossi” e “crederei che tu fossi”.
RISPOSTA:
Secondo la consecutio temporum, dal presente (indicativo o condizionale che sia) dipende un tempo presente e non l’imperfetto (che indica invece più spesso la contemporaneità nel passato, meno spesso l’anteriorità). Quindi: credo/crederei che sia; credevo che fosse. La deroga è con il verbo volere, che proietta l’aspettativa al passato e dunque richiede preferibilmente l’imperfetto congiuntivo piuttosto che il presente: “vorrei che fosse”, piuttosto che “vorrei che sia”. In base a questa regola, le sue frasi vanno riformulate col presente congiuntivo piuttosto che con l’imperfetto: 1)”Se io
credessi che tu sia pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu sia pazzo”. Infatti, lo crederei adesso, e non nel passato. Certamente, per il passato sarebbe più opportuno fossi stato o sia stato, ma anche fossi sarebbe possibile, pertanto, a scanso di equivoci, per fare capire che l’importante per me è che tu non sia pazzo adesso, e non che lo fossi, poniamo, anni fa, è meglio usare il congiuntivo presente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Come già chiarito in passato, nonostante alle scuole mi abbiano insegnato che
quando si dal del Lei ad una persona si accorda al femminile (es. “Signor Verdi la
vedo stanca), Lei mi ha insegnato che al giorno d’oggi è consentito l’accordo al
maschile anche quando si da del Lei (es. “Signor Verdi La vedo stanco)…
Io sono d’accordo con Lei e la ringrazio per questo suo chiarimento, tuttavia
alcuni insegnanti di lettere miei amici dicono che accordare al maschile “la vedo
stanco” sia errato.
Ribadisco che invece io sono d’accordo con Lei.
Cosa ne pensa di questi insegnanti?
Volevo porLe una domanda ancora:
dando appunto del Lei ad una persona di sesso maschile, si dice “Signor Verdi
l’avrei chiamata o l’avrei chiamato?”
RISPOSTA:
Come giustamente ricorda Lei, sebbene l’accordo grammaticale richieda il femminile con l’allocutivo di cortesia Lei, l’italiano comune prevede che, per gli aggettivi connessi a un destinatario maschile, si violi l’accordo preferendo il maschile al femminile. Tuttavia questo non può accadere per l’accordo del participio passato, dal momento che l’accordo al maschile lascerebbe intendere, erroneamente, che ci si riferisse, non deitticamente, a qualcuno diverso dall’allocutario. Infatti, nell’esempio da Lei fornito, “Signor Verdi l’avrei chiamata” è l’unica forma corretta per rivolgersi all’uomo cui ci si sta rivolgendo, laddove, invece, “l’avrei chiamato” si riferirebbe ad altro uomo esterno alla conversazione. Naturalmente, in caso di allocutaria, il fraintendimento rimane, sebbene nel contesto dialogico l’interpretazione preferenziale sia sempre quella del riferimento alla persona cui si sta dando del Lei: “Signora l’avrei chiamata”. Ovviamente sarebbe la stessa forma anche se il “chiamata” si riferisse ad altra persona: “L’avrei chiamata, sua figlia”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei un chiarimento circa un tema che avete già discusso. Spero di non indurvi
a spiegazioni che io non abbia assimilato a dovere.
Si tratta di come esprimere l’anteriorità rispetto a un’azione costruita con il
condizionale presente.
Prendiamo ad esempio il periodo “Se l’interrogato confermasse questa versione,
vorrebbe dire che, nel marzo dell’anno scorso, quando ha parlato per la prima
volta, ti…“
Secondo me le scelte possibili sono tre (più una sulla quale si concentrano i
dubbi maggiori):
1. Ha mentito
2. Mentì
3. Aveva mentito
Suppongo che la numero tre sarebbe corretta se ci fosse un momento temporale
intermedio; il trapassato “aveva mentito“ sarebbe così anteriore non soltanto al
condizionale della principale, ma anche a tale riferimento.
L’ultima soluzione è quella costruita con il condizionale composto. Se non
sbaglio, in almeno uno dei vostri articoli si segnala che questo tempo può essere
considerato corretto, dal punto di vista sintattico.
Mi domando se la sua correttezza sia comunque connessa con la dipendenza da una
proposizione – ipotetica o concessiva – anche sottintesa.
4.1 (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
4.2 (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
Oppure il tempo resterebbe valido a prescindere, senza nessuna protasi di sorta,
indicando semplicemente un passato rispetto al condizionale presente?
RISPOSTA:
Si tratta di sfumature sottili, spesso tutte corrette, come le tre che elenca lei, tutte possibili, dal momento che esprimono l’anteriorità. Poco conta che vi sia il condizionale, e che sia una apodosi di periodo ipotetico. Quel che conta è il rapporto di anteriorità, qui reso più complicato dalla “proiezione” del verbo di dire (“vuol dire che”…) e dallo stesso periodo ipotetico.
Va meno bene il passato remoto (che poco si presta a contesti di dipendenza da altri verbi che non siano il presente o lo stesso passato remoto), mentre vanno molto bene sia il passato prossimo, sia il trapassato prossimo. Quest’ultimo, come lei intuisce, è reso possibile dalla presenza di un contesto all’imperfetto (“se confermasse”), che però è prodotto dal periodo ipotetico e non tanto dal riferimento al passato. Comunque, ripeto, sia il passato prossimo sia il trapassato vanno bene in questo caso.
Più complesso il suo secondo quesito, per mancanza di un contesto più ampio. In generale, si può quasi sempre, in contesti ipotetici con il condizionale passato (a meno che il condizionale passato non serva a esprimere un futuro nel passato: “mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato”), ricavare una protasi sottintesa, anche se non occorre farlo per forza:
– (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
– (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
La ricostruzione da lei proposta va bene, ma sono possibili anche altri contesti quali: “è stato sempre sincero con te ma poi, dopo due anni, ti avrebbe mentito”. Certo, volendo anche qui è possibile una protasi sottintesa (per esempio: “se non vi foste lasciati”), ma non necessariamente. Qui infatti il contesto è a metà strada tra l’ipotetico e il futuro nel passato: stiamo parlando di eventi accaduti nel passato, in cui sia l’essere stato sincero, sia l’aver poi mentito si sono verificati nel passato rispetto al momento in cui vengono riportati. E posso, per l’appunto, dire, in quel contesto. “Poi dopo due anni ti avrebbe comunque mentito”.
Però, se il contesto è quello di sopra, cioè delle prime tre frasi, allora sì, in quel caso (assai faticoso, e dubito che nessuno formulerebbe mai un periodo così artificioso), soltanto se fi fosse una protasi sarebbe ammissibile il condizionale passato, altrimenti impossibile.
In linea di massima, il giochino del “è possibile o no?” è poco produttivo, nelle lingue, perché la risposta è quasi sempre “certo che è possibile”, data l’infinita duttilità di lingue altamente strutturate come l’italiano. Più produttivo, piuttosto che questo ozioso gioco di ipotesi più o meno peregrine e innaturali, è invece commentare casi reali, effettivamente raccolti nell’uso vivo, meglio orale che scritto. Raramente ciò che si coglie nell’uso vivo dei parlanti nativi può dirsi “sbagliato”, nel senso di “non previsto dal sistema linguistico di riferimento”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo avere una consulenza sui seguenti due termini : “pavido” e “affabile”.
Nello specifico volevo sapere se entrambi i termini possano essere usati nella stessa frase per esprimere un concetto di senso compiuto. Ad esempio, potrebbe essere corretto scrivere la frase: “Giorgio ha dimostrato,
col suo comportamento, tutta la sua natura pavida e affabile”.
RISPOSTA:
La risposta secca è “no, non possono stare insieme perché esprimono concetti quasi opposti, dunque possono semmai essere coordinati da una opposizione (è pavido e non affabile), ma non da una coordinazione affermativa”.
Però la lingua, si sa, è bella perché varia e riesce a esprimere quasi tutto e il contrario di tutto; dunque, per motivi espressivi, si potrebbe trovare anche il modo di giustificare un’accoppiata così insolita: io sono uno che si spaventa di tutto e di tutti (pavido), e dunque, pur di non mettermi nessuno contro, faccio sempre il simpatico e il disponibile con tutti (affabile).
In quest’ultimo caso, però, affabile non è il termine più appropriato: chi è pavido (che più o meno sta per vile, vigliacco, eccessivamente timoroso ecc.), infatti, è anche molto timido, introverso, e dunque ha la qualità opposta all’affabilità. Invece il termine che esprime il non volersi mettere contro nessuno non è tanto affabile, quanto accondiscendente, con i sinonimi compiacente e conciliante.
Fabio Rossi
QUESITO:
Una commentatrice mi ha contestato la costruzione di una frase tramite l’estensore del seguente articolo:
«“Ancora una volta XXX NON perde occasione per tacere e fare un uso sconsiderato e violento dei social network – afferma YYY –”… che dovrebbe, prima, imparare l’italiano (Non per difendere XXX, ma la nostra lingua)».
Faccio osservare alla commentatrice che:
«Non capisco se ti riferisci al NON, visto che l’hai evidenziato:
“La negazione espletiva (o fraseologica) è in linguistica la comparsa facoltativa di un elemento con valore di negazione (ad esempio, l’italiano non), senza che cambi il significato della frase. Si parla anche di negazione pleonastica, dato che la presenza della negazione è ritenuta superflua (pleonastica) o giustificata al più da considerazioni stilistiche.”. O trattasi di altro?».
Al che lei ribatte:
«Trattasi del fatto che, col non, il concetto assume proprio il significato opposto.
Avrebbero dovuto scrivere perde l’occasione di tacere o non perde l’occasione di fare un uso sconsiderato etc etc. I due concetti sono in antitesi. Il primo è considerato positivo e il secondo negativo, ma li hanno accorpati nella stessa frase usando lo stesso verbo. OK?».
Per me ci sono due questioni. La prima è che quel NON può essere considerato una negazione pleonastica o espletiva, per cui …NON perde occasione per tacere… ha lo stesso valore di … perde l’occasione di tacere…; la seconda è che le frasi non sono affatto in antitesi, in quanto nella seconda …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sottesa la stessa condizione che ha definito la prima, ovvero e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network.
Infatti, di nuovo faccio osservare che:
«E infatti avevo intuito giusto. Quel NON non è una negazione vera e propria, ma un accorgimento stilistico che non cambia il senso della frase, come ho evidenziato nella citazione riportata. Frase che resta sempre del valore di perde l’occasione di tacere. Inoltre, se nel primo concetto, cioè perde occasione per tacere è stato specificato il NON, nel secondo …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sotteso, per cui diventa …e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network. Insomma, il comun denominatore è NON perde occasione…, i concetti a cui si riferisce sono per tacere… e … e (di) fare uso…».
A giustificazione, porto gli esempi della Treccani:
“Non sono propriamente negative le frasi comparative, esclamative e temporali, nelle quali il non (soggetto a frequenti oscillazioni nell’uso) è solo espletivo, cioè riempitivo e opzionale:
a. è più furbo di quanto non pensassi
b. quante sciocchezze non ha detto!
c. l’ho aspettato finché non è arrivato”.
Ora, anche se la frase imputata, a mio avviso, potrebbe rientrare benissimo nella categoria del caso “b.” riportato da Treccani, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutrice, Le chiedo: abbiamo a che fare o no con una negazione espletiva?
RISPOSTA:
La commentatrice ha ragione: il non nella sua frase non è pleonastico, ma ha pieno valore sintattico. Lo dimostrano due rilievi: 1. se lo eliminiamo la frase passa a significare l’opposto (mentre se eliminiamo un non pleonastico la frase continua ad avere lo stesso significato); 2. come lei stesso argomenta, il non ha pieno valore in relazione al secondo verbo (non perde occasione per fare un uso sconsiderato…): ha, quindi, necessariamente lo stesso valore proprio nel primo caso (non perde occasione per tacere). Non è possibile, insomma, che il non abbia, all’interno della stessa costruzione duplicata (non perde occasione), prima un valore e poi un altro. La frase corretta potrebbe prendere due strade: negare due azioni valorialmente negative, per esempio così: “Ancora una volta XXX non perde l’occasione per parlare a sproposito e fare un uso sconsiderato e violento dei social network”; affermare due azioni valorialmente positive, per esempio così: “Ancora una volta XXX perde l’occasione per tacere e per fare un uso moderato e pacifico dei social network” (soluzione sicuramente meno incisiva).
Si noti che nella riscrittura ho sostituito l’espressione perdere occasione con perdere l’occasione, perché la variante senza articolo è adatta a descrivere comportamenti in modo generico (non perde mai occasione per fare una battuta), mentre qui si parla di un evento specifico, per quanto inserito nel quadro di un comportamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei esporvi queste frasi :1) Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi 2) Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi. Sono corrette queste frasi? È possibile anche dire: (nella prima) fintanto che non sarebbe stato già tardi e (nella seconda ) fintanto che non sarebbe già tardi?
RISPOSTA:
La 1 è corretta: “Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi”. Funzionerebbe anche, sebbene meno, con “non fosse già tardi”. La 2 (“Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi”) va abbastanza bene, ma pare funzionare meglio nella versione con “sia”, in quanto “fosse” potrebbe lasciar supporre che tutta l’azione fosse al passato (come la 1). “Fintanto che non sarebbe stato già tardi” funziona (visto che tutto è proiettato nel futuro), anche se il giro sintattico è talmente involuto da risultare al limite dell’accettabilità. Anche “fintanto che non sarebbe già tardi” non può dirsi scorretta, dal momento che è sempre in gioco l’elemento della probabilità (espresso dal condizionale), ma vale l’osservazione appena fatta: per quale gusto perverso bisognerebbe comporre un enunciato così involuto e innaturale? Soltanto per mettere alla prova i limiti della consecutio temporum et modorum? La quantità di sfumature possibili in questi esempi è dovuta al fatto che si incrociano due diverse sfumature sintattiche e semantiche: quella espressa dalla temporale (fintanto che) e quella del periodo ipotetico sotteso all’espressione: “può anche attendere ma se attendesse sarebbe già tardi” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?
RISPOSTA:
Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o comprata) una casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle due costruzioni riportate, è preferibile il congiuntivo o l’indicativo, oppure, anche in questi casi, la scelta è libera?
– Le confermo che le cose sono/siano andate così.
– Lei davvero mi conferma che le cose sono/siano andate così?
RISPOSTA:
Ancorché tendenzialmente più formale, come al solito, la scelta del congiuntivo, in questi casi, è al limite dell’inaccettabile, dal momento che un verbo come confermo, soprattutto nella prima frase, preferisce di gran lunga l’indicativo (la seconda, essendo interrogativa, mette in dubbio la certezza della conferma): “Ti confermo che hanno vinto la partita”. Sarebbe davvero strano “Ti confermo che abbiano vinto la partita”, anche se non scorretto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi capita spesso di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?
RISPOSTA:
Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmi, mi sto preparando, mi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Grazie. Questo uso dell’imperfetto nella lingua parlata per attenuare una cosa –
in quale parte della grammatica viene specificata? Ho una ventina di libri i
grammatica e non l’avevo mai visto. C’e’ una citazione da Serianni o
qualcun’altro?
Dice che e’ simile a una cosa che ho trovato anni fa quando un amico mi ha
scritto.
“Avrei gia’ preso un appuntamento a quell’ora per attenuare l’atto di dirmi che
non e’ stato possibile parlarmi e soddisfare la mia richiesta?” L’esempio non e’
lo stesso, ma l’uso qui dell condizionale composto viene usato per attenuare una
cosa di questo tipo (l’ho trovato nella grammatica di Serianni).
RISPOSTA:
Si tratta di valore modale (o più specificamente epistemico, o attenuativo) dell’imperfetto, studiato da decenni da numerosissimi linguisti quali Carla Bazzanella, Le facce del parlare (La Nuova Italia), oppure alle pp. 82-83 della Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi e Cardinaletti, volume secondo (il Mulino), oppure anche nei nostri volumi Rossi-Ruggiano, Scrivere in italiano, oppure L’italiano scritto (Carocci). E moltissimi altri autori che non sto qui a elencarle. Per usi del genere, le consiglio di rivolgersi a studi più specialistici piuttosto che alla pur ottima (ma tradizionale, scolastica e generale) Grammatica del mio maestro Luca Serianni.
Sì, ha ragione, gli usi modali ed epistemici, o semplicemente attenuativi (come definiti a p. 82 del secondo volume del Renzi-Salvi-Cardinaletti) dell’imperfetto sono simili a quelli del condizionale, in certi contesti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho trovato quest’esempio nel libro <>, p271, casa di editrice La nave
di Teseo, scritto da Sandro Veronesi:
– Dov’eri?
– Da uno che abita qui di fronte.
– Hai un amico che abita proprio qua? Che culo.
– No, l’ho conosciuto solo oggi. Tu, piuttosto: che ci fai qui?
– Niente, passavo ……
– OK, sono venuta per via della telefonata di prima. Vorrei sapere perché mi hai
chiesto quelle cose.
– Quelle sul disco?
– Te l’ho detto: era una sciocchezza, una curiosità
La mia domanda è, come mai ha scelto l’imperfetto invece di “è stata una
sciocchezza”? Qual è la sfumatura qui? Come cambia la semantica tra il passato
prossimo e l’imperfetto? Il passato prossimo sarebbe sbagliato? Secondo me
riferisce a un’azione completa nel passato, cioè la telefonata, non una cosa che
durava.
E’ possibile che Veronesi ha scelto l’imperfetto per indicare che la sciocchezza
dura ancora nel presente? Pensavo che si può fare una cosa del genere soltanto
in una costruzione con una proposizione completiva, ad esempio <<Ho sentito che
eri a Roma>> (dove eri potrebbe indicare Ho sentito che sei (il presente) a Roma
in questo momento).
In Treccani e’ spiegato:
<<b. In senso concr., azione, parole da sciocco, cosa fatta o detta in modo
sciocco, senza adeguatamente riflettere: ho fatto la sc. di fidarmi di loro; è
stata una vera sc. aver rifiutato la sua offerta; non dire sciocchezze!
RISPOSTA:
Cominciamo dalla fine della sua richiesta. In questo caso sciocchezza non vale come “cosa da sciocchi”, bensì come “cosa da nulla”, cioè di nessuna importanza, uso comunissimo nell’italiano colloquiale.
Qui l’imperfetto non indica assolutamente l’aspetto dell’azione né tantomeno la sua durata, ma è uso modale tipico del parlato, con valore di attenuazione. E’ come se dicesse: “E’ solo una sciocchezza, è giusto una sciocchezza”. Quindi sarebbe andato bene anche il presente. Non va bene, invece, il passato prossimo, perché lascerebbe quasi intendere una collocazione al passato che invece non è appropriata al contesto, in cui non importa il quando (se una cosa è priva di importanza lo è sempre, non solo in relazione al tempo in cui è avvenuto l’evento che si definisce senza importanza).
Per capire bene la differenza, consideri questo esempio analogo:
Ti ho chiamato ieri ma tu non hai risposto. Comunque non preoccuparti, perché non è/era nulla di importante”. Sarebbe anomalo (e quindi sbagliato, nel senso di “non naturale in italiano”) dire “non è stato nulla di importante”, perché, come ripeto, l’essere poco importante è una constatazione generale svincolata dal tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei esporvi queste frasi:
1)Roma, che è capitale d’Italia, è una città vicina al mare.
2)Le rendo noto che, se non salderà il suo debito, passerò a vie legali.
Sia il primo inciso (che è capitale d’Italia) che il secondo (se non salderà il suo debito), qualora vengano sottratti, permettono alla frase di avere un senso compiuto (Roma è una citta vicina al mare / le rendo noto che passerò a vie legali).
Nella prima frase, però, l’inciso dà informazioni irrilevanti rispetto al senso della frase, nella seconda, invece, l’inciso fornisce informazioni sostanziali (io passerò a vie legali solo se si realizzerà una ben precisa condizione: il suo mancato pagamento).
Mentre il primo inciso va posto sicuramente fra le virgole, il secondo non lo porrei fra di esse, perché le virgole farebbero risultare l’affermazione ” se non salderà il suo debito” come marginale, anziché di centrale importanza.
RISPOSTA:
Va distinta la funzione di inciso da quella di parentetica. Una parentetica contiene di solito, come dice lei, un’informazione marginale (“che è la capitale d’Italia”). Per inciso, invece, si intende semplicemente la collocazione dell’informazione tra due pause, o virgole, ma non la sua marginalità. Le virgole che isolano la protasi del periodo ipotetico nell’esempio “Le rendo noto che, se non salderà il suo debito, passerò a vie legali” sono necessarie (e dunque se le eliminasse commetterebbe un errore!), perché indicano la spezzatura del rapporto assai vincolante tra reggente e completiva (…rendo noto che passerò…) mediante l’intromissione della protasi del periodo ipotetico. La posizione di inciso, cioè la segnalazione di tale intromissione, non implica in alcun modo la minore importanza della protasi. Aggiungo che, qualora non vi fosse stata intromissione, e vi fosse dunque stato soltanto il periodo ipotetico, si sarebbe potuta usare la virgola oppure no (“se non salderà il suo debito[,] passerò a vie legali”) senza alcun cambiamento di significato. La virgola, infatti, in questo caso è un semplice retaggio del passato, quando si soleva separare quasi sistematicamente la premessa dalla conseguenza.
In generale, faccia attenzione a non caricare la punteggiatura di valori logicistici che le sono estranei: la virgola non indica quasi mai una riduzione di importanza (tranne, e non sempre, nel caso delle parentetiche di cui sopra), bensì denota una frattura sintattica (in molti casi), una transizione di piano testuale o informativo (cioè il passaggio da un’informazione all’altra, in molti altri casi), la riproduzione di una piccola pausa o curva intonativa (più raramente e soltanto nei testi mimetici del parlato), la messa in evidenza di un’informazione (e dunque l’esatto contrario di quel che dice lei, cioè conferisce maggiore importanza a qualcosa: “Mario, ho incontrato, non Luca”, con focalizzazione di Mario), oppure uno stilema (stile di un certo autore, consuetudine scrittoria ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Siamo studenti di italiano e ci stiamo imbattendo in una questione riguardante l’evoluzione dei dialetti italiani. Sappiamo che l’italiano standard evolve quotidianamente mentre ci chiediamo se anche i dialetti subiscano influenze. Dunque, vorremmo sapere se e come i diletti possono essere influenzati.
Inoltre ci stiamo chiedendo se nella frase sopra sia corretto usare o meno il congiuntivo: subiscono o subiscano.
RISPOSTA:
I dialetti sono lingue come l’italiano, il francese o il cinese. La differenza tra una lingua e un dialetto non è nel funzionamento, ma nell’ampiezza d’uso: i dialetti sono usati da comunità ristrette che hanno anche un’altra lingua, l’italiano, con la quale comunicano a un livello più ampio e in contesti ufficiali.
Anche i dialetti evolvono, quindi, e subiscono l’influenza dell’italiano e delle altre lingue (e in misura ridotta influenzano l’italiano e persino le altre lingue).
I rapporti tra l’italiano e i dialetti sono molto complessi, tanto che vengono scritti diversi libri ogni anno su questo argomento: non è possibile, quindi, sintetizzare la questione in una breve risposta. In generale possiamo dire che l’italiano si è diffuso tra tutta la popolazione, anche come lingua del parlato informale, non solo per lo scritto ufficiale e letterario, a partire dalla seconda metà del Novecento. Da allora i dialetti hanno cominciato a perdere funzionalità, ovvero a essere usati sempre meno anche in famiglia e tra amici. Questo processo ha rallentato l’evoluzione dei dialetti, impoverendone il lessico e riducendo il numero dei parlanti nativi di queste lingue, ovvero delle persone che nascono in famiglie in cui queste lingue si parlano spontaneamente (anche se la situazione è diversa da regione a regione e tra le città e le zone rurali). Da qualche decennio si nota un nuovo interesse per i dialetti: sono nati movimenti e associazioni che vogliono salvare queste lingue dalla morte. Queste iniziative potrebbero portare, in futuro, a recuperare non solo la conoscenza dei dialetti, ma anche l’uso.
Per quanto riguarda la seconda domanda, nella vostra frase vanno bene sia subiscono sia subiscano. Il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ovvero più adatto a contesti ufficiali, specialmente scritti: in questo contesto, quindi, è preferibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito della frase
“La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA / DOVREBBE essere”,
qual è la forma più diffusa, debba o dovrebbe? Dipende dalla regione? C’è una differenza nella semantica tra l’una e l’altra? C’è una condizione non espressa quando si usa dovrebbe? Possiamo esplicitarla?
RISPOSTA:
L’alternanza tra congiuntivo e condizionale nella proposizione comparativa non dipende dalla regione di provenienza del parlante, ma dal registro e dalla semantica. Da una parte, infatti, il congiuntivo è la scelta più formale, dall’altra il condizionale veicola l’idea che il parlante si aspetterebbe una situazione diversa, quindi rimarca la sua posizione di contrarietà. Potremmo esplicitare la condizione sottintesa così: “La lingua italiana è più complessa di quanto dovrebbe essere (se le cose andassero come mi aspetto / in un mondo ideale)”. La capacità del condizionale di far risaltare l’atteggiamento emotivo del parlante favorisce ulteriormente l’uso di questo modo rispetto al congiuntivo in contesti colloquiali; è ragionevole, pertanto, supporre che il condizionale sia più comune del congiuntivo, almeno in contesti informali. Per esserne certi, però, si dovrebbe fare uno studio statistico sulla base di un grande corpus.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere se è corretto usare l’espressione un vestito da pipistrello al posto di un costume da pipistrello. Mi è venuto questo dubbio perché lo userei come sostantivo e non come verbo, come potrebbe essere in una frase del tipo un uomo vestito da pipistrello.
RISPOSTA:
I nomi vestito e costume possono essere usati con uguale efficacia in questo caso: vestito è un iperonimo di costume, cioè è un nome il cui significato comprende quello dell’altro, che è, a sua volta, iponimo del primo. Si badi che il nome vestito deriva direttamente dal latino vestitus ‘vestito’; non è, come lei ipotizza, il participio passato di vestire sostantivato (vestito nome e vestito participio di vestire sono forme coincidenti, ma con origini diverse, sebbene ovviamente legate). Se anche fosse un participio sostantivato, comunque, potrebbe certamente usarlo come nome: sono molti, infatti, i participi presenti e passati usati comunemente come nomi (comandante, cantante, gelato, candito ecc.).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho avuto modo di leggere questo periodo: “Tu, all’epoca, eri un bambino: avresti dovuto avere cinque o sei anni”.
Ho attribuito al predicato avresti dovuto avere valore dubitativo, come se l’autore non fosse certo dell’età dell’interlocutore. Vi domando se la scelta di ricorrere al condizionale (composto) sia legittima; oppure, per tale finalità comunicativa, si sarebbe dovuto propendere per l’indicativo.
Mi si sono presentate alla mente due soluzioni che vorrei confrontare con quella sopra indicata: quale tra le tre vi sentireste di suggerire, sempreché tra esse ve ne sia almeno una rispondente all’interpretazione che ho dato alla frase d’origine?
1. Dovevi avere cinque o sei anni.
2. Avevi, se non sbaglio, cinque o sei anni.
RISPOSTA:
La sua interpretazione della frase è corretta: il verbo dovere è usato qui con valore epistemico (quello che lei definisce dubitativo), cioè per esprimere l’incertezza dell’emittente circa la verità di quello che sta dicendo. Dal momento che l’evento, o meglio lo stato, di cui l’emittente non è certo è passato, ci si aspetta che egli usi l’imperfetto, come nel suo esempio 1. La scelta del condizionale passato non è impossibile, ma in questo contesto sembra un po’ pleonastica, perché aggiunge alla sfumatura di incertezza già presente nel verbo servile dovere quella condizionale propria del modo. Il suo esempio 2, infine, è pure corretto e tutto sommato equivalente agli altri due: in questo caso l’espressione dell’incertezza è affidata non al verbo dovere ma alla proposizione incidentale se non sbaglio. In termini di registro, quest’ultimo esempio è il più formale, visto che l’uso epistemico del verbo dovere è proprio di un contesto colloquiale, anche se non trascurato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo diverse fonti l’uso del congiuntivo in una proposizione comparativa è normale. Volevo confermare come cambi la semantica nelle frasi:
(1a) La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare (congiuntivo presente).
(1b) La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare (indicativo presente).
(2a) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettassi.
(2b) La lingua italiana è più complessa di quanto mi aspettavo.
Molte fonti non distinguono tra il congiuntivo e l’indicativo, ma secondo Treccani “è di regola il congiuntivo, che serve proprio a segnalare la frustrazione dell’attesa; l’indicativo è tuttavia attestato nei registri di media e bassa formalità; il condizionale può comparire occasionalmente con valore ipotetico”.
Per quel che sappia, un verbo al condizionale è anche ammesso per dare una sfumatura ipotetica alla frase. Volevo sapere se le mie interpretazioni sono corrette:
(3a) La metro funziona peggio di come avrei potuto immaginare.
Per me vuol dire che non ci ho pensato prima, cioè con la condizione se ci avessi pensato sottintesa.
(3b) La metro funziona peggio di come avessi potuto immaginare
funziona anche ma non è ipotetica. Stavo pensando a quello prima di averla presa.
Siamo arrivati al mio domandone:
Come mai gli italiani con cui parlo dicono che queste frasi siano sbagliate:
(4a) La lingua italiana è più complessa di quanto DEBBA essere.
(4b) La lingua italiana è più complessa di quanto POSSA essere.
Molti mi dicono che devo usare dovrebbe e potrebbe. Non riesco a capire quali siano la condizioni. Per me (4a e b) esprimono la mia opinione… ma ovviamente se DEBBA non è ammesso sbaglio io. Sono quasi sicuro che abbia a che fare con il verbo dovere (e anche con potere).
RISPOSTA:
Comincio dalla fine, confermando che le frasi 4a e 4b sono corrette nella forma da lei usata, e sarebbero corrette anche con il condizionale e con l’indicativo. Non so perché i suoi amici le abbiano definite sbagliate, ma è piuttosto comune che i parlanti confondano il proprio uso e il proprio stile con le regole della lingua. Allo stesso modo, sono corrette tutte le altre frasi che lei porta come esempi, come già confermato dalla citazione del sito Treccani. Rispetto a quest’ultima, sottolineo soltanto che il senso di frustrazione associato al congiuntivo è soggettivo: la frase “La lingua italiana è più complessa di quanto si possa pensare” non comunica necessariamente maggiore frustrazione di “La lingua italiana è più complessa di quanto si può pensare”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda sull’uso del periodo ipotetico nei discorsi indiretti.
Discorso Diretto:
(1a) La commessa mi ha detto: “Se prenderò altri quattro foglietti, riceverò uno sconto del 25%”.
Discorso Indiretto:
(1b) “La commessa mi ha detto che avrei ricevuto uno sconto del 25% se avessi preso altri quattro foglietti”.
(A) 1b è l’unico modo per riportare (1a)? È possibile scriverla anche così?
“La commessa mi ha detto che avrei ricevuto uno sconto del 25% se AVREI PRESO altri quattro foglietti” (qui volevo sapere se è possibile usare il condizionale composto per esprimere un futuro nel passato dopo se).
(B) La semantica della frase (1b) non indica una cosa irreale? In altre parole la frase 1b non ti dà nessuna indicazione se li ho presi o non li ho presi. È giusto?
RISPOSTA:
Innanzitutto una precisazione: nella frase 1a i verbi all’interno del discorso diretto devono andare alla terza persona, non alla prima (quindi prenderà e riceverà). Riguardo alla domanda A, secondo la consecutio temporum si potrebbe usare il condizionale passato nella proposizione ipotetica per esprimere il futuro nel passato; la proposizione ipotetica introdotta da se, però, rifiuta il condizionale, perché il condizionale è il modo degli eventi condizionati, non di quelli condizionanti. In conclusione, in questo caso bisogna usare comunque il congiuntivo.
Per quanto riguarda la semantica della frase, dal momento che l’evento del prendere è collocato nel passato, deve essere espresso con il tempo trapassato, anche se l’evento non è irreale, bensì potenziale. Il soggetto, infatti, potrebbe aver preso o no i foglietti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei cortesemente un chiarimento sull’uso di nel caso in cui. L’espressione va fatta seguire da un congiuntivo o è ammesso anche il condizionale?
Es. “Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero / sarebbero stati assenti”.
“Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci fossero / fossero stati assenti”.
RISPOSTA:
La locuzione congiuntiva nel caso in cui introduce una proposizione ipotetica; questo tipo di proposizione ammette l’indicativo e il congiuntivo, ma non il condizionale, perché quest’ultimo è il modo degli eventi condizionati da altri eventi, quindi non può essere usato per descrivere gli eventi condizionanti (cioè quelli ipotetici). La variante *”Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero assenti”, pertanto, è scorretta. Lo stesso non vale per la variante “Ho preferito scrivere un elenco dei partecipanti, nel caso in cui ci sarebbero stati assenti”, che è ammissibile perché qui il condizionale passato serve a esprimere non un evento condizionato, ma un evento futuro rispetto a un altro passato (ho scritto); una funzione nota come futuro nel passato. Per quanto, però, il condizionale passato con funzione di futuro nel passato all’interno di proposizioni ipotetiche sia giustificabile sul piano logico, esso è comunque percepito come stridente, quindi in un contesto formale è preferibile sostituirlo con il congiuntivo imperfetto, che può avere la stessa funzione, indicando un evento contemporaneo a quello, passato, della reggente, ma proiettato nella posteriorità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho comprato il libro scritto da Professor Ruggiano, Uno sguardo sul verbo: forme, usi, varietà, e non trovo un esempio dell’uso dell’infinito come viene usato in esempio (a).
(a) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava – e io immaginavo il fiume là sotto RUGGIRE al buio, GONFIARSI fino a ESODARE dai tombini. (Le Otto Montagne scritto da Paolo Cognetti)
(1) Posso trasformare la frase in modo esplicito cosi’ (almeno lo penso):
(a1) E’ vero che nei giorni di pioggia la strada si allargava — e io immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
(2) L’uso dell’infinito nella prima frase (a) è “standard”? (a1) e’ corretta?
Ho trovato in altri siti esempi dell’uso dell’infinito (non trovato nel libro di Prof Ruggiano) con i pronomi relativi preceduti con una preposizione:
(b) Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto.
(2) Come posso trasformare la frase (b) in una frase esplicita.
RISPOSTA:
Il primo caso da lei sottoposto è quello, molto comune e del tutto corretto in ogni livello di italiano, dell’infinito retto da verbi di percezione, che può essere reso con due strutture equivalenti: 1) una relativa, 2) una completiva:
1) immaginavo il fiume là sotto CHE RUGGIVA al buio, SI GONFIAVA FINCHE (NON) FOSSE ESONDATO dai tombini.
2) Immaginavo […] che il fiume là sotto ruggisse […].
Anche l’altro uso dell’infinito da lei segnalato è del tutto comune e corretto in ogni livello di italiano. Si tratta di un uso ellittico:
“Cerco una ragazza A CUI regalare la mia vecchia moto”
Sta per:
“Cerco una ragazza a cui possa regalare la mia vecchia moto”, che è ovviamente una subordinata relativa esplicita. Nel primo caso, il verbo servile è sottinteso, o ellittico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedervi se nel testo che allego, al quartultimo verso è corretto usare il congiuntivo imperfetto “servissero” o bisogna usare il condizionale presente “servirebbero”?
Quanti desideri
sono caduti dal cielo
per vestirsi
di carne e pelle,
nel bene e nel male?
Forse tanti quanti
servissero
a farci credere
di essere
pezzi di Dio
RISPOSTA:
L’unica forma che ha senso nel contesto è servirebbero, che esprime il valore modale epistemico (potenziale) dell’eventuale utilità dei desideri caduti.
Il congiuntivo imperfetto andrebbe bene in altri contesti: o in protasi di periodo ipotetico: per es. “se servissero, cadrebbero dal cielo”. oppure in una relativa con valore ipotetico: per es.: “puoi prendere tutti i pezzi che ti servissero per fare il puzzle”.
A meno che lei non voglia intendere che i desideri caduti non servano più: allora andrebbe bene anche servissero, con valore di relativa ipotetica: “quanti servissero allora, ma che ora non servono più”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi permetto di proporLe questa frase:” Se sapessi che tu, intraprendendo quella attività, potresti essere felice, ti consiglierei di svolgerla”. Il mio dubbio si riferisce a quel “potresti essere” (le alternative
che mi sembrano degne di considerazione sono: possa essere e potrai essere).
RISPOSTA:
Considerando il valore modale epistemico (cioè di probabilità) del poter essere felice (espresso peraltro già dal verbo modale potere), vanno bene tutte e tre le soluzioni, anche se la migliore, in quanto meno pesante sintatticamente, è quella del congiuntivo presente, che si limita a segnalare il valore completivo della frase: “che tu possa essere felice”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella penultima strofa della poesia che riporto qui sotto, ho usato il futuro semplice andrò mentre il verbo precedente è al presente. Lo ritenete corretto o sarebbe meglio usare anche lì il presente?
“…e domani, speriamo bene, / comincio: andrò a bottega / da un certo Verrocchio…”.
RISPOSTA:
L’alternanza comincio / andrò è possibile: può essere giustificata da una sfumatura semantica intesa dall’autore, da ragioni fonetiche o entrambe le cose insieme.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta e perché l’altra non lo potrebbe essere? E se fossero entrambe corrette, che diverso significato acquisirebbero nel relativo contesto?
1) se fossi certo che (così facendo) tutto finirebbe allora approverei senza dubbio.
2) se fossi certo che tutto finisse allora approverei senza dubbio.
RISPOSTA:
La proposizione oggettiva che tutto finirebbe / finisse ammette entrambe le costruzioni, senza una percepibile variazione di significato. L’unica differenza è di registro: la variante con il congiuntivo è più formale. Al limite della trascuratezza, sebbene possibile, sarebbe la costruzione se fossi certo che tutto finisce…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È normale che alcuni verbi come constatare, verificare, accertare, appurare reggano ora il congiuntivo ora l’indicativo in funzione dell’azione che veicolano?
a) Ho verificato che la casa fosse vuota.
(Qui il verbo starebbe a indicare un’azione che non ha ancora portato esito: non si sa se la casa sia effettivamente vuota, e determinate operazioni di controllo disposte all’interno sono finalizzate a questo obiettivo).
b) Ho verificato che la casa era vuota.
(Qui il verbo starebbe invece a indicare un’azione dall’esito definitivo: le operazioni di controllo si sono concluse, e la casa è certamente vuota).
Augurandomi di essere stata chiara nell’enunciazione del mio dubbio, vorrei sapere se la mia osservazione sia giusta, oppure se con i verbi summenzionati si possa impiegare o l’uno o l’altro modo a prescindere dalla semantica.
RISPOSTA:
La sua osservazione è sostanzialmente corretta: i verbi da lei citati reggono una proposizione completiva (preferenzialmente) al congiuntivo se prendono il significato di ‘controllare che uno stato di cose corrisponda a quello atteso o previsto’; reggono, invece, l’indicativo se prendono il significato di ‘attestare che lo stato di cose corrisponde a quello atteso o previsto’. Si noti che nel primo caso la proposizione retta è una interrogativa indiretta (infatti la congiunzione che può essere sostituita da se); nel secondo è una oggettiva. Si noti anche che se l’interrogativa indiretta è introdotta da se può essere costruita anche all’indicativo: “Va accertato se la malattia di massa costituisce un reato” (da sanita24.ilsole24ore.com, 2015).
Preciso che tra i verbi da lei elencati, che possiamo considerare sinonimi, constatare è quello che più forzatamente ammette il significato di ‘controllare…’, e più forzatamente, quindi, regge l’interrogativa indiretta. Una frase come “Ho constatato che la casa fosse vuota” potrebbe essere facilmente interpretata come una variante più formale, ma del tutto equivalente in quanto al significato, di “Ho constatato che la casa era vuota”. Anche “Ho constatato se la casa fosse vuota”, del resto, mi sembra meno naturale di “Ho verificato / accertato / appurato se la casa fosse vuota”. La ricerca di constatato se in Internet, non a caso, restituisce soltanto esempi proiettati nel futuro, come “La problematica in discussione non può essere analizzata e risolta senza aver preliminarmente constatato se alla base del comportamento posto in essere dall’azienda ricorrente vi sia stato un comportamento…” (fiscooggi.it, 2007), in cui è proprio la proiezione nel futuro a giustificare il significato e la reggenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
RISPOSTA:
Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologico: Mario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malato, Mario ha questa malattia ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Riguardo alla frase: “le relazioni “esulano dal semplice incontro del 4.07.2016”, vorrei sapere cortesemente se l’aggiunta dell’aggettivo semplice faccia sì che il significato della frase anziché essere l’ammissione che le relazioni non contengano informazioni sull’incontro “tout court”, sia indicativo che su tale argomento, pur in un contesto più ampio, sia stato comunque adeguatamente riferito.
RISPOSTA:
È sempre difficile analizzare una parola in una breve frase estrapolata dal suo intero contesto, però in questo caso sia l’aggettivo semplice sia il verbo esulare lasciano intendere che le relazioni non contengano informazioni sull’incontro, bensì, al contrario, contengano informazioni che vanno al di là dell’incontro e che con esso non hanno nulla a che vedere (esulare vuol dire ”essere estraneo, non avere nulla a che fare con qualcosa”), ovvero vanno al di là dei temi all’ordine del giorno dell’incontro, o a quanto pattuito su quell’incontro ecc. Nulla lascia intendere (in base all’aggettivo semplice) che le suddette relazioni abbiano comunque riportato indicazioni esaurienti sull’incontro stesso. Se si fosse voluto esprimere quest’ultimo concetto, si sarebbe dovuta formulare un’altra frase, quale per esempio la seguente: “Le relazioni, pur avendo riferito a sufficienza sui temi dell’incontro, sono andate ben oltre i temi previsti dall’incontro stesso”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quali delle seguenti varianti sono corrette?
“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.
“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.
RISPOSTA:
Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lo, la, li, le, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con mi, ti, ci, vi, ne, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atleta, artista, collega, nipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ammetto che fino a pochi minuti fa non conoscevo il suo nome.”
Le due proposizioni hanno il solito soggetto; la regola generale, se non vado
errata, imporrebbe, o comunque consiglierebbe, l’impiego della costruzione
implicita.
In un caso come questo, in che modo si potrebbe procedere con la trasformazione
della subordinata esplicita?
RISPOSTA:
Vanno benissimo sia la frase esplicita sia quella implicita, non c’è alcuna imposizione al riguardo.
“Ammetto che fino a pochi minuti fa non conoscevo il suo nome” va addirittura meglio, in questo caso, rispetto a ““Ammetto di non aver conosciuto il suo nome / di non conoscere il suo nome fino a pochi minuti fa”, in quanto l’ancoramento temporale “fino a pochi minuti fa” rende l’infinito meno duttile dell’imperfetto nell’esprimere la sfumatura temporale/aspettuale: prima non lo conoscevo, ma ora, da pochi minuti, lo conosco.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle seguenti frasi ci sono proposizioni relative; in tutte e tre le frasi c’è la sfumatura di eventualità (e forse ipotetica nella prima):
“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
“Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
“Non mi piacerebbe un cagnolino che non mi venisse incontro quando rientro a casa”.
Le mie domande:
1. il pronome relativo che in tutte e tre le frasi è improprio?
2. Quando troviamo una proposizione relativa che con un verbo al congiuntivo, il relativo è sempre considerato improprio?
3. Se la risposta è sì, penso che ci siano soltanto due possibilità: valore finale o valore consecutivo. Giusto?
Ho delle difficoltà a individuare una che improrio con valore consecutivo: è più facile per me individuare un valore finale. Quindi mi domando:
1. quando c’è un congiuntivo nella proposizione relativa, non è possibile considerare il che un relativo proprio?
2. Quando una proposizione con un che relativo ha il verbo al congiuntivo e sicuramente non ha valore finale, posso concludere che è una consecutiva?
3. Se la risposta è sì, possiamo concludere che le relative in queste due frasi hanno valore consecutivo?
“Non c’è niente che tu possa fare”.
“Marco è il ragazzo più simpatico che io conosca”.
RISPOSTA:
Innanzitutto bisogna ricordare che il pronome che non è mai detto improprio. In tutte le frasi da lei proposte (tranne l’ultima, come vedremo alla fine) ha sempre la funzione di pronome relativo, e tale funzione non può che essere propria. Sono, piuttosto, le proposizioni relative nel loro complesso a essere definite da alcuni improprie quando assumono un significato non esattamente relativo, ma assimilabile a quello di altre proposizioni. L’etichetta improprio, si noti, non è precisa, perché fa pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nella costruzione di queste proposizioni, che invece sono del tutto regolari. Le proposizioni relative con un significato vicino ad altre proposizioni possono essere:
consecutive (cerco un centro di gravità permanente che [= tale che] non mi faccia mai cambiare idea, cantava Franco Battiato nella canzone Centro di gravità permanente);
causali (ho prestato a Luca il libro che mi [= perché me lo] aveva richiesto con insistenza);
concessive (Luca, che [= anche se] non voleva venire, alla fine si è divertito.
Per quanto riguarda il significato finale, esso è di solito contemplato nelle grammatiche, ma, come dice lei, è quasi indistinguibile da quello consecutivo. Per semplicità, si può parlare di significato consecutivo-finale.
Come si può vedere, l’interpretazione speciale della proposizione relativa non è collegata al modo congiuntivo: le relative con significato causale e consecutivo, infatti, richiedono l’indicativo. Inoltre, l’uso del congiuntivo nella proposizione relativa non produce necessariamente un significato speciale, ma a volte serve soltanto a elevare il registro della frase. È il caso della prima delle sue ultime frasi, nella quale il significato non cambia se sostituiamo il congiuntivo con l’indicativo (“Non c’è niente che puoi fare”), anche se l’antecedente indefinito niente fa propendere senz’altro per il congiuntivo nella relativa. L’ultima frase, invece, contiene non una proposizione relativa, ma una comparativa, che serve a esprimere il secondo termine di un paragone ed è introdotta dalla congiunzione (non dal pronome) che. Per la precisione, anche nella proposizione comparativa il congiuntivo serve a elevare il registro; se lo sostituiamo con l’indicativo il significato non cambia: “Marco è il ragazzo più simpatico che conosco”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi un interrogativo composito di natura prevalentemente sintattica.
Prima metà del periodo:
1A) Se un domani tornassi in Italia, sospetterei che…
1B) Se un domani tornerai / sarai tornato in Italia, sospetterò che…
Le due costruzioni, seppur con difformità semantiche, sono valide?
Seconda metà del periodo:
[…] sospetterò / sospetterei che…
2A) tu possa non esserti trovato bene all’estero.
2B) tu potresti non esserti trovato bene all’estero.
2C) tu non ti sia trovato bene all’estero.
A condizione che le tre soluzioni completive siano accettabili, quale suggerireste?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima parte del periodo le forme verbali di entrambe le varianti vanno bene; nella prima, però, bisogna esplicitare il soggetto di tornassi, altrimenti il ricevente penserà che sia io. Anche le tre varianti della seconda parte sono tutte legittime: la 2A e la 2C sono equivalenti dal punto di vista della forma verbale, visto che possa e sia sono entrambi congiuntivi presenti; potresti aggiunge una sfumatura di condizionalità, ovvero di incertezza. Tra le 3 oggettive la 2A esprime, con il verbo potere, una certa cautela da parte del parlante rispetto all’eventualità descritta; la 2C è più diretta; la 2B è estremamente cauta, perché unisce il verbo potere al condizionale di incertezza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se queste due frasi sono corrette: 1) Non sapevo che quella era l’ultima volta che l’avrei visto; 2) Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. “A orecchio” queste frasi mi suonano bene, però mi lascia perplesso quel sarebbe stata e quel l’avrei visto, che dovrebbero proiettare l’azione al futuro rispetto al sapevo, mentre non mi pare che sia cosi’.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: nella prima era situa l’ultima volta nel passato, quindi automaticamente nello stesso momento di sapevo; nella seconda sarebbe stata proietta l’ultima volta nel futuro rispetto a sapevo, sottolineando che la qualità di volta di essere l’ultima avrebbe continuato a valere in futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato nel Corriere della Sera questa frase con il verbo nella principale all’indicativo e il congiuntivo imperfetto nella subordinata relativa: “Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione nonostante questo avviso?”.
– Ho interpretato dovessero come un’azione che si svolge possibilmente nel futuro (un’eventualità) e non un’azione al passato (semanticamente simile alla frase “Vorrei che tu venissi con me”, in cui venissi non si riferisce al passato anche se il congiuntivo è imperfetto).
Le mie domande:
1. Il meccanismo che funziona nelle frasi come “Guarderei volentieri un film che abbia come protagonista Al Pacino” non c’entra in questa frase dato che il verbo rischiano è all’indicativo? In altre parole, non c’è la possibilità che dovessero venga interpretato come dovevano (indicativo imperfetto)?
2. Mettiamo il verbo della principale al condizionale: “Si può dire che cosa rischierebbero i lavoratori che dovessero portare avanti la mobilitazione…”. Questa forma con il condizionale nella prima parte potrebbe indicare che dovessero vale sia come un’eventualità che un imperfetto (una cosa conclusa) come ha scritto nel blog?
3a. Come mai per molti amici italiani, la frase cambiata senza il verbo servile dovere (“Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che portassero avanti la mobilitazione”) non sembra corretta al presente?
3b. Come mai per gli stessi amici italiani in questo esempio va bene il congiuntivo imperfetto senza il verbo servile? “Chiedo alle persone che conoscessero (anche conoscano) già la risposta di restare in silenzio”.
Mi domando se la ragione per cui la frase 3b va bene sia perché c’è la sfumatura di un valore limitativo insieme con un desiderio (un altro esempio: “Voglio comprare una camicia che sia blu”… “Non so se esista”). Questa sfumatura non esiste nella frase 3a: che ne dite?
4. Anche se ho una ventina di libri di grammatica italiana (scritti dal prof. Serianni e altri grandi professori) non riesco a trovare una spiegazione della consecutio nelle proposizioni relative. Per le completive tipo soggettiva, oggettiva, dichiarativa, interrogativa indiretta, in cui il che è una congiunzione, viene spiegata. La consecutio funziona anche nelle proposizioni relative?
RISPOSTA:
Bisogna chiarire innanzitutto che il verbo servile dovere nella frase indica non un obbligo, ma una incertezza dell’emittente o l’eventualità dell’evento (dovessero portare = ‘forse, eventualmente portassero’). Questo significato è sfruttato soprattutto al presente e all’imperfetto, non con i tempi perfettivi (quelli che rappresentano l’evento come concluso); anche al presente e all’imperfetto, però, in alcune frasi risulta impossibile usare dovere con il significato di incertezza, soprattutto se esso si trova in una proposizione subordinata. Per non confondere il problema dei tempi verbali con quello dell’uso del verbo dovere, quindi, eliminerò quest’ultimo nelle riformulazioni della frase che farò.
Nella frase del Corriere della Sera dovessero portare si comporta come avesse nella frase “Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino” (su cui verte la risposta “Il congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa” dell’archivio di DICO). La costruzione non cambia se la reggente è all’indicativo presente (rischiano) o al condizionale presente (guarderei). La differenza tra le due frasi è, piuttosto, nel diverso comportamento di avesse e dovessero portare avanti: quest’ultimo verbo, infatti, si lascia interpretare con maggiore difficoltà come passato rispetto ad avesse, sebbene già in quel caso l’interpretazione passata della relativa fosse piuttosto forzata. L’interpretazione passata è più plausibile eliminando dovere: … che cosa rischiano i lavoratori che portassero (= portavano) avanti la mobilitazione, ma la costruzione e il significato della frase richiederebbero, per riferirsi al passato, un tempo perfettivo: … che cosa rischiano i lavoratori che hanno / abbiano portato avanti la mobilitazione.
Se, quindi, interpretiamo la frase così com’è come riferita al presente con una proiezione nel futuro il congiuntivo imperfetto ha la stessa funzione che avrebbe il presente: … che cosa rischiano i lavoratori che portino avanti la mobilitazione. Le due versioni della frase, con il congiuntivo presente e imperfetto (ovviamente senza dovere) sono equivalenti; molti parlanti preferiscono, però, la versione con l’imperfetto perché le relative al congiuntivo esprimono sfumature ipotetiche, normalmente associate al congiuntivo imperfetto, tipico della proposizione ipotetica (che portassero avanti = se portassero avanti).
Questa risposta riguarda direttamente le domande 1 e 2. Per quanto riguarda le domande 3a e 3b si noti che la frase “Si può dire che cosa rischiano i lavoratori che portino avanti la mobilitazione” è corretta, ma, come detto sopra, i parlanti preferiscono usare il congiuntivo imperfetto nelle proposizioni relative (non cercherei altre ragioni semantiche troppo sottili per spiegare questa preferenza).
Infine, le grammatiche descrivono la consecutio temporum soltanto per le proposizioni completive perché soltanto con queste proposizioni il sistema funziona in modo regolare; nelle altre proposizioni, invece, i modi e i tempi tendono a mantenere la loro funzione propria, indipendente dal rapporto con il verbo della proposizione reggente. Tra tutte, la proposizione relativa ha il comportamento più indipendente di tutte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Il giorno in cui un’altra civiltà mondiale dovesse sostituirsi con prepotenza a quella occidentale, ci faranno pagare anche i crimini di Scipione in Africa e di Alessandro in Persia…”.
Chiedo un parere professionale su quel futuro dopo il congiuntivo. È giusto ci faranno pagare per intendere un evento futuro che può accadere da quel momento, o sarebbe più corretto il condizionale: ci farebbero pagare? Sono entrambe accettabili?
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni sono possibili e corrette. Con il condizionale l’evento è rappresentato come direttamente condizionato dall’evento del sostituirsi, quindi dipendente da esso; con l’indicativo esso è sganciato dalla relazione di condizione-conseguenza, quindi è rappresentato come più concreto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivo per chiedere se, secondo voi, nel contesto della frase sotto riportata la congiunzione ebbene ha più valore avversativo o conclusivo.
“Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha rifiutato”.
Io ritengo che abbia più un senso avversativo, è più facile sostituirla con ma, però, tuttavia rispetto che con quindi o pertanto, ma mi interessa capire anche il vostro punto di vista.
Ho consultato il dizionario Sabatini-Coletti in cui, a proposito di ebbene si legge che tale congiunzione può essere utilizzata “con valore anche avversativo, per segnalare una decisione o una circostanza contrarie all’aspettativa”. Vi è inoltre la seguente frase a mo’ di esempio: “la sua proposta è che io mi dimetta; ebbene, non ci sto”. Mi sembra molto simile a quella da me proposta: in entrambi i casi, infatti, vi sono sottese un’aspettativa (la proposta di una persona che io mi dimetta; la mia richiesta di farmi un favore) e una decisione o una circostanza contraria all’aspettativa (io non voglio dimettermi; una persona ha rifiutato la mia richiesta di favore).
RISPOSTA:
La domanda è più insidiosa di quanto sembri a prima vista. Innanzitutto escludo che ebbene sia sostituibile con tuttavia o simili, perché tale sostituzione (per quanto grammaticalmente possibile) modificherebbe il significato della frase. La frase, infatti, non mette in contrapposizione due eventi, ma presenta prima un evento e poi un altro che ne rappresenta l’esito. Il significato che tale esito sia contrario alle speranze dell’emittente non è contenuto in ebbene, ma è inferito dal ricevente sulla base della sua conoscenza del mondo: la frase “Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha accettato” sarebbe ugualmente coerente nel contesto adeguato. Dal punto di vista testuale, ebbene ha la funzione di segnale discorsivo metatestuale che serve a introdurre la conclusione di un racconto; il valore che meglio lo descrive, anche se in termini non tecnici, è pertanto quello conclusivo (ebbene si avvicina qui a insomma: “Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, insomma ha rifiutato”).
Possiamo considerare l’esempio del Sabatini-Coletti analogo alla sua frase; non condivido, però, l’interpretazione data dal dizionario. Aggiungo che il valore avversativo per ebbene non è menzionato né dal Sabatini-Coletti on line, né dal GRADIT, né dallo Zanichelli, né dal Devoto-Oli, né dal Dizionario Garzanti.
Sulla base dell’analisi condotta – si noti – la frase risulta formata da due enunciati giustapposti, tant’è che richiederebbe un segno di interpunzione forte prima di ebbene (… se poteva farmi un favore; ebbene, ha rifiutato o anche … se poteva farmi un favore. Ebbene, ha rifiutato), proprio come nell’esempio del Sabatini-Coletti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La mia domanda riguarda la traduzione del seguente testo in lingua inglese.
“Having worked with any number of students through the years, I feel that meditators should follow the breathing where it seems most vivid and comfortable to them, where it is most likely to hold their attention. None of these places will always, in every sitting, remain the most vivid. But it is important not to keep jumping from one to another, feeding an already restless mind”.
Nella frase None of this places will always, in every sitting, remain the most vivid l’avverbio always non significa ‘in tutte le sedute’, sta solo dicendo che sempre in ogni seduta accade questo? Per spiegarmi meglio, non sta spiegando tra le parentesi cosa intende per always.
RISPOSTA:
La parte tra virgole, in every sitting, contraddice il verbo remain, perché il fatto che i posti non rimarranno vividi nel ricordo riguarda certamente la vita futura oltre le sedute, non le sedute di meditazione future. La traduzione che mi sembra più plausibile è questa: “Nessuno di questi posti sperimentati nelle sedute rimane mai più vivido degli altri”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vi scrivo per chiedervi aiuto per aggiungere qualche dettaglio ulteriore a un testo che ho scritto, senza che questo diventi troppo dispersivo. In più, volevo chiedervi gentilmente se si può eliminare qualche piccola sbavatura o ripetizione.
Il testo è il seguente:
“Per un po’ mi tieni dentro la tua bocca; poi mi sputi fuori, facendomi finire tra le lenzuola del tuo letto. Poco dopo lasci cadere attorno al mio minuscolo corpicino diverse cascate della tua bianca e densa saliva: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano.
Volevo scriverlo di nuovo aggiungendo che la ragazza alterna momenti in cui lascia colare la saliva mentre tiene le labbra socchiuse e altri mentre tira fuori ed estende la lingua lungo il mento, solo che non so come inserirlo: temo che spendendo 4/5 frasi in più si possa appesantire il periodo. Oltre a ciò, volevo sapere se attorno al mio corpicino fosse posizionato correttamente nella frase, così come conoscere dei sinonimi per dire attorno a me oppure attorno al mio corpicino.
Avevo pensato a questa variante, però non so se possa risultare pesante da leggere:
“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri mentre estendi / allunghi [non so quale dei due termini sia più appropriato] la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
RISPOSTA:
La seconda versione del testo è ben scritta e non pesante da leggere. Per quanto riguarda attorno al mio corpicino, è ben posizionato e può essere sostituito da varianti come intorno al mio piccolo / minuscolo corpo o simili. Espressioni sostitutive più sofisticate sono sempre possibili (il corpo può essere metaforizzato variamente, oppure al posto del corpo si possono nominare, metonimicamente, le braccia, le gambe, la testa), ma sono scelte che modificano lo stile e in parte anche il significato del testo, per cui sono di pertinenza dell’autore. Anche la scelta tra estendi e allunghi non è decidibile su base grammaticale, ma riguarda la semantica e lo stile: estendere è proprio di ambiti tecnico-specialistici e in questo contesto sembra un po’ forzato, ma potrebbe essere scelto proprio per questo valore lievemente straniante. Per la sintassi, suggerisco la seguente correzione, che elimina la difficoltà del collegamente tra altri e mentre:
“Poco dopo lasci cadere diverse cascate della tua saliva attorno al mio minuscolo corpicino, alternando istanti in cui tieni le labbra socchiuse e altri in cui estendi / allunghi la lingua lungo il mento: in meno di trenta secondi, la pozza della tua bava diventa così grande da sembrarmi un oceano”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un post di un’economista ho trovato questa frase che mi ha creato molti dubbi.
“Nonostante tutto quello che si scriva e che si dica, sono orgogliosa di come l’Italia e gli italiani abbiano reagito”.
Questa frase è corretta?
Si possono sostituire tutti i congiuntivi con l’indicativo? Per me è più naturale dire sono orgogliosa di come hai risolto la situazione o hai reagito, perché è un dato oggettivo. Avrei usato l’indicativo anche dopo nonostante tutto quello che, anche se so che dopo nonostante ci vuole il congiuntivo.
RISPOSTA:
Nella frase che lei ha letto i congiuntivi si scriva e si dica sono effettivamente al limite dell’accettabilità; sarebbe meglio sostituirli con le forme equivalenti dell’indicativo. Questi verbi non sono, infatti, inseriti in proposizioni concessive introdotte da nonostante (nonostante tutto quello è un sintagma nominale che fa parte della reggente), ma si trovano all’interno di proposizioni relative (che si scrive e (che) si dice), che qui, come nella maggioranza dei casi, richiedono l’indicativo. Al contrario, il congiuntivo abbiano reagito all’interno della proposizione interrogativa indiretta è del tutto corretto; l’indicativo hanno reagito sarebbe una variante ugualmente legittima, ma meno formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei farvi una domanda relativa al congiuntivo trapassato e al trapassato prossimo dell’indicativo.
Se non sbaglio, questi tempi necessitano di un altro passato al quale agganciarsi per essere giustificati (a meno di non essere usati in frasi autonome, nel caso esclusivo del congiuntivo).
La domanda è questa: annullando lo stacco temporale che stabilisce cosa è avvenuto prima di cosa, sarebbe possibile sostituire il congiuntivo trapassato con il passato e il trapassato prossimo con il passato prossimo, oppure queste sostituzioni confliggerebbero con la sintassi?
1) Sono convinta che lei
a) fosse uscita
b) sia uscita,
prima che lui arrivasse.
2) Penso che lei
a) avesse sbagliato
b) abbia sbagliato
a tacere, quando lui le chiese di parlare.
3) Prima di uscire,
a) aveva salutato
b) ha salutato
tutti gli amici.
RISPOSTA:
Innanzitutto bisogna ricordare che il trapassato si può usare anche se non c’è nella frase un altro tempo passato, perché quest’ultimo può essere sottinteso. Una frase come “Sono convinta che lei fosse uscita”, per esempio, sarebbe del tutto corretta.
Fatta questa premessa, la risposta alla sua domanda è sì: il trapassato può essere sostituito con il passato senza provocare un errore sintattico. Il significato della frase in alcuni casi rimane sostanzialmente uguale con entrambi i tempi, in altri cambia. Nella sua frase 1, fosse uscita chiarisce che l’evento precede un altro evento passato, identificabile con arrivasse; sia uscita, dal canto suo, pone l’evento genericamente nel passato, non esplicitamente in un momento del passato che precede un altro evento. La proposizione temporale introdotta da prima che, però, è sufficiente a recuperare questa informazione: in questo caso, quindi, le due frasi hanno lo stesso significato, per quanto quella con il trapassato sia più precisa.
Nella sua frase 2 la situazione è completamente diversa: qui il rapporto nel passato è tra avesse / abbia sbagliato e chiese. Se volessimo sottolineare il rapporto temporale tra i due eventi dovremmo rappresentare il tacere, quindi lo sbagliare a tacere, non come precedente, ma come successivo al chiedere, quindi scriveremmo “Penso che lei avrebbe sbagliato a tacere, quando lui le chiese di parlare”. Possiamo, però, rappresentare i due eventi come contemporanei, collegati da un rapporto non temporale, ma consequenziale (e solo implicitamente anche temporale): per far questo useremo il passato: abbia sbagliato. In entrambi i casi il trapassato non è un’opzione corretta.
Nella frase 3 la scelta del tempo del verbo della reggente dipende da quale sia il momento di riferimento. Se esso è il momento dell’uscire allora l’evento del salutare può essere rappresentato come semplicemente passato, ma ovviamente precedente all’evento dell’uscire per via della congiunzione prima di, oppure come esplicitamente precedente a quello dell’uscire. La differenza sta nel grado di precisione. Se, però, viene introdotto un diverso momento di riferimento passato, ha salutato diviene impossibile (o almeno molto trascurato); per esempio: “Mi dissero che aveva salutato (non ha salutato) prima di uscire”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Trovandomi al supermercato, ho deciso di fare la spesa per tutta la settimana”. Quale delle affermazioni seguenti è corretta relativamente all’uso del gerundio in questo periodo?
– È corretta perché il gerundio è usato in modo impersonale
– È corretta perché esprime contemporaneità tra la proposizione reggente e la subordinata
– È corretta perché il soggetto della proposizione reggente coincide con quello della subordinata
RISPOSTA:
Prima di entrare nel merito della risposta sottolineo che le tre opzioni dovrebbero cominciare con è corretto, non con è corretta, visto che si riferiscono all’uso del gerundio, non all’affermazione.
Per quanto riguarda il gerundio, l’unica opzione sicuramente sbagliata è la prima, perché il gerundio non è impersonale. Tra la seconda e la terza preferisco la terza, perché la seconda afferma che il rapporto di contemporaneità rende il gerundio corretto, mentre il gerundio sarebbe corretto anche se il rapporto con la reggente fosse di anteriorità: essendomi trovato / trovata al supermercato, ho deciso…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.
RISPOSTA:
Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosa: tu vedi di fare la stessa cosa con me; non so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Due amici si incontrano dopo le ferie estive.
«Ti vedo in forma» afferma l’uno.
«Potrò essermi riposato in vacanza?!» risponde l’altro.
È corretto l’uso che viene fatto del futuro semplice, oppure sarebbe stato meglio scegliere il futuro anteriore «mi sarò potuto riposare in vacanza», «avrò potuto riposarmi in vacanza»?
Infine consentitemi di domandarvi se il futuro semplice della frase iniziale potrebbe essere sostituito dal presente indicativo «posso essermi riposato in vacanza».
RISPOSTA:
L’anteriorità dell’evento del riposarsi è espressa nella frase dall’infinito passato. In effetti è corretto marcare come passato l’evento del riposarsi, non la sfumatura della potenzialità. La frase con mi sarò potuto o avrò potuto, infatti, difficilmente viene interpretata come passata; i parlanti la considererebbero, al contrario, futura (ma anteriore rispetto a un altro evento ancora più in là nel tempo).
Si può certamente esprimere l’incertezza riguardo all’evento con il presente del verbo potere. Questo verbo, infatti, aggiunge al verbo con cui entra in composizione una sfumatura di potenzialità, quindi, appunto, di incertezza. Il futuro non fa altro che accentuare tale sfumatura, grazie alla sua funzione epistemica (chiaramente non temporale, visto che l’evento è avvenuto nel passato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Rileggendo un vecchio testo a mia disposizione, ho notato un periodo particolarmente complesso sotto il profilo sintattico. Mi piacerebbe apprendere la vostra visione circa gli intrecci temporali e i rapporti tra le proposizioni: «Avevo saputo che un mio caro amico d’infanzia lamentava molti dolori e una forte stanchezza. Temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse essersi ammalato».
Per prima cosa vi domando se l’autore ha ben impostato il periodo; mi permetto poi di chiedere che cosa cambierebbe a livello di contenuto se avesse scritto: «Avevo saputo che un mio caro amico d’infanzia lamentava molti dolori e una forte stanchezza. Temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che si fosse ammalato».
RISPOSTA:
La frase è ben formata solo se la seconda frase intende riferire l’essersi ammalato alla situazione descritta nella prima frase, quindi se lo scrivente intenda dire che sospetta, ma non accettare, che l’amico si sia ammalato, e prevede, temendolo, che solo in futuro potrà accettare questa possibilità. Se lo scrivente, invece, nel momento in cui sta scrivendo pensa semplicemente che il suo amico si sia ammalato, la frase dovrà essere temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse essersi ammalato. Ancora, se lo scrivente pensa che i sintomi accusati dall’amico siano anticipatori di una possibile malattia futura, non rivelatori di una malattia presente, la frase dovrà essere temevo che in futuro avrei dovuto mettere in conto che potesse ammalarsi.
La sua riscrittura è equivalente alla frase originale, tranne che per la mancanza della sfumatura potenziale. In essa, quindi, l’annalarsi dell’amico è dato come un’eventualità più concreta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Non avevo visto che STESSE piovendo” è corretta o si dovrebbe dire “Non avevo visto che STAVA piovendo”? Quale è la differenza?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette; in questo caso la differenza tra congiuntivo e indicativo non è semantica (il significato non cambia), ma solo di registro: l’indicativo è più adatto al parlato, ma anche allo scritto di bassa e media formalità; il congiuntivo è adatto allo scritto di media e alta formalità
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi due domande circa il seguente periodo:
“Ti girerò prossimamente tutte le informazioni che entro la mattinata di domani dovrei ricevere / aver ricevuto”.
Prima domanda: è corretto l’uso del verbo modale? (Nell’esempio è stato inserito dovere, ma si sarebbe potuto scegliere anche volere o potere: “…entro la mattinata di domani potrei ricevere / aver ricevuto”; “…entro la mattinata di domani vorrei ricevere / aver ricevuto”).
Seconda domanda: sono giustificabili sia l’infinito presente sia quello passato in funzione di dove il parlante decida di collocare il cosiddetto centro deittico? In altre parole, se si situa il punto di vista alla fine della mattinata del giorno successivo, l’azione del ricevere potrebbe essere espressa
con l’infinito passato?
RISPOSTA:
Il verbo modale è corretto: dovere assume qui valore epistemico, ovvero esprime l’incertezza dell’emittente circa l’effettivo verificarsi dell’evento del ricevere. L’unico verbo modale un po’ forzato è volere, ma soltanto per ragioni semantiche: difficilmente si troverebbe un contesto in cui la frase con il verbo volere sia coerente. Per quanto riguarda il tempo dell’infinito, le cose stanno come ipotizza lei: il presente presenta l’evento del ricevere come futuro, quindi assume come centro deittico il momento dell’enunciazione; il passato lo presenta come già avvenuto, quindi assume come centro deittico quello del girare, che funge da momento di riferimento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la forma corretta tra insegna all’Università e insegna nell’Università?
RISPOSTA:
L’espressione corretta è insegna all’università (l’iniziale maiuscola è opzionale). La preposizione a si usa in espressioni di questo tipo per indicare l’ambiente o l’esperienza tipica che un individuo sperimenta in un luogo; al contrario, la preposizione in indica il luogo, fisico o figurato. Per questo si direbbe, per esempio, “la presenza delle donne nell’università è in crescita”, ma “ho incontrato Luisa all’università”.
Lo stesso rapporto con le preposizioni è intrattenuto dal nome scuola (“sono a scuola”, ma “bisogna investire nella scuola”). Anche i nomi casa e mare ammettono la doppia costruzione, ma preferiscono in senza preposizione (ad esempio sono a casa, rimango in casa). Richiedono la preposizione articolata se sono accompagnati da un aggettivo o un complemento di specificazione: “il coniuge superstite ha diritto di abitare nella casa familiare”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho bisogno di un chiarimento circa l’uso dei due punti e le congiunzioni. Ho letto che i due punti possono svolgere la funzione di connettivo e possono essere usati al posto di congiunzioni dichiarative (infatti, tant’è vero che) oppure al posto di quelle conclusive (perciò, quindi, dunque, pertanto) o quelle esplicative (cioè, vale a dire, in altre parole). È corretto ciò che ho letto?
Alcune fonti dicono che nulla esclude la possibilità di usare contemporaneamente i due punti e la congiunzione. Secondo questi ultimi usarli entrambi renderebbe più particolarmente evidente il nesso logico. Altre, invece, asseriscono che l’uso di entrambi non sia giusto dal punto di vista stilistico, poiché la congiunzione finisce per smorzare l’effetto di immediatezza perseguito con i due punti.
Volevo un vostro parere al riguardo.
Oltre a ciò, volevo chiedere se i due punti possono precedere il ma. Su questo non ho trovato niente in rete, però nella scrittura giornalistica è abbastanza usato. Voi che ne pensate? In quali casi è possibile farlo?
RISPOSTA:
I due punti possono fare le veci di un connettivo: è tardi, quindi sbrigati = è tardi: sbrigati. Si può dire, pertanto, che possono avere la funzione di un connettivo. L’uso dei due punti insieme a un connettivo è un fatto, come lei stesso scrive, di stile: in questo ambito ogni scelta è ammissibile e deve essere commisurata al gusto personale. I due punti inseriti prima di ma sono insoliti; questo segno, infatti, introduce una spiegazione, un’informazione aggiuntiva, una conseguenza, mentre ma stabilisce un’opposizione. Non si può escludere che ci siano contesti in cui l’accostamento sia sensato, ma in generale può essere considerato una forzatura.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale fra le due affermazioni è la più formale?
Quanto alto è Mario?
Quanto alto sarà Mario?
Inoltre ho visto che va molto di moda ultimamente mettere l’asterisco per rendere “neutri” i sostantivi (asterisco egualitario di genere) che se non ho capito male, sarebbe invece consigliato rivolgersi ad entrambi i sessi con il maschile plurale secondo canoni formali della lingua italiana.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette (anche se sarebbe meglio anteporre il verbo: Quanto è alto, Quanto sarà alto Mario?), soltanto che in questo caso il futuro ha un valore epistemico, cioè indica un certo grado di dubbio o probabilità: “mi chiedo quanto possa essere alto Mario” ecc. Dato che ogni domanda (che non sia retorica) contiene in sé un elemento dubitativo (altrimenti se si sapesse già la risposta non si farebbe la domanda), in questo caso il futuro è tutto sommato pleonastico, in quanto equivalente al presente.
Il problema dell’uso dell’asterisco, o dello schwa, a scopo inclusivo, ovvero per rendere sia il maschile, sia il femminile, sia per includere nel novero persone non binarie, è, soprattutto in questi giorni, più vivo che mai e non può essere riassunto in poche battute qui. Ognuno ha le sue idee, legittimamente. Ovviamente la soluzione dell’asterisco e dello schwa violano le attuali norme ortografiche e morfologiche dell’italiano, ma ogni lingua evolve anche a costo di infrazioni del sistema. Pertanto se tali istanze inclusive (di per sé nobilissime, ovviamente, in qualunque società civile) venissero sentite dalla maggioranza degli utenti come necessarie alla comunicazione, il sistema linguistico non potrà non esserne influenzato e dunque l’asterisco e/o lo schwa saranno inclusi nel nostro sistema ortografico e morfologico, con buona pace degli oppositori e delle petizioni. Del resto, non è questo l’unico caso, nella storia della lingua, di vistosi cambiamenti del sistema ortografico: quando io andavo alle scuole elementari era ancora ammessa la grafia ò, ài, à, in luogo di ho, hai ha.
Morale della favola: non parlerei di corretto/scorretto, nei casi di asterisco o di schwa, ma di sentito o no come urgente, usato o no da un congruo numero di utenti ecc. Peraltro, il fatto che oggi si utilizzi il maschile indistinto (eviterei l’uso della parola “neutro”, visto che l’italiano, differentemente da altre lingue, non ha il genere neutro) per rivolgersi sia agli uomini, sia alle donne, sia alle persone non binarie, non relega certo al rango di scorrettezza altri usi possibili, quali per esempio quello, perché no, di utilizzare il solo femminile sempre.
Accada quel che accada nella lingua italiana (che, come ripeto, è in continua evoluzione e non può non riflettere le istanze sociali di chi la usa, visto che ogni lingua umana è, in primo luogo, uno strumento sociale), di qui a qualche mese o anno o decennio, mi pare si debba comunque guardare con favore al fatto che molte persone ritengano importante ridurre il più possibile la discriminazione e l’esclusione, presenti purtroppo ancora largamente nelle nostre società e dunque, di riflesso, anche nelle nostre lingue.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi pare che, al di là di può darsi / potrebbe darsi, siano numerosi i sintagmi che, pur introducendo una soggettiva, sono incompatibili con il condizionale. Mi vengono in mente è / sarebbe impossibile / opportuno / inaccettabile che ecc. Vorrei a questo punto formulare un paio di domande al riguardo.
Quando le soggettive ammettono il condizionale e quando invece questo modo originerebbe una costruzione scorretta? Se, ad esempio, la frase posta dall’utente fosse stata costruita diversamente, quale sarebbe stato il risultato a livello sintattico?
Se fosse organizzato uno sciopero, è / sarebbe impossibile che [rimanere] a casa.
Se fosse organizzato uno sciopero, è / sarebbe impensabile che [rimanere] a casa.
Un’ultima domanda, il tempo del congiuntivo in una soggettiva cambia o può cambiare in base a quello con cui è costruita la reggente. Come riportato sopra, la scelta tra è e sarebbe è condizionante?
È probabile che venga / Sarebbe probabile che venisse?
RISPOSTA:
Non ci sono restrizioni sintattiche all’uso del condizionale nella soggettiva; semplicemente è incoerente descrivere un evento come condizionato (quindi possibile, aleatorio) nella soggettiva quando nella reggente si dichiara che quell’evento è vietato oppure necessario. Di conseguenza, le espressioni che esprimono divieto o necessità e reggono una soggettiva rifiutano il condizionale. Al contrario, le espressioni che esprimono dubbio (con le mille sfumature possibili) lo ammettono; è il caso della seconda frase: è / sarebbe impensabile che rimarrei a casa.
Alle espressioni che esprimono divieto può essere assimilata anche è impossibile, che, però, esercita un rifiuto meno netto del condizionale (rispetto, per esempio, a è vietato). Il condizionale, per esempio, sarebbe accettabile nella prima delle due frasi: è / sarebbe impossibile che rimarrei a casa.
Per quanto riguarda la seconda domanda, lei confonde il tempo con il modo, se capisco bene: si chiede, infatti, se l’alternanza di è (indicativo presente) e sarebbe (condizionale presente) nella reggente provochi conseguenze nella scelta del tempo della subordinata soggettiva. La risposta è che in generale il presente nella reggente funziona allo stesso modo ai fini della consecutio a prescindere dal modo. C’è, però, un’eccezione, che riguarda i verbi che esprimono desiderio, necessità, opportunità: questi verbi al condizionale presente nella reggente si comportano come tempi del passato. Per questo motivo abbiamo:
È / Sarebbe probabile che venga.
Ma:
È meglio che venga / Sarebbe meglio che venisse.
Un approfondimento di questa particolarità della reggenza si può leggere nella risposta “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Stando alla consecutio, una subordinata anteriore a una reggente al condizionale presente può essere costruita con il trapassato prossimo, il passato remoto e l’imperfetto dell’indicativo. Vi chiederei se, in una frase come la seguente, siano possibili anche altri tempi verbali:
(Se Caio mi parlasse in presenza di Sempronio), non saprei mai se…
a. abbia detto la verità.
b. avrebbe detto la verità.
La soluzione b non dovrebbe essere intesa come futuro nel passato, ma come anteriorità rispetto al condizionale presente.
Trattandosi inoltre di una proposizione negativa, il passato prossimo previsto dalla consecutio può essere trasformato (soluzione a) in congiuntivo passato?
RISPOSTA:
La soluzione a è corretta. Nella frase è possibile usare anche il presente: non saprei mai se dica / dice la verità e l’imperfetto: non saprei mai se dicesse / diceva la verità. In alcuni contesti sarebbe possibile anche il trapassato: non saprei mai se avesse detto / aveva detto la verità (prima di essere accusato). Il passato remoto è, per la verità, l’unico tempo non coinvolto nella consecutio: per esprimere l’anteriorità rispetto al presente si usa il passato prossimo (o il congiuntivo passato), l’imperfetto o, se c’è un evento intermedio, il trapassato.
Per valutare la funzione del condizionale passato ci sarebbe bisogno di un contesto più ampio: sarebbe di condizionale in una frase come non saprei mai se avrebbe detto la verità (se fosse stato costretto); sarebbe, invece, di futuro nel passato in una frase come non saprei mai se avrebbe detto la verità (dopo quello che era successo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Distinzione e precisazione possono essere considerati sinonimi?
RISPOSTA:
I due nomi indicano operazioni collegate ma non identiche: distinzione è l’atto di separare due oggetti rilevandone le rispettive caratteristiche distintive. In un contesto in cui ci siano due elementi simili, quindi, operare una distinzione comporta prima precisarne le caratteristiche, poi confrontarli e stabilirne le differenze. Nella frase seguente, per esempio, distinzione implica, appunto, la separazione tra due elementi, sulla base di caratteristiche simili ma non identiche: “I populisti fanno sempre una distinzione morale tra chi appartiene al popolo a giusto titolo e chi ne è escluso”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Traducevo una frase di un libro in lingua inglese.
Questa è la frase originale: “Cheng tried to hide overt function. So one sees that inhaling on posture and exhaling on transition seems to preclude application: this conforms to Cheng’s concealing use so that one remained relaxed throughout the form”.
Io l’ho tradotta in questo modo: “Cheng ha cercato di nascondere la funzione palese. Quindi si vede che l’inalazione sulla postura e l’espirazione durante la transizione sembrano precludere l’applicazione: questo è conforme all’uso occultante di Cheng in modo che si rimanga rilassati per tutta la forma.
In base a quello che si potrà interpretare, le mie domande sono queste: funzione palese si riferisce alla respirazione? Il verbo use si riferisce all’uso del respiro?
Mi rendo conto sempre più spesso che in tante occasioni per capire quello che una persona scrive si dovrebbe parlare direttamente con l’interessato. A volte tante frasi suonano molto ambigue.
RISPOSTA:
L’impossibilità di chiedere spiegazioni allo scrivente è uno dei “difetti” dello scritto. Da questo deriva la necessità di cercare la massima chiarezza nello scritto, per prevenire l’ambiguità.
Nel suo caso, l’espressione overt function sembra riferirsi al meccanismo della respirazione descritto, come da lei ipotizzato. Use, invece, non è un verbo, ma un nome (infatti lei l’ha tradotto l’uso) e va considerato insieme all’aggettivo concealing: concealing use sembra definire un sistema generale all’interno del quale si inserisce anche la tecnica di respirazione descritta (che infatti si conforma a quest’uso, o sistema).
Un piccolo avvertimento sulla traduzione: so that one remained sarebbe ‘così che si rimanesse’ (non rimanga).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo e sento spesso frasi del tipo “Mi manca NON poterti abbracciare”, “Mi manca NON poterti sentire”…
A mio avviso il NON non è necessario perché il senso di queste frasi è “vorrei tanto poterti abbracciare/sentire, peccato che non sia possibile!”.
Perché allora c’è chi sbaglia? Come può essere spiegato questo errore?
RISPOSTA:
La sua osservazione è corretta: a rigore, le frasi da lei riportate significano il contrario di quello che certamente intendono comunicare. Questa contraddizione, però, è quasi giustificabile, tanto che la considererei un errore veniale (almeno in contesti informali). Il verbo mancare, infatti, contiene due significati combinati: ‘non avere qualcosa’ e ‘soffrire (per la condizione del non avere qualcosa)’. Nelle frasi che lei riporta emerge chiaramente il tratto del soffrire, mentre quello del non avere si ricava per deduzione. L’emittente, evidentemente, sente l’esigenza di esplicitare questo tratto, cioè che allo stato attuale l’evento (dell’abbracciare, del sentire o altro) non si sta verificando attraverso l’avverbio non.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho incontrato difficoltà nell’esprimere due concetti evitando ripetizioni e, al tempo stesso, componendo una costruzione grammaticalmente corretta ed esaustiva.
Il primo concetto era questo:
“Lui non parla a lei e lei non parla a lui”.
Al di là dell’immediata “loro non si parlano”, si sono affacciate alla mia mente alcune soluzioni, sulle quali apprezzerei la vostra opinione.
1. Lui non parla a lei e viceversa.
2. Lui non parla a lei e lei altrettanto/lo stesso.
3. Lui non parla a lei e lei fa altrettanto/lo stesso.
4. Lui non parla a lei e lei fa lo stesso verso di lui / nei suoi confronti.
Quale consigliereste tra le quattro (indipendentemente dalla scelta tra altrettanto e lo stesso, che a mio avviso sono equivalenti)?
Il secondo concetto era fondato su un’azione comune a due soggetti (“mio fratello e io stiamo in silenzio per protesta”). Per effetti di enfasi, volevo costruire la frase così:
“Io sto in silenzio per protesta e anche mio fratello fa lo stesso/altrettanto”.
Il sintagma fa lo stesso / fa altrettanto può sostituire la frase stare in silenzio?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda il primo dubbio, le opzioni sono tutte corrette e possibili, quindi la scelta è soggettiva. Personalmente preferisco la 3, perché è meno ellittica delle prime due, ma anche più sintetica della 4. Proprio la 4, per la verità, è la meno felice delle quattro, perché fare qualcosa verso qualcuno è un po’ insolito, e nei suoi confronti è ambiguo (nei confronti di lui o nei confronti di lei, riflessivamente?). Proporrei anche una quinta opzione: “… e lei fa lo stesso con lui”.
Il secondo dubbio mi pare riguardi la possibilità del verbo fare di sostituire stare, visto che il primo esprime un’azione e il secondo uno stato. In questo caso la sostituzione è legittima, perché fare prenderebbe non il significato di ‘operare, comporre, costruire’, ma quello di ‘comportarsi’, del tutto assimilabile a stare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto il futuro andrò o bisogna usare il presente vado per esprimere il futuro, se nella frase tutti gli altri verbi sono al presente?
RISPOSTA:
Per descrivere un evento futuro si può sempre usare l’indicativo futuro; si può usare anche il presente, che è adatto a contesti informali e mimetici del parlato. Se in un testo si sceglie di usare il presente per esprimere il futuro, passare al futuro può risultare artificioso (e viceversa); è sempre possibile, però, passare dal presente al futuro e viceversa per modulare il registro, per esempio se ci sono due personaggi che parlano, oppure si vuole dare l’idea di un cambiamento (improvviso o graduale) nel modo di esprimersi di un personaggio. A maggior ragione, questa possibilità si può sfruttare in un testo che cura l’aspetto estetico, come una poesia, perché in questi casi bisogna valutare anche la forma e il suono delle parole.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo per avere un parere circa la correttezza della seguente frase: “Peccato quando troppi eventi positivi si accumulano tutti assieme, perché poi, quando servirebbe, il miracolo non arriva”.
Specialmente, non sono del tutto sicuro che il condizionale semplice dopo il quando sia del tutto conforme alla norma.
RISPOSTA:
La frase è ben formata e il condizionale si giustifica per il valore potenziale, come vi fosse un’ipotesi sottintesa: (se arrivasse il miracolo) servirebbe.
Naturalmente, sarebbe corretto anche l’indicativo: quando serve, il miracolo non arriva.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sintattico che mi assilla da tempo. Ho provato a dare un’occhiata al vostro archivio, ma ammetto di non essere stata brava nel risolvere così il caso che
vorrei mostrarvi.
Tutto è nato rispolverando i vecchi schemi della consecutio temporum e di come
applicarli alle formulazioni per me più ostiche.
Mi sono imbattuta in un periodo del genere:
Nel gennaio del 2010 il Presidente disse che la popolazione avrebbe dovuto
attendere (suppongo che sarebbe stato corretto anche doveva, nda) fino alla fine
del 2012 per constatare se le sue promesse erano state/ fossero state mantenute.
Il mio dubbio riguarda l’interrogativa indiretta.
Qui abbiamo tre momenti storici, uno per ogni azione: il gennaio del 2010 e la
fine del 2012 sono passati se osservati dal momento dell’enunciazione; la fine del
2012 è futura soltanto, chiaramente, al gennaio del 2010. Poi c’è un momento
intermedio, imprecisato, che porta alla fine del 2012 e dove si colloca l’azione
se le sue promesse erano state/fossero state.
Per prima cosa vi chiederei se sia la sintassi del periodo sia la mia disamina
sono giuste.
Per me i guai più grossi cominciano se lo stesso periodo slitta al nostro
tempo.
Nel novembre del 2021 il Presidente disse che la popolazione avrebbe dovuto
attendere fino alla fine del 2022 per constatare se le sue promesse erano state/
fossero state mantenute.
Così strutturato, il periodo ha i soliti tre momenti storici, ma a differenza
dell’omologo del 2012, soltanto uno è passato (novembre 2021), se lo si osserva
dal punto di vista dell’enunciazione. Tutto il resto è futuro. La fine del 2022 è
totalmente futura; il periodo intermedio, invece, è futuro rispetto a ora ma
passato rispetto alla fine del 2022.
Vi domanderei se, definiti questi aspetti, la consecutio impone delle variazioni,
oppure restano corretti i trapassati.
Vi chiedo scusa per la prolissità della mia esposizione, ma ho cercato di fornire
più dettagli possibile per focalizzare le vulnerabilità del mio pensiero.
RISPOSTA:
Entrambi i periodi sono ben costruiti, sia nell’uso dei modi sia in quello dei tempi (incluse le sue varianti), e la sua analisi dei tre momenti è sostanzialmente corretta. In entrambi i casi il trapassato si giustifica perché, futuro o no (rispetto al momento dell’enunciazione) l’ultimo tratto, le promesse da constatare non possono che essere state formulate prima del loro mantenimento. Nel secondo periodo, essendo futuro (non solo rispetto alla promessa ma anche rispetto al momento dell’enunciazione) il momento del mantenimento delle promesse, è parimenti corretto il condizionale passato: se le sue promesse sarebbero state mantenute. Non è però scorretto neppure il trapassato congiuntivo (o indicativo), che si giustifica per una sorta di attrazione temporale da parte del passato della reggente (disse), che si porta dietro tutto il resto del complicato periodo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho l’abitudine di inserire in molte delle mie costruzioni l’aggettivo “eventuale”.
Dopo anni e anni di impiego largo e sistematico ho iniziato a domandarmi se esso sia stato, e sia, superfluo. Non vorrei che la semantica delle frasi, o la semplice logica, portasse allo stesso risultato finale per il mittente, anche se l’aggettivo fosse espunto.
Ecco un campionario di esempi:
a) Bisogna controllare l’eventuale buona riuscita dell’esperimento.
b) È opportuno verificare l’eventuale assenza del delegato.
c) Il vincitore dovrà eventualmente partecipare alla premiazione?
d) Gli esaminatori valuteranno i progetti e ne giudicheranno l’eventuale approvazione.
e) Dati aspetti della circolare sono determinanti ai fini di un eventuale stato di agitazione.
RISPOSTA:
In effetti in tutti gli esempi citati eventuale ed eventualmente sono pleonastici, perché l’eventualità del fatto è implicata dal contesto o dal significato del verbo:
a) se bisogna controllarla, vuol dire che che la buona riuscita non è assodata, ma va per l’appunto controllata;
b) idem per verificare;
c) l’eventualità è data dalla domanda stessa;
d) valutare e giudicare sono alla stregua di controllare e verificare;
e) forse è questo l’unico caso in cui eventuale possa agevolare la comprensione dell’enunciato, dal momento che lo stato di agitazione potrebbe essere dato per assodato, se non ci fosse eventuale; anche se dal senso generale dell’enunciato si capisce che essere determinante ai fini di qualcosa ha senso soltanto se questo qualcosa esiste, altrimenti il discorso non avrebbe senso; e dunque direi che eventuale è tranquillamente omissibile anche in questo caso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Se scrivendo una frase come “Voleva la medaglia d’oro, ma fallì”, siccome si intende che fallì non nel volere la medaglia ma nell’ottenerla, quest’ultimo verbo è sottinteso?
RISPOSTA:
Nella frase, in teoria se non si specifica in che cosa il soggetto fallisca, il verbo fallire si riferisce al volere; la logica, però, consente di colmare questo vuoto e chiarisce che il fallimento non può che riguardare l’ottenimento della medaglia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Su alcune schede allestiste per l’apprendimento dell’italiano come L2 tra i verbi fraseologici figura anche
decidere seguito dalla preposizione di. Nutro non poche riserve sulla correttezza di questa informazione, che peraltro non trova riscontro su altri testi di grammatica consultati. Inoltre, considerando, a titolo di esempio, il seguente periodo: “Decise di comprare un libro”, Decise è la proposizione principale di comprare un libro è la proposizione subordinata oggettiva implicita.
Si dovrebbero dunque individuare due predicati distinti e altrettante proposizioni.
RISPOSTA:
Il verbo decidere non è un verbo fraseologico: funziona sintatticamente in modo autonomo, e anche dal punto di vista semantico non aggiunge una sfumatura aspettuale ma esprime un significato ben distinto da quello del verbo della subordinata che regge.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se parlando di una entità personificata, essa debba andare con la lettera maiuscola: per esempio, la Vita.
RISPOSTA:
Anche se la lettera maiuscola si usa per i nomi propri, non ha la capacità di segnalare l’animatezza di un referente, altrimenti dovremmo scrivere il Cane, la Pecora ecc. Piuttosto, la maiuscola segnala l’unicità del referente rispetto a una classe; quindi i nomi propri sono maiuscoli perché identificano persone uniche, la Terra è maiuscola perché identifica un oggetto specifico distinto dalla terra nome comune ecc. In considerazione di questo, la sua idea non funziona bene e rischia di ingenerare confusione nel lettore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste due frasi sono scritte correttamente, anche a livello di punteggiatura? In particolar modo, mi interessa sapere se la congiunzione causale perché è appropriata per la frase oppure se ci sono altri modi per formularla meglio. La stessa cosa per quanto riguarda la seconda, cioè se anche quest’ultima è scritta correttamente o se si può formulare meglio. Inoltre mi interessa sapere se la virgola prima di fino a quando sia corretta oppure facoltativa. Nel caso in cui fosse opzionale, vorrei sapere quale sia la differenza fra le due varianti.
1a) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché è eccessivamente minuscolo; tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.
1b) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non riesce: è eccessivamente minuscolo. Tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.
2a) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.
2b) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia, fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.
RISPOSTA:
Tutte le varianti sono possibili e tutto sommato ben scritte, con qualche sbavatura nella prima frase. In questa, il perché è appropriato: alternative ugualmente valide sono in quanto, dal momento che, poiché, visto che, dato che. Aspetti migliorabili della frase sono altri: l’omissione del soggetto nella proposizione causale è inappropriata perché il soggetto della proposizione reggente è diverso; l’espressione eccessivamente minuscolo, inoltre, è ridondante, visto che minuscolo è semanticamente un superlativo (sarebbe come dire troppo minuscolo); l’espressione dopo diversi sforzi richiede un incassamento interpuntivo, perché è un’espansione, ovvero un dettaglio aggiuntivo, inserita in mezzo alla frase. L’espressione riesce ad afferrarlo, infine, è ripetitiva rispetto allo sviluppo precedente della frase: poco prima, infatti, è scritto tenta di afferrare… non ci riesce. Quest’ultima osservazione è di natura stilistica: la ripetizione è, in questo caso, sgradevole ma grammaticalmente legittima.
La prima versione della prima frase, pertanto, può essere migliorata così:
In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché esso / questo è minuscolo / troppo piccolo; tuttavia non si arrende, e finalmente, dopo diversi sforzi, lo prende / ha successo.
Per la seconda versione della prima frase valgono le stesse osservazioni fatte per la prima versione. Per quanto riguarda la punteggiatura alternativa, è una soluzione valida tanto quanto la prima. I due punti svolgono qui la funzione di anticipare una spiegazione di quanto è stato detto prima; in questa versione, pertanto, la proposizione è eccessivamente minuscolo è esplicativa, non causale (come se fosse infatti è eccessivamente minuscolo). Si noti che il collegamento giustappositivo (ovvero la coordinazione tramite punteggiatura) tra la proposizione precedente e quella seguente i due punti rende più accettabile l’omissione del soggetto di quest’ultima: non è, quindi, necessario inserire al suo interno un pronome con la funzione di soggetto.
Il punto prima di tuttavia separa più nettamente la prima parte dalla seconda, creando due frasi, quindi due informazioni, distinte, mentre nella prima versione il punto e virgola separava le due parti mantenendo un collegamento logico più stretto. Allo stesso modo, la virgola prima di e tuttavia crea una piccola frattura logica tra l’informazione non si arrende e quella che segue, per cui la frase andrà interpretata come una sequenza di due informazioni tra loro collegate, non come un’unica informazione. Alla luce dell’aggiunta delle virgole che racchiudono dopo diversi sforzi è sensato non inserire questa virgola, per evitare la sequenza , e finalmente, dopo diversi sforzi, (si tratta, comunque, di una scelta stilistica: in nessuno dei due casi si incorre in errore).
La virgola prima di fino a quando nella seconda frase opera allo stesso modo della virgola prima di e finalmente: produce una piccola frattura logica tra la parte precedente e quella successiva, indicando che la frase contiene due informazioni tra loro strettamente collegate, non un’unica informazione complessa. Senza virgola l’azione del lasciar colare è vista nell’ottica dell’allagare la cantina: la ragazza lascia colare l’olio proprio con questo scopo; con la virgola, invece, l’azione del lasciar colare è autonoma e l’allagamento è rappresentato come una conseguenza collegata, ma non insita nell’azione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire PENSAVI CHE ME LO RUBASSI ? O la forma corretta é solo TE LO RUBASSI?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette, ma hanno un significato leggeremente diverso e sono adatte a contesti diversi. Nella prima il verbo usato è rubarsi, un verbo pronominale che ha quasi lo stesso significato di rubare, a cui aggiunge, però, una rappresentazione accentuata dell’interesse del soggetto, del vantaggio che gli deriva dall’azione. Si noti che in questa frase manca l’indicazione della persona potenzialmente derubata, che quindi potrebbe essere chiunque, non per forza la seconda persona della seconda frase. L’esplicitazione sintetica della persona potenzialmente derubata con questo verbo è, del resto, impossibile: non è possibile *rubarsi qualcosa a qualcuno.
Nella seconda frase il verbo usato è rubare e te indica, appunto, la persona potenzialmente derubata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non so quale delle tre soluzioni sia da preferire e se ognuna di queste possa essere valutata corretta.
1) La promessa, da parte del direttore, che sarei stata ricontattata è stata disattesa.
2) La promessa, da parte del direttore, di essere stata ricontattata è stata disattesa.
3) La promessa che il direttore mi avrebbe ricontattata è stata disattesa.
Inoltre:
4) Il direttore mi ha assicurato di ricontattarmi
oppure
5) Il direttore mi ha assicurato che mi avrebbe ricontattato?
RISPOSTA:
Tra le prime tre opzioni la seconda è impossibile, perché non è sensato promettere di aver già fatto un’azione; la frase diverrebbe ben formata con l’infinito presente, che si proietta nel futuro: “La promessa, da parte del direttore, di essere ricontattata è stata disattesa”. In questa forma, la frase avrebbe lo stesso significato della 1.
Tra la prima e la terza c’è una differenza di significato: nella prima il direttore ha promesso che qualcuno (probabilmente il direttore stesso) avrebbe ricontattato il parlante; nella terza qualcuno ha promesso che il direttore avrebbe ricontattato il parlante.
Tra la 4 e la 5 c’è lo stesso rapporto che c’è tra la 1 e la 2 riformulata con l’infinito presente: stesso significato, ma la 5 ha la subordinata esplicita e la 4 ce l’ha implicita. In astratto la variante con la subordinata implicita è considerata più formale dell’altra, visto che il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente; anche l’altra, però, sarebbe accettabile in contesti di media formalità anche scritta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Bisognerebbe che domani il professore telefonasse al preside, a meno che quest’ultimo non si metta / sia messo / mettesse / fosse messo in contatto con lui prima”.
Il congiuntivo passato e il congiuntivo trapassato sono corretti se li si interpreta come precedenti esclusivamente rispetto a domani?
Nelle vostre risposte ai quesiti, spesso si parla di tempi anaforici e tempi deittici. In questo esempio, i due composti del congiuntivo possono proiettarsi nel futuro rispetto al momento in cui la frase viene formulata?
RISPOSTA:
Nella sua frase il passato si sia messo non verrà mai interpretato come precedente all’evento futuro, ma sarà sempre inteso come precedente al momento dell’enunciazione, cioè al presente. La restrizione dell’interpretazione dipende dalla presenza di un verbo principale al presente; se questo mancasse la sfumatura da lei intesa sarebbe possibile (ma rimarrebbe ambigua):
“domani il professore telefonerà al preside, a meno che quest’ultimo non si sia messo (prima di adesso o prima di domani?) in contatto con lui prima”.
Il trapassato, invece, non è giustificabile in nessuna delle due varianti della frase, perché non è nominato nessun evento passato rispetto al quale l’evento del mettersi in contatto sia anteriore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
sto aiutando la mia nipotina che frequenta l’ultimo anno della scuola secondaria di I grado a svolgere degli esercizi di grammatica. Riconosco di essere un po’ arrugginita, ma ritengo che le frasi proposte siano difficili. La professoressa ha proposto delle situazioni comunicative con frasi da completare con il modo e il tempo adatti. Ha anche spiegato teoricamente come scegliere i tempi in base alle regole della lingua italiana, ma le incertezze restano. Riporto solo alcune delle frasi e aggiunto le proposte mie e di mia nipote.
1. Un gruppo di amici decide di andare in vacanza: qualcuno sceglie di partire in treno, qualcuno in auto, qualcuno in aereo. A causa di uno sciopero, la compagnia aerea cancella il volo. Uno dei membri della comitiva dice: “Se qualcuno di voi… (prendere) l’aereo, pazienza! Verrà con me in auto”___ AVREBBE PRESO oppure AVESSE PRESO?
2. Carla si lamenta sempre con la mamma perché ogni pomeriggio deve svolgere una marea di compiti. Stanca di ciò dice: ” Mi piacerebbe una scuola in cui non ci … (essere) compiti”____ SIANO o FOSSERO?
3. Dopo un litigio, Rocco riceve un messaggio minatorio anonimo. Per giorni pensa a chi possa averglielo inviato, ma non riesce proprio a capire. Rocco afferma: “A distanza di un mese, sembra che io non … (avere) ancora compreso da chi… (venire) questo terribile messaggio”. ____ ABBIA; VIENE/VENIVA/VENGA/VENISSE?
Potreste spiegarmi brevemente il perché delle risposte corrette, soprattutto per la frase 3, in cui mi sembrano possibili così tante risposte?
RISPOSTA:
L’esercizio è certamente creativo anche se impegnativo, perché punta l’attenzione sull’uso vivo della lingua, sulla sua variabilità in base alla situazione e sulle tante sfumature di significato rese possibili dalla scelta dei verbi.
La frase più problematica è la prima, nella quale troviamo una proposizione ipotetica, che non ammette il condizionale, ma che non può per logica accettare altra forma verbale che il condizionale passato (o l’indicativo imperfetto, che è funzionalmente equivalente, ma decisamente trascurato). Il dilemma si risolve rilevando che se avrebbe preso è una costruzione sintetica per se aveva pensato che avrebbe preso; essa, cioè, condensa una proposizione ipotetica (se aveva pensato) e una oggettiva (che avrebbe preso), legittimamente al condizionale passato, per esprimere il futuro nel passato. Una simile costruzione non è grammaticalmente impeccabile, ma ha il vantaggio di semplificare un giro di parole ben più lungo ed è, inoltre, non ambigua. Per questi motivi, la sconsiglierei nello scritto e nel parlato formale, ma la considererei adeguata a un contesto informale come quello descritto. Ribadisco, comunque, che nessun tempo del congiuntivo può sostituire il condizionale passato nella proposizione così costruita (se qualcuno avesse preso l’aereo, pazienza esprimerebbe il rammarico del parlante per la possibilità che qualcuno avesse preso l’aereo, che non avrebbe senso nella situazione descritta, nella quale è noto che nessuno ha preso l’aereo): l’alternativa senz’altro corretta è se qualcuno aveva pensato di prendere (preferibile anche a se qualcuno aveva pensato che avrebbe preso, visto che il soggetto della reggente e quello della oggettiva coincidono). Se qualcuno aveva pensato, infine, è preferibile anche a se qualcuno avesse pensato, perché pone l’accento sulla precedenza temporale dell’evento del pensare, non sulla sua scarsa probabilità, che in questo contesto è di secondaria importanza.
Nella seconda frase sono ammissibili entrambi i tempi del congiuntivo da lei suggeriti, per ragioni diverse. Il presente è il tempo richiesto dalla consecutio temporum, visto che lo stato dell’essere è contemporaneo nel presente allo stato del preferire; l’imperfetto, invece, è il tempo preferito nella subordinata completiva quando nella reggente c’è un verbo di desiderio (preferire equivale a ‘volere maggiormente’). Ovviamente, qui la subordinata non è oggettiva, ma relativa, ma la costruzione una scuola in cui non ci fossero è quasi inevitabilmente assimilata a che nella scuola non ci fossero.
Nella terza frase non ci sono dubbi su abbia per il primo spazio da riempire. Nel secondo spazio sono ammissibili senz’altro i presenti, che presentano il venire come contemporaneo al momento dell’enunciazione, per sottolineare l’attualità della lettera (il congiuntivo è più formale dell’indicativo, ma semanticamente non cambia niente tra i due modi). Gli imperfetti sono scelte meno felici, perché presentano il venire come precedente al momento dell’enunciazione in modo indeterminato, dando l’impressione che l’evento non abbia ripercussioni nel presente (mentre invece ne ha, visto che il soggetto si sta ancora sforzando di capire). Ammissibili al pari dei presenti sono il passato prossimo è venuto e il congiuntivo passato sia venuto, che sottolineano l’anteriorità del momento della ricezione della lettera rispetto al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ieri mi sono trovata a formulare questo costrutto durante una conversazione telefonica in ambito professionale.
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei (in quell’occasione) mi aveva chiesto di interpellare…
La mia perplessità gravita attorno al salto dal passato prossimo al trapassato prossimo: le due azioni, infatti, sono contemporanee.
A mente fredda ho ipotizzato due soluzioni alternative, che però non mi convincono.
La prima consisterebbe nel passato remoto:
[…] la scorsa settimana parlammo a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi chiese di interpellare…
Per due eventi accaduti da pochi giorni e i cui effetti si prolungano nel presente, il passato remoto non mi parrebbe adatto.
La seconda soluzione consisterebbe nel passato prossimo per entrambi i predicati:
[…] abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito di un passaggio di proprietà. Lei mi ha chiesto di interpellare…
Non so bene risalire alle motivazioni di carattere semantico, ma il secondo passato prossimo (mi ha chiesto), pur sintatticamente ineccepibile, nel caso non venisse accompagnato da una locuzione avverbiale o un avverbio (come, ad esempio, in quell’occasione, allora, eccetera).
Approfitto inoltre del tema introdotto per porvi un’ultima domanda.
Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore.
Questa composizione è corretta? Come se ne spiegherebbe la scelta da parte di un parlante?
RISPOSTA:
La differenza tra passato prossimo e remoto non risiede, nonostante gli aggettivi fuorvianti (prossimo e remoto) nella maggiore o minore vicinanza rispetto al momento dell’enunciazione, bensì rispetto alle maggiori (prossimo) o minori (o nulle: il passato remoto è un po’ come l’aoristo greco: un passato visto nella sua assolutezza, del tutto svincolato dal presente e dal futuro) conseguenze che l’azione ha sull’enunciatore (o altri partecipanti all’azione) e sul momento dell’enunciazione. In altre parole, il passato remoto (comunque in forte regresso in tutt’Italia, e ormai anche al Sud) non può essere usato (in italiano standard) in espressioni che implicano conseguenze sul momento presente, quali, per es., “hai capito?”, “mi hai sentito?” ecc. (possibili, naturalmente, in dialetto: “capisti?”, “sentisti?” ecc.). È proprio per questo motivo, come con estrema sensibilità linguistica coglie Lei, che spesso, se il verbo è accompagnato da elementi circostanziali quali alcuni complementi avverbiali, sembra più naturale del passato remoto e viceversa: “La settimana scorsa abbiamo parlato”; un aggettivo come scorso ancora inevitabilmente l’azione al presente.
Veniamo ora al trapassato prossimo, che ha sempre un valore anaforico, cioè di riferimento anteriore a un’altra azione. Non sempre, tuttavia, questo riferimento è esplicito. Spesso si tratta di un quadro di riferimento generico, sfumato e inferibile dal contesto. Nel caso della prima frase da Lei citata (e la cui prima versione, guarda caso proprio quella effettivamente pronunciata e non ricostruita a posteriori a tavolino, è la più corretta), la richiesta di interpellare qualcuno (“mi aveva chiesto di interpellare”) è giustamente interpretata dal locutore come anteriore al passaggio di proprietà di cui si stava discutendo, dal momento che il passaggio di proprietà non è ancora avvenuto e, anzi, proprio dell’eventualità o meno di farlo si sta discutendo. Quindi, con eccesso di razionalità a posteriori (ma la lingua non funziona mai così…), possiamo certo dire che l’azione del discutere e la richiesta di interpellare sono contemporanee, ma nella coscienza dei parlanti una gerarchia cronologica c’è ed è chiarissima: prima si interpella qualcuno e poi si decide (almeno nel contesto enunciativo da Lei fornito).
Dunque non c’è alcun salto indebito tra le due frasi e l’uso del passato prossimo e del trapassato prossimo, nel caso specifico, sono le scelte migliori.
Non sarebbero scorretti peraltro né “mi ha chiesto di interpellare”, né “mi chiese di interpellare”, ma sarebbero comunque meno felici del trapassato prossimo (“mi aveva questo di interpellare”). Il passato remoto è il meno adatto, non soltanto perché non modula finemente (a differenza del trapassato prossimo) sul rapporto tra i due eventi, come già detto, ma perché in realtà l’azione dell’interpellare non è aoristica (cioè svincolata dal presente), bensì fortemente ancorata alle conseguenze presenti e future: presumo, infatti, che da quell’interpellazione discenderà la decisione su se, come e quando procedere al passaggio di proprietà in questione.
Veniamo infine all’ultimo esempio: “Il ragazzo parlò della sua infanzia e del rapporto con le sue sorelle maggiori. Fu in quel momento che aveva aperto per la prima volta le porte del suo cuore”.
Aveva aperto non va bene, perché non ha alcun riferimento di anteriorità (addirittura in quel momento focalizza proprio la contemporaneità dei due eventi). Pertanto va mantenuto lo stesso tempo del contesto, cioè il passato remoto: “Fu in quel momento che aprì per la prima volta le porte del suo cuore”. Oppure, eliminando la frase scissa, qui in po’ ridondante: “Aprì allora per la prima volta…”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho dubbi su questa frase. Potreste aiutarmi?
Il contesto è il seguente: due amiche si incontrano qualche settimana prima di Natale e si scambiano i regali . Una dice: “ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci saremmo più viste”.
È corretta questa frase se riferita al futuro?
RISPOSTA:
L’unica forma inequivocabilmente corretta del periodo è la seguente: “ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci vedessimo più”. Si tratta di un periodo ipotetico che ha, come protasi, una relativa impropria con valore ipotetico. Cioè è come se fosse: “se non ci vedessimo più, di do il mio regalo ora”. Come si comprende dalla riscrittura, non si può usare il condizionale nella protasi del periodo ipotetico: “se non ci saremmo viste più, ti do il mio regalo ora”.
Il suo dubbio è però del tutto legittimo, come tutti i dubbi dei parlanti sugli usi reali, ed è motivato da due ragioni:
1) perché il condizionale passato si usa per esprimere il futuro nel passato;
2) perché la frase ha un valore di eventualità (non sono sicuro di rivederti oppure no).
La soluzione del primo dubbio è semplice: non si tratta di futuro nel passato, infatti l’ipotetica non deriva dal passato ho preferito, bensì dal presente darti ora (come ribadisce l’avverbio ora). Sarebbe un futuro nel passato se fosse: “pensai che non ci saremmo più viste”.
La soluzione del secondo dubbio è altrettanto semplice: nella protasi del periodo ipotetico l’eventualità è espressa dal congiuntivo e non dal condizionale (che invece si usa nella sola apodosi, se occorre).
Una terza possibilità, al trapassato congiuntivo (“ho preferito darti il mio regalo ora, nel caso in cui non ci fossimo più viste”), sarebbe parimenti errata, perché in questo caso non si tratta di passato nel passato (non è dal passato “ho preferito” che dipende la protasi) ma di un eventuale futuro rispetto all’ora (cioè il presente) in cui ti do il mio regalo.
Fabio Rossi
QUESITO:
sto rispondendo a delle domande che ammettono una sola risposta esatta e, avendo dei dubbi, vorrei chiedere il vostro parere. Vi elenco le domande.
1) In quale delle seguenti frasi è presente una forma verbale che indica un’azione iterativa?
a) Il bambino ha cominciato a piangere non appena non ha più visto la sua mamma.
b) Finalmente ha smesso di piovere e possiamo fare la nostra consueta passeggiata.
c) Proseguiremo a lavorare con lo stesso impegno, anche se siamo un po’ sfiduciati.
d) Se foste stati al nostro fianco fino alla fine vi avremmo ricompensato a dovere.
e) Ho riletto con lo stesso interesse di quando ero ragazza il capolavoro di Manzoni.
2) Che tipo di proposizione contiene la frase “Sembra importante che la valigia spedita ieri giunga a Mario in tempo perché possa partire”?
a) Oggettiva
b) Causale
c) Consecutiva
d) Temporale
e) Relativa
3) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Sei stato scelto perché parli in un modo che tutti comprendono.
b) Mi sembra che il tuo consiglio sia più che buono.
c) Questo film è amato dai giovani che prediligono la fantascienza.
d) L’orso partorisce due o tre cuccioli che allatta con cura.
e) Il sentiero che la pioggia ha allagato è impraticabile.
4) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Ringrazierò personalmente gli amici che mi hai presentato.
b) Questi sono i locali che frequento negli ultimi tempi.
c) Ti assicuro che non sono stato a pescare.
d) Non so dirti che bella sorpresa sia stata la tua venuta.
e) La cometa che è stata avvistata scomparirà in pochi giorni.
5) Che tipo di proposizione contiene la frase “Avendo vissuto tanti anni all’estero, ho capito che molte cose sono migliori in Italia, a patto che tu sappia apprezzarle”?
a) Soggettiva
b) Modale
c) Temporale
d) Concessiva
e) Relativa
6) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione oggettiva?
a) Sembra che oggi tutti parlino a sproposito.
b) Spero in una tua risposta affermativa.
c) Sapendo che sei affamato, ti ho preparato un panino.
d) Fu chiaro a tutti che la partenza era rimandata.
e) Conosco tutte le peripezie che hai affrontato per venire qui.
7) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione soggettiva?
a) Se nevicherà ancora resteremo bloccati per qualche giorno.
b) Pur essendo molto piacevole stare in compagnia, talvolta preferisco la solitudine.
c) Sono sicuro che il viaggio sarà breve e sicuro.
d) Andrea ha capito subito che il suo contributo era importante per la comunità.
e) Il problema che mi sottoponi è difficile, ma lo risolverò.
8) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione relativa?
a) La notte è così buia che non mi avventurerò fuori.
b) Mi chiedo che idea strana ti sia venuta in mente.
c) Essendo i vostri disegni così ben fatti, non so quale scegliere.
d) Ritengo che tu sia poco propenso ad uscire stasera.
e) L’abito acquistato ieri mi è costato davvero tanto.
9) Il periodo “Dice di non sapere chi verrà alla riunione”, include:
a) Una proposizione relativa.
b) Una proposizione interrogativa.
c) Una proposizione modale.
d) Una proposizione esclusiva.
e) Una proposizione temporale.
10) Quando il martello gli colpì erroneamente la mano, Luca emise un forte …”. Quale termine, tra quelli elencati, NON completa sensatamente la precedente frase?
a) urlo.
b) rantolo.
c) pianto.
d) grido.
e) strillo.
RISPOSTA:
1e (iterativo = che si ripete); 2c (la proposizione consecutiva è perché possa partire; 3c; 4e; 5d (a patto che tu sappia apprezzarle; possibile anche interpretare come temporale la gerundiva avendo vissuto tanti anni all’estero, che, però, è più decisamente causale); 6c (che sei affamato); 7b (stare in compagnia); 8e (acquistato ieri); 9b (interrogativa indiretta: chi verrà alla riunione); 10b (il rantolo è per sua natura sommesso, non forte; anche emise un forte pianto sembra un po’ forzato, visto che il pianto è un’azione durativa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) Se fossi certa che lui non mi risponda male, gli parlerei apertamente.
Sono stata corretta da una collega per aver pronunciato questa frase. Avrei dovuto dire, secondo lei, o “rispondesse” o “risponderebbe”. Sul condizionale sono d’accordo. Ma non vedo perché il congiuntivo imperfetto sia da preferire al presente. La mia collega ha fatto riferimento al fenomeno dell’attrazione modale che, seppur attestata in letteratura, no so fino a che punto sia valida dal punto di vista della consecutio.
2a) Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piova/piovesse.
Entrambe le forme sono corrette?
RISPOSTA:
Cominciamo col dire che nessuna delle frasi da lei riportate può dirsi del tutto scorretta, perché si tratta di sfumature comunque previste dal nostro sistema verbale.
Nella prima frase, non parlerei di attrazione modale (visto che sempre di modo congiuntivo si tratta), ma al limite di attrazione temporale. Il congiuntivo imperfetto è lievemente preferibile dal momento che le due azioni (essere certa / rispondere) sono, se non proprio contemporanee, trattate come parallele. E dunque, per uniformità: sono certa che mi risponda (al presente) / ero certa che mi rispondesse (al passato). Diciamo dunque che la proiezione nel passato della reggente (cioè in questo caso l’ipotetica) all’imperfetto (fossi certa) fa da traino all’imperfetto della completiva (che lui non mi rispondesse). Ancorché meno adeguato, anche il presente può andare, addirittura all’indicativo (ancora più informale): “se fossi certa che lui non mi risponde”. Questo perché la proiezione al passato (fossi) non indica tanto il passato dell’azione bensì l’eventualità del periodo ipotetico.
Nel secondo caso, mi paiono del tutto innaturali, e dunque parimenti da evitare, sia il congiuntivo presente, sia il congiuntivo imperfetto. Va usato l’indicativo: “Bisognerebbe che tu ti fermassi in palestra in un giorno in cui piove”, o, ancora meglio (perché più semplice, lineare, chiaro, naturale, non artefatto) “in un giorno di pioggia”. Non c’è alcun bisogno di rendere l’eventualità della pioggia, già perfettamente inferibile dal contesto di per sé eventuale (Bisognerebbe ecc.).
Sugli usi del congiuntivo imperfetto rispetto al congiuntivo presente o passato può vedere anche altre FAQ di DICO Trapassato nel futuro, Congiuntivo presente o imperfetto in dipendenza da vorrei, Modi e tempi richiesti da “vorrei”.
Fabio Rossi
QUESITO:
vorrei segnalarvi il seguente periodo:
Tra un anno potresti credere che io abbia sbagliato / avessi sbagliato, se in precedenza ti avessi accusato.
Nel caso sia ben formato, domando:
a) quale forma sia preferibile tra abbia sbagliato e avessi sbagliato, considerando che l’azione è anteriore soltanto alla proposizione reggente (potresti credere) e non al momento dell’enunciazione;
b) come si può dedurre dagli avverbi e dalle locuzioni avverbiali, anche l’azione della subordinata se ti avessi accusato è, al pari della proposizione descritta nel punto precedente, posteriore al momento dell’enunciazione, ma precedente rispetto alla reggente. Dato che i verbi del congiuntivo, se non sbaglio, sono detti anaforici e si rapportano al momento di riferimento, la scelta del congiuntivo trapassato è giustificabile per un’azione non ancora avvenuta, oppure si sarebbe dovuto selezionare, ad esempio, il congiuntivo imperfetto?
RISPOSTA:
Una simile frase sembra più un’ipotesi di laboratorio che una costruzione effettivamente realizzabile da un parlante. In linea di principio, comunque, per esprimere l’anteriorità rispetto a un evento futuro è preferibile il trapassato avessi sbagliato; il passato, infatti, renderebbe il punto di riferimento ambiguo (che io abbia sbagliato potrebbe anche essere precedente al momento dell’enunciazione, quindi assolutamente passato). Il trapassato avessi accusato nella proposizione ipotetica è attratto da quello della reggente, quindi assume un valore a metà tra l’ipotetico dell’irrealtà e l’anaforico.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alla frase:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente essendo stata estrapolata una frase da un contesto ben più ampio.”
La domanda è: la frase è espressa in modo corretto?
La contestazione dei ricorrenti è ritenuta apodittica e non autosufficiente perchè l’adempimento è stato compiuto o perchè è stata estrapolata una frase? Oppure vi è il concorso di entrambe le circostanze?
RISPOSTA:
In questa forma, la frase collega le qualità della contestazione soltanto all’estrapolazione della frase. Va detto che la scelta del gerundio passivo non aiuta la comprensione, perché rende ambiguo il riferimento tematico. Suggerisco, pertanto, di riformulare così:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente poiché basata sull’estrapolazione di una frase da un contesto ben più ampio.”
Rilevo, inoltre, una scelta lessicale non felice: apodittico significa ‘autoevidente, logico, che non necessita dimostrazioni’, mentre non autosufficiente significa, in questo contesto, ‘che necessita di ulteriori prove’ (sempre che io interpreti correttamente la frase): sembra, quindi, da una parte che i due aggettivi si contraddicano, dall’altra che soltanto il secondo sia coerente con il rigetto della contestazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Stavolta il dubbio è emerso durante la lettura della FAQ Ancora su… Condizionale o congiuntivo?.
L’utente cita l’interrogativa indiretta «Vorrei sapere se fosse possibile».
Vi chiedo questo: in un contesto presente non si dovrebbe usare il congiuntivo «sia»?
Dato che «fosse» non dipende direttamente da «vorrei» bensì da «sapere», non è interpretabile come passato? Forse è erronea, ma l’equivalenza che si è formata nella mia testa, a proposito del suddetto esempio, è questa: «fosse» = «era»; «sia» = «è». Tanto per chiarire il mio pensiero: chiamo un negozio di alimentari e domando: «Vorrei sapere se (oggi) sia/è possibile usare presso di voi un buono pasto». Non
mi verrebbe mai di formulare la stessa domanda impiegando l’imperfetto, sia esso congiuntivo o indicativo. Chiaramente la questione cambierebbe se al posto di «vorrei» avessimo il frequente «volevo», non con funzione di imperfetto di cortesia, ma con valore prettamente temporale: così il «fosse» giocherebbe un
ruolo ben diverso. «(Un anno fa) volevo sapere se presso il negozio XXX fosse possibile usare un
buono pasto.»
RISPOSTA:
Le ragioni per cui in dipendenza da vorrei è meglio usare il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente si trovano nella FAQ di DICO Modi e tempi richiesti da “vorrei”. Ancor più diffusamente Luca Serianni spiega il problema a p. 63 del suo Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, che qui trascrivo:
“Il condizionale presente, qui oltretutto proiettato sul futuro, può ben indurre la tentazione di un congiuntivo presente nella completiva; invece il condizionale di volere e di altri verbi indicanti un desiderio, un’aspirazione, una necessità richiede la reggenza tipica dei verbi al passato: se usa il condizionale, il parlante mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Se dico che “per quanti pregi abbia, a Tizio non servono, se essi sono un dono prezioso ma / e nelle sue mani diventano come quel cibo tanto buono che viene gettato nella spazzatura”, a me sembra sia corretto ma nelle sue mani, però vorrei sapere se scrivere e nelle sue mani sia un errore o se possa essere un’opzione, anche per evitare la ripetizione di suoni che avverrebbe con ma nelle sue mani.
RISPOSTA:
Vanno bene entrambe le congiunzioni. Ma pone il segmento che segue in contrasto con se essi sono un dono prezioso, mentre e instaura una relazione di aggiunta, come se la frase fosse se essi sono un dono prezioso e se nelle sue mani diventano…
Si noti, a margine, che in questa frase se non introduce una proposizione ipotetica, ma una causale (= visto che). Sul se causale si può vedere la FAQ “Se” causale o ipotetico dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumasse” o “Era da tempo che non non baciavo un ragazzo che fumava”?
RISPOSTA:
La scelta del modo verbale per le subordinate relative non è sempre scontata, perché può dipendere da diversi fattori, tra cui il significato del verbo contenuto nella relativa, la forma dell’antecedente del pronome relativo (cioè del nome a cui il pronome si riferisce), possibili sfumature che l’emittente vuole conferire all’enunciato.
Nella sua frase, la variante con l’indicativo da una parte è quella più naturale, in considerazione del fatto che il fumare è un’azione non opinabile: il ragazzo o fumava o non fumava. Diversamente, il congiuntivo sarebbe stato molto più adatto ad una frase come “Era da tanto tempo che non leggevo un libro che mi piacesse”, proprio perché l’azione, o meglio la sensazione, del piacere è del tutto opinabile.
D’altro canto, non si può dire neanche che il congiuntivo sia scorretto, perché l’indeterminatezza del referente un ragazzo conferisce all’azione del fumare un certo grado di opinabilità. Il congiuntivo sarebbe stato inaccettabile, al contrario, in una frase come: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che *fumasse” (forma corretta: “Era da tempo tempo che non uscivo con quel ragazzo che fumava”), nella quale il referente quel ragazzo è, appunto, determinato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potete dirmi per cortesia quale fra il condizionale e il congiuntivo è il tempo corretto nella frase che segue e perché?
“domandina: possedendo oggi un professionale Rolex (ovviamente sovrastimato dal mercato) del valore di 10/11.000 euro ….il proprietario che lo permuterebbe alla pari con un oggetto come questo, come lo definireste? Intenditore o folle?”
RISPOSTA:
Il modo condizionale è sbagliato, mentre è giusto il solo modo congiuntivo, in questo caso: “domandina: possedendo oggi un professionale Rolex (ovviamente sovrastimato dal mercato) del valore di 10/11.000 euro ….il proprietario che lo permutasse alla pari con un oggetto come questo, come lo definireste? Intenditore o folle?”.
Il motivo del congiuntivo è che esso esprime una eventualità, come se fosse nella protasi di un periodo ipotetico, che rifiuta il condizionale. Cioè è come se il periodo fosse: “se il proprietario lo permutasse, lo definireste intenditore o folle?”. Ovviamente, in questo caso, spicca l’impossibilità del condizionale in protasi: *”se il proprietario lo permuterebbe”. Invece è del tutto corretto il condizionale in apodosi: “lo definireste”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Dovrei dire “Vorrei sapere se FOSSE possibile ricevere il tuo aiuto” o “Vorrei sapere se SAREBBE possibile ricevere il tuo aiuto”? E nel caso di “Volevo sapere se…”? Si deve dire “Volevo sapere se FOSSE o SAREBBE”?
RISPOSTA:
Ciò che dipende da “volevo sapere se” o “vorrei sapere se” è un’interrogativa indiretta, e non un’ipotetica. In via teorica, pertanto, il condizionale sarebbe possibile, anche se spesso equivoco, specialmente se in dipendenza da un altro condizionale (“vorrei sapere se”). L’equivocità dipende sia dalla prossimità di questo costrutto con quello del periodo ipotetico (in cui il condizionale dopo se è errato), sia dalla possibile confusione con l’uso del condizionale passato per esprimere il futuro nel passato (“non sapevo se sarebbe venuto o no”), sia, ancora, dal fatto che l’eventualità può essere espressa anche dal congiuntivo, e non solo dal condizionale. Pertanto, di fatto, anche se una frase come “Vorrei/volevo sapere se sarebbe possibile ricevere il tuo aiuto” è possibile, sarebbe meglio sostituirla con: “Vorrei/volevo sapere se fosse possibile ricevere il tuo aiuto”.
Il condizionale diventa invece preferibile in espressioni negative quali: “non so se ti aiuterei”, “mi chiedevo se ti aiuterei”, o “non sapevo se ti avrei aiutato”, In quest’ultimo caso, tuttavia, l’interpretazione del condizionale passato sarebbe decisamente quella di futuro nel passato: all’epoca in cui me lo chiedevo (cioè non lo sapevo) non ti avevo ancora aiutato (o meno).
Sulla ricchissima casistica degli usi del condizionale e del congiuntivo può utilmente consultare il nostro archivio delle risposte di DICO, cercando le voci congiuntivo, condizionale, periodo ipotetico, interrogativa indiretta ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto dire: “Le potenze decisero di intervenire qualora ci fossero nazioni che AVREBBERO rotto l’equilibrio”?
Io credo che si tratti di un errore, e che si debba usare AVESSERO.
RISPOSTA:
In via del tutto teorica una subordinata con il condizionale passato non è sbagliata, visto che quel condizionale non si trova in protasi (cioè non è un periodo del genere, del tutto errato: *”se saresti intervenuto io ti avrei ringraziato”), bensì in una dipendente dalla protasi del periodo ipotetico. Secondo la consecutio temporum, infatti, un futuro dipendente del passato si esprime con il condizionale passato: “io pensavo che le potenze avrebbero rotto l’equilibrio”, cioè non l’avevano ancora rotto all’epoca in cui lo pensavo.
Il punto è che l’azione di intervenire non può che avvenire DOPO, e non PRIMA, che l’equilibrio sia stato rotto, e pertanto, in questo caso specifico, non ha senso il condizionale passato, ha ragione lei. L’unica versione corretta è quella che indica lei, cioè “avessero rotto”. Il condizionale si motiva, erroneamente, con la carica di eventualità di questa rottura, che però è espressa adeguatamente, in questo caso, dal congiuntivo. Inoltre l’intero periodo è inutilmente faticoso per via della frase scissa (cioè una falsa subordinata introdotta dallo pseudorelativo che): “ci sono nazioni che…”. Pertanto, ancor meglio sarebbe eliminare la frase scissa e scrivere: “Le potenze decisero di intervenire qualora (o se) le nazioni avessero rotto l’equilibrio”. In questo caso, per giunta, spicca il vero ruolo del congiuntivo in protasi (se avessero rotto), che renderebbe del tutto erroneo il condizionale (*”se avrebbero rotto” è errato). Trattasi dunque di un periodo ipotetico al passato, espresso con il congiuntivo (trapassato) in protasi e l’indicativo (passato remoto) in apodosi. L’indicativo in apodosi si spiega, in questo caso, per via della perifrasi “decidere di intervenire”, che rende di per sé meno “oggettivo” l’intervento, o meglio scarica sul verbo intervenire una dose di “eventualità” data dal verbo reggente decidere. Infatti, se non ci fosse quel decidere ma soltanto il verbo intervenire, il periodo sarebbe dell’irrealtà, con un normale condizionale passato in apodosi (ma attenzione ancora una volta: non in protasi!): “Le potenze sarebbero intervenute qualora (o se) le nazioni avessero rotto l’equilibrio”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei presentarvi tre frasi sulla cui sintassi del verbo sono in forse.
a) Qualunque decisione avesse preso / prendesse, sarebbe stato difficile centrare l’obiettivo.
b) Quel suo atteggiamento sarebbe parso incomprensibile e ingiustificato, per coloro che la conoscessero / l’avessero conosciuta.
c) Si apprestava a chiarire l’accaduto, quando ne avesse / avesse avuta l’opportunità.
Nel caso sia la soluzione con il congiuntivo imperfetto sia quella con il congiuntivo trapassato fossero sintatticamente ammissibili, vi domando se la scelta dell’una o dell’altra si basi sul grado di probabilità dell’evento indicato, oppure sul rapporto di contemporaneità o anteriorità delle subordinate rispetto alle reggenti.
RISPOSTA:
Entrambe le varianti di tutte le tre frasi sono corrette. Nella prima e nella terza la scelta ha effetto sul grado di probabilità dell’evento (l’imperfetto indica possibilità, il trapassato indica impossibilità o quasi); nella seconda il grado di probabilità si confonde con la relazione temporale, per cui l’imperfetto può indicare sia la possibilità sia la contemporaneità nel passato, e il trapassato sia la quasi impossibilità sia l’anteriorità rispetto al passato. L’interpretazione in questo caso sarà dettata dal contesto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è capitato di riscontrare in talune narrazioni, sia orali che scritte, costruite prevalentemente al passato remoto o al passato prossimo, il ricorso al futuro semplice per anticipare dati fatti, come se non fossero ancora avvenuti (mentre in realtà non è così). Sono difatti successivi soltanto a quelli che il narratore ha già esposto con un tempo passato. Riporto un esempio per facilitare la comprensione:
Il mattino fu alquanto stancante per lo studente e il pomeriggio non fu da meno, con ore consumate sui libri e pochissimo spazio per il riposo. Ma la sera prenderà tutt’altra piega.
Vi chiedo se questo salto temporale, peraltro minimo, può essere espresso anche con il futuro semplice, come testimonia la scelta narrativa in esame, anziché con il canonico condizionale composto. Solo per ratifica, vi chiedo infine se si sarebbe potuto costruire l’intero periodo con il passato remoto, dato che al di là della scansione progressiva degli eventi, si tratta di un qualcosa interamente appartenente a un tempo ben definito, quindi compiuto, già trascorso.
RISPOSTA:
Non so a quale indirizzo lei abbia mandato le precedenti domande, ma le confermo che la compilazione del modulo è il procedimento corretto per ricevere una risposta. A questo proposito le chiedo di fare una domanda alla volta, per aiutarci ad archiviare ogni risposta.
L’uso del futuro da lei descritto si spiega immaginando uno spostamento del centro deittico, ovvero del punto da cui l’emittente guarda i fatti. Normalmente il centro deittico è qui e ora, quindi tutti i fatti riguardanti lo studente del racconto sono nel passato. Il sistema verbale italiano, però, consente anche di situare alcuni eventi in un momento successivo rispetto ad altri eventi passati (ma ancora nel passato rispetto al centro deittico dell’emittente, che in questo caso è il narratore). Questa costruzione si realizza soprattutto con il condizionale passato; infatti nel suo esempio la frase al futuro sarebbe solitamente costruita così: “Ma la sera avrebbe preso tutt’altra piega”.
Forzando un po’ la funzione standard dei tempi e dei modi verbali, l’emittente può giocare con il centro deittico, spostandolo avanti e indietro. In questo modo alcuni eventi risulteranno passati (rispetto al centro deittico normale) e altri futuri (rispetto al centro deittico “alternativo” passato). È quello che succede nel suo esempio, in cui all’inizio gli eventi sono passati, poi all’improvviso si passa al futuro (perché il centro deittico è stato spostato nel passato). Dal punto di vista della grammatica standard questa costruzione è un errore, e così dobbiamo considerarla se lo scrivente la adotta per distrazione o perché non è capace di organizzare i pianti temporali della narrazione. È anche possibile, però, che lo scrivente usi questa sequenza temporale insolita come scelta consapevole, per confondere e allettare il lettore, quindi come particolare che caratterizza il suo stile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi il luogo di un libro scritto da un notissimo autore del secolo scorso. Qui la narrazione è all’indicativo presente:
Nel cielo si addensano nuvole minacciose, come se stia per piovere.
La congiunzione come se può ammettere il congiuntivo presente? Mi sarebbe parso opportuno selezionare il congiuntivo imperfetto.
RISPOSTA:
La proposizione comparativa ipotetica (introdotta da come se) richiede quasi esclusivamente il congiuntivo imperfetto o trapassato. Il congiuntivo presente e passato, in dipendenza da una reggente al presente, non sono impossibili né si possono dire scorretti; sono, però, di gran lunga sfavoriti dai parlanti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tempo verbale scegliere quando si vuole citare qualcuno? Per esempio: “Pirandello disse che la vita ecc.”. Mi è capitato di osservare l’uso del passato prossimo, del passato remoto e del presente; quest’ultimo anche trattandosi di autori ormai defunti: da cosa è giustificata questa scelta?
RISPOSTA:
Per riferirsi a eventi passati, quindi anche a opinioni espresse nel passato, si possono usare tutti i tre tempi che lei nomina. La differenza tra i tre è la seguente: il passato remoto rappresenta l’evento come completato nel passato, senza conseguenze sul presente (Pirandello disse = ‘l’opinione di Pirandello era che…’); il passato prossimo rappresenta l’evento come ancora rilevante nel presente (Pirandello ha detto = ‘le parole di Pirandello sono ben note e ancora valide oggi’); il presente rappresenta l’evento come attuale, sottolineando la sua rilevanza in ogni tempo (Pirandello dice = ‘è come se Pirandello parlasse adesso’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali verbi sono corretti tra le proposizioni seguenti?
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si arrabbiava/sarebbe arrabbiato e distruggeva/avrebbe distrutto tutto”.
RISPOSTA:
Come al solito l’uso del congiuntivo/condizionale oppure dell’indicativo nel periodo ipotetico della possibilità e dell’irrealtà non attiene tanto alla correttezza, quanto alla formalità della frase. L’uso del congiuntivo/condizionale è più formale (e dunque sempre suggeribile), mentre quello dell’indicativo è limitato ai discorsi più informali. Nel suo caso, inoltre, si tratterebbe, con l’indicativo nella sola apodosi, di un periodo ipotetico misto, con la soluzione formale (congiuntivo) nella protasi e quella informale (indicativo) nell’apodosi. Tale mistura, ancorché attestata e possibile nei casi più informali, è decisamente da evitare. Pertanto, nel periodo ipotetico dell’irrealtà da lei proposto, è da preferire senza dubbio alcuno la soluzione seguente:
“Tutti gli abitanti avevano paura che se non lo avessero pagato subito si sarebbe arrabbiato e avrebbe distrutto tutto”.
Aggiungo che, essendo il soggetto riferito a qualcuno che nella proposizione è un complemento oggetto (lo), sarebbe meglio non lasciare sottinteso il soggetto, ma esprimerlo esplicitamente o con un pronome (lui) o con una forma piena (l’uomo ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?
RISPOSTA:
Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).
Fabio Rossi
QUESITO:
E’ corretto proporre tra i sinonimi di “sovente” anche “solitamente”, oppure vuol dire solo “spesso”?
RISPOSTA:
No, il francesismo sovente ha soltanto il significato di “spesso”, oppure, nel raro e arcaico uso come aggettivo, di “frequente”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il futuro anteriore nella sua funzione temporale (non quando è investito del valore epistemico), come insegna la consecutio, è strettamente collegato con il futuro semplice: “Una volta che sarò riuscito a parlargli, ti farò sapere”.
Quest’ultimo tempo, specie nell’italiano medio, è talvolta sostituito dal presente dell’indicativo: “Tra due ore ti chiamo”.
Vorrei quindi sapere se frasi del tipo:
“Se entro domani sera non ci saranno stati sviluppi, non ti aggiorno”;
“Ti aggiorno, dopo che / quando / una volta che mi saranno stati comunicati gli sviluppi del caso”
sono formalmente valide, anche in un registro non colloquiale, oppure ci si debba sempre attenere alla coniugazione al futuro semplice (aggiornerò).
RISPOSTA:
Le frasi sono corrette e del tutto accettabili. La scelta di usare il futuro anteriore nella stessa frase in cui il futuro semplice è sostituito dal presente è insolita ma possibile, specie in un contesto parlato, in cui il parlante può passare repentinamente da un registro a un altro sulla scorta di variabili circostanziali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È giusto dire: “Ho comprato una maglietta dal negozio Benetton” oppure al negozio Benetton?
RISPOSTA:
La preposizione a retta da un verbo di stato o un verbo che implica indirettamente la permanenza in un luogo indica non esattamente il luogo in cui ci si trova, ma la situazione di cui si è parte, che può essere tipica di un luogo. Per questo diciamo “Sono a scuola” (e non *nella scuola), “Rimango a casa”, “Ho molti amici al lavoro”. Diversamente, la preposizione da indica una provenienza, che può essere legata a un verbo di movimento o di origine, oppure a un verbo di ricezione (“Non me l’aspettavo da te”). Il verbo comprare può indicare ricezione, ma se lo associamo a un luogo (come negozio) questa parte del significato rimane in secondo piano ed emerge l’aspetto della situazione tipica del luogo, che richiede la preposizione a. La preposizione da, pertanto, non è adatta alla sua frase, che è, al contrario, ben costruita con a.
La scelta cambia se togliamo il nome negozio e lasciamo soltanto il nome proprio del marchio, perché il nome proprio accentua la personalità dell’elemento costruito con la preposizione, e fa passare in secondo piano la sua natura di luogo. Quindi si dice “Ho comprato una maglietta al negozio”, ma “Ho comprato una maglietta da Benetton” (come si direbbe “Ho comprato una maglietta dal mio amico Andrea”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei domandarvi se le frasi proposte nelle loro varianti verbali sono giudicabili corrette.
A) Se ci fosse stato un problema che…
… avesse messo / mettesse / avrebbe messo a dura prova la nostra pazienza, mi sarei dato da fare per individuare una soluzione tempestiva.
B) Se ci fosse un prolema che…
… mettesse / metta / metterebbe a dura prova la nostra pazienza, mi darei da fare per individuare una soluzione tempestiva.
Ho letto nel vostro archivio che la relativa è di norma aperta a molti modi, ma, spesso, quando questa è collegata a un’altra proposizione con il verbo al congiuntivo, il condizionale, sia presente sia passato, sopraggiunge il dubbio.
RISPOSTA:
Tutte le forme da lei ipotizzate sono corrette, con qualche differenza semantica e di accettabilità tra l’una e l’altra. Innanzitutto notiamo che in dipendenza da una proposizione al congiuntivo la proposizione relativa perde in parte la sua autonomia dalla consecutio temporum. Procediamo, quindi, a valutare le varianti nell’ottica della consecutio temporum.
Per quanto riguarda la frase A, nel caso in cui la prova sia contemporanea al problema si propenderà per l’imperfetto; se, invece, si immagina che la prova sia successiva si propenderà per il condizionale passato (per quanto sia a primo impatto strano trovare un condizionale in dipendenza da un congiuntivo). La variante con il trapassato è la meno giustificabile, perché implica che la prova sia precedente al problema, cosa impossibile. Non possiamo definirla del tutto scorretta, però, perché è ammissibile che il trapassato avesse messo sia attratto dal trapassato reggente (ci fosse stato) con la stessa funzione dell’imperfetto, cioè per indicare la contemporaneità dei due eventi.
Per la frase B la situazione è analoga: l’imperfetto mettesse è attratto dall’imperfetto ci fosse per indicare la contemporaneità nel presente. Bisogna ricordare, a questo proposito, che nella proposizione condizionale il congiuntivo imperfetto indica un evento presente, mentre nell’ambito della consecutio temporum la stessa forma esprime la contemporaneità nel passato. A loro volta, metta in dipendenza da ci fosse è simmetrico a mettesse in dipendenza da ci fosse stato; metterebbe in dipendenza da ci fosse non è simmetrico a avrebbe messo in dipendenza da ci fosse stato, perché il condizionale presente non è usato per esprimere il futuro (mentre il condizionale passato esprime il futuro rispetto a un evento passato). Anche così, però, il condizionale presente è giustificato in quanto rappresenta la prova come possibile, ma non certa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sto elaborando uno slogan aziendale per un drone che si può usare in agricoltura, ma mi sorge un dubbio. È più corretto dire:
– Un supporto moderno PER la tua agricoltura
oppure
– Un supporto moderno ALLA tua agricoltura?
RISPOSTA:
Entrambe le preposizioni sono corrette e ampiamente attestate. C’è, tra le due, una differenza semantica: a indica che l’oggetto che fa da supporto è inteso in senso astratto, come un complesso di attività di cura e aiuto tipico di una situazione. Per questo si dice supporto al cliente, supporto al paziente, supporto alla causa, supporto al progetto. Per, al contrario, indica che il supporto è un oggetto concreto: supporto per il monitor, supporto per il collo, supporto per la bicicletta.
Il confronto tra le seguenti frasi chiarirà meglio il concetto:
1. “Mi (= a me) hai dato un grande supporto” = ‘mi hai simbolicamente aiutato molto, con una frase di conforto, uno sguardo, un gesto (senza riguardo per gli effetti pratici di queste azioni)’. Si noti che sarebbe impossibile *”Hai dato un grande supporto per me”.
2. “Sei stato un grande supporto per me” = ‘la tua presenza, le tue azioni, le tue parole mi hanno concretamente aiutato molto’. Sarebbe impossibile *”Sei stato un grande supporto a me”; sarebbe possibile “Mi sei stato grandemente di supporto”, perché essere di supporto recupera il significato astratto del nome.
Nel suo caso la scelta non è obbligata, ma dipende da come vuole rappresentare il drone: come un oggetto che si inserisce nel processo produttivo con un’azione concreta, quindi un supporto per l’agricoltura, oppure come un oggetto che apporta un contributo di aiuto all’agricoltura intesa come situazione. Si noti che la prima scelta è quella più immediata e lineare, ma è anche la più banale, perché non lascia niente all’immaginazione: descrive l’oggetto esattamente per quello che è; la seconda, più sorprendente, lascia intendere che l’oggetto possa avere un impatto sistemico, che supera le operazioni concretamente svolte in una fase del processo e arriva a toccare tutto il processo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla seguente frase: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo accompagnava”. Secondo il mio dilettantistico parere, questa espressione è la più corretta per creare una contemporaneità fra il non essersi recato a Roma del soggetto in questione e la mancata presenza dell’amico come accompagnatore. Le persone con cui mi sono consultato, tra le quali c’erano anche degli specialisti, almeno stando alle qualifiche, sostenevano che la contemporaneità poteva essere ottenuta solo usando il trapassato prossimo e non l’imperfetto (“Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non lo aveva accompagnato”). Ciò mi pare errato, in quanto se usassi il trapassato prossimo per ottenere la contemporaneità fra i due eventi, cosa dovrei usare per ottenere l’anteriorità? In questo contesto l’anteriorità non avrebbe senso, ma, cambiando di poco la frase, potrebbe averlo. Per esempio: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico non era venuto da lui il giorno prima della partenza, essendo rimasto bloccato nella sua città per problemi familiari”.
RISPOSTA:
La sua riflessione è corretta, ma arriva alla conclusione sbagliata: il trapassato prossimo esprime sempre anteriorità rispetto al passato; nella frase in questione tale anteriorità è neutralizzata dall’immediato riconoscimento del rapporto di causa-effetto tra non lo aveva accompagnato e non si era recato. A causa di questa relazione logica, il secondo trapassato viene interpretato come sullo stesso piano del primo, quindi come se fosse dipendente non dal primo, ma direttamente da disse. L’anteriorità del trapassato, però, emerge più chiaramente in una frase in cui il secondo evento sia meno direttamente collegato al primo (come nella sua seconda frase).
Detto questo, la scelta del trapassato prossimo aveva accompagnato è corretta, non perché il trapassato indichi contemporaneità, ma proprio perché indica anteriorità. L’evento che rappresenta la causa è, infatti, precedente a quello che ne rappresenta l’effetto. L’imperfetto, al contrario, è una scelta meno felice, proprio perché rappresenta il non accompagnare come contemporaneo al non essersi recato, quando è chiaro che il primo evento precede il secondo. L’imperfetto ritorna accettabile se si intende dare alla frase un significato leggermente diverso; questo tempo può, infatti, essere interpretato come un condizionale passato (non l’avrebbe accompagnato), quindi come una proiezione dal passato verso il futuro. Questa interpretazione regge se si immagina una proposizione al trapassato sottintesa: “Mi disse che non si era recato a Roma perché il suo amico (gli aveva detto che) non lo accompagnava / avrebbe accompagnato” (oppure perché aveva saputo che il suo amico non lo accompagnava / avrebbe accompagnato). Ovviamente, la variante avrebbe accompagnato è più formale di accompagnava.
Diverso sarebbe il caso in cui il rapporto non sia tra due eventi, ma tra un evento e uno stato: “Mi disse che non era andato a Roma perché non c’era il suo amico”. In questo caso l’imperfetto assume effettivamente la funzione di esprimere la contemporaneità nel passato; descrive, infatti, uno stato di cose che si verificava nel momento in cui l’evento (non) era avvenuto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi ha detto: «Ti farò sapere quando mi aggiorneranno/avranno aggiornato».
Con il passaggio dal discorso diretto a quello indiretto – vi domando – sarebbero possibili tutte e tre le costruzioni?
1. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando sarebbe stato aggiornato.
2. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando fosse stato aggiornato.
3. Mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere, quando sarà stato aggiornato.
Mi sia consentito pronunciarmi con una semplice analisi.
La costruzione numero 1 secondo me è corretta, nonostante il doppio condizionale composto, a livello sintattico, vada a innescare un futuro nel passato (mi avrebbe fatto sapere) del futuro nel passato (sarebbe stato aggiornato), nonostante a livello semantico la successione dell’azione non lasci adito a dubbi di sorta.
La costruzione numero 2 mi pare la più lineare – o comunque quella che sceglierei -, con tanto di sfumatura ipotetica conferita alla congiunzione (quando).
La soluzione numero 3 dovrebbe essere corretta, in quanto il passato prossimo stringe dei legami forti con la dimensione del presente, dove il futuro anteriore trova una collocazione coerente.
A proposito di quest’ultimo punto, ho notato – sempre secondo la mia umile prospettiva linguistica – che sostituendo il passato prossimo che introduce il discorso diretto con il passato remoto (o con un tempo trapassato), la costruzione numero 3 certamente perde la sua validità, mentre le prime due restano possibili.
RISPOSTA:
La sua analisi è sostanzialmente corretta, tranne che per la terza frase. Ma partiamo dalla prima: il secondo condizionale passato non produce una proiezione dal passato nel futuro rispetto a un futuro a sua volta proiettato rispetto a un passato: tale livello di complessità sarebbe ingestibile da un parlante. Quello che succede in una frase del genere, invece, è che il condizionale passato dipendente da un altro condizionale passato è interpretato come genericamente posteriore rispetto allo stesso passato da cui dipende il primo condizionale (in questa frase mi ha detto), quindi sullo stesso piano di quest’ultimo. Ne consegue che il rapporto temporale relativo tra gli eventi rappresentati da questi due condizionali (il primo è successivo rispetto al secondo) viene obliterato in favore del più rilevante rapporto temporale di entrambi gli eventi rispetto a quello principale della frase. Questo “sacrificio” non è grave, però, perché il rapporto relativo si recupera facilmente per logica confrontando i due eventi (è chiaro che l’essere aggiornato deve precede il fare sapere). Nella seconda frase il congiuntivo trapassato serve proprio a recuperare il rapporto relativo tra i due eventi dipendenti, sacrificando, questa volta, il rapporto tra il secondo evento dipendente e l’evento principale. In altre parole, fosse stato aggiornato è precedente rispetto ad avrebbe fatto sapere (si ricordi che il condizionale passato, per quanto esprima un evento posteriore a un altro, rimane un tempo passato, per cui un evento a esso precedente deve essere espresso con un congiuntivo trapassato). Nessun rapporto, invece, può esserci tra ha detto e fosse stato aggiornato, perché è chiaro che l’essere aggiornato non precede il dire, ma è a questo successivo. A questa considerazione temporale si aggiunge secondariamente la sfumatura di eventualità da lei notata, perché una proposizione temporale al congiuntivo è facilmente interpretata come condizionale. Tale interpretazione sempre possibile può indurre a preferire la soluzione 1, nel caso in cui il parlante voglia descrivere l’evento dell’essere aggiornato come certo. Si consideri, però, che quando si parla di eventi futuri, l’eventualità è sempre implicita, anche quando si rappresentano tali eventi come fattuali.
La frase 3 non è corretta. Il suo ragionamento parte bene: è vero che il passato prossimo (ma non il passato remoto) è affine al presente, quindi può richiedere la consecutio temporum del passato (come nelle prime due frasi) ma anche del presente; tale scelta, però, deve riguardare tutta la frase, non solo parte di essa. Il futuro anteriore, pertanto, va bene soltanto se la proposizione da cui dipende va al futuro semplice: “Mi ha detto che mi farà sapere, quando sarà stato aggiornato”. La sua versione della frase, invece, confonde i piani, passando indebitamente dal passato al presente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei conoscere quali tra le quattro costruzioni – a condizione che siano tutte valide – è da preferire.
1. Prima che i miei nipoti arrivino al mare, noi torneremo a casa.
2. Prima che i miei nipoti siano arrivati al mare, noi torneremo a casa.
3. Prima che i miei nipoti arrivino al mare, noi saremo (già) tornati a casa.
4. Prima che i miei nipoti siano arrivati al mare, noi saremo (già) tornati a casa.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette. La 1 e la 3 non presentano difficoltà: nella 1 gli eventi futuri dell’arrivare e del tornare sono rappresentati con il congiuntivo presente, che in effetti può avere la funzione di presente proiettato nel futuro, e con il futuro semplice, quindi senza specificare il dettaglio dell’anteriorità nel futuro (opzione del tutto normale); nella 3 il dettaglio dell’anteriorità è specificato per mezzo del futuro anteriore. La 2 e la 4 presentano il problema del congiuntivo passato usato per descrivere un evento futuro successivo rispetto a un altro evento (tanto che nella 4 l’altro evento è espresso con il futuro anteriore). Si noti che il congiuntivo passato può descrivere regolarmente un evento futuro precedente rispetto a un altro, perché la sua funzione può essere soltanto anaforica, ovvero quella di indicare che l’evento è precedente a un altro, a prescindere di quando esso sia avvenuto (per esempio, in una frase come “Quando tornerò dal viaggio ti accorgerai che ti sono mancato” sono mancato è un evento futuro). Il problema qui è che l’evento espresso con il congiuntivo passato (siano arrivati) è successivo, non precedente all’altro con cui è in relazione (torneremo / saremo tornati).
La ragione di questa scelta apparentemente illogica è che la congiunzione prima che spinge a considerare l’evento descritto all’interno della proposizione come la conclusione di un processo. Nelle frasi, quindi, prima che i miei nipoti siano arrivati è interpretato come ‘prima che si concluda il processo dell’arrivo dei miei nipoti’.
Per quanto riguarda la validità delle frasi, ognuna veicola sfumature semantiche diverse, quindi va scelta in base al significato che si vuole intendere. Quelle con il futuro anteriore sottolineano la relazione dell’informazione del tornare con quella dell’arrivare, mentre quelle con il futuro semplice indicano che l’informazione del tornare ha una sua autonomia rispetto a quella dell’arrivare. Quelle con il congiuntivo presente rappresentano l’arrivare come un evento momentaneo, cioè puntano l’attenzione sul momento dell’arrivo, quelle con il congiuntivo passato lo rappresentano come la fine di un processo, quindi puntano l’attenzione sul processo che ha portato all’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qualche giorno ho pronunciato la frase:
“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi fossi addormentato da poco”.
Ho accreditato al congiuntivo trapassato valore anaforico, prendendo come riferimento temporale le ore 17. L’ipotesi dell’addormentamento è passata rispetto a tale riferimento, ma è pur sempre futura rispetto all’enunciazione. Domando dunque se sia giustificata la scelta del congiuntivo trapassato.
“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi addormentassi poco prima”:
Questo può essere considerato un esempio valido di costruzione che mantenga invece
l’enunciazione quale punto di riferimento temporale per la scelta della sintassi del verbo?
RISPOSTA:
La prima frase al trapassato (“Vado a dormire mezzora. Svegliami alle 17, anche se mi fossi addormentato da poco”) è decisamente preferibile, perché, come dice lei, quel che conta è il riferimento anaforico all’addormentamento passato rispetto al momento dell’ipotetico risveglio alle 17.00. In casi come questo, in cui l’azione è tutta proiettata in avanti (cioè al momento del risveglio, le 17.00, sancito dall’imperativo), il fatto che l’azione sia futura (cioè che lei non sia ancora andato a letto) è del tutto secondario. Infatti se non vi fosse la componente ipotetica (dell’ipotetico risveglio), l’azione sarebbe espressa o al passato prossimo (dipendente dal presente), o al futuro anteriore (dipendente dal futuro), o al trapassato prossimo (dipendente dal passato prossimo o remoto):
1. Mi sveglio alle 17.00 anche se mi sono addormentato da poco;
2. Mi sveglierò alle 17.00 anche se mi sarò addormentato da poco;
3. Mi sono svegliato (o mi svegliai) alle 17.00 anche se mi ero addormentato da poco.
L’ipotesi all’imperfetto congiuntivo (addormentassi), ancorché comprensibile, non sarebbe corretta, a rigore, secondo le regole della consecutio temporum, dal momento che non renderebbe l’idea dell’essersi addormentato prima. Infatti risulterebbe appropriata a un altro contesto, cioè quello in cui l’azione del risveglio venisse espressa come più o meno contemporanea al ,momento del risveglio o comunque ininfluente ai fini di quest’ultimo:
– Svegliami (comunque anche se) se mi addormentassi, oppure
– Svegliami (comunque anche se) se mi addormento.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei esporre un dubbio sull’analisi del periodo di una coordinata introdotta dalla congiunzione “anzi” e che, a detta delle grammatiche correnti, dovrebbe inserirsi tra le coordinate avversative.
La frase è questa:
-Restituiscimi i miei soldi: proposizione principale
-O non ti darò più nulla, : coordinata alla principale (disgiuntiva)
– anzi non ti considererò più un amico: coordinata di tipo avversativo? In realtà, a me sembra avere un valore accrescitivo (non solo non ti darò più i soldi, in più non ti considererò come amico) o di tipo sostitutivo (in sostituzione della prima minaccia ne uso un’altra).
È lecito il mio ragionamento? Come si può definire in questo caso la congiunzione?
RISPOSTA:
In effetti qui non si tratta tanto di contrastare qualcosa (avversativa), quanto, semmai, di aggiungere una minaccia. Casi come questi, perfettamente comuni e corretti, mostrano quanto le categorie della grammatica (intesa come libri di grammatica) siano molto più strette, poco utili, poco funzionali e spesso incoerenti di quelle della Grammatica (intesa come funzionamento di una lingua).
Nei libri di grammatica, per comodità e per brevità, la relazione di sostituzione viene di solito trattata insieme a quella avversativa, e dunque in fondo l’analisi che lei ha trovato non è del tutto scorretta, ancorché migliorabile. Nella sua frase, tuttavia, il valore di anzi non è tanto quello di congiunzione, bensì quello di avverbio, o meglio di segnale discorsivo, col valore di ‘e per di più, addirittura’ o simili.
Come ben mostra questo esempio, il confine tra coordinate e subordinate è davvero molto debole, talvolta, ed è il classico confine posto dai libri di grammatica più che dalla Grammatica della lingua, che vede le due relazioni (di paratassi e ipotassi) pressoché sullo stesso piano.
In questo caso le strade per analizzare questo periodo sono almeno tre (oltre a quello di anzi… come avversativa), tutte e tre difendibili:
1) considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata di tipo aggiuntivo (sebbene i libri di grammatica di solito non annoverino questa categoria);
2) Considerare la proposizione introdotta da anzi come coordinata per asindeto, visto che anzi ha qui valore più avverbiale che di congiunzione (e sempre di valore aggiuntivo);
3) Concentrarsi soltanto sul valore semantico del periodo e analizzarlo, dunque, così:
– Restituiscimi i miei soldi = se non mi restituisci i miei soldi (ipotetica)
– o non ti darò più nulla = non ti darò più nulla (principale)
– anzi non ti considererò più un amico = coordinata per asindeto (oppure aggiuntiva) alla principale.
Il suo ragionamento è del tutto valido e mostra una notevole capacità di riflessione metalinguistica
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase: “sia i lacci che i nodi sono ENTRAMBI…”,
entrambi può essere ritenuto corretto, visto che si riferisce a due categorie e non “a tutti e due”?
RISPOSTA:
Entrambi (= tutti e due) può essere riferito sia a due elementi omogenei, appartenenti alla medesima categoria (“azalee e ibiscus: amo entrambi i tipi di fiore”), sia a elementi eterogenei (“donne e motori: li amo entrambi”).
Forse, se fornisse un contesto più ampio (almeno una frase completa) si capirebbe meglio il senso del suo quesito. Forse lei intendeva dire che se entrambi qui si riferisce soltanto ai lacci (che sono due) e non al nodo tra i lacci (che è uno), allora non andrebbe bene. Giusto, in questo caso ha ragione lei, non andrebbe bene. Entrambi deve per forza riferirsi a due elementi insieme, non a uno soltanto o a tre. Pertanto una frase come “sia i lacci della scarpa sia il nodo (o i nodi) che hai fatto sono entrambi sfilacciati” sarebbe scorretta, sia se si riferisse soltanto ai due lacci (perché nella frase c’è anche uno o più nodi) sia se si riferisse ai lacci e al nodo o ai nodi, perché gli elementi sono più di due.
Fabio Rossi
QUESITO:
è corretto dire “Se non ti ho stufato, vorrei chiederti un’altra cosa”?
RISPOSTA:
Sì, è corretto. Naturalmente, il verbo “stufare” è informale, ma è senza dubbio corretto, ancorché più indicato in un contesto familiare che in uno pubblico e formale.
L’uso dell’ipotetica per chiedere scusa (o simili) è tipico dell’italiano, e anche di altre lingue, quasi ad attenuare la “colpa” commessa. In altre parole, si sposta sul piano dell’ipotesi anche ciò che a volte può essere una certezza. Pensi a una frase, normalissima in italiano, come “scusa se ho fatto tardi”: il fatto che io abbia fatto tardi è una certezza, non certo un’ipotesi, ed è proprio per questo che ti chiedo scusa. Però esprimo il concetto, attenuandolo, come se fosse un’ipotesi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se una proposizione completiva collegata a un’apodosi al condizionale presente può reggere, oltre ai modi congiuntivo e indicativo, anche il condizionale.
Se domani piovesse a dirotto, ci sarebbero scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
Costruendo il periodo con l’indicativo, le soluzioni a e b mi sembrerebbero comunque valide; mentre la c, no.
Se domani piove/pioverà a dirotto, ci sono/saranno scarse possibilità/sarebbe poco probabile che…
1a) si disputi
1b) si disputerà
1c) si disputerebbe
la partita.
RISPOSTA:
La terza possibilità è da scartare in entrambi i casi. Il fatto dirimente non è tanto che la completiva dipenda da un’apodosi, quanto che il verbo che regge la completiva indichi di per sé stesso un dubbio. In casi del genere quindi la scelta migliore (e la più formale) è il congiuntivo, la più informale (ma comunque possibile) è l’indicativo, mentre il condizionale è, in questo caso, scorretto, perché pone una condizione (che semmai avrebbe senso, per l’appunto, nell’apodosi di un periodo ipotetico, non certo nella dipendente dall’apodosi) laddove, invece, si sta ponendo un dubbio.
La riprova è che anche in assenza di apodosi, l’erroneità del condizionale rimane invariata.
Possibile, invece, e addirittura da preferirsi, in dipendenza dal condizionale, il congiuntivo imperfetto in luogo del presente:
– è improbabile che domani si giochi / si giocherà
– (dico che) sarebbe/parrebbe improbabile che domani si giocasse / giochi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si può usare il passato del condizionale per riferirsi a eventi futuri, per esempio: “Sarei voluto venire domani al mare”?
RISPOSTA:
Sì, è un uso normalissimo, frequentissimo e, quindi, correttissimo.
Si tratta di proiettare il futuro in un futuro nel passato, cioè come se si dicesse: (in passato) avevo pensato che (in futuro) sarei venuto al mare. In questi casi, perlopiù, l’azione non si è poi verificata: ma poi ho avuto un contrattempo e ho dovuto cambiare idea e quindi al mare non vi vengo (o non ci sono venuto) più. Ma nulla vieta che la frase si usi anche se l’azione si verifica (o si è verificata o si verificherà): “Sarei [o avrei] voluto venire domani al mare: a che ora ci vediamo in spiaggia?”
Buon resto di vacanze e… buoni bagni al mare, da soli o in compagnia
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi trovo davanti a una frase di questo tipo: “Si continuarono a tenere le lezioni”. Dovrebbe essere piuttosto “Si continuò a tenere le lezioni”? E se sì, qual è la motivazione grammaticale?
RISPOSTA:
Il clitico, o particella pronominale atona, si può avere più usi:
1) passivante: in tal caso l’accordo col soggetto plurale è al plurale: “si tengono lezioni” = “le lezioni vengono tenute”; ovviamente con il verbo aspettuale o fraseologico continuare a vige comunque l’accordo: “si continuarono a tenere”.
2) Impersonale: verbo al singolare o al plurale a seconda del contesto. Nel suo caso, vanno bene entrambe le forme: si continuò a tenere / si continuarono a tenere. Il confine tra 1 e 2 è molto fluido ed è più una sfumatura semantica che altro: qualcuno continuò [impersonale] / le lezioni continuarono ad essere svolte da qualcuno (sia impersonale, sia passivo, ma con una maggiore attenzione all’agentività dell’azione, sia in presenza, sia in assenza di compl. d’agente o di causa efficiente).
3) Per esprimere la prima persona plurale: uso prettamente toscano e dell’italiano ricercato: “noi si andò tutti insieme al mare”; “noi si continuarono a tenere le lezioni”.
Insomma, “si continuarono a tenere” è frase perfettamente corretta e direi preferibile, se si vuole esprimere l’idea che le lezioni continuarono a essere svolte.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale affermazione è corretta? Ho indicato in grassetto i dubbi.
Penso che il meglio deve ancora avvenire/venire
Penso che il meglio deva ancora avvenire/venire
Penso che il meglio debba ancora avvenire/venire
RISPOSTA:
Cominciamo con il rapporto tra congiuntivo e indicativo: come al solito, in casi analoghi, la soluzione con l’indicativo è sempre corretta, anche se meno formale. Pertanto, in uno stile formale, è sempre meglio debba piuttosto che deve. L’alternativa tra il tema deb- e il tema dev- è pressoché sempre possibile (nelle persone in cui è ammessa: nella 1a persona singolare e nella 3a persona plurale dell’indicativo e nella 1a, 2a e 3a singolari e nella 3a plurale del congiuntivo presente), anche se deb- è avvertito come più formale, e dunque più appropriato al congiuntivo. Infatti, da una banale ricerca di frequenza in Google, mentre all’indicativo devono è moto più frequente di debbono, al congiuntivo debba e debbano sono molto più frequenti di deva e devano.
Quanto alla scelta tra avvenire e venire, in teoria i due verbi nella frase in questione sono equivalenti, sul piano semantico. Tuttavia la frase è quasi una frase fatta, cioè pressoché immodificabile (quasi fosse una citazione o un proverbio), ormai cristallizzata nella forma venire (e non avvenire).
Quindi, riassumendo, delle sue molte alternative la migliore è: “Penso che il meglio debba ancora venire”
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi è capitato recentemente di sentir usare, da parte di una persona di indubbia cultura, il termine regime come sinonimo di dittatura. Per quanto ne so io, il termine regime definisce una struttura di potere di qualunque tipo, non soltanto di natura esplicitamente dittatoriale. Vorrei conoscere il vostro parere al riguardo.
RISPOSTA:
Il termine regime indica qualunque forma di governo, tanto che ci possono essere regimi democratici e regimi dittatoriali. Usato assolutamente, però, questo termine è divenuto sinonimo di dittatura. Non a caso, il Fascismo è spesso definito regime, senza aggettivi. Questa accezione del termine è stabile nell’uso, infatti si trova attestata in tutti i dizionari.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ci vediamo quando starai bene”.
Non dovrebbe essere quando stai bene o “Ci vedremo quando starai bene”.
RISPOSTA:
È preferibile usare soltanto il presente (scelta meno formale) o soltanto il futuro (scelta più formale); entrambi gli eventi, infatti, sono futuri e, essendo nella stessa frase, non c’è motivo di cambiare registro. La sbavatura, comunque, non è grave.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si può usare l’imperfetto in una frase del tipo “Ho trovato quel lavoro perché conoscevo una persona che mi ha informato”? E perché non sarebbe meglio conosco una persona?
RISPOSTA:
Le due possibilità sono ugualmente corrette. La differenza tra l’imperfetto e il presente è che con il primo si sottolinea che la persona era nota al momento in cui il lavoro è stato trovato (e forse non lo è più nel momento in cui si sta parlando, perché il parlante non la frequenta più), con il secondo si sottolinea che la persona è nota nel momento in cui si sta parlando (e implicitamente era nota all’epoca in cui il lavoro è stato trovato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla seguente frase:
“Ma se unicredit comprerebbe di mps solo le parti sane, e le parti in perdita deve accollarsele lo Stato, a che serve l’offerta di unicredit?”
Chi l’ha scritta adduce che intendeva dire ‘Se (la posta è che) unicredit comprerebbe…’; a parte che non è così scontato il sottinteso, è comunque corretto scrivere così?
RISPOSTA:
La congiunzione se può reggere il condizionale se ha significato causale. Quindi se unicredit comprerebbe = ‘visto che unicredit comprerebbe’; se unicredit comprasse = ‘nel caso in cui unicredit comprasse’. Sottolineo che la spiegazione data dallo scrivente non è accettabile, perché, come dice lei, non è possibile per il lettore inferire la parte considerata implicita.
Sul se causale può vedere anche la FAQ L’insolito “se” causale dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste due domande sono uguali come significato, nonostante in una ci sia il non?
Siamo sicuri di essere invece in ritardo?
Siamo sicuri di non essere invece in ritardo?
RISPOSTA:
Non sono uguali, sebbene siano molto simili. Nella prima si mette in dubbio la certezza di essere in ritardo; nella seconda si esprime un dubbio circa la possibilità di essere in ritardo. La prima si userebbe per obiettare a un’affermazione di certezza di ritardo (equivale a ‘non sono sicuro che siamo davvero in ritardo); la seconda si userebbe autonomamente (equivale a ‘forse siamo in ritardo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivo in merito alla risposta al quesito Condizionale o congiuntivo: questo è il problema .
Se non ho capito male, una frase come: “Disse che avrebbe telefonato quando fosse/sarebbe arrivato”
dovrebbe essere analizzata in questo modo:
disse: reggente;
che avrebbe telefonato: oggettiva dipendente da disse;
quando fosse/sarebbe arrivato: temporale a sua volta dipendente da disse.
Quest’ultima dipendenza spiegherebbe il perché del condizionale passato in base alle regole della consecutio.
Ciò che non capisco è questo: perché devo considerare la temporale come dipendente da Disse quando, a mio parere, essa dipende esclusivamente (anche a livello di successione logica degli eventi: prima si arriva, poi si telefona) dall’oggettiva? Non capisco il nesso tra il dire e l’evento dell’arrivare.
Comprendo bene il legame tra disse e che avrebbe telefonato ,dato che quest’ultima subordinata esprime un argomento del verbo dire; non riesco invece ad interpretare la temporale né come circostanziale del verbo dire né, tantomeno, come suo argomento.
Dal momento, quindi, che nella mia analisi la temporale dipende dall’oggettiva e che, a livello di successione degli eventi, l’arrivare è precedente al telefonare, io opterei per fosse arrivato.
RISPOSTA:
Non c’è dubbio che la proposizione temporale sia subordinata alla completiva (come, del resto, è presupposto nella FAQ Condizionale o congiuntivo: questo è il problema: “In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate”). Quello che spiego nella risposta è che il verbo della principale proietta la sua influenza anche sulla subordinata di secondo grado, entrando in rapporto temporale anche con quest’ultima. L’evento dell’arrivare, insomma, è sia precedente a quello della reggente (che avrebbe telefonato), sia successivo a quello della principale (disse): sta al parlante decidere quale dei due rapporti temporali evidenziare attraverso la scelta della forma verbale. La sfumatura ipotetica percepibile nella temporale al congiuntivo (quando fosse arrivato = se fosse arrivato) potrebbe giocare a favore o a sfavore del condizionale, a seconda che il parlante voglia scongiurare o suggerire una simile interpretazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggendo un testo narrativo ho evidenziato un uso molto largo da parte dell’autore del verbo dovere, talvolta, a mio avviso, coniugati in maniera un po’ trascurata.
Vi riporto quattro esempi che ne ho ricavato:
– Se i due fratelli non erano nella stanza, dovevano esserne usciti da poco.
– Se gli interrogati non avessero detto la verità, lui doveva saperlo.
– Pensò che doveva…
– Era il segno che doveva parlare.
Vorrei sapere se le frasi avrebbero potuto essere scritte diversamente, alzando il grado di formalità.
RISPOSTA:
Nessuna delle occorrenze può dirsi trascurata, sebbene nelle ultime due frasi l’indicativo imperfetto possa essere sostituito dal condizionale passato, elevando la formalità della costruzione. La sostituzione non è possibile nella prima frase, perché produrrebbe un significato illogico; nella frase, infatti, l’imperfetto non è modale, ma ha valore temporale. In altre parole, erano non sta per fossero stati, ma indica proprio che l’evento è continuato nel passato; coerentemente, dovevano è l’unica forma possibile, anch’esso con valore di temporale, perché non c’è una condizione rispetto alla quale esprimere una conseguenza.
Nella seconda frase la sostituzione è possibile, ma cambierebbe il significato complessivo. L’indicativo imperfetto, infatti, indica che il soggetto imponeva a sé stesso di venire a sapere una circostanza; il condizionale passato, invece, sarebbe interpretato come conseguenza ipotetica della condizione descritta nella protasi (se gli interrogati non avessero detto la verità). Si noti che nella costruzione avrebbe dovuto saperlo il verbo dovere, a dispetto del suo significato di base, assume automaticamente la sfumatura di incertezza tipica di espressioni come devono essere le cinque (= ‘forse sono le cinque’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La locuzione a quel tempo funziona anche riferita al futuro? Es. “A quel tempo accadrà questo”. Per in quel tempo le grammatiche dicono che può riferirsi sia al passato che al futuro, ma non trovo specifiche riguardo alla forma con a.
RISPOSTA:
L’espressione a quel tempo è usata esclusivamente in riferimento al passato, sebbene non ci siano ragioni semantiche o sintattiche a sostegno di questa restrizione. Si tratta di uno dei tanti usi che si impongono per convenzione. Diversamente, l’espressione in quel tempo e l’avverbio allora (si noti, dal latino ad illam horam) possono riferirsi al futuro, sebbene siano quasi sempre diretti al passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Prendo spunto da una porzione di intervista ascoltata alla radio per articolare una domanda.
L’intervistato ha detto:
“Per me sarebbe un vero incubo, oggi, andare in vacanza. Mia moglie cambierebbe le lenzuola dell’albergo dopo che uscissero dalla camera le addette alle pulizie. E lo farebbe tutti i giorni fino alla fine della vacanza”.
Dopo che uscissero è corretto?
A me sono venute in mente anche altre due soluzioni.
Dopo che fossero uscite.
Dopo che sarebbero uscite.
La prima per rendere l’eventualità della situazione meno probabile di uscissero. La seconda per sottolineare con il condizionale composto una situazione appunto condizionata, come quella di cambierebbe, ma avvenuta (eventualmente) prima di essa.
RISPOSTA:
La soluzione più in linea con la consecutio temporum è dopo che sono uscite, perché l’evento dell’uscire precede quello del cambiare, descritto nella proposizione reggente, che è presente. L’indicativo sono uscite può risultare un po’ stridente rispetto al congiuntivo siano uscite, ma si ricordi che la proposizione temporale introdotta da dopo che si costruisce preferibilmente proprio con l’indicativo: “abbiamo festeggiato dopo che loro sono partiti” (non *dopo che loro siano partiti). Il fatto che il verbo reggente sia al condizionale rende il congiuntivo meno improbabile e tutto sommato accettabile.
L’alternativa dopo che uscissero è in teoria possibile, perché modella perfettamente la frase sulla costruzione del periodo ipotetico del secondo tipo (cambierebbe dopo che uscissero = cambierebbe se uscissero). Tale modello, si badi, risulta in questo caso non calzante, perché l’evento dell’uscire non può essere la condizione di quello del cambiare; la moglie, infatti, non cambierebbe certo le lenzuola se le donne delle pulizie uscissero. Risulterebbe sensato, invece, nella frase usata prima come esempio: “Festeggeremmo dopo che loro partissero”, perché qui il partire è la condizione per il festeggiare.
A maggior ragione, la variante dopo che fossero uscite non si giustifica né nel quadro della consecutio temporum (il trapassato presuppone un avvenimento passato intermedio, che qui non c’è) né nel quadro del periodo ipotetico.
Neanche il condizionale passato, infine, può essere giustificato, perché l’evento dell’uscire non è condizionato da niente, né può configurarsi come futuro nel passato, visto che precede quello da cui dipende, che è presente (cambierebbe).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei un ragguaglio circa il parallelo tra l’indicativo presente e il condizione presente.
Ai fini della consecutio, apprendo, i due tempi si comportano allo stesso modo (anche quando vanno a formare sintagmi e locuzioni).
Penso che = penserei che
Può darsi che = potrebbe darsi che
Sono sicura che = sarei sicura che
Mi domando se tutti i verbi che attuano le secondarie introdotte dall’indicativo potrebbero essere selezionati, a prescindere, anche per la forma omologa al condizionale:
a) Suppongo/Supporrei che ci voglia un bel po’ di coraggio
b) Immagino/Immaginerei che potrebbe essere dura
c) Ho paura che/Avrei paura che non ci riuscirebbe.
Inoltre, in questi esempi rappresentativi, il congiuntivo e il condizionale sono uguali (o comunque molto simili) sul versante semantico?
Il condizionale, nella secondaria, mi sembrerebbe a suo agio quando vi fosse una sorta di protasi sottintesa:
d) Immagino/Immaginerei che potrebbe (se se ne verificasse il caso) essere dura.
Se quest’ultimo appunto coglie nel segno, domando: con una protasi sottintesa sarebbe possibile adottare anche il congiuntivo presente, oppure si perderebbe l’accenno alla protasi?
e) Immagino/Immaginerei che possa (se se ne verificasse il caso) essere dura.
RISPOSTA:
La risposta alla prima domanda è sì: una completiva retta da un condizionale presente si comporta come quella retta da un indicativo presente. Per quanto riguarda il modo della completiva, il congiuntivo è tendenzialmente identico all’indicativo dal punto di vista semantico, ma è preferibile in contesti formali (quindi immagino/Immaginerei che possa… = immagino/Immaginerei che può…). Il condizionale aggiunge il senso della condizionalità, quindi è collegato per forza a una condizione, espressa o non espressa, come suggerisce lei nella frase d). Il congiuntivo non esclude che ci sia una condizione, come non lo esclude l’indicativo. Se la condizione non è espressa, però, difficilmente sarà ipotizzata; se, invece, è espressa, i parlanti tenderanno a costruirla con l’indicativo presente se il congiuntivo della completiva è presente, sul modello del periodo ipotetico del primo tipo: “Immagino/Immaginerei che possa essere dura se se ne verifica il caso”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella FAQ “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, a proposito della frase “Vorrei un’auto che avesse/abbia il cambio automatico” è stato detto che il congiuntivo imperfetto in una proposizione relativa viene giudicato valido solo in riferimento a un’azione/condizione passata. Ma il congiuntivo imperfetto non potrebbe essere interpretato in chiave ipotetica, veicolando non tanto il passato quanto un grado di probabilità del verificarsi dell’evento inferiore a quello che sarebbe stato determinato dal congiuntivo presente?
Congiuntivo imperfetto = meno probabile; congiuntivo presente = più probabile.
Come avviene, grosso modo, nelle subordinate condizionali costruite con qualora, nel caso che.
“Nel caso piovesse / piova, resto a casa”; “Qualora non potessi / possa uscire per la pioggia, resterei a casa”.
Onestamente, sovente ho scritto o detto “In Italia servirebbe un governo che aiutasse [nel presente e nel futuro, nda] i giovani”.
“Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino”.
“Si potrebbe studiare una soluzione che desse risalto a tutti i problemi finora discussi”.
Non ho mai collegato l’imperfetto al passato, ma, come spiegato, ho attribuito alla subordinata un taglio – mi verrebbe da dire – relativo-ipotetico.
Ho sempre sbagliato?
RISPOSTA:
Come scritto nella FAQ “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo, nella costruzione della relativa vorrei X che agisce il modello della completiva vorrei che X. La preferenza sempre più marcata per il congiuntivo imperfetto in quest’ultimo tipo di proposizione in dipendenza dal condizionale (anche di verbi non di desiderio, opportunità, necessità) si trasmette anche all’altro tipo (la relativa), senza, però, che ci sia una ragione sintattica per questo. Si noti che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella completiva è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico, nel quale il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto (vorrei che tu fossi < vorrei se tu fossi; mi aspetterei che tu venissi < mi aspetterei se tu venissi). Se consideriamo questi passaggi, è prevedibile che il senso ipotetico rimanga percepibile nella completiva e nella relativa dipendente da un condizionale. Dobbiamo, però, rilevare che nella completiva e nella relativa l’ipoteticità dipende non da ragioni sintattiche, ma di analogia: il congiuntivo imperfetto, infatti, non veicola in astratto una sfumatura semantica particolare, ma si carica di questa sfumatura quando è inserito nello schema del periodo ipotetico. La proposizione completiva e quella relativa, pertanto, dovrebbero essere estranee a questo significato.
Insomma “Guarderei volentieri un film che abbia come protagonista Al Pacino” è la forma attesa per la relativa al presente; “Guarderei volentieri un film che avesse come protagonista Al Pacino” è una forma che ricalca il periodo ipotetico del secondo tipo, ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indica che la qualità del film (avere come protagonista Al Pacino) riguarda il passato (e, al pari della frase della FAQ citata, è un po’ bizzarra, perché la qualità passata non può che permanere nel presente). A riprova di questa ricostruzione, osserviamo che cosa succede se sostituiamo l’indicativo al congiuntivo nella proposizione relativa: guarderei un film che abbia come protagonista… è del tutto equivalente (ma più formale) a guarderei un film che ha come protagonista…; guarderei un film che avesse come protagonista… è equivalente a guarderei un film che aveva come protagonista…
Non mi spingerei fino a definire sbagliato il congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa retta da un condizionale: vero è, infatti, che il modello del periodo ipotetico è forte e che molti parlanti attribuiscono all’imperfetto, per via di questo modello, un maggiore grado di ipoteticità rispetto al presente. Dopo tutto, la lingua è fatta di percezione: non ci sono strutture obbligate per natura, ma soltanto strutture alle quali gruppi di parlanti assegnano concordemente gli stessi significati. Finché si potrà scegliere tra il presente e l’imperfetto (è possibile, infatti, che in futuro l’imperfetto diventi la forma dominante), però, propenderei ancora per il presente; oltre a essere la forma sintatticamente attesa, si noti, il presente evita l’ambiguità tra guarderei un film che avesse (= ‘eventualmente ha’) e guarderei un film che avesse (= ‘aveva’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«Se ci fosse stato qualcuno che:
1) mi avesse parlato
2) mi avrebbe parlato
3) mi parlasse
4) mi parlava
di te, avrei ascoltato ogni sua parola».
Vorrei sapere se le mia disamina sui quattro casi della relativa dipendente dalla protasi sia calzante:
a) tutte e quatto le soluzioni sono possibili;
b) la soluzione numero 2 indica posteriorità rispetto alla protasi;
c) le soluzioni numero 3 e numero 4, invece, sono contemporanee all’azione della protasi; il congiuntivo risulta più formale dell’indicativo (differenza di tipo diafasico);
d) la soluzione numero 1 può indicare anteriorità rispetto alla protasi, ma anche un’eventualità improbabile; da questo punto di vista, l’azione espressa con questo tempo verbale non è necessariamente anteriore alla protasi («Se ci fosse stato qualcuno che (l’indomani) mi avesse parlato di te, avrei ascoltato ogni sua parola»).
RISPOSTA:
La proposizione relativa è di norma autonoma rispetto alla consecutio temporum; questa proposizione, quindi, può essere costruita con una varietà di modi e tempi non strettamente legati alla necessità di esprimere l’anteriorità , la contemporaneità, la posteriorità rispetto all’evento della reggente (anche se spesso la forma verbale scelta coincide con quella che sarebbe stata scelta nel quadro della consecutio temporum). Nel caso specifico, inoltre, bisogna ricordare che la dipendenza da una proposizione ipotetica al congiuntivo attrae la relativa nell’orbita dell’ipotesi, e questo sfavorisce fortemente il condizionale passato. Tale forma, per la verità , è sconsigliata anche per ragioni di logica. La posteriorità dell’evento della relativa rispetto a quello della reggente è altamente improbabile: se ieri ci fosse stato qualcuno che l’indomani mi avrebbe parlato di te…; risulta una formulazione cervellotica, difficilmente davvero realizzabile da un parlante.
Ancora, la proposizione reggente qui rappresenta una formulazione allargata, presentativa, di un unico concetto esprimibile con una sola proposizione: se ci fosse stato qualcuno che mi avesse parlato; se qualcuno mi avesse parlato. La forma verbale più attesa è quindi, il congiuntivo trapassato, che rispecchia quello della reggente ipotetica. Il congiuntivo imperfetto è possibile perchè indica un evento passato e viene a coincidere con il tempo della contemporaneità nel passato. L’indicativo imperfetto è anche possibile, come alternativa meno formale del congiuntivo imperfetto (parlava= parlasse), nel quale, però, è anche presente il senso modale (parlava=avesse parlato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Autoimporsi, autoproclamarsi, solo per citare alcuni dei molti verbi costituiti dal prefisso auto- e costruiti con il clitico -si, non rappresentano un mero pleonasmo? Le forme intransitive pronominali o riflessive, a seconda dei casi, non sono sufficienti per esprimere un concetto che, con il prefisso auto-, si intensifica, senza, a mio giudizio, aggiungere niente dal punto di vista semantico?
1) Il politico esposto al pubblico ludibrio, si (auto)impose un esilio ad altre latitudini.
2) Pur avendo fallito nella sua ultima prestazione agonistica, l’ex campione si (auto)proclamò il migliore di tutti i tempi.
Seconda metà dell’interrogativo.
La funzione sostantivale di parole che abbiano come suffiso -ile o -ole, oppure -arsi, -ersi ecc. è sempre possibile, anche quando non vi sia una chiara legittimazione d’uso da parte dei dizionari della lingua italiana?
Esempi:
“Siamo ai limiti dell’invivibile, dell’inconsapevole, dell’irragionevole”, “Ho pensato tutto il pensabile”, “Viviamo nella società del mutevole”; “Il disgregarsi delle coste è un fenomeno geologico”, “Il tuo affannarti non porterà a niente di buono”, e così via.
RISPOSTA:
Verbi come autoproclamarsi presentano un rafforzamento del concetto più che un pleonasmo interno. Dal punto di vista del punto di origine dell’azione proclamarsi = autoproclamarsi, ma il prefissoide (prefisso con un chiaro significato lessicale) auto- sottolinea che è il soggetto a prendere l’iniziativa di compiere l’azione. In autoproclamarsi, quindi, è più evidente l’autonomia del soggetto nel processo che porta a compiere l’azione, come se fosse ‘proclamarsi per propria iniziativa’. Non si può dire che in proclamarsi questa autonomia sia esclusa, ma semplicemente non è segnalata.
Tutte le parti del discorso possono essere sostantivate (a prescindere dalla loro forma) mediante l’inserimento dell’articolo; i dizionari riportano soltanto i casi più comuni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non avendo trovato sui vari dizionari a mia disposizione una spiegazione che mi abbia convinto pienamente, chiedo aiuto per poter dominare i termini metafisica e metafisico in modo appropriato sia sul piano filosofico che su quello del parlare comune. L’idea che mi sono fatto per metafisica è questa: ‘ricerca di ciò che va all’essenza di un problema, di ciò che deve assolutamente essere presente affinché la cosa considerata sia, esista’. In definitiva metafisico sarebbe sinonimo di necessario. Es.: calciatore: atletico e non biondo. Quest’ultimo dovrebbe rappresentare un dato contingente. Questo per quanto riguarda l’aspetto filosofico. Per quanto riguarda il parlar comune: ‘discorso astratto, poco concreto.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda il significato comune la sua proposta è in linea con quello che scrivono i vocabolari. Il significato proprio, invece, è un po’ distante da quello che lei ipotizza, sebbene ‘necessario’ rientri tra le qualità proprie del metafisico. La metafisica è l’ambito del reale che non si può percepire con i sensi, quindi è immutabile, certo e, appunto, necessario. Se la realtà fisica è il regno della mutevolezza, dell’instabilità, della varietà, la realtà metafisica è lo sfondo assoluto che rende possibili le qualità della realtà fisica. Il suo esempio del calciatore, quindi, non ha niente di metafisico, perché sia l’essere atletico sia l’essere biondo sono qualità fisiche, fenomeni. Problemi metafisici sono la natura dell’essere, l’esistenza e la natura di Dio, lo scopo della vita, l’immortalità dell’anima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere quali di queste espressioni, miranti ad esprimere l’intenzione di valutare una situazione, sono corrette:
1) “Assumere (far propria) una angolatura, un angolo visuale, una prospettiva”.
2) “Porsi in una certa angolatura, angolo visuale o prospettiva”.
3) “Considerare la cosa da un certo angolo visuale, da una certa angolatura, da una certa prospettiva”.
In definitiva, un angolo visuale, una angolatura o prospettiva si assumono? In esse/o ci si pone? Da esse/o si osserva? (il che ovviamente presuppone che ci si ponga).
RISPOSTA:
Il problema non è semantico né sintattico, ma d’uso. Nella lingua, infatti, alcuni blocchi di parole si cristallizzano e, con il tempo, diventano persino quasi immodificabili (e prendono il nome di collocazioni). Si pensi a pioggia torrenziale, scorrere l’indice, profondamente ingiusto. Il nome angolatura con il significato di ‘punto di vista’ di solito è usato nell’espressione considerare / esaminare / guardare / osservare / valutare (qualcosa) da una (certa) angolatura; qualsiasi altra espressione suona insolita, a prescindere dalla legittimità semantica e dalla correttezza sintattica. Assumere un’angolatura e porsi in un’angolatura, per esempio, sono semanticamente possibili e sintatticamente corrette, ma mentre la prima è effettivamente usata, per quanto non frequentemente (la ricerca con Google restituisce circa 1.600 risultati, che è un numero piuttosto basso), la seconda è del tutto ignota all’uso. Per angolo visuale valgono le stesse restrizioni di angolatura. Anche prospettiva predilige da una (certa) prospettiva; rispetto alle altre parole qui considerate, però, è certamente quella più comune e quindi ammette più facilmente la composizione con parole diverse: assumere una prospettiva, infatti, restituisce circa 230.000 occorrenze nella ricerca con Google, porsi in una certa prospettiva circa 130.000.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se, quando il noi non è un soggetto logico, bensì un soggetto e vero e proprio, anche se sottinteso, il si impersonale è sempre possibile.
Ad esempio:
a) (Le mie amiche ed io = noi) quando si era (= eravamo) giovani, si ballava (= ballavamo) tutte le canzoni dell’estate.
Suppongo che si potrebbe optare per il passivante, in quanto il verbo è transitivo e l’oggetto è espresso, ma
b) “Quando si era giovani si ballavano tutte le canzoni dell’estate” mi sembrerebbe una generalizzazione quasi spersonalizzante.
Oppure:
c) Chiamami al telefono, stasera, così si fa (noi due) due chiacchiere.
Sarebbe possibile, pure qui, se non vado errata, la costruzione passivante, ma non si verrebbe a creare la stessa situazione succitata?
d) Chiamami al telefono, stasera, così si fanno due chiacchiere.
e) (Noi ragazze) l’anno scorso si sarebbe potute andare (= saremmo potute andare) all’estero.
Benché presiedute da differenti contesti semantici, tutte le frasi sopra riportate sarebbero conformi alla grammatica?
RISPOSTA:
Tutte le costruzioni da lei proposte sono corrette (il tipo noi si è è oggi tipico del toscano, ma la sua presenza nella tradizione letteraria lo rende familiare a tutta l’Italia) e sintatticamente equivalenti. L’esplicitazione del soggetto mitiga l’effetto di spersonalizzazione della costruzione impersonale; ricordiamo, però, che la costruzione impersonale serve proprio a non esplicitare il soggetto: se, quindi, non è necessario nascondere il soggetto si può optare per la costruzione del tutto personale (ad esempio “Le mie amiche e io quando eravamo giovani ballavamo tutte le canzoni dell’estate”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase, ponendo che tutto il suo contenuto si sviluppi nel passato rispetto al momento in cui la frase viene espressa:
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avrebbero detto”.
Quel mi avrebbe riferito è un futuro nel passato rispetto al mi disse, essendo l’espressione resa con il condizionale passato. Quindi, fin qui, tutto bene. Però quel gli avrebbero detto dovrebbe, a sua volta, fungere da futuro nel passato rispetto alla frase da cui dipende (mi avrebbe riferito) ma non può essere così perché il dire è anteriore al riferire (prima gli dicono e poi lui riferisce). Mi è capitato, tempo addietro, di sentire alla TV un noto linguista, il quale, se ho capito bene, sosteneva che, in casi come questi, entrambi i condizionali passati dipendono dal mi disse iniziale. Se così fosse, si spiegherebbe ogni cosa, ma mi resta qualche dubbio su questa dipendenza. Si tratterebbe di una eccezione?
RISPOSTA:
In generale la proposizione relativa è quella più autonoma rispetto alla consecutio temporum, quindi tende a prendere il tempo del verbo non in base al rapporto temporale con quello della reggente, ma in base al momento in cui avviene l’evento descritto in essa: passato, presente o futuro. Nella frase in questione, però, la subordinazione rispetto a una subordinata attrae anche la relativa nella consecutio, senza, peraltro, vincolarla obbligatoriamente. La frase ammette, così, una costruzione assoluta e una coerente con la consecutio. Quest’ultima, inoltre, può prendere due forme, una più rigorosa e una meno rigorosa, ma più semplice.
La costruzione assoluta ammette diversi tempi dell’indicativo, ognuno dei quali posiziona l’evento del dire in un momento diverso del tempo:
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avevano detto” = l’evento è anteriore rispetto a un altro evento passato, inevitabilmente identificato con disse;
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli diranno / avranno detto” = l’evento è futuro, eventualmente con la sfumatura della anteriorità rispetto al momento, implicito, in cui effettivamente avverrà il passaggio di informazioni al parlante;
“Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli dicevano” = l’evento è abituale nel passato.
Per quanto riguarda le forme coerenti con la consecutio, quella più rigorosa rappresenta l’evento del dire come anteriore a quello del riferire. Per fare questo, usa il tempo richiesto per esprimere l’anteriorità rispetto al passato (perché il condizionale passato è, ai fini sintattici, un tempo passato, per quanto semanticamente si proietti nel futuro), il congiuntivo trapassato: “Mi disse che mi avrebbe riferito quello che gli avessero detto”. Il congiuntivo trapassato porta con sé una certa sfumatura di ipoteticità, coerente con l’incertezza necessariamente associata a un evento precedente rispetto a uno successivo rispetto a uno passato.
La forma meno rigorosa, ma più semplice, della frase è quella da lei proposta, con i due condizionali passati, che descrive gli eventi del riferire e del dire ugualmente come successivi rispetto a disse e lascia che sia la logica a determinare quale dei due avvenga prima dell’altro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sarei grata se mi esponeste la vostra opinione circa la correttezza o meno di questa frase: “Mi ha detto che mi avrebbe relazionato su ciò che Mario aveva fatto, ma non avrebbe dovuto fare”. È possibile anche dire semplicemente “su ciò che Mario, in passato, non avrebbe dovuto fare”?
RISPOSTA:
La frase è corretta. Si noti che il primo condizionale passato (avrebbe relazionato) ha la funzione di futuro nel passato, cioè serve a posizionare l’evento in un momento successivo rispetto a un altro passato, che è quello della proposizione reggente (ha detto); il secondo condizionale passato, invece (avrebbe dovuto), invece, ha la funzione di esprimere una condizione passata, cioè una possibilità temporalmente sullo stesso piano dell’evento coordinato (aveva fatto).
La costruzione alternativa da lei proposta è corretta, ma non ha lo stesso significato della prima versione; manca, infatti, l’esplicitazione che effettivamente Mario ha fatto in passato quello che non avrebbe dovuto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non ho potuto informarla, come promesso, sulla questione”.
Mi sono trovata a scrivere questa frase in occasione di una lettera formale.
Quel come promesso avrebbe dovuto (e voluto) conferire al messaggio, più o meno, questo significato: ‘A differenza di quanto le avevo promesso…’.
Subito dopo aver spedito la missiva, sono stata sopraffatta da un dubbio, prettamente grammaticale, dato che, a livello logico, non sono riuscita a scorgere altri significati possibili: può darsi che, a livello sintattico, abbia involontariamente detto il contrario: ‘Le avevo promesso che non l’avrei informata sulla questione, e infatti è così’.
Ripeto: questa seconda interpretazione è fuori di ogni logica, ma mi domando che cosa dice la sintassi al riguardo.
E se avessi scritto “Come promesso, non ho potuto informarla sulla questione”, sarebbe cambiato qualcosa?
È evidente che con una parziale modifica del sintagma si sarebbe semplificato tutto e ogni incertezza sarebbe stata fugata (contrariamente a quanto promesso…), ma tant’è.
RISPOSTA:
Il paragone dovrebbe in astratto valere in rapporto a ciò che è esplicitato, quindi il senso immediato della frase dovrebbe essere quello che lei non voleva esprimere. In una frase negativa, però, qualsiasi paragone risulta in pratica inevitabilmente ambiguo, perché il ricevente è facilmente indotto a interpretarlo in rapporto alla versione implicita dell’evento (quella positiva). Tanto più in un caso come questo, in cui il senso immediato è piuttosto bizzarro (difficilmente si promette di non poter fare una cosa). È il contesto, quindi, che consente di comprendere il messaggio senza problemi: come spesso avviene, cioè, la testualità, ovvero l’immersione degli enunciati in un contesto comunicativo autentico, consente di superare i limiti espressivi della sintassi.
Con qualche attenzione, comunque, è possibile ridurre al minimo (ma mai a zero) il grado di ambiguità di uno scritto: le soluzioni che lei propone funzionano a questo scopo, ma in direzione opposta. Come promesso, non ho potuto informarla sfrutta lo spostamento del sintagma all’inizio della frase, che trasforma l’inciso, sintatticamente autonomo, in un’espansione frasale, che viene associata automaticamente a ciò che è esplicitato. La frase così composta significa senz’altro che lo scrivente aveva promesso che non avrebbe potuto informare la persona e così è avvenuto. Al contrario, contrariamente a quanto promesso esplicita il valore negativo del paragone, che quindi nega la negazione e chiarisce che il riferimento è alla versione positiva, implicita, dell’evento, cioè che lo scrivente aveva promesso che avrebbe potuto informare la persona ma questo non è avvenuto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vedendo un film, mi sono imbattuta in questa frase: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre suonavo il piano”.
Questa frase mi sembra sintatticamente scorretta, almeno per quanto riguarda quel suonavo. Io direi, a seconda che voglia marcare o meno il concetto di ipoteticità: “Mio padre mi disse che avrei incontrato l’uomo della mia vita mentre (nel momento in cui) avrei suonato (oppure avessi suonato) il piano”. Queste due soluzioni da me proposte sono entrambe corrette?
RISPOSTA:
Le sue alternative sono corrette, così come la versione originaria della frase. L’indicativo imperfetto è una forma verbale molto versatile: può, per esempio, riferirsi al futuro sostituendo a tutti gli effetti il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato (ovvero di evento successivo a un altro evento passato). Si tratta di una scelta meno formale del condizionale passato, ma del tutto accettabile nel parlato non sorvegliato, come sembra essere quello della battuta del film.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate, che recitano…” si capisce che il recitare riguarda le convinzioni limitanti e non le memorie emozionali?
RISPOSTA:
Al contrario: nella frase così composta il pronome che rimanda alle memorie emozionali, che, tra i possibili referenti, è il più vicino e nello stesso tempo il più esplicito. Se, invece, il pronome deve rimandare alle convinzioni limitanti la frase deve essere riformulata con un riferimento più esplicito, per esempio: “ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate; convinzioni limitanti che recitano…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“La strada è stata chiusa al traffico”. Al traffico è complemento di termine o di fine o scopo?
RISPOSTA:
Questo è un caso limite di complemento di termine, perché il traffico è il destinatario di un oggetto trasferito dal soggetto. Insomma, chiudere la strada al traffico funziona come dare la chiusura della strada al traffico, quindi, applicando la trasformazione alla sua frase, la chiusura della strada è stata data al traffico. Si noti che l’oggetto trasferito non è la strada, bensì la chiusura.
Questa analisi non è l’unica possibile: si potrebbe, infatti, arguire che al traffico sia complemento di svantaggio, visto che il traffico subisce un “danno” dalla chiusura. Escludo, invece, che sia complemento di fine, visto che il traffico rappresenta non il fine, bensì, come detto, il destinatario della chiusura.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come faccio a capire quando usare la virgola prima di e congiunzione senza alterare il senso della frase? E per quanto riguarda la congiunzione disgiuntiva o?
La virgola va sempre utilizzata prima del se?
La virgola va utilizzata quando si usa il gerundio? O è facoltativa?
Quando si utilizzano quindi, perciò, si utilizza una virgola o se ne utilizzano due?
Quando si utilizzano espressioni tipo vale a dire oppure anche congiunzioni come ovvero, la virgola viene usata quasi sempre?
RISPOSTA:
Innanzitutto le consiglio di consultare la sezione Lo sapevate che? del sito di DICO (http://www.dico.unime.it/category/lo-sapevate-che/), che contiene diversi interventi sull’uso della punteggiatura.
Le sue domande non possono essere risolte in poche parole, perché la punteggiatura è legata a ragioni diverse, grammaticali, testuali, convenzionali, stilistiche. Come conseguenza, i casi di uso obbligato sono pochissimi, e quasi ogni scelta produce un cambiamento di significato della frase.
Per quanto riguarda la virgola prima della e, essa è fortemente richiesta quando i due pezzi di frase uniti dalla congiunzione non sono sullo stesso piano; quasi sempre, però, è proprio la virgola che permette di stabilire se i due pezzi sono o non sono sullo stesso piano: il suo inserimento, pertanto, è una scelta dello scrivente legata al significato che vuole dare alla frase, non un obbligo. Mettiamo a confronto le seguenti frasi: “Ho comprato le mele e sono tornato a casa” / “Ho comprato le mele, e sono tornato a casa”. Sono entrambe corrette, ma la virgola produce un cambiamento di significato: nella prima frase le due azioni sono sullo stesso piano, come se l’emittente dicesse ‘ho fatto l’azione 1 e l’azione 2’, senza gerarchizzazione tra le due; nella seconda frase la seconda azione è rappresentata come separata dalla prima, come se l’emittente dicesse ‘ho fatto l’azione 1, dopodiché (ma la relazione logica potrebbe anche essere di consecuzione: di conseguenza) ho fatto l’azione 2′. In una frase isolata come quella usata qui la differenza può sembrare trascurabile, ma se inseriamo la frase in un testo si noterà l’importanza del dettaglio:
“- Che cosa hai fatto ieri?
– Ho comprato le mele e sono tornato a casa (= ‘ho fatto due cose’)”.
“- Che cosa hai fatto ieri?
– Ho comprato le mele, e sono tornato a casa (= ‘ho fatto una cosa sola’)”.
La differenza è talmente importante che la prima risposta potrebbe essere addirittura considerata incoerente con la domanda. Se qualcuno mi chiede che cosa ho fatto, infatti, di certo non elencherò tra le cose fatte anche il tornare a casa; al contrario, se il tornare a casa serve a concludere l’elenco (come se dicessi e non ho fatto altro), allora ha senso che io lo inserisca nella risposta.
La stessa spiegazione data per la e vale per la o.
Con se la virgola rappresenta la condizione e la conseguenza come in qualche modo autonome l’una dall’altra. Prendiamo una frase come esempio: “Vieni se vuoi” / “Vieni, se vuoi”. La prima frase mette tutto il peso informativo sulla condizione della volontà del ricevente, quindi subordina fortemente l’informazione relativa all’evento del venire a quella relativa alla volontà; nella seconda le due informazioni sono autonome, come se si dicesse ‘Vieni. Sempre che tu voglia’. Come si vede da quest’ultima parafrasi, non è escluso neanche il punto fermo tra la proposizione reggente e la condizionale, per sottolineare ulteriormente la separazione tra le due informazioni.
Quanto detto per la proposizione condizionale vale anche per le proposizioni con il gerundio.
Per la virgola (o il punto e virgola) con quindi, perciò, infatti, tuttavia ecc. rimando a questo articolo. Ovvero e vale a dire come segnali discorsivi si comportano come le parole elencate in precedenza (quindi, perciò…), tranne per il fatto che possono apparire soltanto all’inizio della proposizione o della frase, e non in inciso (ovvero tra due virgole, trattini o parentesi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se, rivolgendosi ad un uomo, ci si può esprimere indifferentemente in uno dei due modi che andrò ad esporre oppure se uno solo dei due è corretto: “Mi dispiace molto di sentirla così abbattuto / abbattuta (nel senso di ‘giù di morale’)”.
RISPOSTA:
Per la risposta a questa domanda rimando alle FAQ “Lei”, “voi”, “loro” e “La avrei chiamata” dell’archivio di DICO. L’accordo con il pronome di cortesia riferito a un uomo è chiaramente frutto di un compromesso tra la grammatica e la logica: la grammatica richiederebbe che gli aggettivi concordassero con il pronome, quindi fossero femminili, mentre la logica impedisce di riferire aggettivi femminili a referenti maschili. Su questo punto vince la logica (quindi sentirla abbattuto). Sull’accordo del participio passato di un verbo in una forma composta preceduto dal complemento oggetto pronominale, invece, vince la grammatica, quindi “Signor Bianchi, l‘ho vista al bar ieri”. La stessa cosa vale con la forma implicita: “Mi dispiace di averla disturbata“.
Questo compromesso può produrre frasi con un accordo altalenante, eppure da considerarsi corrette, come “Signor Bianchi, l’ho vista stanco ieri”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non capisco se, in queste frasi, quello indicato in corsivo sia un complemento di modo o predicativo. C’è un “trucchetto” per imparare a distinguerlo senza avere dubbi?
1. “FRANCESCO CORRE VELOCE VERSO LA PALESTRA” (qui direi che si tratta di un COMPL. DI MODO perché posso trasformarlo nell’avverbio velocemente; ma sarebbe errato del tutto considerarlo compl. predicativo?).
2. SE NE ANDÒ ZITTO ZITTO A CASA.
RISPOSTA:
Per distinguere l’aggettivo con funzione predicativa da quello con funzione avverbiale bisogna considerare se esso descrive uno stato o una qualità del soggetto (predicativo) oppure un modo di realizzazione dell’azione (avverbiale). Spesso questa distinzione è abbastanza netta, ma ci possono essere casi dubbi. Nei suoi due esempi, veloce è decisamente un aggettivo avverbiale (quindi, dal punto di vista dell’analisi logica, un complemento di modo), perché la qualità della velocità si riferisce all’azione del correre, non al soggetto; zitto zitto è direttamente una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente, quindi è senz’altro un complemento di modo. Diversamente, in una frase come “Se ne andò zitto a casa” zitto sarebbe un aggettivo predicativo (quindi un complemento predicativo), perché descriverebbe non il modo di andare, ma una qualità temporanea del soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sul verbo da scegliere per la risposta n.14 del seguente esercizio. Nel modello di
risposta hanno scritto ho capito come l’unica risposta giusta, mentre per me potrebbe andare bene anche capisco‘. Secondo me cambia un po’ la sfumatura, ma non lo considererei un errore.
Ma adesso (14. capire)______________________: i nonni hanno sempre ragione.
RISPOSTA:
Il passato prossimo ho capito sottolinea che il processo mentale della comprensione è già avvenuto e adesso il soggetto si trova nella condizione di possedere la conoscenza risultante da quel processo. Il presente capisco, invece, rappresenta il processo come ancora in corso; indica, cioè, che il soggetto sta sviluppando la comprensione mentre ne parla. Entrambe le rappresentazioni sono possibili e adatte al contesto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere se è corretta l’ espressione lesinare sul denaro o sul centesimo. Alcuni sostengono che è corretto dire lesinare il denaro o il centesimo.
RISPOSTA:
Il verbo lesinare può essere transitivo o intransitivo. In questo secondo caso richiede la preposizione su. Quando è transitivo significa ‘spendere con estrema parsimonia’; quando è intransitivo significa ‘risparmiare’. Sebbene i due usi siano vicini, pertanto, con un oggetto come denaro il verbo si costruisce transitivamente: lesinare il denaro = ‘spendere con parsimonia il denaro’; con un oggetto come spese, invece, si costruisce intransitivamente: lesinare sulle spese = ‘risparmiare sulle spese’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire “Non capisco il perché Mario non mi abbia scritto”, oppure si dovrebbe eliminare il?
Dopo il condizionale presente vorrei nella forma negativa si usa il congiuntivo presente o imperfetto? Non vorrei che tu fossi o Non vorrei che tu sia?
RISPOSTA:
Il perché Mario… non è corretto, perché in questo caso perché è una congiunzione (secondo alcuni un avverbio) nel pieno delle sue funzioni e non c’è ragione di sostantivarlo. La forma corretta è, pertanto, non capisco perché Mario… Si può, però, costruire la frase così: “Non capisco il perché della mancata risposta di Mario”. In questo caso, come si vede, il perché non è una congiunzione (o un avverbio), ma è un nome, equivalente a motivo, infatti non capisco il perché della mancata risposta = non capisco il motivo della mancata risposta.
I verbi di volontà, opportunità, obbligo al condizionale reggono preferibilmente il congiuntivo imperfetto nella proposizione completiva per esprimere la contemporaneità nel presente. Questo vale anche quando non sono preceduti da non, quindi vorrei che tu fossi e non vorrei che tu fossi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“E non lasciamoci ingannare dal fatto che ‘pace fiscale’ e ‘pace sociale’ potrebbero sembrare anche nobili obiettivi; e lo sarebbero, se non fosse che a pagare questi strani tipi di pace populista siano / saranno sempre i cittadini onesti, a vantaggio dei furbetti”.
Qual è la forma giusta del verbo da usare?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette. Il congiuntivo presente può avere la funzione di descrivere eventi futuri, oltre che presenti, sebbene possa risultare ambiguo in alcuni casi, ed è per questo sostituito preferenzialmente dall’indicativo futuro nella lingua d’uso. Questo non è un caso potenzialmente ambiguo, perché l’avverbio sempre chiarisce che l’evento non è realmente futuro, bensì è astorico e proiettato nel futuro. In questo contesto, quindi, il congiuntivo presente è perfettamente trasparente e più formale dell’indicativo. Se mancasse l’avverbio, però, la conclusione sarebbe diversa: siano, infatti, potrebbe essere interpretato come presente astorico (= ‘a pagare sono i cittadini onesti’) o come futuro (= ‘a pagare saranno in questo caso specifico i cittadini onesti’). L’indicativo futuro, che in astratto è la soluzione meno formale, sarebbe, allora, la soluzione preferibile se il senso inteso fosse di futuro; se, al contrario, il senso inteso fosse di presente astorico la soluzione preferibile sarebbe ancora il congiuntivo presente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei mettere sotto la lente questa frase:
“L’incidente è avvenuto ieri alle ore 9 in via Roma. Chiunque fosse sul luogo, è pregato di collaborare con le forze di polizia per fornire dettagli”.
Muovendo dal contesto, il parlante (un giornalista) ha chiaramente usato il congiuntivo imperfetto per riferirsi a un’azione passata (l’equivalente formale, credo, dell’indicativo imperfetto chiunque era).
Secondo me – ma chiedo conferma o smentita a voi – quel congiuntivo, in assoluto, si sarebbe potuto riferire anche ad azione contemporanea o futura, alla stregua di un periodo ipotetico: Chiunque volesse (oggi, domani, ecc.), può/potrebbe… o, per tornare al nostro esempio: Chiunque fosse sul luogo (adesso, non in passato), è pregato di… Mi pare che l’uso fatto del congiuntivo imperfetto dal giornalista sia fuorviante.
Se avessi potuto approntare la sintassi della frase, considerando il messaggio di fondo, avrei fatto questa scelta:
“L’incidente è avvenuto ieri alle ore 9 in via Roma. Chiunque sia stato / fosse stato sul luogo, è pregato di collaborare con le forze di polizia per fornire dettagli”.
RISPOSTA:
La sua analisi grammaticale è corretta, ma la sua conclusione no, perché considera soltanto il singolo sintagma e trascura il piano più importante: quello testuale (che comprende anche quello logico). È, infatti, vero in astratto che chiunque fosse sul luogo può riferirsi a qualunque momento, passato, presente o futuro; in questo contesto particolare, però, non può che riferirsi al momento dell’incidente, sia perché esso è stato appena evocato, sia perché è logico pensare che i presenti siano chiamati a testimoniare sull’incidente, non sui loro spostamenti abituali. Non a caso, lei non ha avuto dubbi nell’interpretare così la frase, e, immagino, sarebbe stata molto sorpresa se il giornalista avesse inteso riferirsi, con questa espressione, al presente o al futuro.
Le sue proposte di correzione non sono, quindi, necessarie e, per quanto non impossibili, peggiorano la frase. Il trapassato è incompatibile con la consecutio temporum (perché non avrebbe senso chiedere l’aiuto di persone che fossero state sul luogo dell’incidente prima che l’incidente avvenisse e non mentre avveniva), quindi può essere interpretato soltanto come forma dell’ipotesi improbabile. Con questo tempo, quindi, il giornalista descriverebbe come improbabile l’eventualità della presenza sul luogo dell’incidente delle persone mentre sta chiedendo a queste stesse persone di farsi avanti e aiutare la polizia. Il passato, infine, cancella la sfumatura continuata dell’imperfetto, risultando un po’ ambiguo. Con l’imperfetto, infatti, non c’è dubbio che la presenza vada interpretata come contemporanea all’incidente; con il passato, invece, la presenza potrebbe anche situarsi in un altro momento. In altre parole, con il passato il giornalista potrebbe intendere che è richiesto l’aiuto di persone che siano state sul luogo in qualunque momento del passato, prima dell’incidente, durante l’incidente, dopo l’incidente, come se l’importante sia non il fatto che abbiano assistito all’incidente, ma il fatto che conoscano il posto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono essere improbabili, bensì quelli DIFFERITI”. È corretto usare il termine differito in questo contesto? So che significa ‘ritardato’ e, in questo senso, sembrerebbe quindi essere corretto, ma, Istintivamente, non mi convince del tutto.
RISPOSTA:
Il suo dubbio dipende probabilmente dalla presenza, nel verbo differire, quindi anche nel suo participio passato, del tratto [+volontario]. Un evento differito, infatti, è spostato in avanti nel tempo per volontà e per l’intervento attivo di qualcuno, non per semplice accidente. La frase, invece, sembra riguardare effetti futuri imprevedibili, quindi necessariamente accidentali. Se gli effetti sono effettivamente accidentali, come sembra dalla frase, potrebbe sostituire differiti con futuri, a venire o costrutti più complessi; se, al contrario, la frase riguarda effetti rimandati dall’intervento di qualcuno può lasciare anche differiti (probabilmente il dettaglio della volontarietà emergerà più chiaramente dal contesto della frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Parlando con uno straniero mi è venuto un dubbio. È meglio dire ero interessato a questa cosa o me ne ero interessato? Gli ho detto che erano due espressioni equivalenti invece ora mi rendo conto che hanno un significato diverso. Lui intendeva dire che una cosa aveva destato interesse in lui per un po’, ma voleva sapere come dirlo senza indicare quella cosa specifica.
Il mio dubbio è questo: posso dire ero interessato a questa cosa senza un pronome indiretto o devo dire
mi interessava questa cosa? Mi ha chiesto se si può usare il ne al posto di questa cosa, ma così mi sembra che cambi il senso. Leggendo sulla Treccani sembra che sia giusto solo interessarsi a, ma a me le frasi ero interessato a lui e mi sono interessata a lui sembrano diverse.
RISPOSTA:
Nella sua domanda si sovrappongono due questioni diverse: da una parte la differenza tra il verbo interessarsi e l’espressione essere interessato; dall’altra la possibilità di pronominalizzare (ovvero sostituire con un pronome) il sintagma proposizionale a questa cosa con ne.
Per quanto riguarda la prima questione, interessarsi è quasi un sinonimo di essere interessato; contiene, però, una sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto non riscontrabile in essere interessato. Con interessarsi, cioè, si descrive l’interesse come attivo, non statico; per questo motivo interessarsi significa anche ‘prendersi cura, occuparsi’, e persino ‘intervenire per la risoluzione di un problema’.
Oltre alla differenza semantica, tra le due forme c’è una differenza sintattica, perché interessarsi richiede la preposizione a quando è sinonimo di essere interessato, la preposizione di quando significa ‘prendersi cura, occuparsi’ o ‘provvedere per la risoluzione di un problema’; essere interessato, invece, richiede sempre la preposizione a, mai di. Come conseguenza, essere interessato a una cosa è molto simile a interessarsi a una cosa; interessarsi di una cosa, invece, significa tutt’altro, ovvero ‘occuparsi di una cosa’, oppure ‘provvedere’ (nel caso in cui la cosa sia una problema da risolvere).
A rigore, un complemento di termine (come a una cosa) può essere pronominalizzato con gli o le; questi pronomi, però, hanno un chiaro riferimento umano e difficilmente li associamo a oggetti inanimati; in questo caso, inoltre, il complemento di termine non indica una persona a cui viene dato qualcosa, ma soltanto l’oggetto di un interesse (e può essere definito, infatti, complemento oggetto preposizionale), quindi rifiuta a maggior ragione la pronominalizzazione con i pronomi indiretti. Per questo motivo un parlante nativo non direbbe mai esserle interessato (o io le sono interessato), ma preferirà sempre essere interessato a una / quella cosa (e io sono interessato a una / quella cosa). Lo stesso vale per interessarsi: nessun parlante direbbe interessarlesi (o io le mi interesso), ma dirà sempre interessarsi a una / quella cosa (e mi interesso a una / quella cosa).
Diversamente, un complemento di specificazione o partitivo può essere pronominalizzato quasi sempre con ne, per questo è possibile dire interessarsene. Si badi, però, che non è possibile dire *esserne interessato perché significherebbe *essere interessato di una cosa, che non è corretto. Inoltre, interessarsene non significa essere interessato a una cosa, ma ‘occuparsi di una cosa’ oppure ‘provvedere alla risoluzione di un problema’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sono ritrovata a comporre la frase: “Ho semplificato al massimo la questione”. Intendo, con al massimo, ‘il più possibile’. In un secondo momento ho però pensato che se avessi sostituito questa espressione con un’altra, apparentemente antitetica, avrei forse ottenuto lo stesso risultato logico: “Ho semplificato al minimo la questione”, intendendo, con al minimo ‘ai minimi termini’.
A questo punto in me si è creato un grande caos relativo al corretto uso di queste forme.
RISPOSTA:
Non c’è niente di caotico nella questione, che è soltanto in apparenza una contraddizione. La locuzione avverbiale al massimo modifica senza dubbio il verbo (la logica esclude che si possa semplificare una questione fino a renderla grandissima), rafforzandone il significato; la locuzione al minimo, invece, può modificare sia il verbo sia il sintagma nominale la questione. Nel primo caso la frase indica che la semplificazione è stata lieve, quindi la questione è rimasta probabilmente quasi invariata; nel secondo caso la questione è descritta come divenuta minima in seguito alla semplificazione. Volendo modificare il sintagma nominale con la locuzione al minimo, comunque, sarebbe preferibile riformulare la frase così: “Ho semplificato la questione al minimo”.
Abbiamo, quindi, tre possibilità:
“Ho semplificato al massimo la questione”;
“Ho semplificato al minimo la questione”;
“Ho semplificato al minimo la questione” (ovvero “Ho semplificato la questione al minimo“).
Le prime due hanno significato opposto, la terza ha significato molto simile, anche se non identico, alla prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porre una domanda circa l’uso del periodo ipotetico in relazione ad un verbo espresso al passato, per es.: “Disse che sarebbe andato al mare se il tempo fosse stato bello”. Ovviamente non so se l’azione espressa dal periodo ipotetico sia anteriore o posteriore al disse, quindi devo precisare questo rapporto aggiungendo delle espressioni del tipo seguente: in precedenza oppure in seguito.
Mi chiedevo se fosse possibile evitare l’aggiunta di queste espressioni gestendo adeguatamente il periodo ipotetico, per es.: “Disse che, se il tempo fosse stato bello, sarebbe andato al mare” qualora l’azione espressa dal periodo ipotetico sia collocata nel passato rispetto al disse e “Disse che sarebbe andato al mare, se il tempo fosse stato bello” qualora l’azione espressa dal periodo ipotetico sia posteriore rispetto al disse. Infatti esprimendo la protasi subito dopo il disse si è portati ad andare con la mente al passato (se il tempo fosse stato bello in passato); esprimendo invece l’apodosi subito dopo il disse, la mente va al futuro di quel disse (disse che sarebbe andato in futuro).
RISPOSTA:
Di norma la sintassi prescinde da ragioni di rispecchiamento della realtà e segue una logica tutta interna. Esistono, però, costruzioni nelle quali ritroviamo una certa corrispondenza tra la realtà e la sintassi. La proposizione condizionale di un periodo ipotetico, per esempio, è preferibilmente anteposta alla reggente, che esprime la conseguenza, perché evidentemente nella realtà la condizione precede la conseguenza. Almeno nel parlato, inoltre, anche la proposizione causale precede preferibilmente la reggente (infatti nel parlato si fa largo uso della congiunzione siccome, che consente di anticipare la causale), perché il rapporto tra causa ed effetto è simile a quello tra condizione e conseguenza.
Si pensi, inoltre, al cambiamento di significato di una frase formata da proposizioni coordinate con la congiunzione e corrispondente al cambiamento dell’ordine con cui sono sistemate le proposizioni: “Sono caduto e mi sono rotto una gamba” = ‘Sono caduto e, come conseguenza, mi sono rotto una gamba’ / “Mi sono rotto una gamba e sono caduto” = ‘Mi sono rotto una gamba e, come conseguenza, sono caduto’.
Insomma, tendenzialmente quello che viene prima in una frase è interpretato come precedente, la causa o la condizione di ciò che viene dopo. Non è per forza così, si badi: la sintassi rimane fortemente svincolata dal rispecchiamento della realtà. Posso facilmente costruire, per esempio, frasi contrarie al rispecchiamento, come “Sono contento se vieni”, “Sono triste perché non sei venuto”, “Sono caduto dopo essermi rotto la gamba” ecc.
Come si vede dagli esempi, il rispecchiamento della realtà, o iconismo, nella lingua può cambiare i rapporti reciproci tra due elementi, ma non cambia il rapporto tra questi e il resto della frase, nel caso in cui la frase contenga altri elementi. Nel suo caso, lo spostamento della protasi del periodo ipotetico non cambia il rapporto tra il periodo ipotetico e la reggente, che rimane ambiguo tra l’anteriorità e la posteriorità. Va detto, comunque, che in assenza di specificazioni temporali i parlanti risolverebbero l’ambiguità favorendo l’interpretazione posteriore, perché la funzione di futuro nel passato del condizionale passato è oggi dominante rispetto a quella di esprimere la conseguenza irrealistica di un evento che non è avvenuto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice lesionare una cosa o si dice ledere una cosa?
RISPOSTA:
Dipende dalla cosa e da quanto si vuole essere precisi. Lesionare significa ‘danneggiare procurando una lesione’ e può avere come complemento oggetto soltanto cose concrete che possono subire una lesione, ovvero una frattura, come muri, costruzioni, edifici, ma anche ossa e tessuti del corpo, se si intende sottolineare che si siano incrinati o fratturati. Anche ledere significa ‘danneggiare’, ma senza la specificazione della lesione; inoltre si usa raramente con complementi oggetto concreti, che sono perlopiù ossa o organi del corpo. Più frequentemente, invece, questo verbo si usa in riferimento a beni immateriali, come i diritti, la reputazione, la dignità, l’onore, l’interesse, il valore, il benessere, l’orgoglio…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In queste frasi sono giuste le forme che ho usato? Quando ho segnalato due forme qual è la forma giusta?
“Come sai, siamo partite con Carla domenica scorsa, per noi è stata la prima volta nel Sud Italia. Marta era felicissima ma anche preoccupata.
Tutto era perfetto: la citta antica, il mare della costiera. A pranzo mangiavamo sempre panini per non perdere tempo a cena invece sceglievamo ogni sera un ristorante diverso.
La cucina napoleta è saporita, ma a volte un po’ pesante: putroppo una volta Marta si sentiva male, così il giorno dopo ci siamo riposati in albergo. Lì abbiamo conosciuto due ragazzi inglesi. Anche a loro i dintorni e Napoli sono piaciuti molto e hanno detto che era molto emozionante.
La mamma verso mezzogiorno ha cominciato a cucinare e poi ci ha aspettato / aspettava per mangiare tutti insieme. Il pomeriggio era / è stata libera anche lei.
I miei fratellini per pranzo sono tornati a casa per mangiare tutti insieme ma a loro i cannelloni non piacevano / sono piaciuti”.
RISPOSTA:
Le forme sono corrette, tranne si sentiva, che è incoerente rispetto a una volta. Con un avverbio che indica un evento singolo, infatti, non si può usare l’imperfetto, ma bisogna usare il passato prossimo. Probabilmente, inoltre, sono piaciuti dovrebbe essere piacevano, anche se l’imperfetto non è scorretto.
Per quanto riguarda le forme dubbie, l’unica scelta sicuramente corretta è ci ha aspettato, perché si riferisce a un evento unico. In tutti gli altri casi, quelli dubbi e gli altri, si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo, a seconda di come si vuole rappresentare l’evento. Se, cioè, l’evento è visto come iniziato e finito in un momento o in un periodo definito, si userà il passato prossimo; se, invece l’evento è visto come un processo che ha avuto una certa durata indefinita, si userà l’imperfetto. Per esempio, per noi è stata la prima volta nel Sud Italia = la prima volta è vista come un’occasione con un inizio e una fine, che coincidono con l’inizio e la fine del viaggio; per noi era la prima volta nel Sud Italia = la prima volta ha avuto una certa durata, ma non è importante quanto lunga (non è importate, quindi, far coincidere la prima volta con il viaggio). A pranzo mangiavamo sempre = avevamo questa abitudine; A pranzo abbiamo mangiato sempre = dall’inizio alla fine del viaggio abbiamo fatto questa scelta. Anche a loro i dintorni e Napoli sono piaciuti molto = hanno maturato quell’idea in quell’occasione; Anche a loro i dintorni e Napoli piacevano molto = in quel momento avevano quell’idea. E così via.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle seguenti frasi è corretta?
“Domani chiameremo ognuno di noi questo numero”.
“Domani chiamerà ognuno di noi questo numero”.
RISPOSTA:
Il soggetto è ognuno, quindi la forma corretta è chiamerà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le convinzioni limitanti da cancellare sono le seguenti: io sono…, io ho…”. Se, invece, dico: “Vanno cancellate tutte le convinzioni limitanti” non sono obbligato ad elencarle. Giusto?
RISPOSTA:
La sua idea è corretta. Il participio presente seguenti significa letteralmente ‘che seguono’: ci si aspetta, quindi, che effettivamente le convinzioni seguano; l’aggettivo tutte, invece, può anticipare l’elencazione delle convinzioni, rimandare alle convinzioni limitanti che sono state introdotte precedentemente, o riferirsi a tutte le convinzioni in generale, senza richiedere che esse vengano elencate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere quale fra queste due soluzioni è corretta: “Farò del mio meglio perché tu abbia meno problemi POSSIBILE” (con il significato di ‘che è possibile che tu abbia’) oppure POSSIBILI (con il significato di ‘fra quelli che sono possibili in questo caso’).
RISPOSTA:
Nella frase abbiamo un superlativo relativo a cui manca l’articolo determinativo, come è normale nel caso di superlativi di avverbi (“Mario parla meno / più velocemente di tutti”) o, appunto, di nomi. In casi come questi il complemento partitivo è spesso superfluo, perché il superlativo va inteso come universale; tale mancanza, però rende il superlativo formalmente identico a un comparativo: meno problemi, infatti, può ben essere un comparativo di minoranza (ad esempio in meno problemi dell’altra volta). Per ovviare a questo problema si preferisce sottolineare l’universalità del costrutto con l’avverbio possibile, che equivale a ‘in assoluto’. Essendo un avverbio, possibile è invariabile; non è raro, però, che i parlanti lo percepiscano come un aggettivo e quindi lo concordino con il nome, se questo è plurale. Il fraintendimento, per la verità, non provoca ambiguità né produce un significato impossibile, per cui non si può condannare completamente. La forma invariabile, comunque, rimane quella più corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se in italiano è più corretto dire:
“il kit si compone di una macchina e delle capsule”
oppure
“il kit è composto da una macchina e delle capsule”.
Mi è stata contestata la forma adducendo l’esistenza di un complemento oggetto implicito (?).
RISPOSTA:
Immagino che la forma contestata sia la prima. Il problema con questa costruzione è che la forma del verbo comporre con il si passivante richiede obbligatoriamenre la preposizione di, che viene a sommarsi all’articolo indeterminativo plurale delle. Si noti, infatti, che delle capsule è un complemento oggetto al pari di una macchina; in questo caso delle non serve da preposizione, ma assolve la funzione, appunto, di articolo intedeterminativo plurale. La frase dovrebbe pertanto risultare così costruita: “il kit si compone di una macchina e di delle capsule”; opzione da evitare per ovvi motivi. Sarebbe possibile sottintendere la seconda preposizione, come è fatto nel suo esempio, ma la costruzione risultante è straniante, perché non si capisce se delle funzioni da preposizione o da articolo.
Per inciso, definire delle capsule un complemento oggetto implicito è fantasioso: questo complemento oggetto è del tutto esplicito. Sottolineo, inoltre, che la costruzione con di sottinteso, per quanto poco chiara, non si può dire scorretta.
Sostituire si compone con è composta consente di aggirare il problema. Al passivo, il verbo comporre ammette tanto di quando da, quindi, scegliendo da, la seconda preposizione si può sottintendere senza cadere nell’ambiguità di delle.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi questa frase: “Secondo me il problema è male impostato da questo folcloristico personaggio (e dico folcloristico per usare un eufemismo)”.
Ritengo che ci sia qualcosa da ridire su quel dico folcloristico per usare un eufemismo, ovviamente non sul piano del significato pragmatico, bensì su quello della logica espressiva. Sembrerebbe infatti che lo scrivente, spinto dal desiderio, fine a sé stesso, di usare eufemismi, ricorra al termine folcloristico così come sarebbe potuto ricorrere anche ad altri termini, pur di raggiungere la sua finalità: usare eufemismi. Ciò non avrebbe alcun senso, altera il significato della frase che, ovviamente, esprime l’intenzione di stemperare un insulto e non il piacere di usare eufemismi.
Quindi, per accordare il piano pragmatico con quello logico, sarebbe meglio, a mio avviso, dire e uso un eufemismo quando dico folcloristico.
RISPOSTA:
La proposizione finale per usare un eufemismo lascia chiaramente intendere che l’uso dell’eufemismo non sia fine a sé stesso, come lei suggerisce, ma sia a sua volta il mezzo per ottenere uno scopo ulteriore, che è quello di non offendere esplicitamente la persona di cui si sta parlando (facendo, quindi, capire che si intende offenderla).Se così non fosse, non ci sarebbe alcuna ragione di precisare lo scopo dell’uso lessicale.
La sua osservazione si ferma al piano del significato superficiale e trascura il senso che l’espressione assume nel contesto in cui è usata; un senso allusivo, implicato. La sua variante della proposizione, si noti, non sposta di molto la questione; se, infatti, interpretassimo la sua proposizione soltanto dal punto di vista del significato otterremmo una descrizione metalinguistica dell’aggettivo folcloristico, del tutto ingiustificata nel contesto (al pari della proposizione finale). L’unico modo per giustificare la sua precisazione è supporre che essa abbia un secondo fine, che torna a essere quello implicato dalla proposizione finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“…è autorizzato a portare armi del tipo che verrà stabilito dal prefetto”.
La locuzione “portare armi del tipo…” sta ad indicare un solo tipo di armi o più di uno?
Il prefetto deve stabilire un solo tipo di arma o più stando all’analisi linguistica della frase sopra citata?
RISPOSTA:
La frase è costruita in modo da non permettere una risposta univoca. Sebbene del tipo rimandi a un solo tipo, il plurale indeterminato armi contrasta la restrizione apportata dal singolare tipo, perché può riferirsi sia al numero delle armi, che così sarebbe inteso come indeterminato, ma vincolato allo stesso tipo, sia al numero e insieme al tipo delle armi. Ovviamente, armi di tipo diverso di un solo tipo non è un’interpretazione logica, ma questo non obbliga ad assumere come unica interpretazione possibile la prima (un numero indeterminato di armi dello stesso tipo). Le armi, infatti, hanno tipi e sottotipi (ad esempio un tipo di arma come la pistola ha il sottotipo semiautomatico), quindi armi può ben riferirsi ai tipi (pistole, fucili, mitragliatrici…) e del tipo essere usato nel senso di ‘del sottotipo’ (semiautomatico, automatico, a pompa…). Il nome tipo, infatti, è generico e non obbliga a una interpretazione univoca, ma può anche indicare un sottotipo.
Se propendiamo per la prima interpretazione, il prefetto dovrà indicare un solo tipo di arma; potrà, inoltre, scegliere se limitarsi a indicare il tipo senza specificare il sottotipo, oppure indicare sia il tipo che il sottotipo. Se propendiamo per la seconda interpretazione, il prefetto potrà indicare più tipi di armi e dovrà specificare un sottotipo all’interno di ogni tipo. La formulazione, insomma, lascia aperte le seguenti possibilità: un solo tipo e un solo sottotipo di arma; un solo tipo ma qualsiasi sottotipo; diversi tipi, ma ciascuno di un preciso sottotipo. In ogni caso, il numero delle armi autorizzate sarà indeterminato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I sovranisti, accortisi che manifestare senza mascherina, fare selfie a stretto contatto con la gente e urlare tutto il bene possibile nei confronti degli italiani con gli occhi fuori dalle orbite non avrebbero / avrebbe più pagato, hanno cavalcato il malcontento per alimentare lo scontro sociale”.
Il correttore mi dice avrebbe, ma è giusto?
RISPOSTA:
Il soggetto del verbo in questione è rappresentato dalle tre proposizioni soggettive ruotanti intorno ai verbi manifestare, fare, urlare, quindi dovrebbe essere coniugato alla terza plurale. Quando il soggetto del verbo è rappresentato, come in questo caso, da più di una proposizione soggettiva, però, i parlanti tendono a preferire la terza singolare, probabilmente perché non associano le proposizioni facilmente come associano i sintagmi nominali. La terza plurale rimane comunque la scelta più corretta.
Va aggiunto che la terza singolare è anche possibile se si vogliono rappresentare le tre azioni come un tutt’uno, in quanto aspetti diversi dello stesso comportamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso, nelle vostre spiegazioni è stato citato il valore epistemico del futuro anteriore, per indicare un fatto di cui non si sia completamente certi. In proposizioni oggettive che siano incardinate su sintagmi quali essere sicuro, certo, convinto ecc. è ammissibile scegliere il futuro anteriore, oppure si verrebbe a creare una contraddizione logica (se sono convinto di qualcosa, per quale motivo dovrei costruire la frase con un tempo che indica l’opposto?).
“Sono certo che Michele avrà capito ogni cosa”.
Per concludere, indipendentemente dall’adeguatezza del futuro anteriore in costruzioni del genere, vorrei domandarvi se, in questi casi, sia possibile usare tanto il congiuntivo quanto l’indicativo, con propensione verso il primo dei due quando si voglia aumentare il livello di formalità. Il tema è affrontato di frequente nelle vostre risposte; tuttavia, mi pare che in letteratura (e in essa includo anche autori blasonati) vi sia una netta prevalenza (per non dire una quasi esclusività) del modo indicativo. In altre parole, in anni di lettura difficilmente mi sono imbattuta in esempi quali “Sono sicuro che Tizio sia a casa”; “Ero certa che Caio non volesse parlarne”, ecc. Nelle frasi negative, invece, le occorrenze con il congiuntivo sono indubbiamente meno insolite, anche se, mi pare, inferiori rispetto a quelle con l’indicativo.
Personalmente, ho sempre preferito il congiuntivo e continuerò a preferirlo, nonostante, alle volte, abbia l’impressione che questa scelta sia percepita dagli altri come un errore.
RISPOSTA:
Una oggettiva con il futuro anteriore retta da essere sicuro o simili è sintatticamente possibile e semanticamente giustificabile se il parlante intende l’essere sicuro retoricamente, ovvero come equivalente a sperare. Ecco un esempio letterario:
“Vi renderete conto da voi stesso come il mio lavoro sia stato pressante, senza tregua, senza respiro, e m’abbia preso tutto. Sono sicuro che avrete capito e agito di conseguenza” (Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli, 1948).
Per quanto riguarda la scelta del modo in proposizioni rette da espressioni come essere sicuro e simili, la sua percezione della preferenza per l’indicativo, anche in letteratura, corrisponde probabilmente al vero, sebbene io non disponga di dati statistici a sostegno di tale opinione. Condivisibile è anche l’idea che la frequenza del congiuntivo aumenti se l’espressione reggente è negata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se queste tre espressioni sono corrette ed eventualmente quale o quali sono errate: “In questo caso (agendo così) faresti la cosa peggiore che tu possa, che tu potessi o che tu potresti fare”.
RISPOSTA:
Il congiuntivo presente possa è perfettamente regolare ed è la forma più attesa in questo contesto. Il congiuntivo imperfetto potessi, invece, non è giustificabile, perché instaurerebbe un rapporto di contemporaneità nel passato rispetto a un verbo (faresti) che è presente. Ci aspetteremmo il congiuntivo imperfetto in dipendenza da un passato, per esempio avresti fatto la cosa peggiore che tu potessi. Il condizionale presente potresti, infine, è una scelta possibile, come alternativa a possa. Rispetto a quest’ultima forma, il condizionale aggiunge una sfumatura di condizionalità, cioè rappresenta l’azione come condizionata a un’altra. Comunque, dal momento che la condizionalità è già espressa da faresti, ribadirla anche con potresti risulterebbe ridondante.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto il periodo “Una preoccupazione che ha spinto vari governatori a schierare la guardia nazionale, temendo scontri se la sentenza non sarebbe stata considerata esemplare.”?
RISPOSTA:
Il periodo è corretto, Un dubbio può nascere dal collegamento tra la proposizione condizionale introdotta da se e la reggente. Normalmente le proposizioni subordinate dipendono dal verbo della reggente, tranne la proposizione relativa, che dipende da un sintagma nominale presente nella reggente. La condizionale se la sentenza…, però, dipende non dal verbo temendo, bensì dal sintagma nominale scontri, e questo la rende un po’ forzata, per quanto non scorretta. Questa lieve forzatura si può superare in due modi, o trasformando scontri in una proposizione oggettiva (temendo che ci sarebbero stati scontri se la sentenza…), in modo che la condizionale si colleghi al verbo ci sarebbero stati, oppure sostituendo se con nel caso in cui, così da avere una condizionale che sintatticamente è una relativa il cui pronome introduttivo, in cui, è collegato al sintagma nominale nel caso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sull’analisi delle seguenti frasi:
1. Il poeta nacque a Chiaravalle (compl. di origine o stato in luogo), una cittadina (apposizione) delle Marche (c. denominazione).
2. Venite a pranzo (stato in luogo) da me (moto a luogo).
3. Dove (c. avverbiale moto a luogo) andate (p. verbale) addobbati (attributo) in quel modo (c. di modo).
RISPOSTA:
1. A Chiaravalle = c. di stato in luogo (sarebbe origine se fosse è originario di Chiaravalle o viene da Chiaravalle); delle Marche = c. di specificazione, perché indica la relazione che intercorre tra la cittadina e le Marche. Il complemento di denominazione indica il nome di un luogo, ma è chiaro che la cittadina non si chiama le Marche. Sarebbe complemento di denominazione nacque nella cittadina di Chiaravalle.
2. A pranzo = c. di fine.
3. In quel luogo = complemento di modo più attributo.
Il resto va bene
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ne ho sentito parlare” è giusto dire che parlare è complemento oggetto?
RISPOSTA:
Non esattamente, ma ci è andata molto vicino. Alcuni verbi, infatti, possono reggere un complemento oggetto oppure una intera proposizione che ha la stessa funzione, e che prende il nome di proposizione oggettiva. Sentire è uno di questi verbi (insieme a dire, pensare, sapere, vedere e molti altri): può reggere un complemento oggetto (ho sentito un rumore) o una proposizione oggettiva (ne ho sentito parlare; ho sentito che ti sei sposato). Come si può vedere, la differenza tra un complemento oggetto e una proposizione oggettiva sta nella composizione: il complemento oggetto è un sintagma nominale, cioè un nome o un gruppo di parole che ruota intorno a un nome (ad esempio un rumore); la proposizione oggettiva è un verbo o un gruppo di parole che ruota intorno a un verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere il significato o la funzione di la nell’espressione: “Me la passo bene”. E perchè è femminile? S’intende la vita? Lo stesso discorso con “Me la cavo”. E ancora: “Se la canta e se la suona”, “Non
prendertela”. Questo la compare spesso in tante frasi idiomatiche della nostra lingua. Da dove deriva? Sostituisce che cosa?
RISPOSTA:
Nei verbi da lei citati (passarsela, cavarsela, cantarsela, suonarsela, prendersela) il pronome la non ha un valore anaforico preciso; non rimanda, cioè, sostituendolo, a un altro nome già introdotto o che gli interlocutori conoscono in anticipo. Lo stesso vale per il pronome si, anch’esso coinvolto nella formazione di tali verbi come la (passarsela). Questi pronomi servono a modificare il significato del verbo base in modi molto diversi, difficili da ricostruire. I verbi costruiti con -sela, -sene (intendersene, fregarsene, uscirsene), ma anche con -si (portarsi gli anni), -ci (vederci, volerci, starci) e altri ancora, in cui i pronomi non svolgono la loro funzione propria ma modificano il significato del verbo stesso, sono detti procomplementari. In questi verbi i pronomi conferiscono al verbo base una sfumatura “situazionale” e aggiungono l’idea che il soggetto abbia un interesse speciale nel processo inteso dal verbo. Passarsela, per esempio, potrebbe essere spiegato come ‘trascorrere una certa situazione nella quale si è molto coinvolti’. Come detto, però, non è possibile stabilire un significato preciso valido per ogni complesso pronominale aggiunto a un verbo procomplementare. Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ne trassi l’impressione che, se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche cella imperiale, Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo colto da morte accidentale e subitanea”
(Da Il nome della rosa).
Nel brano riportato, qual è la funzione della proposizione se Guglielmo avrebbe visto volentieri Bernardo in qualche cella imperiale?
Si tratta di una proposizione oggettiva?
RISPOSTA:
Non si tratta di una oggettiva, anche se è subordinata a una oggettiva (che Bernardo certamente avrebbe visto con favore Guglielmo). Si tratta, invece, di una proposizione comparativa; potremmo, infatti, sostituire se con così come o nel modo in cui o simili. La congiunzione se aggiunge al significato della proposizione una sfumatura epistemica di ipotesi, cioè lascia intendere che il parlante non sia del tutto certo dell’informazione contenuta nella proposizione.
L’uso comparativo della congiunzione se è molto insolito, come anche quello causale, per il quale si veda la risposta n. 2800840 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tempo fa una persona di mia conoscenza mi ha detto:
– Se un giorno mio marito mi lasciasse, mi ricorderei dei momenti più belli, non di quelli che avrebbero causato la rottura.
Il condizionale composto, lì per lì, non mi ha suscitato alcuna stranezza, reputandolo subito come l’unica scelta adeguata: rappresentare l’anteriorità di un’azione espressa con il condizionale presente (ricorderei).
In un secondo momento, però, ho sospettato che quella coniugazione si sarebbe potuta interpretare anche come posteriore (una sorta di futuro nel passato che, ad ogni buon conto, non so se possa essere applicata anche al caso specifico).
Se fossi stata io a scrivere, o a pronunciare, la frase, avrei scelto il congiuntivo trapassato.
Sono corrette tutte e due le scelte e quali sono le differenze a livello di messaggio?
RISPOSTA:
Il condizionale passato è senz’altro corretto, proprio perché descrive un evento precedente a quello della reggente, che è al condizionale presente. Possiamo confermare questa idea con un test: se sostituiamo l’indicativo futuro ricorderò a ricorderei, al posto di avrebbero causato useremo avranno causato, ovvero il futuro anteriore. Molto improbabile è l’interpretazione di avrebbero causato come futuro nel passato, perché manca il punto di riferimento passato rispetto al quale l’evento sarebbe futuro: tutto il contesto, infatti, è futuro.
La scelta del congiuntivo trapassato in sostituzione del condizionale passato è possibile, con un piccolo cambiamento di significato. Non possiamo usare il congiuntivo trapassato come alternativa all’indicativo e al condizionale, perché in questo caso esso avrebbe la funzione di descrivere un evento precedente a un altro evento passato e, come detto, non ci sono eventi passati nella frase. Possiamo, però, usarlo come modo della proposizione ipotetica irreale, perché con questa funzione esso indica soltanto che l’evento è o non è precedente a un altro, di cui è la condizione, sia questo passato, presente o futuro. In questo secondo caso, la frase sarebbe interpretata come … mi ricorderei dei momenti più belli, non di quegli altri, se quegli altri avessero causato la rottura. Come si può vedere, in questo modo si sottolinea il rapporto di condizione-conseguenza tra la responsabilità dei momenti nella rottura e il non ricordare i momenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
– Ripensai a ciò che avevo udito: se non era un sogno, ma la realtà, allora avevo sognato.
Sarà che a me, personalmente, l’indicativo imperfetto in costrutti ipotetici non convince e tendo a escluderlo (mi vengono sempre in mente, come un automatismo i se lo sapevo, te lo dicevo); ma, tornando all’esempio, vi chiedo se sarebbe stato possibile sostituire era con fosse stato.
– Se era veramente questa la situazione, non le restava che fare ammissione di colpa.
Come sopra: si potrebbe migliorare la frase sul piano della formalità, sostituendo l’imperfetto?
RISPOSTA:
Premetto che la prima frase sembra complessivamente incoerente (se non era un sogno allora avevo sognato). Non avendo a disposizione un contesto più ampio, però, sorvolerò su questo aspetto.
La sostituzione di era con fosse stato è possibile; oltre a innalzare la formalità, però, questa scelta cambierebbe leggermente il significato della frase. L’indicativo imperfetto, infatti, riesce a coprire le funzioni del congiuntivo trapassato pur rimanendo indicativo imperfetto, quindi continuando a svolgere anche quelle previste per questo tempo dalla grammatica standard. In questo modo se non era un sogno signfica contemporaneamente ‘se non fosse stato un sogno’ e ‘se non era un sogno’, ovvero ‘se in quel momento io non stavo sognando’. Questo secondo significato, inscindibile dal primo nella frase con era, viene ovviamente perso nella frase con fosse stato.
Nella seconda frase la sostituzione è possibile tecnicamente, ma costerebbe probabilmente il tradimento delle reali intenzioni comunicative dell’emittente. Se era veramente questa la situazione, infatti, non è una vera proposizione ipotetica, ma è una causale travestita da ipotetica (se era = visto che era). Di questo tipo di proposizioni si parla nella risposta n. 2800840. Se sostituiamo era con fosse stata la frase continua a essere corretta, ma il significato della proposizione cambia da causale a ipotetico, modificando sostanzialmente il senso di tutta la frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase seguente è corretta?
“Essi vorrebbero sapere se avesse intenzione di…”
O la frase corretta è:
“Essi vorrebbero sapere se avrebbe intenzione di…”
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, ma hanno due significati diversi. Il congiuntivo imperfetto è uno dei tempi che esprimono l’anteriorità dell’evento rispetto a un altro evento presente; nella prima frase, quindi, i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno precedentemente avesse intenzione di… Il condizionale presente, invece, esprime contemporaneità rispetto al presente, quindi nella frase i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno nel momento stesso ha intenzione di…
Un modo per far risaltare il diverso rapporto temporale tra la subordinata e la reggente nelle due frasi è sostituire il congiuntivo nella prima e il condizionale nella seconda con l’indicativo, che non modifica sostanzialmente il significato delle frasi e mantiene, appunto, lo stesso rapporto temporale:
“Essi vorrebbero sapere se aveva intenzione di…”
“Essi vorrebbero sapere se ha intenzione di…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In questa frase chiamato è corretto o l’accordo va al femminile?
“Valanga di nuvole chiamato anche perfetto collasso delle nuvole”.
RISPOSTA:
Il participio passato di un verbo con ausiliare essere dovrebbe concordare sempre con il soggetto. Non è raro l’accordo con il nome del predicato: “La lettura è stata / stato il mio passatempo preferito per molto tempo”.
Nei casi in cui il participio passato fa parte di un tempo composto (come nell’esempio appena fatto da me) l’accordo con il nome del predicato è una forzatura ma non si può considerare un vero e proprio errore.
Nella sua frase, però, il participio passato è autonomo, e rappresenta una proposizione relativa implicita: chiamato = che è chiamato. In questo contesto, la concordanza con valanga è decisamente più raccomandabile (e, di conseguenza, la concordanza con il nome del predicato è sconsigliabile), perché la relativa si aggancia chiaramente al soggetto della reggente, appunto valanga, di cui rappresenta un ampliamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tempo del congiuntivo bisogna adoperare quando siamo alle prese (direttamente o, soprattutto, indirettamente) con il condizionale presente di verbi di volontà, desiderio, eccetera?
In frasi indipendenti mi pare che il problema del tempo giusto non si ponga; è assodato che vorrei che fosse è corretta come vorrei che sia, nonostante quest’ultima forma sia insolita.
La mia incertezza si concentra sul tempo più opportuno in presenza di subordinate dipendenti da reggenti rette dal condizionale presente. Ho notato che il parlante medio tende a scegliere, o comunque a favorire, il congiuntivo imperfetto; mentre per me la questione non è di così immediata soluzione.
Non ho dubbi riguardo a questa costruzione:
1 – “Vorrei che aveste ricevuto l’informativa” (nonostante credo si possa dire anche abbiate ricevuto).
Le costruzioni sottostanti, invece, mi creano un po’ più di esitazione:
2 – “Volevo (intesa come variante semantica di vorrei) accertarmi che abbiate ricevuto / aveste ricevuto l’informativa”.
3 – “Volevo escludere che questi pettegolezzi siano filtrati / fossero filtrati”.
Se entrambe le soluzioni proposte negli esempi fossero valide, qual è la differenza d’uso tra le due?
Domando, per concludere, scostandomi un attimo dal focus, se in una frase come quella sotto indicata sia preferibile il congiuntivo o l’indicativo.
4 – “Gli studi dimostrano che il farmaco abbia / ha efficacia contro il virus”.
RISPOSTA:
Il condizionale presente si comporta, ai fini della consecutio temporum con le proposizioni completive, come l’indicativo presente, quindi penserei che = penso che. Ne consegue che per rappresentare un evento contemporaneo alla reggente la proposizione completiva vada costruita con il presente: “Penserei (= penso) che tu sia stupido”; per rappresentare un evento precedente, invece, la completiva richiede il passato: “Penserei (= penso) che tu sia stato stupido”, oppure l’imperfetto, se l’evento si è prolungato nel tempo: “Penserei (= penso) che tu fossi stupido”. Con verbi che esprimono volontà, necessità, opportunità, la consuetudine (talmente radicata da avere quasi la forza di una regola) è che per esprimere la contemporaneità si usi l’imperfetto: “Vorrei che tu fossi più cortese”, e per esprimere l’anteriorità si usi il trapassato: “Vorrei che tu fossi stato più cortese”. Se nella reggente al posto del condizionale presente si usa l’indicativo imperfetto con funzione di condizionale presente la consuetudine rimane valida: “Volevo (= vorrei) che tu fossi più cortese”.
Per quanto riguarda la scelta tra l’indicativo e il congiuntivo nell’oggettiva la rimando alle tante risposte sull’argomento presenti nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sarei grata se mi chiariste un dubbio relativo all’impiego di due futuri anteriori all’interno dello stesso periodo.
1a) «Che cosa gli sarà passato per la testa – mi domando –, quando (se) avrà capito che non gli avrei dato una nuova opportunità».
A livello, per così dire, di messaggio, tenderei a confermare questa soluzione; non so tuttavia se sia ineccepibile dal punto di vista sintattico.
Un’alternativa potrebbe essere:
1b) «Che cosa gli sarà passato per la testa – mi domando –, quando (se) ha capito che non gli avrei dato…».
Questa mi pare più lineare, ma il passato prossimo tradisce a mio avviso il senso che si dovrebbe ascrivere alla proposizione (valore maggiormente ipotetico): «quando avrà capito (non è detto che abbia capito), chissà che cosa gli sarà passato per la testa (valore epistemico del futuro anteriore)».
Altro esempio, stesso dubbio:
2) «Che cosa avranno pensato le ragazze che lo avranno visto passare».
RISPOSTA:
Innanzitutto sottolineo che il futuro anteriore nelle sue frasi ha valore epistemico, non temporale; esso, cioè, esprime l’incertezza del parlante circa il contenuto della frase, non situa l’evento nel futuro; al contrario, l’evento è situato nel passato: sarà passato per la testa = ‘forse è passato per la testa’; avranno pensato = ‘forse hanno pensato’. Ora, se la prima parte sia della frase 1 sia della frase 2 esprime effettivamente incertezza, la seconda parte dovrebbe costituire l’evento fattuale rispetto al quale l’emittente eprime quell’incertezza; per questo motivo, questa parte va costruita in entrambe le frasi con l’indicativo passato prossimo, che dal punto di vista epistemico esprime la fattualità propria dell’indicativo e temporalmente colloca l’evento nel passato.
In astratto non è vietato costruire tutta la frase al futuro anteriore, per manifestare incertezza sia sul primo sia sul secondo evento; in questo modo, però, la frase diviene molto densa informativamente, perché mette insieme un dubbio circa un altro dubbio (forse ha pensato qualcosa quando forse ha capito; forse hanno pensato qualcosa quando forse l’hanno visto passare).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice: “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andava” oppure “Mi aspettavo che ci fosse qualcosa che non andasse”?
RISPOSTA:
Si può dire in entrambi i modi: normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo, ma quando dipende da una proposizione al congiuntivo può essere “attratta” nell’orbita del congiuntivo. Non c’è nessuna differenza semantica tra le due varianti, ma quella con il congiuntivo è più formale dell’altra (come sempre avviene nei casi in cui sia possibile usare sia l’indicativo sia il congiuntivo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La proposizione relativa, se non erro, è molto flessibile nella selezione dei tempi verbali.
Vorrei sapere se le costruzioni indicate di seguito – certamente diverse sul piano semantico – sono tutte valide dal punto di vista sintattico.
Se tu entrassi in una stanza alla quale io…
1. non avessi avuto accesso
2. non abbia avuto accesso
3. non abbia accesso
4. non avessi accesso
5. potrei non avere/aver avuto accesso
6. possa non avere/aver avuto accesso
7. potessi non avere/aver avuto accesso
che cosa faresti?
Avrei infine alcune domande aggiuntive:
quando usare non avessi avuto e quando non abbia avuto?
Per le varianti 6 e 7 sarebbe eventualmente consigliato la trasformazione del verbo potere da affermativo a negativo (non possa aver…; non potessi aver…)?
RISPOSTA:
Le varianti della frase sono tutte possibili.
Il trapassato (non avessi avuto accesso) indica che l’evento è avvenuto prima dell’entrare: se tu entrassi… alla quale io non avessi avuto precedentemente accesso… Il passato (non abbia avuto accesso) indica soltanto che l’evento è passato (cioè precedente al momento dell’enunciazione, che è adesso), quindi potrebbe essere contemporaneo, precedente o successivo all’entrare. Proprio la genericità, comunque, oltre alla possibilità di usare il trapassato, indurrebbe a escludere l’interpretazione precedente, favorendo quella contemporanea o quella successiva.
Le espressioni possa / potessi non aver avuto e non possa / potessi aver avuto sono tutte possibili, ma non sono equivalenti: trascurando il tempo, la prima coppia valorizza il significato eventuale del verbo potere (possa non aver avuto = ‘forse non ho avuto’); la seconda coppia valorizza il significato di possibilità (non possa aver avuto = ‘non mi è stato possibile avere, mi è stato impedito avere’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da vocabolario Treccani: “Retrostante – Di luogo o ambiente, che sta dietro a un altro”. Gli esempi lasciano intendere che il luogo o ambiente si debba trovare dietro un altro, ma sullo stesso piano o livello (es. la stanza R., il prato R. la casa).
Vorrei sapere se si può considerare retrostante un luogo/ambiente che non si trova sullo stesso piano/livello dell’altro luogo/ambiente preso a riferimento (es. un balcone retrostante un altro, ma i due balconi sono su piani differenti).
RISPOSTA:
Il significato dell’aggettivo retrostante punta l’attenzione su una sola coordinata spaziale, avanti-dietro, e trascura le altre, quindi non esclude che l’elemento così qualificato si trovi su un piano diverso rispetto all’altro elemento che fa da riferimento. Ovviamente, se la posizione relativa dei due elementi non è ulteriormente chiarita, il ricevente potrebbe presumere che la rappresentazione di tale posizione non richieda altri dettagli, e quindi che questi si trovino sullo stesso piano.
Segnalo, a margine, che retrostante può essere usato assolutamente (la cucina retrostante); quando ha un elemento di riferimento, invece, può essere costruito direttamente (retrostante la casa), ma è più frequente con la preposizione a (retrostante alla casa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporre questa frase: “Se fossi stato al telefono mentre qualcuno SUONAVA / AVESSE SUONATO alla porta, non avrei interrotto la comunicazione così bruscamente”.
Quale delle due soluzioni è quella corretta? Lo sono entrambe?
RISPOSTA:
La congiunzione mentre presuppone che tra l’evento della proposizione temporale e quello della reggente ci sia un rapporto di contemporaneità, quindi forza all’uso dell’imperfetto, che descrive tale rapporto. Il trapassato, al contrario, sarebbe difficilmente giustificabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È consentito dire “Il libro più bello che hai mai letto” al posto di “Il libro più bello che tu abbia mai letto”?
RISPOSTA:
È consentito: l’indicativo in questo caso è meno formale del congiuntivo ma del tutto corretto. Il significato delle due frasi, inoltre, è lo stesso. Può consultare l’archivio di DICO con le parole chiave congiuntivo o relativa per trovare molte altre risposte su questo argomento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale affermazione è corretta?
“Di cosa si tratti”.
“Di cosa si tratta”.
E in questo caso?
“Basta poco, massimo 2 minuti”.
“Basta pochi minuti”.
“Bastano pochi minuti”.
“Bastano poco minuti”.
RISPOSTA:
Riguardo alla prima richiesta, se la frase è autonoma, quindi è per forza una interrogativa diretta, il modo da usare è senz’altro l’indicativo: “Di cosa si tratta?”. Se, invece, è una interrogativa indiretta il congiuntivo è una scelta più formale dell’indicativo: “Vorrei sapere di cosa si tratti” (anche corretto, ma meno formale, “Vorrei sapere di cosa si tratta”). Tranne che tale proposizione sia introdotta dal verbo dire, che preferisce sempre l’indicativo: “Dimmi di cosa si tratta”.
Per quanto riguarda la seconda richiesta, bisogna ricordare che bastare è un verbo, quindi concorda con il soggetto della frase. Nella prima frase il soggetto è il pronome poco, quindi la forma di bastare richiesta è proprio la terza singolare. Ciò che segue, massimo 2 minuti, è una apposizione del soggetto, costruita correttamente, con l’avverbio massimo (andrebbe bene anche al massimo) che accompagna l’aggettivo numerale 2, a sua volta unito al nome minuti. Si noti che se togliamo poco il soggetto diventa massimo 2 minuti, per cui il verbo deve andare al plurale: “Bastano massimo 2 minuti”.
La seconda frase è costruita male, perché il verbo non concorda con il soggetto. Il verbo, infatti, è singolare mentre il soggetto, pochi minuti, è plurale. L’errore è corretto nella terza frase: “Bastano pochi minuti”. Nell’ultima frase, infine, a essere scorretto è l’accordo tra l’aggettivo poco e il nome da questo accompagnato, minuti. Se poco è da solo, infatti (come nella prima frase), è un pronome ed è invariabile; se è accompagnato da un nome è un aggettivo e deve concordare con il nome accompagnato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sentito da più parti che il futuro anteriore non può essere usato nelle oggettive. Mi sembra una affermazione dogmatica. Se devo precisare che un evento si situa temporalmente fra il momento in cui parlo e il futuro estremo espresso nella frase, non ho altra scelta, a meno che non voglia ricorrere a circonlocuzioni assurde. Es. “Se saprò che mi avrai tradito, ti lascerò”. In questo caso a me interessa il tradimento che eventualmente si manifesti fra adesso e il momento in cui saprò. Se dicessi, come molti consigliano, hai tradito anziché avrai tradito, il collocamento temporale dell’eventuale tradimento non sarebbe così puntuale. Ci terrei molto a conoscere la sua opinione a riguardo.
RISPOSTA:
Sono d’accordo con lei: nelle completive è possibile usare il futuro anteriore per descrivere un evento precendete a un altro futuro, sebbene molte grammatiche autorevoli prescrivano l’uso del passato prossimo in un tale contesto. Questa questione è al centro della risposta “Sono tempi difficili per il discorso indiretto” che può leggere nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei il vostro parere a proposito della classificazione del nome. In un manuale di grammatica ho trovato la seguente classificazione gerarchica a due livelli:
- Proprio
- Comune
- concreto
- astratto
- individuale
- collettivo
In un altro manuale ho trovato una classificazione differente (a tre livelli):
- Proprio
- Comune
- Concreto
- individuale
- collettivo
- Astratto
- Concreto
In un terzo, infine, si ha una classificazione in cui concreto, astratto, individuale, collettivo sono allo stesso livello di proprio e comune, anziché sottogruppi.
Quale classificazione è la migliore?
RISPOSTA:
Classificare un oggetto grammaticale è sempre un problema: si rischia sempre di lasciare fuori dalla classe un elemento, creando la cosiddetta eccezione. Nel caso specifico la classificazione meno problematica è quella meno gerarchizzata, ovvero la terza. I nomi propri, infatti, sono individuali, perché designano elementi singoli (singolari o plurali: Paolo, Italia, Alpi), quindi non dovrebbero essere esclusi da questo tratto, come fanno le prime due classificazioni. Per non parlare del fatto che un nome come Dio è proprio, individuale e astratto (ma il concetto di astrattezza applicato ai nomi è sempre discutibile, quindi meglio non spaccare il capello su questo punto).
La seconda classificazione, inoltre, esclude indebitamente non solo i propri ma anche gli astratti dal tratto individuale / collettivo.
Come si può vedere, ogni gerarchizzazione semantica è una forzatura: i nomi propri possono essere concreti e astratti, individuali e persino collettivi (l’Appennino è una catena montuosa) al pari dei comuni. L’unica precisazione non problematica nella classificazione è diadica: i nomi propri sono opposti ai comuni; i concreti agli astratti; gli individuali ai collettivi. Questa è l’unica precisazione che manca nello schema della terza classificazione, che risulta, pertanto, comunque non ottimale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
C’è qualche differenza tra cuocere e far cuocere, verbi che si leggono nelle ricette?
RISPOSTA:
Il verbo cuocere può essere transitivo (ho cotto la pasta) e intransitivo (la pasta cuoce), ma nell’uso vivo attuale la costruzione transitiva è sfavorita, probabilmente perché l’evento del cuocere è percepito come intrinsecamente intransitivo: è, infatti, il cibo che cuoce come conseguenza della somministrazione di calore; del cuoco, al contrario, si preferisce dire che cucina, ovvero ‘prepara i cibi’, anche, ma non soltanto, cuocendoli. In sostituzione di cuocere transitivo si è, dunque, diffuso far(e) cuocere, per cui, per esempio, fate cuocere per mezz’ora è preferito a cuocete per mezz’ora.
La costruzione fattitiva (quella con fare) ha anche il vantaggio di sottolineare la duratività dell’evento (spesso utile nelle ricette), visto che far cuocere è molto vicino a lasciare cuocere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Dopo aver visto il video ‘Il racconto di avventura e horror’, scrivi la differenza / le differenze tra i due generi” è meglio usare differenza o differenze e perché?
RISPOSTA:
La scelta dipende dal significato che si intende dare alla frase: se si ritiene che tra i due generi ci sia una sola differenza si userà il singolare; se, invece, si ritiene che le differenze siano più di una si userà il plurale. In questo caso specifico ritengo che differenze sia la scelta migliore, visto che tra il genere di avventura e quello horror sussistono molte differenze.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se queste protasi richiedono, nell’oggettiva che segue, il congiuntivo presente o passato o se, come ho sentito dire, entrambe le soluzioni sono accettabili:
1) Se volessi che tu fossi (o sia)…
2) Se credessi / ritenessi / immaginassi che tu fossi (o sia)…
3) Se temessi che tu fossi (o sia)…
4) Se mi meravigliassi che tu fossi (o sia)…
RISPOSTA:
Le sue quattro frasi iniziali sono del tutto equivalenti dal punto di vista sintattico. Il dubbio sulla scelta del tempo del congiuntivo deriva dal fatto che l’ipotesi presentata nella proposizione reggente è situata nel presente (= se oggi volessi / credessi / temessi / mi meravigliassi…) ma è espressa con un tempo passato, l’imperfetto, in accordo con le regole della proposizione ipotetica. Ricordiamo che secondo la consecutio temporum, particolarmente vincolante per le proposizioni completive, il presente indica contemporaneità nel presente, quindi è coerente con la situazione descritta, l’imperfetto esprime contemporaneità nel passato, quindi è coerente con il tempo che esprime il dubbio nella proposizione ipotetica reggente. L’imperfetto è, inoltre, attratto dalla costruzione sottostante che sovrappone l’ipotetica alla completiva: se temessi che tu fossi = se tu fossi.
In conclusione, l’imperfetto è difendibile, ma la scelta più sensata è il presente, perché lo stato dell’essere è, come detto, contemporaneo rispetto a un evento presente, sebbene espresso con l’imperfetto per una regola sintattica (la costruzione della proposizione ipotetica).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ci sono stati 10 decessi (mi riferisco al numero di deceduti registrati complessivamente) fra Germania e Svizzera”. Intendo dire, poniamo, 6 in Germania e 4 in Svizzera. Quel fra Germania e Svizzera è corretto?
RISPOSTA:
La preposizione fra nella frase è sintatticamente corretta, ma semanticamente imprecisa. Se nel contesto ci fosse bisogno di precisare sarebbe bene specificare la sproporzione, aggiungendo l’informazione.
QUESITO:
Mi è stato contestato questo scritto, perché ritenuto inelegante: “X disse che era opportuno che Y non avesse fatto ciò”. Forse la vicinanza dei due che può disturbare?
RISPOSTA:
È certamente consigliabile, ove possibile, evitare la sequenza di più che con la stessa funzione (come in questo caso). Si tratta, però, di un peccato veniale; più discutibile, semmai, è la scelta delle forme verbali. La valutazione sulla opportunità di un’azione tipicamente precede o è contemporanea all’azione stessa; difficilmente la segue. Ci sono altre espressioni sinonimiche rispetto a essere opportuno che possono esprimere una valutazione successiva, per esempio essere una fortuna ed essere un bene. Queste espressioni possono esprimere una valutazione successiva dell’azione perché riguardano sia l’azione sia il suo risultato, mentre essere opportuno riguarda essenzialmente l’azione (un risultato si può definire un bene o una fortuna, mentre difficilmente si definirebbe opportuno).
Per questo motivo la frase che comincia con era opportuno difficilmente può continuare con una soggettiva al trapassato; ci si aspetta piuttosto un imperfetto, che instaura con era un rapporto di contemporaneità nel passato con proiezione nel futuro: era opportuno che X non facesse (in quel momento o in seguito). Se, però, è necessario descrivere l’azione con il trapassato, per evitare che la valutazione si trovi a essere successiva la si può anticipare descrivendo anch’essa al trapassato (era stato opportuno che X non avesse fatto). Certo, secondo la consecutio temporum, se descrivo l’azione con il trapassato, l’azione sarà sempre precedente alla valutazione, anche se descrivo la valutazione al trapassato; questo riporta al problema iniziale. Nella frase era stato opportuno che X non avesse fatto, cioè, il fare precede l’essere opportuno proprio come nella frase era opportuno che X non avesse fatto. In linea di principio questo è vero, ma bisogna considerare che quando due eventi (nel nostro caso un’azione e uno stato) sono entrambi al trapassato, il loro rapporto temporale reciproco sfuma e tendiamo a considerarli semplicemente passati. La sequenzialità in questi casi è affidata alla logica, quindi interpretiamo automaticamente l’essere opportuno come contemporaneo al fare: per questo motivo era stato opportuno che X non avesse fatto è più accettabile di era opportuno che X non avesse fatto.
la frase sarebbe corretta anche nella forma sarebbe stato opportuno che X non facesse, ma cambierebbe di significato, perché il condizionale sarebbe stato lascerebbe intendere che l’azione è stata effettivamente compiuta. Al contrario, l’indicativo era stato veicola l’idea che l’azione non sia stata compiuta. Inoltre, il condizionale passato ha lo svantaggio di rimanere sempre a metà strada tra l’anteriorità e la posteriorità nel passato e l’imperfetto nella subordinata non permetterebbe di disambiguare questo tratto: disse che sarebbe stato opportuno che X non facesse, infatti, può anche spostare la valutazione e l’azione nel futuro rispetto a disse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dato che, in certi contesti espressivi, si preferisce il congiuntivo al condizionale qualora si intenda marcare l’idea di eventualità, mi chiedevo come valutare la certezza in negativo; come esasperazione dell’eventualità (e quindi, come tale, condizione che richiede il congiuntivo) o come certezza, con la stessa dignità della certezza in positivo (e quindi come condizione che respinge il congiuntivo e richiede il condizionale)?
Esempio preso da una frase di un film: “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando avrei suonato il piano” (se si dà per certo o altamente probabile che ciò accada), “quando avessi suonato il piano” (se si dà l’evento come incerto). E se si volesse presentare il fatto come certo in negativo (il fatto non avverà mai)? Si deve usare Il congiuntivo o il condizionale?
RISPOSTA:
Rimanendo al caso specifico della sua frase, si noti che il condizionale passato assume la funzione di futuro nel passato sia nella proposizione oggettiva (che avrei incontrato…) sia nella temporale (quando avrei suonato…). Con questa funzione, esso perde gran parte del significato condizionale e diviene a tutti gli effetti un futuro (rimane condizionale nella misura in cui qualsiasi evento futuro è incerto): mi dissero che avrei incontrato… quando avrei suonato, infatti, è la versione al passato di mi dicono che incontrerò… quando suonerò. Ora, se nella proposizione oggettiva (trascurando la seconda subordinata) sostituissimo il condizionale passato con il congiuntivo trapassato (gli altri tempi del congiuntivo sarebbero in questo contesto o impossibili o innaturali) il senso della frase cambierebbe, perché in quel caso l’evento dell’incontrare diventerebbe anteriore a quello del dire. Per la verità, le oggettive rette da dire preferiscono l’indicativo, quindi al posto di avessi incontrato useremmo avevo incontrato. La proposizione introdotta da quando, diversamente dalla oggettiva, ammette la sostituzione del condizionale passato con il congiuntivo trapassato senza spostamento temporale, ma con cambiamento di significato, perché ha un rapporto più libero con la consecutio temporum. Il cambiamento di significato consiste nel fatto che la proposizione è interpretata come temporale con il condizionale passato (quando avrei suonato = ‘nel tempo in cui avrei suonato’), come ipotetica con il congiuntivo (quando avessi suonato = ‘se avessi suonato’).
Rispetto a questa analisi, che conferma la sua idea che il congiuntivo nella proposizione introdotta da quando esprima maggiore eventualità (cioè ipoteticità) del condizionale passato, la trasformazione della frase al negativo non cambia niente: “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando non avrei suonato il piano” (= ‘nel tempo in cui non avrei suonato’) / “Mi dissero che avrei incontrato l’amore della mia vita quando non avessi suonato il piano” (= ‘se non avessi suonato’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Domani chiamo” o “domani chiamerò”?
RISPOSTA:
La differenza è di registro: il presente è più colloquiale; il futuro più formale. Per un approfondimento può consultare la risposta “Presente o futuro” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
a) “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un affermato paroliere”.
b) “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un paroliere è il solo Giovanni”.
Vi chiedo se le due costruzioni dell’aggettivo solo, prima in funzione di soggetto, poi in funzione di complemento, sono valide. Per ciò che concerne la seconda frase, gli avverbi solo e soltanto sarebbero certamente più usuali, ma vorrei sapere se sia comunque corretta la mia scelta.
RISPOSTA:
L’aggettivo solo preposto al nome e preceduto dall’articolo prende il siginificato di ‘unico, singolo’. Nelle sue due frasi è costruito correttamente (del resto il sintagma il solo Giovanni si ripete identico) e può essere sostituito dagli avverbi solo, solamente, soltanto con praticamente nessuno scarto semantico. Va sottolineato che in entrambe le frasi il solo Giovanni è soggetto, e in entrambi i casi del verbo è (nella seconda frase si noti è il solo Giovanni, ovvero il solo Giovanni è). La differenza tra la prima e la seconda frase è il diverso modo di focalizzare il sintagma il solo Giovanni, con il solo, che già di per sé concentra l’attenzione sul sintagma che lo contiene, o costruendo una frase scissa (o più precisamente scissa invertita: la scissa sarebbe è il solo Giovanni a essere…), che isola il sintagma all’interno di una proposizione presentativa, introdotta dal verbo essere, completata da una subordinata relativa (o più precisamente pseudorelativa) implicita che contiene l’informazione essere un paroliere. Come si può vedere, l’informazione contenuta nella proposizione pseudorelativa è rappresentata come nota (l’emittente, cioè, presume che il ricevente abbia già in mente tale concetto); il concetto, però, non è stato introdotto prima, quindi la presunzione potrebbe essere sbagliata e il ricevente potrebbe non essere in grado di collegare il concetto di essere un paroliere con quello di sono musicisti. La scelta comunque rimane accettabile perché il concetto di paroliere è in qualche modo estraibile da quello di musicisti, o almeno diventa estraibile da parte del ricevente quando viene introdotto come noto. Più difficile da interpretare, al limite dell’incoerenza, sarebbe stata una costruzione come “Marco, Giovanni e Luca sono tutti e tre musicisti. Ad essere anche un autista è il solo Giovanni”, laddove “Marco, Giovanni e Luca sono amici e tutti e tre musicisti. Il solo Giovanni è anche un autista” sarebbe rimasta del tutto coerente perché l’informazione essere un autista è presentata non come nota, ma come nuova (pur con la focalizzazione dell’attenzione su il solo Giovanni).
Per un approfondimento sulla frase scissa è possibile consultare l’archivio di DICO usando la parola chiave frase scissa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La seguente ipotesi è considerata del secondo tipo oppure del terzo tipo del periodo ipotetico?
“Se avessi le ali, volerei”.
RISPOSTA:
Quello da lei proposto è un periodo ipotetico del secondo tipo, anche detto della possibilità. Esso richiede il condizionale presente nell’apodosi, ovvero la proposizione reggente (volerei) e il congiuntivo imperfetto nella protasi, ovvero la proposizione ipotetica (se avessi le ali). Si noti che i tre tipi fissi del periodo ipotetico ammettono molte varianti (formali e di significato), e sono, quindi, da considerarsi convenzionali. Nel suo caso, per esempio, potremmo avere anche se avessi avuto le ali volerei (per sottolineare quanto sia irrealistico avere le ali), o se avessi le ali avrei volato (per sottolineare che il momento che avrebbe richiesto il volo è passato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il congiuntivo si usa nelle domande indirette: “Non so dove siano i miei occhiali” (dove sono i miei occhiali?), ma perché non usiamo il congiuntivo nella seguente frase, anch’essa una domanda indiretta?
“So dove sono i miei occhiali”.
Tutto sommato possiamo dire che dopo vorrei si usa il congiuntivo imperfetto ma se si tratta di una proposizione relativa si usa il congiuntivo presente?
RISPOSTA:
Il problema del congiuntivo è che quasi mai è obbligatorio in sostituzione dell’indicativo. Ci sono, inoltre, alcuni casi in cui è addirittura sfavorito rispetto all’indicativo, cioè nelle completive dipendenti dai verbi sapere, vedere, sentire, dire (quindi anche nella sua frase “So dove sono i miei occhiali”). Anche in questi casi, però, il congiuntivo non è impossibile: “So dove siano i miei occhiali” è perfettamente corretta.
Vorrei richiede il congiuntivo imperfetto nelle completive che descrivono un evento contemporaneo al desiderio: “Vorrei che tu venissi”; le proposizioni relative possono avere l’indicativo e il congiuntivo e, inoltre, seguono il valore deittico del verbo, cioè l’indicazione temporale assoluta (il presente indica il presente, il passato indica il passato, il futuro indica il futuro): “Vorrei un’auto che abbia superato tutti i test di sicurezza” / “Vorrei un’auto che faccia 200 km all’ora” / “Vorrei un’auto che tra dieci avrà ancora lo stesso valore” (possibile anche “Vorrei un’auto che tra dieci abbia ancora lo stesso valore” perché il congiuntivo presente proietta il significato del verbo nel futuro).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto “Non è vero che è bravo come dice!” oppure “Non è vero che sarebbe bravo come dice!”?
RISPOSTA:
Sono corrette entrambe le frasi. La prima rappresenta lo stato dell’essere bravo come fattuale, la seconda come condizionato a una possibilità non espressa, per esempio “Non è vero che sarebbe bravo come dice (se non lo aiutassero i suoi amici)!”. Equivalente alla prima frase, ma più formale, sarebbe anche “Non è vero che sia bravo come dice!”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La seguente frase è del tutto errata?
“Vorrà scusarmi se POTREI non essere in grado di partecipare alla riunione”.
Quel se può avere valore di ‘in quanto’?
RISPOSTA:
a frase è possibile e corretta. In questo caso se ha proprio il valore di ‘in quanto’, come da lei immaginato, e richiede, nella proposizione che introduce, l’indicativo (“Se le cose stanno così me ne vado”) o, meno comunemente, il condizionale. Ci siamo occupati di casi simili nella risposta “Il se causale” dell’archivio di DICO, che può consultare per un approfondimento della questione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se queste due frasi sono corrette:
1) “Se avessi incontrato un leone, la fine che avrei fatto sarebbe dipesa dalla fame che l’animale avrebbe avuto nel momento in cui l’avrei (o l’avessi) incontrato”.
Userei avrei e avessi quasi indifferentemente, a seconda della maggiore o minore probabilità attribuita all’accadimento.
2) “Se incontrassi un leone, la fine che farei dipenderebbe dalla fame che l’animale avrebbe nel momento in cui lo incontrerei (o incontrassi)”.
Nella scelta fra incontrerei e incontrassi valgono le stesse considerazioni fatte prima con gli stessi modi ma tempi diversi. Secondo alcuni dovrei dire incontrerò, ma mi sembrerebbe di dare, in questo caso, un taglio di certezza pressoché assoluta ad un avvenimento che invece è solo possibile.
RISPOSTA:
La relativa della sua frase ha una forte sfumatura ipotetica (nel momento in cui l’avessi incontrato = se l’avessi incontrato / nel momento in cui lo incontrassi = se lo incontrassi), che richiede il congiuntivo e rifiuta il condizionale; nella prima frase, pertanto, va usato avessi incontrato, nella seconda incontrassi.
L’indicativo futuro sarebbe ugualmente ingiustificato, perché, come sostiene lei, presenterebbe l’evento come fattuale, mentre esso è chiaramente potenziale.
Fabio Ruggiano
Fabio Rossi
QUESITO:
In questa frase, nella proposizione relativa si usa il congiuntivo presente o imperfetto a causa del condizionale?
“Per Natale vorrei regalare alla mia ragazza qualcosa di non impegnativo, che non _____________ (essere) troppo vistoso”.
RISPOSTA:
La scelta migliore è il congiuntivo presente, perché lo stato dell’essere è presente (con una proiezione nel futuro). La presenza del condizionale vorrei nella proposizione reggente non richiede l’uso del congiuntivo imperfetto nella proposizione relativa dipendente: questa proposizione, infatti, è particolarmente svincolata dalla consecutio temporum. Un approfondimento sul tempo del congiuntivo da usare in una proposizione relativa dipendente da una reggente in cui c’è vorrei si può leggere nella risposta “Vorrei” usare il tempo giusto del congiuntivo dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe portare alla vostra attenzione tre considerazioni relative alle proposizioni introdotte da vorrei che.
Prima considerazione.
Parto dal presupposto che siamo stati tutti (o quasi) abituati a usare il congiuntivo imperfetto, anche per azioni presenti o future, per i verbi indicanti opportunità, desiderio, volontà formati con il condizionale presente:
Vorrei che fosse estate.
Come suggerisce la Grammatica di Serianni, tuttavia, la “dipendente si costruisce col congiuntivo imperfetto più spesso che con il congiuntivo presente”. Da ciò ricavo che la frase “Vorrei che sia estate”
abbia una sua validità.
Curiosando in rete, mi sono imbattuto in teorie secondo le quali la scelta tra i due tempi possibili non derivi da preferenze stilistiche o di consuetudine d’uso, ma da ragioni semantiche ben precise. In sostanza, se il nostro vorrei è espressione di desiderio, via libera per il congiuntivo imperfetto; se, invece, è una forma edulcolorata di voglio, meglio il congiuntivo presente.
Seconda considerazione.
Accantonando per il momento i temi finora affrontati, catalogare verbi come volere, desiderare, gradire è abbastanza semplice. Ma non per tutti i verbi – quantomeno per me – lo è. Prendiamo ad esempio le seguenti costruzioni:
1. Da una provocazione del genere, ci si aspetterebbe che domani la controparte reagisca / reagisse.
2. Non accetterei che nei prossimi giorni Paola non si presenti / presentasse all’appuntamento.
Forse è un mio deficit, ma i due imperfetti non mi paiono così stonati anche in un contesto di azione presente-futura.
Terza e ultima considerazione.
Ho recentemente avuto un bonario contradditorio con un amico, appassionato, come me, di lingua italiana. Egli sostiene che una frase quale “Vorrei un’auto che avesse il cambio automatico” non ammetta varianti per la subordinata. Fermo restando che io stesso confermerei tale scelta sintattica, il focus, in questo caso, a mio avviso si sposta dai temi affrontati fin qui mettendo in evidenza la proposizione relativa. Riterrei corretta, benché inusuale, anche la costruzione “Vorrei un’auto che abbia il cambio automatico”.
RISPOSTA:
La spiegazione semantica della differenza tra congiuntivo presente e imperfetto nella completiva retta da vorrei è piuttosto debole: distinguere tra vorrei forma di cortesia di voglio e vorrei forma sinceramente desiderativa è una sofisticazione irrealistica. Stabilito che la ragione della preferenza per l’imperfetto nella completiva non è di natura semantica, non è comunque facile stabilire quale sia la ragione effettiva. Un fattore determinante è certamente il modello del periodo ipotetico, che induce il parlante ad associare meccanicamente il condizionale presente al congiuntivo imperfetto. A questo si aggiunge la funzione pragmatica del condizionale, spesso usato per ridurre la partecipazione psicologica del parlante all’evento (vorrei = ‘voglio se è possibile’) e quindi coerente con l’allontanamento dell’evento dal presente operato dall’imperfetto. Si potrebbe obiettare che simili ragioni dovrebbero operare su tutte le reggenze, non soltanto su quelle dei verbi di desiderio, opportunità, necessità; a tale obiezione, però, è facile rispondere: tali verbi sono di gran lunga i più usati al condizionale per reggere una completiva e, per la verità, l’imperfetto è considerato un’alternativa valida anche nei rari casi di verbi non rientranti in queste categorie. Un esempio di quest’ultima osservazione è rappresentato dalle sue due frasi con ci si aspetterebbe e non accetterei. La seconda, per la verità, non è utile perché accettare è molto vicino a volere, come non accettare è vicino a rifiutare, ovvero a non volere (questo a dimostrazione del fatto che è difficile costruire esempi di verbi al condizionale che reggono completive e non esprimono desiderio, opportunità, necessità). Aspettarsi è il tipico verbo che viene usato come controesempio per dimostrare che nella completiva dipendente da un condizionale presente si usa di norma il congiuntivo presente. Ebbene, anche in questo caso l’imperfetto “suona” accettabile, se non addirittura preferibile, a dispetto della norma della consecutio temporum secondo cui il condizionale presente funziona come l’indicativo presente, per cui ci si aspetterebbe che reagisca = ci si aspetta che reagisca. Visto che i parlanti sentono come più appropriato il congiuntivo imperfetto in quasi tutti i casi, compreso questo, il congiuntivo imperfetto si può considerare accettabile; la norma della consecutio, comunque, vige ancora, per cui in un contesto formale è meglio costruire la frase con il congiuntivo presente (ovviamente nei pochi casi di verbi non di desiderio, opportunità, necessità). Al contrario, sebbene non si possa definire errato il congiuntivo presente in dipendenza da verbi di desiderio, opportunità, necessità al condizionale, questa scelta è rischiosa perché verrebbe giudicata come errata dalla maggioranza dei parlanti.
La frase “Vorrei un’auto che avesse il cambio automatico” è sintatticamente non giustificata. La proposizione relativa è indipendente dalla consecutio temporum, per cui l’imperfetto al suo interno indica proprio un evento o uno stato passato. La frase così costruita, quindi, lascia intendere che il parlante voglia adesso un’auto che in passato aveva il cambio automatico. Una vera bizzarria. La costruzione più attesa, pertanto, è “Vorrei un’auto che abbia il cambio automatico” (o anche, in un contesto più colloquiale, che ha il cambio automatico, non certo *che aveva il cambio automatico). Ovviamente, su questa frase agisce l’influenza della costruzione discussa sopra vorrei che + congiuntivo imperfetto (vorrei che la mia auto avesse…), ma in questo caso il modello è fuorviante e va tenuto distinto da questa costruzione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se queste due espressioni sono equivalenti: “Ha commesso un errore ad andare in montagna” (nel senso che sarebbe stato preferibile, per es., se fosse andato al mare) e “Ha commesso un errore andando in montagna”.
Questa seconda formulazione, anche se il significato è facilmente intuibile, fa pensare al fatto che il soggetto abbia commesso un errore non ben precisato mentre si recava in montagna. In ogni caso è corretta anche la seconda espressione?
Desidererei poi sapere se per sinonimo si intende solo una parola che ha lo stesso significato di un’altra o anche, in senso allargato, un’affermazione che corrisponde a un’altra, per esempio “dannarsi l’anima per ottenere un risultato” e “fare i salti mortali per ottenere un risultato”.
RISPOSTA:
Il gerundio è un modo che può assumere diverse funzioni e per questo a volte necessita di informazioni aggiuntive per essere correttamente interpretato. Nella frase “Ha commesso un errore andando in montagna” il gerundio potrebbe essere causale (‘perché è andato / andata in montagna’) o temporale (‘mentre andava in montagna’). La prima interpretazione avvicina moltissimo la frase alla prima variante, nella quale la proposizione ad andare in montagna è proprio una causale implicita; la seconda, al contrario, presume un significato diverso. Va detto che la seconda interpretazione è piuttosto improbabile, visto che errore fa pensare decisamente a un’anticipazione valutativa dell’evento che sta per essere descritto (andare in montagna): per esprimere il significato di un errore non coincidente con l’andare in montagna qualsiasi parlante opterebbe per una costruzione che separi chiaramente i due eventi, per esempio mentre andava in montagna.
Il sinonimo è una parola, un’unità polirematica (per esempio, carro armato = panzer = tank) o una locuzione che abbia un significato riconducibile a una parola (per esempio dannarsi l’anima = sforzarsi). Nel caso di espressioni, a rigore è preferibile usare non il nome sinonimo, ma l’aggettivo sinonimico, quindi espressioni sinonimiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi indicate di seguito – tutte contenenti l’avverbio e congiunzione come – sono ben costruite?
1 – Come non avete capito la prima né la seconda volta, pensereste forse di capire adesso?
2 – Ha riso di gusto, come mai prima (= come mai prima d’ora).
3 – Rise di gusto, come mai prima (= come mai prima d’allora).
4 – Come promesso, ti invio queste foto.
5 – Come da lei indicatomi, le fornirei i dati richiesti.
6 – Come da bando, allego un mio documento di riconoscimento.
RISPOSTA:
Le frasi sono corrette. La prima è un po’ forzata logicamente, ma comunque accettabile: paragona, infatti, un evento che non è avvenuto a una domanda sulla possibilità che un altro evento accada. Suggerirei, per questa frase, di sostituire come con se (se non avete capito…, pensereste di capire adesso?).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggendo le risposte alle domande in archivio, ho letto questa vostra risposta:
“Nella frase (“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”), […] come studente è un complemento predicativo”. Perché la grammatica di R. Zordan analizza le espressioni introdotte da “come, in
qualità di…” apposizioni?
Ho poi un dubbio su questa espressione. Si deve dire “il mio percorso di studi universitariO” o “il mio percorso di studi universitarI”?
Infine, si deve dire (se parla un uomo) “Se fossi stato una persona…” o “Se fossi stata una persona…”?
RISPOSTA:
La classificazione delle espressioni nominali costruite con come è a metà strada tra l’apposizione e il complemento predicativo. Io preferisco distinguere tra casi come lo studente Giuseppe, in cui il sintagma lo studente è strettamente legato al nome che accompagna, al pari di un aggettivo, ed è apposizione, e Giuseppe, come studente, in cui il sintagma ha maggiore autonomia sintattica (potremmo spostarlo in molte posizioni: Giuseppe è bravo, come studente, diversamente dall’altro: *Giuseppe è bravo lo studente). Per comodità, molte grammatiche non fanno una simile distinzione e accomunano le due espressioni nella categoria delle apposizioni, associando il complemento predicativo esclusivamente alla presenza di un verbo copulativo (Giuseppe è diventato uno studente modello) o di un verbo predicativo con funzione copulativa: Giuseppe è stato premiato come studente.
La concordanza dell’aggettivo con espressioni internamente solidali ma non cristallizzate è libera: entrambe le soluzioni, percorso di studi universitario e percorso di studi universitari, sono accettabili e difendibili. Propenderei, comunque, per la concordanza con percorso, visto che è il costituente più simile alla testa di un composto. Nei composti e nelle unità polirematiche (per un approfondimento sul concetto di unità polirematica rimando all’archivio di DICO), infatti, è la testa, cioè il costituente dominante, che guida la concordanza: un capostazione rigoroso (non *un capostazione rigorosa) un treno merci lunghissimo (non *un treno merci lunghissime), occhiali da sole nuovi (non *occhiali da sole nuovo).
Anche quando la parte nominale o il complemento predicativo contiene un nome di genere e/o numero diversi da quelli del soggetto (il suo terzo dubbio) si crea un problema di accordo, questa volta del participio passato o della persona del verbo. A rigore, il verbo (quindi anche il participio passato che ne fa parte, concorda con il soggetto (quindi se fossi stato una persona); l’attrazione della parte nominale, però, è molto forte, perché la parte nominale è il sintagma adiacente al verbo e perché, tutto sommato, con il verbo essere o un verbo copulativo la parte nominale identifica il soggetto al pari del soggetto stesso. Ne consegue che entrambe le soluzioni sono accettabili, con una preferenza, anche in questo caso, per l’accordo con il soggetto.
Un esempio di dubbio sull’accordo della persona del verbo potrebbe essere il seguente: “I miei amici sono la mia famiglia” / “la mia famiglia è i miei amici”. Si noterà dall’esempio che quando il soggetto è plurale e il nome del predicato è singolare il verbo difficilmente va al singolare: i miei amici è la mia famiglia è possibile al pari di se fossi stata una persona, ma sfavorito; al contrario, quando il soggetto è singolare e il nome del predicato plurale è l’accordo con il nome del predicato a essere preferito: la mia famiglia sono i miei amici. Difficile spiegare la ragione di questa differenza di trattamento dell’accordo, ma probabilmente essa dipende dalla maggiore salienza semantica del plurale rispetto al singolare: il plurale, cioè, attrae l’accordo del verbo più fortemente del singolare, a prescindere dalla funzione sintattica dei sintagmi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio circa la seguente costruzione:
“Michele ascoltò la storia della sua adolescenza vista dall’esterno: in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso”.
È corretto scrivere (o dire) lui stesso, o si sarebbe dovuto propendere per se stesso?
RISPOSTA:
Questa frase è senz’altro un caso limite: rappresenta una situazione in cui una persona sente parlare di sé da un’altra persona. Non è sorprendente che questo provochi una certa confusione nei riferimenti dei pronomi. A rigore, sé rimanda al soggetto della frase, quindi nella frase in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso non si può usare, perché il soggetto della frase non è Michele, bensì tutto lui stesso. Ne consegue che lui stesso è il pronome corretto. Nello stesso tempo, però, è evidente che tutto lui stesso è proprio Michele, quindi sé stesso è giustificabile per logica.
Piccola notazione grafematica: nonostante l’inveterata abitudine a scrivere sé senza accento quando è seguito da stesso, consiglio di mantenere sempre l’accento, perché la parola è sempre la stessa e non c’è ragione di modificarne la grafia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre saputo che il condizionale passato non può essere usato per proiettare un’azione al passato del passato. Poniamo però che io debba esprimere una condizione non realizzata nel passato del passato. Ciò diventerebbe difficile senza usare il condizionale passato; es.:”Mario mi disse che, se IN PRECEDENZA lo avessi ingannato, si sarebbe adirato”. Quell’IN PRECEDENZA non lascia dubbi sulla collocazione temporale del periodo ipotetico, ma l’espressione è sintatticamente corretta?
RISPOSTA:
L’espressione è sintatticamente corretta e non in contraddizione con l’assunto iniziale. Innanzitutto le forme verbali avessi ingannato e si sarebbe adirato sono in relazione tra loro nell’ambito del periodo ipotetico, che è solo in parte coincidente con il sistema della consecutio temporum. Anche così, comunque, l’evento descritto dal condizionale passato è senz’altro successivo (non precedente) rispetto al momento passato in cui avviene l’inganno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da sempre – spero a ragione – uso l’aggettivo suo (con le dovute declinazioni di genere e numero) in riferimento al soggetto della proposizione o del complemento, data la versatilità che lo contraddistingue; per contro, proprio nelle mie costruzioni ha avuto – e ha tuttora – un ruolo circoscritto al solo soggetto. Se la premessa è valida, mi sentirei di segnalarvi alcune criticità.
Prendiamo ad esempio la proposizione Paolo era insieme al suo amico e a sua moglie.
Mettiamo, inoltre, che per ragioni a noi ignote non si possa modificare l’assetto della costruzione (che ci permetterebbe di agevolarne la comprensione). A rigore, la moglie in esame sarebbe quella dell’amico di Paolo. Se invece si fosse trattato della moglie di Paolo, si sarebbe optato per propria.
Sviluppando però questa circostanza, per omogenità di stile e di messaggio, a mio avviso, dovremmo sostituire anche l’aggettivo suo in relazione all’amico del soggetto, vale a dire Paolo.
La frase, così rielaborata, avrebbe questo effetto (su cui vorrei interpellarvi): Paolo era insieme al proprio amico e alla propria moglie.
Per tirare le somme, e aggiungendo una subordinata, vi chiederei se le seguenti chiose sono valide: Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con la propria moglie (in questo caso la moglie è dell’amico di Paolo).
Paolo parlò al proprio amico, che decise di confidarsi con sua moglie (in questo caso la moglie è di Paolo).
RISPOSTA:
La distinzione tra suo e proprio è nei termini da lei indicati: proprio si può usare soltanto in riferimento al soggetto della proposizione, mentre suo può riferire a qualsiasi sintagma della frase (immagino che lei intenda questo quando parla di soggetto del complemento). Detto questo, una frase come “Paolo era insieme al suo amico e alla propria moglie” è ineccepibile; la omogeneità di stile e di messaggio da lei evocata è un fattore del tutto soggettivo, non generalizzabile; al contrario, direi che la variante insieme al proprio amico e alla propria moglie risulterebbe inutilmente farraginosa, sebbene non scorretta. Lo stesso dicasi per la seconda frase: la variante Paolo parlò al suo amico è del tutto legittima, visto che non c’è nella frase un altro referente concorrente di Paolo. La terza frase presenta lo stesso problema della prima: a rigore tanto propria moglie quanto sua moglie possono rimandare alla moglie del soggetto della proposizione, il pronome che, a sua volta coreferente di il proprio amico; sua moglie, però, potrebbe essere la moglie di Paolo, per cui, per escludere ogni ambiguità, è preferibile usare propria moglie se la moglie è dell’amico e usare una perifrasi (per esempio con la moglie di Paolo) nel caso in cui la moglie sia di Paolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Che ruolo sintattico assume da te nella frase “Da te voglio una risposta”?
RISPOSTA:
Il sintagma da te dipendente da voglio è un complemento di provenienza. La frase, infatti, può essere parafrasata come voglio una risposta proveniente da te o voglio ricevere una risposta da te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tra i due verbi in maiuscolo è corretto?
TESTO FANTASTICO
… il pesce viveva in quel sasso perché non c’era nessuno, poteva stare solo e nascondere i suoi poteri. Dopo un po’ che Anna e il pesce si SONO GUARDATI / ERANO GUARDATI senza dire niente il pesce ha iniziato a parlare…
RISPOSTA:
Tra le due forme verbali in questione è preferibile il trapassato prossimo, si erano guardati, perché la situazione è collocata in un passato non precisato, scollegato dal presente. Per la stessa ragione, ci si aspetterebbe che l’azione principale sia espressa al passato remoto, quindi il pesce iniziò a parlare.
Il passato prossimo sarebbe stato preferibile, al contrario, in una situazione vicina o collegata in qualche modo al presente, per esempio: “La festa di ieri si è movimentata parecchio dopo che è arrivato Luca” (ma “La festa si movimentò parecchio dopo che era arrivato Luca”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla correttezza dei verbi in questa frase: “Già piangeva, prima di sapere se l’avrei interrogata”.
RISPOSTA:
Le forme verbali sono corrette: l’infinito sapere nella temporale è richiesto dall’identità di soggetto tra la temporale stessa e la reggente ed è in linea con la consecutio temporum, perché il sapere è successivo al piangere. Il condizionale passato avrei interrogata nella interrogativa indiretta è a sua volta in linea con la consecutio, perché l’evento è successivo rispetto a un altro evento passato, ovvero sapere (consideriamo l’evento del sapere passato perché esso è successivo rispetto a un tempo passato). Si intende, ovviamente, che il pronome eliso l’ stia per la, così da giustificare il participio femminile singolare interrogata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Considerando corretta la seguente frase: “Nei giorni feriali sono vietate le visite”, mi domando se lo siano anche: “I giorni feriali sono vietate le visite” oppure: “I giorni feriali sono vietati alle visite”.
RISPOSTA:
La variante i giorni feriali… è corretta, visto che le espressioni nel giorno e il giorno sono entrambe valide per esprimere il tempo determinato.
Vietato a è usato tradizionalmente soltanto in relazione alla persona che non può compiere l’azione, non all’azione stessa. In altre parole, un’azione può essere vietata a qualcuno, ma non si può vietare qualcuno all’azione. Ancora meno è possibile vietare un luogo o un tempo a un’azione, come avviene nel suo esempio.
Una ricerca in Internet rivela l’esistenza attuale della struttura da lei immaginata, ma con pochissimi esempi (quindi da considerare eccezioni) e comunque tutti legati al luogo, non al tempo: monastero / ospedale / stadio vietato alle visite e pochi altri casi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando è possibile non usare il trapassato prossimo? Nelle seguenti frasi, l’anteriorità non viene espressa con il trapassato ma con gli avverbi di tempo:
“Stamattina Franco mi ha detto che ieri è andato dal medico”.
“Marta ha detto che ieri è rimasta a casa tutto il giorno”.
Forse se l’avverbio di tempo esprime chiaramente la relazione dei due fatti passati non è necessario esprimerla con i tempi passati? Quindi sarebbe sbagliata la frase con il trapassato?
Nell due frasi seguenti al passato però bisogna esprimere l’anteriorità con il trapassato. Quindi non sarebbero giuste con il passato prossimo?
“A casa di Lucia ho rivisto una ragazza che avevo conosciuto qualche mese fa in discoteca”.
“Ieri Giulio mi ha reso i soldi che gli avevo prestato un mese fa”.
Nelle seguenti frasi al futuro bisogna usare il passato prossimo o il futuro anteriore? O tutto dipende dal fatto che l’azione sia già accaduta o no?
“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”.
Sono andate = già di sicuro sono accadute;
saranno andate = queste cose non sono ancora avvenute.
“Se Luisa non ci vedrà alle sei, penserà che ci siamo / ci saremo dimenticati dell’appuntamento.
“Diremo ai nostri amici che siamo / saremo dovuti restare a casa fino a quando tornerà Carlo”.
“Sergio sarà sicuro che noi abbiamo / avremo sbagliato strada”.
“Quando vedranno che il figlio è / sarà rimasto a dormire fuori, si arrabbieranno certamente.
RISPOSTA:
La ragione della preferenza per il passato nelle proposizioni subordinate completive nelle prime due frasi è senz’altro la vicinanza dell’evento della reggente al presente e, in più, la presenza dell’avverbio ieri nella subordinata, che instaura una relazione diretta con il presente (ovvero con il momento dell’enunciazione), non con il momento di riferimento, rappresentato dal verbo della reggente. Se modifichiamo ieri con il giorno prima, vediamo che il trapassato diviene molto meno forzato (per poterlo fare, però, dobbiamo anche spostare la principale indietro nel tempo): “L’altro giorno Franco ha detto che il giorno prima è / era andato dal medico”; “Marta ha detto che il giorno prima è / era rimasta a casa tutto il giorno”. Il passato nella completiva rimane possibile anche spostando indietro nel tempo l’evento della reggente: questo avviene perché nella reggente c’è ancora il passato prossimo, che mantiene una relazione logica con il presente. Se sostituiamo il passato prossimo con il passato remoto o con l’imperfetto, il passato prossimo nella completiva diviene quasi impossibile: “Franco disse / diceva che il giorno prima era andato dal medico”; “Marta disse / diceva che il giorno prima era rimasta a casa tutto il giorno”.
Nelle seconde due frasi le subordinate sono relative, non completive. Le relative sono del tutto svincolate dalla consecutio temporum e prendono il tempo che serve a indicare il momento in cui è avvenuto l’evento. Il tempo usato a volte coincide con quello della consecutio (come nei suoi esempi), ma può essere diverso; ce ne accorgiamo perché possiamo usare al suo interno il passato remoto, che nella consecutio temporum non è contemplato: “A casa di Lucia ho rivisto quella ragazza di cui ti parlai qualche mese fa in discoteca”.
Nell’ultimo gruppo di frasi, infine, si può usare il passato prossimo e il futuro anteriore. La differenza è nel punto di vista da cui si guarda l’evento della completiva. Prendiamo ad esempio la prima frase (“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”): se si considera il momento dell’evento della reggente (dirò) come futuro rispetto al momento dell’enunciazione (adesso) nella completiva si userà il futuro anteriore (saranno andate), se lo si considera come coincidente con il momento dell’enunciazione (dirò = adesso) si userà il passato prossimo (sono andate). In questo secondo caso, ovviamente, si fa una piccola forzatura logica, immaginando di spostarsi per un attimo nel futuro e di guardare l’evento della completiva da quel punto di vista come se fosse presente. I parlanti fanno spesso tale forzatura per semplificare la costruzione delle frasi eliminando il problema del momento di riferimento. Questa scelta comporta una conseguenza negativa: si crea ambiguità tra i punti di vista. Il passato prossimo, infatti, può riferirsi anche a un momento precedente all’evento della reggente. In “A voce ti dirò come sono andate le cose con Franco”, cioè, sono andate può essere successo prima di adesso (momento dell’enunciazione) o prima di dirò (momento di riferimento = momento dell’enunciazione). Il fatto che il passato prossimo sia più ambiguo del futuro anteriore lo rende più trascurato; spesso, però, nella comunicazione reale l’ambiguità si risolve in altri modi, per cui il passato prossimo è un’opzione valida.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Rivolgendosi ad una persona di sesso maschile con il pronome di cortesia lei è corretto dire l’avrei chiamato?
RISPOSTA:
La questione è stata affrontata nella risposta n. “Lei”, “voi”, “loro” , che si può leggere nell’archivio di DICO. La situazione è così esemplificata: “Signor Bianchi, la ho (l’ho) chiamata perché lei mi sta simpatico“. In altre parole, l’aggettivo concorda al maschile (simpatico), il participio passato del verbo composto con ausiliare avere e preceduto dal pronome (la) concorda al femminile (chiamata). Il participio passato del verbo composto con ausiliare essere, invece, concorda al maschile (si comporta, cioè, come un aggettivo): “Signor Bianchi, sono contento che lei sia arrivato“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto scrivere: “Se mi scrivi un messaggio lo leggerò come se fosse un romanzo”?
RISPOSTA:
La frase è corretta. Al suo interno troviamo la proposizione principale all’indicativo lo leggerò che regge due subordinate di primo grado: la subordinata ipotetica se mi scrivi un messaggio, con la quale forma un periodo ipotetico del primo tipo, e la proposizione comparativa ipotetica come se fosse un romanzo. Si noti che la proposizione comparativa ipotetica richiede quasi esclusivamente il congiuntivo imperfetto o trapassato (rarissimi il presente e il passato) in relazione al grado di ipoteticità della comparazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le locuzioni a meno che e a a meno di sono intercambiabili a prescindere dalla costruzione che vadano a comporre? Se e quando sarebbe eventualmente opportuno sceglierne una a discapito dell’altra?
Nel caso, ad esempio, di coincidenza dei soggetti di reggente e subordinata, è suggerito l’uso di a meno di, per evitare che si vengano a creare difficoltà interpretative?
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno di non sbagliare l’esame finale.
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno che non sbagliasse (avesse sbagliato?) l’esame finale.
Chiedo, infine, se la scelta tra congiuntivo presente o congiuntivo imperfetto, oppure tra imperfetto e trapassato (come nell’esempio sopra), dipende dal grado di attuazione dell’evento che descrivono.
Non vorrei farlo, a meno che lui non me lo chieda/chiedesse.
RISPOSTA:
Come mostrato dai suoi esempi, a meno che introduce una proposizione eccettuativa esplicita, al congiuntivo o all’indicativo, a meno di introduce la stessa proposizione implicita, cioè all’infinito. La domanda, pertanto, dovrebbe riguardare la differenza non tra le due locuzioni congiuntive, ma tra le due costruzioni della proposizione. Questa proposizione si costruisce quasi sempre in modo esplicito (quindi è introdotta da a meno che); il modo implicito (per il quale è richiesta a meno di) si può usare soltanto quando il soggetto coincide con quello della reggente, ma anche in questo caso la costruzione esplicita è comunissima, come si vede ancora dai suoi esempi.
Per quanto riguarda i tempi del congiuntivo all’interno di questa proposizione, essi dipendono dalla consecutio temporum: il presente indica contemporaneità o posteriorità rispetto al presente, l’imperfetto contemporaneità o posteriorità rispetto al passato, il passato anteriorità rispetto al presente, il trapassato anteriorità rispetto al passato. Il condizionale passato, infine, può essere usato in alternativa con il congiuntivo imperfetto per indicare la posteriorità rispetto al passato. Da questo quadro consegue che le due varianti della seconda frase sono corrette, ma diverse: a meno che non sbagliasse descrive l’evento come posteriore rispetto al momento di riferimento passato implicito nella frase, sullo stesso piano di sarebbe stato ammesso, anch’esso posteriore rispetto allo stesso momento di riferimento implicito; a meno che non avesse sbagliato, invece, descrive l’evento come precedente rispetto a sarebbe stato ammesso. Nella frase finale la situazione è leggermente diversa: a meno che non me lo chiedesse dovrebbe essere impossibile, perché il verbo reggente è al presente, ma il condizionale vorrei avvicina la frase a un periodo ipotetico del secondo tipo = lo farei se lui me lo chiedesse, che rende l’imperfetto accettabile (ma non preferibile). Non a caso, se al condizionale vorrei farlo sostituiamo l’indicativo, l’imperfetto diviene difficilmente giustificabile (*non lo faccio a meno che lui non me lo chiedesse), perché il modello del periodo ipotetico non è più attivato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale alternativa tra avesse e avrebbe completa correttamente le seguenti frasi:
“Credevo che… mangiato poco, invece era sazio.
“Credevo che… comprato qualcosa, invece ritornò a mani vuote”.
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette in entrambe le frasi, ma ne modificano il significato: credevo che avesse mangiato o comprato significa che gli eventi del mangiare e comprare sono avvenuti prima del momento in cui il parlante credeva; credevo che avrebbe mangiato o comprato, al contrario, significa che il mangiare e il comprare potrebbero avvenire dopo il credere.
La prima frase con avrebbe, per quanto grammaticalmente possibile, è l’unica problematica, perché è prevedibile che una persona sazia mangi poco, quindi non si giustifica che la condizione di sazietà della persona sia presentata in opposizione (attraverso il connettivo invece) alla previsione che quella persona avrebbe mangiato poco.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali forme sono corrette?
Me ne hanno parlato bene di lui / mi hanno parlato bene di lui.
Io penso che il meglio DEBBA ancora avvenire / venire?
Io penso che il meglio DEVE ancora avvenire / venire ?
RISPOSTA:
Tutte le varianti di tutte le frasi sono corrette. Ci sono, tra l’una e l’altra, delle differenze semantiche e diafasiche, cioè di registro. Nella prima frase, la seconda variante è del tutto normale; la prima variante, invece, presenta il tema, cioè l’argomento, ripetuto due volte: la prima volta con il pronome ne, la seconda con il sintagma preposizionale di lui. Per un verso, questa ripetizione è un difetto sintattico (per questo motivo questa costruzione è da evitare nello scritto e nel parlato formale); per un altro, in certi contesti può essere utile ripetere due volte il tema, per sottolinearlo. Nella seconda e nella terza frase l’alternanza tra deve e debba è totalmente diafasica; la scelta tra l’una e l’altra forma va fatta in base al registro che si vuole tenere nel discorso: il congiuntivo è più formale, l’indicativo è meno formale. Tra venire e avvenire, invece, c’è una differenza di significato: venire significa ‘arrivare’, avvenire significa ‘succedere’. Entrambi i significati sono perfettamente coerenti con la frase e cambiano di poco il senso generale della frase stessa, quindi entrambi i verbi si possono usare. La frase, comunque, è piuttosto convenzionale ed è costruita quasi sempre con venire.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando chiedo ad una persona quando ad esempio arriverà qualcuno che tempo verbale si usa?
Faccio subito un esempio… Si dice “a che ora arriva Marco?” oppure “a che ora arriverà Marco?”
Quale delle due affermazioni è corretta?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambi i tempi: il futuro è la scelta più tradizionale, e dunque più formale, mentre il presente è la scelta più colloquiale ma adeguata a tutti gli usi.
Da decenni ormai il presente sta soppiantando il futuro in quasi tutti gli usi temporali, per cui non è da stupirsi né da gridare alla lesa maestà linguistica. Del resto, il fatto che l’azione si svolga al futuro è ricavabile praticamente sempre dal contesto. In “Il prossimo anno vado in America” non c’è certo bisogno del futuro per far capire che l’azione non si è ancora svolta, dal momento che basta il complemento di tempo “il prossimo anno”.
Il futuro regge invece ancora molto bene negli usi modali, tipici del parlato. Per es.: “Quanti anni avrà Marina?” – “Secondo me avrà sui trent’anni”. In questo caso (e in moltissimi altri simili: “Saranno state le 10 e un quarto” ecc.) il futuro non indica il tempo futuro dell’azione, bensì una possibilità, un’ipotesi. Quest’uso si chiama modale (perché il tempo è trattato alla stregua di un modo, per indicare l’atteggiamento del parlante), oppure epistemico, cioè ‘che ha a che fare con il grado di verità o certezza di quanto viene detto’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le alternative al seguente esempio, segnalate con 1a, 1b e 1c, sono equivalenti e, soprattutto, anche in caso di differenze a livello di significato, si qualificano come accettabili dal punto di vista grammaticale?
1) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se fosse brutto tempo, starei a casa.
1a) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Se non lo fosse, starei a casa.
1b) Se fosse bel tempo, andrei al lago. In caso contrario, starei a casa.
1c) Se fosse bel tempo, andrei al lago. Diversamente, starei a casa.
RISPOSTA:
Si tratta di alternative tutte corrette e semanticamente praticamente equivalenti, tra le quali si può scegliere in base a criteri stilistici soggettivi. Una piccola sfumatura semantica distintiva si nota nelle ultime due, che aggiungono una locuzione avverbiale e un avverbio, quindi dicono qualcosa in più delle altre due. In caso contrario sottolinea l’opposizione delle due situazioni; diversamente non mette le due situazioni in contrapposizione, ma le qualifica, appunto, come diverse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivo per chiedere qual è il grado di subordinazione di alcune proposizioni nel seguente periodo:
Certamente i soldati erano spronati è la principale e a comportarsi in battaglia in modo coraggioso è subordinata di primo grado. Mi resta però il dubbio se poiché la punizione colpiva a caso sia subordinata di primo o secondo grado.
Analogamente, nel periodo:
è ovvio però è la principale e che essa venisse comminata molto raramente è subordinata di primo grado, ma come va intesa dato che la decimazione riduceva in un sol colpo del dieci per cento la forza del reparto? Come subordinata di primo o di secondo grado?
RISPOSTA:
Per stabilire se una proposizione sia collegata direttamente alla principale (quindi sia di primo grado) o a una subordinata (quindi sia di grado inferiore) bisogna riflettere sulla relazione tra l’evento in essa descritto e gli eventi descritti nelle altre proposizioni.
Nella prima frase, erano spronati a comportarsi è quasi una perifrasi modale, perché il soggetto di spronare potrebbero essere i soldati stessi (erano spronati a comportarsi = si spronavano a comportarsi). Per questo motivo è difficile separare logicamente comportarsi da spronare, quindi decidere se poiché la punizione… sia collegato a spronare o a comportarsi. Nonostante questo, possiamo concludere con sicurezza che la causale dipende dalla principale, perché la causa produce come conseguenza lo spronare, da cui dipende, per un altro verso, il comportarsi. A riprova di questo, vediamo che se escludiamo la proposizione oggettiva il collegamento tra la causale e la principale non viene reciso: Poiché la punizione colpiva a caso… , i soldati erano spronati. Diversamente, se avessimo davvero una subordinata di secondo grado non potremmo escludere l’oggettiva. Ad esempio, nella frase “I soldati erano spronati a comportarsi in modo coraggioso quando erano in battaglia“, se escludiamo l’oggettiva la frase rimane sensata (I soldati erano spronati quando erano in battaglia) ma il suo significato cambia, cioè diventa un’altra frase.
Ancora più difficile è separare è ovvio dalla soggettiva che essa venisse comminata… nella seconda frase. La principale è percepita quasi come un avverbio (è ovvio che essa venisse comminata = essa veniva ovviamente comminata); in più essa, che rimanda a decimazione, è nella subordinata soggettiva, non nella principale, quindi c’è un collegamento referenziale diretto tra la subordinata soggettiva di primo grado e la subordinata causale. In questo caso la logica ci fa propendere decisamente per la dipendenza della causale dalla subordinata soggettiva; la sintassi, però, ci spinge alla soluzione opposta: anche qui la causale dipende dalla principale, da cui, per un altro verso, dipende anche la soggettiva.
Aggiungo che il però in quella posizione è senz’altro da rivedere, perché mette in contrapposizione due eventi che sono l’uno la conseguenza dell’altro. Probabilmente la contrapposizione è tra la causa e quello che era detto prima (che qui non è riportato), quindi: Dato che, però, la decimazione riduceva in un sol colpo del dieci per cento la forza del reparto, è ovvio che essa…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1. Mangia come se non ci fosse un domani.
2. Mangiava / Mangiò come se non ci fosse un domani.
3. Mangia come se ieri avesse digiunato.
4. Mangiava / Mangiò come se il giorno prima avesse digiunato.
Riporto questi esempi costruiti sul sintagma “come se” – per i quali mi rimetto al vostro giudizio – a supporto della tesi secondo cui il congiuntivo imperfetto indica contemporaneità con la reggente (a prescindere dal tempo che la caratterizza) e il congiuntivo trapassato indica anteriorità rispetto alla reggente (sempre prescindendo dal suo tempo).
Infine, vi chiederei anche un’altra cosa: il trapassato può talvolta indicare la contemporaneità della subordinata con una reggente al passato (come alternativa sintattica all’imperfetto, ma con una maggiore sfumatura di incertezza), oppure l’anteriorità è, come dire, implicita e ineludibile? Un esempio:
5. Mi sforzai di apparire impassibile, come se fossi / fossi stato un estraneo.
RISPOSTA:
Nell’ambito della consecutio temporum l’imperfetto indica la contemporaneità e il trapassato l’anteriorità rispetto al passato (quindi non a prescindere dal tempo della reggente). Per esempio:
a. Penso (presente) che lui cerchi (presente = contemporaneità) Luca / abbia cercato (passato = anteriorità) Luca.
b. Pensavo (imperfetto) che lui cercasse (imperfetto = contemporaneità) Luca / avesse cercato (trapassato = anteriorità).
Si noti che il congiuntivo imperfetto può esprimere anche l’anteriorità rispetto al presente, per sottolineare la continuità dell’azione nel passato:
c. “Penso che lui cercasse Luca”.
Inoltre, il trapassato può anche essere usato con una reggente al presente, ma presupponendo un evento intermedio al passato:
d. “Penso che lui avesse cercato Luca (prima che Luca chiamasse). Le consiglio una ricerca con la parola chiave prima che nell’archivio di DICO per un approfondimento sui tempi richiesti dalla congiunzione prima che.
La proposizione comparativa ipotetica richiede l’uso del congiuntivo non secondo la consecutio ma secondo il grado di ipoteticità, che spesso (ma non sempre) non coincide con la consecutio. Il grado di ipoteticità attribuisce all’imperfetto la funzione di esprimere la possibilità e al trapassato quella di esprimere l’improbabilità o l’impossibilità, per questo è possibile usare l’imperfetto per un evento contemporaneo nel presente (frase 1) e il trapassato in dipendenza dal presente senza la presupposizione di un evento passato intermedio (frase 3) e in dipendenza dal passato per esprimere un evento contemporaneo (frase 5). Sempre nella frase 5, mi sforzai… come se fossi è un caso di coincidenza tra uso secondo la consecutio e uso secondo il grado di ipoteticità.
Si noti ancora la differenza tra l’uso della consecutio e quello ipotetico:
“Mangia come se non ci fosse un domani” (uso ipotetico) / “Pensa che non ci fosse un domani” (uso secondo la consecutio). Nella seconda frase è evidente che l’imperfetto fosse si riferisce al passato come cercasse della frase c.
“Mangia come se ieri avesse digiunato” / “Pensa che ieri avesse digiunato”. Nella seconda frase è evidente che c’è un evento intermedio implicito tra avesse digiunato e pensa, che fa da momento di riferimento per il trapassato, come nella frase d.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivo per sottoporle l’uso del verbo fossero all’interno della frase che segue:
Mamah cercò di immaginarsi un futuro in cui avrebbe spiegato ai figli […] ciò che lei stessa aveva appena compreso. Quando fossero stati adulti avrebbero certamente compreso che la scelta […] non era stata un atto di egoismo bensì una prova di amore per la vita.
Sebbene io riconosca la correttezza del congiuntivo, probabilmente avrei optato per il modo condizionale (sarebbero stati). Sarebbe stata un’alternativa corretta?
Approfitto per chiederle qualche riferimento bibliografico sul corretto uso del congiuntivo.
RISPOSTA:
Il congiuntivo trapassato fossero stati entra in relazione con il tempo della reggente, avrebbero compreso, che è condizionale passato (quindi un tempo passato, anche se proiettato nel futuro), rispetto a cui esprime l’anteriorità. L’alternativa sarebbero stati non stabilisce un rapporto di anteriorità con la reggente, ma entra in relazione, attraverso un collegamento non strettamente sintattico, con il verbo cercò, che governa logicamente tutto il passaggio. Sarebbero stati, quindi, indica un evento posteriore rispetto a un altro passato (per questo è detto anche futuro nel passato), alla pari di avrebbero compreso.
Indicazioni sull’uso del congiuntivo si trovano in tutte le grammatiche, per esempio Italiano di Luca Serianni, Garzanti, 1997 (riedita nel 2000 e ristampata decine di volte). Una illustrazione di casi problematici è contenuta anche in L’italiano scritto: usi, regole e dubbi, di Fabio Rossi e il sottoscritto, Carocci, 2019. Un libro agile tutto dedicato all’argomento è Viva il congiuntivo! di Giuseppe Patota e Valeria Della Valle, Sperling & Kupfer, 2014.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio in merito alla comprensione di questa frase:
“Anche se ora non sono in grado di identificare l’origine e di risalire alla causa di questo mio disagio, scelgo di rilasciare ora con amore incondizionato tutte le convinzioni e memorie emozionali collegate che lo hanno generato e che sono entrambe limitanti”.
In particolare, collegate deve indicare che le memorie emozionali sono collegate solamente alle convinzioni, ma la frase potrebbe avere significato ambiguo in quanto le convinzioni e le memorie emozionali potrebbero essere intese come collegate al disagio?
RISPOSTA:
In questa formulazione la frase è ambigua, ma l’interpretazione più probabile è che collegate sia concordato con il sintagma le convinzioni e memorie e rimandi al disagio. Per rimandare inequivocabilmente a convinzioni bisogna inserire l’articolo prima di memorie e aggiungere un pronome: tutte le convinzioni e le memorie emozionali a esse collegate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Titoli come avvocato, professore ecc., se non accompagnati dal cognome, vanno maiuscoli?
Come si comportano i titoli con il sesso delle persone? Sindaco e sindaca? Architetto e architetta?
RISPOSTA:
Non c’è alcuna ragione per scrivere con lettera maiuscola i titoli di professione, anche quando non siano seguiti dal nome della persona. Il maiuscolo può essere usato (ma non è obbligatorio neanche in questo caso) quando il titolo è usato per antonomasia per riferirsi a una persona specifica: l’Avvocato (Giovanni Agnelli), il Professore (Romano Prodi). I titoli di professioni comunemente ritenute prestigiose (Onorevole, ma anche Presidente, Papa, Direttore…) sono spesso scritti con la maiuscola, per sottolinearne il valore distintivo, anche se non è affatto necessario farlo. Quindi, se scrivere l’Avvocato fa pensare a una persona specifica, ovvero l’avvocato Giovanni Agnelli, scrivere l’Onorevole può rimandare a qualunque onorevole che sia stato nominato precedentemente.
I nomi di professione femminili sindaca e architetta sono ben formati e perfettamente legittimi; è preferibile, quindi, usarli quando ci si riferisce a professioniste. Sui nomi di professione femminili rimando a questo articolo pubblicato in DICO.
Nell’articolo è inserito anche il link alla guida Giulia, a cura di Cecilia Robustelli, che spiega dettagliatamente tutti i casi dubbi (il link è questo: https://accademiadellacrusca.it/sites/www.accademiadellacrusca.it/files/page/2014/12/19/donne_grammatica_media.pdf).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase seguente si possono usare entrambi i verbi?
“Lucia si stancò di parlare con l’amico Stefano quindi gli disse che doveva andare / sarebbe andata a fare la spesa”.
RISPOSTA:
I verbi sono corretti, ma ci sono delle differenze tra l’uno e l’altro. Il primo esprime l’idea di futuro nel passato, ovvero di un evento (andare) successivo a un altro passato (disse), con l’indicativo imperfetto; il secondo fa lo stesso con il condizionale passato. L’indicativo imperfetto è meno formale, più familiare e adatto al parlato rispetto al condizionale passato, che è comunque adatto a tutti i contesti. La scelta tra l’uno e l’altro verbo andrà fatta, quindi, sulla base del registro che si vuole tenere nel discorso.
Il primo, inoltre, integra il servile dovere, che aggiunge una sfumatura di significato assente nel secondo. Con il primo verbo, infatti, l’azione dell’andare è rappresentata come obbligata, non come certa (il soggetto dice che deve andare, lasciando aperta la possibilità che scelga di non andare); con il secondo, invece, l’azione è rappresentata come già stabilita, anche se permane un minimo grado di incertezza necessariamente legato all’idea stessa di futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un quesito di analisi logica. Nella frase successiva a quale complemento corrisponde nel pericolo?
“Nel pericolo chiediamo l’aiuto degli amici”.
RISPOSTA:
Il complemento può essere interpretato in modi diversi, a seconda della sfumatura semantica che si ritiene più forte. Potrebbe essere un complemento di stato in luogo figurato, di tempo determinato, di causa (= a causa del pericolo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei porvi una domanda circa il condizionale composto nella sua funzione di futuro nel passato.
Qualora un verbo servile venga adottato per la sua formazione, verrebbe invalidata tale funzione di posteriorità (veicolando invece l’anteriorità), oppure, da questo punto di vista, sarebbe ininfluente?
Mi spiego con alcuni esempi.
a) Pensò che sarei andata da lui (posteriorità);
b) Pensò che sarei potuta andare da lui (anteriorità o posteriorità?).
c) Sospettò che non avrei aderito al progetto (posteriorità);
d) Sospettò che non avrei potuto aderire al progetto (anteriorità o posteriorità?).
e) Mi sono chiesta se sarebbe passata da me per pranzare insieme (posteriorità);
f) Mi sono chiesta se sarebbe potuta passare da me per pranzare insieme (anteriorità o posteriorità?).
RISPOSTA:
Per la verità, il condizionale passato può riferirsi a un evento precedente a un altro passato anche senza la presenza del verbo servile. Questa evenienza, però, è vincolata a un forte significato condizionale, ovvero alla presenza nella frase di una condizione che faccia assumere al condizionale il suo significato proprio di possibile conseguenza. Per esempio: “Pensò che il giorno prima sarei andata da lui se avessi potuto“. Si noti che anche in questo caso, con l’esplicitazione della condizione, se non è possibile stabilire il rapporto temporale tra il condizionale e il verbo al passato, il condizionale viene più facilmente interpretato come posteriore: “Pensò che sarei andata da lui se avessi potuto” = “Pensò che (il giorno dopo) sarei andata da lui se avessi potuto”. In assenza di una condizione esplicita o facilmente recuperabile dal contesto, invece, il condizionale passato viene automaticamente interpretato come posteriore.
La presenza del servile facilita l’interpretazione anteriore, anche se non esclude quella posteriore (come da lei intuito) perché in qualche modo il servile veicola un senso di condizionalità quindi lascia trasparire una condizione. In “Pensò che sarei potuta andare da lui”, per esempio, potuta viene interpretato come se avessi potuto o se fosse stato possibile, quindi è possibile sia “Pensò che (il giorno prima) sarei potuta andare da lui” sia “Pensò che (il giorno dopo) sarei potuta andare da lui”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho notato che in alcune frasi vengono utilizzati i trattini (-), che se non erro sono simili alle virgolette. In questa frase: “Donare sangue – dice spesso – è facile” (riferito chiaramente ad una persona).
Per quale motivo servono i trattini?
RISPOSTA:
I trattini hanno una funzione simile a quella delle parentesi (non hanno, invece, niente a che fare con le virgolette). Possono essere usati per contenere un sintagma (ovvero un pezzo di una proposizione) aggiuntivo, che modifica leggermente il significato della frase in cui è inserito: “Sei arrivato – come sempre – in ritardo”. In questi casi possono essere sostituiti dalle parentesi: “Sei arrivato (come sempre) in ritardo”, o dalle virgole di apertura e chiusura: “Sei arrivato, come sempre, in ritardo”. Rispetto alle parentesi, le virgole e i trattini mettono meno in secondo piano l’informazione che racchiudono.
Più spesso, i trattini sono usati per contenere un’intera proposizione incidentale, dotata di un verbo (come nel suo esempio). In questi casi si possono comunque sostituire con le virgole, mentre difficilmente si useranno le parentesi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi “Io vengo a Milano” e “Io vado a Milano” hanno lo stesso significato e sono entrambe corrette?
RISPOSTA:
Sono entrambe corrette ma hanno un significato leggermente diverso. Il verbo andare significa ‘spostarsi verso un posto nel quale non sono presenti né il parlante né la persona con cui si sta parlando’; venire, invece, significa ‘spostarsi verso un posto dove sono presenti o il parlante, o la persona con cui si sta parlando, o entrambi’. Quindi vado a Milano implica che la persona con cui si sta parlando non sia a Milano (e ovviamente neanche il parlante, visto che è lui che si sposta); vengo a Milano implica che la persona con cui si sta parlando sia a Milano (ma, ancora, non il parlante, visto che è lui che si sposta).
Se la persona che si sposta è quella a cui ci si rivolge (tu o voi) o una terza persona, è il luogo in cui si trova il parlante a determinare la scelta: tu vai a Milano / Mario va a Milano (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano (se il parlante è a Milano).
Si noti che la terza persona non è influente nella scelta tra i due verbi: contano soltanto il parlante e la persona a cui il parlante si rivolge. Vengo a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo è a Milano; vado a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo non è a Milano; tu vai a Milano / Mario va a Milano con Andrea (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano con Andrea (se il parlante è a Milano).
Nel caso in cui nessuno degli interlocutori sia nel luogo verso dove il soggetto di prima o seconda persona (io / noi o tu / voi) si sposta, ma uno dei due accompagni l’altro, si sceglie ancora venire, anche se di norma sarebbe richiesto andare; per questo si dice vengo a Milano con te e vieni a Milano con me (anche se è chiaro che nessuno di noi due si trova a Milano) e non vado a Milano con te, né vai a Milano con me. Un confronto tra italiano e inglese a proposito di quest’uso si può leggere nella risposta “Andare e venire tra italiano e inglese” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire portarsi in casa come nella frase “portarsi in casa un cane”?
RISPOSTA:
Portarsi in in cui in indichi l’ingresso in un luogo non è escluso, anzi in alcuni casi non ha alternative: “Che cosa bisogna portarsi in Danimarca?” (non si può entrare *a Danimarca o *alla Danimarca, mentre si può entrare a Milano); “Luca si è portato il figlio in chiesa” (non sarebbe possibile *a chiesa o *alla chiesa). Nel caso di portarsi a casa o in casa si può scegliere, ma, come sempre quando c’è una scelta, c’è una differenza tra le varianti: a casa significa ‘nell’ambiente familiare, nella propria sfera privata’; in casa significa ‘nel luogo in cui si vive’. Di conseguenza portarsi in casa un cane suggerisce, rispetto a portarsi a casa, un certo distacco emotivo, al limite un certo fastidio, per la situazione (che, ovviamente, potrebbe essere ironico, quindi, antifrastico).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei avere alcune delucidazioni in merito al verbo entrarci: perché non si può scrivere “se l’avessi fatto, NON SAREBBE C’ENTRATO PER NULLA”? Cioè: come mai nella coniugazione del verbo entrarci in tutti i tempi che non comportano l’ausiliare (essere, in quanto il verbo è intransitivo) la particella ci può essere anteposta con elisione al verbo entrare (c’entrare), mentre in quelli che necessitano dell’ausiliare la particella deve essere messa per intero prima dello stesso?
RISPOSTA:
Entrarci si comporta esattamente come tutti gli altri verbi pronominali, cioè costruiti con un pronome (o particella pronominale): all’infinito, al gerundio, all’imperativo il pronome è enclitico, cioè si appoggia (e si scrive attaccato) all’infinito, al gerundio, all’imperativo (entrarci, entrandoci, entraci), nelle forme semplici il pronome si sposta prima del verbo (ci entrai). Al participio passato il pronome si comporta in due modi: quando il participio è una forma autonoma, senza ausiliare, il pronome è enclitico: entratoci, scoprì chi vi si nascondeva); quando il participio fa parte di una forma composta, dal momento che l’unione con l’ausiliare è molto stretta il pronome non va a inserirsi in mezzo, ma “risale” fino a prima dell’ausiliare. Abbiamo così ci sarebbe entrato e simili. Venendosi a trovare prima di essere, il pronome si pronuncia e si scrive per forza per intero davanti alle forme del verbo che cominciano per consonante (ci sono entrato, ci sei entrato…), si può pronunciare attaccato e scrivere con o senza elisione davanti alle forme che cominciano per vocale (c’è / ci è entrato, c’era / ci era entrato…).
Come dicevo, tutti i verbi pronominali si comportano allo stesso modo. Prendiamo andarsene: andarsene (infinito); me ne andai (forma semplice), andatosene (participio passato senza ausiliare), me ne sono andato (forma composta con ausiliare e participio passato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Perché si dice maschera per la persona che lavora nel cinema? Le maschere hanno portato o messo delle maschere un tempo in passato? E se sì, perché?
RISPOSTA:
L’etimologia della parola maschera è discussa: l’ipotesi più accreditata è che la parola base sia il latino tardo MASCA ‘strega’. Il significato originario di ‘finto volto che nasconde i veri lineamenti della persona’ già nel Cinquecento si allarga per indicare anche la persona che porta una maschera. A questo significato risale quello di ‘inserviente di un teatro o di un cinema che svolge vari servizi di accompagnamento degli spettatori’. Nel Settecento, soprattutto a Venezia, infatti, tali inservienti portavano una maschera (quindi erano delle maschere) per nascondere la propria identità e potere quindi decidere con libertà a quale spettatore dare ragione in caso di dispute (in un periodo in cui i teatri erano ambienti meno regolati e formali di oggi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire che fotografia e fotosintesi sono parole che contengono il prefissoide foto- derivato dal greco, mentre invece fotogenico o fotomontaggio sono composti la cui prima parte foto- è una forma nominale abbreviata?
RISPOSTA:
È un modo corretto di descrivere la differenza tra i due tipi di parola, nei quali da una parte abbiamo foto- come componente morfologico isolato che entra in composizione con altri morfemi (si ricordi che anche le parole formate con affissoidi sono composte) e dall’altro abbiamo l’accorciamento di fotografia che entra in composizione con altre parole. Da questa descrizione, si badi, emerge che fotogenico deve essere associato a fotografia e fotosintesi, perché è il risultato della unione di due affissoidi, foto- e -genico.
La stessa distinzione vige tra parole come automatico, in cui auto- è il prefissoide originario, e automunito, in cui auto- è l’accorciamento di automobile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho qualche dubbio in merito alla seguente affermazione. Il vogliate che spesso si usa all’interno di questa frase non mi convince:
“Nel caso in cui aveste ricevuto questo mail per errore, vogliate avvertire il mittente al più presto a mezzo posta elettronica e distruggere il…”
RISPOSTA:
La forma è pienamente legittima, sebbene adatta a contesti molto formali o burocratici. Si tratta del congiuntivo presente, seconda persona plurale, del verbo volere, qui con la funzione esortativa, ovvero finalizzato a indurre il ricevente a fare una certa azione. Il congiuntivo esortativo è la forma che sostituisce l’imperativo in contesti formali; l’alternativa a vogliate avvertire, infatti, è avvertite, decisamente più diretta e aggressiva.
L’accordo al maschile con il nome mail (ma in realtà dovrebbe essere e-mail, o email) è al limite dell’accettabilità. Il nome e-mail è comunemente femminile, per cui ci si aspetterebbe questa e-mail, non questo mail. Il maschile non si può definire un errore in assoluto, visto che il genere dei prestiti dall’inglese è soggetto a oscillazione, ma visto che questo nome è saldamente femminile, il maschile appare discutibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
All’interno del testo della vostra risposta “Proposizioni dipendenti da ipotetiche“, è riportata la seguente affermazione: Il congiuntivo trapassato non può riferirsi alla posterità.
A tutta prima, non ho potuto che ricevere conferma della validità delle mie conoscenze pregresse.
Subito dopo è però sopraggiunto un dubbio: la posterità è considerata in termini assoluti, cioè prescindendo dai punti di ancoraggio delle frasi, oppure è una semplice specificazione del fatto che – com’è ovvio – ogni causa (espressa appunto con il congiuntivo trapassato) è, anche di un secondo soltanto, precedente al suo effetto (espresso con il condizionale passato)?
“Avrebbe certamente consegnato i soldi, se qualcuno in futuro glieli avesse chiesti”.
(Si consegnano i soldi se, un minuto prima, qualcuno li ha chiesti). Tuttavia, rispetto a un’eventuale costruzione come: “Disse che avrebbe consegnato i soldi, se qualcuno in futuro glieli avesse chiesti” anche l’azione con il congiuntivo trapassato è innestata in un tempo posteriore. Di qui, il fulcro del mio interrogativo.
“Si fermò un attimo a pensare. Ed era deciso a farlo di nuovo, nel caso anche nei giorni seguenti qualcuno gli avesse posto la stessa domanda”.
“Avrebbe reagito male a tutti quelli che, nei giorni successivi, avessero preteso un autografo”.
Nelle costruzioni sopra indicate, in cui ho volutamente specificato riferimenti al futuro, il congiuntivo trapassato è scorretto?
E infine, recuperando l’esempio ventilato nell’articolo di cui sopra:
“Se fossi stata un’insegnante, mi sarei prefissa l’impegno di valorizzare i ragazzi che in futuro avessero mostrato…”.
Se il congiuntivo trapassato è inadeguato per riferirsi alla posterità, quale modo e quale tempo si debbono adottare per rappresentare un evento ipotetico (poco probabile o molto improbabile) che sia legato da un rapporto di posteriorità rispetto a un’altra proposizione? Il condizionale passato, che è formalmente adatto allo scopo, può veicolare l’idea dell’ipoteticità?
Scrivendo i ragazzi che in futuro avrebbero mostrato avrei, secondo il mio modestissimo parere, conferito alla frase un carattere di certezza.
RISPOSTA:
La natura del trapassato pone dei limiti a questo tempo: esso deve avere o presuppore un altro evento rispetto al quale è precedente, se è usato in accordo alla consecutio temporum, oppure un evento del quale è la condizione, ovviamente precedente ma al limite anche quasi contemporanea, se è usato in accordo alla logica dell’ipoteticità. Nell’esempio della risposta “Proposizioni dipendenti da ipotetiche“, entrambe le possibilità sono valide, come spiegato in quella sede, perché il valorizzare può essere successivo o la conseguenza del mostrare. La sua riformulazione della frase con l’esplicitazione dell’avverbio in futuro non cambia i termini della questione: in futuro, infatti, viene automaticamente riferito tanto a valorizzare quanto ad avessero mostrato, perché, ancora, prima le qualità si mostrano e poi possono essere valorizzate. Entrambi gli eventi si svolgono in una dimensione posteriore rispetto a un momento di riferimento passato, ma questo non è rilevante, perché la relazione temporale o di ipoteticità di avessero mostrato è solo con valorizzare.
Lo stesso vale per i suoi altri esempi: l’evento del chiedere è in relazione con quello del consegnare, rispetto al quale è precedente o del quale rappresenta la condizione, anche se il consegnare è futuro; l’evento del fare è in relazione con quello del porre, quello del pretendere è in relazione con quello del reagire.
Può anche accadere, per la verità, che l’evento al congiuntivo trapassato sia rappresentato come posteriore al verbo da cui dipende: “Pensò che avrebbe istituito una borsa di studio per gli studenti che si fossero successivamente dimostrati meritevoli”. Il dimostrare è qui senz’altro successivo all’istituire. Questa costruzione è possibile perché presuppone la presenza di un evento implicito che instaura l’effettiva relazione con il congiuntivo trapassato. In questo caso specifico, l’evento implicito è enunciabile così: avrebbe istituito una borsa di studio per aiutare gli studenti che si fossero successivamente dimostrati meritevoli. Il dimostrare, ovviamente, precede o è la condizione dell’aiutare.
Venendo all’ultima parte della sua domanda, effettivamente i ragazzi che in futuro avrebbero mostrato escluderebbe il significato ipotetico e lascerebbe valido soltanto quello temporale; ricordiamo, però, che il congiuntivo trapassato non deve essere interpretato per forza come ipotetico, ma può benissimo rappresentare la precedenza rispetto a un evento passato, che nel nostro caso è avrei valorizzato. In altre parole avrei valorizzato i ragazzi che avessero mostrato pone il mostrare come precedente rispetto al passato avrei valorizzato (si noti che avrei valorizzato è futuro rispetto al momento di riferimento passato implicito, ma passato rispetto al momento dell’enunciazione, che è adesso); avrei valorizzato i ragazzi che avrebbero mostrato pone il mostrare come successivo al momento di riferimento passato implicito al pari del valorizzare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere gentilmente se la particella ci talvolta sia superflua e dunque trascurabile.
1) (Ci) tengo a precisare che…
2) La notizia (ci) ha commosso / commossi tutti.
3) Dentro la casa, (c’)è uno splendido affresco.
Infine, permettetemi una domanda collaterale: ci con valore pronominale, riferito a terza persona sia singolare che plurale, è corretto?
4) Sono diversi anni che non ci parlo (vale a dire che non parlo a lui / lei oppure a loro).
RISPOSTA:
Il pronome atono ci risulta a volte non chiaramente decifrabile, eppure necessario per completare il senso della frase. Sebbene tenere a possa significare ‘avere a cuore’, tenerci a veicola una maggiore partecipazione emotiva del soggetto (un po’ come mangiarsi un panino rispetto al neutrale mangiare un panino). Addirittura, nel verbo esserci ‘trovarsi, stare in un luogo’, la particella è del tutto desemantizzata, tanto che spesso ne ribadiamo il senso con un complemento di luogo. Succede nella sua terza frase, in cui troviamo sia dentro la casa sia ci. Sebbene la particella non abbia un significato specifico, però, non possiamo eliminarla, perché esserci è del tutto cristallizzato e i suoi componenti non possono essere più separati: la variante dentro la casa è un affresco è al limite dell’accettabilità (pochi parlanti nativi la considererebbero corretta).
Il suo secondo esempio si distingue dagli altri, perché in esso ci è un pronome personale, la cui presenza modifica chiaramente la frase:
ha commosso tutti = ‘ha commosso tutte le persone’;
ci ha commosso tutti = ‘ha commosso tutti noi’.
Ci in parlarci, infine, pronominalizza con lui / lei / loro, quindi “Non voglio parlarci” = ‘non voglio parlare con lui / lei / loro’. A lui / loro è pronominalizzato da parlargli; a lei da parlarle.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la forma corretta, gli successe al trono o gli succedette al trono?
RISPOSTA:
Le forme successe e succedette sono varianti, ugualmente corrette, morfologiche (cioè relativamente alla forma), del tutto equivalenti nel significato. Nell’italiano contemporaneo è decisamente preferita la forma successe, sia nel senso di ‘accadde’ sia in quello di ‘prese il posto di’. Visto che la forma succedette è più rara, a essa è stato associato il significato meno comune del verbo, ovvero ‘prese il posto di’. Tale associazione non ha un vero fondamento; si osservino i due esempi seguenti:
“la fissò […] facendo una faccia stranissima, […] a cui succedette [= ‘di cui prese il posto’] una pallidezza di coleroso” (E. De Amicis, Amore e ginnastica,1892).
“Un silenzio profondo, che la impaurì, succedette [= ‘accadde’] nella classe” (E. De Amicis, La maestrina degli operai, 1891).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi la seguente frase:
“Preferirei che gli regalassero qualcosa che usa / userebbe / usasse volentieri”.
In questa frase possono essere utilizzati tutti e tre i modi verbali in parentesi? Oppure qual è quello giusto da adottare?
RISPOSTA:
Tutte e tre le forme sono corrette; ognuna produce un significato diverso, adatto a situazioni diverse.
Normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo se descrive un fatto o il condizionale se descrive un evento condizionato. Nella sua frase, pertanto, usa indica che il qualcosa regalato è effettivamente usato dal destinatario del regalo. Si tratta di una situazione a rigore illogica, perché il destinatario non può usare un oggetto prima che gli sia regalato; a meno che chi parla non si stia augurando (ma non sembra che sia così) che al destinatario sia regalato qualcosa che già possiede. La frase può comunque essere interpretata con meno rigore, attribuendo a qualcosa il significato di ‘qualcosa di un certo genere’: in questo modo l’illogicità sparisce, perché l’emittente si sta augurando che il destinatario riceva un oggetto di un genere che usa volentieri. Ovviamente, l’imprecisione abbassa il livello di formalità della frase, che risulta leggermente trascurata.
Il condizionale userebbe indica che l’uso del qualcosa è, appunto, condizionato dalla ricezione del regalo: … qualcosa che userebbe (se gli venisse regalato). Questa opzione non presenta difficoltà.
Il congiuntivo usasse ricalca il senso dell’indicativo, a cui aggiunge una sfumatura consecutivo-finale che fa sparire automaticamente l’illogicità: … che usasse = ‘che comportasse come conseguenza che il destinatario lo usi’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Lo mandò in quel luogo affinché non potesse più uscire”.
“Lo mandò in quel luogo cosicché non potesse più uscire”.
La prima frase contiene una subordinata finale, la seconda una consecutiva. Basta solamente una congiunzione diversa per cambiare la natura di una subordinata?
RISPOSTA:
Sì, basta cambiare la congiunzione per ottenere una proposizione diversa; per esempio: “Non so se arrivo” / “Non so quando arrivo”. Nel suo caso, però, la proposizione rimane finale.
Non c’è sempre una corrispondenza univoca tra una congiunzione e una proposizione (si pensi a quante proposizioni diverse può introdurre che) e cosicché, in particolare, può introdurre sia una finale sia una consecutiva. Per distinguere le due proposizioni è sufficiente provare a sostituire cosicché con affinché: se è possibile, come nel suo esempio, la proposizione è una finale; altrimenti è una consecutiva. Si può distinguere la finale dalla consecutiva anche considerando il significato della proposizione. La proposizione finale descrive il fine che il soggetto della reggente aveva in mente quando ha fatto o fa quello che è descritto nella reggente. Entrambe le sue frasi fanno questo: descrivono il fine per cui il soggetto sottinteso della reggente (lui o lei) mandò il complemento oggetto (lo) in quel luogo.
Una consecutiva, invece, descrive una conseguenza dell’evento descritto nella reggente. Una proposizione consecutiva adatta alla reggente delle sue frasi potrebbe essere cosicché lui non poté più uscire. Come si vede, questa proposizione ci comunica che cosa successe in conseguenza dell’evento del mandare, non qual era stato il fine del mandare. Si noti anche che la proposizione consecutiva non ammette il congiuntivo, al contrario della finale, che, quando è esplicita, lo pretende.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “Questo verbo regge il dativo della persona che si comanda” oppure bisogna dire “Questo verbo regge il dativo della persona a cui si comanda”?
RISPOSTA:
Molti verbi italiani (e anche latini) hanno diverse reggenze. Comandare, In particolare può reggere in italiano:
1. il complemento oggetto della cosa e il complemento di termine della persona (comandare qualcosa a qualcuno);
2. il complemento oggetto della persona e un complemento che indica una destinazione (comandare qualcuno a un luogo o una mansione);
3. solo il complemento oggetto della persona.
Nel primo caso il verbo prende il significato di ‘dare un ordine’ e la cosa che viene comandata è quasi esclusivamente rappresentata da una proposizione oggettiva all’infinito introdotta da di: “Ho comandato a Luca di star fermo”.
Nel secondo caso il verbo significa ‘inviare, destinare, spostare’: “Luca è stato comandato a un nuovo ufficio”. Come si vede, questo uso è prettamente burocratico.
Nel terzo caso il verbo significa ‘dirigere, governare’: “Luca comanda suo figlio a bacchetta”; “Il generale comanda l’esercito con fermezza” (ma, per esempio, comanda all’esercito di avanzare).
In conclusione, la risposta alla sua domanda è che si comanda se il verbo significa ‘dirigere, governare, avere il comando di’ (o, ma è meno probabile, se significa ‘inviare’), oppure a cui si comanda se significa ‘dare un ordine’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la differenza di significato tra queste due affermazioni?
Senza la necessità di pretendere nulla.
Con la necessità di pretendere nulla.
RISPOSTA:
Le due frasi sono corrette e identiche dal punto di vista del significato.
La prima contiene una doppia negazione (senza e nulla) che rinforza il concetto; la seconda presenta come affermativa una circostanza negativa. Quest’ultima costruzione è normale in altre lingue (come l’inglese), mentre in italiano risulta sgradita ai parlanti, che, invece, preferiscono la doppia negazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Può controllare la correttezza delle seguenti frasi:
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo invio volentieri.
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo invierò volentieri.
– Se vi dovesse servire del materiale, ve lo potrei inviare volentieri.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette; si distinguono per una sfumatura nel significato del verbo inviare. L’indicativo presente sottolinea l’immediatezza dell’azione (sebbene non sia escluso l’uso del presente con funzione di futuro) e la sua fattualità (l’emittente, cioè, sottolinea che l’inviare è valido in assoluto, anche a prescindere dall’ipotesi che il materiale possa servire). L’indicativo futuro sposta l’evento nel futuro. Il condizionale (anche invierei) trascura il dettaglio del tempo, perché il condizionale è valido per il presente e per il futuro, e sottolinea che l’azione dell’inviare è la conseguenza diretta della condizione del servire.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi sono corrette? Posso omettere che?
“Aggiunse che le loro risorse economiche erano ridotte al lumicino, e che le spese per il doppio matrimonio le avrebbero azzerate del tutto”.
“Marco le disse che il mattino seguente l’avrebbe seguita al lavoro con la sua macchina; che avrebbe atteso nel parcheggio dell’ospedale l’invadente donnaiolo e che lo avrebbe affrontato”.
RISPOSTA:
Nella prima frase sconsiglio di omettere il secondo che, perché le due proposizioni oggettive sono del tutto autonome l’una dall’altra, visto che hanno due soggetti diversi.
Nel secondo caso, al contrario, si possono omettere i due che successivi perché le oggettive successive mantengono lo stesso soggetto della prima, quindi si possono configurare come ampliamenti di quest’ultima. Rimane, comunque, possibile esplicitare sempre il che, con l’effetto di sottolineare l’autonomia dei tre eventi descritti dalle rispettive proposizioni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Finalmente ci siamo liberati da tutti quei curiosi” l’espressione “da tutti quei curiosi” svolge la funzione logica di:
A) complemento di separazione
B) complemento di allontanamento
Mi è capitata questa domanda in un concorso ma ho il dubbio che sia errata. Ho sempre studiato il complemento di allontanamento o separazione come un unico complemento, è possibile invece farne una distinzione come indicato nella domanda?
RISPOSTA:
La risposta più corretta è complemento di separazione, visto che l’allontanamento in questo caso è figurato (è una liberazione, per l’appunto), anziché letterale. Ma Lei ha ragione da vendere quando osserva che i due complementi andrebbero studiati insieme, dal momento che la funzione sintattica e il connettivo (da) che ne sono alla base sono i medesimi (anche se nella frase in questione si potrebbe usare anche di, che anzi sarebbe preferibile: “liberarsi di qualcuno”) sia per esprimere l’allontanamento sia per esprimere la separazione. Allontanamento e separazione sono concetti meramente semantici che nulla hanno a che vedere né con la sintassi né con la analisi “logica” (in questo caso molto poco logica). Quindi chi ha costruito quel test mostra competenze linguistiche limitate o eccessivamente (quanto inutilmente) rigide.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” o “credo che avesse dovuto valorizzarti di più”? Perché?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette, ma hanno un significato diverso. Il condizionale passato in questo caso non funge da futuro nel passato, ma rappresenta una variante più cortese del congiuntivo imperfetto. In altre parole “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” equivale dal punto di vista del significato a “credo che dovesse valorizzarti di più”, ma è pragmaticamente meno diretto. Dal punto di vista temporale, il congiuntivo imperfetto (quindi anche il condizionale passato che corrisponde al congiuntivo imperfetto) indica in questo caso che l’evento del trattare è anteriore rispetto all’evento reggente, ovvero rispetto a credo. Il congiuntivo trapassato indica, invece, che l’evento è anteriore rispetto a un altro evento lasciato sottinteso, per esempio: “credo che avesse dovuto valorizzarti di più prima che fosse troppo tardi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto scrivere “Mi hanno chiesto se avessi voluto partecipare questa sera al loro show”?
RISPOSTA:
La forma più attesa di questa frase è quella con il condizionale passato: mi hanno chiesto se avrei voluto partecipare. Possibile, e più formale, anche il congiuntivo imperfetto: mi hanno chiesto se volessi partecipare. In un contesto informale, al contrario, sarebbe accettato anche l’indicativo imperfetto: mi hanno chiesto se volevo partecipare.
In accordo con la consecutio temporum, il condizionale passato e l’indicativo imperfetto sottolineano la posteriorità dell’evento rispetto all’evento della reggente (hanno chiesto); il congiuntivo imperfetto, invece, indica la contemporaneità nel passato.
Il congiuntivo trapassato (avessi voluto), invece, esprime l’anteriorità rispetto a un evento passato, rappresentato nella frase ancora da hanno chiesto. Con il congiuntivo trapassato, quindi, la frase non è scorretta, ma indica che la domanda riguardava la volontà manifestata prima della domanda stessa, come se fosse ieri mi hanno chiesto se il giorno prima avessi voluto partecipare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Con il congiuntivo imperfetto si possono costruire le subordinate sia quando il verbo della principale è coniugato al presente sia quando questo è coniugato al passato?
“Rimango / rimasi fermo davanti alla porta nel caso arrivasse qualcuno”.
Quando abbiamo un tempo del passato nella principale, sono ammessi sia il congiuntivo imperfetto sia il congiuntivo trapassato in questo genere di subordinata, oppure l’imperfetto è sconsigliato? In questo caso, qual è la differenza tra i due tempi?
“Sono rimasto / Rimasi fermo davanti alla porta nel caso arrivasse / fosse arrivato qualcuno”.
RISPOSTA:
Il tempo del congiuntivo nella subordinata ipotetica (introdotta in questo caso da nel caso) della sua frase dipende dalla consecutio temporum, non dal grado di ipoteticità che si vuole attribuire alla proposizione.
Se, pertanto, la subordinata instaura con una reggente un rapporto di contemporaneità, al presente nella reggente corrisponderà il presente nella subordinata: rimango… nel caso arrivi qualcuno. A qualunque passato nella reggente corrisponderà, invece, l’imperfetto: rimasi / sono rimasto / rimanevo / ero rimasto… nel caso arrivasse qualcuno.
Se la subordinata instaura un rapporto di anteriorità con la reggente, al presente corrisponderà il passato: rimango… nel caso sia arrivato qualcuno; al passato corrisponderà il trapassato: rimasi… nel caso fosse arrivato qualcuno.
La semantica del verbo arrivare permette anche la variante rimango… nel caso fosse arrivato qualcuno, perché fosse arrivato = ci sia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Molto spesso nelle grammatiche si parla di condizionale o congiuntivo in maniera troppo semplicistica limitandosi ad indicarne la preferenza nel solo periodo ipotetico senza però specificare le casistiche particolari che si possono verificare per esempio dopo quando, finché, come se o anche se. Nella fattispecie qui sotto riportata, mi sapete gentilmente confermare quali siano le frasi corrette e quali no con relativa argomentazione?
1) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare.
2) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.
3) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare
4) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.
RISPOSTA:
Nelle sue frasi ci sono due ordini di problemi: bisogna decidere da una parte il modo della proposizione relativa che poi arriverebbero / arrivassero; dall’altra il modo della proposizione comparativa ipotetica come se quelli sarebbero / fossero.
La soluzione al primo problema è che sono corretti tutti e due i modi: la proposizione relativa è la più svincolata da regole sulla scelta dei modi e dei tempi verbali, perché funziona da ampliamento di un nome o un pronome (in questo caso quelli). Può, quindi, esprimere la condizionalità con il condizionale, la non fattualità con il congiuntivo (e ricordiamo che la non fattualità espressa dal congiuntivo è molto vaga) e anche la fattualità con l’indicativo: quelli che poi arrivano / arriveranno.
Il modo della comparativa ipotetica è, di norma, il congiuntivo: il condizionale non è previsto. L’indicativo è accettabile come variante trascurata (si comporta come se non gliene frega niente). L’attrazione verso il condizionale nel suo esempio è dovuta al fatto che la comparativa, pur essendo un’ipotesi (per cui richiede il congiuntivo), esprime il risultato di una condizione (idea che si esprime con il condizionale o con l’indicativo). Sarebbero / fossero in grado, infatti, è, dal punto di vista logico, il risultato o della condizione espressa dalla relativa che poi arrivassero (interpretata come ‘se poi arrivassero’), o, se costruiamo la relativa con il condizionale, di una condizione implicita (per esempio come se quelli che poi arriverebbero, arrivando sarebbero in grado di farci migliorare).
Dal punto di vista grammaticale, in conclusione, la variante al condizionale è scorretta (anche se può essere difesa con ragioni logiche). Sebbene sia il congiuntivo il modo corretto, però, suggerisco di sostituire il tempo imperfetto con il presente del verbo modale potere: come se quelli che poi arrivassero / arriverebbero / arriveranno possano essere in grado… In questo modo si mantiene la sfumatura potenziale dell’imperfetto ma si guadagna una più marcata proiezione nel futuro che recupera in parte, in modo grammaticalmente ineccepibile, l’idea della conseguenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se il verbo esitare possa essere utilizzato transitivamente col significato di ‘dare esito aì nella terminologia della linguistica e delle materie affini. Esempio: “Le palatali indoeuropee esitano velari o palatali”, col significato di ‘danno esito a velari o palatali’.
RISPOSTA:
Il verbo esitare 2 (derivato da esito), diverso da esitare 1 (trasfornazione dal latino haesitare), significa ‘smerciare, vendere al dettaglio’, ‘recapitare’ o ‘risolversi in un certo modo’. Nel primo caso si usa soltano in riferimento a merci, nel secondo in riferimento a posta o simili, ed è un burocratismo, nel terzo riferito a malattie in espressioni come esitare in guarigione, esitare in demenza, esitare in una forma di nanismo (tutti esempi autentici tratti da Internet). Si noti che in quest’ultimo caso il verbo non è transitivo, ma richiede sempre la preposizione in.
Escludo, quindi, che un’espressione come esitare velari o simili sia oggi accettabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Avrei voluto che mia figlia si sposasse prima che mio padre ci lasciasse”.
Modificando i tempi e incastrandoli nelle varie soluzioni disponibili, si otterrebbero periodi ugualmente corretti?
1. Avrei voluto che mia figlia si fosse sposata prima che mio padre ci lasciasse.
2. Avrei voluto che mia figlia si sposasse prima che mio padre ci avesse lasciato.
3. Avrei voluto che mia figlia si fosse sposata prima che mio padre ci avesse lasciato.
Sostituendo prima che con quando / finché e modificando parzialmente la costruzione, quali tempi e modi consigliereste?
4. Avrei voluto che mia figlia si sposasse quando mio padre fosse / fosse stato / era ancora in vita.
5. Avrei voluto che mia figlia si sposasse finché mio padre fosse / fosse stato in vita.
RISPOSTA:
Tutte le varianti del primo gruppo sono corrette, ma il cambiamento dei tempi verbali produce delle differenze di significato, alcune sfumate, alcune evidenti.
In base alla consecutio temporum, la frase iniziale rappresenta l’evento dello sposarsi come contemporaneo o successivo nel passato rispetto al volere; sono la costruzione sintattica e la logica a chiarire che lo sposarsi è successivo al volere. Il lasciare, a sua volta, è in relazione allo sposarsi, rispetto al quale è contemporaneo o successivo nel passato. Anche in questo caso, la logica e la sintassi chiariscono che il lasciare è successivo allo sposarsi.
La variante 1 specifica, con il trapassato, che lo sposarsi è precedente al volere. L’imperfetto lasciasse, invece, mantiene il rapporto di posteriorità rispetto allo sposarsi.
La variante 2 è controintuitiva, perché rappresenta il lasciare come precedente allo sposarsi, quando è ovvio il contrario, cioè che l’emittente immagini lo sposarsi come precedente il lasciare.
Questa particolarità è tipica della locuzione congiuntiva prima che, ed è stata descritta nella FAQ “Prima che” e “prima di” dell’archivio di DICO.
Lo stesso vale per la variante 3, nella quale il trapassato avesse sposato specifica l’anteriorità rispetto ad avrei voluto.
Nella frase 4 l’indicativo è senz’altro corretto e mantiene il significato temporale di quando. Il congiuntivo trasforma la proposizione temporale in una condizionale, per cui quando diviene equivalente a se. Di conseguenza le varianti con il congiuntivo sono svincolate dalla temporalità è possono riferirsi a oggi come al passato e persino al futuro. I tempi verbali esprimono, infatti, in questo caso, il grado di possibilità degli eventi (e solo in subordine le relazioni temporali reciproche), non il tempo assoluto degli eventi.
Per ragioni logiche, la variante quando / se mio padre fosse ancora in vita è possibile soltanto se la si colloca nel presente (quando / se mio padre oggi fosse ancora in vita): sarebbe molto strano, infatti, rappresentare come possibile la presenza in vita di una persona nel passato contemporaneamente a un altro evento.
La variante quando mio padre fosse stato in vita è corretta nel passato e nel presente e rappresenta l’essere ancora in vita come irreale, quindi suggerisce che il padre non sia più in vita, oppure non era più in vita, nel momento dello sposarsi. La frase è accettabile anche se la collochiamo nel futuro, con la precisazione che il padre deve essere non più in vita già nel presente (non si può, infatti, rappresentare la presenza in vita di una persona nel futuro come irreale, a meno che la persona non sia già morta oggi): tra un anno avrei voluto che mia figlia si sposasse quando mio padre oggi fosse stato ancora in vita.
Per quanto riguarda la frase 5, la congiunzione finché ammette il congiuntivo come variante più formale dell’indicativo, rimanendo comunque una congiunzione temporale. Dal punto di vista semantico, quindi, fosse = era e fosse stato = era stato. Sia l’imperfetto sia il trapassato sono possibili. L’imperfetto rappresenta l’essere in vita come contemporaneo nel passato allo sposarsi; il trapassato lo rappresenta come precedente, quindi suggerisce che non lo fosse più al momento dello sposarsi.
Si noti che la combinazione di finché con il trapassato congiuntivo o indicativo implica che lo sposarsi sia effettivamente avvenuto; nessuna delle altre varianti della frase chiarisce se lo sposarsi sia avvenuto o no nel momento dell’enunciazione, cioè nel momento in cui le frasi sono state prodotte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice i migliori vini d’Italia o dell’Italia?
I jeans robusti sono quelli larghi, non stretti?
RISPOSTA:
L’espressione comune è i migliori vini d’Italia. Si userebbe dell’Italia soltanto se l’Italia fosse il secondo termine di un paragone: la Francia ha più vini dell’Italia.
L’aggettivo robusto significa anche ‘adatto a persone robuste’, quindi ‘largo’. Non può significare mai ‘stretto’. Con il significato di ‘largo’, però, non si usa riferito ai capi di abbigliamento, ma soltanto alle taglie; si dice jeans di taglia robusta, non jeans robusti. Ovviamente si può dire jeans robusti, ma solo se si intende ‘jeans forti, resistenti, che non si rompono facilmente’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è il connettivo giusto?
“Non mi trovi piu bella che / di prima?”
Come posso scegliere la forma giusta davanti agli avverbi?
RISPOSTA:
Quando si mettono a confronto due avverbi, il secondo è introdotto sempre da che: meglio prima che dopo, meglio dopo che prima, meglio bene che velocemente…
Anche in questo caso si userebbe che se l’avverbio che rappresenta il primo termine di paragone fosse esplicitato: più bella ora che prima. Senza l’avverbio ora si può ancora usare che (più bella che prima), ma la frase suona strana, perché sembra che si stia facendo un confronto, impossibile, tra l’aggettivo bella e l’avverbio prima. La forma più bella di prima permette di evitare questa ambiguità (la preposizione di, infatti, indica una relazione più ampia rispetto a che). Più bella di prima è, quindi, preferibile a più bella che prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Posso utilizzare la seguente coniugazione dei verbi: “Se gli inquirenti ravviseranno responsabilità da
attribuire alla dirigenza…”?
RISPOSTA:
La costruzione è corretta: la protasi del periodo ipotetico (la proposizione che inizia con se) può contenere l’indicativo futuro per esprimere una condizione futura che l’emittente ritiene fattuale. Diversamente, la condizione sarebbe rappresentata come possibile (non fattuale) con il congiuntivo imperfetto: se gli inquirenti ravvisassero responsabilità…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo frasi sulle quali vorrei dei suggerimenti circa la punteggiatura. Tra parentesi ho inserito le alternative per sottoporle al vostro giudizio.
1. Non vorrei essere invadente: (;) spero che il tuo problema si sia risolto.
2. Ho saputo della tua malattia: (;) (.) come stai adesso?
3. Il ricordo di lei, bellissimo; le passeggiate di primavera; il sapore dei gelati, gustosi; (,) e l’amore dei nonni.
4. Scusa se ti disturbo di nuovo; (:) vorrei chiederti un favore.
5. Ti ho lasciato un messaggio in casa. Non so se lo leggerai. Comunque: (,) per cena, scongela il pane e riscalda la minestra.
6. Tutto avveniva secondo la scaletta preorganizzata: (,) (;) non serviva a niente affrettarsi.
RISPOSTA:
La scelta della punteggiatura raramente è esclusiva; quasi sempre ci sono almeno due possibilità di punteggiare i testi, che producono sfumature semantiche ora sottili, ora evidenti. Tra le opzioni che lei propone le uniche discutibili sono le seguenti:
3. … il sapore dei gelati, gustosi; e l’amore dei nonni. Sebbene il punto e virgola sia correlato con gli altri precedenti, sembra superfluo prima della congiunzione copulativa, mentre la virgola è richiesta per chiudere l’inciso , gustosi,. Un’alternativa che salverebbe tutte le esigenze sarebbe … gelati, gustosi; l’amore dei nonni.
6. … scaletta preorganizzata, non serviva… La virgola non è adatta a separare due unità totalmente autonome dal punto di vista sintattico, tanto da poter essere identificate come due enunciati diversi (potremmo, infatti, separarle con il punto fermo).
Per il resto, i segni sono pienamente legittimi, ognuno con la sua specifica funzione: i due punti introducono una spiegazione (anche in forma di elenco) o la conseguenza di quanto detto prima; il punto e virgola separa due unità informative logicamente e sintatticamente autonome, o due enunciati; il punto fermo separa due enunciati o due unità testuali più ampie.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io dico “Arrendersi al lavoro o arrendersi alla felicità” si intende una resa positiva o un abbandono? L’arrendersi viene visto come una sconfitta o come una accettazione? Arrendersi al lavoro significa accettarlo o rifiutarlo? La frase potrebbe avere significato ambiguo?
RISPOSTA:
Il significato del verbo arrendersi implica l’accettazione di una condizione, ma in seguito a una forzatura della volontà del soggetto; non ci si arrende se non spinti da un’esigenza o da una pressione esterna, quindi senza piena convinzione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Una ragazza di fronte a due ragazzi e con le mani dietro la schiena con in mano qualcosa, lei si gira di spalle ed in mano ha un orologio. Uno dei ragazzi esclama all’altro: – Pensavi avrebbe avuto un telefono al posto dell’orologio?
In questo caso sarebbe stato meglio avesse avuto o no?
RISPOSTA:
La costruzione con il condizionale passato va bene; quella con il congiuntivo trapassato no. Il condizionale passato esprime il futuro nel passato; la sua frase con il condizionale passato, pertanto, equivale a pensavi che in seguito, quando si sarebbe girata, avrebbe avuto un telefono?
Il congiuntivo trapassato, invece, esprime l’anteriorità rispetto al passato; la sua frase con il congiuntivo trapassato, pertanto, equivale a pensavi che prima di adesso lei avesse avuto un telefono? Chiaramente, non è questo che il parlante intende.
Un’altra possibilità è pensavi avesse un telefono…, nella quale il congiuntivo imperfetto esprime la contemporaneità nel passato, quindi si riferisce al fatto che il telefono era già nella mano della ragazza mentre l’altro ragazzo ci stava pensando.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un tizio mi scrive: “Ultimamente il tuo linguaggio non è certo molto dissimile da quelli che tu chiami
calunniatori sottili anzi sta assumendo una connotazione sempre più grossolana”.
E io gli rispondo: “Se il mio linguaggio non sarebbe dissimile da quello che io chiamo dei calunniatori sottili, come potrebbe assumere anche una connotazione sempre più “grossolana”?”.
Perché, ben consapevole che il condizionale (sarebbe) non si può usare nella protasi del periodo ipotetico, in questo caso non mi suona affatto stonato?
Se avessi usato siccome al posto di se (siccome il mio linguaggio non sarebbe dissimile da…) la frase sarebbe stata più corretta?
RISPOSTA:
Il condizionale può non essere stonato nella sua frase, ma si tratta di una scelta al limite dell’accettabilità. Sarebbe si può accettare non come sostituto di fosse (errore senza appello), ma come sostituto di è, all’interno della protasi di un periodo ipotetico del primo tipo. In questo caso, quindi, il condizionale non ha la funzione propria di modo dell’evento condizionato (cosa che confligge con la funzione semantica della protasi del periodo ipotetico), ma ha quella pragmatica di modulatore della fattualità. In altre parole, con se il mio linguaggio non sarebbe dissimile lo scrivente intende se il mio linguaggio non è – come tu sostieni – dissimile. Nella comunicazione comune il condizionale svolge spesso questa funzione, anche se non all’interno di periodi ipotetici; serve a separare il punto di vista del parlante da quello della persona che ha dichiarato qualcosa nel momento in cui il parlante riporta quella dichiarazione: “Il recovery fund risolverebbe la grave situazione economica italiana” = “(Secondo alcuni, non secondo chi parla) il recovery fund risolverà la grave situazione economica italiana”.
Nella sua frase la protasi può essere anche costruita con il congiuntivo imperfetto, ottenendo un periodo ipotetico del secondo tipo: “Se il mio linguaggio non fosse dissimile da quello che io chiamo dei calunniatori sottili, come potrebbe assumere anche una connotazione…”. Il risultato comunicativo di questa costruzione è molto simile a quello ottenuto con la protasi al condizionale (se sarebbe = ‘se – come tu sostieni – è’; se fosse = ‘nell’eventualità non confermata che fosse’) e con il congiuntivo si elimina il sospetto di errore; ci sono tutte le ragioni, quindi, per optare per questa soluzione.
In difesa della protasi al condizionale, però, aggiungo che essa contiene una punta di ironia in più, proprio per via della svalorizzazione del punto di vista dell’interlocutore veicolata da sarebbe.
Per quanto riguarda la sostituzione di se con siccome, la proposizione che da ipotetica diviene causale funziona certamente bene con il condizionale; d’altro canto, però, questa proposizione rappresenta meno efficacemente della proposizione ipotetica il collegamento logico qui ricercato con la reggente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi “Quando puoi, chiamami, così da poterti spiegare la situazione” e “Quando puoi, chiamami, così posso / potrò, spiegarti la questione” sono equivalenti dal punto di vista del messaggio e sono tutte e due corrette?
Inoltre, la frase “Quando puoi, chiamami, così da essere informato sulla questione” può essere intesa, grosso modo, come “Quando puoi, chiamami, così potrai (affinché tu possa) essere informato sulla questione”?
RISPOSTA:
Tutte le frasi sono simili; ognuna, però, presenta qualche sfumatura di differenza, nella forma o nel significato. La prima ha un difetto sintattico, perché contiene una subordinata finale implicita il cui soggetto (tu) non coincide con quello della reggente (io). Per questo motivo, la seconda frase, con la subordinata esplicita, è preferibile. In questa seconda frase, la scelta tra posso e potrò dipende dalla formalità del contesto: il futuro è più preciso, quindi più formale, del presente. Ancora più formale sarebbe il congiuntivo presente (così che io possa spiegarti…). Un difetto in questa frase, da eliminare senz’altro, è la virgola tra il verbo servile e l’infinito da questo retto. Infine si noti che nella prima frase si parla di situazione, nella seconda (e nelle successive) di questione, che sono ovviamente oggetti diversi.
La differenza maggiore tra la terza e la quarta frase è la presenza, nella quarta, del servile, che sottolinea la potenzialità dell’evento dell’essere informato, laddove la terza lo descrive come fattuale. In altre parole, nella terza si dice se chiami sarai informato, nella quarta se chiami potrai essere informato. Le due frasi possono essere accorpate per sfruttare la costruzione implicita della terza (preferibile vista l’identità di soggetto tra la finale e la reggente) e la sfumatura potenziale: così da poter essere informato. In questo modo si costruisce una finale implicita passiva, particolarmente complessa, quindi adatta a un contesto molto formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivendo “Il procuratore disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita” senza l’ausilio del cosiddetto co-testo, potrei, dal punto di vista sintattico, collegarmi tanto al futuro quanto al passato?
1. avrebbe dovuto essere demolita = ‘dovrà essere demolita’.
2. avrebbe dovuto essere demolita = ‘doveva essere stata già demolita’.
In che modo si può disambiguare il periodo, usando soltanto le forme verbali?
RISPOSTA:
La frase è effettivamente ambigua: il condizionale passato dei verbi servili serve normalmente per esprimere un evento controfattuale nel passato (avrebbe dovuto / potuto / voluto essere presente ma non ce l’ha fatta), ma, quando è retto da un verbo di dire o pensare al passato, viene a coincidere con il costrutto del futuro nel passato (arricchito dalla sfumatura modale apportata dal verbo servile), senza perdere, però, l’altra funzione.
Eliminando il verbo servile il condizionale passato assume soltanto la funzione di futuro nel passato: disse che la costruzione sarebbe stata demolita. Proprio questo è un modo per evitare l’ambiguità nel caso in cui il costrutto sia da intendere come futuro; la sfumatura deontica (quella fornita dal verbo dovere) può essere recuperata con un avverbio di giudizio: disse che la costruzione sarebbe stata sicuramente demolita. Un altro modo per ovviare al problema è aggiungere un avverbio di tempo o un’espressione temporale. In questo modo si può usare il costrutto per il passato o per il futuro: disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita tempo prima / disse che la costruzione avrebbe dovuto essere demolita di lì a un anno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Che cosa significano e quando si usano le seguenti espressioni?
1. Dammi un numero, presto!
2. Hai una domanda di riserva?
3. Non ti passa un giorno.
4. Sono aperti i negozi oggi?
5. Quando la bagniamo?
6. Ben gli sta.
7. Che taglio, complimenti.
8. Bentrovato!
RISPOSTA:
Le espressioni 1, 3 e 4 non hanno un significato figurato codificato.
La 2 è un modo ironico per ammettere di non conoscere la risposta a una domanda, oppure di preferire non rispondere a una domanda.
Nella 5 il verbo bagnare è usato probabilmente nel senso di ‘inaugurare’ oppure ‘festeggiare un successo’ (dipende dal referente di la). Il verbo bagnare assume questo significato perché un elemento tipico dei festeggiamenti e delle inaugurazioni è il bere convivialmente.
La 6 si dice per criticare qualcuno che ha fatto un danno a sé stesso per non aver prestato ascolto a un consiglio o per aver fatto un’azione irresponsabile o cattiva. Per esempio quando uno scherzo di cattivo gusto si ritorce contro la persona che lo ha tentato.
La 7 è probabilmente un complimento per una persona che si è appena tagliata i capelli. Ricordo anche che a Roma si dice “Che taglio!” con il significato di ‘che bello!, fantastico!’. Questo, però, è un uso gergale.
Infine, bentrovato è del tutto analogo a bentornato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere qualcosa sull’anteriorità e la contemporaneità. In questa frase per forza devo usare il passato dell’infinito per esprimere anteriorità, perché l’atto di trovare lavoro forse è successo prima?
“È stata una vera fortuna aver trovato lavoro”.
RISPOSTA:
Nella frase si possono usare sia l’infinito presente sia il passato. Con il presente si sottolinea che la fortuna si è verificata nel momento in cui è stato trovato il lavoro; con il passato, invece, la fortuna è rappresentata come successiva (quindi probabilmente anche conseguente) all’aver trovato il lavoro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “Quando fosse stato interpellato, avrebbe dovuto dire quanta voglia a) ha / abbia b) avesse di visitare di nuovo la sua città”.
2) “Mi sono domandato spesso per quale ragione io a) scrivo / scriva b) scrivessi” (La selezione del presente, indicativo o congiuntivo, può essere giustificata dall’attualità del fatto, a prescindere dal passato prossimo della reggente? Scegliere, per contro, l’imperfetto, fa decadere il collegamento con l’attualità del fatto: scrivessi = ‘ma adesso non scrivo più’).
3) “Aveva lasciato detto di essere chiamato nel caso a) pervenissero b) fossero pervenuti i documenti che stava cercando da tempo”.
4) “Vorrei che tu partissi all’alba, mentre (usato con valore temporale) il sole a) sorge / sorgerà b) sorga”.
RISPOSTA:
Nella frase 1) il presente non è possibile, visto che la proposizione interrogativa indiretta (quanta voglia avesse) descrive un evento contemporaneo nel passato rispetto a quello descritto nella reggente (avrebbe dovuto dire).
Nella frase 2) sono possibili sia il presente sia l’imperfetto. La distinzione tra indicativo e congiuntivo (presente, ma anche imperfetto) è di tipo diafasico, cioè relativa alla formalità: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. La scelta dei tempi, invece, influenza il rapporto temporale con la reggente. Il presente instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con l’evento descritto dalla reggente. Questo è possibile quando la reggente ha il passato prossimo perché questo tempo, pur essendo passato, proietta l’evento nel presente.
L’imperfetto, rispetto al presente, veicola un senso vicino a quello da lei stessa inteso. Come nella prima frase, infatti, l’imperfetto instaura un rapporto di contemporaneità nel passato con la reggente, quindi descrive l’atto di scrivere come avvenuto nel passato, ma non per forza concluso nel presente.
Nella frase 3) sono possibili entrambi i tempi del congiuntivo. La scelta dipenderà dal grado di probabilità che il parlante attribuisce all’evento del pervenire: l’imperfetto rappresenta l’evento come possibile; il trapassato come improbabile.
Nella 4) deve essere usato l’indicativo, presente o futuro. Il congiuntivo, infatti, non è di norma usato nella temporale introdotta da mentre. La scelta tra indicativo presente e futuro dipenderà da quanto il parlante vuole essere preciso sulla collocazione temporale dell’evento del sorgere (che, comunque, è facilmente collocabile nel futuro per logica, anche senza usare il futuro).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
PRIMA CHE NEL DISCORSO INDIRETTO
Nella trasformazione sintattica da discorso diretto a indiretto, il congiuntivo presente diventa imperfetto e il congiuntivo passato diventa trapassato?
1) Giovanni ha detto a Lara: “Dovrai rincasare prima che vada a letto” diventa “Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”
e
2) Giovanni disse a Lara: “Dovrai rincasare prima che sia andato a letto” diventa “Giovanni disse a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”?
Vi domando inoltre se il congiuntivo presente vada può restare invariato nel discorso indiretto – quale alternativa all’imperfetto. Sono possibili entrambi?
Relativamente alla seconda frase, penso che fosse andato possa essere anche sostituito da andasse. Nel caso fosse così, quale tempo consigliate, al di là della trasformazione del discorso diretto, tra i due?
RISPOSTA:
Nell’analizzare i suoi esempi bisogna considerare innanzitutto il tempo del verbo della reggente della proposizione oggettiva che rappresenta il discorso indiretto. Se il tempo è passato allora il presente del discorso diretto diviene, nella oggettiva, imperfetto (salve sfumature semantiche particolari che richiedano altri tempi).
Il suo dubbio circa la possibilità di lasciare invariato vada nella prima frase dipende dal fatto che in essa il verbo della reggente sia al passato prossimo. Il passato prossimo (nel nostro caso ha detto) si può comportare come il presente o come il passato, perché, pur essendo passato, proietta gli eventi nel presente. La sua trasformazione, con vada che diventa andasse, funziona se la situazione è collocata nel passato, per esempio: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”; se, invece, è collocata nel presente, vada rimane uguale: “Giovanni ha appena detto a Lara di rincasare prima che lui vada a letto”. Per la verità, anche in questo secondo caso si potrebbe usare l’imperfetto (andasse), valorizzando il fatto che l’atto del dire sia comunque avvenuto nel passato; sarebbe, però, una scelta marcata, insolita.
Con il passato remoto non ci sono dubbi sulla collocazione della situazione, quindi il presente diviene imperfetto e il passato (sia andato) diviene trapassato (fosse andato).
Anche il suo ultimo dubbio sulla possibilità di sostituire fosse andato con andasse è legittimo e anche per esso la risposta è affermativa. Il dubbio, però, dipende dalla costruzione della temporale introdotta da prima che, e non ha a che fare con la struttura del discorso indiretto. Lo dimostra il fatto che anche nella prima frase andasse si può sostituire con fosse andato: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”. La possibilità di usare il passato nella proposizione introdotta da prima che in relazione al presente nella reggente (quindi di usare il trapassato in relazione al passato nella reggente) è discussa nella FAQ “Prima che” e “prima di” dell’archivio di DICO. Altre risposte sull’argomento si possono trovare usando il motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste dirmi quale delle due frasi è corretta? Nella prima è presente potrebbe, nella seconda possa.
1. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai?
2. Quanti studenti sarebbero disposti a continuare la propria ricerca consapevoli che il sistema dell’arte possa non accoglierli mai?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Nella proposizione oggettiva (nel nostro caso che il sistema dell’arte potrebbe / possa non accoglierli mai) possiamo trovare sia il congiuntivo, sia il condizionale. Possiamo anche trovare l’indicativo (che il sistema dell’arte può non accoglierli mai), che è equivalente al congiuntivo, ma meno formale.
La scelta tra il congiuntivo e il condizionale è dettata da ragioni semantiche: il congiuntivo rappresente la soluzione più lineare, senza sfumature particolari; il condizionale aggiunge la sfumatura che gli è propria, introducendo una condizione implicita. Nel nostro caso, con il condizionale si può alludere a una condizione, o una concessione, come che il sistema dell’arte potrebbe non accoglierli mai (anche se riuscissero a diventare dei professionisti).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La mia domanda riguarda la congiunzione mentre, in relazione alla scelta del verbo all’interno della proposizione che essa può introdurre.
“Ti guarderei riposare mentre io leggerei / leggerò / leggo un libro”.
Le soluzioni sono tutte ammissibili, o, di norma, è consigliato, per ragioni prettamente sintattiche o di attrazione, che i due predicati delle proposizioni, riferendosi ad azioni contestuali, abbiamo lo stesso tempo (guarderei / leggerei, in questo caso specifico)?
Dubbio analogo al precedente: “Se ti guardassi riposare mentre io leggessi / legga / leggo / leggerò un libro, i nostri genitori sarebbero tranquilli”.
RISPOSTA:
La congiunzione mentre introduce una proposizione temporale che descrive un evento contemporaneo a un altro. Nella prima frase, se l’evento di riferimento è guarderei, nella proposizione temporale possono essere usate tutte le forme da lei ipotizzate, ma non in modo intercambiabile, visto che ognuna ha una specifica funzione. Il condizionale leggerei descrive l’azione come condizionata al pari di guarderei: se fossimo in vacanza ti guarderei mentre leggerei. L’indicativo presente descrive l’azione come fattuale al presente: in questo momento ti guarderei mentre leggo; il futuro la descrive come fattuale al futuro: domani alla conferenza ti guarderei (se potessi) mentre leggerò.
Nella seconda frase sono possibili tutte le forme tranne legga, visto che la proposizione temporale non richiede di norma il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto leggessi si giustifica soltanto per via dell’attrazione da parte di guardassi nell’orbita della protasi del periodo ipotetico, che fa assumere alla proposizione temporale una sfumatura ipotetica (se ti guardassi mentre / se io leggessi…). Gli indicativi presente e futuro, a loro volta, descrivono l’azione come fattuale al presente e al futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Recentemente sono stata corretta dopo aver pronunciato la seguente frase: “Vorrei che tu fossi già a casa per quando sarò tornata dal lavoro”.
L’interlocutore sosteneva che avrei dovuto dire per quando tornerò dal lavoro. La mia scelta, secondo lui, era ingiustificata.
Avevo scelto di proposito il futuro anteriore per una ragione che vorrei fosse valutata da voi: indicare la conclusione dell’evento, spostando il mio punto di vista, per così dire, un attimo dopo la conclusione stessa.
Domando: il futuro anteriore può assolvere a questa funzione, anche autonomamente, o ha sempre bisogno, perché sia giustificato, di un’azione futura alla quale sia anteriore (di qui la sua denominazione).
È possibile che questo momento di riferimento sia implicito nel senso generale della frase?
Ho letto su una rivista una costruzione come questa: “Alla fine del 2020 saranno state vendute non meno di 10.000 bottiglie di vino rosato”.
In questo caso non ci sono azioni al futuro semplice, eppure il futuro anteriore mi pare che sia corretto, se si sposta il punto di vista alla fine dell’anno in corso.
RISPOSTA:
Il suo ragionamento è corretto, ma è applicato all’esempio sbagliato. Il futuro anteriore esprime sempre un evento precedente rispetto a un altro evento futuro; questo evento futuro, però, può essere ricavato contestualmente, senza che ci siano verbi coniugati al futuro. Nella frase “Alla fine del 2020 saranno state vendute non meno di 10.000 bottiglie di vino rosato”, per esempio, l’evento futuro è alla fine del 2020, equivalente a quando il 2020 sarà finito. Il futuro anteriore saranno state vendute precede, quindi, la fine del 2020.
Nella sua prima frase c’è un evento futuro (che tu fossi già a casa), rispetto al quale, però, l’evento del tornare è successivo, non precedente. L’avverbio già, infatti, non lascia dubbi sul fatto che la condizione di essere a casa del soggetto 2 preceda l’azione del tornare del soggetto 1 (non a caso già accompagna spesso, al contrario, il verbo al futuro anteriore). In questo caso, il tempo atteso per tornare non può che essere tornerò (o, in un contesto informale, torno).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta l’espressione “Non dimenticherò quello che mi hai detto: mi scrivo tutto”?
RISPOSTA:
Sì: scriversi (tutto), mangiarsi (una pizza), farsi (una passeggiata) sono verbi che non avrebbero bisogno del pronome di appoggio, ma lo aggiungono per esprimere una forte partecipazione emotiva all’azione. Rispetto a scrivere, insomma, scriversi significa qualcosa come ‘scrivere con attenzione’.
Chiaramente, in contesti formali scriversi e simili vanno sostituiti con espressioni più precise, come, appunto, scrivere con attenzione, mangiare con soddisfazione, fare volentieri ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una chat ho detto “non si capisce quello che vorresti dire” riferita ad una frase di qualche secondo prima. La forma al passato del condizionale, avresti voluto, sarebbe stata più corretta da usare?
RISPOSTA:
Non sarebbe stata più corretta, ma semanticamente diversa: vorresti dire rappresenta l’atto del dire come ancora attuale, mentre avresti voluto dire lo riporta al momento in cui è stato detto qualcosa. Nel primo caso, quindi, si considera la cosa detta come rilevante per il prosieguo della conversazione; nel secondo caso la si mantiene nel passato, suggerendo che sia poco rilevante.
Al posto del condizionale, si può usare il congiuntivo, più adatto a contesti formali: “Non si capisce quello che tu voglia / abbia voluto dire”. Al contrario, l’indicativo è più diretto del condizionale, quindi è adatto a contesti molto informali, perché è privo della cortesia veicolata dal condizionale: “Non si capisce quello che vuoi / hai voluto dire”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
in un costrutto in cui il passato remoto sostiene le azioni certe è corretto adottare il congiuntivo passato per indicare un’azione a sua volta conclusa ma di cui il parlante non è pienamente sicuro?
“Lui parlò, mangiò e credo che abbia visto un film”.
Se anche il vedere un film fosse stato un fatto certo, oltreché concluso, si sarebbe detto vide un film.
Ecco: se esiste, qual è l’equivalente al congiuntivo del passato remoto?
Mi capita talvolta di adottare, istintivamente, il congiuntivo passato per subordinate di periodi in cui la reggente sia introdotta da non vorrei che:
“Non vorrei che i tuoi genitori, poc’anzi, si siano offesi per ciò che ho detto”.
Si tratta di un errore?
RISPOSTA:
L’alternanza tra indicativo e congiuntivo nelle proposizioni completive non è dovuta alla certezza dell’emittente su ciò che sta dicendo, ma al grado di formalità che vuole adottare. In particolare, in dipendenza da verbi di opinione (che, come capisce bene, esprimono già da sé l’idea dell’incertezza) il congiuntivo è fortemente consigliato, mentre l’indicativo (passato remoto o prossimo) suona un po’ trascurato.
L’uso dei tempi del congiuntivo è regolato dalla consecutio temporum, che attribuisce a ogni tempo il suo ambito.
Il condizionale presente del verbo volere e di tutti i verbi che indicano desiderio, aspirazione, necessità regge di norma i tempi del passato del congiuntivo, quindi imperfetto e trapassato. Le ragioni di questa reggenza passata per un tempo presente sono spiegate nella risposta n. 2800136 dell’archivio.
Il congiuntivo presente in dipendenza dal condizionale presente di questi verbi è considerato errato, ma è comune, e accettabile, in contesti informali. Una frase come “Non vorrei che tu abbia sonno”, insomma, è accettabile tra amici, sebbene più formale sia “Non vorrei che tu avessi sonno”. Allo stesso modo, a “Non vorrei che tu abbia pensato di andare a dormire” si preferisce, in contesti formali, “Non vorrei che tu avessi pensato di andare a dormire”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Prima che finiscano le ferie, farò / avrò fatto un bagno”;
“Prima che siano finite le ferie, farò / avrò fatto un bagno”.
Tra le quattro combinazioni ce ne sono alcune errate?
“Non autorizzerò il permesso, prima di appurare / aver appurato le motivazioni”;
“Finisco lo stipendio, prima di riscuoterlo / averlo riscosso”.
Sono giuste entrambe le scelte? La differenza consiste, anche qui, nel rapporto tra le proposizioni, con l’infinito presente che segnala la contemporaneità e il passato l’anteriorità?
RISPOSTA:
Le combinazioni del primo blocco di frasi sono tutte corrette, con qualche minima sfumatura nel rapporto temporale tra il momento della fine delle ferie e quello del bagno. Il congiuntivo passato siano finite, apparentemente illogico, visto che descrive un evento futuro, per giunta successivo all’evento descritto da avrò fatto, rappresenta il momento della fine delle ferie come conclusivo di un processo, all’interno del quale si situa avrò fatto. Il parlante, cioè, osserva la fine delle ferie da un punto di vista appena successivo, rispetto al quale la fine stessa è già avvenuta. Subito dopo, però, torna al punto di vista presente, rispetto al quale si giustifica il futuro anteriore (ma si potrebbe usare anche il futuro semplice, farò). Lo scambio di punti di vista è provocato dal connettivo prima che, che confonde i reali rapporti temporali, facendo apparire precedente l’evento che è in realtà successivo.
Anche nel secondo blocco di frasi tutte le varianti sono corrette. L’infinito presente rappresenta l’evento come contemporaneo a quello della reggente, qualsiasi sia il tempo di quest’ultimo. La contemporaneità può essere anche sfumata, proiettandosi nel passato (come nella prima frase) o nel futuro (come nella seconda).
Si noti la differenza tra la costruzione con non prima di della prima frase e quella con prima di della seconda, nel caso in cui scegliamo di usare l’infinito passato in entrambe. La seconda costruzione è analoga a quella delle frasi del blocco precedente con prima che e il congiuntivo passato; nella frase, infatti, l’evento precedente (finisco) è espresso con il presente (ma potremmo usare anche il futuro, finirò, e il futuro anteriore, avrò finito), quello successivo con il passato (aver riscosso).
La prima costruzione, invece, mette gli eventi nell’ordine più atteso: quello successivo è espresso con il futuro (autorizzerò), quello precedente con il passato (aver appurato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre saputo che il futuro anteriore, nel discorso diretto, diventa condizionale passato nell’indiretto; è possibile che, talvolta, quest’ultimo sia sostituito dal congiuntivo trapassato? Ad esempio, “Marco disse: “Dopo che sarò tornato a casa, tu potrai uscire” può trasformarsi in “Marco disse che dopo che sarebbe tornato / fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire”? È proprio formulando questo esempio che mi rendo conto di quanto sia, per me, stridente il condizionale passato ripetuto, che peraltro annulla le distinzioni temporali marcate dal discorso diretto. Insomma, in questo caso userei il congiuntivo.
Nella frase “Se fossi stato al posto tuo, avrei fatto ciò che mi avrebbero detto” sarebbero giuste anche le varianti avessero detto e dicessero in base al rapporto temporale tra le proposizioni?
RISPOSTA:
La premessa non è precisa: il condizionale passato del discorso indiretto esprime il cosiddetto futuro nel passato, ovvero indica un evento successivo rispetto a un altro che è, a sua volta, passato. Per questo motivo, il condizionale passato sostituisce, nel discorso indiretto, non soltanto il futuro anteriore, ma anche il futuro anteriore del discorso diretto.
Venendo allo specifico del suo caso, premetto che la variante con il discorso indiretto è meglio costruita con l’infinito, vista l’identità di soggetto tra la reggente e l’oggettiva (Marco disse che dopo essere tornato a casa…). Volendo, invece, mantenere la forma esplicita, nella sua frase sia sarò tornato sia potrai divengono condizionali passati (sarebbe tornato e saresti potuto) perché entrambi questi eventi sono futuri rispetto a un passato che è rappresentato dal verbo disse. Effettivamente, come lei ha notato, la successione temporale in questo modo si annulla; bisogna, però, rilevare che questo non comporta nessuna ambiguità, perché alla precisione morfosintattica supplisce la logica (nessun parlante avrebbe dubbio sulla corretta ricostruzione della sequenza delle azioni anche di fronte ai due condizionali passati). Non a caso, anche nel discorso diretto si fa spesso a meno del futuro anteriore, confidando nella possibilità di ricostruire la sequenza delle azioni future per logica: “Marco disse: ‘Quando tornerò, tu potrai uscire'” non presenta difficoltà interpretative di sorta.
La sostituzione del condizionale passato con il congiuntivo trapassato è possibile perchè nella consecutio temporum quest’ultima forma esprime anteriorità rispetto a un tempo passato. In questo caso il tempo passato sarebbe saresti potuto (che rimane passato pur essendo futuro nel passato). In questo modo, la prospettiva cambia leggermente, e da due eventi ugualmente futuri rispetto a uno passato si passa a due eventi dei quali uno è futuro rispetto al passato (saresti potuto) e l’altro è anteriore rispetto a quest’ultimo (fosse tornato).
La struttura con il congiuntivo trapassato e il condizionale passato ricalca quella del periodo ipotetico del terzo tipo (= se fosse tornato a casa, tu saresti potuto uscire); sarebbe possibile, ma non necessario, pertanto, attribuire alla frase così formata una sfumatura ipotetica (la proposizione temporale, quindi, sarebbe temporale-condizionale).
Per quanto riguarda l’esempio finale, le varianti sono possibili. Avessero detto, anzi, è quella più formale. Dicessero si può giustificare nell’ottica della consecutio temporum, in quanto evento contemporaneo nel passato rispetto ad avrei fatto; contrasta, però, con il tempo del congiuntivo della protasi (fossi stato), dal quale è fortemente attratto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Verrò a prenderti, quando (una volta che) fossi uscita dal lavoro”: la subordinata fossi uscita dal lavoro, sempre che sia valida, ha valore meramente ipotetico (irrealtà) oppure, rispetto a uscissi dal lavoro, indica che l’azione viene considerata, nella sua eventualità, già conclusa?
La frase “Verrò a prenderti, quando / una volta che uscissi dal lavoro” è ugualmente valida?
“Mi sarei arrabbiato più di quanto ti aspettassi / ti fossi aspettato / ti saresti aspettato”:
ti aspettassi = contemporaneità;
ti fossi aspettato = anteriorità;
ti saresti aspettato = posteriorità. La mia interpretazione è giusta?
RISPOSTA:
Le due sfumature convergono in una: il congiuntivo trapassato all’interno della proposizione temporale-ipotetica esprime sia un’ipotesi improbabile, sia un evento che avviene prima di un altro (verrò). La costruzione della frase è certamente insolita e un po’ forzata, ma possibile. La variante con il congiuntivo imperfetto (uscissi) è più facile da giustificare, perché l’imperfetto stride meno del trapassato in rapporto al futuro. Volendo rappresentare l’improbabilità dell’evento si potrebbe usare la strategia lessicale: “Verrò a prenderti nella remota eventualità che uscissi dal lavoro”. Si ricordi che uscissi e fossi uscita valgono per la prima persona; se il soggetto è tu bisogna esplicitarlo, per evitare ambiguità.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’analisi è giusta; si tratta, ovviamente, di rapporti temporali rispetto al passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In tempi relativamente recenti, mi pare che sia invalso l’uso (o l’abuso?) della congiunzione anche in contesti forse impropri (mi riferisco in special modo al primo dei due esempi sotto riportati).
“Ti va di studiare? Anche no”,
“Hai scritto tanto, talmente tanto che anche la metà bastava”.
Fermo restando che in quest’ultima costruzione si sarebbe potuta migliorare la sintassi del verbo (ho scelto di presentare le frasi come le avevo sentite pronunciare); la congiunzione anche in entrambi gli esempi è ben impiegata?
RISPOSTA:
Non si può dire che nelle frasi da lei proposte ci siano degli errori. Si tratta certamente di frasi adatte a contesti informali, in cui non si bada molto alla precisione, ma, al contrario, si cerca di caricare la lingua di espressività emotiva. La congiunzione anche si presta a questo scopo perché permette di presentare come alternativa, quindi meno perentoria, una soluzione in realtà contraria a quella proposta dall’interlocutore. In questo modo la soluzione contraria risulta più cortese, quindi più socialmente accettabile, e si può arricchire anche di una sfumatura ironica.
Nel suo primo esempio la congiunzione presenta la negazione decisamente netta no come un’alternativa possibile tra altre: si tratta certamente di un modo per rendere più cortese il rifiuto, ma si intravede, oltre a questo, un intento ironico nel contrasto tra la nettezza della negazione e l’apertura alla possibilità garantita dalla congiunzione anche.
Nel secondo esempio l’ironia è meno percepibile (probabilmente è assente), mentre rimane chiaro l’intento di moderare la perentorietà della proposta alternativa. Senza anche il giudizio sulla quantità della scrittura prodotta risulta automaticamente critico; con anche, invece, la soluzione di scrivere la metà è presentata come alternativa possibile che non esclude l’altra.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?
RISPOSTA:
Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardente, dormiente).
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Scrivo per chiedere conferma della correttezza della frase che segue, tratta da un verbale:
“Come già detto, la situazione è stata espressamente rappresentata ai componenti dell’assemblea, a cui è stato chiesto, espressamente, se avrebbero firmato l’attestazione con i relativi allegati altrimenti non avremmo mandato avanti la pratica”.
Posto che la forma, nel suo complesso, è poco gradevole, l’elemento critico – oggetto di una discussione tra amici – è l’avrebbero firmato; secondo alcuni, infatti, l’uso del condizionale sarebbe scorretto.
RISPOSTA:
Come ha giustamente notato lei, la forma è poco gradevole, o meglio a tratti poco adatta a un verbale, per la ripetizione dell’avverbio espressamente, per il passaggio dalla forma passiva, impersonale, a quella personale (altrimenti non avremmo mandato avanti), per la mancanza della virgola, o del punto e virgola, prima di altrimenti.
Il condizionale passato non è scorretto, ma, al contrario, serve a esprimere il futuro nel passato (su questo concetto rimando alle tante risposte sul tema nell’archivio di DICO) in una proposizione interrogativa indiretta (non ipotetica, si badi).
Più formale del condizionale passato è il congiuntivo imperfetto (a cui è stato chiesto se firmassero l’attestazione), che, però, appiattisce il futuro sul presente, visto che instaura, con il verbo reggente, una relazione di contemporaneità nel passato proiettata al futuro. Il congiuntivo imperfetto, cioè, indica sia che l’azione sta avvenendo mentre si fa la domanda: a cui è stato chiesto se firmassero (= ‘stessero firmando’) l’attestazione, sia che potrebbe avvenire in seguito; il condizionale passato, invece, restringe l’interpretazione alla posteriorità rispetto al momento della domanda (che deve essere, comunque, nel passato).
Il congiuntivo trapassato, altresì, sposterebbe l’evento della firma a prima della domanda, modificando il senso della frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due preposizioni bisogna usare nelle frase seguente: “Non è nato con un cuore da / di leone”?
RISPOSTA:
La forma più comune dell’espressione idiomatica è cuor di leone (si ricordi la famosa descrizione di don Abbondio nel primo capitolo dei Promessi sposi: “Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone”, o, al massimo cuore di leone. La variante cuore da leone esiste (ne ho trovato qualche attestazione già nel Seicento) e non si può dire che sia scorretta: è, però, molto più rara dell’altra. Rarissima, infine, è cuor da leone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale soluzione consigliate tra le due segnalate:
“Può darsi che il medico, quando ti sottopose all’ecografia, non abbia visto / avesse visto la ciste”.
RISPOSTA:
Dipende dal significato ricercato: non abbia visto… quando ti sottopose mette i due eventi sullo stesso piano; non avesse visto… quando ti sottopose antepone l’evento del vedere a quello del sottoporre. Nel primo caso, quindi, si suppone, dal punto di vista semantico, che il non vedere sia stato il risultato (involontario) del sottoporre; nel secondo caso, al contrario, il non vedere deve essere non collegato al sottoporre (si dà, cioè, l’idea che il medico abbia sottoposto la persona all’ecografia senza aver prima visto la ciste, quindi per altre ragioni).
Si badi che in questo caso il tempo della proposizione temporale è dettato non dalla consecutio temporum, ma dal senso espresso autonomamente dai tempi verbali coinvolti: un passato in dipendenza da un passato = contemporaneità del passato; un passato in dipendenza da un trapassato = un evento successivo a un altro nel passato (ovvero uno precedente a un altro nel passato). Il tempo verbale nella proposizione temporale, infatti, risponde a ragioni semantiche, non sintattiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso, anche nei vostri articoli, si parla dello stretto collegamento tra il passato prossimo e l’attualità dei fatti cui si riferisce.
Così da stabilire, nei limiti del possibile, una regola generale, vi pongo una domanda doppia: quando la principale è appunto al passato prossimo, nella secondaria (finale, interrogativa indiretta, in specie) si può optare per il tempo presente (indicativo, congiuntivo e talvolta condizionale)?
Scegliendo invece un tempo della sfera del passato (nel rispetto della consecutio), il fatto della proposizione secondaria perde attinenza con il momento dell’enunciazione?
RISPOSTA:
Partiamo da un esempio con una interrogativa indiretta: “Mi sono chiesto se tu fossi stato / fossi / sia stato / sia / sarai al corrente della situazione “. Come si vede, tutti i tempi sono possibili, ognuno esprimente un diverso rapporto con il verbo della principale. Ovviamente, sono anche possibili restrizioni su base semantica, con la interrogativa indiretta e con tutte le altre completive (oggettiva, soggettiva, dichiarativa); possiamo, per esempio, avere “Ho sognato che tu fossi morto”, ma non *Ho sognato che tu sia morto”, non per ragioni sintattiche, ma perché la frase non avrebbe senso.
La finale sfugge alla consecutio temporum perché la semantica implicita in questa proposizione impedisce che l’evento in essa espresso preceda quello della reggente. Non possiamo, pertanto, avere *”Ti ho chiamato perché tu fossi venuto”, né *”Ti ho chiamato perché tu sia venuto”. Possiamo, invece, avere “Ti ho chiamato perché tu venissi”, nella quale l’imperfetto (venissi) seleziona la funzione di passato del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel passato (il venire è contemporaneo al chiamare nella mente di chi chiama, ma è successivo nella realtà). Possiamo anche avere “Ti ho chiamato perché tu venga”, con il presente (venga) che enfatizza la sfumatura di quasi-presente del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel presente (anche in questo caso, il venire non può che essere successivo, nella realtà, al chiamare). Proprio la proiezione del congiuntivo presente nel futuro rende impropria *”Ti ho chiamato perché tu verrai”, anche perché la congiunzione perché seguita dall’indicativo viene interpretata come causale, non finale. Infatti la frase potrebbe anche essere possibile con una interpretazione causale: ‘ti ho chiamato a causa del fatto che so già che tu verrai (perché sei costretto o simili)”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è il preciso significato della locuzione in epoca storica, presente ad es. nella seguente frase: “Le lingue indoeuropee, diffuse in epoca storica in una vasta area geografica fra l’Irlanda e l’India, comprendono quasi tutte le lingue parlate oggi in Europa”?
Ho fatto varie ricerche sui dizionari, ma quest’espressione non è nemmeno citata. Ho fatto allora questo ragionamento: la Storia vera e propria inizia nel 3000 a.C. ca., quando termina la Preistoria; dunque, in epoca storica potrebbe significare ‘dal 3000 a.C. fino ad oggi’?
RISPOSTA:
Il suo ragionamento è corretto: in epoca storica si oppone a in epoca preistorica. Nella frase da lei portata ad esempio, si vuole sottolineare che la descrizione data della diffusione delle lingue indoeuropee vale per il periodo storico, mentre per il periodo preistorico la situazione potrebbe essere diversa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?
RISPOSTA:
L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare forte, tenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunista, mangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un libro sulla tecnica di meditazione ho letto: “Non appena vi accorgete che state pensando, dovete dire tra voi pensiero“.
La domanda è questa: in questo contesto dire tra voi significa ‘nella vostra mente’ o ‘in silenzio’? Cioè per dire a sé stessi una parola, non è necessario dirlo esternamente quindi facendo sentire la parola ad altri?
RISPOSTA:
Il verbo dire può ben indicare l’atto del pensiero esplicito, nel quale la persona formula pensieri ben definiti, ma senza esternarli né vocalmente né per iscritto. Questo atto avviene sia nella propria mente, sia in silenzio.
Nell’espressione dite tra voi c’è un’altra possibile ambiguità. I pronomi personali sono tutti anche riflessivi, tranne lui / lei e loro, che diventano sé nella forma riflessiva. Per questa ragione, i sintagmi tra noi e tra voi possono essere interpretati come reciproci o come riflessivi. Nel primo caso, una frase come dite tra voi “pensiero” significa ‘dite pensiero l’uno all’altro’ (evidentemente ad alta voce); nel secondo caso, la stessa frase significa ‘dite pensiero ognuno nella propria mente’ (evidentemente in silenzio).
In presenza di più di una persona, tra voi risulterebbe ambiguo tra queste due interpretazioni, ma nel caso specifico, relativo alla meditazione, l’interpretazione riflessiva è senz’altro quella corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio in merito alla frase che segue: “A meno di necessità specifiche da parte tua che potrai fare presenti…”; è corretto declinare al plurale presenti?
RISPOSTA:
Certo: presenti concorda con necessità (come specifiche), che è femminile plurale. Essendo un aggettivo a due uscite, una (presente) per il singolare, una (presenti) per il plurale, il genere del nome con cui concorda non conta: necessità presenti / alunni presenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riporto parte del testo di una canzone famosa: “Se solo avessi le parole, te lo direi, anche se mi farebbe male”. È corretto dire “farebbe male” nel contesto della frase?
RISPOSTA:
È corretto se la proposizione in cui il verbo è inserito è interpretata non come una subordinata concessiva, ma come una giustapposta a te lo direi. In altre parole, qui anche se è non una congiunzione subordinativa, ma un segnale discorsivo che introduce un enunciato sintatticamente coordinato al precedente, o anche del tutto autonomo. La frase, quindi, dovrebbe essere scritta così: te lo direi; anche se mi farebbe male, o anche te lo direi. Anche se mi farebbe male.
Se, invece, la proposizione fosse una subordinata concessiva, la frase dovrebbe essere te lo direi anche se mi facesse male (oppure te lo direi, anche se mi facesse male). Si noti, però, che la frase così costruita presenterebbe una situazione poco credibile: difficilmente, infatti, qualcuno potrebbe rappresentare come possibile (anche se mi facesse male), invece che concreta (anche se mi farebbe male) una reazione del tutto prevedibile come il proprio dolore. La frase avrebbe pienamente senso, invece, se la concessione possibile riguardasse la reazione di un’altra persona, per esempio te lo direi anche se tu non provassi gli stessi sentimenti per me.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sviluppare l’argomento della coesistenza di diversi tempi verbali all’interno di costruzioni le cui frasi sono indipendenti dal punto di vista sintattico, benché sussistano dei legami logici tra l’una e l’altra. I tre periodi seguenti sono corretti?
1. “Già nel 2001 egli aveva avuto un grosso problema di salute, che aveva risolto in tempi ragionevoli. Poi, due anni fa, si è sentito di nuovo male. Adesso sta cercando di contattare alcuni specialisti che possano aiutarlo a rimettersi in sesto”.
2. “Mi convinsi a concedergli facoltà di replica. In un secondo momento, ripensadoci, ho cambiato idea”.
3. (In questo caso, a differenza dei precedenti, c’è un rapporto di subordinazione tra le proposizioni). “Ti chiamerò al numero di telefono che mi avevi dato l’ultima volta che ci siamo incontrati”.
Inoltre, per determinare le azioni anteriori, è preferibile il passato remoto (esempio 2) o uno dei trapassati (esempio 1)?
RISPOSTA:
I brani sono corretti. I passati, l’imperfetto, il presente, il futuro semplice sono tempi deittici, che indicano se l’evento è avvenuto nel passato, nel presente, nel futuro. Questi tempi, quindi, sono autonomi
l’uno dall’altro, ovviamente in periodi distinti, ma anche in un contesto coordinativo o subordinativo, se descrivono eventi situati in momenti diversi del tempo: “Anche se ieri ho studiato tanto, ora ho paura per l’interrogazione perché da questa dipenderà la mia media finale”.
Difficilmente giustificabile è l’uso del passato remoto e del passato prossimo nella stessa frase, perché i due tempi rappresentano gli eventi in modi diversi, quasi del tutto incompatibili. In due periodi diversi, per quanto consecutivi, l’alternanza può essere possibile; nel suo secondo brano, per esempio, mi convinsi può ben rimanere ancorato al passato, mentre ho cambiato si proietta verso il presente.
Per chiamerò e ci siamo incontrati del terzo brano valgono le osservazioni fatte sopra. Per quanto riguarda avevi dato, ricordo che i trapassati e il futuro anteriore sono tempi anaforici: indicano che l’evento è avvenuto prima di un altro evento, a sua volta passato, nel caso dei trapassati, o futuro, nel caso del futuro anteriore. Per usare il trapassato, quindi, serve un altro evento passato che faccia da riferimento. Nella sua frase tale evento non è esplicitato, infatti la frase potrebbe essere costruita anche con hai dato al posto di avevi dato. L’uso del trapassato non è automaticamente sbagliato, però, ma può dipendere dalla presenza, nel co-testo (nella parte di testo precedente a quella qui riportata) o nella memoria dei due interlocutori, di un evento che fa da riferimento; per esempio: “Ti chiamerò al numero di telefono che mi avevi dato l’ultima volta che ci siamo incontrati, prima che ci perdessimo di vista“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le espressioni anche se e come se possono, in taluni casi, accettare il condizionale passato? Se la risposta è affermativa, potrei sapere quando?
Porto alcuni esempi alla vostra attenzione.
1) Ero sicura di farcela, anche se mi avrebbero osteggiato.
2) Era vestita di tutto punto, come se il giorno dopo si sarebbe dovuta mostrare al suo pretendente
(Scrivendo dovesse o fosse dovuta presentare, potrei comunque indicare posteriorità?).
Da una parte, il condizionale nella mia mente suona infatti compatibile con la posteriorità dell’azione espressa, dall’altra sarei propensa a impiegare il congiuntivo (trapassato o imperfetto), specie nel secondo esempio in cui non si potrebbe sospettare l’anteriorità dell’azione grazie alla preposizione dopo, pur se si usasse il trapassato.
RISPOSTA:
Il condizionale, presente e passato, è compatibile con anche se soltanto se la proposizione da esso introdotta non è subordinata, bensì giustapposta, e quindi anche se non è un connettivo ma un segnale discorsivo.
Nella sua frase 1, per esempio, anche se mi avrebbero osteggiato è sullo stesso piano di ero sicura, un po’ come se dicesse ero sicura, ma mi avrebbero osteggiato. Si noti che, in questo caso, alla virgola si preferisce il punto e virgola (o anche il punto): ero sicura di farcela; ma mi avrebbero osteggiato.
Se, invece, la proposizione è una subordinata concessiva, allora non ammette il condizionale, ma soltanto il congiuntivo o, al presente, anche l’indicativo: “Ero sicura di farcela, anche se mi avessero osteggiato”, “Sono sicura di farcela, anche se mi osteggiano / osteggeranno / osteggiassero “.
Il connettivo come se non ammette il condizionale in nessun caso, perché la proposizione comparativa ipotetica è più strettamente ipotetica, quindi subordinata, della concessiva. Per questo la sua frase 2 non è mai corretta, ma richiede sempre il congiuntivo. Il tempo del congiuntivo da usare dipende dal grado di probabilità dell’evento del mostrarsi: l’imperfetto implica che esso sia probabile; il trapassato che esso sia improbabile, se non impossibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qualche giorno fa ho sentito durante un servizio televisivo, questa frase: “Le nostre abitudini devono continuare come se niente fosse, anche se in un momento come questo ci fanno stare PIÙ MALE del solito”.
Vorrei sapere se l’espressione in lettere maiuscole è corretta; io avrei utilizzato PEGGIO del solito, ma vorrei capire se e perché è corretta la forma utilizzata dalla giornalista.
RISPOSTA:
Troviamo esempi letterari di più male almeno dal Cinquecento: “E li franchi che stavano alla corte venivano alla nostra tenda, e ne dicevano che li grandi della corte n’erano contrari, e che questo frate aveva lor messo in testa che consigliassero il Prete che non gli lasciasse tornar né uscire delli suoi regni, perché dicevamo male della terra, e che molto più male diremmo quando fossimo fuor di quella” (Giovan Battista Ramusio, Viaggio in Etiopia di Francesco Alvarez, ca. 1557). Si noti che, comunque, qui più male si giustifica perché riprende anaforicamente male appena precedente.
Quasi tutti gli esempi di più male fino a oggi figurano all’interno delle espressioni sentirsi più male, fare e farsi più male. Queste espressioni sono parzialmente cristallizzate, come delle unità polirematiche (sentirsi male = soffrire), per cui è innaturale, ma non per questo sbagliato, modificarle sostituendone una parte, male, con un’altra del tutto diversa, peggio. Nel caso di sentire male ‘provare dolore’, invece, male è un sostantivo, quindi non può essere graduato (non si può dire *sento peggio).
Di là da queste espressioni, non ho trovato esempi diastraticamente alti di più male. Non si può escludere che ce ne siano, ma si tratta comunque di un uso marginale.
Parzialmente significativi sono gli esempi, pure rari (per esempio in Pasolini), di stare sempre più male, perché qui più si confonde tra i sintagmi sempre più e più male. Il solo stare più male, senza sempre, del resto, appare spesso in espressioni come non voglio stare più male, nelle quali più è certamente unito a stare, non a male. Esiste ovviamente anche stare più male con il significato di ‘stare peggio’, ma si tratta di un uso informale.
In conclusione, nelle espressioni sentirsi più male, fare e farsi più male la forma più male è accettabile anche in contesti di media formalità. In stare più male va considerata poco formale; in altri casi, va considerata trascurata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il correttore mi ha mandato nel pallone: mi suggerisce di sostituire stavano con stava. Chi ha ragione?
È meglio assopendo o facendo assopire nella seguente frase?
Il leggero movimento del vagone, il rumore ritmato e lo scorrere del paesaggio fuori dai finestrini stavano facendo assopire (assopendo) i viaggiatori e, dopo pochi minuti di viaggio, anche Marco cedette al dolce arrivo della sonnolenza.
RISPOSTA:
Vista la presenza di più soggetti singolari (il leggero movimento, il rumore ritmato, lo scorrere del paesaggio), il verbo richiesto è di sesta persona, perciò stavano. Il correttore digitale ha spesso difficoltà a riconoscere i soggetti multipli.
Sulla scelta del gerundio deve pesare il genere (transitivo o intransitivo) del verbo assopire. Dal momento che il verbo è transitivo, esso non necessita della perifrasi fattitiva (fare + infinito) per essere completato dal complemento oggetto; può, al contrario, reggere direttamente il complemento oggetto: stavano assopendo i viaggiatori.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo a proposito dell’aggettivo grande: quando è obbligatorio e quando è facoltativo il troncamento di questo aggettivo?
RISPOSTA:
L’apocope, o troncamento, di grande è uno dei due casi di apocope sillabica esistenti nell’italiano moderno (l’altro è san(to) Tommaso). Si può realizzare, ma non è obbligatoria, davanti alle parole che cominciano per consonante semplice: gran / grande velocità, gran / grande signore, anche plurali e femminili: gran / grandi lettori, gran / grandi lettrici.
La forma gran è obbligatoria soltanto in alcune espressioni cristallizzate, come a gran voce, di gran lunga, un gran che, una gran cosa, gran parte, gran premio e qualche altra. Per questo motivo, quando viene usata può far assumere al sintagma un significato figurato; per esempio: grande signore = ‘persona dalle doti eccezionali’ / gran signore ‘persona che vive spendendo molto’.
Davanti a parole che cominciano per consonante complicata (sc-, st-, ps-, gn-) e z- si usa grande: grande scempio, grande stratega, grande psicologo, grande zaino.
Davanti a parole che cominciano per vocale si usa ancora grande oppure la forma elisa grand’: grand’uomo, grand’affare, grand’effetto. La forma elisa può essere usata soltanto al singolare; al plurale è obbligatoria la forma piena grandi: grandi affari, grandi effetti. Soltanto grand’uomo ammette il plurale grand’uomini (comunque raro), perché questa espressione è cristallizzata, tanto che si può scrivere anche granduomini.
Fabio Ruggiano
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale versione della seguente frase è preferibile?
1. “Il ragazzo si è servito di strumenti tecnologici e non in modo corretto”;
2. “Il ragazzo si è servito di / degli strumenti, tecnologici e non, in modo corretto”.
RISPOSTA:
Ci sono diversi modi per rendere non ambigua questa frase. Innanzitutto bisogna fare una piccola correzione: l’espressione e non non è corretta; si dice e no, perché non richiede l’esplicitazione del sintagma o della frase negati (per esempio tecnologici e non tecnologici). Con questa correzione, entrambe le versioni della frase (nella seconda degli strumenti va preferito a di strumenti) risultano chiare. La 2, con l’inciso, mette in secondo piano il tipo di strumenti, facendo risaltare l’uso corretto che è stato fatto degli strumenti. Nella 1, invece, si definisce corretto l’uso proprio degli strumenti tecnologici e no.
Ancora meglio, comunque, sarebbe chiarire quali siano questi strumenti non tecnologici, per esempio: tecnologici e cartacei (ma non posso essere preciso perché non so di quali altri strumenti si è servito il ragazzo). Un’ulteriore alternativa sarebbe si è servito delle TIC e degli strumenti analogici (ma, anche qui, dovrei sapere di quali strumenti si sta parlando).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Ho il dubbio che possa essere scappato / sia scappato.
2) Sospetto che Tizio possa averci ingannato / ci abbia ingannato.
In tutti questi esempi (e immagino che se, al posto di dubbio e sospetto ci fossero stati timore, paura oppure verbi della sfera soggettiva quali, ad esempio, supporre, ipotizzare ecc., la questione non sarebbe stata differente) il verbo servile potere è facoltativo, ridondante o preferibile? Ho l’abitudine di usarlo in frasi che ricalcano lo schema descritto; tuttavia, non sono certa di essere nel giusto.
Indipendentemente dal servile, le frasi completive costruite con i sopraccitati sostantivi ammettono anche il condizionale in luogo del congiuntivo? Mi è capitato di trovare in un romanzo un periodo del tipo.
3) […] Ora avresti il dubbio che potrebbe aver sofferto.
Non sarebbe stato più indicato possa?
RISPOSTA:
Il verbo potere seguito da infinito aggiunge una sfumatura semantica, ovviamente di potenzialità, al verbo retto. Non si può, pertanto, giudicare necessario se non in relazione alle intenzioni comunicative dell’emittente. Certo, in alcuni casi la sfumatura sembra ridondante, perché è già contenuta in altre forme della frase; i suoi esempi 1 e 2 sono casi di questo genere, in cui la potenzialità è già espressa sufficientemente da dubbio, sospetto o simili. La ridondanza, però, non è sempre un difetto nella comunicazione umana: girare intorno al concetto, modulare le espressioni, usare più di un congegno di distanziamento sono strategie della cortesia, cioè del meccanismo di protezione sociale che i parlanti applicano per mantenere buoni rapporti reciproci. In altre parole, è possibile (ma bisogna valutare caso per caso) che la ridondanza, semanticamente inutile, serva, comunicativamente, a rafforzare la posizione di incredulità dell’emittente rispetto all’evento.
Per quanto riguarda la frase 3, entrambe le forme, potrebbe e possa, sono possibili. Se non c’è una ragione specifica per l’uso del condizionale, il congiuntivo è la soluzione più formale. Nel parlato (e nella simulazione scritta del parlato), però, non capita spesso di ricercare la formalità, e ci si adatta alle forme più immediate, anche se possono essere un po’ imprecise.
In questo caso, il condizionale è facilitato dalla reggenza condizionale, che attrae nello stesso modo il verbo retto. C’è, inoltre, da considerare che il condizionale configura la proposizione retta come in parte autonoma rispetto alla reggente; se togliessimo ora avresti il dubbio, infatti, potrebbe aver sofferto potrebbe sostenersi da sola; al contrario, il congiuntivo è il modo della subordinazione, che vincola senza alternative la subordinata alla reggente (possa aver sofferto non può reggersi da sola): per questo motivo è preferito nello scritto, che consente di costruire sintassi complesse, ed evitato nel parlato, nel quale la sintassi tende alla semplicità e alla frammentarietà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quante e quali forme sono valide?
Le donne rammendavano la biancheria fino a che
1a) arrivassero
1b) fossero arrivate
1c) sarebbero arrivate alla quantità desiderata.
RISPOSTA:
La forma migliore non è tra quelle elencate: “Le donne rammendavano la biancheria fino ad arrivare alla quantità desiderata“. L’identità di soggetto tra la subordinata e la reggente induce a preferire decisamente la forma implicita della subordinata. Scarterei tutte le altre. Possibile anche la nominalizzazione: “Le donne rammendavano la biancheria fino al raggiungimento della quantità desiderata“.
Nel caso in cui non ci fosse identità di soggetto (per esempio “Le donne rammendavano la biancheria fino a che la quantità…”), le opzioni valide sono le prime due:
a. fino a che la quantità (non) fosse raggiunta;
b. fino a che la quantità (non) fosse stata raggiunta.
Ho sostituito il verbo arrivare con raggiungere perché arrivare non si può volgere al passivo.
L’imperfetto rappresenta il raggiungimento come un processo in corso mentre le donne rammendavano; il trapassato lo rappresenta come avvenuto, osservando la scena dal punto di vista del processo già concluso.
Il condizionale passato (fino a che la quantità sarebbe stata raggiunta) è impedito dalla congiunzione fino a che (o finché) perché proietta il punto di vista verso il futuro rispetto a un momento nel passato, mentre la congiunzione è fortemente ancorata allo svolgimento del processo. L’unico caso in cui fino a che può essere seguito dal condizionale passato è se è retto da una proposizione con il condizionale passato: “Disse che avrebbe continuato fino a che la guerra (non) sarebbe stata vinta”. Anche in questo caso, comunque, è preferibile fino a che la guerra (non) fosse stata vinta (o fosse vinta).
In un contesto informale, infine, il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo: fino a che la quantità (non) era raggiunta; fino a che la quantità (non) era stata raggiunta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?
RISPOSTA:
Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Penso che non ce la faccia”;
“Penso che non ce la farebbe”.
Vorrei fare una riflessione sull’alternanza congiuntivo-condizionale nelle completive. Se non vado errato, tali subordinate possono ammettere, in generale, entrambi i modi (con l’aggiunta dell’indicativo, che però non intenderei contemplare in questa sede). Il congiuntivo, in scritti di formalità alta o medio-alta, è da preferire.
Dal mio punto di vista, il condizionale ha però il vantaggio di porre in rilievo una condizione sottintesa che il congiuntivo di norma tenderebbe a trascurare.
In altre parole, il condizionale, in dati contesti, mi pare che consenta di tratteggiare una semantica più precisa, con una correlazione tra causa ed effetto; a differenza del congiuntivo, più propenso invece verso contenuti assoluti.
Recuperando l’esempio di partenza:
“Penso che non ce la faccia” può apparire come un’affermazione senza riferimenti esclusivi a una situazione implicita specifica.
“Penso che non ce la farebbe (anche se dovesse provare a disputare la gara)”.
Gradirei conoscere il vostro parere su questa mia riflessione, che non vuole avere pretese di carattere linguistico. Mi permetto infine di domandarvi se, anche quando vi sia una condizione sottintesa (come quella indicata sopra tra parentesi) possa essere adottato il congiuntivo nella completiva, oppure sia suggerito il condizionale.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda l’alternanza tra congiuntivo e indicativo fa bene a preferire il congiuntivo in questa costruzione, ma non escluderei, in un contesto trascurato, “Penso che non ce la fa”.
Per quanto riguarda il condizionale, invece, questo modo, proprio come arguisce lei, data la sua funzione di modo della condizionalità, implica la presenza di una condizione. In altre parole, usando il condizionale si lascia intendere (sempre che non lo si esprima esplicitamente) che l’evento descritto possa avvenire a patto che ne avvenga un altro, che ne rappresenta la condizione, appunto. Questa condizione è espressa di norma con il congiuntivo e può prendere la forma di una proposizione concessiva (come nel suo esempio), oppure di un complemento concessivo, oltre che di una proposizione condizionale.
Ingiustificata sarebbe una frase come “Penso che non ce la faccia anche se provasse”, perché la concessiva non sarebbe ben collegata con la reggente, di cui dovrebbe rappresentare la condizione. Si potrebbe giustificare soltanto nel parlato come costruzione fatta di due enunciati, il secondo dei quali fosse ellittico: “Penso che non ce la faccia // Anche se provasse (non ce la farebbe)”.
Non mi spingerei a giudicare il condizionale più preciso del congiuntivo perché implica una condizione: direi, piuttosto, che questo modo assolve a una specifica esigenza espressiva, diversa da quella del congiuntivo. Del resto, il fatto che il condizionale richieda un completamento mentre il congiuntivo veicoli un contenuto autosufficiente potrebbe indurre a ritenere quest’ultimo più preciso del primo. Ma, ripeto, etichette come preciso o impreciso sono ambigue quando sono applicate a forme linguistiche e non ci aiutano a usarle correttamente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ha seguito un percorso di alfabetizzazione della lingua italiana (,) conseguendo buoni risultati” è necessario inserire la virgola prima del gerundio?
RISPOSTA:
La virgola è facoltativa e influisce sul senso generale della frase. Senza la virgola, la frase risulta un’unità informativa unica, con il focus sul conseguimento di buoni risultati; con la virgola, l’unità informativa viene separata in due focus, la frequenza del corso, con una sua importanza autonoma, e il conseguimento di buoni risultati, ugualmente rilevante.
Sottolineo che il sintagma alfabetizzazione della lingua italiana non è ben formato, sebbene sia piuttosto diffuso nello “scolastichese”. La diffusione di questa espressione è dovuta al suo depotenziamento semantico, che la assimila a insegnamento della lingua italiana o, in modo ancora più approssimativo, a apprendimento della lingua italiana.
Ovviamente, c’è una sostanziale differenza tra insegnamento e alfabetizzazione, mentre davvero impossibile è confondere l’alfabetizzazione, che procede dall’insegnante verso l’apprendente, con l’apprendimento, che procede al contrario.
Soprattutto, però, il nome alfabetizzazione ha un comportamento sintattico particolare. Come il verbo alfabetizzare non può reggere il complemento oggetto dell’ambito del processo (nessuno direbbe mai *alfabetizzare la lingua italiana), ma può reggere il complemento oggetto del destinatario del processo (alfabetizzare gli stranieri), così il nome derivato dal verbo, alfabetizzazione, non ammette il complemento di specificazione dell’ambito, della lingua italiana, mentre ammette il complemento di specificazione del destinatario: “La scuola deve farsi carico dell’alfabetizzazione degli stranieri”.
Questa restrizione riguarda tutti i verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base nominale:
– sponsorizzare una squadra (non *sponsorizzare un contributo per le magliette) e sponsorizzazione di una squadra (non *sponsorizzazione di un contributo per le magliette);
– parcellizzare gli sforzi (non *parcellizzare le piccole quantità) e parcellizzazione degli sforzi (non *parcellizzazione delle piccole quantità);
– categorizzare i propri amici ‘dividere in categorie’ (non *categorizzare le classificazioni) e categorizzazione dei propri amici (non *categorizzazione delle classificazioni);
ecc.
Come si vede, questi verbi indicano la realizzazione della propria base: alfabetizzare ‘insegnare l’alfabeto’, sponsorizzare ‘attribuire un finanziamento’ ecc.; non possono, quindi, ammettere un complemento oggetto che ribadisca la base: *alfabetizzare la lingua italiana ‘insegnare l’alfabeto la lingua italiana’. I nomi derivati da questi verbi, come appunto alfabetizzazione, trasferiscono al complemento di specificazione questa restrizione relativa al complemento oggetto.
I verbi in -izzare e i nomi in -izzazione con base aggettivale si comportano esattamente al contrario, perché indicano la qualità che apportano al complemento oggetto: estremizzare la tensione ‘far diventare la tensione estrema’ (estremizzazione della tensione), realizzare un progetto ‘far diventare un progetto reale’ (realizzazione di un progetto), concretizzare le idee ‘far diventare le idee concrete’ (concretizzazione delle idee), ufficializzare una decisione ‘far diventare una decisione ufficiale’ (ufficializzazione di una decisione) ecc.
Alfabetizzazione della lingua italiana deve essere, quindi, evitato. Alfabetizzazione si può tranquillamente lasciare senza specificazione, oppure accompagnare con l’aggettivo linguistica (alfabetizzazione linguistica) o, al limite, con un complemento di limitazione: alfabetizzazione in lingua italiana.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Qualche anno fa, ho dovuto smettere di giocare a calcio perché sono rimasto coinvolto in un lieve incidente” è corretto l’uso del passato prossimo sono rimasto coinvolto o è necessario un altro tempo verbale, dal momento che credo si tratti di una subordinata.
RISPOSTA:
Il verbo sono rimasto coinvolto (considero coinvolto parte del verbo, sebbene sia a metà strada tra la funzione di verbo e quella di aggettivo predicativo) si trova senz’altro all’interno di una subordinata, per la precisione causale; questo, però, non determina alcun obbligo riguardo al tempo da usare. La proposizione causale richiede il modo indicativo, ma dell’indicativo si possono usare tutti i tempi, a seconda del rapporto che l’evento all’interno della proposizione ha con l’evento descritto nella reggente. In questo caso, l’evento della reggente (ho dovuto smettere di giocare) è passato ed è successivo rispetto a sono rimasto coinvolto (prima sono rimasto coinvolto, poi ho dovuto smettere): questo rapporto richiederebbe l’uso di un trapassato prossimo nella causale, quindi perché ero rimasto coinvolto in un lieve incidente.
Il trapassato è la scelta più precisa, ma il rapporto reciproco tra gli eventi può anche essere trascurato, “appiattendo” entrambi su un unico piano del passato. Questa scelta, meno precisa, ma più semplice da realizzare, e comunque corretta, dà come risultato la costruzione da lei proposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo per esporvi la confusione generatami dalla voce Proposizioni temporali dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani curata da Federica Da Milano. Qui ( http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi-temporali_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/) l’ autrice scrive la seguente frase “Per quanto riguarda l’espressione della posteriorità (l’azione espressa dalla subordinata è posteriore a quella della reggente), nelle temporali esplicite si utilizza la locuzione congiuntiva prima che“; viceversa per l’anteriorità la subordinata è introdotta da dopo che, sempre secondo l’autrice della voce. In pratica è il capovolgimento di quello che mi è sempre sembrato di leggere dalle grammatiche – e che sulla stessa Treccani si trova a un’altra voce dedicata alle temporali (qui http://www.treccani.it/enciclopedia/proposizioni-temporali_%28La-grammatica-italiana%29/).
RISPOSTA:
Per quanto possa sembrare controintuitivo al primo sguardo, la voce dell’Enciclopedia dell’italiano Treccani è corretta. Si noti il seguente esempio: “Prima che Luca arrivasse ci stavamo divertendo”; è chiaro che il divertimento era in corso prima rispetto all’arrivo di Luca, quindi la subordinata introdotta da prima che contiene un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Lo stesso, ma al contrario, vale per la temporale introdotta da dopo che. In altre parole, nella locuzione prima che (e, specularmente, in dopo che), l’avverbio prima fa parte della reggente e il che introduce la temporale (ci stavamo divertendo prima / che tu arrivassi).
Scorretta, invece, è la spiegazione della seconda fonte da lei citata, che lascia intendere il contrario.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come distinguere le relative limitative dalle esplicative?
Per me nella seguente frase la relativa può essere di tutti e due i tipi:
“Ho parlato con il meccanico che / il quale mi ha detto che non riuscirà a riparare l’auto per giovedì”. Le seguenti, invece, mi sembrano tutte limitative:
“La macchina….. è arrivata e una Ferrari”.
“Questo è il libro….. ho comprato ieri”.
“Abbiamo conosciuto delle ragazze….. sono simpatiche”.
“La ragazza….. ha telefonato poco fa è mia cugina”.
RISPOSTA:
Nel caso della frase del meccanico, l’interpretazione più ovvia della relativa è esplicativa. Nella frase, infatti, l’emittente racconta di aver parlato con il meccanico e aggiunge che cosa il meccanico gli ha detto. La costruzione attesa, infatti, sarebbe “Ho parlato con il meccanico, che / il quale mi ha detto…” (con la virgola prima del pronome relativo).
L’interpretazione della relativa come limitativa è possibile, ma molto strana. Se la relativa fosse limitativa, infatti, l’emittente racconterebbe di aver parlato proprio con il meccanico che gli ha dato quell’informazione. In altre parole, la frase ha senso se la dividiamo in due parti: 1. ho parlato con quella persona; 2. quella persona mi ha detto... Ha meno senso se la interpretiamo come ho parlato con quella persona che mi detto…
Per quanto riguarda le altre frasi elencate, in tutte le relative sono sicuramente limitative.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se negli esempi sotto riportati sia preferibile adottare il congiuntivo passato o il congiuntivo imperfetto.
“Quando nacque suo figlio, pare che Alberto smettesse / abbia smesso di fumare”;
“Dopo che era nato suo figlio, pare che Alberto smettesse / abbia smesso di fumare”.
Tenderei a scartare l’imperfetto in quanto esso – se non vado errata – indica per così dire un’azione in svolgimento o ricorrente; tuttavia, relativamente al primo esempio, mi lascia un po’ perplessa l’accostamento passato remoto (nacque) e il congiuntivo passato (abbia smesso) per due azioni che dovrebbero essere contemporanee.
Perplessità che, personalmente, scompare nella seconda costruzione.
RISPOSTA:
I tempi del congiuntivo vanno considerati non in modo assoluto, ma in relazione ai tempi dei verbi da cui dipendono. In questo caso il verbo reggente (pare) è presente e l’evento dello smettere è anteriore a esso; stando alla consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al presente si esprime con il congiuntivo imperfetto o con il passato. La scelta tra i due tempi va fatta in base al tipo di azione: un’azione continuata sarà espressa all’imperfetto (ad esempio pare che Alberto fumasse); una momentanea (come quella di entrambe le sue frasi) sarà espressa al passato.
Va anche ricordato, comunque, che un’azione momentanea può essere espressa anche con l’imperfetto, per “rallentarla” nel tempo; ad esempio “Pare che il colera toccasse il suo culmine il 17 maggio 1850”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il congiuntivo passato può indicare anteriorità rispetto a un evento futuro e posteriorità rispetto all’enunciazione, rappresentando un’azione come se fosse certa e a suo modo definita, benché non ancora avvenuta? In altre parole, se il punto di vista dell’emittente è proiettato nel futuro, il congiuntivo passato – al pari del passato prossimo – è sintatticamente valido?
“Tra sei mesi mi accerterò se / che abbiano potuto sfrattarmi”.
(L’emittente saprebbe già che dal momento dell’enunciazione alla fine dei prossimi sei mesi sarà sfrattato).
L’emittente potrebbe inoltre disporre di alternative verbali in grado di sostituire il congiuntivo passato?
RISPOSTA:
Nella determinazione del tempo verbale da usare bisogna considerare il momento dell’enunciazione, che è sempre adesso, e il momento in cui avviene l’evento che dobbiamo esprimere. In alcuni casi, come quello da lei prospettato, a questi due momenti si aggiunge un terzo punto nel tempo, che chiamiamo momento di riferimento. In questi casi, il tempo verbale andrà armonizzato con quel momento, nel rispetto della consecutio temporum. Nella sua frase il momento di riferimento è quello in cui avviene l’accertamento: il tempo del verbo retto da mi accerterò, quindi, deve rispecchiare la relazione temporale con questo evento. Dal momento che l’evento dello sfratto (che sia effettivamente avvenuto o no) precede quello dell’accertamento, bisogna usare il tempo che esprime l’anteriorità rispetto al futuro, che è il futuro anteriore, quindi mi accerterò se / che avranno potuto sfrattarmi. In alternativa, è possibile assimilare il futuro al presente (cosa peraltro molto comune), selezionando il passato prossimo dell’indicativo (mi accerterò se / che hanno potuto sfrattarmi) o il passato del congiuntivo (la soluzione da lei proposta). Come si vede, nella scelta del tempo verbale il fatto che lo sfratto avvenga (o non avvenga) nel futuro è rilevante soltanto se scegliamo il futuro anteriore; se scegliamo il passato, invece, ciò che conta è soltanto la relazione di anteriorità tra il momento dello sfratto e quello dell’accertamento.
Per quanto riguarda la scelta del modo, come di norma l’indicativo è meno formale del congiuntivo. Tra i due tempi dell’indicativo, inoltre, è il passato prossimo a essere meno formale, perché meno preciso del futuro anteriore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Benché fosse sicuro che non ci sarebbe stato più nulla da fare, Luca aveva…”; è corretta questa frase?
RISPOSTA:
La frase è corretta. Il condizionale passato ci sarebbe stato rientra nella proposizione oggettiva dipendente dalla concessiva benché (lui / lei) fosse sicuro (ed è, quindi, subordinata di secondo grado). In questa proposizione oggettiva, il condizionale passato esprime un evento futuro rispetto a un momento nel passato, ovvero, in questo caso, rispetto al momento in cui il soggetto era sicuro (espresso nella proposizione reggente). Sarebbe possibile sostituire ci sarebbe stato con ci fosse, perché il congiuntivo imperfetto esprime la contemporaneità nel passato rispetto all’evento della proposizione reggente. Con il congiuntivo imperfetto, quindi il fatto che non ci sia nulla da fare è rappresentato come contemporaneo (con una chiara proiezione nel futuro) alla sicurezza del soggetto, mentre con il condizionale passato questo fatto è decisamente futuro rispetto alla sicurezza.
L’evento dell’essere sicuro, a sua volta, è costruito con il congiuntivo perché questo modo è richiesto dalla congiunzione benché, all’imperfetto perché, come detto sopra, questo tempo del congiuntivo esprime la contemporaneità con un altro evento nel passato (qui l’altro evento è aveva della principale, da cui dipende sintatticamente fosse).
La proposizione principale della frase (Luca aveva…) è inserita alla fine. L’anticipazione della subordinata rispetto alla principale è piuttosto comune quando la subordinata è concessiva o condizionale, perché queste proposizioni contengono un’informazione (una condizione o una mancata condizione) da cui dipende l’informazione contenuta nella principale. In questo caso, quindi, l’ordine logico delle informazioni forza l’ordine sintattico standard del periodo (“Luca aveva… benché fosse sicuro che non ci sarebbe stato più nulla da fare”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo due costruzioni che mi è capitato di leggere:
1. Che futuro offriresti a tuo figlio, se, già prima che nasca, nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici?
2. Se domani non ti telefonassi, vorrebbe dire che avrei avuto un contrattempo.
Sono valide? Vi pongo, inoltre, un paio di interrogativi collaterali.
Esempio 1.
a) È possibile che la proposizione se nella tua famiglia ci sarebbero problemi economici sottintenda sai già, sei certo che (se, già prima che nasca, sai già / sei certo che ci sarebbero problemi economici), trasformando di fatto la seconda metà della frase in una completiva?
b) Sarebbe possibile sostituire sarebbe con saranno?
Esempio 2.
c) Pur consapevole che cambierebbe la semantica della frase, avrei avuto potrebbe essere sostituito con avrò avuto o ho avuto?
d) Le tre soluzioni sarebbero applicabili anche se al posto di vorrebbe dire ci fosse vorrà dire?
RISPOSTA:
La frase 1 presenta il più classico degli errori di sintassi in italiano, la costruzione della protasi del periodo ipotetico della possibilità con il condizionale presente al posto del congiuntivo imperfetto. La frase corretta è che futuro offriresti… se nella tua famiglia ci fossero… Non è possibile supporre che ci sia una protasi sottintesa (sai già, sei certo o simili) da cui dipenda il condizionale: il ricevente non avrebbe alcun indizio circa l’esistenza di tale elemento implicito.
La frase 2 è possibile: il condizionale passato qui è attratto dal condizionale che lo regge (vorrebbe dire), ma indica semplicemente un passato. Può, quindi, essere sostituito da avrò avuto, nella sua funzione propria di futuro anteriore (perché il contrattempo è futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora, ma passato rispetto al momento in cui non ti risponderò), e anche dal passato prossimo ho avuto, che trascura il tratto del futuro e codifica soltanto il tratto del passato rispetto al momento in cui non ti rispondo. La minore precisione del passato prossimo rispetto al futuro anteriore rende quest’ultimo preferibile in una comunicazione formale. Sostituendo vorrebbe dire con vorrà dire, il condizionale diviene ingiustificato, mentre le altre due forme rimangono valide, con la stessa funzione e valenza diafasica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È nata una diatriba in relazione alla seguente frase: “Abele fu vittima di una delle più comuni cause di odio: la gelosia”. Così com’è strutturata la frase, a quale conclusione si giunge, che l’odio è causato dalla gelosia, o la gelosia è causata dall’odio?
RISPOSTA:
Dalla frase si ricava che la gelosia causa l’odio.
Il termine causa rappresenta la ragione che produce una conseguenza, quindi il complemento di specificazione collegato a questo nome ne rappresenta la conseguenza. L’interpretazione di causa come conseguenza (la causa dell’odio = ‘la conseguenza prodotta dall’odio’) è piuttosto improbabile. La mancanza dell’articolo nel sintagma di odio non fa che rafforzare l’interpretazione più comune, perché costruisce l’espressione come cristallizzata (sulla relazione tra la perdita dell’articolo e la cristallizzazione di un’espressione si veda ad esempio la risposta 2800124 dell’archivio di DICO).
Potrebbe indurre in confusione l’esistenza della locuzione preposizionale a causa di, che, in effetti, apparentemente nega questa ricostruzione. Da una parte, infatti, abbiamo la causa dell’odio = ‘la ragione che produce l’odio’, dall’altro a causa dell’odio = ‘come conseguenza dell’odio’. La contraddizione, però, è apparente, perché anche all’interno della locuzione causa = ‘ragione che produce’: a causa dell’odio, infatti, significa ‘essendo l’odio la ragione scatenante’. Se volessimo adattare fedelmente la frase alla locuzione, quindi, dovremmo dire che a causa della gelosia nasce l’odio, non che a causa dell’odio nasce la gelosia.
L’ambiguita tra complemento di specificazione soggettivo e oggettivo si può manifestare in dipendenza da altri nomi, come paura (la paura dei soldati = ‘la paura provata dai soldati’, ma anche ‘la paura incussa dai soldati’); più spesso, però, essa è prevenuta dal significato del nome da cui dipende il complemento di specificazione (come nel caso di causa) o dal significato del nome all’interno del complemento di specificazione, come nel caso di preparazione di: la preparazione della torta = ‘la preparazione che ha come conseguenza la torta’; la preparazione di Maria = ‘la preparazione svolta da Maria’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere se la frase con l’imperfetto va bene o sarebbe meglio con il trapassato: “Ieri alla radio ho sentito la canzone che ascoltavo / avevo ascoltato spesso tanti anni fa”.
RISPOSTA:
Sono possibili entrambi i tempi. L’imperfetto segnala che l’azione dell’ascoltare è avvenuta durante un certo periodo di tempo, di cui non si conosce la durata; il trapassato mette in evidenza che il periodo durante il quale era avvenuta l’azione era già concluso prima di ieri.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei chiedervi se, in determinati casi, le soluzioni con ci (e non solo) e si, a seconda del messaggio implicito che veicolano, possano coesistere.
Ecco gli esempi elaborati:
1. Ho chiamato il consulente per sapere come muoverci.
2. Ho chiamato il consulente per sapere come muoversi.
3. Dico una cosa, tanto per capirci.
4. Dico una cosa, tanto per capirsi.
5. So quand’è il momento di fermarci.
6. So quand’è il momento di fermarsi.
7. Il nostro obiettivo è rialzarci.
8. Il nostro obiettivo è rialzarsi.
9. Il concetto, per intenderci, è “parlare meno e pensare di più”.
10. Il concetto, per intendersi, è “parlare meno e pensare di più”.
11. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarmi e rimettermi a sedere.
12. Quando guardo le partite di calcio sono agitato: è tutto un alzarsi e rimettersi a sedere.
Le costruzioni con ci e mi sopra elencate possono essere validate sottintendendo la componente, per così dire, particolare dell’azione, con ricadute specifiche sul soggetto? Per sapere come muoverci = ‘come ci dobbiamo muovere’; per capirci = ‘affinché noi ci capiamo’; di fermarci = ‘in cui noi ci dobbiamo fermare’; alzarmi e rimettermi a sedere = ‘io mi alzo e mi rimetto a sedere’, non qualcun altro.
Al contrario, le costruzioni con si possono essere validate per la funzione generica che potrebbero rivestire, come se fossero espressioni cristallizzate? Per sapere come muoversi = ‘come è opportuno muoversi in questi casi’; per capirsi = ‘affinché si possa capire’; di fermarsi = ‘in cui, in generale, ci si debba fermare’; alzarsi e rimettersi a sedere = ‘ci si può alzare e rimettersi a sedere, e quando ci sono le partite sono io a farlo’.
RISPOSTA:
La sua riflessione è in generale corretta: la possibilità di costruire le frasi nei due modi rispecchia le funzioni standard dei pronomi: ci riferisce le azioni a noi (l’emittente e un’altra persona o altre persone), si le riferisce a una generalità impersonale di cui, in modo molto sfumato, fa parte anche l’emittente. La sua analisi delle singole frasi, però, non è sempre corretta: dalla stessa riflessione, infatti, deriva che alcune delle frasi da lei proposte non ammettano entrambi i pronomi, perché sono in partenza riferite senz’altro a un gruppo che contiene l’emittente. In particolare non sono ben formate la 4 e la 8, mentre la 10 è al limite dell’accettabilità (grazie al fatto che manca il verbo alla prima persona, che, invece, è nella 4). La 12 è accettabile, ma ha un significato del tutto diverso dalla 11: in quest’ultima alzarmi e rimettermi a sedere descrivono il comportamento dell’emittente e spiegano, quindi, in che senso egli sia agitato; nella 12, alzarsi e rimettersi a sedere descrivono il comportamento di tutte le persone presenti nella situazione, compreso (ma non per forza) l’emittente, e quindi non sembrano avere la stessa funzione logica di alzarmi e rimettermi a sedere. L’interpretazione più probabile per questa frase è, piuttosto, che il comportamento delle persone rappresenti il motivo per cui l’emittente si agita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
All’interno di un periodo è ammesso il passaggio dal futuro al presente del modo indicativo per indicare azioni che non hanno evidenti differenze sul piano temporale?
“Quando ti farò l’occhiolino, capirai che è il momento di agire”.
“Quando vedrai la luna piena, sappi che è il segno di Cupido per rivelarle i tuoi sentimenti”.
“Se noterai la mia auto, significa che dovrai uscire allo scoperto”.
È comunque praticabile la scelta di flettere i verbi, che in questi esempi sono al presente, al futuro, o, così facendo, paradossalmente, il rapporto tra reggente e subordinata rischierebbe di essere giudicato di posteriorità (anziché di contemporaneità nel futuro)?
“Quando ti farò l’occhiolino, capirai che sarà il momento di agire”.
“Quando vedrai la luna piena, sappi che sarà il segno di Cupido per rivelarle i tuoi sentimenti”.
“Se noterai la mia auto, significherà che dovrai uscire allo scoperto”.
RISPOSTA:
Nelle prime due frasi, il dubbio sul tempo riguarda una proposizione oggettiva, che riporta il pensiero della persona a cui ci si sta rivolgendo. In questo contesto, il futuro mantiene inalterato il punto di vista dell’emittente, rispetto al quale tutti gli eventi e gli stati sono futuri; il presente, invece, sposta per un attimo la prospettiva da quella dell’emittente a quella del ricevente, per il quale gli stati dell’essere in entrambe le frasi sono attuali. Con il presente, quindi, si forma un discorso indiretto libero: la costruzione delle due frasi diviene simile a capirai: “È il momento di agire” e sappi: “È il segno di Cupido”.
Nella terza frase, il dubbio riguarda la principale, per cui il passaggio al presente risulta meno giustificabile; in questo caso il presente rappresenta una scelta semplificatrice, che abbassa la formalità della frase. In un tipo di frase del genere, il presente potrebbe anche indicare (ma non è questo il caso) un evento valido in assoluto, a prescindere dal momento; per esempio: “Se vedrai le foglie della pianta ingiallite, significa che la pianta sta morendo”; oppure, per rimanere vicini alla sua frase: “Se noterai la mia auto, significa che sei un ficcanaso”. Si noti che se si usa il presente nella principale, il ritorno al futuro nella oggettiva risulta molto artificioso.
Un futuro dipendente da un futuro può indicare un momento ancora più lontano nel futuro, ma questo dettaglio non è codificato nella coniugazione verbale, bensì si ricava dalla logica e dalla sintassi. Due futuri semplici, infatti, non precisano il loro rapporto relativo: quest’ultimo emerge dal contesto. Per esempio, nella prima frase, capirai che sarà il momento di agire può indicare tanto che il momento di agire segua immediatamente il momento del capire (quindi sia praticamente contemporaneo), quanto che lo segua in un futuro più lontano. Senza ulteriori specificazioni temporali, comunque (per esempio capirai che l’indomani sarà il momento di agire), l’interpretazione più immediata è quella quasi-contemporanea.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo per cercare di ricevere dei chiarimenti riguardo a questo mio dubbio:
“La fruizione dei servizi dovrebbe continuare ad essere garantita ancora a distanza a quelle persone che si trovassero fuori città o che presentassero delle problematiche di salute tali che non gli permetterebbero / permettessero di poter rischiare”.
Si può usare il condizionale? Magari supponendo un’ellissi di una proposizione del tipo “… permetterebbero anche nel caso in cui potessero recarsi fisicamente allo sportello”.
Oppure va usato il congiuntivo permettessero?
A livello di analisi del periodo, come di definisce una tale proposizione?
RISPOSTA:
Nella proposizione, che è di tipo consecutivo, vanno bene sia il condizionale (che sottintenderebbe una protasi) sia il congiuntivo. Non sarebbe impossibile neanche l’infinito (tali da non permettergli / permettere loro…), normalmente utilizzabile soltanto quando il soggetto della proposizione coincide con quello della reggente. In questo caso, sebbene il soggetto della reggente sia che (che rimanda a quelle persone) e quello della subordinata problematiche (sottinteso), la preminenza logica assunta da problematiche nella reggente e la sua vicinanza al connettivo che rendono questo nome selezionabile come soggetto della subordinata implicita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sui tempi verbali da scegliere nelle seguenti frasi:
1. Verso mezzogiorno la mamma ha cominciato a cucinare e poi ci aspettava / ha aspettato per mangiare tutti insieme.
2. Il pomeriggio è stata / era libera anche lei per riposarsi.
3. Alle 11 sono usciti con la nonna per andare a messa, sono andati / andavano a piedi e la nonna li teneva / ha tenuti per mano.
4. Per pranzo sono tornati a casa per mangiare tutti insieme ma a loro i cannelloni non sono piaciuti / piacevano e hanno preferito / preferivano il secondo.
5. Hanno mangiato anche il mascarpone con il cacao che è stato / era davvero buono.
6. Nel pomeriggio mentre Eugenio giocava con i figli, Nicoletta preferiva / ha preferito restare a casa.
RISPOSTA:
Nelle frasi 1-4 e 6 è possibile usare entrambi i tempi, con la distinzione che è stata illustrata nella risposta 2800577.
In particolare, nella frase 1 la mamma ci aspettava non fa riferimento al momento finale dell’attesa, lasciando intendere che tale attesa non sia mai terminata (ovvero i figli non sono andati a mangiare con la madre); la mamma ci ha aspettato, al contrario, indica che a un certo punto l’attesa sia finita.
Nella 2 la soluzione più attesa è è stata libera; era libera andrebbe bene se si riferisse alla ripetizione dell’evento nel passato (per esempio: “Quando lavorarava come fioraia, il pomeriggio era libera anche lei…”).
Nella 3 sono andati e ha tenuti fa riferimento al fatto che alla fine tutti sono arrivati in chiesa; andavano e teneva, invece, fa pensare che sia successo qualcosa durante il processo, che potrebbe anche aver impedito la conclusione del processo (per esempio: “La nonna li teneva per mano, ma uno dei due è inciampato e si è sbucciato un ginocchio”).
Nella 4 ci sono due intrecci possibili: a loro i cannelloni non sono piaciuti e hanno preferito il secondo = ‘hanno provato sia i cannelloni sia il secondo, e tra i due piatti hanno preferito il secondo’; a loro i cannelloni non piacevano e hanno preferito il secondo = ‘normalmente a loro non piacevano i cannelloni, per cui non li hanno provati e hanno preferito provare soltanto il secondo’.
La frase 5 richiede l’imperfetto (e la virgola prima della proposizione relativa): il cacao, che era davvero buono. Un soggetto inanimato come il cacao non può essere costruito con il passato prossimo se il nome del predicato è un aggettivo come buono. Il cacao è stato buono significherebbe ‘si è comportato bene’. Al contrario, si può avere Luigi è stato buono = ‘Luigi si è comportato bene’.
Per la 6 vale la stessa spiegazione della 2.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Improvvisamente si ricordò di ciò che era accaduto e guardò la donna: poteva essere lei ad aver commesso il delitto”.
Sarebbe possibile sostituire la parte in grassetto con le seguenti soluzioni?
1. poteva essere stata lei a commettere;
2. poteva essere stata lei ad aver commesso;
3. avrebbe potuto essere lei a commettere;
4. avrebbe potuto essere lei ad aver commesso.
Considerando anche la scelta dell’autore, tra le cinque soluzioni quale vi sembra più consona al contesto?
In che modo si declina la differenza tra l’infinito passato, se è giustificato in questo contesto, e l’infinito presente? L’infinito passato indica ad esempio che l’azione è avvenuta prima di quella della proposizione reggente?
RISPOSTA:
L’infinito passato esprime proprio l’anteriorità dell’evento rispetto a quello della proposizione reggente. Allo stesso modo, l’infinito presente esprime la contemporaneità e, a certe condizioni, la posteriorità (per esempio: “Mi ha chiesto di andare domani al mare”).
Questa funzione verbale si intreccia, nella frase in questione, con la stretta relazione tra il verbo servile e l’infinito da esso retto. Si deve considerare, infatti, che dal punto di vista semantico e sintattico poteva essere equivale a forse era e poteva essere stata a forse era stata. Ne consegue che poteva essere lei ad aver commesso equivalga a forse era lei ad aver commesso, che è perfettamente rispondente alla consecutio temporum, visto che poteva è in linea con si ricordò e aver commesso indica un evento anteriore a poteva. Nel caso di poteva essere stata lei a commettere avremmo una situazione diversa, ma ugualmente accettabile, nella quale il verbo reggente (poteva essere stata = forse era stata) è già anteriore a si ricordò, quindi può ben essere contemporaneo a commettere. Si noterà che poteva essere stata proietta il dubbio nel passato, allontanandolo dalla situazione di riferimento, laddove poteva essere lo rappresenta come attuale (relativamente alla situazione).
La terza ipotesi (la seconda variante) presenta una situazione ancora diversa, nella quale il verbo reggente è anteriore a si ricordò e l’evento del commettere è ulteriormente anteriore. Questa costruzione, sebbene non si possa dire sbagliata, è leggermente meno precisa, perché l’anteriorità di aver commesso non rispetta la richiesta della consecutio temporum, ma è attratta per analogia dal passato del verbo reggente.
Per quanto riguarda la diversa costruzione del verbo reggente, avrebbe potuto essere, si tratta dell’alternativa più formale di poteva essere (l’indicativo imperfetto, infatti, svolge comunemente le funzioni del condizionale passato). Si noti che per riprodurre poteva essere stata avremmo bisogno di avrebbe potuto essere stata, una costruzione talmente complessa, per quanto corretta, da essere sconsigliabile in contesti non altamente formali.
Dal punto di vista sintattico, quindi, per avrebbe potuto essere valgono le stesse considerazioni fatte per poteva essere. La variante avrebbe potuto essere lei a commettere, in particolare, è la meno felice, perché corrisponde a forse poteva essere lei a commettere, che veicola un dubbio sul futuro, non sul passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei dei problemi per quanto riguarda i due passati.
“Ieri era / è stata una bella giornata ma oggi piove”: per me quata frase va bene con entrambi i passati.
“Quando guardavo la TV non (capire) ……………….. il significato di molte parole”: anche in questa frase vanno bene entrambi i tempi?
RISPOSTA:
La scelta tra passato prossimo e imperfetto può essere difficile nelle frasi in cui vanno bene entrambi. Questo succede quando l’evento espresso dal verbo può essere tanto perfettivo (cioè visto nella sua intera durata, che comprende il momento in cui è finito) quanto imperfettivo (cioè visto come durato un tempo indeterminato). Nella prima frase, è stata una bella giornata indica che si sta parlando della giornata complessivamente, dall’inizio alla fine; era una bella giornata indica, invece, che la qualità si è manifestata durante la giornata, senza riferimento ai limiti temporali della giornata stessa. Per capire meglio questa differenza, si consideri un’espressione simile a quella da lei proposta: è stata una buona giornata. Non c’è dubbio che l’espressione in questa forma si riferisca all’esito della giornata (perché il passato prossimo considera anche il momento finale dell’evento), quindi al fatto che la giornata di ieri ha portato qualche vantaggio (per esempio: “Ieri è stata una buona giornata: ho guadagnato molto con le mance”). Al contrario, l’espressione era una buona giornata non può riferirsi all’esito della giornata, quindi risulta semplicemente “strana”, perché non si capisce in che senso la giornata fosse buona lungo un tempo non determinato.
Per quanto riguarda la seconda frase, l’evento del capire deve essere imperfetto come quello del guardare, perché il processo del capire si svolge nello stesso tempo di quello del guardare (come indica la congiunzione quando, qui equivalente a mentre). Per la stessa ragione, se avessimo avuto quando ho guardato la TV, il tempo di capire avrebbe dovuto essere passato prossimo (quando ho guardato… ho capito).
La situazione sarebbe diversa se mentre guardavo la televisione fosse successo qualcosa: in quel caso l’evento sarebbe perfettivo; per esempio: “Mentre guardavo la TV hanno bussato alla porta”. Si noti che in questo caso la congiunzione quando sarebbe inadatta (anche se non impossibile), perché la funzione di sfondo del verbo guardare sarebbe molto più evidente, tanto da richiedere quasi obbligatoriamente mentre.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, come faccio a riferire che lo hanno generato sia alle memorie sia alle convinzioni?
“Cancellazione di tutte le memorie e convinzioni che lo hanno generato”.
RISPOSTA:
Con questa costruzione, che rimanda a entrambi gli antecedenti, come da lei desiderato. Ciò è dovuto alla mancanza dell’articolo davanti a convinzioni, che induce a collegare senz’altro anche questo nome all’articolo le di memorie, creando un unico sintagma. Per la verità, anche se inserissimo l’articolo prima di convinzioni (cosa che sarebbe obbligatoria se al posto di convinzioni avessimo un nome di genere o numero diversi da memorie), il pronome relativo rimanderebbe comunque a entrambi gli antecedenti, per via del legame della congiunzione e, che mette i sintagmi sullo stesso piano.
Sarebbe, semmai, il contrario, la volontà di riferire che al solo convinzioni, a dover essere segnalato. Questa precisazione si potrebbe realizzare sfruttando la punteggiatura, per esempio così: le memorie, e le convinzioni che; oppure le memorie, nonché le convinzioni che; o anche: le memorie, ma anche le convinzioni che. Ancora più esplicita sarebbe la costruzione separata: le memorie. A cui si aggiungerebbero le convinzioni che (o simili).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) (Nel caso in futuro tutto ciò avvenga), la buona riuscita dell’operazione dipenderebbe da quanto tempo sarebbe passato dall’ultima volta che ci sarà stato un nuovo contatto con un soggetto a rischio.
Mi sono trovato nella condizione di comporre tale periodo complesso e, lo riconosco, davanti a quel sarebbe passato ho provato una certa titubanza. Come si evince dal contesto, il condizionale composto non ha valore di futuro nel passato; dovrebbe anzi rappresentare l’anteriorità nei confronti della reggente.
Vi domando se la scelta sarebbe dovuta invece cadere sul congiuntivo (fosse passato / sia passato) e, infine, quali sono il tempo e il modo migliori per costruire la subordinata di secondo grado che dipende dalla proposizione presa in esame.
Rimanendo in tema di rapporti condizionale-congiuntivo, vorrei sapere se il periodo riportato sotto sia valido:
2) Se, alla scadenza, non ti rinnovassero il contratto, puoi star certo che il direttore avrebbe fatto il possibile per scongiurare tale eventualità.
RISPOSTA:
Sarebbe passato ha proprio la funzione di esprimere il futuro nel passato. Bisogna capire, però, quale sia il momento passato rispetto al quale il passare è successivo. Nella sua frase questo momento è quello in cui ci sarà stato un nuovo contatto, che è passato dalla prospettiva della buona riuscita dell’operazione. A sua volta, anche il passare è precedente alla buona riuscita. Nella linea temporale, quindi, abbiamo prima l’avvenimento del nuovo contatto, poi il passare del tempo e infine la possibile buona riuscita dell’operazione. In questo modo si giustifica anche il futuro anteriore ci sarà stato, futuro rispetto al momento dell’enunciazione, ma anteriore rispetto alla possibile buona riuscita dell’operazione. La sostituzione di sarebbe passato con sia passato è possibile, perché il congiuntivo passato può assumere come riferimento direttamente il momento della possibile buona riuscita, senza considerare il rapporto di posteriorità rispetto al momento in cui ci sarà stato un nuovo contatto. Ingiustificato, invece, sarebbe fosse passato: il trapassato richiederebbe un altro tempo passato, assente nella frase, rispetto al quale esprimere l’anteriorità. Preferibile a sia passato, inoltre, sarebbe passi, che espremerebbe un rapporto di contemporaneità con proiezione al futuro rispetto a ci sarà stato, presupponendo logicamente il rapporto di anteriorità rispetto a dipenderebbe. Tutto sommato, passi è vantaggioso anche rispetto a sarebbe stato, perché il rapporto di anteriorità rispetto a dipenderebbe si ricava comunque per logica e la sua codificazione attraverso il condizionale passato appesantisce la sintassi.
La frase 2 è ben costruita soltanto se si considera il condizionale passato nella sua funzione condizionale, non in quella di futuro nel passato. In questo secondo caso, infatti, esso non ha un momento chiaro nel passato a cui agganciarsi. Possibile, invece, sarebbe avrà fatto, che si pone come futuro intermedio tra il momento dell’enunciazione e quello della scadenza.
Se si considera il condizionale nella sua funzione primaria, è possibile ricavare facilmente una condizione sottintesa che lo giustifica, per esempio puoi star certo che il direttore avrebbe fatto il possibile (se avesse potuto)… Si noti che, in questo caso, il rapporto temporale di avrebbe fatto è automaticamente di anteriorità rispetto al momento della scadenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se nel seguente testo le congiunzioni all’inizio delle frasi sono corrette. Inoltre, è preferibile scrivere che quando ARRIVI il momento dei saluti?
Mi piacerebbe scrivere che è tutta la vita che dico addio alle persone, perché amo le frasi ad effetto, ma sarebbe un po’ esagerato. E fa un po’ ridere ma è allo stesso tempo un po’ triste che quando arriva il momento dei saluti io me ne esca con un semplice “ciao”, come se fosse un giorno qualunque, come se fosse tutto a posto. Ma a volte non ci si saluta nemmeno. Nemmeno con un semplice ciao. E allora lo scrivo qui, per quelli a cui capiterà di leggerlo: ciao.
RISPOSTA:
Le congiunzioni a inizio frase sono legittime: hanno la funzione di collegare logicamente il pezzo di testo successivo al precedente, in un’ottica transfrastica, cioè che guarda non alle singole frasi come se fossero isolate, ma alla loro cooperazione nell’architettura del testo. In particolare, la e di e fa un po’ ridere… indica che l’enunciato successivo aggiunge una nuova considerazione a quella dell’enunciato precedente. La congiunzione ma di ma a volte capita, a sua volta, ha un significato concessivo; significa, cioè, ‘anche se è vero quanto ho detto finora, è anche vero quello che sto per dire adesso’. Nemmeno è considerato da molte grammatiche una congiunzione, ma è, piuttosto, un avverbio. Il collegamento tra l’enunciato nemmeno con un semplice ciao e il precedente è implicito, ed è di tipo esemplificativo: il nuovo enunciato, cioè, fornisce un esempio di come non ci si saluta. Infine, il significato della e di e allora lo scrivo qui… è chiarito dall’avverbio allora: la relazione tra i due enunciati è di consecuzione.
Per quanto riguarda il congiuntivo nella temporale quando arriva il momento, è un’alternativa possibile. Avrebbe come conseguenza l’innalzamento del livello di formalità (forse in modo eccessivo rispetto allo scopo del testo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Monica, l’amica di Gabriella, è stata / era una ragazza dolce e simpatica”.
Qual e la forma giusta? Sono giuste tutt’e due? E qual e la differenza?
RISPOSTA:
Sulla differenza tra imperfetto e passato prossimo si può consultare la risposta n. 2800541 dell’archivio di DICO e le altre recuperabili con le parole chiave passato prossimo e imperfetto.
In questo caso, si noti che è stata una ragazza farebbe pensare senz’altro che la ragazza, Monica, sia morta, perché il suo essere una ragazza (dolce e simpatica) si è interrotto. Questa interpretazione è possibile anche con era, ma l’imperfetto permette anche di intendere la frase come ‘in passato era una ragazza dolce e simpatica, adesso è cambiata’.
Se togliamo una ragazza, la frase con il passato prossimo cambia di senso: è stata dolce e simpatica si riferisce a un evento in particolare (per esempio, ‘ieri alla festa è stata dolce e simpatica’); la frase con l’imperfetto, invece, mantiene lo stesso senso, a metà tra ‘Monica adesso è cambiata’ e ‘Monica adesso non c’è più’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito dell’alternanza tra futuro anteriore e futuro semplice e di come questo sia quasi sempre sostituibile a quello in registri di media formalità, è possibile fare questa sostituzione nell’esempio sotto indicato?
1) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato trascorreranno al massimo venti minuti.
2) Vedrai che domani da quando lei terminerà l’esame a quando lo avrà cominciato saranno trascorsi al massimo venti minuti.
RISPOSTA:
Nella sua frase, prima di tutto scambierei la posizione degli eventi del cominciare e del terminare: “Vedrai che domani, da quando lei avrà cominciato l’esame a quando lo terminerà,…”.
In secondo luogo, confermo che il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice trascorreranno. Con il futuro anteriore si mette in evidenza l’anteriorità del trascorrere del tempo rispetto al termine dell’esame; con quello semplice si rappresenta soltano l’evento come futuro. Non solo il futuro anteriore saranno trascorsi può essere sostituito dal futuro semplice, ma anche avrà cominciato (da quando lei comincerà l’esame a quando lo terminerà).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dopo le espressioni si dice, dicono quale modo verbale si usa?
Riguardo al condizionale passato, secondo le grammatiche lo si usa se nel presente o nel futuro un’intenzione non puo avverarsi. Ma pare che non sia obbligatorio. Cioè posso usarlo ma l’italiano permette in questi casi anche il condizionale semplice: “Verrei / sarei venuta con te al cinema ma ho molto da fare”.
Riguardo ai relativi che e il quale, quando sono alternative e quando si usa esclusivamente che?
1. Ci sono molte agenzie che / le quali organizzano viaggi economici per i giovani.
2. Ho parlato con il meccanico che / il quale mi ha detto che non riuscirà a riparare l’auto per giovedì.
3. Com’era lo spettacolo che avete visto ieri?
4. Le informazioni che ci ha dato il vigile non erano corrette.
Mi pare che quando si tratta di una proposizione soggettiva entrambi sono giusti, mentre se la subordinata è oggettiva si usa solo che. Ho ragione?
RISPOSTA:
Il verbo dire preferisce l’indicativo nella proposizione completiva: “Il giornale dice che ieri c’è stato un terremoto in Turchia”. Le espressioni si dice e dicono, però, ammettono facilmente il congiuntivo, perché sono impersonali: “Si dice / dicono che ci sia stato un terremoto in Turchia”. Quando dicono ha il soggetto, si comporta come dire in generale, e preferisce l’indicativo: “I miei amici dicono che sono simpatico”.
Il condizionale presente indica un evento possibile, che può ancora avverarsi; quello passato indica un evento molto improbabile o impossibile.
Il pronome relativo non ha niente a che fare con le proposizioni soggettive e oggettive. Queste ultime sono introdotte da che con funzione di congiunzione, non di pronome (infatti nelle oggettive e nelle soggettive che rimane sempre fisso: penso che…, si dice che…).
Il quale non può sostituire che nelle relative limitative, cioè quelle che contribuiscono a identificare l’antecedente. Relative limitative sono quelle presenti nelle sue frasi 1, 3 e 4 (quindi nella 1 la sostituzione non va bene). In realtà la sostituzione non è vietata, ma non avviene mai.
Il quale può sostituire che nelle relative esplicative, che aggiungono informazioni secondarie all’antecedente. Nella sua frase 2, per esempio, la relativa che mi ha detto non serve a chiarire chi sia il meccanico, ma aggiunge un’informazione riguardante ciò che il meccanico ha fatto. Nella 1, invece, la relativa chiarisce quali siano le molte agenzie appena nominate.
Per un approfondimento sulle relative limitative ed esplicative può consultare l’archivio di DICO con le parole chiave esplicativa ed esplicative.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei approfondire il capitolo della particella si, già analizzata di recente da voi linguisti in uno degli esempi contenuti nell’articolo numero 2800208. L’utente ha espresso dubbi molto simili ai miei, che non mi sono mai stancato di consultare le varie grammatiche disponibili sul mercato per provare a comporre un quadro organico di regole.
Ho letto che “con un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha valore passivante ma impersonale”; su un’altra grammatica, a proposito del passivante, si legge “la regola vale anche quando il verbo, all’infinito, è preceduto da verbi servili o fraseologici. Se però la frase si complica, è naturale considerare quel si come un soggetto impersonale, equivalente a noi”; infine “con il si passivo il
soggetto logico è sempre umano e plurale, mentre nella costruzione passiva non ci sono restrizioni sul tipo di soggetto logico”.
Sono un appassionato di lingua italiana ma non un professore di lettere; ho quindi raccolto le idee e sono arrivato a formulare questi costrutti, su cui vi sarei grato se interveniste:
“Non si mangiano le mele” (corretto, passivante)
“Non si mangia le mele” (corretto, impersonale)
“Sono soldi che non si riescono a spendere” (corretto, passivante)
“Sono soldi che non si riesce a spendere” (corretto, impersonale)
“Si devono a controllare i bambini” (corretto?)
“Non si potevano più guardare i film” (corretto?)
“Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte” (stando alle regole, il si impersonale è doveroso, perché gli effetti sono formalmente distanti dal verbo; ma adottare il passivante sarebbe comunque possibile?).
Mi aggancio in parte all’utente che mi ha preceduto nella presentazione del quesito e vi chiedo se l’uso impersonale è sempre attuabile oppure ci sono determinati casi che lo inibiscono. Non per scegliere la strada comoda, ma con l’uso impersonale saremmo certi di non sbagliare mai? Potrei ad esempio scegliere di scrivere o dire “Non si spende più soldi” anziché “Non si spendono più soldi”, “Sono libri che non si legge più” anziché “Sono libri che non si leggono più”?
Cosa significa, all’atto pratico, che il “soggetto logico è sempre umano e plurale”? Se fosse inanimato e singolare, la costruzione con il si passivante non potrebbe essere ottenuta?
RISPOSTA:
Come sintetizzato da una delle grammatiche da lei citata, il si ha funzione impersonale solamente con i verbi intransitivi e con i transitivi senza oggetto espresso (che, quindi, si comportano come gli intransitivi): “Di solito il giorno di Natale si va a pranzo dai parenti”; “Non si parcheggia in seconda fila” (si noti, a margine, che il costrutto impersonale assume quasi sempre una sfumatura di obbligo, o deontica). Negli altri casi, cioè con i verbi transitivi con l’oggetto espresso, il si assume funzione passivante, trasformando l’oggetto grammaticale in soggetto logico: “Si mangia la mela” = “La mela è mangiata”; “Si mangiano le mele” = “Le mele sono mangiate”.
Le frasi “Si mangia le mele” e “Sono libri che non si legge più” sono ammissibili soltanto se si sottintende il soggetto noi: “Noi si mangia le mele” e “Sono libri che noi non si legge più”. Questa costruzione è ben nota alla tradizione letteraria italiana e oggi è ancora vitale nel parlato toscano; fuori dalla Toscana, però, è poco comune. Inoltre, se non esplicitiamo il soggetto noi, frasi come “Si mangia le mele” e “Non si legge più libri” possono ingenerare confusione, perché coincidono con le forme colloquiali del verbo transitivo con il pronome che indica un particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione, come in “Mi sono bevuto una bella birra” (= ‘Mi sono bevuto una bella birra con piena soddisfazione’).
Quando il verbo costruito con si è seguito da una intera proposizione, detta soggettiva, il si è considerato impersonale (come se il verbo fosse transitivo senza oggetto). In realtà, si noterà che il costrutto equivale a quello passivante: “Si mangia la mela” (ovvero “La mela è mangiata”) equivale a “Si dice che tu sia un ritardatario” (ovvero “Che tu sia un ritardatario è detto”). Classificazioni a parte, però, il dettaglio a cui prestare attenzione è che, in questo caso, il verbo reggente la soggettiva è sempre singolare, anche quando il soggetto della proposizione soggettiva è plurale: “Si spera che cadranno molte stelle a Ferragosto”, non *”Si sperano che cadranno molte stelle a Ferragosto”; “Si dice che ieri siano arrivati molti ospiti”, non *”Si dicono che ieri siano arrivati molti ospiti”. Questa regola equivale a quella correttamente intuita da lei a proposito della frase “Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte”; dal momento che gli effetti è il soggetto della proposizione soggettiva, non dovrebbe influire sulla concordanza del verbo reggente l’intera proposizione, si riuscirebbe, che rimane singolare: la costruzione *”Si riuscirebbero a vedere… gli effetti…” è, pertanto, scorretta.
Tale scorrettezza, però, è riscontrabile nel discorso poco sorvegliato e, in alcuni casi, passa decisamente inosservata. Tra le due frasi seguenti, ad esempio, si fa fatica a considerare scorretta la prima: “Sono soldi che non si riescono a spendere” / “Sono soldi che non si riesce a spendere”. Pur trovandoci nella medesima situazione della frase precedente (“Si riuscirebbe a vedere…gli effetti”), qui riuscire e spendere i soldi sono talmente solidali da poter quasi essere considerati un unico verbo e indurre a trascurare la regola grammaticale. Come se ciò non bastasse, la costruzione con la proposizione relativa complica ulteriormente la situazione. In questi casi, in astratto la scelta più formale rimane quella di considerare a spendere una proposizione soggettiva retta da si riesce, ma in pratica si può considerare valida anche l’eventuale infrazione (non si riescono a spendere). Allo stesso modo si comportano tutti i verbi detti modali, che aggiungono una sfumatura al verbo semanticamente più rilevante e sintatticamente lo reggono; in un caso come il seguente, qualunque parlante propenderebbe per la seconda soluzione, in astratto scorretta, e scarterebbe, al contrario, la prima, in astratto corretta: “I punti dell’ordine del giorno si comincia a trattare dopo le comunicazioni preliminari”; “I punti dell’ordine del giorno si cominciano a trattare dopo le comunicazioni preliminari”.
Ci sono casi, poi, in cui il verbo che tecnicamente regge il complemento oggetto ha un legame ancora più stretto con il verbo che lo regge: i costrutti con i verbi servili (dovere, potere, volere). Uno di questi esempi è “Si devono controllare i bambini” (non “a controllare”, come ha scritto lei, forse per distrazione). Come si nota, il verbo che regge il complemento oggetto è controllare, mentre è dovere che concorda con esso; un altro esempio è “Non si potevano più guardare i film”. È il caso limite di solidarietà tra verbo reggente e proposizione soggettiva, che impedisce di considerare corrette le costruzioni “Si deve controllare i bambini”, “Non si poteva più guardare i film”.
Queste ultime ridiventano accettabili se consideriamo sottinteso (ma è molto meglio esplicitarlo) il soggetto noi, secondo la costruzione tradizionalmente letteraria e oggi toscana: “Noi si deve controllare i bambini”, “Noi non si poteva più guardare i film”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’analisi di questo periodo?
E se la vita non fosse una cosa seria, alla fine ce la saremo guastata prendendo tutto maledettamente sul serio.
È corretto l’uso di maledettamente?
RISPOSTA:
Il periodo è formato da una proposizione condizionale (E se la vita non fosse una cosa seria,), subordinata di primo grado alla principale (alla fine ce la saremo guastata), che regge un’altra subordinata di primo grado, strumentale implicita (prendendo tutto maledettamente sul serio), intrepretabile anche come una causale.
La proposizione condizionale ha una evidente sfumatura concessiva, che potrebbe essere sottolineata o così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo guastata…”, o, in modo ancora più netto, così: “Anche se la vita non fosse una cosa seria, alla fine noi ce la saremo comunque guastata…”
Maledettamente è corretto, ma si deve ricordare che, per il suo significato, abbassa il registro del discorso: deve essere usato, quindi, nel contesto appropriato.
Nella costruzione del periodo vanno sottolineate due particolarità: la prima è la congiunzione e all’inizio del periodo, che collega il periodo stesso al testo precedente, oppure, in assenza di un testo precedente, all’universo del discorso (come se implicasse: oltre a tutto quello che già sappiamo aggiungo cio…).
La seconda è il futuro anteriore ce la saremo guastata, che instaura un rapporto complesso con il congiuntivo imperfetto fosse. Il congiuntivo, infatti, rappresenta la condizione come possibile, mentre l’indicativo rappresenta la conseguenza come un fatto, e in più, per via del tempo futuro anteriore, osserva l’evento dalla prospettiva futura, rispetto alla quale l’evento è già compiuto.
Un’alternativa possibile per la costruzione della principale è il condizionale passato (ce la saremmo guastata). Con esso, la prospettiva sarebbe dal passato verso il presente, con una fattualità sfumata; senza la certezza, cioè, che l’evento si sia davvero realizzato così come descritto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Se mio figlio non fosse padrone del proprio tempo, come potrei pensare di avergli donato la vita” è corretta se io non ho un figlio? O dovrei dire se mio figlio non sarà padrone del proprio tempo, oppure se mio figlio non dovesse essere padrone del proprio tempo?
RISPOSTA:
La prima e la terza variante sono ugualmente valide tanto se il figlio esiste veramente quanto se non esiste. Fosse e dovesse essere, infatti, rappresentano l’evento ugualmente come possibile, non certo.
Neanche l’infinito passato avergli donato assicura che il figlio esista veramente, perché il momento di riferimento rispetto a cui l’atto del donare è passato potrebbe essere futuro: come potrei pensare tra vent’anni di avergli donato la vita dieci anni prima.
Il futuro sarà, invece, presuppone che il figlio esista o che sta per esistere, cioè che sta per nascere. L’indicativo, infatti, rappresenta l’evento come reale (nel passato, nel presente o, come in questo caso, nel futuro).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La locuzione prima di allora può essere riferita a un momento futuro? Ad esempio: “Il primo appuntamento libero è per il prossimo mese. Non ho trovato niente prima di allora”.
RISPOSTA:
Sì, l’avverbio allora può indicare un momento nel passato o nel futuro. Basti pensare alla sua etimologia: ad illam horam ‘in quel momento’, che non specifica se nel passato o nel futuro. Conseguentemente, prima di allora può ben indicare un momento che precede un altro momento futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta questa frase: “Non penso che Marco lo abbia fatto per farti del male, e mi pare evidente che non ti stia facendo nessun dispetto; ma ancora più assurda mi sembra l’idea che lui ti odi”?
Che ne dice riguardo all’uso del punto e virgola?
RISPOSTA:
La frase è ben formata da tutti i punti di vista. In particolare, il punto e virgola segmenta opportunamente il testo separando la prima parte, fortemente solidale al suo interno per il contenuto, dalla seconda parte, che aggiunge una considerazione riguardante tutta la prima parte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In italiano esiste la dicitura affermazione negativa? O si chiama negazione? Perché ad esempio se dico un sì si chiama risposta affermativa e quindi affermazione negativa sembra un po’ un paradosso.
RISPOSTA:
Nella lingua comune, affermare, affermazione, affermativo e il resto della famiglia sono collegati al polo positivo, tanto che affermativo può essere usato come sinonimo di sì. In teoria, però, il significato radicale di questa famiglia lessicale non propende verso una polarità, ma indica soltanto la decisione con cui un’opinione è dichiarata (infatti affermare è legato a fermo). Non è, pertanto, impossibile affermare negativamente, o fare un’affermazione negativa. Vista la comune deriva del significato di questa famiglia di parole verso il polo positivo, comunque, l’opportunità di associare uno dei suoi componenti al polo negativo è da valutare caso per caso in relazione al contesto, per non ingenerare confusione. Ovviamente, tale associazione è tanto più accettabile quanto più ci si sposta verso i registri alti, come in questo esempio, tratto da un libro di filosofia: “Se stiamo sostenendo la legittimità morale di certe procedure, ad esempio della libertà e dello scambio, perché il fatto di godere di questi diritti non costituisce un’affermazione positiva, così come il fatto che altri non possano impedirci di godere di tali diritti costituisce un’affermazione negativa?”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, desideravo sapere quale frase è corretta:
– Mario mi ha telefonato e ha detto che avrebbe richiamato quando avesse avuto nuove notizie.
– Mario mi ha telefonato e ha detto che avrebbe richiamato quando avrebbe avuto nuove notizie
RISPOSTA:
Sono entrambe corrette. La seconda rappresenta l’evento dell’avere notizie come futuro (rispetto a un punto di riferimento passato); la prima lo rappresenta come ipotetico: il congiuntivo, infatti, configura la proposizione temporale introdotta da quando come temporale-ipotetica.
L’alternanza tra congiuntivo e condizionale è al centro di molte risposte contenute nell’archivio di DICO, che può consultare usando, per esempio, la parola chiave condizionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “È impossibile che le abbia studiate”, si potrebbe usare il presente indicativo al posto del congiuntivo, non essendoci incertezza in ciò che dico?
Si può usare il congiuntivo anche quando sono convinto di ciò che dico? Per esempio: “Sono sicuro che Marco sia a casa in questo momento”.
RISPOSTA:
L’idea che il congiuntivo sia il modo dell’incertezza deriva dal fatto che questo modo è usato nella proposizione condizionale, quella introdotta da se. Dobbiamo, però, ricordare che tale proposizione ammette anche l’indicativo (“se vuoi possiamo andare al cinema”) e che anche altre proposizioni subordinate ammettono l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, senza una apprezzabile differenza di significato. Un esempio di come l’uso di uno o dell’altro modo non produca differenze di senso è la oggettiva retta da un verbo che indica certezza, come nella sua seconda frase. Una frase come sono sicuro che Marca sia a casa è corretta e dimostra che il congiuntivo non indichi affatto incertezza. Di converso, una frase, ugualmente corretta, come non so se Marco è a casa dimostra che l’indicativo può ben figurare in una proposizione dipendente da un verbo che esprime incertezza. Anche nella sua prima frase, quindi, abbia studiate può essere sostituito da ha studiate (che, però, non è presente, come lo definisce lei, ma passato prossimo).
Qual è la differenza tra l’indicativo e il congiuntivo, allora? Il grado di formalità: ogni volta che sia possibile usare l’uno o l’altro modo, il congiuntivo rappresenta la scelta più formale, l’indicativo quella più veloce e distratta. Accanto a questa considerazione di massima, inoltre, bisogna ricordare che alcuni verbi rifiutano il congiuntivo nella completiva, come dire, sapere e i verbi di percezione (vedere, sentire).
Per saperne di puù dell’alternanza tra indicativo e congiuntivo, può consultare le tante risposte sull’argomento dell’archivio di DICO, usando le parole chiave indicativo e congiuntivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti frasi quali sono le forme del passato corrette?
1. Faceva bel tempo.
Questo non era / è stato un problema; la cosa che mi pesava di più era / è stato il pensiero della sera: loro che andavano in discoteca, ballavano, bevevano e io, invece, sono dovuto rimanere in città per colpa di uno stupido esame!!!
2. Maria Callas era / è stata una famosa cantante.
RISPOSTA:
La scelta tra il passato prossimo e l’imperfetto dipende da come si vuole rappresentare l’evento passato. Con l’imperfetto l’evento è rappresentato come continuato, con il passato prossimo è rappresentato come iniziato e finito. Va ricordato, inoltre, che il passato prossimo rispetto al passato remoto indica che l’evento è ancora presente nella considerazione dell’emittente o che le sue conseguenze sono ancora valide nel presente (o entrambe le cose).
Nella prima frase, in entrambi i casi bisogna usare l’imperfetto perché gli eventi sono per forza continuati, infatti sono in relazione con altri imperfetti: era un problema è in relazione con faceva bel tempo e era il pensiero è in relazione con pesava. In realtà, pesava influenza tutti i verbi seguenti, perché tutti servono a descrivere la situazione; anche sono dovuto rimanere, quindi, andrebbe cambiato in dovevo rimanere. Per essere ancora più precisi, per simmetria con loro che andavano, la frase dovrebbe essere cambiata in e io che, invece, dovevo rimanere.
Nella seconda frase vanno bene entrambe le soluzioni: con l’imperfetto si rappresenta l’essere famosa come continuato nel passato, senza rilevare la sua durata; con il passato prossimo lo si rappresenta sempre passato (ma ancora valido, importante nel presente), ma dotato di un certo inizio e di una certa fine.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se devo raccontare qualcosa in maniera diretta e informale – ad esempio un sogno – posso fare dei passaggi dall’imperfetto al presente senza rompere l’omogeneità del testo? Mi spiego con un esempio, riporterò una frase di cui vi chiedo il grado di correttezza: “Comunque, nel sogno avevo un quaderno di fronte sul mio tavolino e all’improvviso mi appare una faccia tumida e rosea ecc…”.
RISPOSTA:
Sebbene nella lingua comune l’imperfetto faccia da sfondo a un evento descritto al passato prossimo o remoto, il presente nel suo caso può essere usato per descrivere eventi puntuali. In un genere come il racconto, che può avere una connotazione poetica, è possibile derogare da alcune costrizioni non rigide della lingua. Non a caso, lei nomina una categoria come la omogeneità, che non ha a che fare con la correttezza linguistica, ma riguarda lo stile, categoria molto più sfumata e soggettiva.
Tale deroga stilistica si fonda sulla possibilità linguistica del presente di rappresentare eventi passati, nella sua funzione di presente storico (“Giulio Cesare conquista la Gallia in poco tempo”), ma anche sul valore speciale dell’imperfetto onirico, che non è esattamente passato, ma serve a proiettare gli eventi in uno spazio e in un tempo indeterminati.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti frasi quale tempo verbale si può considerare corretto?
1. Caro diario, in questo periodo di quarantena, come ben saprai / sai, si può uscire solo in caso di necessità.
2. In particolare qualche giorno fa in una la lettera aperta, dal titolo “i bambini dimenticati”, un gruppo di psicologi, educatori, pediatri e genitori chiese / ha chiesto di tener conto dei diritti dei bambini. Il giornalista Polito pubblicando la lettera sul suo giornale aggiunse / ha aggiunto che se i cani hanno il diritto di uscire, anche i bambini lo devono poter fare.
RISPOSTA:
Entrambe le forme verbali della frase 1 sono corrette. Il futuro saprai aggiunge, rispetto al presente sai, una sfumatura epistemica al verbo; il futuro, cioè, serve qui a rappresentare l’affermazione come incerta, da interpretare come forse sai.
Nella frase 2 il passato prossimo è la scelta migliore in entrambi i punti (ha chiesto; ha aggiunto). Il passato prossimo, infatti, nell’italiano contemporaneo è quasi sempre preferito al passato remoto, in particolare per esprimere eventi, come quelli descritti nella frase, che si proiettano nel presente, cioè che sono ancora ben presenti nella considerazione dell’emittente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho cercato di raccogliere i miei dubbi, che vertono tutti sui tempi del modo congiuntivo da selezionare di volta in volta.
1a) Quando lei abbia la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.
1b) Quando lei avesse la possibilità di pronunciarsi, gradirei conoscere il suo pensiero.
La soluzione 1a è comunque valida?
2a) Se in precedenza fosse firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.
2b) Se in precedenza fosse stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.
2c) Se in precedenza sia stato firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.
2d) Se in precedenza sia firmato l’accordo, il console potrà/potrebbe conferire con l’ambasciatore.
Il dubbio, come già spiegato, verte sulla scelta del tempo del congiuntivo. Tutte le soluzioni sono valide?
Il modo della principale, indicativo o condizionale, potrebbe incidere al riguardo?
3a) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprima il desiderio.
3b) Vorrei/dovrei regalarglielo, prima che lui esprimesse il desiderio.
Stesso dubbio del caso precedente.
4a) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenessi l’incarico.
4b) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu ottenga l’incarico.
4c) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu abbia ottenuto l’incarico.
4d) Vorrei essere informato, se nel giro di qualche ora tu avessi ottenuto l’incarico.
Anche qui domando se cambierebbe qualcosa, qualora al posto di vorrei avessimo voglio o vorrò.
5a) Nel caso tu non abbia ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
5b) Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
5c) Nel caso tu non ottenessi l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
5d) Nel caso tu non ottenga l’incarico, sarò costretto/sarei costretto ad approntare il piano “b”.
Questo caso, a livello sintattico, fa il paio con il numero 4?
RISPOSTA:
Visti i molti esempi, e visto che il periodo ipotetico è uno degli argomenti più trattati nelle domande degli utenti, la rimando all’archivio di DICO per ulteriori approfondimenti.
1. Entrambe le frasi sono legittime. Nella 1a la proposizione temporale rappresenta il fatto come certo (dal punto di vista dell’emittente). Il congiuntivo presente è la variante formale dell’indicativo futuro (quando lei avrà la possibilità di pronunciarsi) o presente (quando lei ha la possibilità…), che è quella più trascurata. Il congiuntivo imperfetto di 1b (avesse) fa assumere alla temporale una sfumatura ipotetica, assimilando quando a se: la temporale, in questo modo, indica una condizione incerta, ma realizzabile (non so ancora se parlerà o no).
2. La protasi del periodo ipotetico introdotta da se può contenere l’indicativo presente, futuro, imperfetto e passato prossimo (e trapassato prossimo in un registro molto basso), o il congiuntivo imperfetto e trapassato. Il congiuntivo presente e passato non sono di norma usati in questa proposizione. Le versioni 2c e 2d della frase, pertanto, sono da evitare. Divengono perfettamente regolari sostituendo i tempi del congiuntivo con gli equivalenti tempi dell’indicativo: se in precedenza è firmato / è stato firmato l’accordo. Il presente è firmato, comunque, contrasta logicamente con l’avverbio in precedenza; il tempo passato è decisamente da preferire.
La scelta tra indicativo futuro potrà e condizionale presente potrebbe nell’apodosi modifica leggermente il senso della frase: l’indicativo futuro, infatti, sottolinea la certezza che il console parlerà con l’ambasciatore; il condizionale, invece, lascia una sfumatura ipotetica.
3. Nella frase 3a, consideriamo che prima che richiede necessariamente il congiuntivo e si comporta, dal punto di vista della selezione dei tempi, come quando. Con il presente esprima, si costruisce la contemporaneità nel presente, ovvero con il tempo dell’evento della reggente. Non è giustificato, invece, il congiuntivo imperfetto esprimesse, che indica contemporaneità nel passato. L’imperfetto andrebbe bene se nella reggente ci fosse avrei dovuto / voluto regalargilelo.
4. Le varianti da preferire sono la 4a e la 4d perché, come detto a proposito delle frasi 2, la proposizione condizionale (la protasi del periodo ipotetico) introdotta da se preferisce il congiuntivo imperfetto ottenessi e quello trapassato avessi ottenuto. La scelta tra questi due tempi dipenderà dal grado di probabilità con cui l’evento avverrà dal punto di vista dell’emittente.
È possibile usare voglio nell’apodosi, per essere molto diretti (rivolgendosi a una persona con cui si ha confidenza); mentre il futuro vorrò sarebbe a metà strada tra il valore temporale (ovvero in futuro vorrò) e quello epistemico (che lo avvicina a forse voglio).
5. Si noti innanzitutto che la protasi introdotta da nel caso che, nel caso in cui, nel caso richiede sempre il congiuntivo, anche presente e passato. Nel caso tu non abbia ottenuto, quindi, equivale a se tu non hai ottenuto e nel caso tu non ottenga equivale a se tu non ottieni.
Le versioni della frase sono tutte corrette, anche se esprimono sfumature diverse dello stesso concetto.
La 5a e la 5d presentano, come visto sopra, lo stesso tipo di protasi, della realtà, e si differenziano per la relazione temporale con l’apodosi: il presente (ottenga) indica contemporaneità con il presente, il passato (abbia ottenuto) indica anteriorità con il presente. L’alternanza tra sarò contretto e sarei contretto è indifferente ai fini della consecutio temporum, perché entrambe le forme valgono come presenti. Su questo si veda quanto detto sulle frasi 4.
La 5b e la 5d presentano una protasi dell’irrealtà (avessi ottenuto) e della possibilità (ottenessi).
Si noti che il congiuntivo trapassato di 5b ammette l’apodosi così costruita soltanto se l’evento dell’ottenere il lavoro è ancora ignoto all’emittente. Se, invece, l’emittente sa già che la condizione non si è verificata, la frase richiede un’apodosi al condizionale passato (sarei stato costretto). Per esemplificare la differenza: “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma ancora non so se l’hai ottenuto), sarei costretto ad approntare il piano b”. Ma “Nel caso tu non avessi ottenuto l’incarico (ma io so già che l’hai ottenuto), sarei stato costretto ad approntare il piano b”. In altre parole, nel caso in cui l’emittente non sapesse se l’incarico sia stato ottenuto, starebbe facendo un’ipotesi possibile (sarei costretto), pur ammettendo che la condizione sia improbabile (non avessi ottenuto); nel caso in cui, invece, l’emittente sapesse che l’esito della condizione è stato contrario a quello che avrebbe fatto scattare la conseguenza, l’ipotesi diviene del tutto irrealizzabile (sarei stato costretto). Ovviamente, se l’emittente sapesse che l’incarico non è stato ottenuto, non costruirebbe mai la frase così, ma direbbe “Nel caso tu avessi ottenuto l’incarico, sarei stato costretto…”.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Sono uno psicologo e ho un dubbio su una risposta di un paziente in merito ad un test di wais r sul vocabolario. il test in questione è composto da 35 domande, e noi dobbiamo attribuire un punteggio di 2, 1 o 0 a seconda della pertinenza della risposta. Alla domanda riparare si considera giusta la riposta ‘fare sì che ritorni come nuovo’. Alla domanda sproloquiare il paziente ha dato la risposta: ‘sparlare (parlare a sproposito) senza malizia’. La risposta è pertinente?
RISPOSTA:
La risposta si colloca più o meno nel mezzo, a mio giudizio, tra una risposta del tutto pertinente e una del tutto sbagliata.
Nel concetto di sproloquiare rientra sicuramente il parlare a sproposito e sconclusionatamente e, in effetti, questo raramente si concilia con la malizia che, all’opposto, implica una buona dose di oculatezza, di programmazione (che è il contrario dell’essere sconclusionati). Diciamo, però, che non si può escludere a priori che uno sproloquio sia anche malizioso. Quel che è un po’ strano (poco appropriato secondo il lessico e la semantica italiani) è l’uso del termine sparlare, il quale, invece, implica esattamente e necessariamente la malizia, la maldicenza, il malanimo.
Morale della favola: o il suo informatore presenta qualche lacuna nell’uso dell’italiano (ignorando, cioè, il significato esatto del termine sparlare, piuttosto che di sproloquiare), oppure sembrerebbe questo un classico caso interessante di lapsus freudiano (ma non vorrei certo rubarle il mestiere…), poiché, nel momento stesso in cui il paziente nega esplicitamente la malizia, cacciandola dalla porta, ecco che questa rientra dalla finestra (inconscia) del significato di sparlare.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono uno psicologo e ho svolto il test wais r ad un mio paziente. il test è formato anche da una parte di comprensione lessicale, a cui bisogna attribuire un punteggio.
Alla parola sproloquio il paziente ha risposto così: “Chi parla in modo prolisso e inconcludente”; poi ha detto: “Parlare a lungo senza arrivare al dunque”, aggiungendo che loqui vuol dire ‘parlare’.
Secondo lei entrambe le risposte sono giuste?
RISPOSTA:
Dipende da quanto bisogna essere fini nella valutazione. In entrambe le risposte c’è un difetto di fondo, che, però, forse potrebbe essere trascurato: di fronte alla domanda su un nomen rei actae (l’atto dello sproloquio), la prima descrive un nomen agentis (colui che produce uno sproloquio), la seconda un verbo (sproloquiare). Un errore di questo genere è comunissimo, tanto negli studenti quanto negli adulti, e dipende quasi sempre dalla scarsa abitudine a fare riflessione metalinguistica, cioè a riflettere analiticamente sulla lingua. Non saprei, quindi, quanto sia utile tenerne conto per i suoi fini.
Per quanto riguarda il contenuto delle risposte, mi sembra che siano entrambe equivalenti e sostanzialmente corrette.
Le consiglio anche di rileggere le risposte già date sull’argomento pubblicate nell’archivio di DICO. Le troverà facilmente usando la parola chiave sproloquio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto definire le intenzioni egoistiche?
RISPOSTA:
Sì: l’espressione è corretta e se ne trovano diverse attestazioni nell’uso. Ne ho trovata una nel Corriere della sera del 30 gennaio 2017 (“Le intenzioni sono egoistiche, è chiaro”) e qualche decina in Google Books con restrizione al Novecento.
Non si tratta, come rivela la quantità di attestazioni, di un’espressione molto comune. Più comuni, stando alle stesse risorse usate per intenzioni, sono le combinazioni fini egoistici e scopi egoistici.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Le sera, mi lavo, ceno e mi guardo un bel film”, il mi guardo è un falso riflessivo? È corretto o è preferibile dire guardo un bel film?
RISPOSTA:
Espressioni come mi guardo un film segnalano un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione. Si tratta di casi particolari in cui nell’uso del pronome prevale non il piano logico ma la funzione affettivo-intensiva: queste costruzioni intensive sono affini al dativo etico propriamente detto (sul dativo etico la rimando alla risposta 280012 dell’archivio di DICO). L’uso dei pronomi atoni intensivi (per esempio in espressioni come mi ascolto una canzone, mi mangio una mela) fa parte di un registro colloquiale e familiare ed è generalmente ammesso nel parlato ma non negli scritti formali, in cui ci si aspetterebbe la variante guardo un film.
Per ulteriori approfondimenti su alcuni usi dei pronomi atoni può leggere anche questa risposta dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Penso di conoscere le regole del discorso indiretto, ma ci sono delle eccezioni quando non si fa la concordanza secondo quelle regole. Così sono inciampata in alcune frasi dove tutto rimane uguale al discorso diretto. Vorrei chiedere come mai avvenga questo.
Nora si è fatta un piercing. > Avete detto che Nora si è fatta un piercing.
Ci troviamo bene al mare. > Mi diranno che si trovano bene al mare.
RISPOSTA:
Nelle sue frasi non ci sono eccezioni, ma la trasformazione da discorso diretto a indiretto segue le regole previste.
Nel primo caso la cornice aggiunta (ovvero la proposizione che regge il discorso diretto divenuto indiretto) è al passato prossimo e ha un soggetto diverso da quello del discorso diretto / indiretto. Bisogna considerare che il passato prossimo si comporta, rispetto al discorso indiretto, come il presente, ovvero non richiede di norma alcun cambiamento di tempo verbale nel discorso indiretto. Il presente nella cornice, infatti, che rappresenta il momento di riferimento rispetto al quale scegliamo il tempo del verbo del discorso indiretto, viene a coincidere con il momento dell’enunciazione, quindi, in questo caso presente = contemporaneità, passato = anteriorità, futuro = posteriorità. Potremmo sostituire il modo indicativo con l’infinito se il soggetto della cornice coincidesse con quello del discorso indiretto: “Nora ha detto che si è fatta un piercing” o “Nora ha detto di essersi fatta un piercing”.
La cornice al futuro, che troviamo nella seconda frase, si comporta di solito come il presente, quindi non richiede nessun cambiamento, per eventi passati (“Si sono trovati bene” > “Diranno che si sono trovati bene” oppure “Diranno di essersi trovati bene”). Quando l’evento del discorso diretto / indiretto è al presente bisogna considerare se il presente è acronico, cioè vale sempre, o è riferito a un preciso momento. Nel primo caso, rimane tale; nel secondo caso diventa passato. Per esempio: “Sei una brava persona” (presente acronico) > “Domani dirò a tutti che sei una brava persona”; “Sono a casa” (evento riferito a un momento preciso) > “Domani Luca dirà a tutti che ero a casa”.
Nella sua seconda frase, bisogna capire se “Ci troviamo bene al mare” sia una affermazione generale (cioè ‘di solito ci troviamo bene al mare’), oppure si riferisca a un momento preciso (cioè ‘ci troviamo bene adesso al mare’). Nel primo caso la frase rimarrà intatta nel discorso indiretto; nel secondo diventerà “Mi diranno che si sono trovati bene al mare”, oppure “Mi diranno di essersi trovati bene al mare”.
Se l’evento del discorso diretto / indiretto fosse futuro, bisognerebbe valutare il suo rapporto temporale con il futuro della cornice: “Tra tre giorni ce la metterò tutta per vincere” > “Domani dirò che due giorni dopo ce la metterò tutta per vincere”, ma “Tra quattro giorni dirò che ce l’avrò messa tutta per vincere”, o “Tra quattro giorni dirò che ce l’ho messa tutta per vincere”, o anche “Tra quattro giorni dirò di avercela messa tutta per vincere”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I seguenti esempi contengono ripetizioni o pleonasmi e sono pertanto da evitare?
1) Il suo commento è di per sé già eloquente.
2) Te l’ho già detto prima.
3) Risolvere definitivamente il problema.
4) L’uomo è un assiduo avventore del locale.
5) Bazzico abitualmente quel circolo.
6) Non so se lei ne sia capace. Ma il fatto che/se lo sia o non lo sia non è rivelante.
RISPOSTA:
Le frasi 1, 2, 3 e 5 presentano avverbi o locuzioni avverbiali che non apportano un significato determinante alla frase e servono soprattutto ad arricchirla sintatticamente. Possono, pertanto, essere definiti pleonastici e in uno stile che voglia essere asciutto andranno evitati (sebbene non si tratti di errori da nessun punto di vista). Si noti che, se nello scritto gli avverbi superflui non hanno ragione di apparire, nel parlato possono servire da appendici informative del verbo. Questo si nota soprattutto nella frase 5: se eliminiamo l’avverbio, l’informazione saliente diviene quel circolo (infatti l’accento della frase viene a cadere tutto su questo sintagma), ma l’emittente potrebbe voler puntare l’attenzione sull’azione del bazzicare, non sul luogo. Per questo scopo avrebbe due possibilità: una dislocazione (quel circolo lo bazzico, così come il problema l’ho risolto) oppure, appunto, l’inserimento dell’avverbio semanticamente quasi neutrale che gli consenta di appoggiare la voce non sul sintagma nominale (bazzico ABITUALMENTE quel circolo). Non ugualmente efficace sarebbe, invece, BAZZICO quel circolo, perché la posizione iniziale non marcata del verbo lo configura come tema, ovvero come informazione poco saliente. Per approfondire i concetti di tema, rema, dislocazione e simili può consultare l’archivio di DICO, a partire dalla risposta n. 28009, che rimanda a sua volta ad altre risorse della pagina.
Decisamente non superfluo è l’aggettivo assiduo della frase 4: un avventore, infatti, può non essere assiduo, ma occasionale, oppure essere accompagnato da una proposizione relativa che lo qualifica diversamente. Il secondo periodo della frase 6 deve essere scompartito, perché le due possibili costruzioni sintattiche accorpate non sono equivalenti, ma una esprime un dubbio, l’altra esprime un fatto:
6a. Ma se lo sia o non lo sia non è rivelante.
6b. Ma il fatto che lo sia non è rivelante. / Ma il fatto che non lo sia non è rivelante.
Le varianti b risultano in contrasto logico con il contenuto del primo periodo, che presenta un dubbio. La variante a potrebbe essere semplificata (Ma se lo sia non è rivelante oppure Ma se non lo sia non è rivelante), ma la semplificazione comporterebbe un lieve cambiamento nel senso della frase, perché farebbe propendere il dubbio verso una delle due possibilità, come se l’emittente sospettasse che il ricevente fosse oppure non fosse capace. Neanche qui, insomma, si riscontra un pleonasmo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio riguardo a questa frase: “Se stavi a casa tua, tutto questo non sarebbe accaduto”.
Con il se l’imperfetto è assolutamente vietato? Devo per forza dire se fossi stato?
RISPOSTA:
L’indicativo imperfetto può essere usato al posto del congiuntivo trapassato nella protasi del periodo ipotetico dell’irrealtà in un contesto informale. Anche l’apodosi può prendere l’indicativo imperfetto: “Se stavi a casa tua, tutto questo non accadeva”.
La forma è generalmente da evitare nel parlato e nello scritto di alta formalità (sentenze, articoli scientifici, lezioni e relazioni di studio o di lavoro e simili). Nello scritto di media formalità (componimenti scolastici, e-mail di lavoro e simili) è accettabile, ma produce un abbassamento del tono del testo. Nello scritto informale e nel parlato di media e bassa formalità si può usare senza remore.
Nella scelta, ovviamente, peseranno anche ragioni di stile personale ed esigenze espressive: nello scritto giornalistico, per esempio, l’indicativo può essere preferito per dare al testo un alone di leggerezza ammiccante.
Questo tema è stato oggetto di decine di risposte che può leggere nell’archivio di DICO usando come parola chiave per la ricerca periodo ipotetico.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Hanno archiviato la pratica per coloro il cui adempimento era stato regolarmente soddisfatto.
La frase è corretta (coloro il cui adempimento…)?
Cerca di pensare a quanti spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha riservato.
La frase è corretta (quanti spasimanti… dai quali)?
RISPOSTA:
Le frasi non sono ben formate.
Nella prima, il cui adempimento (equivalente a l’adempimento dei quali) può significare sia l’adempimento fatto dai quali, sia l’adempimento fatto nei confronti dei quali. Già questa ambiguità è dannosa per la comprensione e dovrebbe essere evitata. A questa, inoltre, si aggiunge l’inconciliabilità tra il soggetto ademplimento e il predicato essere soddisfatto. Non sono molti i verbi che ammettono adempimento come argomento (che sia il soggetto o il complemento oggetto): mi viene in mente soltanto ottemperare. In alternativa, si può modificare la frase in modo da trasformare adempimento nel verbo adempiere a, inserendo un complemento oggetto generico. In conclusione propongo due versioni riformulate della frase:
1. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente ottemperato all’adempimento;
2. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente adempiuto all’indicazione / all’ordine / all’obbligo.
Nella seconda frase c’è un pleonasmo: la stessa funzione relativa, infatti, è svolta tanto dall’aggettivo quanti quanto dal pronome dai quali. Per evitare il pleonasmo, bisogna eliminare una delle due parole. Anche in questa frase, inoltre, il verbo della relativa non è ben scelto: riservare da spasimanti non è un’espressione felice. Propongo questa riformulazione:
1. cerca di pensare alla quantità di spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha protetto.
Altre variazioni sono possibili, per esempio:
2. cerca di pensare a quanti spasimanti molesti tuo padre abbia allontanato da te per proteggerti.
Possibile, ma problematica (quindi da riservare a contesti informali), anche la seguente:
3. cerca di pensare da quanti spasimanti molesti tuo padre ti abbia protetto.
Il problema di questa variante è la sostituzione sintetica della preposizione retta dal verbo pensare (a) con quella richiesta da quanti per svolgere la sua funzione di complemento di allontanamento (da) in relazione al verbo proteggere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo su un giornale a diffusione nazionale, nell’articolo di fondo: “… non prendeteci in giro, che non siamo ragazzini …”. Quel che non dovrebbe essere accentato ed avere quindi valore di perché o poiché? Altrimenti, come definire quel che?
RISPOSTA:
Uno dei tratti più caratteristici dell’italiano contemporaneo è la diffusione nello scritto del che polivalente, ovvero di usi del connettivo che non facilmente inquadrabili nella classificazione grammaticale tradizionale. Si tratta di usi ben noti alla tradizione dell’italiano, ma fino a qualche decennio fa tipici del parlato. Tipici, ma non esclusivi, come dimostrano, per fare un esempio tanto antico quanto illustre, i tanti passi danteschi nei quali la funzione di che è indecidibile (per una disamina di questi passi si può leggere la voce dell’Enciclopedia dantesca dedicata proprio a che). Il più famoso è probabilmente il verso 3 dell’Inferno: “ché la diritta via era smarrita”, che nell’edizione Petrocchi (qui riprodotta) appare come ché, ma sul quale ci sono parecchi pareri discordi che vorrebbero la restituzione di che (secondo la lezione di molti codici). Il valore del connettivo nel passo, infatti, può sì essere causale, ma non si possono escludere il valore consecutivo (= tanto che la diritta via era smarrita), quello semplicemente aggiuntivo (= e la diritta via era smarrita), quello che alcuni definiscono modale (= in modo tale che / sicché la diritta via era smarrita) e addirittura, ma si tratta dell’interpretazione meno accreditata, quello relativo (= nella quale la diritta via era smarrita). Tra gli usi del che polivalente, infatti, rientra anche quello di relativo generico, che può sostituire cui e tutti gli altri casi (in cui, per cui ecc.).
Questi usi sono rimasti ai margini della tradizione scritta fino a qualche decennio fa; anche le occorrenze dantesche sono da interpretare come tentativi di imitare il parlato o occasionali abbassamenti di tono. L’avvicinamento relativamente recente tra lo scritto e il parlato ha portato a una sempre maggiore accoglienza di tratti come questo nello scritto, a partire ovviamente da testi di bassa formalità (famoso il verso della canzone di Jovanotti perché non c’è niente che ho bisogno) o brillanti, come certi articoli giornalistici di commento. Lo scritto mediamente formale ancora rifiuta questi usi, ma è possibile che essi si diffondano sempre di più in futuro. Già oggi, per esempio, il che pseudorelativo all’interno della frase scissa (“È lui che ho visto”) è pienamente accettato. Sulla frase scissa, in particolare, si possono leggere diverse risposte nell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se verificassi che la situazione fosse / sia / è sotto controllo mi sentirei più tranquillo.
La subordinata oggettiva che la situazione fosse, a mio avviso è corretta, ma una collega sostiene che occorre il congiuntivo presente sia. Pur considerando corretto anche l’uso dell’ indicativo (volendo dare alla proposizione una natura realistica), quale tempo del congiuntivo è corretto?
RISPOSTA:
Come regola generale, sconsiglio sempre di sostenere che una forma o una costruzione sia scorretta. Molto spesso, infatti, l’errore si rivela essere una variante ammessa dalla lingua, magari con qualche restrizione, o addirittura pienamente legittima. In questo caso, per esempio, le tre forme verbali da lei prospettate sono valide, a certe condizioni. In particolare, fosse è addirittura l’unica possibile se la situazione di cui si parla è passata: “Se verificassi (ora) che la situazione (ieri) fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Se, invece, la situazione è attuale, sia è sicuramente la forma più attesa, perché in linea con le regole della consecutio temporum, secondo cui il presente congiuntivo indica contemporaneità nel presente con il verbo della reggente. La forma fosse, però, non è comunque da escludere, perché può essere attratta dalla struttura sottostante: “Se la situazione fosse sotto controllo mi sentirei più tranquillo”. Si tratta di un uso meno preciso, ma che non definirei scorretto. L’indicativo presente, infine, non rappresenta la situazione come realistica, come lei suppone, ma abbassa il registro linguistico. Non c’è differenza tra sia e è dal punto di vista sintattico, ma la prima forma è più formale della seconda.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due frasi è corretta?
1. Ieri era il mio compleanno.
2. Ieri è stato il mio compleanno.
È preferibile usare un altro tempo?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti vanno bene. Nella frase 1 si designa il carattere durativo dell’evento, cioè del passare del tempo durante il compleanno. In altre parole, con l’imperfetto l’evento è rappresentato come continuato all’interno dei limiti temporali fissati dall’avverbio ieri.
Il passato prossimo della frase 2, invece, rappresenta l’evento come unitario, cioè come un unico momento nel tempo, coincidente con ieri.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Con una reggente all’indicativo (presente o futuro), una subordinata introdotta da appena o da quando può essere costruita tanto con il congiuntivo passato quanto con quello trapassato? Se sì, che cosa cambierebbe a livello semantico?
1. Rachele uscirà di casa, appena / quando abbia sbrigato le faccende.
2. Rachele uscirà di casa, appena / quando avesse sbrigato le faccende.
La costruzione
3. Rachele uscirà di casa, appena/quando avrà sbrigato le faccende
è certamente più attesa, ma vi domando se siano possibili anche quelle sopra elencate.
RISPOSTA:
Le tre varianti sono legittime e non sono neanche le uniche possibili. Partiamo dal presupposto che le proposizioni temporali al futuro sono per loro natura affini alle condizionali, sia che contengano l’indicativo, sia che contengano il congiuntivo. È chiaro, infatti, che la previsione di un evento futuro porti con sé una certa componente di potenzialità. Questa componente è minima nella versione 3 della frase, per via dell’uso dell’indicativo: quando avrà sbrigato implica sì se avrà sbrigato, ma nello stesso tempo suggerisce che ciò avverrà certamente (per quanto ne sa l’emittente). Nella versione 2, al contrario, la componente di potenzialità è massima, perché il congiuntivo trapassato (avesse sbrigato) ha il ruolo di indicare un’ipotesi improbabile o impossibile. La frase, quindi, suggerisce che, per quanto ne sa l’emittente, Rachele difficilmente riuscirà a sbrigare le faccende in tempo per uscire.
Ci sarebbe una terza versione della frase, con il congiuntivo imperfetto, che rappresenterebbe la condizione come incerta, ma realizzabile: “Rachele uscirà di casa, appena / quando sbrigasse le faccende”.
La versione 1, infine, rappresenta una variante della 3 senza apprezzabile cambiamento di significato, ma posizionata più in alto sull’asse diafasico, ovvero più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Secondo la predizione, ‘Roma esisterà fino a quando esisterà il Colosseo'”.
Se non vado errato, l’esempio è valido; se però volessimo modificarne le sfumature semantiche, si potrebbe procedere come segue?
1. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esista il Colosseo”.
2. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esistesse il Colosseo”.
3. Secondo la predizione, “Roma esisterà fino a quando esista il Colosseo”.
Le tre varianti sono corrette sotto il profilo sintattico?
La seguente, invece, è scorretta?
4. Secondo la predizione, “Roma esisterebbe fino a quando esisterebbe il Colosseo”.
RISPOSTA:
Il primo punto da considerare è il verbo della proposizione Roma esisterà / esisterebbe. La scelta del modo del verbo dipende qui dalla volontà di rappresentare l’esistenza come un fatto certo (indicativo) o come la conseguenza di una condizione (condizionale).
Nel primo caso ci si aspetta che anche la subordinata temporale (che essendo al futuro ha già in sé una sfumatura di potenzialità) sia all’indicativo futuro (versione 1). Così facendo, i due eventi, pur in un rapporto di condizione-conseguenza, sono rappresentati come certi (per quanto sia possibile rappresentare come certi eventi non ancora avvenuti).
Possibile è anche il congiuntivo presente nella temporale dipendente dalla principale all’indicativo futuro (versione 3); si tratta della variante più formale della versione 1.
Con il condizionale nella principale, la subordinata temporale ammette ancora l’indicativo futuro (“Roma esisterebbe fino a quando esisterà il Colosseo”). In questo caso il condizionale è giustificato da un’altra condizione, diversa da quella dell’esistenza del Colosseo, recuperabile dal co-testo, ovvero la veridicità della predizione: “Roma esisterebbe (se fosse vera la predizione) fino a quando esisterà il Colosseo”. Sarebbe un caso di condizionale di distanziamento; lo stesso che usano i giornalisti quando riportano fatti non confermati (per esempio: “L’imputato avrebbe ricattato il vicino di casa”, ovvero “L’imputato avrebbe ricattato se l’accusa fosse vera, il vicino di casa”).
Se, invece, costruiamo la temporale con il congiuntivo imperfetto (versione 2) mettiamo in relazione diretta la condizione del perdurare dell’esistenza del Colosseo e la conseguenza dell’esistenza di Roma.
La versione 4 della frase, infine, è scorretta, perché rappresenta la condizione all’interno della temporale ipotetica con il condizionale presente, che, invece, serve a rappresentare la conseguenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi seguenti è stato usato il pronome relativo. C’è qualche differenza logica o di significato? Qual è, tra le due, la soluzione da preferire?
1. Il preside del Liceo è Giovanni, COLUI CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.
2. Giovanni è il preside del Liceo, CHE ha insegnato per molti anni Filosofia.
RISPOSTA:
Tra le due frasi ci sono due differenze, entrambe nella proposizione principale, la disposizione dei sintagmi e la presenza del pronome colui. La prima differenza rispecchia un diverso scopo informativo: nella prima frase si vuole informare su chi sia il preside del Liceo, nella seconda su chi sia Giovanni. Per quanto riguarda colui, esso funge da antecedente di che, quindi è il referente dell’informazione della proposizione relativa; a sua volta, colui rimanda a Giovanni, che è subito adiacente. Questa formulazione con la relativa indirettamente riferita alla persona di cui si sta parlando separa l’informazione della relativa da quella della reggente, suggerendo che la prima sia rilevante per descrivere Giovanni, ma in modo indipendente dal suo ruolo di preside. Senza colui, al contrario, l’informazione della relativa è collegata a quella della reggente, tanto da suggerire che ci sia una relazione di quasi motivazione tra le due (quasi Giovanni è il preside del Liceo perché ha insegnato Filosofia).
Nella seconda frase, l’informazione della relativa si aggancia direttamente alla persona di cui si sta parlando; stranamente, però, questa non è Giovanni, ma il preside del Liceo.
La seconda formulazione, insomma, non è felice, perché, a prescindere dalla presenza di colui, allontana il pronome che dal suo antecedente naturale, che è Giovanni. È preferibile, pertanto, usare la prima versione, con o senza colui, oppure, nella seconda, anticipare la relativa come incidentale: “Giovanni, che ha insegnato per molti anni Filosofia, è Il preside del Liceo”. Con l’incidentale, colui diviene superfluo in ogni caso, perché l’anticipazione dell’informazione della relativa rispetto a quella della principale fa risaltare la prima come dotata di una rilevanza autonoma e rende molto improbabile l’interpretazione quasi motivazionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sfogliando il vostro archivio delle domande, mi sono soffermata sull’alternanza tra congiuntivo trapassato e imperfetto, passato prossimo e futuri dell’indicativo nelle subordinate. Mi piacerebbe conoscere il livello di formalità delle soluzioni sotto indicate.
1) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi fosse passata, dovrei richiamarlo.
2) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, avrei dovuto richiamarlo.
3) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passasse, dovrei richiamarlo.
4) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi è passata, dovrò richiamarlo.
5) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi passerà, dovrò richiamarlo.
6) Stamattina il medico mi ha detto che se entro domani la febbre non mi sarà passata, dovrò richiamarlo.
RISPOSTA:
1) La proposizione condizionale (se entro domani la febbre non mi fosse passata) configura l’oggettiva (dovrei richiamarlo) come l’apodosi di un periodo ipotetico (di cui la condizionale è la protasi). Il congiuntivo trapassato (fosse passata) indica che l’ipotesi è altamente improbabile, inverosimile. Si noti che questa funzione sintattica in questo caso è svincolata dalla consecutio temporum, tanto che il trapassato può essere usato anche in relazione a un evento futuro quale è quello descritto nella frase.
Riguardo alla 2) e alla 3), il congiuntivo imperfetto (passasse) indica che l’ipotesi è verosimile. L’apodosi di questo periodo ipotetico è una proposizione oggettiva (dipendente da ha detto) e tutte le completive (categoria nella quale rientra l’oggetiva) rispettano fedelmente la consecutio temporum. Stando alla consecutio, un evento successivo a un altro presente si indica con l’indicativo futuro, il congiuntivo presente o, in un periodo ipotetico, il condizionale presente; un evento successivo a uno passato (il cosiddetto futuro nel passato), invece, si indica con il congiuntivo imperfetto o il condizionale passato; la scelta del tempo del condizionale, pertanto, dipenderà dal tempo della reggente. Il passato prossimo (ha detto) è ovviamente un passato, ma vale come presente, perché la disposizione del medico è ancora valida nel momento dell’enunciazione e lo sarà anche nel momento in cui l’emittente dovrà chiamarlo. Il passato prossimo, pertanto, richiede preferibilmente il condizionale presente (dovrei), tanto in relazione a una protasi al congiuntivo imperfetto (ipotesi possibile), quanto in relazione a una al congiuntivo trapassato (ipotesi improbabile). Più insolito, ma non impossibile, sarebbe il condizionale passato (avrei dovuto), che rappresenterebbe automaticamente la disposizione del medico come legata al passato e non più valida (circostanza che potrebbe verificarsi se, per esempio, il medico ha in seguito comunicato una disposizione diversa, o se l’emittente ha già deciso che non seguirà la disposizione).
Nella 4) la proposizione condizionale rappresenta l’ipotesi come reale, suggerendo che sia molto probabile che si verifichi. Il passato prossimo (è passata) in relazione a un evento futuro si giustifica immaginando come momento di riferimento domani, rispetto al quale la febbre si è già manifestata come passata o no. L’apodosi all’indicativo futuro è perfettamente in linea con il grado di probabilità di questa ipotesi, ma essa ammette anche il condizionale, che lascia trasparire la possibilità che nonostante la febbre l’emittente possa non chiamare il medico (come se ci fosse una seconda protasi implicita: se entro domani la febbre non mi è passata, dovrei richiamarlo (se lo ritenessi opportuno)).
Dal punto di vista della formalità, quest’ultima versione della frase ammette delle varianti: quella più formale è la 6), con il futuro anteriore nella protasi (se non mi sarà passata) e il futuro semplice nell’apodosi; quella meno formale avrebbe il passato prossimo nella protasi e il presente nell’apodosi (devo chiamarlo). La 5), con i due futuri, si colloca a un livello intermedio: è meno precisa, quindi meno formale, di quella con il futuro anteriore, ma è più precisa, quindi più formale, di quella con il passato prossimo.
Si consideri che il futuro anteriore è usato soprattutto in contesti di alta formalità, o per evitare confusione qualora il co-testo generi ambiguità. Nel tempo, il futuro anteriore ha subito un progressivo abbandono in favore del futuro semplice e del presente indicativo, decisamente più economici.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
“Penserai che sono una ignorante… ma
1. non avrei mai creduto che arrivasse un periodo così”;
2. non avrei mai creduto che potesse arrivare un periodo così”.
Sono corrette entrambe?
RISPOSTA:
Sì, ma la seconda aggiunge alla formulazione una ulteriore sfumatura di eventualità, per mezzo della quale l’emittente enfatizza la scarsa probabilità che ha attribuito al realizzarsi dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Qualora vi interessasse un film sulla pandemia che riguardi la quarantena di una città…”: la domanda è: che riguardi o che riguardasse?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono possibili. Ugualmente possibile sarebbe che riguarda, ma, come sempre avviene, quando c’è la possibilità di scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo, quest’ultimo rappresenta la scelta più formale. E va aggiunto che la scelta del congiuntivo rispetto all’indicativo è motivata (sebbene non sia obbligatoria) anche dal contesto ipotetico in cui si inserisce la proposizione.
Il congiuntivo nella proposizione relativa, però, non è soltanto la scelta più formale; esso connota anche la proposizione come ipotetica, facendo sfumare il pronome che verso la locuzione nel caso in cui. In questo quadro, l’imperfetto rispetto al presente allontana la rappresentazione dello stato del riguardare dalla realtà. In altre parole, la variante con il congiuntivo imperfetto presenta la caratteristica del riguardare come meno probabile rispetto a quanto appaia con il congiuntivo presente.
QUESITO:
“Se, nel frattempo, sarà selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
Non sarebbe stato meglio adottare il futuro anteriore per differenziare la collocazione temporale delle due azioni?
“Se, nel frattempo, sarà stato selezionato il messaggio, l’utente sarà autorizzato a…”.
La locuzione nel frattempo in questo esempio, inevitabilmente proiettato nel futuro, è usata in modo improprio?
RISPOSTA:
Certamente la costruzione con il futuro anteriore è più precisa, quindi più formale. Non si può, però, dire che la prima variante sia sbagliata: il rapporto temporale tra le due azioni è, infatti, evidente anche senza il ricorso al futuro anteriore. Tale rapporto, per la verità, è quasi sempre recuperabile dal co-testo o ricostruibile per logica, ed è per questo che il futuro anteriore è sempre meno usato nella lingua comune.
In questo caso specifico, un ulteriore motivo che scoraggia l’uso del futuro anteriore e giustifica ancora più fortemente, al contrario, il futuro semplice, è la presenza di un terzo evento, che lei non riporta nell’esempio, ma che è richiamato dalla locuzione avverbiale nel frattempo e con il quale l’evento del selezionare è in rapporto di contemporaneità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito fosse favorevole sia che fosse contrario”.
Le due proposizioni della frase dovrebbero essere contemporanee; ma se si volesse rendere la subordinata posteriore alla reggente, si potrebbe adottare il condizionale passato o sarebbe sbagliato (rendendo quindi necessario il ricorso al congiuntivo trapassato)?
“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia che mio marito sarebbe stato favorevole sia che sarebbe stato contrario”.
Se modificassimo la struttura del periodo trasformando sia che in sia se avremmo 2) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia se mio marito sarebbe stato favorevole sia se sarebbe stato contrario”.
Se la subordinata diventasse una concessiva (introdotta da anche se), avremmo 3) “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”.
Nelle due varianti modificate cambierebbe qualcosa a livello sintattico?
RISPOSTA:
La locuzione correlativa sia che… sia che introduce due proposizioni condizionali, che richiedono il verbo al congiuntivo ed escludono il condizionale. Ammettono, ma in un registro molto trascurato, l’indicativo in sostituzione del congiuntivo: “… sia che mio marito è / era / sarà favorevole sia che è / era / sarà contrario”.
A riprova della natura condizionale della proposizione introdotta da sia che, potremmo parafrasare che con una perifrasi: “Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, sia nel caso in cui mio marito fosse favorevole, sia in quello in cui fosse contrario”.
Il congiuntivo non permette di esprimere la posteriorità, se non in modo molto sfumato, con il presente in relazione a un tempo presente, con l’imperfetto in relazione a un tempo passato: “Spero che domani tu venga alla mia festa”; “Speravo che l’indomani tu venissi alla mia festa”. In una completiva è quasi sempre possibile supplire a questa mancanza del congiuntivo con l’indicativo futuro al posto del congiuntivo presente (“Spero che domani tu verrai”) e con il condizionale passato al posto del congiuntivo imperfetto (“Speravo che domani tu saresti venuto”). Si tratta, comunque, di scelte che abbassano la formalità della costruzione. Nella frase 1), invece, il congiuntivo è in una proposizione condizionale retta da una proposizione al passato, che non ammette la sostituzione del congiuntivo imperfetto con il condizionale passato. Ne consegue che, in questa frase, non c’è modo di esprimere la posteriorità dell’evento della subordinata se non in modo lessicale, ovvero inserendo un riferimento temporale esplicito; per esempio sia che poi mio marito fosse favorevole… In alternativa, si può formulare la frase diversamente; per esempio sia che in seguito scoprissi che mio marito era / fosse favorevole (si noti che l’oggettiva qui ammette pienamente l’indicativo per evitare l’insolita sequenza di due congiuntivi imperfetti l’uno in dipendenza dall’altro).
Lo stesso discorso fatto per la 1) vale per la 2): la costruzione sia se mio marito sarebbe stato favorevole… è scorretta, sebbene risulti leggermente più ammissibile della 1) per via dell’attrazione della completiva logicamente (ma impossibile sintatticamente) sottostante: sia (non sapevo) se mio marito sarebbe stato favorevole…
Riguardo alla 3), la proposizione concessiva, specialmente dopo anche se, ammette sia l’indicativo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito era contrario”); sia il congiuntivo (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito fosse contrario”); sia il condizionale passato (“Avevo intenzione di rivolgermi a un legale, anche se mio marito sarebbe stato contrario”).
La variante con il condizionale passato situa l’evento certamente in un momento successivo a quello della reggente.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
A proposito della possibilità che la consecutio e il periodo ipotetico si intreccino, è anche il caso di questi esempi?
1) Comunque andasse, egli sarebbe stato contento.
2) Comunque fosse andata, egli sarebbe stato contento.
Nella soluzione 1 (consecutio), la secondaria con andasse è contemporanea alla reggente?
Nella soluzione 2 (periodo ipotetico), la secondaria con fosse andata potrebbe essere considerata anteriore non solo, è ovvio, alla reggente, ma anche al momento in cui il periodo è stato enunciato? Anche se ipotizzassimo un esempio introdotto da una dichiarativa, secondo me, il suddetto dubbio rimarrebbe:
3) Egli disse che ieri sarebbe stato contento, se ieri l’altro fosse andata bene.
4) Egli disse che l’anno successivo sarebbe stato contento, se fosse andata bene la visita che avrebbe fatto nei prossimi mesi.
In mancanza di opportuni riferimenti, come si fa a stabilire se le azioni sono già avvenute o possano avvenire?
Due ultime cose, non del tutto fuori attinenza dall’argomento. Il periodo
5) Se tu mi tradissi, la nostra amicizia non sarebbe stata sincera
rientra nei casi del periodo ipotetico misto e pertanto è valido?
Infine, in questa risposta vengono proposte due alternative all’esempio sollevato dall’utente: si potrebbe aggiungere anche la forma “Volevo chiederle se sia possibile”?
RISPOSTA:
Gli esempi 1 e 2 non si prestano bene a rappresentare la domanda, perché la proposizione introdotta da comunque non è una condizionale, bensì una concessiva, che non entra in relazione con la reggente per formare il periodo ipotetico. In entrambi i casi, quindi, il tempo del congiuntivo è relativo alla consecutio temporum, non al grado di certezza dell’ipotesi. La difficoltà nella scelta del tempo del congiuntivo della concessiva è tutta interna alla consecutio, e riguarda l’individuazione del momento di riferimento, necessariamente passato, rispetto a cui il congiuntivo imperfetto andasse indica contemporaneità e il congiuntivo trapassato fosse andata indica anteriorità. Ci sono, infatti, due momenti di riferimento possibili, sarebbe stato e l’implicito momento del punto di vista rispetto a cui il condizionale passato sarebbe stato indica un momento posteriore. Per rendere più evidente questo momento del punto di vista, possiamo rappresentarlo con un verbo di dire o di pensare al passato: “Disse che comunque andasse / fosse andata, egli sarebbe stato contento”. Andasse e fosse andata, quindi, possono indicare contemporaneità e anteriorità tanto rispetto a disse, tanto rispetto a sarebbe stato. Nel caso di andasse questo non provoca ambiguità, perché l’imperfetto congiuntivo non può che essere contemporaneo (ma proiettato nel futuro) a disse e precedente a sarebbe stato. Il trapassato, invece, può riferirsi a due momenti effettivamente diversi:
1. (Disse che) comunque fosse andata il giorno prima, egli sarebbe stato contento.
2. (Disse che) comunque fosse andata il giorno dopo, egli sarebbe stato contento.
Nel primo caso, il congiuntivo trapassato si giustifica perché indica un momento anteriore rispetto a un altro passato, ma nel secondo caso sembra indicare un momento posteriore rispetto a un altro passato (disse), quindi come si spiega? In questo caso seleziona come momento di riferimento sarebbe stato, che vale comunque come passato, perché è passato rispetto al momento dell’enunciazione (ovvero rispetto a ora, che il momento da cui noi guadiamo tutti gli eventi descritti dalla frase).
Per disambiguare la frase con il congiuntivo trapassato, ci sono due modi: uno è quello appena visto, l’inserimento di una indicazione temporale esplicita; l’altro è sostituire il congiuntivo trapassato con il condizionale passato nella proposizione concessiva, nel caso in cui l’evento della concessiva sia posteriore rispetto alla cornice:
3. (Disse che) comunque sarebbe andata, egli sarebbe stato contento.
In questo modo, non ci sono dubbi che sarebbe andata sia posteriore rispetto alla cornice e, per logica, anteriore rispetto a sarebbe stato (che rappresenta la conseguenza dell’evento della concessiva).
Il condizionale passato con la funzione di indicare il futuro nel passato nella proposizione concessiva introdotta da comunque legittimo, ma può essere percepito come scorretto perché è chiara la componente condizionale della proposizione concessiva, che ci induce a preferire senz’altro il conguntivo al suo interno.
Si noti che altrettanto legittimo sarebbe il condizionale presente (in una frase riportata al presente) per esprimere un’attenuazione della fattualità dell’evento: “Pensa che comunque andrebbe, egli sarebbe contento”. L’alternativa con il congiuntivo è, comunque, considerata sempre più formale di quella con il condizionale, e decisamente preferibile anche in contesti di media formalità a quella con l’indicativo: “Pensa che comunque va, egli sarà / sarebbe contento”.
Gli esempi 3 e 4 introducono un problema nuovo, che non è la presenza della proposizione sovraordinata con il verbo di dire (che, però, non si può chiamare dichiarativa, perché la proposizione dichiarativa è una subordinata completiva), ma la sostituzione della proposizione concessiva con la condizionale. In questo caso si può dire che consecutio temporum e grado di possibilità del periodo ipotetico interagiscano, ma è anche vero che nelle sue frasi, ben costruite, non vedo alternative possibili, perché la complessa relazione temporale tra gli eventi prende il sopravvento su eventuali sfumature ipotetiche.
Per quanto riguarda la frase 5, il condizionale passato è dovuto alla relazione temporale di futuro nel passato tra il momento in cui si scopre l’insincerità dell’amicizia e lo svolgimento dell’amicizia. Questo è un altro caso di interazione tra periodo ipotetico e consecutio temporum, che produce quello che può essere definito un periodo ipotetico misto. Tale definizione, per la verità, ma non è necessaria, perché l’idea che il periodo ipotetico sia fissato in tre moduli e che le altre costruzioni siano commistioni di due di questi moduli è una semplificazione grossolana: ogni costruzione del periodo ipotetico ha la stessa validità delle altre.
La sua ultima frase, infine, è corretta sia che volevo indichi un momento effettivamente passato, sia che esso sia la forma di cortesia di voglio e si riferisca, quindi, al presente. Per chiarezza, però, va ricordato che qui il periodo ipotetico non è coinvolto, perché la proposizione introdotta da se è una interrogativa indiretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le frasi seguenti sono corrette nell’uso dei tempi e modi verbali e che tipo di proposizioni sono.
– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca pensarono che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola se non la smetteva con le sue stranezze.
– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo disse a Luca che la compagna se fosse stata “reale” sarebbe / era nei guai.
– Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo. Tutti vestivano allo stesso modo. Leo e Luca si dissero che se era una persona “vera”, non sarebbe resistita a lungo in quella scuola.
RISPOSTA:
1) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [proposizione indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca pensarono [principale] che la nuova compagna non sarebbe resistita in quella scuola [oggettiva] se non la smetteva con le sue stranezze [condizionale].
I verbi vanno bene. L’indicativo imperfetto (se non la smetteva) è una variante meno formale del congiuntivo trapassato (se non l’avesse smessa), qui coerente con il tono generale del testo.
2) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo disse a Luca [principale] che la compagna sarebbe stata nei guai [oggettiva], se fosse stata “reale” [condizionale].
Il condizionale presente sarebbe non è un’opzione valida, perché l’evento dell’essere nei guai può essere o contemporaneo a quello del dire della reggente (Leo disse) o successivo. Nel primo caso sarebbe richiesto l’indicativo imperfetto era o il congiuntivo imperfetto fosse (per la verità molto forzato in dipendenza dal verbo dire); nel secondo caso sarebbe richiesto il condizionale passato (che esprime il futuro nel passato) sarebbe stata o, ancora, l’indicativo imperfetto era. Quest’ultima forma, quindi, rimane ambigua tra la contemporaneità e la posteriorità, perché può assumere entrambe le funzioni. Va sottolineato che la presenza della proposizione condizionale (se fosse stata “reale”) configura la proposizione oggettiva come una apodosi di un periodo ipotetico. Anche se la costruiamo con il condizionale passato, però, questo non rappresenta la conseguenza per forza come irreale, perché, lo ricordiamo, ha la funzione di esprimere il futuro nel passato (e lo stesso vale per l’indicativo imperfetto). Possiamo, quindi, avere sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse stata “reale” (periodo ipotetico dell’irrealtà), sia la compagna sarebbe stata / era nei guai, se fosse “reale” (periodo ipotetico della possibilità).
3) Il nostro liceo non era un vivaio di non conformismo [indipendente]. Tutti vestivano allo stesso modo [indipendente]. Leo e Luca si dissero [principale], se era una persona “vera” [condizionale], che non sarebbe resistita a lungo in quella scuola [oggettiva].
Si noti che la congiunzione che è stata spostata dopo l’incidentale per permettere l’analisi.
In questo caso era è usato al posto del congiuntivo trapassato fosse stata. Si tratta di una variante legittima, ma meno formale.
L’indicativo imperfetto, come si vede, può prendere il posto tanto del condizionale passato quanto del congiuntivo trapassato; è, del resto, quello che succede in una frase come “Se lo sapevo venivo” = ‘Se lo avessi saputo sarei venuto’.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Spesso, nei dizionari, taluni termini (solitamente, verbi e aggettivi) sono associati, per così dire, a limitazioni d’uso che ne riducono i contesti di applicazione. Per esemplificare: sardonico (detto di viso o risata), flebile (detto di voce o suono), effluire (detto di gas o liquido). La letteratura (e non solo) ci insegna che ogni sistema linguistico, nel tempo, si è modificato, allargando tanto la disponibilità di vocaboli quanto le accezioni a essi ascrivibili. Mi viene in mente l’aneddoto legato alla parola bagnasciuga intesa come sinonimo di ‘battigia’ o ‘bàttima’. Fu Benito Mussolini, se non sbaglio, a impiegarla per la prima volta con questo significato (che, adesso, mi risulta essere il più diffuso, a discapito di quello originario).
Tornando all’oggetto dell’interrogativo, vi domando se in un periodo – tendenzialmente fantasioso – quale
i tre termini citati in precedenza (sardonico, flebile, effluire), che si allontanano dalle limitazioni d’uso indicate dai vocabolari, sono inaccettabili se sviluppati in tali accezioni, oppure le costruzioni che determinano possono dirsi corrette, anche in un’ottica metalinguistica, all’interno di uno scritto di stampo narrativo.
RISPOSTA:
Il cambiamento semantico delle parole è un fenomeno tanto ineluttabile quanto imprevedibile. Una delle cause possibili di cambiamento semantico è la paretimologia, ovvero la convinzione errata dei parlanti che una parola abbia una certa etimologia, da cui derivi un certo significato. Il caso di bagnasciuga si può interpretare proprio come un caso di paretimologia. La parola, infatti, sembra perfetta per descrivere la zona in cui la terra incontra il mare, soggetta al continuo andare e venire delle onde. Sappiamo che la parola ha un’origine diversa, perché nacque nel Settecento per designare la linea di galleggiamento delle navi, ma ben presto (certamente prima del famoso discorso del bagnasciuga del 1943 di Mussolini) fu usata con il significato ancora oggi corrente.
Un altro principio che muove il cambiamento semantico è l’assonanza, probabilmente alla base dell’evoluzione di flebile. Originato dal latino FLEBILEM (a sua volta dal verbo FLEO ‘piangere’), ha significato storicamente ‘piagnucoloso, lamentoso, che induce al pianto’, ma oggi significa anche ‘debole, leggero, evanescente, appena percepibile’. A mio parere, l’assonanza con fiato e afflato, ma anche con fioco e persino fiore, sfiorare e simili, ha promosso questo spostamento, ulteriormente favorito dalla tipica associazione di questo aggettivo con oggetti effettivamente appena percepibili come il canto degli uccelli. Addirittura, se flebile ancora conserva anche il significato originario, il suo allotropo popolare fievole ha soltanto il significato secondario.
Anche l’uso figurato di un termine ne può determinare l’ampliamento semantico, fino a far dimenticare il significato originario. Un caso del genere è l’aggettivo cattivo, che deriva il suo significato attuale dall’uso figurato nell’espressione captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’, diffusosi nella Chiesa delle origini. In latino, infatti, CAPTIVUS significa ‘prigioniero’ (mentre cattivo si dice MALUS o IMPRŎBUS) e mai sarebbe potuto passare al significato di ‘cattivo’ senza il tramite dell’espressione figurata. Un uso figurato è anche alla base del caso di palinsesto di cui ci siamo occupati nella risposta n. 2800425 dell’archivio di DICO. Qui, addirittura, abbiamo un ampliamento del significato sulla base di un significato già figurato, legato alla programmazione televisiva. Se risaliamo indietro al significato originario del nome palinsesto, infatti, scopriamo che è ‘antico manoscritto di pergamena, il cui primo testo è stato raschiato via e sovrascritto’.
Venendo alla sua proposta, nel caso di flebile non ci sono difficoltà, visto che flebile speranza è un’espressione già comunissima. Neanche approccio sardonico è originale. In rete se ne trova qualche decina di esempi, letterari ma anche di contesto medio, come questo: “L’inviato cult Valerio Staffelli, con il suo consueto approccio sardonico e dissacrante, ha consegnato nelle mani del rapper, come da rituale, il famigerato Tapiro d’oro” (ilgiornale.it, 2019). Effluire è effettivamente usato tipicamente in relazione a gas o liquidi, ma la rappresentazione figurata dell’energia come una sostanza fluida è piuttosto credibile, tanto da giustificare, sulla scorta del principio dell’uso figurato, questo ampliamento di ambito.
In conclusione, i suoi tre esempi di ampliamento di ambito d’uso lessicale, con conseguente cambiamento del significato, sono perfettamente accettabili, tanto che due su tre sono già usati. Il cambiamento semantico è davvero tumultuoso, accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sei elegante come una sposa”, utilizzando l’analisi logica classica, come una sposa potrebbe essere sia complemento di paragone che complemento di modo?
RISPOSTA:
Il complemento di modo indica in che modo un’azione è compiuta. Con il verbo essere il complemento di modo è di fatto escluso. Come una sposa esprime un paragone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Studiando gli schemi della consecutio temporum disponibili anche in rete, noto che in un rapporto di contemporaneità, la secondaria di una principale al condizionale passato si costruisce, a seconda del modo suggerito del predicato verbale (congiuntivo o indicativo), con l’imperfetto.
Ciò vale anche quando il suddetto condizionale ha valore di futuro nel passato?
Ad esempio:
1. Il ricordo avrebbe scandito per sempre l’esperienza che avrei vissuto, bella o brutta che fosse.
È valida? Sostituire il congiuntivo imperfetto con un altro condizionale passato sarebbe errato?
2. Il ricordo avrebbe scandito per sempre l’esperienza che avrei vissuto, bella o brutta che sarebbe stata.
RISPOSTA:
Come lei stessa nota, il modo verbale richiesto nelle subordinate è dovuto a ragioni sintattiche estranee alla consecutio temporum, sebbene con essa intrecciate. La proposizione bella o brutta che fosse è equivalente a o che fosse bella, o che fosse brutta, ovvero a una ipotetica (o condizionale) correlativa, che richiede il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, ha il potere di proiettarsi nel futuro (si pensi a una frase come “Speravo che il giorno dopo mi chiamasse”).
Il condizionale passato sarebbe possibile se modificassimo leggermente la sintassi, trasformando la subordinata condizionale in relativa: che sarebbe stata bella o (sarebbe stata) brutta. Ovviamente, in questo modo si perde l’idea dell’ipotesi, dell’incertezza, e la prospettiva è rappresentata come un’alternativa fattuale. Questa scelta risulterebbe meno significativa, perché è scontato che le esperienze future siano fattualmente o belle o brutte (non c’è bisogno di esplicitarlo); meno scontato, invece, è che il parlante consideri in anticipo il ricordo legato all’esperienza futura duraturo (ma, sia detto a margine, la scelta del verbo scandire lascia un po’ perplessi) a prescindere dalla natura dell’esperienza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quanti errori ho commesso?
2) Riguardo all’inferno, disse che l’aveva considerato una punizione solo per gli adulti; e se tutte le ragazze che si comportavano come lei fossero finite all’inferno, per stare calde, non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno.
3) Sapevano che essere genitori comportasse anche subire grandi delusioni e provare forti dispiaceri.
4) Quando i ragazzi cominciarono a guardarla con interesse, capì che stava andando nella giusta direzione; o meglio, che lei immaginava fosse quella giusta.
5) Suor Teresa iniziò dicendo che il giorno dopo sarebbe partita per i ritiri spirituali e che [questo che si può togliere?] sarebbe stata assente per due giorni.
6) Si consolò pensando che l’esame saltato, in definitiva, era / fosse stato una fortuna, anche se dal retrogusto amarissimo: gli aveva permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) In quel momento entrò la sua segretaria che, vedendolo in quello stato, gli chiese preoccupata… [le virgole si possono togliere?]
8) Lo pestarono senza pietà, peggio di come lui aveva / avesse fatto con l’altro.
RISPOSTA:
1) Il che si può togliere. Facendolo, però, la struttura della frase, e il suo significato, cambiano leggermente, perché sarebbe diventato pericoloso si configura non più come subordinata di di capire ma come coordinata alla principale.
2) Corretta. Qui l’assenza del che introduttivo di non ci sarebbe stato bisogno del fuoco eterno non cambia quasi niente, perché la proposizione non può che essere subordinata a disse.
3) Corretta. Il congiuntivo imperfetto è usato secondo i modi della consecutio temporum per esprimere contemporaneità nel passato.
4) La seconda parte è poco coesa, perché che rimane a metà strada tra il pronome relativo e la congiunzione correlativa del primo che. Una possibile correzione è la seguente: o meglio, nella direzione che lei immaginava fosse quella giusta.
5) Come la 2.
6) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale. Dopo i due punti si potrebbe aggiungere un segnale discorsivo per maggiore chiarezza: gli aveva, infatti, permesso di scoprire le bugie raccontategli.
7) Le proposizioni incidentali, come la gerundiva vedendolo in quello stato, richiedono le virgole di apertura e chiusura.
8) Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è la soluzione più formale.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se la forma della frase “Volevo chiederle se sarebbe possibile fare l’esame in forma scritta anziché orale” è corretta, o se invece bisogna usare il se fosse.
RISPOSTA:
La frase è corretta. Se sarebbe possibile non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una proposizione interrogativa indiretta retta da sapere. In questo tipo di proposizione si può usare il congiuntivo (quindi se fosse possibile), che è, anzi, la variante più formale, ma anche l’indicativo (se è possibile) e il condizionale, che serve ad attenuare la perentorietà della richiesta, rendendola più cortese.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1. Nella frase “Se pagassi rate mensili da 100 euro e la maxirata da 5000, alla fine dei tre anni l’auto mi costerebbe 8.600 euro” si potrebbe sostituire il condizionale presente con quello passato (“Se pagassi rate mensili da 100 euro e la maxirata da 5000, alla fine dei tre anni l’auto mi sarebbe costata 8.600 euro”), per accentuare l’idea di un effetto compiuto o di un’azione conclusa?
Tra le soluzioni costerebbe, sarebbe costata, costerà, sarà costata, qual è preferibile?
2. La seguente frase è sintatticamente valida? “Tu torneresti a casa quando (nel momento in cui) io verrei a prenderti”.
“Tu torneresti a casa quando io venissi a prenderti” è certamente corretta e, mi pare, sarebbe equiparabile a un periodo ipotetico, ma non restituirebbe la semantica che tenderei ad ascrivere alla precedente forma (semplificando: “Io – se potessi – verrei a prenderti e – in questo caso – tu torneresti a casa”).
3. “Tanto più tempo avrebbe atteso, quanto più improbabile sarebbe stato che avrebbe parlato con il professore”. È corretto il terzo condizionale, anche in riferimento a essere improbabile che per indicare la posteriorità dell’azione? L’alternativa “Tanto più tempo avrebbe atteso, quanto più improbabile sarebbe stato che parlasse con il professore” ne avrebbe invece indicato la contemporaneità?
4. “Non siamo certi del programma: o verrei a prenderti io in mattinata o passerebbe Giulia nel primo pomeriggio”. Fermo restando che varianti quali passerò / passo io o passerà / passa Giulia… e potrei passare io oppure Giulia… sarebbero più efficaci, l’esempio indicato è accettabile?
5. Muovo da un articolo presente nel vostro archivio: “Se ci fosse un’emergenza, il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato / è stato / sarà stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità”.
Non riesco ad afferrare la ragione secondo la quale il condizionale passato non è del tutto accettabile. Il passato prossimo è, a mio modestissimo parere, effettivamente valido se, nell’introdurre la subordinata, indica certezza e fa riferimento a un evento anteriore all’enunciazione. Il futuro anteriore si potrebbe quindi impiegare, sempre per indicare certezza (per quanto possa essere certo il futuro), per
sottolineare che l’evento è successivo, anziché anteriore, all’enunciazione. Mi domando se l’accettabilità non piena del condizionale passato abbia ragioni logiche (legate all’esempio proposto e alle sue implicazioni semantiche) oppure attinga a ragioni strettamente sintattiche.
RISPOSTA:
1. La variante con il condizionale passato è corretta e legittima, sebbene improbabile da incontrare. Il condizionale passato accentua l’idea che il pagamento delle rate non si verifichi e che, quindi, ci sia la possibilità che l’acquisto non si concretizzi. Per questo motivo è più facile incontrarlo con il congiuntivo trapassato (se avessi pagato… l’auto mi sarebbe costata). Il congiuntivo trapassato, però, è possibile soltanto se l’emittente sappia in anticipo che non pagherà le rate, per esempio perché sta immaginando uno scenario che si sarebbe realizzato se avesse fatto una scelta diversa, ormai impossibile. Il condizionale passato, invece, rimane valido anche in relazione al congiuntivo presente. Il futuro semplice e il futuro anteriore sono anche alternative possibili, tutte dotate di una specifica sfumatura e difficili da graduare in base alla formalità. Per un approfondimento sul rapporto tra futuro semplice e anteriore in un contesto analogo si veda la risposta 2800177 dell’archivio di DICO.
2. Bisogna distinguere le interrogative dirette e indirette introdotte dall’avverbio quando e le temporali introdotte dalla congiunzione quando. Le prime possono avere il condizionale: Quando vorresti partire?; dimmi quando vorresti partire. Le seconde possono avere l’indicativo e il congiuntivo (con sfumatura ipotetica), ma non il condizionale. Nella sua frase, quando introduce una temporale ipotetica, che, quindi, richiede il congiuntivo venissi. Anche se inserissimo una protasi esplicita, la situazione non cambierebbe: “Tu torneresti a casa quando, se io volessi, venissi a prenderti”.
3. Vanno bene sia la variante con il condizionale passato sia quella con il congiuntivo imperfetto. Il congiuntivo è preferibile perché consente di evitare la stranezza della ripetizione dei condizionali. Del resto, con il congiuntivo non si perde l’idea del futuro, che è implicita nella frase.
4. La frase è corretta. I condizionali si giustificano come strategia attenuativa (passerei io implica una protasi del tipo se è possibile).
5. La non piena accettabilità del condizionale passato è dovuta proprio alla logica interna della frase, non a ragioni generali. Come detto nella risposta 2800361 dell’archivio di DICO, a cui lei fa riferimento, si dà per scontato che il personale medico sia stato formato per fronteggiare le emergenze prima dell’insorgere delle emergenze, nonché prima del momento dell’enunciazione (prima di entrare in servizio, cioè), e quindi il tempo più indicato sia proprio il passato prossimo. Una frase che descriva una situazione diversa ammetterebbe sia il futuro anteriore sia il condizionale passato. Per esempio: “Sto seguendo un corso di primo soccorso, così, se ci fosse un’emergenza, sarei pronto ad aiutare le persone in difficoltà, perché sarei / sarò stato formato per questo scopo”. In questo caso l’indicativo futuro indicherebbe la mia certezza di essere formato; il condizionale seguirebbe la logica della conseguenza possibile .
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se scrivo “Devo superare le difficoltà per raggiungere lo stato dell’anima in cui possiedo perfettamente Dio”, se questo stato può essere sintetizzato con la parola Paradiso o Beatitudine, si può intendere tutta la frase su espressa dicendo “Devo conquistare il paradiso”? Volevo sapere se il significato su espresso può essere mantenuto anche con quest’ultima frase più sintetica e più efficace, a parer mio.
RISPOSTA:
Le parole paradiso e beatitudine non riassumono bene lo stato di perfezione spirituale e divina a cui si riferisce la frase. Nella concezione cristiana, la prima, oltre a designare il luogo, indica una condizione di eterna felicità come ricompensa per aver agito in modo giusto durante la vita terrena; la seconda, invece, descrive uno stato di perfetta felicità che consiste nella visione beatifica di Dio. Il termine che dal punto di vista teologico sintetizza lo stato di perfezione spirituale attribuito all’essenza stessa di Dio, ma anche alle persone che riproducono in parte la perfezione divina, è santità. La frase si potrebbe quindi riassumere così: “Devo superare le difficoltà per raggiungere la santità”, anche se (dal punto di vista teologico) il superamento delle difficoltà non implica necessariamente come conseguenza il raggiungimento della santità, bensì il raggiungimento del paradiso. Insomma, riassumere un concetto così complesso con una sola parola, per quanto semanticamente vicina al concetto ricercato, è rischioso e se da una parte produce un effetto di maggiore incisività per via della brevità, dall’altra esclude le sfumature che una frase intera può veicolare.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta l’alternanza di tempi passati (passato prossimo / passato remoto) all’interno di uno stesso testo?
Es.: “L’altro giorno ho incontrato Marcella all’uscita di casa. Marcella è la ragazza che due anni fa lasciò il suo compagno e che tentò di dimenticarlo, ma non ci riuscì. Io le ho consigliato di essere più riflessiva”.
RISPOSTA:
A una domanda molto simile abbiamo già risposto (legga questa risposta dell’archivio di DICO). In quel caso l’alternanza era ingiustificata; nel suo caso, invece, i due tempi possono convivere perché rappresentanti due piani temporali diversi. In considerazione della funzione dei due tempi, comunque, consiglio di usare il passato remoto soltanto in riferimento all’evento della separazione: “Marcella è la ragazza che due anni fa lasciò il suo compagno e che ha tentato di dimenticarlo, ma non ci è riuscita”. Il processo del tentativo di dimenticare e il suo risultato sono, infatti, psicologicamente legati al presente, quindi sono meglio costruiti con il passato prossimo. Per la verità, anche l’evento della separazione può essere efficacemente rappresentato con il passato prossimo, proprio perché ancora vivo nel presente: l’uso del passato remoto comporta, in questo caso, un effetto di allontanamento psicologico di quell’evento dal presente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase che segue è corretta?
“Sai che dopo il check-in, anziché mettermi in prima classe fui collocata in seconda a causa di un errore del personale?”.
RISPOSTA:
La frase non è corretta. L’uso dell’infinito (in questo caso mettermi) presuppone che il soggetto del verbo (in questo caso il personale) coincida con quello della proposizione reggente (in questo caso io). Non è difficile correggere la costruzione, modificando il soggetto della proposizione reggente o quello della subordinata all’infinito (di tipo avversativo). Nel primo caso avremo “Sai che dopo il check-in, anziché mettermi in prima classe, il personale mi collocò in seconda a causa di un errore?”; nel secondo “Sai che dopo il check-in, anziché essere messa in prima classe, fui collocata in seconda a causa di un errore del personale?”. Si noti anche che ho aggiunto la virgola tra la subordinata preposta alla reggente e la reggente; regola, comunque, non rigida.
La scelta tra la prima e la seconda soluzione dipenderà dall’informazione che si vuole mettere in evidenza: la variante con il soggetto il personale suona molto più accusatoria nei confronti di questa categoria, che è, invece, lasciata in secondo piano nella variante con io soggetto passivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il seguente periodo è ben costruito?
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
In specie, nella proposizione concessiva sarebbe meglio essere più chiari esplicitando il soggetto (lui)?
“Lei non si era opposta a lui quando questo / quest’ultimo / egli / lui, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Oppure:
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, questo / quest’ultimo / lui / egli le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
E comunque, una subordinata può precedere la principale?
RISPOSTA:
Una subordinata implicita deve avere sempre lo stesso soggetto della reggente quando sia costruita con il gerundio o l’infinito. Questa regola serve a garantire la riconoscibilità del soggetto laddove il verbo della proposizione non ha tratti morfologici che rimandi a esso. L’eccezione, comunque codificata, delle proposizioni rette da verbi di comando o di percezione, nei quali il soggetto coincide non con il soggetto della reggente, ma con il complemento oggetto o indiretto (“Ti ordino di andare”; “L’ho visto cadere”) è possibile proprio perché mantiene la riconoscibilità del soggetto dell’infinito.
I participi presente e passato, che pure sono modi indefiniti, possiedono il tratto morfologico della desinenza, che consente di recuperare facilmente il soggetto nel caso in cui ci sia un solo possibile candidato a questo ruolo, come nella sua frase. Quando ci sia questa condizione, quindi, non è necessario esplicitare il soggetto della subordinata.
Diverso sarebbe il caso se i soggetti possibili fossero più di uno: “Lui non si era opposto all’altro quando, in primavera, benché già sconfitto, gli aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”. Come si può notare, in una frase siffatta non è possibile stabilire chi sia sconfitto ed è, quindi, necessario esplicitare il soggetto di sconfitto in qualche modo, per esempio con un pronome. Si noti che le sue soluzioni non risolvono il problema (ma vanno comunque bene perché nel suo caso il problema non c’è). L’esplicitazione del soggetto, se necessaria, va fatta all’interno della subordinata, che quindi deve essere trasformata in esplicita; per esempio così: “Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché lui fosse già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Tra i pronomi possibili, vanno considerati anche questi, che è la variante più formale di questo e va usato preferenzialmente come soggetto, e costui, molto formale, tanto da suonare affettato in un contesto medio. Ormai antiquato, ma ancora possibile, è egli.
Possibile, inoltre, anche sostituire sua con propria, per sottolineare che l’intenzione sia del soggetto.
La posizione delle subordinate, infine, è piuttosto libera per le proposizioni dette avverbiali, di cui fa parte la concessiva. Posposte alla reggente sono di norma le completive (*”Chi era ti ho chiesto”) e obbligatoriamente le relative (*”Ho quasi finito che mi hai prestato il libro”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è sorto un dubbio: è giusto dire io personalmente? Non è una ripetizione? Non basterebbe dire solo personalmente? L’io non è sottinteso?
RISPOSTA:
Più che una ripetizione è un rafforzamento del concetto. In contesti comuni è chiaramente sufficiente dire io oppure personalmente. In un contesto scritto burocratico, come un documento, invece, tale rafforzamento si giustifica maggiormente, nel caso in cui io voglia sottolineare che l’atto è compiuto da me personalmente, non attraverso un’altra persona che mi rappresenta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La costruzione potrebbe darsi che, ma anche quella può darsi che, è compatibile con il modo condizionale, specie quando si abbia una protasi ipotetica implicita?
Esempio: “Potrebbe darsi / può darsi che sceglierei di rimanere a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Sarebbe comunque possibile, anche in questo caso, optare per il congiuntivo, oppure ne risentirebbe il senso generale? “Potrebbe darsi / può darsi che stia a casa (se fosse organizzato uno sciopero)”.
Rimanendo nell’àmbito del condizionale, tra le tre forme sotto riportate, quale/i consigliate e quale/i no?
1. La domanda che hai appena fatto dovrebbe essere posta a un’altra persona.
2. La domanda che hai appena fatto andrebbe posta a un’altra persona.
3. La domanda che hai appena sarebbe da porre a un’altra persona.
RISPOSTA:
La costruzione impersonale può darsi (o potrebbe darsi) regge una proposizione completiva soggettiva che può essere costruita anche con il condizionale: la frase, quindi, va bene tanto con può darsi quanto con potrebbe darsi. Con una protasi al congiuntivo imperfetto (se fosse organizzato uno sciopero), comunemente si avrebbe il condizionale nell’apodosi, perciò “Se fosse organizzato uno sciopero, potrebbe darsi che sceglierei di rimanere a casa”. Possibile, però, anche l’indicativo (“Se fosse organizzato uno sciopero, può darsi che sceglierei di rimanere a casa”), che sottolineerebbe la concretezza della possibilità (in parte prescindente dall’evento dell’organizzazione dello sciopero).
Come si è detto, il condizionale della soggettiva (sceglierei) è previsto dal tipo di proposizione, ma è meno formale della variante al congiuntivo (“Può / Potrebbe darsi che scelga di rimanere a casa”).
D’altro canto, però, il condizionale è favorito dalla logica, che induce il parlante a considerare proprio sceglierei l’apodosi del periodo ipotetico, trascurando la reggente potrebbe darsi, che in effetti, in quanto al contenuto, è assimilabile a un avverbio: “Se fosse organizzato uno sciopero, forse sceglierei di rimanere a casa”.
Le proposizioni soggettive, oltre al congiuntivo e al condizionale, prevedono anche l’uso dell’indicativo, che certamente è la soluzione meno formale fra le tre: “Può / Potrebbe darsi che scelgo di rimanere a casa”.
Le frasi conclusive sono tutte ben formate e sostanzialmente equivalenti in quanto al senso. Tutte e tre veicolano in modi diversi l’idea di dovere (il verbo modale dovere, il verbo andare con funzione di ausiliare, la costruzione sintattica essere + proposizione relativa implicita).
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1. Vorrei chiedere aiuto a proposito delle frasi relative. In questa frase è obbligatorio l’uso del congiuntivo?
“Un insegnante che voglia / vuole essere veramente efficace nel suo lavoro deve anzitutto saper ascoltare”.
2. In quest’altra frase, seguendo le regole del consecutio temporum non si dovrebbe usare l’imperfetto?
“L’insegnante ha convocato i genitori di Mattia perché sappiano / sapessero qual è la situazione scolastica del figlio”.
3. In questa frase e obbligatorio l’uso del congiuntivo passato? Il congiuntivo presente è sbagliato?
“Martina non può uscire prima che il bambino non si sia addormetato”.
4. In questa frase non sarebbe meglio usare il trapassato?
“Abbiamo trascorso una bella giornata e la visita al museo è stata più interessante di quanto ci aspettassimo / ci fossimo aspettati”.
5. In questa frase non capisco l’uso del trapassato. Non sarebbe piu logico con un passato prossimo?
“Frequentando un corso estivo di tedesco in Germania, Carlo *aveva imparato* più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola”.
6. In questa frase che senso hanno i trapassati?
“Nonostante fosse rimasto a casa tutto il giorno, Andrea non aveva studiato”.
7. In questa frase sono corretti sia l’imperfetto sia il trapassato?
“Renè riusciva quasi sempre a prendere il treno, nonostante ______________ (uscire) di casa sempre all’ultimo momento”.
RISPOSTA:
1. Sono adatti sia l’indicativo sia il congiuntivo. Nelle subordinate relative, il congiuntivo, oltre a essere la scelta più formale, aggiunge una sfumatura semantica di ipoteticità. Che vuole descrive una qualità posseduta dall’insegnante; che voglia suggerisce che questa qualità può essere posseduta o no. Con il congiuntivo, in altre parole, la relativa si può quasi leggere come la protasi di un periodo ipotetico: un insegnante, qualora voglia… È anche possibile usare il congiuntivo imperfetto, per rendere la possibilità ancora meno concreta: un insegnante che volesse… dovrebbe.
2. Il passato prossimo della proposizione reggente può essere interpretato in due modi, focalizzando il momento in cui l’azione del convocare è avvenuta, nel passato, oppure considerando l’effetto del convocare, che è presente. Nel primo caso la finale prenderà il congiuntivo imperfetto, nel secondo il presente. Si consideri che l’interpretazione più comune sarebbe la seconda.
3. Possono andar bene entrambi i tempi del congiuntivo. Con il presente si sottolinea la contemporaneità tra i due eventi, con il passato l’anteriorità dell’addormentarsi rispetto all’uscire. Nella frase c’è una negazione di troppo; ecco la forma più corretta: “Martina non può uscire prima che il bambino si sia addormetato”.
4. Come per la 3.
5. Il trapassato è corretto se c’è sottinteso un momento di riferimento passato; per esempio: “Carlo aveva imparato più di quanto avesse imparato negli anni precedenti a scuola (e per questo superò brillantemente l’esame)”. Senza il momento di riferimento, il tempo da scegliere è il passato remoto (o prossimo).
6. Come per la 5. Ci deve essere un momento di riferimento passato sottinteso rispetto al quale i due eventi sono precedenti.
7. Il trapassato è scorretto perché l’evento dell’uscire è descritto come abituale nel passato; il tempo da inserire, pertanto, è l’imperfetto uscisse. Il trapassato sarebbe adatto in questa frase: “Renè riuscì a prendere il treno, nonostante fosse uscito di casa all’ultimo momento”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase, ricavata da un romanzo, “Aveva l’aria di uno che vuole sapere che cosa gli sarebbe accaduto”, l’autore non avrebbe fatto meglio a sostituire il condizionale passato con il futuro semplice, dato che il verbo della subordinata è al presente?
Al suo posto, avrei infatti scritto: “Aveva l’aria di uno che vuole sapere che cosa gli accadrà”.
Il condizionale passato, a mio modesto avviso, sarebbe stato giustificato in presenza di un verbo al passato, fosse esso del modo congiuntivo o dell’indicativo.
E infine, tra le tre frasi che seguono quale consigliate per un contesto formale?
L’ultima, all’indicativo presente, è accettabile?
“Marco pensò al peggio, come uno che non abbia tempo da perdere”;
“Marco pensò al peggio, come uno che non avesse tempo da perdere”;
“Marco pensò al peggio, come uno che non ha tempo da perdere”.
RISPOSTA:
La sua osservazione è corretta: in dipendenza da un presente il futuro si esprime con il futuro (o anche con il congiuntivo presente: “Vuole sapere che cosa gli succeda domani”), mentre in dipendenza da un passato si usa il condizionale passato. In questo caso, però, non sarei così netto nel condannare la scelta dell’autore. Tutto sommato, infatti, il presente vuole sapere non serve a portare la linea temporale degli eventi al presente, visto che la narrazione è al passato. Serve, invece, a dare una dimensione atemporale alla descrizione, come per richiamare nel lettore la consapevolezza che quella reazione evidenziata nel personaggio è, in realtà. comune in ogni tempo e in ogni luogo. Con il condizionale passato, quindi, lo scrittore ritorna alla linea temporale effettiva, che è passata, trascurando l’accidente della reggenza al presente.
Questo è uno di quei casi in cui la regola grammaticale cede il passo all’espressività linguistica.
Per quanto riguarda le tre frasi che lei propone, la prima e la terza sono equivalenti per il significato, ma quella con l’indicativo è meno formale. La seconda sottolinea che la descrizione è relativa a Marco in particolare, diversamente da quelle al presente, che sono atemporali, quindi suggeriscono che lo stesso atteggiamento è potenzialmente riscontrabile in chiunque.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito del congiuntivo: la congiunzione purché si usa come se?
“Sarei andato in macchina, purché (= se) avessimo diviso le spese” (contemporaneità nel passato);
“Andrei in macchina purché dividessimo le spese”
In questo contesto perché si usa il trapassato. Non basta il congiuntivo passato?
– Giorgio ieri sera ha fatto dei discorsi strani.
– Anche a me e sembrato che il suo comportamento non fosse normale.
– Che avesse bevuto troppo? (oppure Che abbia bevuto troppo?)
Qui invece del trapassato dell’indicativo si usa il trapassato del congiuntivo?
– Luisa non mi parló del suo progetto di cercare un altro lavoro.
– Che avesse cambiato idea?
E anche qui?
– Franco ha ripetuto ciò che mi aveva detto Giulio.
– Che si fossero messi d’accordo?
RISPOSTA:
La congiunzione purché è quasi sempre usata nel periodo ipotetico, come semplice variante di se, rispetto alla quale veicola una sfumatura restrittiva. Nella sua frase, per esempio, purché si può parafrasare con ‘soltanto se, soltanto nel caso in cui’.
Ha, però, anche un uso specifico, condizionale-restrittivo, con il quale indica la condizione che deve realizzarsi (o avrebbe dovuto realizzarsi) perché un evento possa verificarsi (o avesse potuto verificarsi). Quando è usata con questa funzione in riferimento a eventi presenti o futuri, non può essere sostituita perfettamente da se; ad esempio: “Farò come tu vuoi, purché tu me lo chieda per favore”. Se proviamo a sostituire purché con se in questa frase, otteniamo un risultato al limite dell’accettabilità: *”Farò come tu vuoi, se tu me lo chieda per favore”. Si noti anche che qui purché è preferibilmente preceduta dalla virgola, perché il legame logico tra condizione e conseguenza è percepito come meno diretto di quello tra ipotesi e conseguenza. Al passato, la specificità di purché si annulla in ogni caso, perché la condizione viene a confluire automaticamente nell’ipotesi: “Avrei fatto come tu volevi, purché / se tu me lo avessi chiesto per favore”. Si noti, però, che anche in questo caso purché richiede la virgola più fortemente di se.
Le proposizioni interrogative che esprimono un dubbio richiedono, come nota lei, il congiuntivo. Possiamo considerare queste proposizioni subordinate a una reggente sottintesa come è possibile… La sua prima frase, quindi, equivale a: “È possibile che abbia / avesse bevuto troppo”. Dal momento che l’evento del bere sarebbe avvenuto prima di un altro evento passato, corrispondente al comportamento non normale, il tempo può essere trapassato. Il passato non sarebbe comunque scorretto, perché l’evento del bere può essere rappresentato come semplicemente passato, senza il riferimento alla precedenza rispetto al comportamento non normale. In 4 la scelta del tempo del congiuntivo modifica sostanzialmente il senso della frase: “Che abbia cambiato idea?” implica che il cambiamento di idea sia ancora attuale, mentre “Che avesse cambiato idea?” lo riferisce solamente al passato (il che, però, non esclude che sia ancora attuale).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Il verbo pensare presenta delle difficoltà di non facile soluzione. In molti casi non ci sono dubbi: “io penso a lei”, “io penso bene di lei”. Quando, però, il verbo pensare è seguito da un verbo all’infinito, sorgono dubbi.
Faccio degli esempi: “Lui pensa a vendere la macchina” ben diverso da “Lui pensa di vendere la macchina”. Nel primo caso s’intende che lui si occupa della vendita della macchina, nel secondo caso lui è dell’idea di vendere la macchina. Altri esempi: “Lui pensa a lavorare bene” contrapposto a ” Lui pensa di lavorare bene”. Nel primo caso lui s’impegna a lavorare bene, nel secondo caso lui ritiene di lavorare bene. La differenza non è sottile. Altro esempio: “Lui pensa a trovar moglie” e “Lui pensa di trovare moglie”. Nel primo caso lui si dà da fare nella ricerca di una moglie, nel secondo caso lui pensa che troverà una moglie. Anche qui sono due concetti ben diversi. In altri casi la differenza è invece minima,
impercettibile: “Lui pensa a lasciare l’incarico”; ” Lui pensa di lasciare l’incarico”.
Ora le chiedo: le risulta che esista una regola nell’utilizzo del verbo pensare?
Quando pensare a e quando pensare di?
RISPOSTA:
Il verbo pensare seguito da una proposizione completiva all’infinito ammette una duplice reggenza preposizionale (sebbene in questo caso le preposizioni fungano da congiunzioni) in grazia del suo significato molto ampio; le due preposizioni, cioè, selezionano ciascuna una diversa parte del significato del verbo, coerente con la propria funzione. La a, che è la preposizione della direzione, seleziona il significato più fattivo del verbo, quello relativo al trovare, grazie al pensiero, il modo per raggiungere un obiettivo (quindi ‘progettare’, ma anche ‘adoperarsi per’). La preposizione di, invece, che instaura relazioni di pertinenza, anche riguardo all’argomento (discutere di politica), seleziona il significato più contemplativo: ‘ponderare, riflettere, valutare’. La reggenza di di, si noti, è limitata ai casi in cui pensare regga una proposizione completiva all’infinito; per il resto la preposizione selezionata è a.
Pensare può essere anche transitivo, e reggere un nome o un pronome: pensare una soluzione, che cosa ne pensi?, o una proposizione: pensa quanto ci divertiremo domani. In questi casi il verbo assume il suo significato più generico: ‘immaginare, formare un giudizio nella mente’. Si noti che l’ultima frase (pensa quanto ci divertiremo domani) può essere costruita anche con la preposizione / congiunzione a: pensa a quanto ci divertiremo domani, senza che questo faccia scattare il significato di ‘progettare’ o quello di ‘occuparsi di’. Questo avviene perché tale specializzazione si attiva quando sono possibili entrambe le costruzioni, con a e con di, ovvero quando la proposizione completiva è all’infinito. Negli altri casi, quando di è esclusa, la a non aggiunge una sfumatura particolare al significato generico del verbo.
Quando pensare è seguito da un nome, regge preferenzialmente a e a volte, come si è visto, è transitivo. Non regge mai di (ma è possibile, quando è transitivo, farlo seguire da un complemento di argomento: che ne pensi di Luca?). Seguito da un nome, pensare può oscillare tra un significato più fattivo e uno più contemplativo; la specializzazione semantica, in questi casi, si coglie dal senso della frase: penso io alla cena = mi occupo io della cena; penso ancora alla cena di ieri = rifletto ancora sulla cena di ieri.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi sotto indicate sono tutte corrette?
1. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorino.
2. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici siano migliorati.
3. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici miglioreranno.
4. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici saranno migliorati.
RISPOSTA:
Le proposizioni oggettive esplicite, nelle frasi introdotte da che, ammettono sia l’indicativo sia il congiuntivo. La costruzione della frase, però, ammette soltanto le frasi 1. e 3. La scelta tra le due va fatta in base al contesto comunicativo: l’indicativo (miglioreranno) è la variante meno formale, il congiuntivo (migliorino) quella più formale. Si può anche immaginare una variante ancora meno formale, se non proprio trascurata: “Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorano”.
Le frasi 2. e 4. risultano incoerenti. Il congiuntivo passato (siano migliorati) indica anteriorità rispetto al verbo della reggente; ciò vuol dire che al momento dell’enunciazione il fatto è già accaduto. Potremmo avere la soluzione con il congiuntivo passato in una situazione rivolta al presente (“Spero che i dati economici siano migliorati”), in cui si spera che i dati economici siano migliorati in un momento del passato.
Il futuro anteriore indica anteriorità rispetto al futuro, mentre nella frase il punto di riferimento del cambiamento è attuale, sebbene proiettato al futuro (da ora alla fine del 2021).
Le frasi 2. e 4. divengono coerenti se posizioniamo il riferimento al futuro, invece che da ora al futuro: “Spero che alla fine del 2021 i dati economici siano / saranno migliorati”. In questo modo, il futuro anteriore assume la sua funzione propria di descrivere un evento precedente rispetto al futuro (la fine del 2021); il congiuntivo passato, a sua volta, diviene possibile perché l’emittente può spostare mentalmente il suo punto di vista alla fine del 2021 e osservare il cambiamento come passato rispetto a quel momento.
Anche con il cambiamento del riferimento temporale le frasi 1. e 3. rimangono valide (“Spero che alla fine del 2021 i dati economici migliorino / miglioreranno”), ma cambiano di significato: passano, infatti, a indicare che il cambiamento è ipotizzato a partire dalla fine del 2021.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due varianti di ognuna delle coppie di frasi presentate si differenziano a livello di formalità:
1a. Non sono io a dover rispondere.
1b. Non sono io che devo rispondere.
2a. Lei mi prese la mano.
2b. Lei prese la mia mano.
RISPOSTA:
Nella prima coppia, la soluzione con la subordinata implicita è più formale. Essa ha il vantaggio di nascondere il problema dell’accordo del verbo con il soggetto della subordinata (detta pseudorelativa). Se si considera attentamente, infatti, il che che introduce la subordinata è a metà strada tra la prima e la terza persona, come se ci fosse un colui (o quello o simili) sottinteso: “Non sono io (colui) che deve rispondere”. A riprova di questo, se capovolgiamo le posizioni del soggetto e del verbo essere nella proposizione reggente colui diventa obbligatorio, e di conseguenza l’accordo del verbo della subordinata è alla terza persona: “Io non sono colui / quello / la persona che deve rispondere”. La concordanza alla terza persona, che in presenza di colui è obbligatoria, è, però, innaturale senza colui, quindi preferiamo concordare il verbo “logicamente” con io, oppure aggirare il problema con l’infinito.
Nella seconda coppia, la variante con l’aggettivo possessivo è decisamente poco comune e formale, tanto da essere adatta a uno scritto letterario ed essere, invece, da evitare in qualsiasi altra sede. Si pensi a quanto suonerebbe ironica tale costruzione associata a un evento quotidiano: “Il parrucchiere taglia i miei capelli”. Se, però, rendiamo la frase più aulica, ecco che la costruzione diviene accettabile: “Il parrucchiere acconciò la mia chioma con maestria”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?
1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro.
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata.
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo.
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.
RISPOSTA:
Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale.
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato.
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi e sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi e sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho scritto la seguente frase umoristica su Facebook: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, al cui confronto Frankestein sembra un ginnasta dell’antica Atene”.
Dopo qualche ora mi è sorto il dubbio che quella virgola, l’unica presente nel testo, non dovesse essere posta. Solo che ormai tutti hanno letto e perciò temo di aver rovinato la reputazione di discreto scrittore che ho costruito con fatica.
RISPOSTA:
Nella frase la virgola non è richiesta perché la proposizione relativa introdotta da al cui confronto è di tipo limitativo, non esplicativo. Questa relativa è parte integrante dell’antecedente (un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’), che non ne può fare a meno; se, infatti, proviamo a eliminarla, il risultato risulta incompleto: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre'”. Si veda, invece, come cambia il rapporto tra reggente e relativa se rendiamo l’antecedente autonomo: “Certi individui attraversano la strada con un certo dinamismo vitale e una certa ‘joie de vivre'”; in questo caso la relativa, che pure può seguire, andrà preceduta da virgola, perché è esplicativa, aggiuntiva, non limitativa, ovvero identificativa dell’antecedente.
Per approfondire questo argomento può consultare diverse risposte nell’archivio di DICO (per esempio la FAQ Usi testuali della virgola).
Va detto che la sua frase presenta un problema di coesione tipico del parlato, da evitare nello scritto: il riferimento di al cui confronto sarebbe un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, non certi individui. Nella frase, quindi, si confronta Frankenstein al modo di camminare di certi individui, mentre il confronto può essere fatto o tra il modo di camminare di Frankenstein e il modo di camminare di certi individui, o tra Frankenstein e certi individui che camminano in un certo modo. Il senso della frase è comunque chiaro, ma il testo risulta sconnesso.
Un modo semplice per riconnettere i due termini del confronto è questo: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’ al cui confronto il modo di camminare di Frankestein sembra quello di un ginnasta dell’antica Atene”. Chiaramente, in questo modo la frase è meno diretta e probabilmente fa meno ridere, ma la coesione è migliore. In ogni caso, la relativa rimane limitativa, quindi senza virgola.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
In questa frase è meglio usare il passato prossimo?
“Hai visto il giallo di ieri sera? È stato / era fantastico!”
Inoltre vorrei chiedere se a questa domanda tutt’e due le risposte sono giuste: “C’è un supermercato qui vicino?”
“Sì, c’è uno (vicino alla posta)”.
“Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”.
E in ultimo: alla domanda “Quanto vino hai bevuto?” posso rispondere “Non ne ho bevuto niente / nessuno”?
RISPOSTA:
La soluzione migliore per la prima frase è il passato prossimo. Il film, infatti, viene considerato come un evento che ha avuto un inizio e una fine, quindi compiuto. Con l’imperfetto, invece, lo si rappresenta come continuato.
La variante corretta per la seconda domanda è “Sì, ce n’è uno (vicino alla posta)”. È necessario, infatti, specificare nella risposta di che cosa ci sia uno, ovvero “Ce ne è (ce n’è) uno” = ‘di supermercati c’è uno’.
La risposta alla terza domanda non è corretta perché l’uso di ne contrasta con i pronomi niente e nessuno. Così costruita, la frase corrisponde a “Non ho bevuto niente di vino”, o “Non ho bevuto nessuno di vino”, che non vanno comunque bene, perché “Non ho bevuto niente” non ha bisogno di ulteriori specificazioni, e “Non ho bevuto nessuno” vuol dire ‘non ho bevuto nessuna persona’. Quindi, o si dice “Non ho bevuto niente”, oppure si usa un avverbio: “Non ho bevuto affatto / per niente / assolutamente vino”. Possibile, nel parlato (da evitare nello scritto), anche la dislocazione a destra: “non ne ho bevuto vino”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio semantico quando scrivo questa frase: “Devo conquistare il Paradiso”. Conquistare significa ‘ottenere qualcosa con fatica, andando contro ostacoli’. Ma è risaputo, per i cristiani, che queste fatiche scompaiono facendo posto alla gioia, in vista del fine gioioso del Paradiso. Scomparendo la fatica, ho l’impressione che scompare anche il senso stesso del termine conquistare (il quale prevede fatica nell’ottenimento di qualcosa). Ho pensato che sia più adatto a questo punto usare il termine conseguire, ma non ha lo stesso carico di significato che voglio dare alla frase (cioè far capire che vi sono ostacoli e fatiche, ma queste scompaiono, facendo posto alla gioia in vista del fine). Quindi, chiedo se sia opportuno cambiare il termine oppure se possa rimanere. Nel caso sia possibile mantenere il termine, chiedo se si debba inserire tra virgolette o se possa essere inserito anche senza virgolette (una sorta di significato sottinteso che non so in grammatica come si chiama).
RISPOSTA:
Le sue riflessioni semantiche su conquistare sono soggettive e non toccano il significato codificato del verbo. Incidono, piuttosto, sul senso che lei vuole veicolare nel suo testo particolare. Per veicolare la sfumatura da lei ricercata, dovrebbe esplicitarla in modo più disteso, piuttosto che affidarla al significato di un singolo verbo. Va sottolineato che proprio il significato dei due verbi modifica la rappresentazione degli oggetti a essi legati. Conquistare si lega a oggetti (in senso lato) raggiungibili attraverso il superamento di ostacoli; conseguire ha in sé il tratto del ‘seguire’ e per questo raffigura l’oggetto come l’esito di un processo (tacendo delle qualità di questo processo). Tanto per chiarire la differenza, si può conquistare una coppa, ma non si può conseguire una coppa, perché comunemente la coppa è considerato il simbolo di una vittoria, quindi allude al superamento di una prova. Anche con vittoria, il verbo conquistare sottolinea la difficoltà, conseguire solamente il risultato. Tipicamente, non a caso, l’oggetto che si consegue è proprio un risultato; molto innaturale, invece, è conquistare un risultato, perché il significato di risultato non è facilmente associabile ‘difficoltà’. E, per fare un ultimo esempio, si può conquistare la vetta di una montagna, ma non si può conseguire lo stesso oggetto.
Conquistare, insomma, rimane, tra i due, il verbo più adatto a un oggetto come il Paradiso, ferma restando la possibilità di sottolineare la natura del tutto particolare delle difficoltà da superare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo la regola, se una volontà che si riferisce al futuro non si realizzerà bisogna usare il condizionale composto. Ma in tutti i casi? Non posso semplicemente usare il futuro semplice?
“Domani andrei / sarei andata al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa”.
RISPOSTA:
Il condizionale passato non esprime semplicemente il futuro, ma esprime un evento successivo a un altro evento passato, per esempio “Luca disse che sarebbe andato a sciare l’inverno successivo”. Nella sua frase, le due versioni sono corrette, ma significano due cose diverse. In nessuna delle due, inoltre, è presente un futuro, ma il condizionale riguarda il grado di possibilità che ha, secondo l’emittente, l’evento andare al mare. “Domani andrei al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa” significa che il desiderio di andare al mare è condizionato da un evento (la necessità di rimanere a casa), ma è ancora realizzabile; “Domani sarei andata al mare, ma purtroppo devo rimanere a casa” descrive la stessa situazione, ma con la differenza che il desiderio è descritto (mediante il condizionale passato) come irrealizzabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi scrivo per risolvere un dubbio di retorica relativo in particolare a due casi in cui la ripetizione di una parola si carica di un significato diverso tra un’occorrenza e l’altra. Cito dal prologo dell’Aminta, pronunciato da Amore: “questo io so certo almen, che i baci miei / saran sempre più cari a le fanciulle, / se io, che son l’Amor, d’amor m’intendo”; e “e se mia madre, / che si sdegna vedermi errar fra’ boschi, / ciò non conosce, è cieca ella, e non io, / cui cieco a torto il cieco vulgo appella”.
Nel primo caso, la ripetizione di amore, prima come nome proprio, poi come nome comune, oltre alla variazione poliptotica, è corretto parlare di aequivocatio? Oppure quale altra figura retorica potrebbe descrivere adeguatamente l’artificio? Nel secondo caso invece, in cui si passa dall’uso proprio a quello figurato dell’aggettivo cieco, quale figura viene utilizzata?
Potrebbe essere appropriato parlare di diafora in casi come questi?
RISPOSTA:
I due casi sono riconducibili alla stessa figura, la diafora, ovvero la ripetizione dello stesso termine a breve distanza con un significato diverso. Lo scarto tra il nome proprio e il nome comune ricorda l’uso che della figura fa Manzoni nei Promessi sposi: “La mattina seguente Don Rodrigo si destò Don Rodrigo”, in cui il secondo Don Rodrigo funge più da sintagma nominale comune che da nome proprio e si interpreta come ‘la solita persona’, ‘la persona che era sempre stata’. Nel secondo caso, il significato dell’aggettivo passa da quello figurato (cieca) a quello proprio (cieco detto di Amore) nuovamente a quello figurato (cieco detto del popolo).
La aequivocatio è un caso estremo di paronomasia, nel quale due parole omografe sono usate nella stessa frase, ad esempio: “L’uomo è solito amare le cose amare”, o “Salutare le persone cordialmente è salutare (‘giovevole alla salute’)”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”.
La domanda è questa: l’aggettivo possessivo suoi potrebbe riferirsi allo studente o al maestro in questa frase? Quello che dovrebbe dirimere il dubbio è il verbo ripercorrere, che significa ‘percorrere di nuovo’?
RISPOSTA:
L’aggettivo possessivo suo rimanda al soggetto della proposizione, che nel caso di i suoi passi è un suo studente (così come, a sua volta, suo nella proposizione principale una volta constrinse un suo studente rimanda all’altro personaggio in questione). In teoria, quindi, i suoi passi sono quelli dello studente. Sempre in teoria, i passi dell’altro soggetto dovrebbero essere definiti i passi di lui: “Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i passi di lui attraverso l’immensa stazione”.
In realtà, la situazione è più complicata, perché suo è comunemente riferito anche a soggetti di proposizioni sovraordinate, non solamente completive, come è in questo caso. Ugualmente ambigua, per esempio, sarebbe la frase: “Lo chiamò per parlare dei suoi genitori” (i genitori del chiamante o del chiamato?). Il complemento di specificazione con il pronome personale in sostituzione dell’aggettivo possessivo, inoltre, è sentito come antiquato e burocratico (fa pensare a formule come la di lui consorte).
Responsabile, ma in minor misura, dell’ambiguità del riferimento è l’indecidibilità della responsabilità dell’azione (non è possibile, cioè, inferire dal cotesto se i suoi passi siano quelli dello studente o quelli dell’altro personaggio). Il verbo ripercorrere non è dirimente: anche se lo sostituissimo con percorrere l’ambiguità rimarrebbe, perché essa è provocata soprattutto dall’aggettivo possessivo. Non ambigua, per esempio, sarebbe la frase “Una volta costrinse alcuni suoi studenti a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”, perché non potremmo riferire il secondo suoi agli studenti.
Per risolvere il problema si può soltanto formulare la frase diversamente, oppure fornire, prima o dopo, informazioni dirimenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sottopongo i seguenti periodi (forma originaria e forme alternative) per analizzare le varie posizioni assunte dalla virgola, nonché, talvolta, l’omissione di quest’ultima.
1a: Suo marito era simile a lei, orgoglioso quando si manifestavano delle critiche alle sue radici.
1b: Suo marito era simile a lei, orgoglioso, quando si manifestavano delle critiche alle sue radici.
2a: Le voci penetravano nella stanza, e nel bosco vicino si moltiplicavano gli ululati del vento.
2b: Le voci penetravano nella stanza e nel bosco vicino si moltiplicavano gli ululati del vento.
2c: Le voci penetravano nella stanza e, nel bosco vicino, si moltiplicavano gli ululati del vento.
2d: Le voci penetravano nella stanza, e, nel bosco vicino, si moltiplicavano gli ululati del vento.
3a: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante, e anche invitante.
3b: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante e, anche, invitante.
3c: Gli alberi del giardino avevano un aspetto lussureggiante e anche invitante.
4a: L’obiettivo era ottenere un plauso, un consenso che ne confermasse il placet degli addetti ai lavori.
4b: L’obiettivo era ottenere un plauso, un consenso, che ne confermasse il placet degli addetti ai lavori.
5a: Doveva essere pieno di debiti, o forse di sensi di colpa.
5b: Doveva essere pieno di debiti o forse di sensi di colpa.
5c: Doveva essere pieno di debiti, o, forse, di sensi di colpa.
5d: Doveva essere pieno di debiti o, forse, di sensi di colpa.
RISPOSTA:
La virgola separa e rende autonome due unità informative. Di volta in volta, questa separazione produce sfumature semantiche diverse, evidenti oppure appena percepibili. Nella frase 1a il marito è descritto come orgoglioso nel caso in cui ricevesse critiche, al pari della moglie; nella 1b, invece, si dice che quando riceveva critiche era simile alla moglie, ovvero orgoglioso. La differenza, è evidente, è minima e riguarda il peso informativo dell’aggettivo orgoglioso: in 1b, a causa della seconda virgola, risulta ridotto a una chiosa esplicativa (come se fosse introdotto da ovvero), mentre risalta maggiormente il dato della somiglianza con la moglie.
Anche nella 2a la virgola prima della e separa due unità informative e rende le due descrizioni autonome (con varie possibili ragioni espressive). In 2c e 2d il luogo del bosco è rappresentato come di secondaria importanza rispetto all’informazione principale, la descrizione degli ululati.
La stessa analisi vale per la 3 e la 5.
La 4 presenta il tipico confronto tra la proposizione relativa limitativa (4a) e quella esplicativa (4b) Su questo argomento ci sono diverse risposte nell’archivio di DICO (da FAQ Usi testuali della virgola), a cui la rimando anche per consultare altri casi commentati di uso della virgola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi pongo alcuni dubbi e spero che possiate chiarirmeli.
1. Dire a loro oppure dire loro?
2. “Cara Lucia, come stai? E il piccolo Luca?”
Riguardo a questa frase chiedo se è corretta così com’è scritta.
3. “Scrivere a te che non conosco / ti conosco è bello”.
4. “Mi chiedo perché a ogni saggio qualcuno si rompe / rompa un braccio”.
5. “Una volta che i miei genitori si arrabbiano, solo dopo due giorni gli passa…”.
In questa frase è corretto l’uso di gli è corretto?
6. “A volte di domenica vado agli scout”.
Si può dire agli scout?
7 . “Oh cara / Oh, cara quando mi hai concesso quel ballo ero emozionato”.
RISPOSTA:
1. Vanno bene entrambe le soluzioni (la stessa possibilità si ha con cui / a cui).
2. La frase va benissimo in un contesto anche scritto di media formalità. Più formale, perché più precisa, è l’esplicitazione del secondo verbo, visto che cambia la persona.
3. La variante corretta è “Scrivere a te che non conosco è bello”. Il che, infatti, può riferirsi a tutte le persone, anche se è più comune che rimandi a un antecedente alla terza persona singolare o plurale. Da evitare la ripetizione del pronome, che non avrebbe alcuna funzione informativa, ma servirebbe solamente a esplicitare un riferimento già sufficientemente esplicito.
4. Vanno bene entrambe le varianti; quella con il congiuntivo è più formale.
5. Gli per (a) loro è ormai accettato in tutti i registri.
6. L’espressione sintetica è efficace e trasparente, ma adatta a un contesto colloquiale, perché non perfettamente formata secondo le regole standard. In italiano, la preposizione di moto a luogo quando il luogo è rappresentato da una persona è da, non a (per esempio: “Ogni domenica vado dai miei nonni”, non *”ai miei nonni”). Vado dagli scout, però, sarebbe inteso come ‘vado a trovare gli scout’, mentre qui si intende che si va a fare le attività degli scout. Da qui la soluzione abborracciata vado agli scout. Per risolvere la questione in linea con la lingua standard si dovrebbe sostituire scout con un luogo, per esempio: vado alla sede degli scout, oppure con un’azione: vado a partecipare alle attività degli scout, o simili. In questo modo, l’espressione si allunga e diviene faticosa, per cui è ovvio, e legittimo, che parlando tra amici si preferisca la variante sintetica.
7. Vanno bene entrambe le varianti. Obbligatoria, invece, la virgola dopo l’allocuzione (ovvero il complemento vocativo): “Oh cara, quando mi hai…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il periodo successivo può dirsi lineare?
Certo, i ricordi brutti sono molti come lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle, partecipare a una missione del genere, ma i ricordi belli sono indelebili, come sentirsi dire “Congratulazioni lei è ufficialmente laureata”. Ma tu sei giovane e questa è solo una piccola parte della tua vita.
In particolare, la congiunzione ma dopo il punto fermo non mi sembra adatta.
RISPOSTA:
La seconda parte va bene, compreso il ma all’inizio del periodo, con funzione avversativa rispetto a tutto il periodo precedente, non solamente rispetto a un elemento. Nella prima parte l’elenco è incongruente (al netto di effetti retorici ricercati), perché una missione dovrebbe contenere, quindi precedere, lanciare una bomba e sentirsi un amico morire, non essere messo sullo stesso piano. Propongo la seguente riformulazione, con la rivisitazione anche della punteggiatura:
Certo, i ricordi brutti sono molti, come partecipare a una missione del genere, lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle; ma…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel codice deontologico degli assistenti sociali si legge: “l’assistente sociale non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti”. Vorrei sapere cosa si intende con il termine giudizi di valore e se potete cortesemente citare alcuni esempi.
RISPOSTA:
I giudizi di valore sono pronunciamenti circa la bontà, giustezza, validità di un certo comportamento o modo di essere. Ogni volta che qualifichiamo direttamente o indirettamente uno stato di cose come giusto o ingiusto, corretto o scorretto, accettabile o inaccettabile e simili, costruiamo giudizi di valore, che classificano la realtà osservata secondo la nostra personale ideologia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Da quello che so, sproloquiare ha come sinonimo ‘parlare a vanvera o a sproposito, straparlare’. Volevo sapere se ‘parlare in maniera spropositata’ rientra nello sproloquiare.
Da una ricerca che ho fatto sul dizionario Treccani, spropositato significa ‘pieno di spropositi, di gravi errori: un tema s., anche se non privo di idee; un discorso s. e confuso; per cui dire che una persona che fa un discorso spropositato sproloquia è corretto? C’è sinonimia tra sproloquiare e parlare in maniera spropositata (intendendo ‘fare discorso pieno di spropositi’)?
RISPOSTA:
Uno sproloquio è una introduzione (in latino proloquium) che degenera (come indica il prefisso s-) in un discorso. Chi sproloquia, quindi, fa un discorso troppo lungo rispetto al dovuto e, nonostante questo, non arriva a nessuna conclusione, perché il suo discorso non è altro che l’introduzione di un altro discorso. Nella parola sproloquio, come si vede, è contenuta sia l’idea dell’eccesso verbale, sia quella della inanità, che, in effetti, spesso accompagna l’eccesso. Non è contenuta, invece, l’idea della scorrettezza grammaticale.
Di conseguenza, uno sproloquio è per sua natura spropositato, cioè ‘fuori da ciò che è proposto’ (suffisso s- + il latino propositum ‘proposto’), nel senso di ‘diverso da quello che si propone di essere’. Si badi che spropositato si riferisce sempre alla quantità, non alla qualità, quindi non allude a possibili errori, sebbene sproposito, invece, indichi tipicamente l’errore grave. C’è, quindi, uno scarto semantico tra sproposito ‘errore grave’ e spropositato ‘eccessivamente grande o lungo’. Se, quindi, uno sproloquio è certamente un discorso spropositato, non è altrettanto certamente (ma non si può escludere che lo sia) un discorso pieno di spropositi.
Si tratta di una distinzione sottile: spesso, infatti, si considera l’eccesso verbale come automaticamente comprensivo di una buona dose di errori. Non a caso, il verbo straparlare, che si riferisce a persone che non sono pienamente in possesso delle proprie capacità mentali, contiene entrambe le idee presenti in sproloquiare, quella dell’eccesso e quella dell’inutilità, ma allude anche alla presenza di errori nel discorso. A straparlare si avvicina l’espressione (parlare) a vanvera ‘senza riflettere, a caso’, che sottolinea, però, più che la perdita della ragione da parte di una persona solitamente savia, lo sforzo di parlare a proposito da parte di una persona che è momentaneamente o congenitamente incapace di farlo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo: “La sua occupazione doveva essere cucinare le castagne che trovava nel bosco”.
L’impiego dell’imperfetto dell’indicativo credo che sia corretto, in quanto veicola la scioltezza del periodo; per curiosità intellettuale e pignoleria analitica, vi domando se le seguenti alternative siano altrettanto valide:
a) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avesse trovato (aggiunge una sfumatura ipotetica).
b) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che avrebbe trovato (la subordinata è posteriore alla principale e si costruisce quindi con il condizionale composto).
c) La sua occupazione avrebbe dovuto essere cucinare le castagne che trovasse (la subordinata è contemporanea alla principale).
Penso che il predicato della principale, qualora si volesse eliminare l’incertezza dell’evento, potrebbe essere sostituito da sarebbe stata / o: “la sua occupazione sarebbe stata cucinare le castagne che avesse trovato / avrebbe trovato / trovasse”.
Concludo chiedendo se, in generale, l’imperfetto dell’indicativo, come anticipato poc’anzi, sia la forma “sciatta” del più ricercato (ma talvolta pesante) condizionale passato, in particolare quando si ha a che fare con il verbo potere.
d) La sua paura poteva giocargli un brutto tiro,
benché corretta, non si potrebbe sostituire con
e) la sua paura avrebbe potuto giocargli un brutto tiro
senza stravolgere la sintassi della frase (e quindi i rapporti temporali tra reggente e subordinata)?
RISPOSTA:
L’indicativo imperfetto nella frase iniziale può essere interpretato in due modi: come fa lei, oppure con valore epistemico: ‘La sua occupazione era sicuramente cucinare le castagne…”. La parafrasi da lei proposta, con il condizionale passato, annulla questa seconda possibilità e seleziona il valore di futuro nel passato. Ovviamente questa scelta può essere fatta solamente conoscendo il contesto della frase, dal quale si evinca il vero valore dell’imperfetto.
L’imperfetto può avere i due valori appena visti, ma anche quello di ipotesi remota: se lo sapevo = ‘se lo avessi saputo’. Si tratta di valori sfruttati nell’italiano dell’uso medio, ampiamente accettati, non “sciatti” sebbene da non preferire in un contesto formale, specialmente scritto. Innanzitutto perché possono essere ambigui, perché compresenti, come in questo caso. Forse il concetto, che comunque non mi è chiaro, di scioltezza del periodo da lei evocato si riferisce a questa ambiguità?
La stessa ambiguità si trova nella frase d: poteva giocargli può significare ‘a volte gli giocava’ (si noti l’emersione del significato probabilistico del verbo potere, laddove nella prima frase vista sopra il verbo dovere assume un significato epistemico) oppure ‘avrebbe potuto giocargli’. La riscrittura e seleziona solamente quest’ultimo valore.
Le alternative a, b, c per la subordinata relativa modulano il grado di certezza dell’emittente sull’avvenimento del trovare le castagne: il condizionale passato lo rappresenta come futuro rispetto al momento in cui l’occupazione è stata assegnata; i due congiuntivi lo rappresentano non tanto come futuro (che è un tratto implicito), ma come possibile (che trovasse = ‘se le trovasse’) o come improbabile (che avesse trovato = ‘se le avesse trovate’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quali forme tra le sottoindicate sono pienamente valide, ai limiti dell’accettabilità e, infine, agrammaticali. I dubbi sono sorti dopo la lettura di un articolo on line sulla cosiddetta attrazione modale.
1a) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremo.
1b) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che ottenessimo.
1c) Non potremo (o potremmo) mai rinunciare ai privilegi che otterremmo.
2) Ci vorrebbe qualcuno che parlerebbe inglese.
(Do per scontato che tutte le altre soluzioni possibili, con relativi gradi di formalità, siano valide: parlasse; parli; parla).
3a) Se fossi sicuro che viene, gli parlerei a quattr’occhi.
3b) Se fossi sicuro che venga, gli parlerei a quattr’occhi.
3c) Se fossi sicuro che verrà, gli parlerei a quattr’occhi.
3d) Se fossi sicuro che verrebbe (protasi implicita), gli parlerei a quattr’occhi.
3e) Se fossi sicuro che venisse, gli parlerei a quattr’occhi.
4a) Se fossi sicuro che sia stato lui, gliene direi quattro.
4b) Se fossi sicuro che fosse stato lui, gliene direi quattro.
4c) Se fossi sicuro che è stato lui, gliene direi quattro.
5a) Se credessi che lei non mi amerebbe, smetterei di frequentarla.
5b) Se credessi che lei non mi ama, smetterei di frequentarla.
5c) Se credessi che lei non mi ami, smetterei di frequentarla.
(Anche qui do per scontato che la soluzione preferibile sia amasse).
RISPOSTA:
Le varianti 1 sono tutte valide. La 1b con la principale all’indicativo futuro suona un po’ forzata, perché pone come certa, all’indicativo, la circostanza dell’impossibilità di rinunciare a privilegi il cui ottenimento è possibile, non certo. Il congiuntivo ottenessimo, infatti, conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica. Molto più atteso è il condizionale potremmo. Per ragioni simili, anche la 1c con l’indicativo è improbabile, perché l’ottenimento dei privilegi è descritto come condizionato (al condizionale), come se ci fosse sottintesa una protasi al congiuntivo: “Non potremo mai rinunciare ai privilegi che otterremmo (se riuscissimo in questa impresa)”. Anche in questo caso è più logico costruire la principale con il condizionale.
La 2 è scorretta. I verbi di volontà o desiderio al condizionale richiedono, nella subordinata, il congiuntivo imperfetto; l’unica variante senz’altro corretta, pertanto, è “Ci vorrebbe qualcuno che parlasse inglese”. Accettabile, in fondo, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parli inglese”, che, però, è comunemente considerata errata. Al limite dell’accettabilità, e solamente in un contesto parlato molto informale, anche “Ci vorrebbe qualcuno che parla inglese”.
Le varianti 3 sono tutte corrette (con molte riserve sulla 3e, su cui mi soffermerò a parte), anche se non ugualmente accettabili. Quella con il congiuntivo presente è la più formale, quella con l’indicativo presente la più comune. Quella con il condizionale, infine, introduce una ulteriore sfumatura; sottintende, infatti, una protasi (come da lei suggerito): “Se fossi sicuro che verrebbe (se glielo chiedessi), gli parlerei a quattr’occhi”.
La 3e è, in teoria, scorretta perché contrasta con lo schema della consecutio temporum. Secondo questo, infatti, il congiuntivo imperfetto nella subordinata completiva indica la contemporaneità nel passato con la reggente, ma la reggente (se fossi sicuro) è presente e lo è anche l’apodosi del periodo ipotetico, che è la proposizione principale (gli parlerei a quattr’occhi). Attenzione: il congiuntivo imperfetto della reggente è dovuto alle esigenze del periodo ipotetico, non al fatto che lo stato dell’essere sicuro sia passato; è chiaro, infatti, che tale stato sia presente (= ‘se fossi sicuro adesso’). Questa frase è impossibile solamente in teoria perché, in realtà, esistono, e sono piuttosto comuni, frasi come questa: “Se sapessi che fosse l’ultima volta che ti vedo uscire dalla porta, ti abbraccerei e darei un bacio e poi ti richiamerei per dartene un altro” (trovata attraverso una ricerca on line). Perché i parlanti costruiscono frasi come questa? Per due ragioni concorrenti: perché interpretano l’imperfetto della reggente come passato, quindi usano nella subordinata il congiuntivo imperfetto per instaurare la contemporaneità nel passato (mentre, come abbiamo detto, il congiuntivo imperfetto della reggente esprime, in questo caso, un evento o uno stato presente); perché il tempo della subordinata è attratto da quello della reggente: nel costruire questa frase, cioè, il parlante sovrappone la reggente alla subordinata, perché tende a semplificare il costrutto reggente epistemica ipotetica + subordinata completiva in reggente ipotetica. In questo modo, se fossi sicuro che venga (o se sapessi che sia o simili) si trasforma in se venisse (o se fosse o simili), ma le due costruzioni non si possono escludere a vicenda; si fondono, bensì, insieme, creando se fossi sicuro che venisse.
Questa variante, sebbene possibile (e attestata in letteratura, ma lontano nel tempo: “Queste non gle le dò più, se credessi, che mi accoppasse di bastonate”, Carlo Goldoni, Le donne curiose), è frutto di una confusione e va evitata.
Sottolineo, a margine, che il senso generale della frase è oscuro: descrive, infatti, la volontà di parlare a qualcuno solamente nel caso in cui si sia sicuri che questo qualcuno sia presente. Una situazione realistica, invece, sarebbe quella in cui si voglia parlare a qualcuno solamente nel caso in cui questi sia presente (non nel caso in cui si sia sicuri che questi sia presente).
Tra le varianti 4, la 4a e la 4c sono corrette (l’indicativo è meno formale del congiuntivo). La 4b è improbabile, ma possibile se si sottintende un evento a metà strada tra il momento dell’azione compiuta da lui e il momento dell’enunciazione: “Se fossi sicuro che fosse stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”. Anche in questo caso, comunque, sarebbe possibile usare il congiuntivo passato, neutralizzando lo scarto temporale tra i due eventi passati: “Se fossi sicuro che sia stato lui (a bussare stamattina anche se poi non ho visto nessuno allontanarsi), gliene direi quattro”.
La frase 5 è identica nella struttura alla 3; la soluzione che lei giudica preferibile, pertanto, è proprio quella più decisamente da evitare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti frasi sono corrette ?
1. Diceva che nel matrimonio bisogna / bisognasse avere pazienza e saper perdonare; che fosse dannoso dare tutto per scontato e lasciare che la routine prendesse il sopravento. E che l’unica soluzione fosse mantenere il rapporto sempre vivo.
2. Quello che mi fece arrabbiare di più, oltre all’ennesimo probabile tradimento, fu che ti presentasti con giacca e camicia stropicciati, cravatta fuori posto e spettinato; una offesa alla mia intelligenza e una conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, del poco rispetto che tu portavi nei miei confronti. 3. Il proprietario dell’hotel gli chiese se, in caso di necessità, avrebbe / avesse potuto / potesse chiamarlo.
4. In un lungo e imbarazzante colloquio, la informò delle frequenti e brevi avventure amorose della figlia e che tutti o quasi ne erano / fossero a conoscenza.
5. La piccola non si aspettava certo un aiuto dalle sorelle, ma che almeno avessero taciuto sì, quello lo aveva sperato.
6. Quella frase di Marco, nonostante avesse capito perché l’avesse pronunciata, la riempì comunque di gioia.
7. Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata, Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea e che lei avesse / aveva promesso di accompagnarlo.
RISPOSTA:
Nella prima frase l’alternanza tra presente e imperfetto è possibile non solamente nel primo caso (bisogna / bisognasse), ma anche nei seguenti. Ovviamente, se si propende, come lei ha fatto, per l’imperfetto negli altri casi, ci si aspetta bisognasse, ma il passaggio dal presente all’imperfetto sarebbe giustificabile se si volesse ottenere una sfumatura di significato (apprezzabile solamente in uno scritto con aspirazioni letterarie). La differenza tra il presente e l’imperfetto è che il primo caratterizza il pensiero come generale, atemporale, sempre valido, il secondo lo riconduce al piano temporale al quale appartiene diceva, quindi allude al caso specifico di cui il soggetto di diceva stava parlando.
La seconda frase è corretta, tranne per l’accordo tra giacca e camicia e stropicciati (corretto stropicciate). Possibile, oltre a ce ne fosse stato bisogno, anche ce ne fosse bisogno.
Nella terza sono corrette le forme avrebbe potuto (condizionale passato per esprimere il futuro nel passato) e potesse (congiuntivo imperfetto che conferisce una sfumatura ipotetica alla proposizione interrogativa indiretta). Avesse potuto sarebbe la forma corretta solamente se il proprietario si riferisse non al futuro ma al passato (nel qual caso le altre due forme sarebbero scorrette).
Nella quarta sono corrette entrambe le forme; l’indicativo è più comune, il congiuntivo più formale.
La quinta è corretta.
Nella sesta le forme verbali sono corrette. Per maggiore chiarezza, è possibile, ma in fondo non necessario, aggiungere uno dei due soggetti pronominali nel gruppo proposizionale incidentale: nonostante lei avesse capito perché l’avesse pronunciata o nonostante avesse capito perché lui l’avesse pronunciata. Possibile, ma al costo di una certa ridondanza, anche aggiungerli entrambi: nonostante lei avesse capito perché lui l’avesse pronunciata.
Per la settima vale quanto detto per la quarta. Bisogna, però, intervenire sulla punteggiatura: “Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea e che lei…”, oppure “Giulia scordò che proprio il giorno della sfilata Marco avrebbe dato l’ultimo esame prima della tesi di laurea, e che lei…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Una frase come “I cristiani sono chiamati ad attraversare le ‘gioiose sofferenze’ della vita per conquistare il paradiso è corretta”? Vi spiego il mio dubbio. Il motivo della conquista è la lotta contro le sofferenze della vita. Ma è pur vero che la sofferenza si trasforma in gioia in vista del paradiso. Quindi, visto che la sofferenza è “gioiosa”, la conquista diviene per così dire “facile”. Ma il vocabolario spiega il termine conquista con ‘l’ottenimento di un qualcosa attraverso difficoltà’. Quindi chiedo se in virtù di quanto esplicato la frase è corretta, e se lo fosse come si chiama in italiano la tecnica utilizzata (penso sia l’ossimoro).
RISPOSTA:
Dal punto di vista grammaticale la frase è corretta. Il suo dubbio semantico è legittimo, ma lei stesso dà una spiegazione che supera il problema in modo convincente. L’ossimoro, la figura retorica da lei usata, serve proprio a superare l’evidenza dell’esperienza per far emergere sfumature nascoste negli eventi, nelle situazioni, nelle relazioni umane. Il suo gioiose sofferenze (cioè ‘sofferenze finalizzate a un fine gioioso, che le rende accettabili’) funziona al pari del comune silenzio assordante (ovvero ‘silenzio su un tema delicato, che rivela l’impotenza, o la colpevolezza, di chi lo pratica’), o dell’altrettanto comune lucida follia (cioè ‘comportamento anticonvenzionale derivato non da irrazionalità, ma da calcolo’) ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulla punteggiatura e correttezza formale delle tre frasi seguenti:
1. Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, subito abbiamo iniziato a
pescare con il fluttuante. Sono elettrizzato ancora adesso; lui è già bravo e
subito ha preso una bella trota che purtroppo è riuscita a slamarsi. (Il punto e
virgola dopo “adesso” va bene?)
2. Ho preso una iridea di 37 cm, era sbalordito, era veramente un esemplare
gigante, subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo. (Dopo la parola gigante è meglio una virgola o un punto e virgola?)
3. Naturalmente ho partecipato ad altri campeggi, ma non ero mai stata con dei
ragazzi molto più grandi di me. Infatti sento di aver compreso che ci si può
divertire anche stando con persone più grandi o più piccole, più simpatiche o
meno, che conosco già o che non conosco affatto. (La congiunzione “infatti” è
corretta).
RISPOSTA:
Rispondo sotto ciascun esempio, punto per punto.
1. Oggi sono andato al fiume con il mio amico Giulio, subito abbiamo iniziato a
pescare con il fluttuante. Sono elettrizzato ancora adesso; lui è già bravo e
subito ha preso una bella trota che purtroppo è riuscita a slamarsi. (Il punto e
virgola dopo “adesso” va bene?).
Sì, va bene, meglio della virgola, perché tra la prima proposizione (“sono elettrizzato”) e la seconda (“lui è già bravo”) c’è un notevole cambiamento di piano, da quello emotivo a quello narrativo.
2. Ho preso una iridea di 37 cm, era sbalordito, era veramente un esemplare
gigante, subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo. (Dopo la parola gigante è meglio una virgola o un punto e virgola?).
Meglio il punto e virgola per motivo analogo a quello del punto 1. E c’è un refuso era > ero. Anche altri segni interpuntivi possono essere migliorati alla luce del cambiamento di piano dall’emotivo al narrativo o viceversa e simili. Provo a riformulare tutto il brano:
Ho preso una iridea di 37 cm; ero sbalordito: era veramente un esemplare
gigante. Subito mi sono trovato con la bocca spalancata e le pupille dilatate al
massimo.
3. Naturalmente ho partecipato ad altri campeggi, ma non ero mai stata con dei
ragazzi molto più grandi di me. Infatti sento di aver compreso che ci si può
divertire anche stando con persone più grandi o più piccole, più simpatiche o
meno, che conosco già o che non conosco affatto. (La congiunzione “infatti” è
corretta).
Non molto, perché non si sta deducendo qualcosa sulla base di quanto precede, bensì aggiungendo un nuovo elemento. Infatti [stavolta ci sta bene] si può non essere mai stati prima con ragazzi ecc. senza per questo aver compreso ecc. Sarebbe meglio eliminarlo e attaccare con “Sento…”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Espressioni quali come vi pare, come si preferisce, come credi, lascia il tempo che trova e simili, sono, per così dire, cristallizzate o i predicati da cui sono formate si coniugano non solo in base al numero ma anche a seconda del rapporto temporale che instaurano con la reggente?
1. Ti consiglio di rinunciare; ma già il prossimo mese potrai fare come ti parrà / come ti pare.
2. Se volessi conseguire la libertà, dovresti comportarti come preferiresti / come preferisci.
3. Dopo che ti avrò spiegato il mio punto di vista, tu potrai continuare a pensarla come vuoi / come vorrai.
4. Già prima di essere riconosciuto come il migliore nel suo campo, il ragazzo anche a scuola aveva fatto sempre le cose come si deve / come si doveva.
5. Il resto sarebbe chiacchiera vana, che lascia il tempo che trova / che lascerebbe il tempo che troverebbe.
RISPOSTA:
Le espressioni da lei elencate sono effettivamente relativamente cristallizzate, prima di tutto perché il presente al loro interno può assumere senza difficoltà valore atemporale, quindi essere valido sempre. Prendendo come esempio la prima frase, “… potrai fare come ti pare” è una costruzione legittima al netto della cristallizzazione, perché si riferisce al parere dell’interlocutore tanto nel momento dell’enunciazione quanto in quello dell’evento. In altre parole fare come ti pare equivale a agire secondo il tuo desiderio o simili (e così le altre), ovvero a una costruzione nominale svincolata dal riferimento temporale. Direi addirittura che la cristallizzazione sia conseguenza di questa caratteristica del presente: il fatto che il presente sia sempre valido ha provocato la fissazione della forma di queste espressioni.
Non è, comunque, da escludere la possibilità di coniugare il verbo dell’espressione in tutti i tempi e i modi che siano richiesti dalla consecutio temporum. Così facendo si perde in parte la idiomaticità delle espressioni, ma si guadagna precisione nel riferimento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è capitato di entrare in più palestre della mia città e trovare il termine palinsesto per indicare il programma annuale di tutte le attività di fitness. Vorrei sapere se l’uso è improprio o no. visto che dovrebbe riferirsi al campo radiotelevisivo.
RISPOSTA:
L’uso di una parola tende a cambiare nel tempo, accumulando, talvolta, alcune estensioni semantiche. La parola palinsesto nasce in àmbito filologico per indicare un manoscritto in cui la scrittura è stata sovrapposta a un’altra precedente raschiata o cancellata. L’idea di cancellare per sovrascrivere è connessa ad altri contesti d’uso: come già osservato da lei, palinsesto è normalmente associato alla sfera radiotelevisiva per indicare lo schema grafico delle trasmissioni previste in programmazione (che vengono modificate di giorno in giorno). È del tutto prevedibile, quindi, che la parola sia usata per identificare anche altri tipi di programmi che cambiano molto spesso, come quello di un’attività sportiva; non a caso, il dizionario Zingarelli 2020 attribuisce alla parola anche il significato di ‘programma, catalogo’, senza specificare il contenuto dello stesso.
Raphael Merida
QUESITO:
I miei dubbi sono i seguenti:
1. nella frase “Al giorno d’oggi è importante essere sul web”, è giusto scrivere sul web?
2. È più corretto dire cerco in Internet o su Internet?
3. nella frase “L’agenzia si occupa della realizzazione di siti internet in provincia di Genova, di Savona e di La Spezia”, è corretto ripetere la preposizione di oppure è meglio scrivere di Genova, Savona e La Spezia?
4. Nella frase “È necessaria una fase di studio e progettazione iniziali”, è corretto il plurale iniziali?
RISPOSTA:
1. Sul web, sul Web, o sul web (vale a dire “sul web“) è la costruzione più comune, motivata dal fatto che i contenuti del web ci raggiungono sotto forma di stringhe di testo e immagini su uno schermo. I parlanti, quindi, assimilano per metonimia il contenuto al contenitore. Più preciso è nel web, visto che il web è l’ambiente figurato nel quale si trovano i contenuti. Si ripropone con questa espressione la stessa alternanza che c’era già tra in un libro e su un libro, nel giornale e sul giornale.
2. Come sopra.
3. Le due varianti sono ugualmente corrette; visto che non c’è ragione di ripetere la preposizione, però, è preferibile non ripeterla.
4. Sì, un aggettivo riferito con due o più nomi di genere diverso (a prescindere dal loro numero) concorda di norma al maschile plurale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come dobbiamo dire: “lavorare per un talk show in / su una televisione privata”?
RISPOSTA:
È preferibile in una televisione. Il termine televisione indica diverse realtà che ruotano intorno alla tecnologia della trasmissione delle immagini a distanza. Prima di tutto, televisione è proprio tale tecnologia; non è, però, il significato più comune associato a questa parola. Più comunemente, infatti, televisione indica la trasmissione stessa e i suoi contenuti, come nella frase fatta “l’ha detto la televisione”, ovvero ‘è stato detto in un programma trasmesso in televisione’. In questo senso, televisione entra in concorrenza con canale, che è ciascuna delle frequenze che trasmettono il segnale televisivo. Se televisione è la trasmissione che contiene i dati, canale è il mezzo sul quale viaggia la trasmissione: facile confondere le due cose, che, quindi, finiscono per scambiarsi anche le preposizioni. L’accoppiamento più sensato è in televisione e su un canale, quindi le varianti sulla televisione (si noti che, con televisione, in non vuole l’articolo, mentre su lo richiede obbligatoriamente) e in un canale sono più trascurate (in un canale, per la verità, è molto più diffuso di sulla televisione).
Il suo caso specifico, infine, è ancora diverso, perché in esso televisione indica una terza realtà: l’ambiente nel quale gli addetti lavorano, così come si lavora in una banca, in una scuola, in una azienda e così via. In questo caso, la preposizione in è ancora più rispondente alla situazione descritta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono abituata a dire e leggere frasi come “Spero che possa esserti utile…” o “Spero che potrà esserti utile …”. È anche accettabile spero con il condizionale, come: “Spero che potrebbe esserti utile….”?
RISPOSTA:
Le proposizioni oggettive esplicite, come quella che nella sua frase è introdotta da che, ammettono l’indicativo, il condizionale e il congiuntivo. È facile, infatti, trovare esempi di credo che potrebbe, penso che potrebbe, immagino che potrebbe e simili. Il verbo spero, però, veicola un forte senso di eventualità che rende improbabile, alle orecchie dei parlanti, la reggenza del condizionale e, addirittura, rende anche l’indicativo meno accettabile rispetto a quanto non lo sia con gli altri verbi di pensiero. In altre parole spero che puoi è meno accettabile di credo che puoi.
Si tratta di una preferenza nell’uso, non di una regola grammaticale: la costruzione spero che potrebbe non può dirsi errata; in pratica, però, è scartata dalla maggioranza dei parlanti e degli scriventi rispetto a quelle con il congiuntivo (più formale) e con l’indicativo (più trascurata).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tra le varie accezioni di se troviamo, se non vado errata, quella di esprimere una causa, accostandosi pertanto alle funzioni di dato che, dal momento che.
Muovendo da ciò, vi chiedo se tali frasi potrebbero essere ammesse:
“Ti voglio bene, se (dato che) non potrei mai vivere lontana da te”;
“Se (dal momento che) non riuscirei mai a parlargli senza arrossire, puoi star certo che già da adesso provo qualcosa per lui”.
RISPOSTA:
Le frasi sono perfettamente accettabili; in esse, se esprime la causa come un finto dubbio, cioè come un dubbio che è già stato risolto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggevo che l’avverbio più può determinare un verbo. In frasi come queste: “la città merita di più”, l’avverbio più non ha un valore comparativo? Cioè, ci sono situazioni in cui più è solamente un avverbio di quantità senza essere comparativo o superlativo?
RISPOSTA:
Come avverbio, o anche aggettivo (in frasi come “ho bisogno di più tempo”), più è sempre comparativo o superlativo. Instaura, cioè, un rapporto tra due termini o tra un termine e un gruppo di riferimento, anche quando l’altro termine del rapporto, o il gruppo di riferimento, siano sottintesi: “la città meria di più (di quanto abbia avuto finora)”, “Luca è il più forte (tra tutte le persone del mondo)”.
Anche quando è usato in espressioni negative, per indicare un evento che cessa di avvenire, in realtà stabilisce un rapporto tra due termini, in questo caso un prima e un dopo: “non lo faccio più” = ‘non aggiungo altro rispetto a quanto già fatto’, quindi ‘da ora il mio agire in questo modo sarà meno (= non sarà di più) di quello precedente’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Locuzioni e congiunzioni che normalmente richiedono il congiuntivo possono talvolta introdurre proposizioni al condizionale – oltreché all’indicativo futuro – specie se assumono, per così dire, un valore simile a quello delle apodosi del periodo ipotetico quando la protasi è sottintesa?
Alludo principalmente a è probabile che, purché, a patto che, a condizione che, non è detto che, sempre che e simili.
1. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vincerebbe.
2. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) sarebbero abilitati a svolgere questi lavori.
3. Vorrei al caso rivolgermi al professore, a patto che sarebbe propenso a ricevermi.
4. Non è detto che capirà.
Quali elementi devono essere tenuti in considerazione per stabilire in autonomia quando tali usi siano eventualmente corretti? E Inoltre, l’uso del congiuntivo sarebbe comunque valido nei primi tre esempi o
stravolgerebbe il senso generale delle costruzioni?
a. È molto probabile (se ci fosse l’opportunità di uno scontro diretto) che vinca.
b. Potremmo aver bisogno di chiedere loro un preventivo, sempre che i tecnici (se avessimo bisogno di un preventivo) siano abilitati a svolgere questi lavori.
c. Vorrei eventualmente rivolgermi al professore, a patto che sia propenso a ricevermi.
RISPOSTA:
Lei mette insieme due costrutti apparentemente analoghi, ma che, invece, sono diversi e comportano una diversa organizzazione della frase. Da una parte abbiamo costrutti impersonali come è probabile che e non è detto che, che reggono una proposizione completiva soggettiva; dall’altra abbiamo congiunzioni come purché, a patto che, a condizione che, sempre che, che sono tutte varianti, con varie sfumature semantiche, di se introduttore di una proposizione subordinata ipotetica.
La proposizione soggettiva può avere il condizionale, la ipotetica no, quindi le frasi 1 e 4 sono ben costruite, la 2 e la 3 sono scorrette. Rispetto alla 1, la variante a è più formale (la variante più formale della 4 sarebbe “non è detto che capisca”), rispetto alla 2 e alla 3, le varianti b e c sono quelle corrette.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del verbo guadagnare con il pronome ci. Perché si dice: “Cosa ci guadagni a comportarti così male?”; perché si usa il pronome ci? È obbligatorio? E cosa significa la frase cosi?
RISPOSTA:
Il pronome atono ci in guadagnarci può avere due funzioni diverse, corrispondenti a due diversi significati del verbo. Può servire a riprendere o anticipare il tema dell’enunciato nel quale è inserito: in “Dalla vendita della casa ci ho guadagnato poco” il tema (dalla vendita della casa) è ripreso da ci; in “Ci ho guadagnato poco dalla vendita della casa” il tema è anticipato. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a sinistra, ripreso da un pronome, o a destra, anticipato da un pronome, è nota come dislocazione e serve a mettere in evidenza proprio il tema; quella a sinistra, in particolare, è utile per collegarlo meglio al co-testo precedente, quella a destra, invece, funziona meglio per creare effetti retorici di ironia o polemica.
Più spesso, però, guadagnarci è un verbo procomplementare; rientra, cioè, in quel gruppo di verbi formati con una o più particelle pronominali che assumono, proprio in forza di queste particelle, dei significati diversi dal verbo base. Tra questi verbi troviamo, per esempio, farcela, mettersi, vedersela e moltissimi altri. Come si può vedere dagli esempi, in questi verbi le particelle sono fuse con il verbo e non hanno una funzione sintattica identificabile; allo stesso tempo, dagli esempi si ricava che questi verbi sono particolarmente appropriati a contesti informali, nei quali rappresentano alternative brillanti a verbi più formali dal significato analogo (per esempio farcela / riuscire, mettersi a / iniziare a, vedersela con / affrontare). Lo stesso vale per guadagnarci, che non è la variante informale di guadagnare, ma corrisponde piuttosto a ottenere; se, infatti, guadagnare riguarda un profitto materiale, guadagnarci si riferisce a un vantaggio astratto. Da questo significato di base, inoltre, guadagnarci ha sviluppato quello relativo all’aumento di valore, che emerge in una frase come “Con la costruzione della fermata della metropolitana la zona ci ha guadagnato”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo un parere su una interpretazione di un avverbio in questa frase:
“La percezione del corpo può cambiare in modi davvero insoliti: come dicevamo prima, puoi sentirti gigantesco o piccolo; talvolta ti sembra che il naso (dove la sensazione del respiro è spesso più forte) si sia spostato sul cuore o si sia staccato dal corpo, come se la respirazione si fosse trasferita a qualche passo di distanza.
La domanda è questa: “spesso”, significa nella frase tra le parentesi, che molte persone lo sentono in quella zona del corpo essendo sicuramente un punto importante nella respirazione, oppure accade che tante volte una singola persona lo senta in quel punto?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambe le interpretazioni. A rigore, quella più “letterale” (spesso = frequentemente, molte volte) sarebbe ‘accade tante volte che una singola persona…’; tuttavia, dato che il concetto di ‘molte volte’ (a una sola persona) sconfina “spessissimo” in quello di ‘molte volte a più persone’, è assai frequente imbattersi in significati ambigui, che però nel 99% dei casi vengono disambiguate dal contesto. Anche nel suo caso, direi al 99% che il contesto extralinguistico e le mie scarsissime cognizioni laringoiatriche autorizzano come interpretazione privilegiata ‘nella maggior parte degli esseri umani’. Tra i 1000 esempi possibili, oltre al suo, le posso citare il seguente, colto a caso online: «L’apparato ideologico-organizzativo è avvertito spesso come incombente, ma altrettanto necessario. Di qui, molti vissuti di frustrazione, nervosismi diffusi, che ognuno vive ed esprime secondo le differenti condizioni soggettive di partenza». Spesso ‘più volte da una persona sola’ o ‘da persone diverse’. Il senso, e il prosieguo del discorso (molti, ognuno), previlegiano la seconda interpretazione: ‘da più persone’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo un periodo complesso con alcune soluzioni sintattiche su cui vi sarei grato se vi pronunciaste.
Tu dovrai mantenere la calma e isolare a uno a uno tutti i cavi di alimentazione. Dopo un’ora sarà il momento di attendere il segnale convenuto; a quel punto il lavoro
1. sarà stato completato [evento certo, concluso, pertanto anteriore a quello del “segnale convenuto”]
2. dovrebbe essere stato completato
3. sarebbe stato completato [implicito: se non fossero subentrati inconvenienti]
4. sarebbe completato [implicito: se non subentrassero inconvenienti].
RISPOSTA:
Vanno senz’altro bene le due prime frasi, sebbene la seconda esprima in più un valore epistemico (di possibilità): potrebbe anche non essere completato, se qualcosa non funziona o non ha funzionato. In questo caso andrebbe bene anche “dovrebbe essere completato”.
La 3 suona un po’ innaturale, sebbene possibile, per esprimere la possibilità di inconvenienti però meglio espressa con la 2.
La 4 è possibile, sebbene suoni anch’essa più innaturale della 2.
Aggiungo una 5a possibilità, cioè quella al semplice futuro: “sarà completato”, che è la migliore di tutte, visto che il futuro anteriore con valore di anteriorità nel futuro è davvero poco usato, nell’italiano odierno. Inoltre, visto che le indicazioni procedurali presenti nell’esempio hanno il sapore di un’azione che si sta svolgendo quasi in tempo reale, o comunque in un futuro immediato, o proiettato nel presente, sarebbe possibile (e e preferibile) esprimere tutto al presente:
“Devi mantenere la calma e isolare a uno a uno tutti i cavi di alimentazione. Dopo un’ora è il momento di attendere il segnale convenuto; a quel punto il lavoro è completato”.
Concludo che, anche nel suo esempio con i verbi al futuro, la conclusione “il lavoro è completato” va bene, anzi è la migliore.
Fabio Rossi
QUESITO:
È possibile utilizzare il termine discorsivo nell’ambito di un attività dove la percezione del tempo risulta discorsiva( nel senso di scorrevole)? esempio: una coda discorsiva.
RISPOSTA:
Nell’italiano antico, il termine discorso (da dis-correre, cioè ‘correre qua e là, muoversi, spostarsi’ e simili) aveva una quantità di significati anche non legati al parlare, cioè al significato moderno, bensì agli spostamenti nel tempo e nello spazio. Pertanto, erano possibili espressioni quali “in discorso di tempo”, cioè ‘con il passar del tempo’; “in discorso d’anni” (Ariosto) ecc. (citazioni tratte dal Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Garzanti).
L’aggettivo discorsivo, che è termine un po’ meno antico, è più legato al discorso come lo intendiamo noi, per cui i riferimenti all’etimo originario dello spostarsi nel tempo o nello spazio sono più difficili, ma comunque sempre possibili, a patto di evitare le ambiguità. In assenza di un contesto maggiore, per esempio, io non potrei che interpretare il suo coda discorsiva come ‘fine di un discorso, in coda a un discorso’. Ma, come ripeto, nulla vieta, magari per amor d’arcaismo e di significati peregrini, di intenderlo, nel dovuto contesto, come ‘la fine dello scorrere del tempo’ e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Per la possibilità di essere analizzato, in una frase come: “per la verità partirò domani”, il sintagma “per la verità”, si può considerare complemento di causa oppure di fine?
RISPOSTA:
“Per la verità” è un segnale discorsivo che serve a conferire una modalità epistemica al verbo, dal quale dunque non dipende tramite una reggenza sintattica (il per non è come in “passo per la porta” , ovvero non è dipendente dal verbo ma parte integrante della locuzione avverbiale “per la verità”), bensì tramite un rapporto semantico-testuale. In altre parole, non è in gioco qui la sintassi, bensì la testualità. Motivo per cui NON si deve qui applicare l’analisi logica, bensì altri tipi di analisi, cioè quella pragmatico-testuale. Come detto più e più volte in molte risposte di DICO, la tassonomia dei complementi non va applicata acriticamente a tutti i sintagmi della frase. Questo ne è un caso tipico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si può usare il “perché” in una frase a sé per non fare una domanda, ma per affermare?
Es.: “Domani non andremo al mare. Perché non ho voglia”.
RISPOSTA:
Sì, si può usare. Sicuramente il punto che separa una subordinata dalla reggente è la soluzione meno formale, e più espressiva, adatta per esempio a un articolo giornalistico piuttosto che a un saggio critico, nel quale si opta di solito per una maggiore coesione sintattica. Questo in linea di massima. Per essere più specifici, la subordinata causale è solitamente tra quelle più solidali con la reggente, cioè il cui significato (la causa, la conseguenza di qualcosa, appunto) più delimita il significato della reggente, e per questo motivo si tende a non separare con una virgola la causa dall’effetto. Tuttavia subentra talora l’esigenza di dare pari valore sia alla causa sia all’effetto, e in casi simili il punto aiuta proprio a non mettere in secondo piano, in ombra, la causa rispetto all’effetto. Pare proprio questo il senso dell’enunciato da Lei riportato, nel quale il non aver voglia ha pari importanza, se non addirittura superiore, rispetto al non andare la mare. Lo stesso enunciato senza la virgola conferirebbe meno valore al non avere voglia: “Domani non andremo al mare perché non ho voglia”, in cui la prima parte del periodo ha decisamente più importanza della seconda.
A queste ragioni si aggiunga che talora il perché causale ha in italiano non tanto il valore della causa in sé (cosiddetta causa de re), quanto della causa del dire o pensare una determinata cosa (cosiddetta causa de dicto). Questo secondo valore del perché (causa de dicto), usualmente più comune nel parlato che nello scritto, o nello stile colloquiale piuttosto che in quello formale, è preferibilmente separato da un punto rispetto alla reggente. L’esempio classico del perché de dicto è il seguente: “Piove. Perché prendo l’ombrello”. La causale “perché prendo l’ombrello” non è la causa del piovere (semmai ne è l’effetto), bensì del mio dire, o ipotizzare, che piove.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si parla spesso del condizionale composto in relazione al futuro nel passato.
Il periodo “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1986) si sarebbe potuto recare a Venezia”
dovrebbe essere dunque corretto. Mi immagino che si possa affermare altrettanto di “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia”.
Omettendo le specifiche incluse tra parentesi – utili nel mio caso per semplificare l’enucleazione del concetto – i due periodi risultano identici, malgrado lo stesso predicato verbale si agganci prima al futuro (nel passato) e poi al passato.
Mi domando se ci siano, per così dire, accorgimenti linguistici che permettono di decifrare la giusta semantica in assenza di elementi di “co-testo”.
RISPOSTA:
I due periodi sono entrambi ben, formati, ha ragione lei. Qui infatti il condizionale serve non tanto a indicare il futuro nel passato, quanto la modalità epistemica (cioè la probabilità) del verbo recarsi, ribadita dal verbo servile potere. Infatti, se eliminassimo potere, vedrebbe come il condizionale, stavolta per indicare esclusivamente il futuro nel passato, sarebbe corretto soltanto nel primo caso, ma non nel secondo:
1) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1986) si sarebbe recato a Venezia”;
2) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si ERA RECATO a Venezia”.
Sarebbe, con molte difficoltà, forse possibile l’uso del condizionale cosiddetto di distanza, cioè quello tipico con cui i giornalisti scaricano la responsabilità di quanto stanno scrivendo: “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe recato a Venezia”, nel senso: ‘pare che vi si sia recato ma non vi sono prove’. Tuttavia, sarebbe bene evitare quest’uso, in quanto, in questo contesto, risulterebbe particolarmente incerta l’interpretazione, a causa del conflitto tra il condizionale per esprimere il futuro nel passato (in contraddizione con le date) e il condizionale di distanza.
Nelle sue frasi, a causa della modalità epistemica, la seconda funziona soltanto se la persona in questione (il signor X) a Venezia non ci si è recata. In caso contrario, bisognerebbe per forza utilizzare il trapassato prossimo:
2A) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia, ma poi non c’è più andato”
2B) “(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si ERA POTUTO recare a Venezia e si era molto divertito”.
Al limite, ma sarebbe davvero difficile da accettare, potrebbe anche essere possibile un uso del genere:
“(Nel 1985) il signor X disse che (nel 1984) si sarebbe potuto recare a Venezia, e in effetti poi c’è (o c’era) andato davvero”, ma l’enunciato così composto avrebbe un effetto un po’ spiazzante sull’interlocutore, che tenderebbe a interpretarlo come contraddittorio.
Fabio Rossi
QUESITO:
Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”. Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?
RISPOSTA:
Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (lui, lei, te) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nonostante le vostre numerose spiegazioni offerte in merito alla consecutio, che ho
letto e ho provato ad assimilare in toto, quando mi sono trovato davanti al periodo
sotto riportato, ho pensato subito di ricorrere a voi per ricevere lumi:
Faremo il possibile per preparare il reparto all’evenienza. Se ci fosse un’emergenza,
il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato
precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità.
Il periodo è ben formato, in particolare la subordinata dell’apodosi, introdotta da
“perché”?
Mi trovo inoltre al centro di un confronto, per così dire, retorico, con un mio
collega a proposito di questa frase:
Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché hai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima.
Ritengo valida la scelta del passato prossimo “hai ricevuto”, memore delle vostre
lezioni sui tempi deittici e su quelli anaforici; sono tuttavia comparse nella mia
mente alcune soluzioni alternative – non tutte convincenti – su cui mi piacerebbe si
posasse la vostra attenzione:
1) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avrai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima.
2) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché riceverai la convocazione una decina di giorni prima.
3) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avresti ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima.
4) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché dovresti aver ricevuto la convocazione una decina di
giorni prima.
5) Dico (oggi, 18 agosto): se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché tu abbia ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima.
Vi ho posto le suddette alternative per curiosità intellettuale, lo ammetto; se
infatti fosse toccato a me esprimere il concetto intorno al quale ruota la frase,
avrei scelto la seguente soluzione, con tre varianti (che mi auguro essere valide) per
la subordinata:
Il prossimo 9 settembre presenzierai all’udienza solo se nei giorni precedenti
ricevessi/avessi ricevuto/avrai ricevuto la convocazione.
RISPOSTA:
Il periodo: “Se ci fosse un’emergenza, il personale sarebbe infatti pronto ad applicare il protocollo, perché sarebbe stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità” è ben formato nella prima parte (protasi più apodosi del periodo ipotetico dell’eventualità), direi ipercorretto (e dunque non pienamente accettabile) nella causale successiva, che, in quanto causale, non necessita del condizionale che in realtà estende l’eventualità anche a questa seconda parte del periodo. Infatti, il fatto di essere stato formato non è un’eventualità ma la realtà di ogni personale medico e paramedico che si rispetti. Dunque propongo: “….perché è stato precedentemente formato per fronteggiare ogni criticità”. Ricordo che l’apodosi è “il personale sarebbe…”, mentre “perché…” è una causale di secondo grado dipendente dall’apodosi.
Passiamo al secondo esempio: il periodo “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché hai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima” è ben formato.
Vediamo le alternative da Lei elencate.
1) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avrai ricevuto la convocazione una decina di giorni prima”.
Il futuro anteriore appare fuori luogo. Semmai, per rispettare la consecutio temporum del futuro nel passato, “avresti ricevuto”.
2) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché riceverai la convocazione una decina di giorni prima”.
Come sopra.
3) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché avresti ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima”.
Va bene.
4) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché dovresti aver ricevuto la convocazione una decina di
giorni prima”.
Va bene: introduce una modulazione epistemica (l’eventualità “dovresti…”) alla frase.
5) Dico (oggi, 18 agosto): “se il prossimo 9 settembre tu fossi chiamato a presenziare
all’udienza, sarebbe perché tu abbia ricevuto la convocazione una decina di giorni
prima”.
No, non va bene, sia perché il passato congiuntivo non rispetta la consecutio temporum del futuro nel passato, sia, soprattutto, poiché “perché + il congiuntivo” non indica una causale, bensì una finale, e dunque si falserebbe completamente il senso della frase..
Infine, la sua ultima poliforme alternativa: “Il prossimo 9 settembre presenzierai all’udienza solo se nei giorni precedenti ricevessi/avessi ricevuto/avrai ricevuto la convocazione” va bene in tutte le sue possibili varianti. “Ricevessi…” pone l’accento sull’eventualità: chi sa se la riceverai o no; la seconda (“avessi ricevuto…”) sia sull’eventualità sia sulla consecutio temporum (prima ricevi, poi presenzi); la terza (“avrai ricevuto…”) solo sulla consecutio temporum.
Fabio Rossi
QUESITO:
Stavo consultando un vecchio libro di analisi logica del Tantucci.
Riguarda il complemento di quantità.
Scrive che è una forma particolare del complemento di specificazione.
Retto da sostantivi o da aggettivi e avverbi sostantivati o da pronomi di cosa, preceduti dalla preposizione “di”.
Si ha in dipendenza di sostantivi come turba, dove ad esempio nella frase:” turba di scalmanati”, il complemento di quantità è “di scalmanati”;
oppure nella frase: “fatti un pò di coraggio”, il complemento di quantità è “di coraggio”.
Quindi secondo il Tantucci, è un complemento di specificazione?
Vi sembra una interpretazione valida?
RISPOSTA:
La Sua domanda conferma in pieno la nostra piena convinzione della radicale inutilità dell’analisi logica tradizionale, se interpretata come sterile tassonomia dei complementi. Infatti, l’attuale, scolastica, tipologia dei complementi combina arbitrariamente elementi semantici e funzionalistici (a che serve e che cosa significa quel determinato costrutto?) con elementi sintattici (come si combinano insieme sostantivi e preposizioni e come dipendono dal verbo). Se tutto questo ha un senso in latino, laddove è necessario conoscere in quale caso vanno espressi determinati costrutti a seconda del loro valore, in italiano certe distinzioni appaiono del tutto inutili, se non dannose.
Pertanto, ha perfettamente ragione il Tantucci nell’osservare che, in latino, la reggenza al genitivo vale tanto per la nozione logico-semantica di specificazione quanto per quella di quantità, che è tutto sommato un sottotipo della prima; mentre in italiano la distinzione tra un complemento di specificazione e uno di quantità è del tutto inutile, inventata a tavolino, senza alcuna utilità pratica né teorica. E, ancora una volta, d’accordo con Luca Serianni, Francesco Sabatini e numerosi altri lingiuisti, viene da dar ragione a quel bambino che, di fronte alla domanda della maestra: “che complemento è a pallone nella frase io gioco a pallone? Rispose: “complemento di calcio”! Bambino geniale e linguista in pectore, che comprende, malgré lui, come attribuire valore sintattico a mere relazioni semantiche sia privo di fondamento. Molto meglio concentrarsi sulle relazioni di reggenza tra verbo e sostantivi, secondo quanto predicato dalla grammatica delle valenze, su cui Francesco Sabatini e Cristiana De Santis hanno scritto pagine interessantissime. Ma questa è un’altra storia.
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo un chiarimento sulla correttezza dei tempi nella seguente frase:
“È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA/VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
A mio avviso sono entrambi corretti, con la differenza che VOGLIA si riferisce al futuro, mentre VOLESSE indica una contemporaneità. Dico bene?
RISPOSTA:
La sua intuizione è in parte giusta, in parte troppo rigida.
Cominciamo dal modo: la scelta del congiuntivo è la più formale, come al solito, ma il suo esempio funzionerebbe perfettamente, e direi anche meglio, all’indicativo: “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VUOLE/VOLEVA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”.
Sicuramente nel suo caso l’uso del congiuntivo è incoraggiato, oltreché dalla formalità e dal retaggio scolastico (non sempre giustificato) di preferire il congiuntivo all’indicativo (che noi linguisti chiamiamo scherzosamente “congiuntivite”), dalla sfumatura eventuale conferita dall’espressione reggente “mi è capitato di sentire”. Se sostituissimo alla reggente (che è una frase scissa: “è la prima che mi è capitato”) un’espressione più netta e meno eventuale, rispettandone però il tempo al passato, come “ho sentito”, l’indicativo sarebbe di fatto l’unica alternativa possibile, relegando il congiuntivo a un livello di artificiosità quasi irricevibile: “ho sentito che Luigi VUOLE/VOLEVA” ecc. / *“ho sentito che Luigi VOGLIA/VOLESSE” ecc.
Passiamo ora alla consecutio temporum. Esattamente come nell’esempio da me ricostruito all’indicativo, il presente ha un valore non del tutto definito (quasi acronico o pancronico) che va dalla contemporaneità alla posteriorità: quando vuole tornarci? ora? domani? prima o poi? Mentre l’imperfetto ha un valore anch’esso più o meno indefinito dalla contemporaneità all’anteriorità: ci voleva tornare e poi c’è effettivamente tornato? oppure ci voleva tornare e non c’è tornato? oppure genericamente ci vorrebbe tornare prima o poi? Quest’ultimo significato è incoraggiato dal valore modale dell’imperfetto indicativo, che può valere, epistemicamente, come un condizionale: voleva = vorrebbe.
Al congiuntivo accade più o meno quel che accadrebbe all’indicativo:
1) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOGLIA tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi vuole tornare nello stesso luogo, forse ci tornerà, ma forse c’è già tornato (anche se quest’ultima eventualità è la più rara).
2) “È la prima volta che mi è capitato di sentire che Luigi VOLESSE tornare nello stesso luogo in cui ha trascorso le vacanze”: rispetto a quando l’ho sentito dire, Luigi voleva (prima), o vuole tuttora, tornare ecc., e non si capisce se ha già realizzato o no la sua volontà.
Nel caso da Lei segnalato, infine, a rendere ancora più sfumato il rapporto tra contemporaneità, anteriorità e posteriorità c’è anche l’uso del verbo modale volere, che conferisce una sfumatura eventuale-desiderativa e una proiezione sulla realizzabilità dell’azione che ben si sposa con l’idea di futuro (cioè di posteriorità), che configge, in certo qual modo, con la dipendenza al passato di “è la prima volta che mi è capitato di sentire”. Ricordo en passant, al riguardo, che l’idea di futuro, in molte lingue del mondo (sicuramente quelle romanze e germaniche) è intimamente legata con quella di volere/dovere, tant’è vero che in inglese il futuro si può costruire anche con will = ‘voglio’ e in italiano con il suffisso -arò ecc. che proviene dall’espressione perifrastica latina con habeo: cantare habeo = devo cantare = canterò, questo per dire che tra verbi modali e idea di posteriorità c ‘è una forte congruenza.
Morale della favola: nell’enunciato da Lei segnalatoci, sia il presente sia l’imperfetto congiuntivo (o indicativo) sono accettabili, ma non è possibile stabilire in modo univoco i valori di contemporaneità, anteriorità e posteriorità dell’uno e dell’altro. Tendenzialmente, il presente voglia incoraggia l’interpretazione della contemporaneità-posteriorità, l’imperfetto volesse quella della contemporaneità-anteriorità. Il tutto, poi, relativamente al valore del verbo volere. Ma se ci spostiamo da volere a tornare, cioè il verbo principale retto dal modale volere, il discorso si fa ancora più sfumato, perché, sia per la consecutio temporum sia soprattutto per la sfumatura modale conferita dal verbo volere, è impossibile, in tutti i casi da Lei e da noi qui segnalati, stabilire con certezza se Luigi ci è tornato o no.
Le lingue, e il cervello umano che le crea, son fatte di incertezze e di sfumature: è questo il loro fascino, il loro mistero, il loro miracolo cognitivo. Ed è questo che rende la comunicazione, e tutti gli sforzi per comprenderci gli uni con gli altri, un’attività così creativa e accattivante. Non bisogna mai perdere il gusto e la tenacia di tentare di comprendere sempre i testi (scritti, orali, visivi ecc.) con cui ci confrontiamo, neppure di fronte alla loro inevitabile ambiguità.
Concludo con un’ultima notazione: le anomalie date dal valore modale (a metà tra il volitivo e il desiderativo) del verbo volere giustificano anche un’altra apparente anomalia morfosintattica e semantica di quel verbo, vale a dire il fatto che dal presente condizionale dipenda preferibilmente l’imperfetto congiuntivo, piuttosto che il presente, per esprimere la contemporaneità dell’azione: “vorrei che Luigi tornasse”, piuttosto che “vorrei che Luigi torni” (comunque possibile, ma meno formale, in italiano). Per ulteriori dettagli su quest’ennesima “stranezza” dell’italiano, può leggere la documentata risposta del prof. Ruggiano, con relativa citazione da Serianni, nella risposta di DICO dal titolo “Vorrei che tu…”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sul significato o uso di alcune parole poste tra le virgole.
Questa è la frase: “Avendo lavorato nel corso degli anni con un certo numero di studenti, penso che i meditanti debbano seguire il respiro dove gli sembra più vivido e tranquillo, dove è più probabile che catturi la loro attenzione. Nessuna di queste aree rimarrà sempre, in ogni seduta, la più vivida.Ma è importante non continuare a passare da una all’altra, alimentando una mente già agitata.
La mia domanda è questa: quando scrive “in ogni seduta” tra le virgole, sta puntualizzando cosa significa l’avverbio “sempre”; oppure sta solo aggiungendo una informazione nel contesto della frase? Cioè una considerazione all’interno della frase.
RISPOSTA:
A rigor di logica, l’inciso in questione serva a meglio precisare l’avverbio precedente: sempre, cioè in ogni seduta. Dal contesto del brano da Lei riportato (in verità non chiarissimo), non sembrano potervi essere altre interpretazioni. In realtà sempre e mai, nella loro assolutezza, non richiederebbero alcuna precisazione né dunque alcun inciso, visto che c’è poco da chiarire su ciò che deve verificarsi tutte le volte (e dunque, implicitamente, in ogni seduta) o nessuna volta. Tuttavia spesso i parlanti (e dal tono del discorso il suo ha tutta l’aria di essere un brano di parlato trascritto, o quasi) tendono a svuotare di valore semantico gli avverbi sempre e mai e a usarli quasi come segnali discorsivi, come dimostrano esempi, assai frequenti, quali: “di solito ho sempre fame” o “di solito non ho mai caldo”; da un punto di vista logico, naturalmente, mai e sempre sono inconciliabili con di solito.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?
RISPOSTA:
Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista:
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un quesito di interpretazione semantica. Senza menzionare la legge in questione, vi cito testualmente l’articolo stranamente male interpretato (ma forse è una mia impressione):
“Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina”.
Secondo l’interpretazione collettiva di chi amministra, quell’ove possibile è interpretato in generale; giusto per enfatizzare l’interpretazione, ove possibile equivale anche a dire ‘se non piove ti autorizzo a …’.
Invece, per la conoscenza che ho io di italiano e di analisi logica il testo lo interpreto così:
‘… ha diritto a scegliere la sede di lavoro, se in quella sede non ci sono impedimenti di varia natura’.
Per interpretarla con il ‘se non piove ti autorizzo a…’, secondo me quell’ove possibile doveva essere messo subito dopo la citazione del comma, ovvero “Il lavoratore di cui al comma 3, ove possibile, ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina.”; così scritta è interpretabile con ‘laddove non ci siano
impedimenti di varia natura, il lavoratore ha diritto a scegliere…’.
Secondo voi è corretta la mia interpretazione?
RISPOSTA:
L’interpretazione di un articolo di legge separato dal resto del testo è rischiosa; limiterò le mie osservazioni al versante linguistico. L’espressione ove possibile (descrivibile, dal punto di vista grammaticale, come una proposizione relativa ipotetica nominale incidentale) è semanticamente molto generica, tanto da comprendere qualsiasi circostanza potenzialmente ostativa, dalle avverse condizioni atmosferiche alla mancanza di posizioni vacanti. In questi casi, ci si affida al ragionevolezza del giudice per evitare interpretazioni fedeli alla lettera ma contrarie allo spirito della legge.
L’anticipazione della proposizione incidentale da lei proposta cambia effettivamente il senso generale della frase, ma in un modo potenzialmente peggiorativo per il lavoratore: in “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina”, la restrizione si applica alla sede di lavoro più vicina. Si enfatizza, pertanto, la relazione tra la possibilità della scelta e la vicinanza della sede di lavoro, come a dire che il lavoratore può scegliere la sede più vicina solo se ciò è possibile (senza specificare, come detto sopra, quale possa essere la causa ostativa). Nella frase non è spiegato che cosa succeda se la sede più vicina non sia disponibile, ma il diritto di scegliere una sede è fatto salvo e può essere esercitato, presumibilmente, su un’altra sede.
In “Il lavoratore di cui al comma 3, ove possibile, ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina”, la restrizione si applica al diritto: è il diritto a essere vincolato alla possibilità, non la scelta. Con questa formulazione, il diritto potrebbe non essere fatto salvo in ogni caso, ma valere solamente ove possibile. Paradossalmente, la motivazione ostativa potrebbe essere l’impossibilità di scegliere la sede più vicina; il diritto, cioè, si perderebbe del tutto (e non potrebbe essere esercitato su sedi alternative) se la sede più vicina non fosse disponibile.
Sottolineo che la differenza tra le due formulazioni è sottile; anche nel secondo caso si potrebbe argomentare che lo spirito sia da ricondurre al primo; che, cioè, ove possibile si riferisca al diritto di scegliere la sede più vicina, ma non escluda la possibilità di sceglierne altre.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tra le funzioni dei due punti, se non sbaglio, vi è anche quella di indicare – con la proposizione che li segue – le conseguenze della proposizione che li precede.
Nella frase “Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali” la proposizione “ha detto di volermi raggiungere” è una conseguenza della chiamata, ma l’atto di fornire le indicazioni stradali durante il lavoro non lo è, almeno
direttamente.
In casi come questo è preferibile separare le eventuali proposizioni alla destra dei due punti con altri segni (punto e virgola, punto fermo), così da segnare un confine tra ciò che è conseguenza della parte del discorso prima dei due punti e ciò che non lo è?
Nell’esempio summenzionato, le soluzioni potrebbero essere queste:
“Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere; e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali”.
“Mi ha chiamato Valentina: ha detto di volermi raggiungere. Mentre ero impegnato con il lavoro, (io) le ho fornito le indicazioni stradali”.
Quale sarebbe la soluzione consigliata, considerando anche quelle che non ho ipotizzato?
DOMANDA:
Più che una conseguenza, i due punti segnalano che seguirà una giustificazione, una motivazione, una spiegazione dell’evento o dello stato di cose introdotto prima, o del perché un evento o uno stato di cose sia stato introdotto prima. In questa frase, ai due punti segue una spiegazione della descrizione: “I soffitti a travicelli, freddo d’inverno, caldo d’estate, non potevo aprire la finestra, sempre qualcuno mi faceva brutti segni: Roma era così” (Anna Banti, Artemisia, 1948). Se capovolgiamo il periodo, la descrizione diviene la spiegazione della proposizione “Roma era così”: “Roma era così: i soffitti a travicelli, freddo d’inverno, caldo d’estate, non potevo aprire la finestra, sempre qualcuno mi faceva brutti segni”. Le due proposizioni separate dai due punti, insomma, sono tra di loro in una relazione di spiegazione reciproca.
Nel suo esempio, il fatto che Valentina abbia detto qualcosa non è una conseguenza del fatto che ha chiamato; non è neanche, però, una spiegazione di questo fatto: è, piuttosto, una motivazione, ovvero la spiegazione del perché lo scrivente abbia introdotto il fatto della chiamata di Valentina. Potremmo dire che i due punti, in questo caso, sostituiscono un’espressione come “L’ho detto perché”: “Mi ha chiamato Valentina. L’ho detto perché ha detto di volermi raggiungere e io, mentre ero impegnato con il lavoro, le ho fornito le indicazioni stradali”.
Per quanto riguarda la prosecuzione della frase, la punteggiatura va scelta in base alla relazione semantica che si intende esprimere tra l’evento della dichiarazione di Valentina e quello della comunicazione da parte dello scrivente. La prima variante della frase, senza segni, suggerisce che i due eventi siano direttamente consequenziali, come se tutta la parte del periodo che va dai due punti al punto finale serva da motivazione per la parte che precede i due punti. Questa soluzione è legittima e si adatta bene a una situazione in cui lo scrivente stia raccontando gli eventi in modo semplice. Non convince la variante con il punto e virgola, che non chiarisce quale rapporto ci sia tra la dichiarazione e la comunicazione. Quella con il punto fermo, invece, è valida: rispetto a quella senza segni separa i due eventi, rendendoli autonomi. In virtù di questa autonomia, “mentre ero impegnato con il lavoro” risulta più rilevante rispetto all’altra variante; in questo modo, lo scrivente potrebbe far rilevare di aver interrotto il proprio lavoro con un certo fastidio per rispondere a Valentina.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Marco pensò a cose che solo lui poteva sapere”, vuoi per l’assenza di altre persone, vuoi per il contesto testuale, è chiaro che il pronome lui si riferisca al soggetto, cioè Marco.
Ma in un esempio come “Marco aveva salutato Luigi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere” mi pare che il referente del pronome sia meno diretto.
Mi piacerebbe ricevere la vostra opinione; nonché, se possibile, qualche indicazione per destreggiarsi in situazioni semantiche simili.
Per inciso, mi torna in mente la differenza d’impiego tra proprio e suo, per distinguere l’attribuzione dell’aggettivo al soggetto o al complemento).
RISPOSTA:
Il pronome personale si riferisce al tema più vicino tra quelli possibili. Per esempio, se nella sua frase ci fosse Maria, oppure i coniugi Rossi, al posto di Luigi, il riferimento sarebbe ancora chiaro: “Marco aveva salutato Maria / i coniugi Rossi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere”. Nella sua frase, invece, il tema Luigi è il più vicino tra quelli possibili e, pertanto, si sostituisce a Marco come bersaglio di lui.
Il lettore rimane comunque dubbioso sulla correttezza del riferimento, perché la proposizione coordinata mantiene Marco come soggetto e, in generale, per il senso della frase, che sembra ruotare tutto intorno a Marco. Per ovviare a questa ambiguità si possono usare forme referenziali (che possiamo chiamare proforme) più esplicite, per esempio quest’ultimo, oppure lo stesso Luigi, se vogliamo puntare a Luigi. Se vogliamo puntare a Marco, possiamo rafforzare lui con stesso, che rimanda al soggetto della frase. Altre proforme che rimandano inequivocabilmente al soggetto (ma che in questa frase non possono essere usate, a meno che non la si riformuli diversamente) sono il pronome riflessivo sé (stesso) e, come da lei ricordato, l’aggettivo possessivo proprio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Alcuni giorni addietro ho letto l’articolo 2800333, in cui un utente ha introdotto un argomento, a me caro, che avrei voluto esporre a mia volta. Benché le vostre chiose siano state come al solito chiare e dettagliate, permangono in me punti oscuri sull’alternativa congiuntivo/condizionale nella reggenza di quando.
Già prima di consultare il vostro intervento, avevo condotto svariate ricerche su Internet (Google libri, siti di linguistica, ecc.), ma, in tutta onestà, confesso di non aver ancora afferrato la regola che ne sancisce l’uso. Il setaccio on line ha prodotto, tra le numerosissime occorrenze, anche i seguenti risultati:
“Avrebbe continuato a farlo anche quando lui sarebbe sparito per sempre” (C. Castellaneta).
“Avrebbe potuto irritarla quando avrebbe voluto” (A. Moravia).
“Ti si chiamerebbe quando si fosse finito” (A. Moravia).
“Sapevo che quando sarebbero venuti gli infermieri, non lo avrei mai più visto” (A. Elkann).
“Parlava di dedicarsi alla scrittura, quando fosse andato in pensione” (autore non identificato).
Aggiungo in calce anche una frase estratta da traduzione di Edgar Allan Poe a cura di Elio Vittorini (si discosta dal pernio dell’argomento, ma anche qui vi è un uso del condizionale in cui, secondo me, si potrebbe scegliere il congiuntivo): “Si decise allora di informare della mia presenza a bordo il primo uomo che sarebbe venuto giù”.
Come già detto, queste sono solo alcune delle occorrenze. In generale, ho riscontrato un’alternanza dei due modi, anche all’interno di quei casi nei quali – se ho ben interpretato la semantica – quando ha un valore paragonabile a quello di ‘nel momento in cui’.
Mi permetto di domandarvi se:
1) Si possa sempre usare il congiuntivo, indipendentemente dalle sfumature che di volta in volta potrebbe assumere quando, oppure ci sono casi in cui è obbligatorio il condizionale?
2) Esistono appunto dei casi in cui si usa solo il congiuntivo e altri in cui invece si usa solo il condizionale (sempre in riferimento a quando ‘nel momento in cui’), oppure i due modi rivaleggiano negli stessi ambiti e la scelta da parte dello scrivente-parlante dipende esclusivamente dal registro (il congiuntivo è più formale del condizionale)?
3) Nel quesito già citato, l’esempio dell’utente è “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. La forma “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sarebbe stata comunque accettabile, anche se meno formale?
RISPOSTA:
1) Il congiuntivo è sempre possibile, sia in un contesto ipotetico, sia in uno di futuro nel passato. In tutti gli esempi letterari da lei proposti, non a caso, si può sostituire il condizionale con il congiuntivo.
2) Se la proposizione reggente è una apodosi, la proposizione subordinata introdotta da quando richiede il congiuntivo: “Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui fosse venuto” (non *”Sono certo che gli avrei detto tutto quando lui sarebbe venuto”); se, però, l’evento della proposizione al condizionale passato è futuro rispetto al passato, il condizionale nella subordinata torna a essere accettabile, perché la subordinata si interpreta come una temporale con possibile sfumatura ipotetica: “Pensai che gli avrei detto tutto quando fosse / sarebbe venuto”. In questo caso, in cui sono possibili entrambi i modi, il congiuntivo è la scelta più formale.
Si noti che in questi casi lo scarto tra protasi e temporale è sottile; a distinguerle è spesso solamente il contesto (negli esempi che ho portato sopra, è il tempo del verbo della proposizione principale).
3) Da quanto appena detto discende che “Quando sarebbe giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume” sia accettabile, sebbene meno formale di “Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”. In ogni caso, il congiuntivo nella proposizione introdotta da quando non ha valore ipotetico: il giungere dell’alba, infatti, è un fatto ineludibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo la vostra consulenza per alcuni chiarimenti sulle seguenti forme ed espressioni.
1. All’interno di una narrazione fatta con il passato remoto, per indicare ciò che è avvenuto prima sarebbe più opportuno usare il trapassato prossimo anziché lo stesso passato remoto?
a. “Quando arrivò Michele non era in casa perché aveva voglia di fare una passeggiata. Poco prima di uscire incontrò sul pianerottolo la vicina che gli disse:…”.
b. “Quando arrivò, Michele non era in casa perché aveva avuto voglia di fare una passeggiata. Poco prima di uscire aveva incontrato sul pianerottolo la vicina che gli aveva detto:….”.
2. L’espressione “è sbagliato fare agli altri ciò che non vorresti essere fatto a te” è corretta? Ritengo che la forma debba essere “è sbagliato fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te”.
RISPOSTA:
La funzione primaria del trapassato è proprio quella di descrivere un evento precedente a un altro a sua volta passato. Nell’italiano contemporaneo, il trapassato remoto, che dovrebbe essere usato nel caso in cui l’evento di riferimento sia al passato remoto, è poco gradito, in favore del trapassato prossimo. La frase 1b, pertanto, è senz’altro ben composta. La frase 1a, però, non è automaticamente composta male, soprattutto nel secondo periodo. Il primo periodo rappresenta l’evento dell’ avere voglia con un imperfetto; nel caso specifico la formulazione risulta incoerente: “perché aveva voglia di fare una passeggiata” non spiega affatto perché Michele non fosse in casa. Cambiando l’evento, però, l’imperfetto può divenire accettabile: per esempio in “Michele non era in casa perché c’era troppo caldo”. Come si vede, l’imperfetto, grazie alla sua funzione di tempo di sfondo, può descrivere un evento o una situazione iniziati in precedenza e ancora validi nel momento in cui avviene l’evento di riferimento. Inaccettabile sarebbe stato, comunque, il passato remoto: *”Michele non era in casa perché ebbe voglia di fare una passeggiata”.
Nel secondo periodo, la formulazione con i due passati remoti è legittima al pari di quella con i trapassati; tra le due cambia il momento di riferimento: per la prima coincide con quello dell’enunciazione, cioè ora, per la seconda, invece, è quello dell’ uscire. In altre parole, nel secondo periodo della frase 1a abbiamo due piani temporali: Momento dell’enunciazione: “(Ora dico che) Momento dell’evento: poco prima di uscire incontrò sul pianerottolo la vicina che gli disse: Nella frase 1b, invece, abbiamo tre piani temporali: Momento dell’enunciazione:”(Ora dico che) Momento di riferimento: poco prima di uscire Momento dell’evento: aveva incontrato sul pianerottolo la vicina che gli aveva detto: La frase 1a sarà certamente preferita in un contesto informale (o in uno scritto che imiti l’andamento del parlato informale) ; la 1b è, invece, più accurata e più adatta allo scritto in generale e al parlato formale.
La frase 2 presenta una sintassi scorretta, sebbene vicina a una costruzione ben nota e antica (la completiva all’infinito senza identità di soggetto), già discussa in questa risposta di DICO, a cui rimando per approfondimenti. Proprio questa vicinanza favorisce l’uso di una simile frase, nonostante la sua scorrettezza. A rendere la costruzione scorretta è il verbo vorresti, che non regge una completiva, ma forma con l’infinito un unico sintagma verbale. Quest’unico sintagma si trova, nella frase, ad avere due soggetti, tu per vorresti e che per essere fatto: una circostanza, come si può immaginare, da evitare. La variante con il congiuntivo, invece, non presenta difficoltà. Si potrebbe, però, ulteriormente migliorare sottintentendo il secondo che, per evitare la sgradevole ripetizione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così mi attivo per la ricerca”, vorrei sapere se prima di avvisami bisogna inserire la virgola.
Inoltre, nello scritto è meglio usare la forma Mi sono ricordato, oppure ricordo?
RISPOSTA:
Cominciamo dalla virgola dopo avvisarmi, fortemente richiesta per via della necessità di segnalare la separazione tra due unità informative all’interno di questo enunciato. La prima contiene il periodo ipotetico, la seconda la coordinata alla principale, con valore consecutivo.
Oltre alla virgola, che è la soluzione più semplice, è possibile anche il punto e virgola, se si vuole enfatizzare l’autonomia dell’atto dell’attivarsi rispetto a quello dell’avvisare. Possibile anche il punto fermo, che renderebbe ancora più autonomo e rilevante l’atto dell’attivarsi. Con il punto fermo, inoltre, il secondo enunciato può assumere due forme: “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così mi attivo per la ricerca” e “Se ti vengono in mente altre mete avvisami. Così, mi attivo per la ricerca”. La seconda variante isola così, sottolineando il collegamento logico tra la premessa dell’avvisare e la conseguenza dell’attivarsi.
Per quanto riguarda la virgola prima di avvisami, è buona norma separare con la virgola la subordinata preposta alla sua reggente dalla reggente stessa. Tale norma ha a che fare con la sintassi del periodo più che con la sintassi dell’informazione; se la subordinata, al contrario, è posposta, l’inserimento della virgola risponde a ragioni più informative che sintattiche.
Calando il discorso teorico sui suoi esempi, abbiamo le seguenti soluzioni: “Se ti vengono in mente altre mete, avvisami”, ma “Mi scusi se la disturbo”. Possibile, per la verità, anche “Se ti vengono in mente altre mete avvisami”, perché la subordinata ipotetica (ovvero la protasi del periodo ipotetico) si trova regolarmente prima della reggente (l’apodosi), visto che rappresenta la condizione dell’evento descritto nell’apodosi. La variante senza virgola è particolarmente efficace se la frase continua dopo la reggente con altre proposizioni coordinate o subordinate, perché permette di evitare una proliferazione di virgole (ma è una considerazione da fare caso per caso). È proprio questo il caso di “Se ti vengono in mente altre mete avvisami, così…”.
Per quanto riguarda l’opposizione tra mi sono ricordato e ricordo, la variante pronominale del verbo contiene, proprio in forza del pronome, una sfumatura di coinvolgimento emotivo del soggetto nel processo. Per questo motivo è più tipica in discorsi informali, solitamente incentrati su esperienze personali. Sempre per questo motivo, inoltre, ricordo è tipicamente usato con valore fattitivo (su questo concetto si può vedere la risposta n. 280013 nell’archivio di DICO), cioè nel senso di ‘far ricordare a qualcuno’.
Faccio notare che mi sono ricordato può essere confrontato con ho ricordato: “Ieri mi sono ricordato dell’appuntamento / ho ricordato l’appuntamento quando era troppo tardi”, ma anche con ricordo, in un contesto presente: “Mi sono ricordato / ricordo che Luca ci ha / aveva invitato a pranzo per oggi”. Molto strano sarebbe *”Ho ricordato che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”, a meno che il verbo non sia usato con valore fattitivo: “Ho ricordato a Mario che Luca ci aveva invitato a pranzo per oggi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi seguenti i tempi sono corretti?
1. “Ho pagato senza che sia stato fatto quanto accordato”.
2. “Ho pagato senza che fosse stato fatto quanto accordato”.
3. “Ho pagato senza che fosse fatto quanto accordato”.
Potreste spiegarmi il perché?
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette, ma descrivono situazioni leggermente diverse.
La scelta del tempo del congiuntivo della proposizione subordinata (qui di tipo esclusivo) dipende proprio dalla consecutio temporum: secondo questa organizzazione del verbo, il congiuntivo passato (sia stato fatto) indica anteriorità rispetto al presente, quindi la prima frase descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in seguito alla (e nonostante la) mancata realizzazione del lavoro. Vero è che ho pagato non sia presente, ma passato prossimo; nella prima frase, però, questo tempo indica la situazione attuale, che è il risultato dell’azione del pagare (come se significasse ‘mi trovo adesso ad aver pagato’). Il congiuntivo trapassato (fosse stato fatto) indica anteriorità rispetto al passato, quindi la seconda frase descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in passato in seguito alla (e nonostante la) mancata realizzazione del lavoro. Qui il passato prossimo assume il suo valore proprio di passato. Lo stesso vale per la terza frase, che, in forza del congiuntivo imperfetto (fosse fatto), descrive la situazione in cui il pagamento sia stato fatto in passato, contemporaneamente alla mancata realizzazione del lavoro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sempre avuto la tendenza a usare la congiunzione quando con valore ipotetico, e facendola di conseguenza seguire dal congiuntivo, anche in quei casi in cui sarebbe stato possibile, o forse addirittura obbligatorio, il condizionale con valore temporale.
In un frase quale
“Quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”
Il congiuntivo è valido, nonostante il giungere dell’alba sia una certezza e non un’eventualità?
Questa particolare tendenza deriva in parte dalle mie letture giovanili dell’opera di Hemingway, in cui sono frequenti costruzioni ipotetiche simili a quella portata alla vostra attenzione.
RISPOSTA:
La sua frase rifiuta una interpretazione ipotetica, sia a causa del contenuto della proposizione principale, sia per la costruzione temporale e per il contenuto della subordinata. L’evento del superare il fiume, infatti, appare situato nel futuro (ma dal punto di vista di una situazione passata); in una apodosi di periodo ipotetico al condizionale passato, invece, si presenta un evento situato nel passato (a volte un passato tendente al presente), che sarebbe avvenuto ma che sappiamo già non essere avvenuto, ad esempio: “Quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. Per cogliere con chiarezza la differenza tra costruzione propriamente ipotetica e al futuro nel passato (per un approfondimento di questo concetto si vedano le tante risposte al riguardo presenti nell’archivio di DICO), immagini la sua frase subordinata a un verbo di dire o di pensare al passato, che rappresenta il riferimento passato rispetto al quale l’evento del superare il fiume è futuro: “Il generale affermò che quando fosse giunta l’alba, l’esercito avrebbe superato il fiume”; in questo modo, l’apparente “stranezza” del congiuntivo svanisce.
in un contesto di futuro nel passato come quello della sua frase, il congiuntivo non solo è ammissibile, ma è la soluzione più formale rispetto al condizionale passato nella subordinata temporale, anche se descrive un evento inevitabile come il sorgere dell’alba. La funzione primaria del congiuntivo, infatti, è quella di segnalare, in un registro medio-alto, la subordinazione; esso veicola l’idea dell’eventualità solamente in contesti ipotetici.
Si noti che il contenuto della frase non sempre è sufficiente per stabilire se la frase sia al futuro nel passato o sia un periodo ipotetico dell’irrealtà; l’esempio fatto sopra è uno di questi casi: se lo manipoliamo allo stesso modo della frase sull’esercito, si trasforma da periodo ipotetico a descrizione di un evento futuro rispetto al passato: “Dissi che quando / se / qualora fosse venuto anche Luca, io avrei abbandonato il gruppo”. In questi casi è il contesto della frase a farci optare per l’interpretazione corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In analisi logica e grammaticale, come si analizza ci nelle espressioni: “CI incontreremo alle 16?”, “CI vedremo alle 16”?
I verbi incontrarsi e vedersi vanno considerati transitivi o intransitivi?
RISPOSTA:
Si tratta di un pronome personale atono, anche detto particella pronominale. In analisi logica va considerato parte integrante dei verbi incontrarsi e vedersi. Volendolo analizzare, esso sembra avere la funzione di complemento oggetto, ma questa è in contraddizione con il genere intransitivo di questi verbi.
Ricordo che in questi verbi, detti riflessivi reciproci o solamente reciproci, il pronome ci non ha il valore propriamente riflessivo di noi stessi, ma uno leggermente diverso, difficile da esprimere in altro modo: “Io e Luca dobbiamo incontrarci” significa non *’Io devo incontrare me stesso e Luca deve incontrare sé stesso”, ma ‘io devo incontrare Luca e Luca deve incontrare me’ (mentre “Io e Luca dobbiamo vestirci” significa esattamente ‘Io devo vestire me stesso e Luca deve vestire sé stesso’).
Aggiungo che entrambi i verbi in questione possono essere costruiti anche come intransitivi pronominali, in casi come “Stasera mi incontrerò / mi vedrò con Luca”, nei quali il pronome non ha alcun valore proprio (la frase non significa *’incontrerò / vedrò me stesso con Luca’) e serve solamente a sottolineare il coinvolgimento del soggetto nell’azione espressa dal verbo. In questi casi, in analisi logica non si può che considerare il pronome come parte integrante del verbo.
Sia che siano costruiti come reciproci, sia che siano costruiti come intransitivi pronominali, i due verbi sono intransitivi (e richiedono l’ausiliare essere).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale forme sono corrette?
1. Nonostante i nostri atteggiamenti da onnipotenti non potremmo / potremo mai fare a meno degli altri organismi del mondo vegetale e animale.
2. Dedichiamoli pure le attenzioni che meritano; magari come quelle che eventualmente destineremmo / destineremo a nobili personaggi come il Marchesino Eufemio.
3. Se ne sono andati minacciando che dopo questo attacco ne sarebbero seguiti / seguiranno altri.
4. È facile capire che non avremo / avremmo mai la fortuna di vivere realmente questa utopia.
5. Una situazione che farebbe sorgere una domanda legittima: “Chi difenderebbe / difenderà i diritti di coloro che, giustamente, non accetterebbero mai un pregiudicato alla guida di un governo?”
RISPOSTA:
La scelta tra indicativo futuro e condizionale presente nei suoi esempi è una questione non di correttezza, ma di scelta espressiva. Dipende, cioè, da come si vuole rappresentare l’evento, come un fatto che avverrà in futuro, o come la conseguenza di una condizione implicita (tranne che nella frase 3, che discuterò alla fine).
Nella frase 1, per l’appunto, se usiamo il futuro abbiamo una affermazione al futuro (non potremo mai fare a meno…); se, invece, usiamo potremmo esprimiamo una conseguenza, quindi lasciamo intendere che ci sia una condizione implicita: “Non potremmo mai fare a meno degli altri organismi (se anche ci provassimo)”.
Nella frase 2, l’avverbio eventualmente suggerisce che l’atto del destinare sia condizionato, quindi favorisce il condizionale (eventualmente equivale a una protasi come “se volessimo” o “se dovessimo scegliere” o simili). Il futuro, però, non è escluso: rispetto al condizionale, pone il destinare come fattuale, certo (nella mente del parlante); eventualmente, del resto, può anche essere interpretato come ‘se vorremo’, o ‘se dovremo scegliere’ o simili. Attenzione, dedichiamoli non è corretto, perché il pronome enclitico li ha la funzione di complemento oggetto: dedichiamoli significa ‘dedichiamo queste persone’. Il senso ricercato, qui, è ‘dedichiamo a queste persone’, che si ottiene con il pronome enclitico gli, quindi dedichiamogli, come soluzione più informale (oggi largamente accettata anche nello scritto di media formalità), oppure con dedichiamo loro o dedichiamo a loro, come soluzione più formale. Si noti che dedichiamo loro è ambiguo, perché significa sia ‘dedichiamo queste persone’, sia ‘dedichiamo a queste persone’: è una piccola stranezza della lingua italiana, che, comunque, si risolve quasi sempre grazie al senso generale della frase.
La frase 4 risponde alla stessa logica della 1 e della 2: la scelta tra indicativo futuro e condizionale presente è legata al senso ricercato, un fatto futuro (non avremo mai la fortuna) o una conseguenza condizionata da un altro evento, implicito, che potrebbe accadere (non avremmo mai la fortuna). Va detto che, volendo usare il condizionale, la costruzione con non avremmo mai la fortuna sarebbe un po’ insolita (ma non scorretta): comunemente le si preferirebbe non potremmo mai avere la fortuna, proprio come nella frase 1.
La frase 6 è analoga alle altre.
La frase 3 presenta una situazione diversa, perché contiene il condizionale (che non a caso qui è passato, non presente) nella funzione di indicatore di futuro nel passato, non di conseguenza di una condizione. In questo caso, la scelta deve dipendere dalla consecutio temporum: il verbo reggente la proposizione in questione è minacciando, a sua volta dipendente da se ne sono andati, che è passato. Per esprimere un evento futuro rispetto a un altro evento passato si usa proprio il condizionale passato: la scelta più regolare è, pertanto, sarebbero seguiti. Il futuro seguiranno non può dirsi scorretto: può essere considerato legittimo se lo mettiamo in relazione non con se ne sono andati, ma con dopo questo attacco, equivalente a in futuro. Una soluzione come questa potrebbe essere giudicata più trascurata, meno precisa, rispetto a quella del condizionale passato, ma potrebbe anche dipendere da una scelta espressiva consapevole, diretta a rappresentare la realtà in modo più vivido.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Porto alla vostra attenzione il seguente brano:
“Mettiamo che il medico voglia approfondire l’origine dei tuoi disturbi. Tra uno o due mesi potrebbe suggerirti un semplice prelievo venoso per controllare i tuoi valori; e se, nel frattempo, fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, potrebbe prescriverti un esame diagnostico più invasivo”.
Apprezzerei la vostra opinione relativamente alla validità di tre aspetti:
1. Il punto e virgola prima della congiunzione e;
2. L’uso del congiuntivo trapassato (fosse maturata), anziché del congiuntivo imperfetto, nella protasi, per introdurre un’ipotesi di cui non si ha contezza al momento dell’enunciazione;
3. L’accordo del sostantivo plurale mesi con l’aggettivo numerale due nonostante il precedente uno avrebbe richiesto il singolare. In questo caso sarebbe stato maggiormente formale ripetere il sostantivo (“Tra un mese o due mesi…”)?
RISPOSTA:
Il punto e virgola è corretto: separa, all’interno di un enunciato complesso, due unità informative, la seconda delle quali è ulteriormente divisa in più unità informative, ben separate da virgole.
Quello che non convince, piuttosto è il connettivo e dopo il punto e virgola, che introduce quella che si rivela essere un’alternativa. Propongo questa correzione: “… i tuoi valori; oppure, se nel frattempo fosse maturato in lui il sospetto della presenza di una patologia severa, …”.
Il congiuntivo trapassato è ugualmente corretto: indica che il parlante giudichi l’evento improbabile. Vista la delicatezza dell’argomento, si tratta di una sfumatura fortemente indotta dalle convenzioni della cortesia, per sottolineare che l’ipotesi peggiore è anche quella più remota. Remota, ma sempre possibile, come rivela l’apodosi al condizionale presente (potrebbe prescriverti).
L’accordo di mesi con uno o due, infine, segue la regola dell’accordo al plurale tra referenti di generi diversi e una proforma che li raggruppa. Si pensi a “Ieri ho incontrato i miei amici Laura, Giulia e Andrea”. Tale regola è largamente accettata, anche in contesti formali, perché evita ridondanze come un mese o due mesi, o le mie amiche Laura e Giulia e il mio amico Andrea. Rimane, però, possibile, e tutto sommato più preciso (quindi anche più formale), fare tale distinzione, se il contesto lo richiede.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho qualche dubbio sull’uso della virgola, precisamente:
“Vado al cinema, dove incontrerò Lucia.
In questa frase è corretto inserire la virgola prima di dove? in quali casi la congiunzione e può essere preceduta dalla virgola?
RISPOSTA:
Nella frase in questione la virgola è ammessa, ma non necessaria; il suo inserimento dipende dal senso che si vuole dare alla frase. Senza virgola, il senso sarà: ‘Vado proprio in quel cinema in cui incontrerò Lucia”; con la virgola sarà: ‘Vado al cinema, e lì incontrerò Lucia’. La virgola, cioè, separa due unità informative, delle quali una è di primo piano (qui coincidente con la proposizione principale), la seconda è di sfondo (qui la proposizione relativa introdotta da dove). Con la virgola, quindi, la proposizione relativa diviene accessoria (e viene detta esplicativa ), mentre senza virgola essa è informativamente unita alla principale, di cui limita il senso (e viene, per questo, detta limitativa). Come si vede, infatti, il cinema dove incontrerò Lucia è un’informazione unitaria, nella quale dove incontrerò Lucia individua un cinema preciso (da qui la funzione limitativa), quello nel quale avverrà l’incontro. Nella variante con la virgola, invece, il cinema può essere uno qualsiasi, non viene identificato, e l’incontro è un evento che si aggiunge a quello dell’andare al cinema, senza dire niente su quale sia il cinema scelto. Altre risposte su questo argomento, con frasi diverse e altri dettagli, possono essere trovate nell’archivio di DICO usando la parola chiave limitativa.
Per quanto riguarda la e, la questione è analoga: la virgola separa informativamente la proposizione o il sintagma introdotti dalla congiunzione, rendendoli di sfondo rispetto a quelli con i quali sono coordinati. Si veda questo esempio letterario: “I carabinieri di Bovino avevano incontrato la carrozza colla quale erano scappati i domestici della Dal Colle, ed erano accorsi in fretta” (Giovanni Verga, Certi argomenti, 1876). La proposizione coordinata preceduta da virgola (ed erano accorsi in fretta ) diviene, proprio in virtù della virgola, di sfondo rispetto al resto della frase. Questa organizzazione fa assumere alla coordinata una sfumatura consequenziale (‘e per questo erano accorsi in fretta’) e, nello stesso tempo, fa risaltare l’unità informativa precedente e l’evento in essa descritto, che diviene di primo piano. Senza virgola, invece, la coordinata sarebbe parte di una unica unità informativa nella quale il contenuto delle due proposizioni sarebbe sullo stesso piano e ugualmente importante.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei risolvere un dubbio circa l’uso di “quale” nella seguente frase: “Fibrillazione atriale: ruolo dei farmaci anticoagualanti quale approccio terapeutico”. È corretto? O sarebbe più indicata la forma “nell’approccio terapeutico”?
Grazie.
RISPOSTA:
Il dubbio è essenzialmente concettuale: va, cioè, chiarito se i farmaci anticoagulanti rappresentano da soli un approccio terapeutico (nel qual caso va bene quale) o fanno parte dell’approccio terapeutico (nel qual caso va bene nel ).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È più corretto dire: “Se vuoi vengo prima a casa tua” o “Se vuoi raggiungo prima casa tua”?
RISPOSTA:
Venire e raggiungere sono parzialmente sinonimi, cioè condividono parte del loro significato; difficilmente, però, possono essere usati in modo interscambiabile. Nella frase da lei proposta, per esempio, “raggiungere casa tua” non ha lo stesso significato di “venire a casa tua”, perché raggiungere indica che nel processo di avvicinamento ci sia stato uno sforzo o una gradazione: infatti si dice raggiungere un obiettivo (non *venire a un obiettivo), raggiungere la vetta, “finalmente ti ho raggiunto”, “la temperatura ha raggiunto i 40 gradi” ecc. Più vicino a raggiungere è arrivare, che, però, enfatizza meno la gradualità del processo e concentra più l’attenzione sul traguardo. Venire, invece, ha un significato più ampio, senza tratti semantici secondari.
“Se vuoi, raggiungo prima casa tua”, quindi, fa pensare che la casa dell’interlocutore sia lontana o difficile da, appunto, raggiungere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho notato che il 90% dei miei studenti abusa dell’aggettivo determinato, usato prevalentemente come pre-modificatore: determinate parole, determinate persone, determinati momenti, determinato gruppo etc. Ha chiaramente un valore indefinito e vago (leggi ‘inutile’) e non indica affatto il significato di ‘prestabilito, prefissato’. Non mi spiego la frequenza d’uso che ha dei valori incredibilmente alti negli elaborati in italiano dei miei studenti e mi chiedo cosa provochi questo (ab)uso.
RISPOSTA:
Di norma, gli aggettivi qualificativi assumono una funzione diversa se preposti o posposti al nome a cui si riferiscono: nel primo caso essi sono detti descrittivi e servono a qualificare emotivamente l’oggetto designato dal nome; nel secondo caso sono detti restrittivi e indicano una qualità oggettiva posseduta dall’oggetto, tale da distinguere l’oggetto da altri simili. Così “Il verde prato in cui giocavo da bambino” comunica una partecipazione emotiva all’enunciato, assente in “Il prato verde in cui giocavo da bambino” (al netto del contenuto emotivo complessivo dell’enunciato).
Alcuni aggettivi assumono, a seconda della posizione rispetto al nome, non solo una funzione, ma anche un significato diverso: “Un caro amico” / “Un amico caro”, “Una vera sorpresa” / “Una sorpresa vera”, “Un povero artigiano” / “Un artigiano povero”. All’interno di quest’ultima categoria, esiste un sottogruppo di aggettivi che, in posizione prenominale, perdono quasi del tutto il proprio significato e assumono la funzione di enfatizzare o intensificare l’oggetto designato dal nome: “Un forte mal di testa” / “Un mal di testa forte”, “Un alto commissario” / “Un commissario alto”, “Una discreta somma” / “Una somma discreta”. Tra questi ultimi facciamo rientrare certo e il sinonimo determinato. Preposti al nome, questi aggettivi sono desemantizzati (come osservato da lei), quindi non aggiungono alcuna qualità al nome, ma ne intensificano, soggettivamente, il valore. Possiamo assimilare l’uso di questi strumenti a quello, altrettanto diffuso, di avverbi del tutto desemantizzati come praticamente, ovviamente, di fatto.
Fermo restando che questa funzione dell’aggettivo è codificata e accettata nello standard italiano, bisogna chiedersi come mai un uso che serve solamente a dare enfasi al discorso, senza aggiungere informazioni (e che, pertanto, deve essere limitato al parlato informale e a pochi altri contesti), sia tanto ricorrente nel parlato (e a volte anche nello scritto) dei giovani. È possibile che simili aggettivi funzionino come riempitivi di pause, cioè servano ad allungare l’enunciato in modo da dare il tempo all’emittente di pensare al segmento successivo. Accanto a questa necessità, si può individuare anche l’intento di dare maggior peso, pragmatico, alle parole, per compensare una insicurezza di fondo sul contenuto semantico delle stesse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho sentito diverse volte questa frase: “Fa tutta la differenza del mondo”. Con essa si intende che al mondo ci sono tantissime differenze in ogni campo, quindi vorrebbe dire che fa una differenza enorme?
RISPOSTA:
Il senso dell’espressione idiomatica, chiaramente iperbolica, è che fare una scelta rispetto a un’altra, pure possibile, rappresenta la distanza maggiore possibile tra due opposti. Tra le due scelte, cioè, si pone tutta la differenza che si può trovare nel mondo, quindi tutta la differenza possibile.
Il mondo è usato in molte espressioni di vario genere, per definire il massimo grado di qualcosa; lo troviamo come termine in relazione al quale esprimere una qualità superlativa: “La più bella del mondo”, oppure per definire una quantità enorme: “Ti voglio un mondo di bene”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gli esempi sotto riportati sono intercambiabili, nonostante qualche sfumatura di significato tra l’uno e l’altro? E soprattutto sono validi?
Alle volte mi trovo alle prese con tali opzioni e sono indecisa su quale preferire per scrivere costruzioni sintatticamente inappuntabili.
Paolo era sostenuto dai punti di forza del suo lavoro, che…
1) esaltavano la sua indole
2) ne esaltavano l’indole
3) gli esaltavano l’indole.
Marco osservò attentamente Anna:
4) le vide i capelli arruffati
5) ne vide i capelli arruffati
6) vide i suoi capelli arruffati.
RISPOSTA:
Nella prima frase, la soluzione migliore è la 1, che evita qualunque ambiguità, perché l’aggettivo possessivo rimanda con sicurezza a Paolo.
La 2 non è scorretta grammaticalmente, né è da scartare, ma è meno chiara, perché, sebbene il nome indole si adatti soprattutto a un referente umano, quindi a Paolo, il suo lavoro non può essere escluso comereferente (la frase, cioè, potrebbe significare che i punti di forza del suo lavoro esaltavano l’indole del suo lavoro) . Il pronome gli della terza soluzione è da scartare:equivale, infatti, ad a lui, quinditrasforma la frase in “esaltavano l’indole a lui”, inaccettabile. C’è da dire cheesempi del genere sono rinvenibili (ma non per questo devono essere riprodotti) in produzioni poco sorvegliate; derivano probabilmente dall’analogia con espressioni completabili tanto con il complemento di termine quanto con quello di specificazione, come”Gli strinse la mano” / “Ne strinse la mano” (e quindi anche “Strinse la sua mano”) , “Gli toccò la spalla” / “Ne toccò la spalla” (quindi anche “Toccò la sua spalla”) , “Gli allaccia le scarpe” / “Ne allaccia le scarpe” (quindi anche “Allaccia le sue scarpe”) e simili.
Nella seconda frase le soluzioni 5 e 6 sono corrette e non ambigue, quindi la scelta tra l’una e l’altra è una questione di stile. Volendo essere molto precisi, in realtà, le due varianti hanno una sfumatura di differenza sul piano informativo: la prima mette in evidenza il sintagma i capelli arruffati, come se Marco si concentrasse sui capelli di Anna, che erano arruffati; la seconda, invece, pone l’attenzione solo su arruffati, come se Marco notasse non i capelli in generale, ma il particolare dell’aspetto dei capelli.
La soluzione 4 è simile alla 3, con la differenza che vedere, come tutti i verbi di percezione,tollerala doppia costruzione con il complemento di termine o quello di specificazione (succede lo stesso per sentire, come nella tipica frase”Il dottore sente il polso al / del paziente”, o per odorare: “Amo odorare i capelli alla / della mia fidanzata”) . Come si vede dagli esempi, comunque, il complemento di termine retto daiverbi di percezione è una soluzione di registro basso. L’unico verbo semanticamente affine a questo gruppo che ammette entrambe le costruzioni e per il quale il complemento di termine si può considerare d’uso medio è toccare (e sinonimi, sfiorare, colpire, premere…) .Non a caso,esempi di “Le vede i capelli” on line sono quasi assenti (nessuna attestazione, invece, risulta per “le vide i capelli”) , mentre “Le tocca i capelli” conta migliaia di attestazioni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come spiegare il valore della particella pronominale (o avverbio di luogo?) ne nella seguente frase: “Starsene tranquilli su una poltrona”? Se dico “Me ne vado” è tutto chiaro: il ne significa ‘da qui’, ma nella succitata frase non ne colgo il senso.
RISPOSTA:
Starsene è un verbo procomplementare, ovvero un verbo dal significato non precisamente letterale formato con l’aggiunta di uno o più pronomi atoni a un comune verbo. La classe di questi verbi, rientrante nella più ampia categoria dei verbi pronominali, è popolosa: al suo interno troviamo farcela ‘riuscire’, piantarla ‘smettere di comportarsi in modo fastidioso’, volerci ‘richiedere, abbisognare’, spassarsela ‘divertirsi’, intendersela ‘avere un rapporto speciale con qualcuno, specialmente segreto’, intendersene ‘essere esperto’ e tanti altri.
Come si può vedere in questi esempi, il gruppo pronominale aggiunto al verbo base non prende un significato preciso né una funzione contemplata nella tradizionale analisi logica; bisogna considerarlo, piuttosto, come parte integrante della parola, alla stregua di un suffisso (per esempio come -zione in costruzione). Il significato complessivo del verbo procomplementare può essere vicino a quello del verbo base, a cui aggiunge una sfumatura di partecipazione emotiva (come starsene rispetto a stare), oppure molto distante (come piantarla rispetto a piantare). Va anche detto che spesso (ma non sempre) i verbi procomplementari si contruiscono diversamente dal verbo base: intendere è transitivo, intendersene richiede un complemento indiretto (riconoscibile come complemento di specificazione nell’ottica dell’analisi logica, o come oggetto indiretto nell’ottica della grammatica valenziale); stare e starsene, invece, hanno la stessa costruzione.
Anche andarsene rientra nella categoria dei verbi procomplementari: più che avere un significato autonomo, infatti, il gruppo pronominale finale –sene arricchisce il verbo base della stessa sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto all’azione riconoscibile in starsene.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono corrette le costruzioni seguenti?
1. Se il tecnico che dovrò pagare di tasca mia dovesse rimbalzare la responsabilità del guasto al gestore, io avrei subìto un prolungamento del disservizio.
2. Pubblicherei l’intervista se avessi ricevuto il consenso dell’intervistato.
La seconda è per me più ostica, perché non sono certa se il congiuntivo trapassato possa collegarsi a un evento di fatto incerto ma che, se si compisse, sarebbe successivo all’enunciazione e precedente a quello determinato dall’apodosi.
La costruzione numero 2 sarebbe all’atto pratico il calco di uno dei periodi ipotetici canonici (condizionale presente/congiuntivo imperfetto) ma con il congiuntivo trapassato scelto per sottolineare lo scarto temporale tra l’evento della protasi e quello dell’apodosi.
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni sono possibili. Nella prima il condizionale passato presenta l’evento del subire come già avvenuto al momento dell’avverarsi della ipotesi (dovesse rimbalzare), come per sottolineare che il disservizio non inizi al momento dell’avverarsi dell’ipotesi, ma prosegua, essendo iniziato precedentemente all’avverarsi stesso dell’ipotesi.La seconda è meno tipica, ma non per la ragione da lei addotta: la mancata ricezione del consenso, infatti, precede tanto l’evento dell’apodosi quanto il momento dell’enunciazione. Rispetto a ora (momento dell’enunciazione), cioè, il consenso è presentato come non ricevuto prima. In sintesi: “Dico (ora) che se avessi ricevuto (ieri) il consenso dell’intervistato pubblicherei (ora o in futuro) l’intervista”.
Se volessimo, invece, situare nel futuro tanto la ricezione del consenso quanto la pubblicazione dell’intervista, non ci sarebbe ragione di costruire la protasi con il trapassato (perché non si può presentare come impossibile un fatto che non si è ancora avverato); la costruzione più indicata sarebbe, allora, “Pubblicherei l’intervista se ricevessi il consenso dell’intervistato”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire: “Cosa avrà voluto dire Marco ieri?”? E invece: “Cosa ha voluto dire Marco ieri?”?
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni sono corrette. Nella prima frase il futuro non ha il valore temporale che ricopre normalmente, ma assume quello non standard, diffusissimo nella lingua d’uso medio, di segnalatore di incertezza, dubbio, vaghezza. Quando ha questa funzione, il futuro si comporta come un modo, non come un tempo (infatti può essere usato anche in riferimento al passato) ed è detto epistemico , perché riguarda la conoscenza dell’emittente (dal greco epistéme ‘conoscenza’). Questa funzione può essere svolta anche dal futuro semplice, se l’incertezza riguarda il presente: “Finalmente sei arrivato: saranno tre ore che ti aspetto”.In particolare, nella sua prima frase il futuro esprime il dubbio dell’emittente che Marco abbia voluto dire più di quello che ha effettivamente detto; il passato prossimo nella seconda frase, invece, indica che l’emittente è certo di non aver capito il senso delle parole di Marco.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La congiunzione appena, con valore temporale, può essere assimilata a quando dal punto di vista della consecutio temporum?
1. Appena l’uomo sia entrato in casa, la donna può / potrà salutarlo.
2. Appena l’uomo avesse potuto entrare in casa, la donna avrebbe potuto salutarlo.
3. Appena l’uomo entrasse in casa, la donna potrebbe / può / potrà salutarlo.
Molti anni addietro, in un prontuario lessicale, trovai una notazione dei cosiddetti “puristi” in cui si sconsigliava l’uso della suddetta congiunzione con i verbi futuri dell’indicativo. Il seguente esempio sarebbe pertanto sbagliato?
4. Appena l’uomo sarà entrato / entrerà in casa, la donna potrà salutarlo.
RISPOSTA:
Come congiunzione, appena si comporta come quando, rispetto alla quale ha una sfumatura di significato in più, indicando la coincidenza esatta tra l’evento descritto nella proposizione introdotta e quello descritto nella reggente. La proposizione introdotta da appena, pertanto, può avere, come quando, tutti i tempi del congiuntivo, ma anche tutti quelli dell’indicativo (più comune ma meno formale).
Qualche perplessità suscita la frase 2., ma solamente per via della ripetizione del verbo potere; consiglierei questa soluzione: “Appena l’uomo fosse riuscito a entrare in casa, la donna avrebbe potuto salutarlo”.
Nessun problema neanche con la frase 4. Il divieto “puristico” era probabilmente diretto all’alternanza tra indicativo e congiuntivo, sulla quale il prontuario prendeva le parti del congiuntivo: prescriveva, cioè, di costruire la frase 4. come la 1., equivalente ma più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“A scuola ho avuto una compagna che ha / aveva / ha avuto 6 fratelli”. Qual è il tempo da usare?
RISPOSTA:
“A scuola ho avuto una compagna che ha 6 fratelli” indica che l’emittente frequenta ancora la compagna e vuole sottolineare che questa ha ancora 6 fratelli.
“A scuola ho avuto una compagna che aveva 6 fratelli” indica che l’emittente non è certo se la compagna continui ad avere 6 fratelli.
“A scuola ho avuto una compagna che ha avuto 6 fratelli” è molto strano e da evitare, perché avere fratelli può essere solamente un evento durativo (quindi espresso al presente o all’imperfetto), mentre il passato prossimo del verbo avere seleziona l’aspetto momentaneo del verbo.
Per capire meglio questa differenza si confronti “Mario aveva due figli” = ‘Mario aveva (e forse ha ancora) una famiglia con due figli’ e “Mario ha avuto due figli” = ‘La compagna / moglie di Mario ha partorito due figli’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il verbo giocare richiede la preposizione a o con? Sono intercambiabili (Giocare a giochi di società, Giocare a puzzle)?
Inoltre: ci si può concentrare su fare qualcosa o solo su una cosa?
E infine: si può essere appassionati di cucinare o solo appassionati della cucina?
RIPOSTA:
Quando si fa un gioco o uno sport, si gioca a qualcosa: giocare a pallavolo, a rugby, a nascondino, alle belle statuine, a guardie e ladri… La preposizione con si usa quando il verbo giocare prende il significato di manipolare, gingillarsi, o più genericamente, usare; si noti, ad esempio, la differenza tra giocare a carte ‘fare un gioco di carte’ e giocare con le carte ‘maneggiare le carte in vari modi per ammazzare il tempo’, giocare a dadi ‘lanciare i dadi scommettendo sul numero che uscirà’ e giocare con i dadi ‘tirare i dadi per passare il tempo’, oppure ‘fare un gioco nel quale è previsto l’uso dei dadi’, giocare a pallone ‘giocare a calcio’ e giocare con il pallone ‘usare un pallone come parte di un altro gioco’ ecc. La preposizione con è usata anche quando giocare ha un senso figurato: giocare con il fuoco ‘sottovalutare una situazione pericolosa’, giocare con i sentimenti di qualcuno ‘fingere di ricambiare l’amore di una persona’.
Per quanto riguarda i suoi esempi, il primo va bene, anche se nella realtà è molto improbabile: più comunemente si dice giocare a un gioco di società, o meglio giocare a seguito dal nome del gioco.
*Giocare a puzzle è, invece, impossibile per due ragioni: il puzzle non è considerato un gioco e la parola richiede l’articolo; la frase tipica è fare un puzzle o realizzare un puzzle. Possibili anche lavorare a un puzzle e cominciare / continuare / completare un puzzle (o sinonimi).
Il verbo concentrare può reggere un infinito (anche se è sempre preferibile il complemento oggetto), ma questo è quasi sempre sostantivato mediante l’articolo, quindi concentrarsi sul fare qualcosa. Concentrarsi su fare qualcosa è anche possibile, ma solo con il verbo fare; con altri verbi è molto raro e da evitare.
L’espressione più comune è essere appassionati di cucina; possibile, ma insolita, è del cucinare; impossibile di cucinare. Essere appassionati della cucina è l’espressione migliore se la frase continua con un modificatore, per esempio: “Sono (un) appassionato della cucina giapponese / italiana / messicana”, oppure “Sono (un) appassionato della cucina di mia suocera”. Possibile anche “Sono (un) appassionato di cucina giapponese / italiana / messicana”, ma non *”Sono (un) appassionato di cucina di mia suocera”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere che differenza c’è tra le parole. spesso usate da sole come interiezioni, auguri, complimenti, congratulazioni. Magari tra auguri e le altre e più facile, perché auguri guarda al futuro; ma le altre due a volte sono intercambiabili, a volte no. Me ne può spiegare l’uso?
RISPOSTA:
La parola auguri è stata oggetto di un approfondimento etimologico nella rubrica di DICO “La parola che non ti aspetti”. Trova l’articolo qui: http://www.dico.unime.it/2015/12/28/tanti-buoni-presagi-da-dico/.
Complimenti è un prestito adattato antico, dallo spagnolo cumplimiento ‘completamento, compimento di un compito’. Quando si fa un complimento a qualcuno, o si esclama “Complimenti!”, quindi, si compie il proprio dovere di dimostrare il proprio favore a quella persona. Come si può immaginare, questo dovere è virtuale, convenzionale, non ha niente di concreto; i complimenti, infatti, sono spesso vuoti e possono addirittura servire a mascherare sentimenti opposti. Non a caso, fare complimenti indica l’atteggiamento di chi rifiuta ostentatamente offerte o favori, anche se vorrebbe accettarli (un atteggiamento che è definito complimentoso); spesso, inoltre, l’esclamazione “Complimenti (per…)!” è fatta con un intento dichiaratamente ironico, per “onorare” un insuccesso.
Le congratulazioni, invece, sono tipicamente sincere e raramente ironiche. L’etimologia della parola congratulazioni rimanda al latino CONGRATULOR ‘rallegrarsi insieme’ e rivela, quindi, che l’atto riguarda i sentimenti, e in particolare la gioia che si prova per il successo di qualcuno a cui si vuole bene. Il nome congratulazioni è imparentato con grazie, che a sua volta può essere usato come interiezione. Di questo ci siamo occupati in un’altra risposta, che può leggere qui.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi son venuti dei dubbi leggendo un libro di esercizi. Leggo:
1. Tradurre dall’italiano al tedesco.
2. Tradurre Platone in italiano.
3. Tradurre le parole nella tua lingua.
A me sembrano la stessa struttura: “tradurre a una lingua”. Ma perché si usa una volta a e altre volte in? O sono intercambiabili?
RISPOSTA:
L’uso delle preposizioni è legato a fattori solo in parte logici. A volte a pesare è la storia della lingua o anche altre ragioni difficili da riconoscere. Si pensi, per fare un esempio tra mille, alla preposizione di, che è richiesta tanto da un aggettivo come degno (“Degno di lode”) quanto dal secondo termine di paragone (“Meglio di niente”), può esprimere provenienza se segue il verbo essere (“Sono di Atene” = “Vengo da Atene”), ma anche un certo momento della giornata in alcune espressioni (“Ci vediamo di pomeriggio”).
Il verbo tradurre regge di norma la preposizione in, come dimostrano le sue frasi 2 e 3. L’assenza dell’articolo nella 2 è dovuta alla idiomaticità dell’espressione in italiano (che si comporta come in casa, in banca, in classe…). Nella frase 1, la presenza della lingua di provenienza, introdotta dalla preposizione da, configura l’azione del tradurre come uno spostamento fisico di un corpo da un luogo a un altro: questo favorisce l’uso, altrimenti sbagliato (non si può *”tradurre a una lingua”) della preposizione a. Rimane comunque possibile usare in anche quando sia esplicitata la lingua da cui si traduce: “Tradurre dall’italiano in tedesco” è corretto, sebbene meno comune.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le tre frasi sotto indicate sono accettabili ed equivalenti?
1. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, uno per Letizia.
2. Ho deciso di acquistare due regali: uno per Francesca, l’altro per Letizia.
3. Ho deciso di acquistare due regali: l’uno per Francesca, l’altro per Letizia.
Colgo l’occasione per domandare – a prescindere dagli esempi proposti – se, in generale, l’apostrofo per il pronome uno all’interno dei correlativi l’un(o)… l’altro e relativi plurali sia obbligatorio o facoltativo.
RIPOSTA:
Le tre frasi sono valide e tutto sommato equivalenti. Volendo individuare una sfumatura semantica specifica, possiamo sottolineare che la 1 mette sullo stesso piano i due elementi correlati, mentre la 2 e la 3 distinguono tra un elemento che è uno e uno che l’altro, come se quest’ultimo fosse in subordine rispetto al primo. Per quanto riguarda l’articolo determinativo prima del pronome uno, dal momento che ci sono solo due elementi in campo la sua presenza è legittima, ma non necessaria, perché non può esserci che un solo uno autodeterminato: se, invece, gli elementi correlati fossero tre o più, ovviamente l’articolo non potrebbe essere usato. In quel caso le opzioni sarebbero: “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, uno per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, uno per Letizia, un altro per Maria”; “Ho deciso di acquistare tre regali: uno per Francesca, un altro per Letizia, un altro per Maria”.
Se la sua seconda domanda riguarda l’elisione dell’articolo determinativo, la risposta è che, in generale, l’elisione non sia obbligatoria, ma sia talmente comune da essere obbligatoria di fatto (molto strano sarebbe lo uno). Se, invece, la domanda riguarda il troncamento di un(o), questo è obbligatorio nel sintagma, tipico della lingua del diritto, l’un caso: “L’integrazione probatoria avverrà, quindi, nell’un caso, nelle forme del giudizio abbreviato e, nell’altro, in quelle del giudizio direttissimo” (da una sentenza della Corte costituzionale). È facoltativo, ma fortemente atteso, nel sintagma l’un l’altro: “Si salutarono l’un l’altro”. È, per il resto, vietato, anche con lo stesso sintagma l’un l’altro se i due termini correlati sono separati: “Si salutarono l’uno con un sorriso, l’altro no”. Oscillante il comportamento di l’un contro l’altro / l’uno contro l’altro, che dovrebbe prendere la forma normale senza troncamento, ma sul quale pesa il famoso verso manzoniano, risuonante nelle orecchie di tutti gli italiani, “L’un contro l’altro armato”, frutto della “licenza poetica”.
Ricordo, comunque, che il troncamento di un(o) rifiuta l’inserimento dell’apostrofo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere se in queste frasi e meglio usare il passato prossimo, l’imperfetto o vanno bene tutt’e due.
1. Quando Luigi bussava / ha bussato, noi guardavamo la TV.
2. Dove eri / sei stato nel pomeriggio? eri / sei stato in città?
3. L’estate scorsa mangiavamo sempre in spiaggia.
4. Paolo è uscito / usciva nel momento in cui io telefonavo / ho telefonato.
RISPOSTA:
L’imperfetto come tempo è usato primariamente con due funzioni: per indicare che l’evento si è ripetuto più volte nel passato, o che era abituale; per osservare l’evento nel suo svolgimento, nel suo processo, mentre stava accadendo.
Nella frase 1., “Quando Luigi bussava, noi guardavamo la TV” si può interpretare come relazione abituale, ripetutasi molte volte. Se, invece, intendiamo i due eventi come svolti contemporaneamente in una occasione unica è preferibile sostituire quando con mentre, perché mentre sottolinea la durata del processo. Avremo, quindi, “Mentre Luigi bussava, noi guardavamo la TV”.
Comunemente, comunque, l’imperfetto durativo è messo in relazione con un passato momentaneo, prossimo o remoto, che esprime l’evento di primo piano. Nel nostro caso avremo, quindi: “Quando Luigi ha bussato, noi guardavamo la TV”. In teoria possiamo fare il contrario: “Mentre Luigi bussava, noi abbiamo guardato la TV”, ma il risultato è un po’ surreale; se sostituiamo l’azione del guardare la TV con un altro evento, però, la frase diviene possibile: “Mentre Luigi bussava, è arrivato Luca”. Possibile anche “Quando Luigi ha bussato, è arrivato Luca”, per sottolineare che le due azioni si sono svolte nello stesso momento.
Nella frase 2., la costruzione esclude che l’imperfetto indichi un’azione ripetuta. Indica sicuramente, invece, che l’evento dell’essere sia visto nel suo processo. Anche in questo caso, questa scelta si giustifica soprattutto se si vuole mettere l’evento all’imperfetto in relazione con un altro evento avvenuto mentre il primo si stava svolgendo; per esempio: “Dove eri nel pomeriggio, quando ti ho telefonato?”. Il passato prossimo, invece, osserva l’evento nella sua completezza, senza riferimento al processo: una frase come “Dove sei stato nel pomeriggio”, pertanto, serve a informarsi sulle attività svolte dall’interlocutore nella giornata.
Nella 3., l’imperfetto si interpreta automaticamente come segnale di abitudinarietà, a causa dell’avverbio sempre. Possibile anche “L’estate scorsa abbiamo mangiato sempre in spiaggia”, per indicare non l’abitudine, ma una caratteristica generale dell’estate scorsa.
La 4. somiglia molto alla 1. Possibile l’interpretazione abituale dell’imperfetto, che, però, dovrebbe essere favorita da un avverbio come solitamente: “Paolo solitamente usciva nel momento in cui io telefonavo”. Anche in questo caso, la costruzione più comune sarà: “Paolo è uscito nel momento in cui io telefonavo” (meno naturale “Paolo usciva nel momento in cui io ho telefonato”). Si noti che il connettivo nel momento in cui non permette di interpretare l’imperfetto esattamente come durativo, ma rende l’azione incoativa, concentrando l’attenzione sul processo di preparazione dell’evento. “Nel momento in cui telefonavo”, pertanto, si interpreta come ‘nel processo di preparazione della telefonata’.
Possibile anche “Paolo è uscito nel momento in cui io ho telefonato”, per indicare che i due eventi sono avvenuti nello stesso momento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si può dire, a qualcuno che ti chiede se hai preso la patente: “Sì, ma guido quasi mai”?
RISPOSTA:
La frase non può dirsi scorretta, ma è certamente non tipica. Comunemente, infatti, la negazione precede l’elemento negato e poi, se serve, può essere ripetuta per mezzo di avverbi o aggettivi semanticamente negativi. La costruzione più regolare per la sua frase, pertanto, è quella con l’avverbio quasi mai spostato prima del verbo, che è l’elemento negato: “Sì, ma quasi mai guido”. Ovviamente, senza tenere in conto la costruzione in assoluto più comune, che sarebbe quella con la doppia negazione: “Sì, ma non guido quasi mai”.
Riporto, per confermare che posizione attesa della negazione è subito prima dell’elemento negato, questa frase tratta dal romanzo Rinascimento privato di Maria Bellonci (1986): “Una cosa che gli uomini quasi mai conoscono in profondo è il vuoto dei figli, la mancanza della loro presenza da toccare con mano”. Se spostassimo quasi mai dopo il verbo (sul modello della sua frase), l’elemento negato diverrebbe in profondo, e il significato della frase cambierebbe, sebbene di poco: “Una cosa che gli uomini conoscono quasi mai in profondo è il vuoto dei figli…”. Nella sua frase, dopo quasi mai non c’è un altro elemento da negare; il ricevente, pertanto, non può che riportare la negazione al verbo.
Per un approfondimento sulle conseguenze informative dello spostamento degli elementi della frase, proprio in relazione alla negazione, la rimando alla risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Prendo spunto da questa risposta , in cui ho avuto modo di apprendere le vostre indicazioni circa l’inserimento di predicati al presente in costruzioni al passato.
Nonostante la vostra spiegazione sia stata, come al solito, comprensibile ed esauriente, vorrei, se possibile, addentrarmi un po’ nella materia. Anche in periodi molto complessi è consentita l’alternanza di tempi diversi a seconda della condizione della situazione proposta o è preferibile, laddove attuabile, mantenere la narrazione “sulla stessa linea”?
Un esempio:
Per prima cosa domando se la narrazione possa essere ritenuta valida, anche se Ernest è ancora in vita e continua a portare tale nome, il molo continua a insinuarsi nella baia e la montagna con le sue vette continua a lambire il cielo. Tali predicati potrebbero essere tramutati in indicativo presente per conferire alle descrizioni un carattere di attualità o ciò potrebbe generare delle stonature sintattiche?
Quale soluzione suggerireste, purché siano entrambe corrette?
RISPOSTA:
Le soluzioni che lei propone sono ugualmente valide. La prima lascia aperta la questione della persistenza degli elementi descritti nel presente; la seconda, invece, ne fa il centro dell’interesse. Questo è un caso di scelta espressiva e narrativa, che va valutato da una parte alla luce del gusto e dello stile scrittorio, dall’altra considerando i fini della narrazione, cioè quanto sia importante, nel meccanismo narrativo, che gli elementi siano descritti come ancora attuali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Questa frase può essere corretta solo con l’imperfetto? magari con il passato prossimo indica anteriorità e sarebbe meglio il trapassato prossimo? “Ieri sono andata al giardino zoologico e ho visto che hanno dato / davano da mangiare alle foche”.
RISPOSTA:
La frase rimane corretta con il passato prossimo, l’imperfetto e il trapassato prossimo. Il suo significato, però, cambia. “Ho visto che hanno dato da mangiare alle foche” mette in evidenza l’evento in sé, per rilevarne l’effettiva realizzazione. Sarebbe adatta a una situazione in cui la parlante non fosse sicura se allo zoo avrebbero dato da mangiare alle foche nel momento in cui lei sarebbe stata presente. Allora, avendo visto l’evento, potrebbe raccontare in seguito di aver visto “che hanno dato da mangiare alle foche”.
“Ho visto che davano da mangiare alle foche” è la forma più prevedibile, perché mette in evidenza che l’evento del dare da mangiare è avvenuto quando la parlante stava guardando. Si noti che l’imperfetto non chiarisce se la parlante sia rimasta a guardare tutto il processo del dare da mangiare, o ne abbia visto solamente una parte.
“Ho visto che avevano dato da mangiare alle foche”, infine, indica che l’evento del dare da mangiare era già avvenuto quando la parlante è arrivata in vista delle foche. Di conseguenza, la parlante non ha visto l’evento, bensì qualche conseguenza, per esempio una parte del cibo ancora non mangiato, o le lische dei pesci scartate dalle foche, da cui ha dedotto che le foche avevano già ricevuto il cibo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe avere dei chiarimenti in merito all’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo al posto di o / oppure. Ad esempio: “Sono stata al mercato e non sapevo se comprare pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Potreste fornirmi delle delucidazioni in merito a questo strano uso?
Il significato di piuttosto che a cui sono abituata è quello di invece di, come in questo esempio: “Piuttosto che sgridarmi, spiegami dove ho sbagliato”.
RISPOSTA:
Il significato di piuttosto che a cui lei è abituata, cioè di ‘invece di’ o ‘anziché’, è l’unico appartenente all’italiano standard (quello codificato dalle grammatiche e dai dizionari). Con questo significato, il connettivo ha valore comparativo ed eccettuativo; l’esempio da lei fornito, infatti, può essere trasformato nel seguente modo: “Spiegami dove ho sbagliato, invece di sgridarmi”.
Da più di un decennio, e specialmente nell’italiano centrosettentrionale, piuttosto che ha assunto il significato proprio della congiunzione disgiuntiva o. Le ragioni di questa moda sono da ricercarsi nella percezione di piuttosto che come nobilitante rispetto a o da parte dei ceti medio-alti del Settentrione che, poi, hanno influenzato gli altri parlanti. Sono gli stessi motivi, per esempio, che inducono a pronunciare rùbrica invece di rubrìca, mòllica piuttosto che mollìca.
L’uso disgiuntivo di piuttosto che è ancora da considerare scorretto e non è consigliabile in nessun contesto; non solo perché in contrasto con la grammatica e con la storia etimologica del sintagma, ma anche perché può creare importanti ambiguità nella comunicazione, rischiando di compromettere la funzione del linguaggio. Una frase come “Stasera vado al cinema piuttosto che al teatro” indica una preferenza (‘Stasera vado al cinema, non al teatro’) e non un’alternativa (‘Stasera vado al cinema o al teatro’). L’uso disgiuntivo è, comunque, tipico di catene di alternative, come nell’esempio da lei proposto “pomodori piuttosto che cipolle, piuttosto che dell’aglio”. Si noti che la frase, se interpretata con il valore standard di piuttosto che, significherebbe: ‘[compro] i pomodori e non le cipolle, né dell’aglio”.
Già nel 2002 la linguista Ornella Castellani Pollidori ipotizzava che alla base dell’uso di piuttosto che con valore disgiuntivo ci fossero frasi come “Andiamo a Vienna in treno o piuttosto in aereo” (in cui piuttosto dà maggiore plausibilità al secondo elemento della coppia disgiuntiva).
Raphael Merida
QUESITO:
Le costruzioni implicite con l’infinito presente possono sostituire anche le coniugazioni al futuro delle costruzioni esplicite o sono invece contestualizzabili solo nella contemporaneità?
“Credo di venire” corrisponde all’agrammaticale “credo che io venga” o a “credo che verrò”?
Quindi: le due costruzioni sotto riportate sono equivalenti e ugualmente accettabili?
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto”;
“Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”.
RISPOSTA:
I modi indefiniti hanno il “difetto” di avere solamente due tempi, presente e passato. Non è un caso che l’italiano abbia operato questa semplificazione rispetto al latino (ricordiamo, infatti, che in latino il participio e l’infinito avevano anche il futuro; il gerundio, invece, era molto diverso da quello italiano, quindi non si può confrontare). Il futuro è il tempo meno funzionale tra quelli codificati, perché può essere facilmente assorbito dal presente. Anche tra i modi finiti, del resto, condizionale, congiuntivo e imperativo non hanno il futuro (l’imperativo lo aveva in latino, sebbene fosse raramente usato). Il futuro, pertanto, è appannaggio del solo indicativo; e anche nell’indicativo notiamo nell’italiano contemporaneo la tendenza del presente a svolgere le funzioni del futuro, come in questo esempio letterario di discorso diretto: “- Alle tre ho un appuntamento, ma appena finito prendo la macchina e vengo. -” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
La perdita del tempo futuro non danneggia affatto la comunicazione (altrimenti i parlanti non la avrebbero permessa): il ricevente è sempre in grado di riportare l’azione al presente o al futuro grazie alle informazioni cotestuali o alla sua enciclopedia mentale (ovvero, semplificando, al buonsenso). Di conseguenza, “Credo di venire” può significare tanto ‘Credo che io venga adesso’ quanto ‘Credo che verrò più tardi’. Sottolineo che, sebbene in questo caso la costruzione implicita sia fortemente richiesta, le varianti esplicite, al congiuntivo presente e all’indicativo futuro, non sono agrammaticali (cioè non contemplate dal sistema della lingua): la prima è al limite del substandard, la seconda è decisamente accettabile in contesti di media formalità parlata, proprio perché giustificabile per la volontà dell’emittente di sottolineare la temporalità dell’azione. Decisamente substandard, ma comunque non agrammaticale, è “Credo che vengo”, che emerge in contesti molto trascurati, come questo (dalla pagina Instagram del cantante Nek): “Nek credo che vengo al tuo concerto a Napoli Io saro’ quella che urlera’ a pazza”.
La variante esplicita al futuro ha anche il vantaggio di esprimere la persona del soggetto, utile se l’emittente voglia enfatizzarla; si pensi alla differenza tra “Preciso che non sono stato ancora pagato”, o ancora più chiaramente “Preciso che io non sono stato ancora pagato”, e “Preciso di non essere stato ancora pagato”.
Questo stesso dettaglio può rendere preferibile “Egli ha fatto ciò che aveva promesso che avrebbe fatto” rispetto a “Egli ha fatto ciò che aveva promesso di fare”. D’altro canto, però, nella variante con il condizionale passato c’è una sgradevole ripetizione di che, a fronte di uno scarsissimo guadagno semantico. Si dovrebbe, pertanto, ma è una questione di stile, preferire comunque la variante implicita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Apprezzerei la vostra consulenza per ricevere innanzitutto eventuale conferma della correttezza dei seguenti enunciati:
1. Ringrazio il cielo che mio figlio abbia/ha un lavoro.
2. Il problema è che un Paese come il nostro non abbia/ha una vera politica di incentivazione culturale.
3. Essi hanno commentato che si tratti/tratta di un errore.
Come avrete certamente notato, per ognuno dei tre esempi ho inserito sia il congiuntivo sia l’indicativo, poiché – confrontando vari dizionari e interrogando siti internet ad hoc – ho riscontrato entrambi i modi. Ho notato che, al di fuori di DICO, sono molti gli addetti ai lavori (o sedicenti tali) che, a proposito dell’alternanza dei modi congiuntivo e indicativo sostengono che i cosiddetti verba dicendi reggano solo il secondo dei due; mi sono inoltre imbattuto in presunte regole, per me alquanto bizzarre, per le quali certe costruzioni verbali (come, tanto per citarne una, “essere convinto che”) coniugate al passato o alla terza persona (sia plurale sia singolare) possono reggere il congiuntivo “perché indicano una certezza soggettiva altrui”, ma in caso di azioni presenti o con coniugazioni alla prima persona, l’indicativo sarebbe obbligatorio “perché se si è certi di ciò che si dice non si può scegliere il congiuntivo” (scrivere “Sono convinto che X abbia disputato una bella prestazione” sarebbe quindi un errore imperdonabile). Se non vado errato, negli articoli reperibili all’interno del vostro archivio e accomunati dalla chiave completive si parla invece di una scelta tra i due modi che muove dagli intenti di registro e quindi comunicativi: formale = congiuntivo; informale = indicativo. Se ho ben assimilato le lezioni e prescindendo dall’adeguatezza contestuale, giudico valide in assoluto costruzioni quali
Sostengo che abbiano parlato troppo.
Dico che possa ancora farcela.
Non posso ignorare che egli abbia sbagliato.
Mi è giunta voce che lei non si sia presentata.
Si accorse che i suoi amici non fossero vicino a lei.
Sono giunto alla conclusione che si possa partire.
La legge stabilisce che sia garantita la libertà d’espressione.
malgrado le varianti all’indicativo siano di norma ben tollerate e certi risultati con il congiuntivo siano un po’ stridenti.
Domanda finale, di forse difficile risoluzione: se la grammatica è una, come si spiega questa varietà di interpretazioni di certe sue disposizioni?
RISPOSTA:
La funzione primaria del congiuntivo è di modo della subordinazione (non esclusivo: l’indicativo ha sempre avuto la funzione di modo di alcune subordinate, come le relative, le causali, le temporali). Esso non ha, di base, una precisa sfumatura semantica. Nel tempo, però, si è colorito di una sfumatura di eventualità per via dell’associazione con la proposizione ipotetica, con la concessiva e simili. È divenuto, per questo, il modo del dubbio, dell’eventualità, della incertezza. Nello stesso tempo, l’indicativo ha allargato la sua funzionalità a quasi tutte le subordinate, entrando in concorrenza con il congiuntivo. Di fronte all’avanzata dell’indicativo nella subordinazione, per giustificare l’esistenza del congiuntivo i parlanti hanno sfruttato la sua sfumatura semantica, che gli ha, quindi, donato una nuova ragion d’essere. Quando noi diciamo che il congiuntivo sia più formale dell’indicativo ci ricolleghiamo alla natura propria del congiuntivo, quella di modo della subordinazione: nelle proposizioni che ammettono entrambi i modi, ad esempio le completive, il congiuntivo è la scelta più in linea con la tradizione; l’indicativo è quella più innovativa. Si badi che non scoraggiamo l’uso dell’indicativo nelle completive: ne rileviamo, invece, la reale differenza rispetto alla scelta del congiuntivo. Ho più volte sottolineato che in un contesto parlato familiare è proprio il congiuntivo a rischiare di essere “stonato”.
Chi sostiene che il congiuntivo indichi incertezza, in contrapposizione alla fattualità dell’indicativo, non sbaglia completamente, ma si concentra sull’aspetto secondario dell’opposizione tra questi due modi. In ragione di ciò, arriva a conclusioni impressionistiche, come la convinzione, molto diffusa, che “Credo che tu sia…” indichi incertezza, mentre “Credo che sei…” indichi certezza. Bisogna comunque ammettere che la sfumatura semantica del congiuntivo sia percepita sempre più distintamente dai parlanti, mentre sempre meno riconosciuta sia la funzione sintattica di questo modo; è possibile che questa situazione porti in futuro al rafforzamento dell’aspetto secondario, e all’indebolimento di quello primario, così che si instauri una contrapposizione tra indicativo e congiuntivo totalmente su base semantica.
Attualmente, è ancora possibile difendere l’opposizione sintattica, per cui tutte le sue frasi sono ben formate, nonché più formali (più “fedeli alla funzione primaria del congiuntivo”) rispetto alle, possibili, varianti con l’indicativo.
Come si vede dalla riflessione qui svolta, le diverse interpretazioni dei fenomeni grammaticali derivano dalla storicità della lingua, che muta nel tempo, nonché dalla libertà che i parlanti hanno di spiegare a sé e agli altri come funziona la loro lingua, arrivando a conclusioni a volte impressionistiche ma che, se accolte dalla maggioranza, possono trasformarsi in regole.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si chiama la vegetazione che cresce spontanea sull’asfalto?
RISPOSTA:
Le piante che crescono nelle crepe dei muri o delle strade appartengono a molte specie. Sono, comunemente, designate con espressioni collettive come vegetazione spontanea, visto che crescono senza essere coltivate, oppure infestante, con riferimento alla loro dannosità per i fabbricati (sebbene questo aggettivo si adatti più propriamente alle piante che insidiano le loro concorrenti coltivate, come la gramigna, la zizzania e le piante parassite). .Si può distinguere tra erba, che ha un fusto non legnoso, piante, che sono dotate di fusto legnoso o fibroso, arbusti, che sono bassi, legnosi o fibrosi e ramificati fin dalla base, alberelli e persino alberi, se la pianta ha fusto legnoso, rami, foglie, fiori e frutti. Le piante, poi, possono essere isolate o raggruppate in cespugli, se presentano un intrico grossolanamente globulare di molti rami, rovi, se i cespugli sono anche spinosi (il rovo è anche una pianta specifica: quella che ha i frutti detti more), siepi (con una punta di ironia, visto che queste formazioni sono spesso, ma non sempre, curate e modellate per delimitare confini), che sono cespugli con una certa estensione lineare, filari (con ironia più marcata, visto che il termine si associa di solito agli alberi), che si presentano in file più o meno regolari e non intricate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’interpretazione della locuzione “a seconda dei casi” nel seguente testo:
“Cerchiamo di essere particolarmente consapevoli della sensazione prodotta dal passaggio dell’aria attraverso il naso, dove la percepiamo con maggiore intensità. A seconda dei casi, potrà trattarsi del punto di primo contatto dell’aria con le narici, o un po’ più all’interno, o ancora più in alto, nel seno nasale”.
“A seconda dei casi” significa ‘a seconda delle persone’ oppure ‘a seconda del momento in cui avviene l’evento’?
RISPOSTA:
Le frasi 1a) e 1b) sono corrette. L’indicativo accentua la fattualità, quindi la concretezza dell’evento; il condizionale lo esprime come possibile, ma maggiormente soggetto all’avverarsi della condizione implicitamente contenuta nel sintagma in tal caso.
Anche le tre varianti proposte in 2a) e 2b) sono tutte valide. La scelta di costruire l’apodosi di 2a) con il presente, effettivamente più marcata rispetto alle altre, veicola una sfumatura di attualità atemporale per l’evento del trovare, come se il parlante volesse sottolineare l’assolutezza della situazione, la sua validità a prescindere da qualsiasi imprevisto.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
1) Condivido i tuoi timori, anche se dubito che altri si sarebbero posti / si porrebbero tutti questi problemi.
2) Diceva che lavorare lo faceva / facesse sentire meglio.
3) Ancora oggi, insiste nel volermi fare lei, il bagno nella vasca, nonostante l’abbia / l’avessi invitata più volte a non considerarmi più un bambino e a lasciarmi lavare da solo.
4) Il nonno ha accettato la sfida: se dovessi riuscire nell’intento, mi porterà / porterebbe sulla Torre Eiffel, a vedere Parigi dall’alto.
5) Oggi è stato il giorno del funerale e Parigi ha mostrato il suo volto piovoso, come se anche il cielo volesse / avesse voluto partecipare al lutto, versando il suo tributo di lacrime per la mia mamma.
6) Così, se dovessi averne bisogno, potrò / potrei contare anche sul loro aiuto.
7) Se dovessero investirti non chiamerei / chiamerò nemmeno l’ambulanza anzi, ti passerei / passerò sopra anche con la mia auto.
8) Così, se dovessero derubarmi ancora, salverei / salverò le scarpe buone.
9) Inoltre mi ha informato che potrò/ sarei potuto entrare nella struttura la sera…
10) Le ha raccontato la mia storia e che, da questa sera, sarò / sarei diventato a tutti gli effetti un ospite fisso.
11) Un collega è favorevole a estenderla ad amici e conoscenti di Philippe che vorranno / desiderassero partecipare.
12) Papà chiede se fra le cose di Philippe abbia trovato una sua foto; anche se vecchia andrebbe / andrà bene ugualmente.
13) Marco aggiunge che le autorità hanno subito disposto l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole, che avevano colpito il senzatetto, siano state / fossero state esplose dall’arma sequestrata.
14) … poiché loro non sarebbero vissuti / non avrebbero vissuto in eterno…
RISPOSTA:
L’espressione “a seconda dei casi” ha un significato vago, che si specifica nel co-testo in cui appare di volta in volta. In quello qui considerato, i casi sono le volte diverse in cui ripetiamo l’operazione. Questa interpretazione è dovuta alla mancanza di riferimenti, nel co-testo, a possibili differenze da persona a persona; è possibile, invece, ricondurre “a seconda dei casi” a passaggio dell’aria, che è un evento comune a tutte le persone e caratterizzato dalla ripetitività. La frase può, insomma, essere parafrasata con “Alcune volte il punto di maggiore intensità sarà quello di primo contatto dell’aria con le narici, altre volte sarà un po’ più all’interno, altre volte ancora sarà nel seno nasale”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho fatto una ricerca sui sinonimi di moderazione e ho trovato su diversi dizionari di sinonimi e contrari i termini ponderatezza e ponderazione. Posso considerarli validi? Lo stesso vale per i verbi ponderare e moderare?
RISPOSTA:
In astratto tanto ponderatezza quanto ponderazione possono essere usati come sinonimi di moderatezza. Bisogna, però, ricordare che non c’è mai identità di significato tra le parole: bisogna valutare di volta in volta qual è il significato attribuito nel testo specifico alla parola. Non a caso, infatti, i dizionari propongono quasi sempre più di un sinonimo, ognuno dei quali riflette uno dei significati possibili della parola che vogliamo sostituire. Nel suo caso particolare, consideri che moderazione è, in generale, la qualità di chi agisce rimanendo all’intero dei limiti comunemente ritenuti normali. Ponderatezza, invece, è la capacità di soppesare le conseguenze, che di solito porta alla moderazione, ma può portare anche all’inattività, oppure, al contrario, a un comportamento consapevolmente non moderato. Ponderazione, infine, è l’atto di ponderare, ovvero l’applicazione a una situazione specifica della capacità della ponderatezza.
La vicinanza semantica individuata tra ponderazione e moderazione si rispecchia nella relazione tra ponderare e moderarsi (non moderare). Bisogna, però, considerare che ponderare richiede un complemento oggetto (si può anche usare in modo assoluto, ma con il significato generico di ‘pensare, riflettere’), mentre moderarsi no.
Moderarsi indica l’atteggiamento di chi controlla i propri impulsi per mantenere il proprio comportamento all’interno dei limiti considerati normali. Alla base di moderarsi c’è, ovviamente, moderare, che significa ‘mantenere qualcosa entro i limiti considerati normali’ e si usa con parole che indicano oggetti quantitativamente variabili, come la velocità o le spese, oppure con termini che indicano moti psicologici potenzialmente eccessivi, come l’ira o l’entusiasmo, o ancora con le parole, nel senso, figurato, di ‘esprimere in modo indiretto concetti che potrebbero offendere’. Si usa spesso anche con riferimento a convegni, dibattiti o simili, per definire l’attività del moderatore, ovvero dare la parola ai relatori, stabilire i tempi degli interventi, evitare che il botta e risposta degeneri in rissa ecc.
Ponderare, al contrario, è accompagnato da parole che hanno a che fare con valutazioni da cui dovrebbero scaturire decisioni: si possono ponderare le opzioni, le alternative, i pro e i contro e simili.
Per moderarsi è spesso necessario ponderare le alternative e valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ma è anche possibile ponderare le alternative e poi decidere di non moderarsi affatto.
Ponderare e moderare possono avere come oggetto le parole. Moderare le parole e ponderare le parole, però, non descrivono la stessa azione: la prima espressione significa ‘parlare in modo indiretto per non provocare l’interlocutore’; la seconda ‘riflettere sulle possibili parole adatte al contesto per scegliere quelle più adatte’. Potremmo dire, semplificando, che prima si ponderano le parole per poterle, poi, moderare. Ma è anche possibile che le parole vengano ponderate proprio per non moderarle, ma per esprimere con chiarezza il proprio pensiero.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Curiosando in rete mi sono imbattuta in una discussione circa le seguenti costruzioni:
1. Se non vieni perché non te la senti è un discorso; se invece vorresti venire ma ti senti in imbarazzo, sbagli.
2. Se hai rifiutato perché non ne hai bisogno, posso capire; se invece avresti voluto accettare ma qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo.
Gli utenti intervenuti si sono divisi tra sostenitori della conformità ai dettami sintattici e sostenitori del contrario. Voi che cosa ne pensate?
RISPOSTA:
Il condizionale in una proposizione introdotta dalla congiunzione se è sempre visto con sospetto, perché è un errore molto comune sostituirlo al congiuntivo imperfetto nella protasi del periodo ipotetico (*”Se vorresti potresti farlo” al posto del corretto “Se tu volessi potresti farlo”).
Nella prima frase da lei proposta, la difficoltà sta nel contrasto tra l’apparente violazione della regola appena esposta e la sensazione che il risultato “suoni bene”. E in effetti la frase è corretta, perché la regola non viene affatto violata. Per accordare la sensazione con la regola basta reintegrare un pezzo di frase che è stato sottinteso: “se, invece, vorresti venire ma non vieni perché ti senti in imbarazzo, sbagli”. La protasi che funge da ipotesi di sbagli non è, quindi, “se vorresti venire”, che sarebbe mal formata (*”Se vorresti venire sbagli”) e non rispecchierebbe il senso inteso dal parlante (lo sbaglio non è voler venire, ma, al contrario, non venire), bensì “se vorresti venire ma non vieni”, ovvero “se non vieni pur volendo venire” (che sarebbe la costruzione della frase più formale e adatta allo scritto), oppure “se non vieni anche se vorresti venire”. La costruzione coordinata con ma della protasi, insomma, nasconde una struttura semantica subordinativa con una concessiva.
Per la verità, anche senza reintegrare “se non vieni” il ragionamento vale lo stesso: “se ti senti in imbarazzo pur volendo venire / anche se vorresti venire”; bisogna, però, riconoscere che l’ipotesi è senz’altro “se non vieni”. Nella mente del parlante, cioè, il rapporto di ipotesi-conseguenza è questo: “Sbagli se non vieni”. Le altre informazioni, “ti senti in imbarazzo” e “vorresti venire”, hanno semanticamente un ruolo di sfondo rispetto al nucleo dell’enunciato.
I motivi per cui il parlante non dice chiaramente quello che pensa (“Sbagli se non vieni”) possono essere due; la variatio sintattica rispetto alla costruzione del primo pezzo della frase, oppure, più probabilmente, la cortesia: normalmente, infatti, quando comunichiamo costruiamo percorsi linguistici alternativi, più lunghi e indiretti, rispetto a quello che rispecchia più fedelmente il nostro pensiero, se quest’ultimo ci sembra troppo violento o invadente. Lo facciamo soprattutto quando dobbiamo ordinare qualcosa (invece di dire “Apri la finestra” diciamo “Potresti aprire le finestra?”); quando esprimiamo un’opinione non pacifica (invece di dire “La filatelia è un ottimo passatempo perché…” diciamo “La filatelia mi rilassa molto, mi aiuta a concentrarmi e mi fa scoprire tanti fatti storici”); quando, similmente, critichiamo qualcuno, come nel caso della frase in questione.
Possiamo applicare lo stesso ragionamento fatto per la prima frase anche alla seconda: “se, invece, avresti voluto accettare ma non hai accettato perché qualcuno te l’ha impedito, ti prego di dirmelo” (ovvero “se non hai accettato pur avendo voluto…”). In più, questo secondo caso offre un interessante incrocio sintattico: il verbo di dire nell’apodosi avvicina tutto il resto della frase, compresa la protasi (ma esclusa l’eventuale causale) a una interrogativa indiretta: “ti prego di dirmi se avresti voluto accettare ma (non hai accettato perché) qualcuno te l’ha impedito”. L’interrogativa indiretta è normalmente costruita con il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato.
Per maggiori informazioni sul futuro nel passato suggerisco di consultare l’archivio di DICO inserendo nel motore di ricerca interno il termine consecutio temporum.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Enuncio (ora): i gentili professori di DICO mi hanno invitato (ieri) a consultare dopodomani (futuro rispetto all’enunciazione) l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (in un tempo intermedio tra ieri e dopodomani) … è stato / fosse / sia stato / era stato / fosse stato pubblicato il quesito”.
Quale tempo determina al meglio l’azione dell’eventuale pubblicazione del quesito?
Che cosa cambierebbe se riformulassi la frase così: “Ieri l’altro, i gentili professori di DICO mi hanno invitato a consultare stamattina / poche ore fa / ora l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”?
RISPOSTA:
La scelta nel primo caso è tra sia stato pubblicato e sarà stato pubblicato (o al limite, ma solo in un contesto informale, e meglio se nel parlato, è stato pubblicato). Le uniche coordinate rilevanti per stabilire la consecutio sono il momento dell’enunciazione, che è sempre ora, il momento di riferimento, ovvero dopodomani, e il momento dell’azione del pubblicare, che è successiva rispetto a ora, ma precedente rispetto a dopodomani. Il momento di ieri non è rilevante: anche se l’invito fosse fatto domani, non ieri, la consecutio rimarrebbe uguale: “I gentili professori di DICO mi inviteranno (domani) a consultare dopodomani l’archivio delle domande per verificare se nel frattempo sia stato / sarà stato / è stato pubblicato il quesito”.
Chiarito questo, diventa evidente che il tempo dell’azione è il futuro anteriore, ma, se scegliamo il modo congiuntivo, più formale, opteremo per il tempo che in questo modo, privo di futuro, sostituisce il futuro anteriore, ovvero il passato. L’indicativo passato prossimo può svolgere la stessa funzione del congiuntivo passato, ma in un registro informale. Dal momento che l’indicativo ha il futuro anteriore, il passato prossimo produce, rispetto al congiuntivo passato (che è obbligato), uno slittamento del centro deittico (per una spiegazione di che cosa sia si veda l’archivio di DICO) dal momento dell’enunciazione a quello di riferimento (nel nostro caso dopodomani); il parlante, cioè, semplifica la situazione, che ha tre coordinate, considerandone solamente due: il momento dell’azione e quello di riferimento. Rispetto al momento di riferimento, l’azione diviene, appunto, passata (sparisce il tratto del futuro).
L’imperfetto congiuntivo (fosse pubblicato) indica contemporaneità nel passato, quindi non può essere usato in questo contesto. Allo stesso modo, inadeguati sono il trapassato indicativo e congiuntivo, che indicano anteriorità rispetto a un evento passato.
La riformulazione della frase sposta l’evento nel passato, quindi esclude il futuro anteriore come possibilità. Rimane, invece, valido il congiuntivo passato, sia stato pubblicato (meno formale l’indicativo, è stato pubblicato), che ignora il momento di riferimento (in questo caso ieri l’altro) e considera solamente il momento dell’enunciazione, rispetto al quale l’azione è passata. Se, invece, “triangoliamo” le tre coordinate, l’azione del pubblicare si configura come futura rispetto al passato, quindi prende la forma del condizionale passato, sarebbe stato pubblicato.
Non è finita: possiamo anche valorizzare la sfumatura ipotetica veicolata dalla proposizione interrogativa indiretta “se nel frattempo (?) pubblicato il quesito”, come se la frase intendesse dire ‘nel caso in cui nel frattempo (?) pubblicato il quesito’. Questa operazione cambierebbe la prospettiva e renderebbe valido il congiuntivo imperfetto, fosse pubblicato (ipotesi possibile), e anche il congiuntivo trapassato, fosse stato pubblicato (ipotesi improbabile). Da scartare, in questo caso, le varianti all’indicativo, era pubblicato e era stato pubblicato.
Il trapassato unisce al valore ipotetico quello di anteriorità, che il ricevente interpreta come anteriorità rispetto al momento dell’enunciazione; l’imperfetto esprime contemporaneità, quindi oscura la relazione tanto con il momento di riferimento, quanto con il momento dell’enunciazione (tranne per il fatto che è un tempo passato) e fa risaltare, invece, la fase intermedia, descritta con l’avverbio nel frattempo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste dirmi quale delle due alternative è corretta nei punti segnalati della seguente lettera?
Volevo dirle che, in questo periodo ho trovato molto difficile seguire XXX per le sue numerose assenze, mi sono ritrovata il giorno prima per il seguente con tutto il lavoro da svolgere e interrogazioni da preparare, inoltre mi è dispiaciuto non seguire XXX in modo ottimale, ma anche lui mi ha fatto / mi fece presente di queste sue difficoltà il giorno precedente all’esposizione della relazione, quando nelle settimane precedenti ho chiesto / chiesi alla classe di chiedermi aiuto se qualcuno ne aveva bisogno / avesse avuto bisogno.
RISPOSTA:
Il passato remoto nel primo caso risulta fuori luogo per via degli altri passati prossimi che lo precedono (ho trovato, mi sono ritrovata, mi è dispiaciuto); nel secondo caso è richiesto il trapassato prossimo, perché l’azione espressa precede un’altra azione, già passata (la richiesta di aiuto del bambino). Nel terzo punto, le possibilità sono tre: avesse bisogno, avesse avuto bisogno, aveva bisogno; tra queste ritengo la migliore avesse bisogno, perché il congiuntivo imperfetto (più formale dell’indicativo imperfetto) esprime l’evento come possibile, mentre il trapassato lascia intendere che l’emittente lo ritenga improbabile.
A parte i tre dubbi da lei segnalati, però, ci sono altri punti deboli nella nota (relativi alla punteggiatura, alla sintassi e al lessico), che mi permetto di aggiustare nella seguente riscrittura.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’accordo corretto del participio passato?
RISPOSTA:
Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vivo all’estero e mi risulta difficile spiegare ai miei amici tedeschi i motivi per cui si fa uso del congiuntivo in certe frasi della nostra lingua. Alcuni esempi: “È bello che tu sia venuto”; oppure: “È importante che si veda il film dall’inizio”; “È deprecabile che Mario arrivi sempre in ritardo”. Nella lingua tedesca, ma anche in altre lingue, in frasi analoghe si usa l’indicativo. Perché noi usiamo il congiuntivo? Quale spiegazione dare?
RISPOSTA:
Il congiuntivo è una risorsa che l’italiano ha sviluppato per segnalare la subordinazione. Il nome stesso del modo allude alla sua funzione di collegare le proposizioni, ma ricordiamo che in passato per designarlo era usato anche il termine soggiuntivo (ancora oggi in inglese esso è definito subjunctive), ancora più esplicito riguardo alla funzione di aggiungere parti della frase subordinate alla proposizione principale.
In astratto, quindi, il congiuntivo è il modo delle subordinate, o almeno di quelle esplicite, visto che le implicite usano i modi indefiniti. In effetti, se osserviamo il panorama delle proposizioni subordinate, vediamo che molte richiedono obbligatoriamente o facoltativamente il congiuntivo (finali, completive, ipotetiche non del primo tipo, relative improprie, concessive, comparative di minoranza e maggioranza, eccettuative), e quando è prevista la possibilità di scegliere tra il congiuntivo e l’indicativo, il primo rappresenta la variante più formale.
Se molte subordinate richiedono il congiuntivo, alcune, al contrario, lo rifiutano: le causali (ma non le causali irreali, sulle quali si veda questa risposta dell’archivio di DICO: https://bit.ly/2XpQU1x), le temporali, le relative proprie, le consecutive, le ipotetiche di primo grado (del tipo “Se sei tanto sicuro, fallo”), le comparative di uguaglianza e di analogia. Questa distinzione tra subordinate al congiuntivo e subordinate all’indicativo non deve sorprendere: le lingue non sono meccanismi perfetti. Il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma l’indicativo non è escluso da questa funzione.
Del resto, lo stesso congiuntivo può figurare in proposizioni indipendenti, al posto dell’indicativo (che, come si sa, è il modo per eccellenza della proposizione principale), come in “Volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “Mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “I volontari facciano un passo avanti” e simili. In realtà, se osserviamo bene, le proposizioni principali al congiuntivo sono subordinate ad altre proposizioni all’indicativo, che rimangono implicite: “(Vorrei che) volesse il cielo che la mia squadra vincesse il campionato”, o “(Lascio che) mio padre dica quel che vuole: io al concerto andrò comunque”, o “(Ordino che) i volontari facciano un passo avanti”.
La selezione dell’indicativo da parte di alcune subordinate, invece, è dovuta allo stretto legame logico esistente tra queste subordinate e la principale, ma anche alla tradizione e all’uso (non sempre è possibile ricondurre le strutture sintattiche a ragioni logiche). È possibile fare una graduatoria tra le subordinate in base al criterio della aderenza logica con la principale. Le più aderenti sono quelle proposizioni che richiedono l’indicativo anche quando sono dipendenti da proposizioni a loro volta al congiuntivo, come le consecutive, le relative proprie, la causali: “Dicono che Luca fosse tanto stanco che dormì per due giorni“; “Non sapevo che tu avessi conosciuto il ragazzo di cui ti avevo parlato tanto“; “Vorrei che tu venissi perché lo vuoi, non perché tu sia costretto” (sulle causali irreali si è detto sopra). Più incerto il comportamento delle comparative di uguaglianza: “Andrea si comporta sempre come ci si aspetta da lui“, ma “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetti da lui“. Ovviamente, però, è anche possibile “Sospetto che Andrea si comporti sempre come ci si aspetta da lui“. Anche in questi casi, come in tutti quelli in cui è possibile l’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo, vale la norma non scritta che il congiuntivo rappresenti la soluzione più formale. Come si è detto, l’aderenza logica alla reggente non può spiegare tutti i casi: le completive, per esempio, tanto legate alla reggente da essere necessarie (una frase come “Sono convinto che tu mi stia imbrogliando” non avrebbe senso compiuto se togliessimo “che tu mi stia imbrogliando”) sono quasi sempre costruite con il congiuntivo.
La specializzazione sintattica del congiuntivo nella segnalazione della subordinazione ha finito per assegnargli la sfumatura semantica di modo della ipotesi, dell’eventualità, della possibilità, della controfattualità. Questa sfumatura, sviluppatasi secondariamente rispetto alla funzione sintattica primaria, è oggi percepita come il carattere preminente del congiuntivo. È opinione comune, per esempio, che “Credo che tu sei un buon amico” esprima certezza, mentre “Credo che tu sia un buon amico” esprima dubbio; la differenza, invece, è, come detto, di natura diafasica: la prima variante è meno formale della seconda, ed è, coerentemente, tipica del registro medio-basso nello scritto e del registro medio e medio-alto nel parlato. Lo stesso vale per “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettavo” e “La tua proposta è migliore di quanto mi aspettassi” e, ribadisco, per tutti gli altri casi di possibile alternanza.
Certo, una convinzione così radicata come quella che il congiuntivo sia il modo dell’eventualità non può essere trascurata: anche se si tratta di una interpretazione secondaria, oggi essa è attiva nella percezione dei parlanti, quindi va registrata. Possiamo dire, quindi, che il congiuntivo è il modo della subordinazione, ma veicola anche, secondariamente e non sempre, una sfumatura semantica epistemica: il parlante, usandolo, esprime incertezza sulla fattualità di ciò che sta affermando.
La relazione tra indicativo e congiuntivo è al centro di molte domande poste a DICO nel tempo: una delle ultime risposte sull’argomento si può leggere qui: https://bit.ly/2GnQ1zH, ma consiglio anche di interrogare l’archivio inserendo nel motore di ricerca interno la parola chiave congiuntivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Entrò in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato”: tale frase è un esempio di scissa o pseudoscissa?
Vi domando, poi, se il congiuntivo trapassato o il passato prossimo sarebbero stati ugualmente validi:
“Entrò in camera, come uno che avesse corso a perdifiato”.
“Entrò in camera, come uno che ha corso a perdifiato”.
RISPOSTA:
La prima frase ricalca l’ordine sintattico naturale dell’italiano, Soggetto, Verbo, Oggetto (ovvero ampliamenti vari, visto che al posto dell’Oggetto qui troviamo un complemento di moto a luogo e poi un complemento predicativo del soggetto). La versione scissa della sua frase sarebbe: “Fu lui a entrare in camera trafelato…” (la seconda parte è implicita perché il suo soggetto coincide con quello della reggente); quella pseudoscissa “A entrare in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato, fu lui”.
Il congiuntivo passato della proposizione comparativa può essere sostituito con il trapassato, con la differenza che il rapporto temporale tra reggente e subordinata cambia. Il passato esprime anteriorità rispetto al presente, quindi rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero ora: ne consegue che la descrizione della persona è riferita non alla situazione specifica narrata, ma ha valore generale (la persona somigliava a chiunque abbia corso a perdifiato). Il trapassato esprime anteriorità rispetto al passato, quindi viene riferito al momento dell’azione dell’entrare: ne consegue che la descrizione riguarda la situazione specifica narrata (la persona sembrava aver corso a perdifiato).
La sostituzione con l’indicativo passato prossimo è anche possibile: in questo caso non cambia la relazione temporale, ma il livello di formalità (più basso con l’indicativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Una volta che può avere sia valore ipotetico che temporale, come quando? Le possibilità riportate più sotto, nonostante i distinguo di carattere semantico, sono valide?
“Una volta che avreste / abbiate / avrete ricevuto la comunicazione, vorrei essere messo al corrente”.
RISPOSTA:
Tutti i connettivi temporali assumono una sfumatura ipotetica quando introducono un evento futuro, proprio perché il futuro comporta automaticamente un certo grado di incertezza. Questa sfumatura è accentuata, nella percezione dei parlanti, dal congiuntivo (sebbene in astratto il congiuntivo sia solamente più formale dell’indicativo; su questo punto può leggere una recente risposta nell’archivio di DICO). Quindi, “Una volta che abbiate / avrete / avete ricevuto…” sono tutte varianti possibili, tra cui la più formale è abbiate ricevuto (sul passato prossimo in costrutti ipotetici si può leggere questa altra risposta nell’archivio di DICO). Possibili anche “Una volta che riceveste…” (congiuntivo imperfetto) e persino “Una volta che aveste ricevuto…” (congiuntivo trapassato), che designano l’evento rispettivamente come possibile e improbabile (accentuano, quindi, la sfumatura ipotetica del connettivo).
Scorretta, invece, nel suo caso, *”Una volta che avreste ricevuto…”. Il condizionale passato è possibile solamente se ci si trova in un contesto di futuro nel passato, come in questa frase: “Vi avevo chiesto di avvisarmi subito una volta che avreste ricevuto la comunicazione”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Marco era accanto a Riccardo, che parlava a vanvera”, la subordinata è collegata al soggetto o al complemento? La virgola (sia se presente, come nell’esempio, sia se assente) è determinante per caratterizzare la relativa? In che modo si possono evitare incomprensioni senza ricorrere a soluzioni quali “Marco era accanto a Riccardo e quest’ultimo parlava a vanvera”; “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”?
RISPOSTA:
Nella sua frase, la relativa è senz’altro collegata al complemento, perché il pronome relativo rimanda sempre al referente più vicino, detto anche antecedente. Non è, pertanto, necessario sovraspecificare il riferimento con una forma referenziale come quest’ultimo. Questo pronome è adatto se dividiamo la frase in due parti, così: “Marco era accanto a Riccardo. Quest’ultimo parlava a vanvera”.
Se manteniamo la frase unita, un pronome più esplicito è necessario qualora il referente sia non quello adiacente, ma quello più lontano (in questo caso Marco): in “Marco era accanto a Riccardo e quello parlava a vanvera”, infatti, il referente di quello è proprio Marco (si noti che, coerentemente, quello indica in genere un oggetto che si trova lontano da chi parla).
La virgola non influisce sul collegamento, ma influisce, invece, sulla funzione della relativa e sul significato dell’intera frase. La relativa senza virgola, detta limitativa, contiene una informazione che identifica l’antecedente, mentre quella separata dalla virgola, detta esplicativa, aggiunge una informazione accessoria sull’antecedente. Nel suo caso, la virgola è quasi obbligatoria, perché Riccardo, nome proprio, è identificato di per sé; ma la situazione cambia se sostituiamo a Riccardo un nome comune, ad esempio: “Marco era accanto a quel ragazzo, che parlava a vanvera”. Nella frase così costruita, la relativa aggiunge una caratteristica non necessaria per identificare quel ragazzo; quindi l’emittente presuppone che il suo interlocutore sappia già chi sia quel ragazzo. Se l’enunciato fosse parlato anziché scritto la virgola sarebbe sostituita da una pausa intonativa e si potrebbe immaginare che l’interlocutore stia vedendo quel ragazzo nel momento in cui avviene la conversazione. La caratteristica del parlare a vanvera si configura, pertanto, come accessoria, o transitoria: il ragazzo in questione si comportava in quel modo nel momento in cui era accanto a Marco, ma non sappiamo se parlare a vanvera sia un’abitudine che lo identifica.
Sappiamo, però, che l’emittente non ritiene il parlare a vanvera un’abitudine che identifica quel ragazzo agli occhi del suo interlocutore, altrimenti avrebbe scritto “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera” e, nel parlato, avrebbe pronunciato l’enunciato senza pause. In “Marco era accanto a quel ragazzo che parlava a vanvera”, senza virgole o pause, la relativa fa, infatti, parte del complesso nominale di quel ragazzo e ne determina l’identità: in questo caso, l’emittente sta richiamando alla memoria del suo interlocutore un particolare ragazzo noto a entrambi in passato (visto che usa l’imperfetto parlava) per la sua abitudine di parlare a vanvera.
Di relative limitative ed esplicative si parla anche in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti costruzioni sono corrette in tema di rapporti tra i tempi verbali?
– Lavorerai domattina – domanda l’uno.
– Sì, di pomeriggio – risponde l’altro.
– Pensavo che lavorassi di mattina.
(Mi domando se il congiuntivo imperfetto possa sostituire il condizionale passato).
– Mi stai dicendo che tu domani saresti stato disposto a partire di casa alle 6 di mattina? – domanda la donna.
(Il condizionale passato, pur collegandosi a un evento futuro al momento dell’enunciazione, può essere accettato per sottolineare la definitiva conclusione della condizione?)
RISPOSTA:
Il congiuntivo imperfetto può estendere la sua funzione di indicatore di contemporaneità nel passato inglobando anche l’espressione del futuro nel passato, propria del condizionale passato. Usando il congiuntivo imperfetto, il parlante rappresenta l’evento come contemporaneo al momento in cui lo ha pensato o comunicato, conferendogli una sfumatura di certezza, a dispetto della sua collocazione nel futuro. Per questo motivo, con verbi di comando il condizionale passato è quasi impossibile: “Ordinò che io l’indomani partissi” (non *”Ordinò che io l’indomani sarei partito”), mentre è il congiuntivo imperfetto molto strano con verbi di dire privi di sfumature volitive: “Mi disse / comunicò che l’indomani sarei stato arrestato” (non *”Mi disse / comunicò che l’indomani fossi arrestato”). Con verbi di pensiero, le due opzioni sono generalmente valide; il congiuntivo è la scelta meno formale, sebbene non si possa dire trascurata, adatta a un registro medio, come dimostrano gli esempi letterari: “Lei stava ai fornelli, si è girata al rumore dei passi. Pensavo che aprisse le braccia. Ho detto: ‘Mamma, sono qui!'” (Susanna Tamaro, Per voce sola, 1991). Si vedano, su questo argomento, le tante risposte a domande analoghe nell’archivio di DICO; per esempio questa.
Il condizionale passato nella seconda frase lascia intendere che l’azione futura non si avvererà, perché è intervenuta una condizione ostativa. L’emittente, cioè, sa già che la persona con cui sta parlando non dovrà partire. Si noti che non siamo in un contesto di futuro nel passato, perché il momento di riferimento è presente e coincide con il momento dell’enunciazione (nel futuro nel passato, invece, il momento di riferimento è passato, mentre quello dell’enunciazione è, come sempre, presente). Il condizionale passato, pertanto, si configura come l’apodosi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, che suggerisce, come detto, la controfattualità dell’espressione verbale. Diversamente, “Mi stai dicendo che tu domani saresti disposto a partire…” indicherebbe che l’azione potrebbe ancora avverarsi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando si dice giocare a qualcose quando con qualcosa? Per esempio giocare a o con un gioco di società?
RISPOSTA:
Si gioca a un gioco di società. In generale, si gioca a qualcosa quando si partecipa a un’attività organizzata e con un regolamento: giocare a calcio, a carte, a scacchi, a Monopoli. Si gioca con qualcosa, invece, quando si usa un oggetto per divertirsi: giocare con il pallone ‘giocare usando un pallone’ (mentre giocare a pallone significa ‘giocare a calcio’), con il frisbee, con le bambole ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi pare che le relazioni di consecutio temporum che qui di illustro non siano mai state prese in esame.
1) Domani pomeriggio ricordati di chiamare il centralino, se entro la fine della mattinata (di domani)…
a) non avrai ricevuto/riceverai aggiornamenti.
b) non ricevessi aggiornamenti.
c) non avessi ricevuto aggiornamenti.
N.B. Nella variante a) ho unito i due tempi del futuro perché leggendo i vostri articoli ho capito che si differenziano quasi esclusivamente per il livello di formalità.
2) Se nel frattempo fosse stata chiarita la situazione, il dirigente già domani…
a) potrebbe adottare misure restrittive.
b) potrà adottare misure restrittive.
RISPOSTA:
Nei suoi esempi la costruzione del periodo ipotetico si intreccia con la consecutio temporum.
La frase 1) presenta i tre modelli canonici della protasi del periodo ipotetico. La soluzione a) coincide con la protasi di un periodo ipotetico della realtà, costruita con l’indicativo. L’evento condizionante, quello che provoca come conseguenza l’altro (ricordati), espresso nell’apodosi, è situato nel futuro rispetto al momento dell’enunciazione, cioè adesso (dal punto di vista di chi parla). La scelta del tempo da usare per questo evento è molto ampia: sono possibili li futuro semplice (se non riceverai), il futuro anteriore (se non avrai ricevuto), il presente (se non ricevi) e anche il passato prossimo (se non hai ricevuto). Tra queste, il futuro anteriore è la più lineare, perché esprime tanto la posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione quanto l’anteriorità rispetto alla conseguenza; il futuro semplice è, nell’italiano contemporaneo, sempre sostituibile a quello anteriore, come variante semplificata, che lascia implicito il rapporto di anteriorità rispetto alla conseguenza, facilmente inferibile per logica. Il presente, a sua volta, è quasi sempre sostituibile al futuro con funzione temporale: sarebbe questa, probabilmente, la variante preferita in una conversazione tra pari. Il passato prossimo è l’esito di uno slittamento, pienamente ammissibile, di piani temporali: con esso, il parlante sposta il suo centro deittico per un attimo a domani, mettendosi nei panni della persona che deve ricordarsi di chiamare. In quel momento, l’evento della protasi è, appunto, nel passato.
La soluzione b) rappresenta una protasi di un periodo ipotetico della possibilità: esprime l’evento della mancata ricezione di aggiornamenti come possibile invece che come reale, suggerendo che secondo il parlante esso sia un po’ meno probabile rispetto a quanto lo sarebbe stato se lo avrebbe espresso con l’indicativo.
La soluzione c), infine, rappresenta una protasi dell’irrealtà, che suggerisce l’improbabilità dell’evento.
La frase 2) mostra due casi apodosi rispetto a una protasi con il trapassato (se fosse stata chiarita). La soluzione a), al condizionale presente (potrebbe adottare), da un parte designa l’evento come possibile, dall’altro sottolinea la necessità che l’evento della protasi si sia concluso prima che l’evento dell’apodosi, l’adozione di misure, possa avvenire. Nella soluzione b), l’indicativo designa la conseguenza come reale, sottolineando il pieno potere del dirigente (se non, addirittura, l’intenzione già formata) di metterla in atto. Si può, ovviamente, aggiungere anche in questo caso una terza soluzione per l’apodosi, quella che rispecchia la costruzione canonica dell’irrealtà: “avrebbe potuto adottare misure restrittive”. Con questa, la conseguenza è data, appunto, per irreale: si completa, in questo modo, la costruzione di una ipotesi di cui si conosce già l’esito controfattuale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali forme verbali vanno usate in queste frasi?
1. Luca gli chiede se è / sarebbe / sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
2. Ho detto loro che non avessi / avevo idea di cosa accadeva / accadesse a René quando urlava.
3. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva / sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
4. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi / fossi stato uno di loro.
5. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può / potrebbe / potrà mettere a disposizione un pulmino
6. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva / avvenisse all’interno del deposito.
7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi / si fosse presentato un baratro.
8. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva / sarebbe accaduto.
9. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo / averlo meritato o guadagnato.
10. Aveva più amici di quanti lui stesso avrebbe / avesse mai potuto immaginare.
11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino potesse / possa immaginare e sopportare.
12. Chiamo e chiedo se è / sarebbe / sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
13. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse / fosse uscito completamente
dalla stazione.
14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che / come, nonostante sorprese ed emozioni, siamo / fossimo riusciti comunque a fare una bella dormita.
15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire avesse / abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
16. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa / farebbe accendere la sigaretta.
17. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto / abbia spinto / avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse / desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
18. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha / aveva / abbia / avesse ricevuto comunicazioni.
19. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano / sono / fossero conosciuti.
20. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei / avrei sospettato che l’acuto finale te lo fossi / lo avessi preparato per l’occasione.
21. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi / desideravo metterla contro mia madre, rispose…
22. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva / avesse fatto uso di sostanze stupefacenti.
RISPOSTA:
La scelta del modo e del tempo verbale nelle frasi da lei proposte non è quasi mai obbligata, ma, piuttosto, dipende dalla sfumatura semantica ricercata, dal grado di formalità richiesto dalla situazione o dalla consecutio temporum. Visto il gran numero di esempi, non mi dilungo in spiegazioni, ma rimando all’archivio di DICO, nel quale ci sono già molte risposte che trattano dei fenomeni qui coinvolti. Riscriverò, di seguito, le frasi corrette:
1a. Luca gli chiede se è ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1b. Luca gli chiede se sarebbe ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
1c. Luca gli chiede se sia ancora possibile fare una veloce visita all’interno della struttura.
Tutte le tre frasi 1. vanno bene: quella con l’indicativo è più diretta, quella con il condizionale è più cortese (e fa emergere il punto di vista interno del soggetto, avvicinandosi al discorso indiretto libero), quella con il congiuntivo è più formale.
2a. Ho detto loro che non avevo idea di cosa accadeva a René quando urlava.
2b. Ho detto loro che non avessi idea di cosa accadesse a René quando urlava.
Anche in questo caso, la scelta del modo dipende dal grado di formalità atteso.
3a. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita poteva diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
3b. Mi avevano avvertito che, in certi momenti, la vita sarebbe potuta diventare difficile come percorrere una strada tutta in salita.
La versione con il condizionale passato è più formale. In teoria l’imperfetto è più generico e può far riferimento alla vita in generale, non per forza alla vita futura, ma il verbo della reggente, avvertire, impone un’interpretazione futura. Possibile anche potesse.
4a. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi uno di loro.
4b. Compiaciuta, ha sussurrato sorridendo che, un attimo prima, aveva mentito ai suoi amici per aiutarmi; ma non aveva pensato, nemmeno per un attimo, che fossi stato uno di loro.
La variante con l’imperfetto indica che l’amicizia era o non era in corso mentre lei pensava; quella con il trapassato sottolinea che l’amicizia si era o non si era conclusa in un momento precedente a quello in cui lei si era trovata a pensare.
5a. Luca chiede se l’Amministrazione comunale può mettere a disposizione un pulmino.
5b. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrebbe mettere a disposizione un pulmino.
5c. Luca chiede se l’Amministrazione comunale potrà mettere a disposizione un pulmino.
Come per la 1., l’indicativo è più diretto. Il futuro aggiunge una precisazione temporale rispetto al presente, per cui è più facile ricondurlo a un evento specifico, mentre il presente rimane ambiguo tra “può mettere a disposizione sempre” e “può mettere a disposizione per una specifica occasione”. Aggiungerei anche una quarta versione, con possa, che risulterebbe la più formale.
6a. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avveniva all’interno del deposito.
6b. Il custode del centro sportivo era comunque ben informato su cosa avvenisse all’interno del deposito.
Come per la 1., è una questione di formalità.
7. Non avrei mai immaginato che terminata l’arrampicata potesse presentarsi un baratro.
Impossibile si fosse presentato, perché il trapassato esprime l’anteriorità rispetto al tempo della reggente, quindi contrasta con il fatto che il soggetto non sapeva che ci fosse un baratro. Possibile, e più formale, si sarebbe presentato.
8a. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi accadeva.
8b. Raramente ciò che leggevo coincideva con quello che poi sarebbe accaduto.
Anche qui l’indicativo è meno formale (e più comune), il condizionale passato più formale.
9a. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di essermelo meritato o guadagnato.
9b. Se pretendo un regalo, mio padre mi chiede se sono sicuro di averlo meritato o guadagnato.
Qui la scelta è tra meritare (ausiliare avere) e meritarsi (ausiliare essere), ovvero tra il verbo nella sua forma neutrale, più formale e distaccata, e lo stesso verbo nella versione pronominale, che gli conferisce una sfumatura emotiva, di partecipazione del soggetto (come se intendesse meritare per sé).
10. Aveva più amici di quanti lui stesso avesse mai potuto immaginare.
La variante con il condizionale passato è al limite dell’illogico, perché descrive una situazione in cui il soggetto non può immaginare che si sia realizzato uno stato (avere tante amicizie) dopo che lo stesso si è effettivamente realizzato e lui non può che esserne pienamente consapevole.
11. Oggi è successa una tragedia immane, la peggior cosa che la mente di un bambino possa immaginare e sopportare.
Non c’è nessuna ragione per usare il congiuntivo imperfetto in questo contesto.
12a. Chiamo e chiedo se è possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12b. Chiamo e chiedo se sarebbe possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
12c. Chiamo e chiedo se sia possibile fissare un appuntamento per intervistare il titolare.
Si veda l’esempio 5.
13a. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno uscisse completamente dalla stazione.
13b. Anche lui, prima di lasciare il binario, ha atteso che il treno fosse uscito completamente dalla stazione.
La scelta del tempo dipende da una sfumatura: l’imperfetto esprime la contemporaneità tra l’azione del treno e quella di lui; il trapassato sottolinea che il treno era completamento uscito prima che lui lasciasse il binario.
14. Rispondo che ieri sera abbiamo continuato la lettura e che, nonostante sorprese ed emozioni, siamo riusciti comunque a fare una bella dormita.
Visto il contenuto analogo delle due oggettive coordinate, non c’è ragione per non mantenere la stessa costruzione per entrambe. La sostituzione del secondo che con come è possibile, ma non cambia la costruzione della proposizione.
15. Ho la sensazione che una forza invisibile stia fiaccando ogni mia resistenza, e che la volontà di reagire abbia lasciato spazio a una profonda rassegnazione.
Non c’è ragione per usare il trapassato congiuntivo in questa frase.
16a. Tornata la calma gli chiedo anche se mi fa accendere la sigaretta.
16b. Tornata la calma gli chiedo anche se mi farebbe accendere la sigaretta.
Si veda la 1. Possibile anche la variante più formale con faccia.
17a. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17b. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17c. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desiderasse comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17d. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo ha spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17e. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo abbia spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
17f. Proseguo la telefonata curioso di sapere cosa lo avesse spinto a chiamarmi così presto e cos’altro desideri comunicarmi di così importante, oltre alla litigata con la moglie.
Come si vede, tutte le varianti sono possibili. I vari tempi del congiuntivo instaurano di volta in volta rapporti diversi (di anteriorità o contemporaneità) tra il momento dell’azione che essi stessi esprimono e gli altri momenti configurati nella frase: quello dell’enunciazione, ovvero ora, quello della chiamata e quello dell’insorgenza della volontà di comunicare con l’amico.
18a. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se ha ricevuto comunicazioni.
18b. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se aveva ricevuto comunicazioni.
18c. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se abbia ricevuto comunicazioni.
18d. Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni.
Le varianti più attese sono quelle con il passato prossimo indicativo (meno formale) e il passato congiuntivo (più formale). Quelle con il trapassato (per le quali vale sempre la differenza di formalità tra indicativo e congiuntivo) presuppongono la presenza di un tempo di riferimento intermedio tra quello dell’enunciazione e quello della ricezione delle comunicazioni. In realtà, questo tempo intermedio dovrebbe coincidere con quello della domanda del Colonnello, ma il fatto che il soggetto usi il presente (sento) pone questo evento sullo stesso piano temporale del momento dell’enunciazione, appunto il presente. La situazione sarebbe più chiara se sento fosse un presente storico, che ammette senza difficoltà (ma con cautela) lo slittamento dei piani temporali tra il presente e il passato. In alternativa, si può pensare che ci sia un altro evento intermedio, non introdotto esplicitamente, tra la domanda e la ricezione delle comunicazioni; ad esempio “Sento il Colonnello chiedere al Capitano dei Ris, sicuro di non essere ascoltato, se avesse ricevuto comunicazioni prima dell’arrivo degli ordini ufficiali“.
19a. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si siano conosciuti.
19b. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si sono conosciuti.
19c. Mi viene spontaneo chiedergli subito in che modo si fossero conosciuti.
Anche qui l’indicativo è la variante più diretta, meno formale e più comune. Per il trapassato valgono le stesse considerazioni fatte a proposito dell’esempio 18.
20a. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale te lo fossi preparato per l’occasione.
20b. Se non fosse per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora sospetterei che l’acuto finale lo avessi preparato per l’occasione.
Non c’è motivo (sebbene non sia impossibile) di usare il condizionale passato (avrei sospettato) quando si specifica che l’azione avviene ora e la protasi del periodo ipotetico ha il congiuntivo imperfetto (fosse). Il passato funzionerebbe bene se la protasi fosse al trapassato (“Se non fosse stato per l’indiscutibile casualità del nostro incontro, ora avrei sospettato…”). Per quanto riguarda la scelta tra preparare e prepararsi si veda l’esempio 9.
21a. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desideravo metterla contro mia madre, rispose…
21b. Quando le dissi che avrei accettato la sua offerta anche subito, ma che non desiderassi metterla contro mia madre, rispose…
Il congiuntivo è più formale.
22a. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non aveva fatto uso di sostanze stupefacenti.
22b. In quei giorni, non ebbe il dovuto rilievo mediatico nemmeno la notizia che la ragazza non avesse fatto uso di sostanze stupefacenti.
Come per l’esempio 21.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il seguente periodo è ben costruito o contiene invece un errore madornale?
“Se, qualora diventassi ricco, farei del bene al prossimo, significa che, di base, la mia natura è buona”. Alludo chiaramente alla frase con il condizionale: nel caso fosse valida, vi domando se la specificazione della protasi (nell’esempio di riferimento “qualora diventassi ricco”) sarebbe obbligatoria o facoltativa.
RISPOSTA:
La frase non è ben formata. La proposizione ipotetica incidentale “qualora diventassi ricco” non è la protasi del periodo ipotetico, ma è subordinata alla protasi (e non sintatticamente necessaria), che è “Se facessi del bene al prossimo”. Quindi, innanzitutto, il condizionale farei va sostituito con il congiuntivo imperfetto facessi. Noto anche che la protasi con il congiuntivo imperfetto è subordinata a una apodosi con l’indicativo presente, significa. Questo non può essere considerato un errore, ma è certamente una scelta insolita, visto che l’indicativo esprime la certezza del parlante su quanto sta dicendo, mentre la protasi al congiuntivo imperfetto esprime la possibilità che qualcosa avvenga. Insomma, il modello sottostante alle frase così formulata è: ‘se si verificasse un evento ciò comporta una conseguenza’. La formulazione più comune in questo caso sarebbe, invece, “Se, qualora diventassi ricco, facessi del bene al prossimo, significherebbe che, di base, la mia natura è buona”; con il condizionale significherebbe si esprime con chiarezza che la conseguenza è, appunto, condizionata dalla possibilità che si verifichi l’evento indicato nella protasi. La proposizione oggettiva “che, di base, la mia natura è buona”, infine, può essere costruita anche con il congiuntivo (“che, di base, la mia natura sia buona”), se si vuole elevare il registro dell’intera frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il periodo: “Non c’è niente di anomalo (né) nel rapporto con le cose né in quello con le persone” si sarebbe potuto scrivere anche così: “Non c’è niente di anomalo nel rapporto né con le cose né con le persone” senza commettere errori o operare variazioni di significato?
RISPOSTA:
La posizione del primo né in astratto modifica il significato della frase; in questo caso specifico, il significato rimane grosso modo lo stesso dovunque mettiamo la congiunzione, ma con una piccola sfumatura di differenza: nella prima frase si sottolinea che la mancanza di anomalia riguardi il rapporto con le cose e le persone, e non si evoca alcun’altra entità; nella seconda frase si lascia intendere che la mancanza di anomalia possa riguardare altre entità oltre alle cose e alle persone, quindi si lascia aperta la possibilità che ci sia qualcosa di anomalo nel rapporto con entità diverse dalle cose e dalle persone. La sfumatura tende ad annullarsi perché le cose e le persone rappresentano più o meno tutta la realtà, quindi si farebbe fatica a trovare un’altra entità oltre a queste. Si immagini, però, due frasi del genere, formate sullo stesso modello delle sue: “Non sono in disaccordo né con Luca né con Mario” = potrei essere in disaccordo con altri / “Non sono né in disaccordo con Luca né in disaccordo con Mario” = Non considero la possibilità di essere in disaccordo con altri.
La forma delle due frasi è, comunque, corretta, visto che, nella prima, ha avuto l’accortezza di riprendere rapporto con il pronome quello. Molto meno felice sarebbe stata la formulazione: “Non c’è niente di anomalo né nel rapporto con le cose né con le persone”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette:
“Anita non sa neanche cosa dica”,
“La pedagogia speciale propone metodi educativi che rispondano / rispondono ai bisogni degli educandi”,
“Il filosofo preferisce una scienza che parta / parte dal dubbio”,
“Mi ha chiesto se io abbia dormito bene”.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette, comprese entrambe le varianti per la seconda e la terza. La prima e la quarta contengono una proposizione interrogativa indiretta, introdotta in entrambi i casi da se, che preferisce il congiuntivo. L’indicativo non sarebbe scorretto (“Anita non sa neanche cosa dice”, “Mi ha chiesto se ho dormito bene”), ma sarebbe meno formale.
Nella seconda e nella terza frase la situazione è diversa: le subordinate sono relative, che normalmente richiedono l’indicativo (quindi rispondono e parte) quando indicano una qualità posseduta dal referente o uno stato di fatto, ma possono prendere il congiuntivo se si vuole aggiungere al verbo una sfumatura di eventualità e di auspicio. “Che rispondono ai bisogni degli educandi”, cioè, descrive i metodi che la pedagogia effettivamente propone; “che rispondano ai bisogni degli educandi” fa risaltare la speranza che la pedagogia ripone nella possibilità che i metodi rispondano ai bisogni degli educandi. E lo stesso vale per la terza frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi avvalgo della vostra cordiale disponibilità per esplicare il seguente interrogativo:
le frasi
1. Anche Tizio non è stato promosso;
2. Non è stato promosso neppure / nemmeno Tizio;
3. Neppure / nemmeno Tizio è stato promosso
sono tutte ben formate?
È possibile che modificando la posizione del predicato (esempio 2 rispetto a 1 e 3) o il tipo di costruzione da negativa a positiva (esempio 3 rispetto a 2), anche e nemmeno o neppure svolgano la medesima funzione?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la funzione degli avverbi negativi nemmeno, neanche, neppure, essa cambia in relazione alla posizione degli avverbi nella frase; questi avverbi, cioè, negano il sintagma al quale sono adiacenti. Quindi “Neppure Tizio è stato promosso” vuol dire che neanche altri sono stati promossi, mentre “Tizio non è stato neppure promosso” vuol dire che Tizio non ha superato neanche altre prove.
Aggiungo che la frase 1. è al limite dell’accettabilità; la forma migliore sarebbe: “Neanche / neppure / nemmeno Tizio è stato promosso”.
La questione dello spostamento dell’elemento negato all’interno della frase è diversa, e chiama in causa la sintassi dell’informazione, ovvero il diverso peso che le informazioni acquisiscono a seconda della posizione in cui vengono inserite. Solitamente, le informazioni che inseriamo a destra sono quelle su cui vogliamo che il nostro interlocutore concentri la sua attenzione. Si pensi a un esempio come questo: “Ho preso la penna blu nel cassetto” / “Ho preso nel cassetto la penna blu”: l’informazione che si viene a trovare alla destra della frase (prima nel cassetto, poi la penna) riceve un peso maggiore; diviene, come si dice in linguistica testuale, il fuoco dell’enunciato. Alcune parole, come gli avverbi nemmeno e simili, sono dette focalizzatori, perché fanno risaltare l’informazione a cui si accompagnano qualsiasi sia la sua posizione. Nel nostro caso, infatti, nemmeno Tizio risulta il fuoco dell’enunciato anche se lo mettiamo a sinistra: “Neppure Tizio è stato promosso”. Rimane da capire che differenza ci sia tra quest’ultima formulazione e “Non è stato promosso neppure Tizio”. Dal punto di vista sintattico, notiamo che in questa formulazione diviene obbligatorio negare anche il verbo, mentre in quella con nemmeno Tizio a sinistra la negazione del verbo sarebbe, al contrario, inaccettabile. Questo avviene perché l’italiano preferisce inserire sempre la negazione all’inizio dell’enunciato e poi solitamente ammette, ma non richiede, la sua ripetizione. Notiamo anche che il soggetto grammaticale del verbo, Tizio, è posposto.
Dal punto di vista della sintassi dell’informazione, immaginiamo una situazione in cui il parlante (una persona diversa da Tizio) non abbia superato un esame, e qualcuno glielo faccia notare per mancanza di tatto, o per dargli fastidio: “Quindi non sei stato promosso, eh?”. Il parlante potrebbe rispondere con entrambe le formulazioni: “Non è stato promosso neppure Tizio” chiarirebbe i termini della questione in modo neutrale: ‘riguardo al tema che hai sollevato, ti faccio notare che…’; “Neppure Tizio è stato promosso”, invece, stabilirebbe fin da subito ciò che più preme al parlante comunicare, riducendo l’altra informazione a una appendice, richiesta per completare sintatticamente la frase (la sola enunciazione “Neppure Tizio” risulterebbe sospesa). Riguardo alla funzione informativa di questa appendice, emerge l’intento di rimarcarne il valore pragmatico, come se il parlante comunicasse tra le righe ‘visto che me lo chiedi / se proprio lo vuoi sapere’, con tutte le sfumature psicologiche che ne possono derivare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’uso del condizionale nelle proposizioni sotto riportate è adeguato?
1) Anche se dovresti occupartene tu, mi farò carico io dell’incombenza.
2) Ho voluto aggiornarla sulla variazione, fermo restando che dovrebbe essere l’istituto a procedere d’ufficio.
RISPOSTA:
È sicuramente corretto; in quanto all’adeguatezza, questa dipende dal contesto e dallo scopo comunicativo che l’emittente si propone. Il condizionale del verbo dovere serve per mitigare la forza illocutiva, ovvero la perentorietà, dell’ordine realizzato con questo verbo. Tale modalizzazione del verbo dovere è quasi sempre richiesta in condizioni normali, per evitare di sembrare scortesi; ma nel caso in cui l’emittente intenda essere molto esplicito, al limite dello scortese, potrebbe anche optare per l’indicativo. Al contrario, se l’emittente intende ridurre ancora di più la forza illocutiva, può sostituire del tutto il verbo dovere con altre perifrasi che mascherano completamente l’ordine, ad esempio: “Anche se potresti occupartene tu, mi farò carico io dell’incombenza”, oppure mascherano il destinatario dell’ordine: “Anche se non dovrei occuparmene io, mi farò comunque carico dell’incombenza”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sarei grata se analizzaste il seguente enunciato, letto recentemente:
“Ti avevo detto che avrei aspettato di riuscire a parlare con Max, prima di avvertirti”.
Avrebbe potuto essere migliorato dallo scrivente in chiave sintattica e di punteggiatura?
RISPOSTA:
La frase è ben formata da tutti i punti di vista. Descrive una situazione intricata, nella quale il momento dell’incontro con Max è stato preceduto dall’annuncio dell’emittente: “Ti avevo detto”. Tale avvertimento è espresso con il trapassato perché è avvenuto prima di un altro evento, a sua volta passato. L’evento passato rispetto al quale l’annuncio dell’emittente è anteriore non è esplicitato, ma possiamo facilmente ricostruirlo: è la richiesta di informazioni da parte del ricevente. Il parlante, cioè, sottintende “Prima che tu mi chiedessi informazioni sul mio incontro con Max, ti avevo detto…”.
L’azione dell’aspettare contenuta nella subordinata oggettiva direttamente dipendente dalla principale è espressa con il condizionale passato perché è collocata nel futuro rispetto al trapassato avevo detto (per saperne di più sul futuro nel passato è possibile consultare l’archivio di DICO con la parola chiave consecutio temporum). La proposizione temporale “Prima di avvertirti”, infine, è costruita con l’infinito perché il suo soggetto coincide con quello della reggente, io; l’infinito è, inoltre, presente perché instaura un rapporto di posteriorità con l’azione della reggente (“che avrei aspettato”).
Quest’ultima proposizione contiene un’informazione di sfondo, quindi è bene separarla dal resto della frase con una virgola. Una alternativa ugualmente valida è inserirla come incidentale nel corpo della frase: “Ti avevo detto che, prima di avvertirti, avrei aspettato di riuscire a parlare con Max”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi pongo un quesito relativo alla declinazione dei pronomi reciproci l’un l’altro e derivati. Quando ci si riferisce a soggetti maschili, il problema, almeno per me, non sussiste; la questione si complica in presenza di soggetti femminili o misti.
Le frasi:
“Le ragazze si stimano le une le altre”,
“Lucia e Paolo si amano l’una l’altro” (laddove non fosse possibile invertire le posizioni dei soggetti),
“I bambini e le bambine giocano gli uni con le altre”
sono valide?
Sarebbe inoltre possibile usare soluzioni, per così dire, “al maschile”, come se fossero cristallizzate, quando il genere è misto?
“Lucia e Paolo si amano l’un l’altro”.
RISPOSTA:
Il pronome reciproco l’un l’altro è soggetto all’accordo di genere e numero con i nomi a cui si riferisce. Le forme senza identità di genere tra i due membri (l’un l’altra, gli uni le altre) sono più rare di quelle “omogenee”, ma ugualmente ben formate. Decisamente rara, sebbene in linea di principio ineccepibile, è l’inversione dei termini, con la precedenza data al membro femminile. Va detto, comunque, che, proprio in virtù della reciprocità, l’accordo funziona a prescindere dall’ordine relativo dei due membri: “Lucia e Paolo si amano l’un l’altra” è corretto nonostante la mancata corrispondenza simmetrica tra i generi dei soggetti e quelli del pronome. “Lucia e Paolo si amano l’una l’altro”, invece, pur non essendo scorretto, risulta sgradito ai parlanti, come dimostra la quasi totale assenza di esempi, tanto on line quanto nell’archivio della BIZ (Biblioteca Italiana Zanichelli). Rari, sebbene attestati, sono, infine, l’una l’altra e le une le altre.
L’alta frequenza d’uso di varianti plurali e con il secondo membro femminile sconsigliano l’uso cristallizzato di l’un l’altro. Vero è che una certa tendenza alla cristallizzazione esiste; essa è, però, attualmente un fenomeno popolare, non accolto nella lingua comune.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mi sono emozionato nel vederlo”
“Mi sono emozionato nell’averla vista”
Differiscono solamente per il fatto che la seconda, diversamente dalla prima, indica l’anteriorità dell’evento rappresentato dall’infinito passato, ma sono entrambe corrette?
Senza discostarmi dall’oggetto della domanda, vi chiedo se si possono riscontrare dei contesti in cui l’infinito presente e il passato siano intercambiabili, escludendo qualunque distinguo di carattere semantico.
Mettiamo il caso che ci si voglia congedare da un collega che ha appena presentato le dimissioni; si potrebbe dire indifferentemente
“È stato un piacere lavorare con te”
“È stato un piacere aver lavorato con te”?
RISPOSTA:
l’infinito passato, come da lei stesso ricordato, indica che l’evento o la situazione sia antecedente all’evento o situazione della reggente. Tale regola, però, si scontra con la funzione deittica di questa forma verbale, che colloca l’evento espresso nel passato. A seconda di quale funzione facciamo prevalere, quella anaforica o quella deittica (su questi concetti rimando alla risposta n. 2800175 dell’archivio di DICO), possiamo avere l’una o l’altra versione della frase, entrambe accettabili.
Questo vale per la seconda coppia di frasi; nella prima coppia, invece, la versione con l’infinito passato risulta un po’ forzata, al limite dell’accettabilità. La preposizione nel come introduttore di una subordinata temporale-causale, infatti, indica automaticamente che l’evento contenuto nella subordinata sia contestuale a quello contenuto nella reggente. Questo fa emergere il valore anaforico del tempo dell’infinito della subordinata, quindi richiede che tale infinito sia presente, in linea con la contemporaneità con la reggente indicata da nel. La costruzione diviene pienamente accettabile se, per esempio, sostituiamo la preposizione nel con a: “Mi sono emozionato ad averla vista”. In questo modo la proposizione subordinata, pur rimanendo temporale-causale, non implica necessariamente la contemporaneità con la reggente (ma neanche la esclude: “Mi sono emozionato a vederla”) .
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto questa frase: “Nemmeno non fare niente non è così complicato”. Secondo il Vostro parere, è corretto scrivere “Non è così complicato”, oppure si dovrebbe scrivere “Nemmeno non fare niente è così complicato”. Cioè, inserire non nella frase mi sembra che comunque non cambi il senso della frase.
RISPOSTA:
In effetti le tre negazioni nella stessa frase sembrano ingiustificate, a meno che il parlante non intendesse volutamente esagerare per scopi comunicativi particolari, come l’ironia, o la parafrasi di una frase detta precedentemente, ovvero “Fare qualcosa non è cosi complicato”. Dal punto di vista strettamente semantico, la variante proposta da lei sarebbe del tutto analoga alla forma originaria e, al netto degli intenti comunicativi di cui sopra, preferibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “L’ultima parola che ho detto è stata speranza“;
2) “L’ultima parola che ho detto è speranza“;
3) “L’aspetto che più mi piacque della città furono le bellezze architettoniche”;
4) “L’aspetto che più mi piacque della città sono le bellezze architettoniche”.
Le soluzioni 2 e 4 sono corrette al pari, rispettivamente, della 1 e della 3? È obbligatoria, in questi e altri casi simili, l’identità dei tempi verbali nelle proposizioni?
RISPOSTA:
Le frasi da lei proposte sono tutte ben formate. La proposizione relativa instaura un rapporto temporale con la reggente piuttosto libero, quindi è possibile trovare tempi diversi dell’indicativo nelle due proposizioni. La scelta tra il presente e lo stesso tempo della subordinata per il verbo della reggente dipende da quanto l’emittente vuole sottolineare l’attualità dell’elemento introdotto (qui la parola speranza e le bellezze architettoniche). il presente mostra che l’elemento è ancora (o già) esistente (o che l’emittente lo considera esistente); la scelta opposta, però, non indica che l’elemento non sia più (o ancora) esistente, ma, semplicemente, trascura questo dettaglio, mentre, al contrario, sottolinea la logica contemporaneità tra l’esistenza dell’elemento e l’evento espresso dalla relativa (cioè l’aver detto la parola speranza o aver gradito le bellezze architettoniche).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi scritte di seguito sono corrette o sarebbe consigliato il congiuntivo? Nell’esempio B, si verrebbe tra l’altro a creare, secondo me, una ripetizione, oltreché una cacofonia.
a) L’eventualità che potrebbero accadere certi fatti è da tenere in conto.
b) La possibilità che potrebbe succedere mi fa paura.
c) Penserei che sarebbe un pazzo se facesse quello che temi (in riferimento a uno dei vostri esempi FAQ, in cui avevate impiegato sia al posto di sarebbe).
Sempre restando in tema di alternanza congiuntivo/condizionale, gli enunciati con valore concessivo, introdotti da malgrado, nonostante (che) ecc., nonché quelli introdotti da qualunque, quale che ecc., possono talvolta ammettere il condizionale composto per rimarcare l’aspetto del futuro del passato o è d’obbligo il congiuntivo a prescindere?
d) Qualunque risposta avrei ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare.
e) Non si sarebbe lasciato convincere facilmente, nonostante avrebbe subito pressioni.
RISPOSTA:
Nella frase a), il condizionale nella proposizione oggettiva (o, se vogliamo, dichiarativa) è ammesso, soprattutto se manteniamo il verbo servile potere, che accentua la sfumatura semantica potenziale, funzionale all’uso del condizionale. Se, invece, eliminiamo potere, la frase diviene difficilmente accettabile: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti è da tenere in conto”. In realtà, anche in questo caso il condizionale è giustificabile, se consideriamo l’oggettiva come l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadrebbero certi fatti (se le circostanze lo permettessero) è da tenere in conto”. Il congiuntivo rimane comunque la scelta migliore; con questo modo si può anche costruire l’apodosi di un periodo ipotetico: “L’eventualità che accadano certi fatti (se le circostanze lo permettono / permettano) è da tenere in conto”. Rispetto a questo periodo ipotetico, quello con il condizionale presente e il congiuntivo imperfetto possiede una sfumatura eventuale più spiccata.
La frase b) ha la stessa struttura della a), per cui quanto detto si applica, mutatis mutandis, anche a questa.
Nella frase c) il condizionale sarebbe risponde agli stessi principi esposti sopra: esalta la sfumatura eventuale della frase. In altre parole, “Penserei che sarebbe un pazzo…” punta l’attenzione sul fatto che la concretizzazione della qualità dell’essere pazzo dipende (è, appunto, condizionata) dagli avvenimenti presentati nella protasi. Il congiuntivo, dal canto suo, veicola una sfumatura epistemica, molto meno marcata rispetto a quella eventuale del condizionale: sottolinea, cioè, che quanto detto dall’emittente sia un’opinione, non un fatto (come, del resto, emerge chiaramente dal senso generale della frase).
Per quanto riguarda le frasi d) ed e), il condizionale passato è sempre accettabile. Sostituendo il condizionale con il congiuntivo nella frase d) (“Qualunque cosa avessi ricevuto, avrei avuto qualcosa da obiettare”) si accentua la sfumatura epistemica; si sottolinea, cioè, l’incertezza dell’emittente riguardo a quello che avrebbe potuto ricevere e si enfatizza, quindi, l’indeterminatezza di questa cosa, o di queste cose. Tale incertezza è in linea con il significato indefinito dell’aggettivo qualunque; per questo con gli aggettivi e i pronomi indefiniti si preferisce di solito usare il congiuntivo.
Nella frase e) la sostituzione del condizionale con il congiuntivo non cambierebbe solamente una sfumatura semantica, ma il significato complessivo della frase: “… nonostante avesse subito pressioni” si riferisce al passato rispetto al momento di riferimento rispetto a cui “non si sarebbe lasciato convincere” è futuro; diversamente, “… nonostante avrebbe subito pressioni” si riferisce al futuro, che può essere o non essere contemporaneo a quello in cui “non si sarebbe lasciato convincere”, rispetto allo stesso momento di riferimento.
Il condizionale passato nelle proposizioni concessive è usato anche nei giornali. Può servire a esprimere il futuro nel passato: “E invece non hanno seguito le indicazioni di andare a Malta, porto più vicino, nonostante avrebbe costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti” (ilgiornale.it, 19 marzo 2018). Può esprimere, in alternativa, il distacco epistemico del giornalista che non garantisce sulla veridicità di quanto riporta: “Stando alle prime indiscrezioni la rinuncia al trono del re sarebbe un gesto d’amore, nonostante avrebbe mentito sui due mesi di assenza dal suo incarico” (Rainews, 7 gennaio 2019).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo in una traduzione di Conan Doyle:
“Mi era intollerabile la prospettiva di tenere per me il segreto fino a quando non potessi parlarne con lei”.
Se scrivessimo “avessi potuto parlarne con lei” o “avrei potuto parlarne con lei”, al di là delle differenze semantiche, si commetterebbe un errore?
RISPOSTA:
Sono tutte alternative possibili, con, come rilevato da lei, differenze semantiche._x000D_n”Fino a quando non avrei potuto parlarne con lei” è la normale costruzione del futuro nel passato, che richiede il condizionale passato. Con questa costruzione l’evento delparlarne con lei è semplicemente presentato come futuro rispetto alla situazione configurata dalla proposizione reggente (tenere il segreto ), che è, a sua volta, passata rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero il qui e ora dell’emittente._x000D_n”Fino a quando nonpotessi parlarne con lei” trascura la relazione temporale con il verbo reggente (comunque facilmente decodificabile grazie al significato della congiunzionefino a quando )e accentua, invece, il carattere ipotetico della proposizione temporale: la frase, così, si avvicina a “(Forse non avrei tenuto il segreto) senonpotessi parlarne con lei”. Grazie all’imperfetto congiuntivo, la prospettiva delparlarne con lei è presentata come possibile, quindi l’emittente sa, o è convinto, che si realizzerà (ma non sa quando).La variante con il trapassato (“Fino a quando nonavessi potuto parlarne con lei”) sposta l’ipotesi dal piano della possibilità a quello dell’irrealtà: l’emittente, quindi, non sa se, né quando, l’evento si realizzerà._x000D_nFabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “Ho visto in televisione” oppure “Ho visto alla televisione”?
RISPOSTA:
Alla televisione rimanda alla funzione precipua della preposizione a riferita a luoghi. Rispetto a in, che è pertinente allo spazio, a riguarda gli ambienti, cioè le attività, le procedure, le abitudini, le funzioni svolte tipicamente in determinati spazi. Per questo motivo, di ritorno da un viaggio diciamo “Sono a casa”, intendendo il nostro ambiente privato opposto al mondo esterno, non “Sono in casa”, ovvero nello spazio delimitato dai muri dell’abitazione. Per lo stesso motivo, se sentiamo che qualcuno si trova all’ospedale pensiamo che sia senz’altro malato, perché è ricorso alle procedure mediche tipiche di quell’ambiente, mentre se si trova in ospedale potrebbe essere malato, oppure essere in visita a un parente, o essere un dottore.
Alla televisione, quindi, significa ‘nell’ambiente dei programmi televisivi’, con riferimento alla trasmissione delle immagini, opposta alla testimonianza diretta. L’espressione in televisione si è imposta oggi nell’uso probabilmente per via della confusione tra televisione e televisore ‘elettrodomestico utile a mostrare le immagini trasmesse per mezzo della televisione’. In televisione, cioè, significa quasi ‘all’interno del televisore’, come in vetrina, in stanza, in ospedale ed è, pertanto, meno preciso. La larghissima diffusione di in televisione, comunque, rende questa espressione pienamente legittima in quasi tutti i contesti, sebbene sia sempre possibile preferire alla televisione, in ossequio alla precisione semantica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei entrare nel merito dei modi verbali che si possono – o si devono – impiegare nelle subordinate completive, in particolare nelle oggettive.
Se non sbaglio, in più occasioni avete sottolineato che in un registro formale si possa sempre usare il congiuntivo, benché l’indicativo risulti spesso la scelta più comune e largamente tollerata. Prima di apprendere tali indicazioni, tendevo a suddividere i possibili costrutti di tipo completivo in due categorie: quelli governati da verbi che richiedono l’indicativo e quelli governati invece da verbi che indulgono al congiuntivo. In altre parole, la distinzione che determinavo non seguiva l’asse formalità (congiuntivo) / “colloquialità” (indicativo).
Pensavo, ad esempio, che la frase “Ho capito che cosa vuoi veramente” fosse preferibile (ma anche più ligia alla grammatica) a “ho capito che cosa tu voglia veramente”, come “affermo che avete regione” anziché “affermo che abbiate ragione” ecc.
Per concludere, vi sarei riconoscente se mi chiariste questi dubbi:
1. Con la completive oggettive si può sempre usare il congiuntivo, anche se il costrutto affermativo è retto da verbi dichiarativi o di giudizio o percezione, quali, tra gli altri, constatare, dire, ricordare, rispondere, scrivere, sostenere, vedere ecc.?
2. Se, in determinate soggettive e oggettive, si usasse l’indicativo (ad esempio “È evidente che ha sbagliato”, “Sostengo che ha smesso di lavorare”, “Dico che i colleghi non sono in grado”, “Ha dimostrato che i ragazzi erano scappati” ecc.) si svilupperebbe comunque un registro sintattico medio-alto, adatto anche a contesti sorvegliati? (Mi vengono in mente i tanti “Sostiene Pereira che…” seguiti dall’indicativo che ho sempre ritenuto essere un esempio da manuale).
RISPOSTA:
Confermo che il congiuntivo sia la scelta più formale per le proposizioni completive, sebbene l’indicativo sia più comune, e in certi casi adatto a quasi tutti i contesti. Da rivedere, pertanto, l’idea che sia proprio il congiuntivo la variante meno “ligia alla grammatica”, ovvero meno aderente all’italiano standard.
I casi più favorevoli alla scelta dell’indicativo sono quelli in cui il verbo della proposizione reggente contenga nel suo significato il tratto della certezza (come sapere, affermare, constatare, i verbi di percezione in genere) e la reggente stessa sia affermativa e al presente. Questo avviene perché il modo indicativo veicola una sfumatura di fattività, mentre il congiuntivo è il modo della volizione e dell’eventualità. La semantica, pertanto, si intreccia con il registro e rende accettabili scelte diverse, a seconda di quale ragione l’emittente vuole far prevalere. Ci sono addirittura alcuni casi divenuti quasi canonici, con verbi reggenti dalla semantica ambigua, nei quali la maggioranza dei parlanti concorderebbe per una interpretazione semantica della scelta tra indicativo e congiuntivo: “Credo / penso che tu sei una brava persona” (= ‘ne sono sicuro’) contro “Credo / penso che tu sia una brava persona” (= ‘lo penso anche se non ne ho le prove’). Coerentemente con questa interpretazione semantica, il congiuntivo diventa preferibile al passato: “Credevo / pensavo che tu fossi (molto più sciatto eri) una brava persona”, per la controfattualità che emerge da una simile costruzione, o, per la stessa ragione, se la reggente diviene negativa, anche al presente: “Non credo / penso che tu sia (molto più sciatto sei) una brava persona”. A prescindere dalla convinzione generale, comunque, la ragione diafasica (il grado di formalità) è sempre presente e il congiuntivo rimane la scelta più formale anche con il verbo reggente costruito affermativamente e al presente.
Con verbi reggenti assertivi e di percezione, come detto, il congiuntivo è decisamente marcato verso l’alto, soprattutto quando questi verbi sono costruiti affermativamente al presente: “So / vedo che tu sei (molto formale sia) una brava persona”. Tale preferenza per l’indicativo è più sfumata al passato: “Sapevo / vedevo che tu eri (molto formale fossi) una brava persona”, ma si perde quasi del tutto con la costruzione negativa al passato: “Non sapevo / vedevo che tu fossi (o eri) una brava persona”. Per la costruzione negativa al presente dobbiamo cambiare verbi reggenti (spiegherò il motivo subito sotto) e, come si vede, il congiuntivo è anche qui preferibile o almeno sullo stesso piano dell’indicativo: “Non affermo / sento che tu sia (o sei) una brava persona”.
Con sapere e vedere costruiti negativamente al presente la subordinata oggettiva è innaturale (*”Non so che tu sia / sei una brava persona”). Possiamo, però, trasformarla in una interrogativa indiretta; osserviamo che, così, il congiuntivo diviene un’alternativa ancora più vicina alla medietà: “Non so / vedo se tu sia (o sei) una brava persona”.
In moltissimi casi, comunque, l’indicativo è una scelta talmente diffusa tra i parlanti che deve essere considerata adatta a molti contesti, anche di media formalità. Tra questi rientrano certamente i romanzi rivolti al grande pubblico, come il giustamente famoso Sostiene Pereira da lei citato, che aspirano a un modello di lingua comune. Anche in questo romanzo, non a caso, ci sono casi di congiuntivo in completive rette da verbi al passato; in questo brano, ad esempio, si susseguono una soggettiva e una oggettiva: “gli pareva strano, sostiene, che una persona che aveva formato riflessioni così profonde sulla morte non pensasse all’anima. E dunque pensò che ci fosse un equivoco”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe porre alla vostra attenzione tre costruzioni, le prime due ricavate da testi musicali e l’ultima da un noto romanzo del Novecento. Vorrei mettere sotto la lente non già il modo congiuntivo, che reputo adeguato, ma i tempi che gli autori hanno scelto.
1) Un errore sarebbe volere che tu sia oro anche per me.
2) Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigliasse un po’ più al mio.
3) Mi gettai sulla spiaggia e immersi la faccia nel tritume fradicio e credo che svenissi perché rimasi immobile, quasi senza sentimento, un tempo che mi parve lunghissimo.
In riferimento al brano letterario – oltre alla domanda sull’adeguatezza del tempo imperfetto – vi chiedo – muovendo da alcuni dei vostri articoli FAQ pubblicati – se la forma esplicita della frase (“credo che svenissi”) non avrebbe dovuto essere sostituita da quella implicita (“credo di essere svenuto”).
RISPOSTA:
Nella frase 1) troviamo un congiuntivo presente in dipendenza dall’infinito presente di un verbo di volontà, a sua volta dipendente da un condizionale presente. Questa situazione fa entrare in conflitto due costrutti, quello richiesto normalmente dalla consecutio temporum per la contemporaneità nel presente, e quello preferito dai verbi di volontà, desiderio, opportunità.
Il primo prevede nella oggettiva (anche in dipendenza da un condizionale presente) un presente, congiuntivo o indicativo: “Penserei che sia un pazzo se facesse davvero quello che temi”; “Se me lo chiedessi, ti risponderei che è un pazzo a volersi licenziare”. Il secondo prevede il congiuntivo imperfetto: “Vorrei che tu fossi più riflessivo quando prendi certe decisioni”. A rafforzare l’attrazione verso il congiuntivo imperfetto è anche il modello del periodo ipotetico del secondo tipo a cui si può conformare la frase: “Un errore sarebbe volere che tu sia oro anche per me” = “Un errore sarebbe se tu fossi oro anche per me”. Si noti, però, che se manteniamo i due gradi di subordinazione il presente torna a essere valido quanto l’imperfetto: “Un errore sarebbe se io volessi che tu sia / fossi oro anche per me”. Si torna, cioè, alla situazione iniziale, in cui il presente congiuntivo dell’oggettiva indica la contemporaneità nel presente, ma l’imperfetto è preferito dalla reggenza del verbo volere.
In conclusione, nella frase 1) presente e imperfetto sono ugualmente, per ragioni diverse, legittimi.
Nella frase 2) il congiuntivo si trova all’interno di una proposizione relativa, non di una oggettiva. La proposizione relativa è piuttosto libera da condizionamenti di tempo e modo verbale, infatti qui è accettabile il congiuntivo presente (“Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigli un po’ più al mio”) e anche l’indicativo presente (“Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somiglia un po’ più al mio”). In generale, quando è costruita con il congiuntivo, la relativa assume una sfumatura semantica di desiderio o auspicio; quindi “il cui nome somiglia” è una constatazione oggettiva, “il cui nome somigli / somigliasse” è un auspicio. Osservando l’alternanza dei modi da un altro punto di vista, si può dire che con l’indicativo la relativa è propria, quindi funge da ampliamento attributivo dell’antecedente (una metropoli), con il congiuntivo è impropria, e si avvicina a una finale-consecutiva: “Si potrebbe costruire una metropoli tale che / affinché il suo nome somigli un po’ più al mio”.
Il congiuntivo imperfetto, rispetto al presente, è attratto dalla semantica del costrutto reggente, si potrebbe, assimilabile a sarebbe bello, sarebbe opportuno, ovvero a un’espressione che indica opportunità. Siamo, quindi, in una situazione analoga a quella della frase 1). Potremmo addirittura individuare una sfumatura di differenza semantica tra “Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigliasse un po’ più al mio”, in cui è più percepibile il desiderio che ciò avvenga, e “Si potrebbe costruire una metropoli il cui nome somigli un po’ più al mio”, in cui la possibilità è vista dall’emittente con maggiore distacco, sebbene pur sempre come auspicabile.
Nella scelta tra somiglia e somigli, va detto, incide anche il grado di formalità del contesto: al netto delle sfumature semantiche, quando l’alternanza tra indicativo e congiuntivo è possibile, quest’ultimo risulta la scelta più formale. A meno che non si voglia sottolineare la sfumatura oggettiva, quindi, somigli è preferibile a somiglia.
Nella frase 3) l’imperfetto congiuntivo svenissi nell’oggettiva dipendente da un presente (credo) è perfettamente in linea con la consecutio temporum. Ovviamente, l’imperfetto è adatto a indicare azioni non momentanee, mentre il passato esprime azioni concluse (“credo che io sia svenuto”). Con questo tempo, quindi, lo scrittore ha inteso esprimere lo svolgimento dell’azione dello svenire, che poi, peraltro, non si è realizzata, quindi non si è conclusa. Oggi sarebbe più comune un costrutto progressivo: “Credo che stessi svenendo”, o anche “Credo che stessi per svenire”, nel quale, si noti, il verbo essere è comunque all’imperfetto congiuntivo.
Per quanto riguarda la forma esplicita della oggettiva con lo stesso soggetto della reggente, essa è giustificata dalla necessità di sottolineare l’aspetto durativo dell’azione; l’infinito passato renderebbe l’azione conclusa: “Credo di essere svenuto”.
Una questione collegata alla scelta dell’imperfetto è la scelta di ribadire il soggetto pronominale oppure lasciarlo sottinteso (“Credo che svenissi” o “Credo che io svenissi”), visto che svenissi vale tanto per la prima quanto per la seconda persona singolare. Normalmente il co-testo permette di capire se a compiere l’azione sia io o tu; ma se così non fosse, sarebbe bene esplicitare il soggetto. Questo, inoltre, può essere inserito per veicolare un valore contrastivo: “Credo che io (e non qualcun altro) svenissi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sviluppare con il vostro contributo l’uso della punteggiatura in occasione dei discorsi diretti. Ho evidenziato differenze formali tra i testi analizzati, presumibilmente legate sia alle scelte dello scrivente sia alle indicazioni editoriali.
Cerco di entrare nel merito con qualche esemplificazione.
1. «Vado,» disse, «a comprare il pane.»
2. «Usciamo insieme», disse «così possiamo passeggiare al sole.»
3. «Prima di parlare» disse. «Rifletti sugli effetti che potresti produrre.»
4. «Sì, certo, » rispose l’uomo, «appena posso. »
5. «E come è possibile? » domandò, «ognuno ha quel che si merita. »
6. «Questo non me lo chiedere» disse. «Non c’entro niente in questa storia.»
Ho notato che il format più diffuso, specie in pubblicazioni di buon livello, è quello rappresentato dagli esempi 3 e 6; mentre gli altri esempi, con le virgolette caporali spesso sostituite dai trattini, sono frequenti in editori minori. Considerazioni personali a parte, mi (e vi) domando se, per un buon uso dei segni di punteggiatura, dentro e fuori le virgolette, si possa attingere a regole grammaticali, prescindendo da linee guida editoriali e simili.
RISPOSTA:
Come da lei giustamente notato, la punteggiatura che segnala il discorso diretto è soggetta a forti variazioni, dovute alle diverse tradizioni editoriali, quasi tutte, in linea di principio, valide, ma anche alla difficoltà a stabilire la relazione sintattica tra le virgolette e gli altri segni di interpunzione.
Limitandoci agli esempi da lei portati (che, comunque, non sono gli unici possibili), alcune considerazioni possono aiutarci a valutarne almeno la coerenza interna e il rispetto delle norme generali dell’interpunzione. In tutti gli esempi, l’espressione fuori dalle virgolette, che prende forme diverse, è identificabile come un inciso; questo, di norma, va inserito tra virgole, trattini lunghi, parentesi, oppure, solo in casi particolari, tra punti e virgola o punti fermi. Questo mi induce a considerare l’esempio 2. poco accurato, perché manca la virgola di chiusura dopo disse. Più comprensibile, ma pur sempre non ideale, la scelta di 5., che evita la virgola dopo il punto interrogativo e attribuisce, pertanto, a quest’ultimo anche la funzione di segnalare l’inizio dell’inciso.
L’esempio 3. mi risulta incomprensibile: l’inciso non introdotto dal alcun segno e concluso con un punto fermo è decisamente insolito. L’unica giustificazione per questa scelta si può trovare in un’eventuale sfumatura semantica ricercata dallo scrivente con questo uso (ma bisognerebbe valutare un brano più ampio). Diverso è il caso di 6., nel quale il punto dopo disse induce il lettore a immaginare uno stacco netto, intonativo e logico, tra il primo e il secondo intervento tra virgolette. Il fatto che i due interventi siano sintatticamente autonomi consente questa interpretazione, impedita, nell’esempio 3., dalla relazione di subordinazione tra il primo e il secondo intervento.
Inutili e da eliminare, infine, sono gli spazi tra i segni interni e le virgolette di chiusura in 4. e 5.
Difficile stabilire se sia meglio inserire i segni come le virgole dentro o fuori dalle virgolette: personalmente ritengo che solamente le marche dell’intonazione, ovvero punti esclamativi, punti interrogativi e puntini di sospensione (oltre, ovviamente, ai trattini che riguardano il discorso contenuto all’interno delle virgolette) andrebbero inseriti dentro le virgolette, mentre tutti gli altri segni andrebbero posti fuori. In questo modo si risolve il dilemma del doppio segno di 5., che diventerebbe così:
«E come è possibile?», domandò, «ognuno ha quel che si merita», o anche: «E come è possibile?», domandò, «Ognuno ha quel che si merita».
È, quest’ultima, la soluzione per cui parteggio. Se, invece, accettiamo l’inserimento di tutti i segni dentro le virgolette, la soluzione 1. appare internamente coerente ed efficace.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Credo che la frase “Penso che la vicenda non interessi a nessuno” sia corretta; vorrei sapere se lo sia anche quella che si ha volgendo in negativo la reggente e trasformando in affermativa la subordinata: “Non penso che la vicenda interessi a nessuno”. Ho sentito pronunciarla di recente da un personaggio pubblico; personalmente, avrei sostituito nessuno con qualcuno.
Vorrei poi sapere, rimanendo sempre in tema di nessuno e simili, se una frase come “durante la mia assenza ti sei intrattenuto con qualcuna?” (sottintendendo qualche donna) possa essere considerata valida oppure sia meglio lasciare il pronome al maschile, come se fosse invariato.
RISPOSTA:
L’italiano ammette la doppia negazione, del verbo e del pronome, sebbene a volte questa abitudine provochi qualche ambiguità. In alcuni casi, anzi, la doppia negazione è senz’altro richiesta; nella sua prima frase, ad esempio, la forma con la sola negazione del pronome (“Penso che la vicenda interessi a nessuno”) sarebbe innaturale, mentre quella con la negazione solamente del verbo (“Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”) sarebbe ben formata, ma molto formale.
Il fenomeno che lei ha notato nella frase “Non penso che la vicenda interessi a nessuno” è quello della “risalita” di un elemento dalla subordinata alla reggente. Di solito la risalita riguarda il pronome clitico in frasi con verbi servili (“Posso capirlo” ma anche “Lo posso capire”), con verbi modali (“Comincio a capirlo” ma anche “Lo comincio a capire”), con verbi di moto (“Vengo a prenderti con la macchina”, ma anche “Ti vengo a prendere con la macchina”). Sono tutti casi in cui sussiste una forte solidarietà tra la reggente e la subordinata, per cui le due proposizioni vengono trattate come una sola. Lo stesso avviene per la negazione.
La risalita del pronome atono è ormai del tutto acclimata, tanto da non destare l’attenzione di quasi nessun parlante. Quella della negazione è altrettanto comune, e altrettanto accettabile, sebbene produca una frase leggermente diversa rispetto a quella intesa dal parlante: nel suo caso, ad esempio, il parlante sostiene di aver formulato un pensiero (penso che…) riguardo allo scarso interesse per la vicenda, non di non aver formulato un pensiero (non penso che…) riguardo a quell’argomento.
La sua proposta di sostituire nessuno con qualcuno (“Non penso che la vicenda interessi a qualcuno”) non è calzante: produrrebbe, infatti, una frase dal significato diverso, equivalente a “Penso che la vicenda non interessi a qualcuno”. Il pronome qualcuno, cioè, suggerirebbe che secondo il parlante ci sia qualcun altro a cui la vicenda interessa. La variante con una sola negazione sarebbe, piuttosto, “Penso che la vicenda non interessi ad alcuno”, o, al limite, “Non penso che la vicenda interessi ad alcuno”.
Nella seconda frase, il pronome qualcuna riferito implicitamente a donna è corretto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase
Se non ti disturbo, verrei a trovarti stasera
è tollerabile anche in un linguaggio sorvegliato o il periodo ipotetico tradizionale
Se non ti disturbassi, verrei a trovarti stasera
È sempre consigliato?
RISPOSTA:
In questo caso non è tanto in gioco il rapporto tra un registro più formale (con la protasi al congiuntivo) e uno più informale (all’indicativo), bensì una diversa sfumatura semantica dei due costrutti, entrambi perfettamente standard, corretti e adatti anche in uno stile formale. Il primo esempio, tipico caso di periodo ipotetico misto, combina una protasi della realtà con un’apodosi (cioè la principale) dell’eventualità. Usando una frase siffatta, il parlante (o lo scrivente) intende manifestare la propria volontà di andare a trovare l’interlocutore, sfumando, per cortesia e buona educazione, la propria volontà sia mediante l’ipotetica (se non disturbo) sia mediante il condizionale epistemico che attenua la perentorietà di “vengo a trovarti di sicuro”.
La seconda frase, invece, manifesta una maggiore incertezza (in virtù della protasi al congiuntivo, tipica del periodo ipotetico dell’eventualità). In altre parole, chi sente o legge la frase ha la netta impressione che la persona che la usa non andrà a trovare l’interlocutore, vuoi perché è convinta di disturbarlo, vuoi perché non ne ha, poi, tutta questa voglia.
I due periodi oggetto della domanda, dunque, non sono affatto intercambiabili. È sempre bene fare attenzione alle sfumature della lingua, per non incorrere in spiacevoli incidenti diplomatici o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi disturbo ancora con una seconda, rapida domanda rapida: verbi fraseologici e gerundio possono “convivere” in una frase governata da un verbo al passato? Mi sono imbattuta in una costruzione che, lo ammetto, non sono riuscita a concludere con una piena coscienza linguistica
L’uomo, al telefono, doveva star offendendo la ragazza, che infatti si alzò dalla sedia, rossa in viso.
E se dovessimo usare la particella pronominale, quale sarebbe la sua posizione?
L’uomo, al telefono, la doveva star offendendo
L’uomo, al telefono, doveva starla offendendo
L’uomo, al telefono, doveva star offendendola.
RISPOSTA:
Rapida la domanda, tutt’altro che banale, meno rapida e tutt’altro che semplice la risposta.
La perifrasi aspettuale (che esprime cioè, in questo caso, l’aspetto verbale dell’imminenza o della progressività dell’azione) costruita con stare + gerundio è ritenuta da molti parlanti italiani scarsamente accettabile quando stare è all’infinito. Su questo tema, mi permetto di rinviare a un mio articolo di qualche anno fa: Fabio Rossi, La perifrasi aspettuale stare + gerundio in costrutti subordinati impliciti, in Sintassi storica e sincronica dell’italiano. Subordinazione, coordinazione, giustapposizione. Atti del X Congresso della Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Basilea, 30 giugno-3 luglio 2008), a cura di Angela Ferrari, Firenze, Cesati, 2009, vol. II, pp. 1155-1170. Aggiungo che stare all’infinito + gerundio è preferito dai parlanti (e scriventi) meridionali, rispetto a quelli settentrionali.
Non se ne trovano moltissimi esempi nella storia dell’italiano, benché oggi sia sempre più frequente. Per questi motivi, la sua perplessità è più che legittima. La perplessità non riguarda, dunque, tanto la presenza del tempo passato, quanto tre particolari:
1) la presenza di stare all’infinito. La perifrasi stare + gerundio in posizione subordinata sembra conferire un eccesso di autonomia semantica al verbo stare, ma non aggiungo qui altre specificazioni linguistiche (forse eccessivamente complesse in questa sede), che potranno peraltro essere reperite nell’articolo sopra citato, se interessa approfondire la questione.
2) La presenza di due ausiliari, o meglio un verbo modale (o servile) + una perifrasi aspettuale, cioè dovere e stare.
3) La presenza del clitico (la particella pronominale atona la), che può assumere tre diverse posizioni, in questi casi.
Dunque, nonostante certa impressione di pesantezza, tutte e quattro gli esempi da lei riportati sono corretti, in italiano. Naturalmente, il proprio gusto personale farà optare per l’una o l’altra soluzione. Io, personalmente, per evitare la pesantezza, eliminerei il primo modale sostituendolo con un avverbio: “l’uomo molto probabilmente la stava offendendo”.
Aggiungo che l’imperfetto doveva, in questi casi, non ha tanto valore temporale (passato), bensì modale epistemico (cioè indica l’eventualità o un certo grado di incertezza, di ipoteticità e simili). Insomma, è come se fosse: “molto probabilmente stava offendendola” o “la stava offendendo”.
Fabio Rossi
QUESITO:
In alcune delle vostre recenti risposte, avete parlato di costruzione implicita ed esplicita, elencando una serie di casi in cui la prima è obbligatoria.
“Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo”, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela”, “Non so se io possa partire”, “Credo che mi sia sbagliato” sono da considerarsi sbagliate, anche se la specificazione del pronome, a parte l’ultimo esempio, fuga ogni dubbio riguardo alla persona cui si riferisce il verbo?
Relativamente alla penultima frase, se sostituissimo il congiuntivo con il futuro indicativo, si migliorerebbe la qualità del linguaggio?
“Non si può escludere di dover prendere provvedimenti” o “Non si può escludere che dovremo prendere provvedimenti”?
“Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” è giusta o anche in questo caso sarebbe meglio la costruzione implicita?
“Non c’è motivo che io parli” o “non c’è motivo per/di parlare”?
“I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”.
RISPOSTA:
Riguardo alla sostituzione del congiuntivo con l’indicativo, valga la considerazione generale che quando la costruzione ammette tanto l’indicativo quanto il congiuntivo, il congiuntivo è sempre l’alternativa più formale.
Venendo al problema della costruzione implicita, la proposizione finale che ha lo stesso soggetto della reggente richiede la costruzione implicita, quindi *”Ho scelto il vestito affinché io potessi indossarlo” deve essere corretta in “Ho scelto il vestito per poterlo indossare”. All’opposto, in “Non so se io possa partire” la proposizione subordinata è una interrogativa indiretta introdotta da se, che non ammette la costruzione implicita; la frase “Non so di poter partire”, infatti, non sarebbe equivalente a “Non so se io possa partire”, bensì a “Non so che io posso partire”, che ha un significato diverso.
Negli altri casi del primo gruppo, le proposizioni subordinate sono oggettive. Queste proposizioni, introdotte dalla congiunzione che nella forma esplicita, ammettono la costruzione implicita e, anzi, la preferiscono (sebbene non si possa parlare, in questo caso, di obbligo). Quindi a “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” va preferita “Ho dubitato spesso di potercela fare”; a “Credo che mi sia sbagliato” va preferita “Credo di essermi sbagliato”.
C’è, però, una considerazione da fare a proposito dell’opportunità di mantenere la costruzione esplicita anche con queste proposizioni: quando il parlante vuole enfatizzare l’identità del soggetto della subordinata, la costruzione esplicita diventa pienamente giustificata quasi sempre (questo vale persino per la proposizione finale). Pertanto, ferma restando la generale preferibilità della costruzione implicita, “Ho dubitato spesso che io potessi farcela” e “Credo che mi sia sbagliato” sono accettabili se l’intento del parlante è quello di enfatizzare il soggetto io.
Le frasi del secondo gruppo presentano qualche difficoltà in più: la prima ha una costruzione impersonale nella reggente (“Non si può escludere”), che favorisce la scelta della variante personale nella subordinata, nel caso in cui il parlante voglia evitare che tutta la proposizione sia impersonale.
La seconda ha, sempre nella reggente, una costruzione personale, ma deontica (cioè di obbligo: “Non dobbiamo dimenticarci”); tale costruzione rende possibile una doppia interpretazione pragmatica (cioè relativa allo scopo) dell’enunciato: se rimaniamo ancorati al significato del verbo, la subordinata va assimilata alle oggettive viste sopra (quindi preferisce la costruzione implicita, ma ammette quella esplicita, soprattutto per enfatizzare il soggetto); se, invece, diamo maggior peso alla costruzione deontica, la subordinata è assimilata a quelle rette dai verbi di comando (come comandare, ordinare, consigliare, suggerire ecc.), che sono sempre implicite quando il soggetto coincide con il destinatario dell’obbligo.
In altre parole, “Non dobbiamo dimenticarci che non sappiamo mai abbastanza” riceve facilmente un’interpretazione informativa; “Non dobbiamo dimenticarci di non sapere mai abbastanza” viene interpretata, piuttosto, come regolativa. Per rendere la differenza ancora più evidente, proviamo a sostituire non dobbiamo dimenticarci con ricordiamoci: “Ricordiamoci che non sappiamo mai abbastanza” suona come un avviso; “Ricordiamoci di non sapere mai abbastanza” è, piuttosto, un ordine.
In “Non c’è motivo che io parli” il soggetto della subordinata non coincide con quello della reggente, quindi la costruzione esplicita è del tutto legittima. La costruzione implicita (“non c’è motivo di parlare”) va anche bene, ovviamente, con la differenza che in questo caso il soggetto della subordinata è impersonale, come quello della reggente. La forma “Non c’è motivo per parlare” è anche possibile, ma in questa frase la proposizione subordinata non è completiva, bensì causale.
In “I ragazzi erano sul pianerottolo che aspettavano (o ad aspettare?) l’ascensore”, infine, la subordinata è relativa, non completiva (qui che ha funzione non di congiunzione, ma di pronome) e le due costruzioni sono ugualmente legittime; come di norma, comunque, anche in questo caso quella implicita è più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho scorto in letteratura questi esempi, scritti peraltro da autori di grande caratura:
“Dopo che fummo usciti dalla stanza, ella si portò in sala da pranzo”.
“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”.
“Dopo che ci eravamo salutati, l’ispettore mi mise a parte di una confidenza”.
“Dopo che eravamo entrati nel locale, ho detto al barman…”
“Dopo che sua moglie fu estromessa dall’eredità, Giulio ha perso la testa”.
Come vedete, ho raccolto con l’aiuto di mio figlio tutti gli incroci (per così dire) possibili, tra passato remoto e passato prossimo nelle principali e i trapassati nelle secondarie. Ho letto le discussioni con cui avete affrontato l’argomento, in particolare la 2800183, ma mi sono permesso ugualmente di avanzare la richiesta di ulteriori chiarimenti. Apprezzerei molto la vostra opinione sui suddetti esempi.
Un’ultima curiosità: in un noto testo grammaticale, per illustrare l’uso di dopo che nelle temporali si trova questo periodo: “di intese programmatiche si discuterà dopo che gli alleati prenderanno atto…”. Do per scontato che il costrutto sia corretto; ma per esemplificare la regola standard, non sarebbe stato meglio propendere al futuro anteriore avranno preso atto?
RISPOSTA:
Le frasi che ha raccolto per esemplificare l’uso del passato remoto, del passato prossimo e dei trapassati prossimo e remoto sono tutte ben formate e mostrano, tra le altre cose, sia che due azioni avvenute nel passato possono essere espresse da due passati, senza il ricorso al trapassato (“Dopo che abbiamo parlato, è accaduto un fatto strano”), sia che il passato prossimo può oggi sostituire il passato remoto in ogni situazione, senza conseguenze semantiche apprezzabili.
Per quanto riguarda il suo appunto sull’esempio usato dalla grammatica scolastica, effettivamente lo standard vorrebbe il futuro anteriore, ma così come si può dire “Dopo che abbiamo parlato” (insieme a “Dopo che avevamo parlato”), anche il doppio futuro semplice è più che legittimo.
Spesso si criticano le grammatiche perché offrono una rappresentazione della lingua troppo lontana dalla realtà: in questo caso gli autori hanno tentato di avvicinarsi un po’ all’uso reale; è una scelta discutibile, ma comprensibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle risposte ai quesiti, ribadite spesso che l’identità di soggetto tra proposizioni reggenti e subordinate richiede, e a volte impone, la costruzione implicita. Partendo dal presupposto che seguendo questo suggerimento non si cadrebbe mai in errore, quali sono i casi in cui la costruzione esplicita è comunque ammessa (pur essendo sconsigliata) e quelli in cui invece è vietata?
Mi è capitato di leggere o ascoltare frasi quali “Spero che io sia stato chiaro”, “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”. Sono esempi da penna rossa?
RISPOSTA:
L’alternanza tra forma esplicita e forma implicita (rappresentata dall’infinito) riguarda le proposizioni subordinate che nella forma esplicita sono introdotte dalla congiunzione che e ammettono, o richiedono, il modo congiuntivo. Tali proposizioni, quindi, sono le completive soggettive e oggettive, le finali, che sono introdotte da perché (per + che) o affinché (al + fine + che), le consecutive e le temporali introdotte da prima che, che vogliono il congiuntivo (non quelle introdotte da dopo che, che vogliono l’indicativo, né, tanto meno, quelle introdotte da quando, mentre ecc.).
In quattro casi la forma implicita è obbligatoria:
1. Con la proposizione finale sempre: “Ti parlo per farti capire il mio pensiero” (non *”Ti parlo perché io ti faccia capire il mio pensiero”); “Luca è venuto per studiare con me per l’esame” (non *”Luca è venuto perché studiasse con me per l’esame”); “Verranno per arrestarti” (non *”Verranno perché ti arrestino”).
2. Quando la proposizione soggettiva ha un soggetto che coincide con il soggetto logico della reggente: “A me piace viaggiare” (non *”A me piace che viaggio”); “A Luca è sembrato giusto chiedermi scusa” (non *”A Luca è sembrato giusto che mi chiedesse scusa”); “Domani ti sembrerà di aver agito bene?” (non *”Domani ti sembrerà che hai agito bene?”). In realtà in questo caso l’obbligo è, come spesso accade, in parte elastico; in particolare con il verbo sembrare l’infrazione è meno evidente (qualche esempio di “Ti sembra che hai…” e simili è rinvenibile on line, in sedi non squalificate). Questo avviene probabilmente perché sotto la costruzione con sembrare si insinua quella con pensare e simili, come se nella mente del parlante si creasse una confusione tra il modello “Ti sembra che…” e il modello “Pensi che…”. Con quest’ultimo, come si vedrà tra poco, la costruzione implicita è sì consigliata (“Pensi di aver fatto bene” è preferibile a “Pensi che hai fatto bene”), ma meno rigidamente.
3. Nelle oggettive rette da un verbo di comando, consiglio e simili. Attenzione: in questo caso l’identità che fa scattare l’obbligo non è tra i soggetti, ma tra il soggetto della subordinata e il destinatario del comando, consiglio ecc.: “Ti ordino di sistemare la stanza” (non *”Ti ordino che tu sistemi la stanza”); “Ho consigliato a Giulia di partire presto domani” (non *”Ho consigliato a Giulia che parta presto domani”); “Chiederò loro di aiutarmi con il lavoro” (non “Chiederò loro che mi aiutino con il lavoro). Si badi che nell’ultima frase il verbo chiedere è usato con il significato di ‘richiedere’, assimilabile ai verbi di comando; se, invece, lo usiamo con il significato di ‘domandare’ le cose cambiano: “Chiederò loro che intendono fare riguardo alla mia offerta”. Come si nota, qui la proposizione subordinata non è una oggettiva, ma una interrogativa indiretta, e che non è una congiunzione, ma un pronome interrogativo (infatti può essere sostituito da che cosa).
4. Quando tanto la reggente quanto la subordinata sono impersonali: “Bisogna comportarsi bene” (ma “Bisogna che tu ti comporti bene”); “Si stabilì di partire all’alba” (ma “Si stabilì che partissimo all’alba”); “Prima di agire è bene riflettere” (ma “Prima che tu agisca è bene che tu rifletta”).
Nella maggior parte degli altri casi, la costruzione implicita è consigliata ed è comunque la variante più formale, ma quella esplicita è comune e accettabile in contesti informali e mediamente formali. Il grado di accettabilità del costrutto esplicito non è costante, ma è soggetto alla semantica e alla reggenza del verbo reggente e ad altri fattori circostanziali. Ad esempio, la proposizione oggettiva vista prima: “Pensi che hai fatto bene?” è più accettabile di “Spero che io sia stato chiaro”, decisamente più sciatto di “Spero di essere stato chiaro” (si noti, a margine, che il congiuntivo sia, uguale per le prime tre persone, obbliga qui l’esplicitazione del soggetto pronominale, per evitare la concordanza automatica con un soggetto di terza persona). Anche il secondo esempio da lei proposto: “Prima che uscisse di casa, egli non aveva salutato nessuno”, mi sembra al limite dell’accettabilità; meglio “Prima che uscisse di casa, non aveva salutato nessuno” (e comunque la costruzione più formale è “Prima di uscire, non aveva salutato nessuno”).
La proposizione consecutiva è quella più libera su questo fronte; ammette quasi sempre, infatti, il costrutto esplicito senza un evidente scarto diafasico (ovvero di formalità): “Sono tanto stanco che non voglio uscire per una settimana” è valida tanto quanto “Sono tanto stanco da non voler uscire per una settimana”. Tale peculiarità di questa proposizione è dovuta probabilmente al fatto che contiene necessariamente un evento posteriore rispetto a quello della reggente. Come si vedrà sotto, proprio questa circostanza avvantaggia la costruzione esplicita su quella implicita.
Va detto che il costrutto esplicito è quasi sempre possibile se il parlante intende enfatizzare il soggetto della subordinata, come in questo esempio letterario: “Facendomi onore mi chiese che collaborassi anch’io” (Vittorio Gorresio, La vita ingenua, 1980). Persino la finale ammette tale possibilità: “Ho lavorato tanto affinché avessi il premio anch’io”. Si noterà che in questi casi il soggetto viene inserito preferibilmente alla fine della subordinata, perché veicola una informazione nuova, che si trova tipicamente nella parte destra dell’enunciato. Anche se lo anticipassimo, ci troveremmo a pronunciarlo (o immaginare di pronunciarlo nella nostra testa) con un’intonazione marcata: “Ho lavorato tanto affinché ANCH’IO avessi il premio”. Più o meno lo stesso avviene quando l’enfasi ha una funzione contrastiva: “Ho pensato che io (e non altri) ho la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto affinché io (e non altri) avessi il premio”. In questo caso, la novità del soggetto può essere rimarcata dividendo in due parti la subordinata (costruendo quella che viene definita una frase scissa): “Ho pensato che sia io (e non altri) ad avere la responsabilità di portare a termine il progetto”; “Ho lavorato tanto perché fossi io (e non altri) ad avere il premio”. Come si vede dagli esempi, peraltro, anche nella frase scissa permane la preferenza per la costruzione implicita della subordinata che ha lo stesso soggetto della reggente e che sarebbe introdotta da che se fosse esplicita: “ad avere la responsabilità…” (non *”che ho la responsabilità”); “ad avere il premio” (non *”che io abbia il premio”).
C’è, infine, un caso nel quale, nonostante l’identità di soggetto, è la costruzione esplicita a essere preferibile: quello delle completive che contengono un’azione futura rispetto alla reggente (si tratta della circostanza a cui abbiamo accennato a proposito della proposizione consecutiva). Tale preferenza è dovuta al fatto che l’infinito non ha il tempo futuro in italiano, quindi bisogna ricorrere alla costruzione finita per segnalare che l’evento della subordinata è posteriore rispetto a quello della reggente: “Credo che farò uno spuntino” (“Credo di fare uno spuntino” significherebbe che sono incerto se io stia facendo uno spuntino); “Pensai che avrei fatto uno spuntino” (in questo caso si usa il condizionale passato per esprimere il futuro nel passato). L’infinito presente, per la verità, può anche esprimere un’azione futura, per cui quasi sempre il costrutto implicito risulta trasparente: “Penso di fare uno spuntino” e “Pensai di fare uno spuntino”, per esempio, sono ben formati, anche se l’azione di fare uno spuntino è posteriore rispetto al pensare. Con il verbo credere il costrutto implicito è meno felice perché credere può significare tanto ‘valutare’ quanto ‘non essere certo’ e può ingenerare confusione.
QUESITO:
Quali modi e tempi verbali si devono usare nelle proposizioni introdotte da senza che o dopo che nei periodi che sto per scrivervi?
1) Ho visto il documentario senza che io abbia avuto (avessi / avessi avuto) la possibilità di fare una pausa. (P. S. E se sostituissimo il passato prossimo della principale con il passato remoto, come si costruirebbe la subordinata?)
2) È andato in vacanza senza che io ne fossi stato informato.
3) Finiranno le ferie senza che avrò avuto (abbia avuto) la possibilità di riposare.
4) Gli esperimenti sarebbero eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / sarebbero state) completate.
5) Gli esperimenti saranno eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / siano state / saranno state) completate.
RISPOSTA:
La scelta del tempo del congiuntivo migliore per le subordinate nelle frasi da lei proposte dipende in parte dalla consecutio temporum, in parte dalla logica.
Nella frase 1) tutte le varianti sono da scartare, in favore della costruzione implicita: “Ho visto il documentario senza avere / avere avuto la possibilità di fare una pausa”. L’identità di soggetto tra la reggente e la subordinata consiglia, e a volte richiede, tale costruzione. Se, invece, modifichiamo la frase in modo che i soggetti delle due proposizioni siano diversi (ad esempio “Hai cambiato canale senza che io abbia potuto / potessi / avessi potuto chiederti di non farlo”), la situazione cambia completamente e tutte le varianti diventano possibili. La scelta tra l’una e l’altra dipende dal rapporto temporale che vogliamo stabilire tra i due eventi, il cambiamento di canale e la richiesta di non cambiare canale, nonché dall’aspetto che vogliamo attribuire al tempo della richiesta. Il congiuntivo passato stabilisce un rapporto di contemporaneità e attribuisce un aspetto momentaneo alla richiesta, mette, cioè, in evidenza che l’azione si è (o, in questo caso, non si è) verificata in quel preciso momento, contemporaneo rispetto all’azione del cambiare canale. L’imperfetto instaura lo stesso rapporto di contemporaneità nel passato con il verbo della reggente, ma ha un aspetto durativo, quindi comunica che l’azione non si è verificata in un lasso di tempo all’interno del quale è avvenuta l’azione del cambiamento di programma. Il trapassato, più semplicemente, implica che la richiesta non è stata fatta prima del cambiamento di canale (anteriorità nel passato).
Se al posto di hai cambiato mettessimo cambiasti non cambierebbe niente. Lo stesso discorso vale per la frase 2).
Nella frase 3) avrò avuto è da scartare non in quanto tempo, ma in quanto modo indicativo, rifiutato dalla congiunzione senza che. Il verbo reggente della frase è al futuro, che, nell’ambito della consecutio temporum al congiuntivo, si comporta come il presente. I tempi del congiuntivo ammissibili sono, pertanto, il passato per l’anteriorità e il presente per la contemporaneità e la posteriorità. A questo punto, entra in gioco la logica: è chiaro che la possibilità di riposare si sia manifestata prima della fine delle vacanze, non contemporaneamente a essa, né, a maggior ragione, dopo. L’unica possibilità, pertanto, è quella da lei stessa prospettata, con il congiuntivo passato: “Finiranno le ferie senza che abbia avuto la possibilità di riposare”. In una frase dal contenuto diverso, il presente sarebbe stato senz’altro possibile, o addirittura preferibile; ad esempio: “L’allarme suonerà senza che i ladri se ne accorgano”.
Nella frase 4) il verbo reggente è condizionale presente; in questo caso abbiamo due possibilità: se costruiamo il periodo come un periodo ipotetico (quindi assimiliamo dopo che a se), la forma del verbo corretta nella subordinata è il congiuntivo imperfetto fossero completate, proprio della protasi del periodo ipotetico della possibilità. Se, invece, consideriamo il condizionale sarebbero eseguiti come una variante di cortesia dell’indicativo presente, quindi diamo alla congiunzione dopo che pieno valore temporale, per cui sottolineiamo il rapporto temporale di anteriorità dell’evento della subordinata rispetto a quello della reggente, presente, sceglieremo il congiuntivo passato siano state completate, coerentemente con la consecutio temporum.
Per quanto riguarda saranno eseguiti nella frase 5), infine, ribadiamo che il futuro nella consecutio temporum si comporta come il presente, quindi la forma del verbo della subordinata sarà il congiuntivo passato siano state completate (anteriorità rispetto al presente o al futuro). In realtà, dopo che non seleziona obbligatoriamente il congiuntivo (diversamente da senza che, ma anche da prima che): non è da escludere, pertanto, il futuro semplice saranno completate, né quello composto saranno state completate, che instaurano con il futuro della reggente un rapporto di anteriorità o contemporaneità specificamente nel futuro, impossibile da rappresentare al congiuntivo, per la mancanza di un tempo futuro in quel modo. Come sempre, la variante con l’indicativo è più comune, ma meno formale; decisamente sciatta, ma pur sempre possibile, è anche quella con il corrispondente indicativo di siano state completate, il passato prossimo sono state completate (lo stesso vale per la frase 4). Le altre forme sono da scartare.
Fabio Ruggiano
DOMANDA
Gentilissimi professori, sottopongo alla vostra analisi le seguenti frasi lette di recente:
a. Proprio ieri mi hanno domandato se era vero che due mesi fa ho incontrato il mio socio.
b. L’alunno si è ammalato ieri e starà a casa fino alla prossima settimana. È un vero peccato: la prossima settimana sarebbe stato in gita per due giorni.
c. Tutte le donne presenti, a quelle parole, si toccarono la bocca.
d. Quando eravamo piccoli si cantava le canzoni. Oggi si hanno i minuti contati.
Esempio a: non pensate che il secondo passato prossimo ho incontrato debba essere sostituito dal trapassato prossimo? Forse sbaglio, ma mantenerlo, come nell’esempio, non significherebbe situare l’azione di due giorni fa sullo stesso piano temporale di ieri?
Esempio b: se avessimo sostituito sarebbe stato con avrebbe dovuto essere o doveva essere, avremmo ottenuto costruzioni equivalenti e ugualmente corrette oppure no? Qual è, secondo voi, quella preferibile?
Esempio c: una volta per tutte: la frase è corretta o sarebbe stato meglio declinare al plurale anche il sostantivo bocca? Aggiungo: si dice la cima dei monti o le cime dei monti? la punta delle dita o le punte delle dita? la grammatica ci viene in soccorso con un regola universale per gestire la concordanza oppure ogni caso va analizzato a sé?
Esempio d: se non sbaglio, la prima frase riporta un si riflessivo che sostituisce la prima persona plurale. È sempre tollerato o si tratta di un toscanismo da evitare? La seconda è, invece, sempre se non sbaglio, una costruzione con il si passivante. Come si fa (o fanno???) a conoscere i casi in cui il si riflessivo è da preferire al si passivante e viceversa?
RISPOSTA
a. Entrambe le varianti sono possibili; il passato prossimo indica semplicemente che l’incontro è avvenuto nel passato rispetto al momento dell’enunciazione (adesso), il trapassato (avevo incontrato) aggiunge il dettaglio che l’incontro è avvenuto prima rispetto a un momento diverso da quello dell’enunciazione, coincidente con quello in cui è stata fatta la domanda. Proprio per questo motivo, se usiamo il trapassato prossimo, dobbiamo cambiare anche il complemento di tempo relativo a quell’evento, da due mesi fa a due mesi prima: l’avverbio (originariamente una forma verbale) fa, infatti, può riferirsi solamente al momento dell’enunciazione.
Va detto che, sebbene il passato prossimo ho incontrato sia formalmente equivalente al passato prossimo hanno domandato, non bisogna pensare che i due eventi siano rappresentati come contemporanei: essi sono, piuttosto, rappresentati entrambi come passati, senza una relazione reciproca esplicita. Tale relazione, peraltro, si ricava chiaramente dai complementi di tempo, ieri e due mesi fa.
b. La variante con il verbo servile non cambia molto dal punto di vista sintattico, ma aggiunge, ovviamente, una sfumatura semantica potenziale. La costruzione con l’imperfetto del verbo dovere dal punto di vista semantico presenta l’evento della gita come già stabilito, dal punto di vista sintattico è meno formale, sebbene molto comune.
c. Il singolare è la forma più attesa, sebbene il plurale non sia scorretto. Il singolare suggerisce che ognuno dei soggetti toccò la sua bocca; il plurale specifica che le bocche sono più di una, come i soggetti che le toccano (una specificazione, ovviamente, superflua).
Una considerazione simile si può fare per la punta delle dita, con la differenza che le dita sono più di una per ogni persona (diversamente dalla bocca), quindi la specificazione del plurale è meno superflua: la frase idiomatica sarà sempre “si contano sulla punta delle dita”, ma è del tutto giustificata una frase come “Può capitare di sentire le punte delle dita addormentate” (come anche, del resto, “Può capitare di sentire la punta delle dita addormentata”). Il caso di la cima / le cime dei monti è diverso: le due varianti hanno due significati diversi. La cima dei monti indica il punto più alto di una catena montuosa; le cime dei monti indica la cima di ognuno dei monti considerati. Come si può vedere, più che una questione di grammatica, qui è in gioco la logica.
d. La costruzione noi si cantava non è passiva, bensì impersonale; indica, infatti, che l’azione è compiuta da un soggetto imprecisato, non che essa ricade sul soggetto stesso. L’esplicitazione del soggetto di prima persona plurale, tipica della Toscana, ma ben attestata nella tradizione letteraria in italiano, sembra confliggere con l’impersonalità del costrutto, ma in realtà bisogna ricordare che i costrutti sintatticamente impersonali sottintendono sempre un soggetto logico. Anche il secondo si è impersonale, e infatti sottintende il soggetto logico noi: “Oggi si hanno i minuti contati” equivale a “Oggi abbiamo i minuti contati”, oppure a “Oggi tutti hanno i minuti contati”. Anche in “Come si fa a conoscere i casi”, si fa è impersonale (equivalente a facciamo). La costruzione “Come si fanno a conoscere i casi”, pertanto, è scorretta, sebbene molto diffusa in contesti informali; è indotta dall’attrazione esercitata dal complemento oggetto plurale i casi sul verbo fare, come se proprio i casi fosse il soggetto di fare (infatti nessuno direbbe mai *”Come si fanno a conoscere il caso”).
La prego, per il futuro, di mandarci una domanda alla volta. Le domande complesse ci mettono in difficoltà perché non si possono classificare con precisione per l’archivio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Cari linguisti, a seguito della lettura di alcune vostre risposte sono sorte in me diverse incertezze che desidererei risolvere con il vostro contributo.
Alla luce di questa risposta, la costruzione “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avrebbe procurato” è giusta oppure sarebbero preferibili “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato” o “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”?
Trasformando il discorso diretto “Disse: ‘Chiunque ti aggredirà, si troverà nei guai'” in indiretto, si ottiene
“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” oppure “disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”?
Oltre al passato prossimo, esistono altri tempi verbali che sono coinvolti dalla funzione deittica? Potrebbe essere il caso del trapassato remoto nella frase “Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”?
In tale esempio, il trapassato indicherebbe anteriorità rispetto alla principale e non rispetto al momento dell’enunciazione.
A proposito dell’esempio 4 di questa risposta, spiegate che la soluzione con il congiuntivo è corretta e più formale rispetto a quella con l’indicativo. Non metto in dubbio, sia chiaro, il vostro giudizio, ma trattandosi di una frase positiva, retta da un verbo che indica certezza, non sarebbe addirittura più formale l’indicativo, come nei casi: “Ho capito chi sei”, “So che cosa vuoi”, “Ho notato dove andavi”, “Mi rendo conto che sei brava”?
RISPOSTA:
Rispetto alla frase analizzata nella risposta (“Se tu fossi qui, non sapresti con chi ti toccherebbe parlare”), il suo primo esempio presenta una differenza dirimente: la proposizione introdotta da chi non è una interrogativa indiretta, bensì una relativa. Dal momento che le proposizioni relative sono molto autonome per quanto riguarda la scelta dei modi e dei tempi (mentre le completive, tra cui le interrogative indirette, sono fortemente vincolate), la costruzione con il congiuntivo trapassato (“Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”) è, nel suo caso, corretta. Non solo: la sua frase ha diverse varianti possibili.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo ha procurato”: qui la relativa è costruita come propria, all’indicativo, e presenta l’azione del procurare come passata, quindi automaticamente anteriore rispetto allo stato dell’essere responsabile.
– “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse”: qui la relativa è costruita come impropria, in particolare come una ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo procurasse = se qualcuno lo procurasse la responsabilità sarebbe sua).
– Infine, come da lei proposto, “Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato”: simile alla precedente, presenta l’azione del procurare come fortemente ipotetica (la responsabilità sarebbe di chi lo avesse procurato = se qualcuno lo avesse procurato la responsabilità sarebbe sua).
Scorretto (o quanto meno difficilmente giustificabile) è il congiuntivo passato (*”Se accadesse l’incidente, la responsabilità sarebbe di chi lo abbia procurato”), perché questa forma del verbo non si usa nella proposizione ipotetica, che influenza la scelta del modo congiuntivo nella relativa.
Ragionamento simile vale per questo dubbio (“Disse che chiunque lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai” o “Disse che chiunque lo avesse aggredito, si sarebbe trovato nei guai”): entrambe le varianti sono corrette. Nel primo caso la subordinata è considerata una relativa propria, equivalente a “Disse che colui che lo avrebbe aggredito, si sarebbe trovato nei guai”, con l’azione dell’aggredire posteriore rispetto all’azione del dire, ma pur sempre nel passato. Nel secondo caso è modellata su una ipotetica, come se fosse “Disse che se qualcuno lo avesse aggredito, costui si sarebbe trovato nei guai”.
I tempi deittici sono quelli che situano l’azione, l’evento o lo stato in un momento assoluto, passato, presente o futuro; i tempi anaforici (i trapassati, il futuro anteriore e il condizionale passato nella funzione di futuro nel passato) fanno, invece, riferimento a un’azione, un evento o uno stato diversi rispetto al momento dell’enunciazione. Il passato prossimo è un tempo deittico, non anaforico. Nella sua frase (“Ieri mi hai detto di richiamarti oggi per sapere se era arrivata la macchina”), il trapassato prossimo (non remoto) era arrivata indica che l’arrivo della macchina è (o non è) anteriore a un momento nel passato. Tale momento potrebbe essere sia quello della richiesta della chiamata (colui che ha fatto la richiesta, quindi, non sapeva ancora, al momento della richiesta, se la macchina fosse arrivata o no) sia quello della chiamata, perché anche questa, per quanto si sia verificata oggi, precede il momento dell’enunciazione, quindi è passata. Ci sono, quindi, tre piani temporali: quello dell’enunciazione, cioè adesso, quello della richiesta e quello della chiamata, che sono passati, e quello dell’arrivo (o del mancato arrivo) della macchina, che precede i due momenti passati.
Il congiuntivo nelle completive è sempre la scelta più formale; non bisogna confondere, però, formale con comune: è prevedibile, infatti, che la variante più comune sia proprio quella meno formale. Anzi, in dipendenza da alcuni verbi (che esprimono certezza, come essere sicuro), specie all’interno di specifiche costruzioni (frasi affermative al presente), l’indicativo si è imposto quasi come unica scelta; di conseguenza, in questi casi il congiuntivo è oggi percepito come scorretto e il suo uso è sconsigliato se non in contesti di alta formalità. L’opportunità di usare il congiuntivo va, comunque, valutata caso per caso. Nei suoi esempi, la variante con il congiuntivo è quasi sempre possibile, sebbene poco comune: “Ho capito chi tu sia”, “So che cosa tu voglia”, “Mi rendo conto che tu sia brava”. Nell’esempio della risposta (“Sapevo che Marco voleva/volesse parlarle”), il verbo reggente, sapere, preferisce l’indicativo nella subordinata, ma all’imperfetto ammette il congiuntivo. Ecco un esempio letterario a sostegno di questa posizione: “Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco” (Mario Rigoni Stern, Il sergente della neve, 1953, p. 68).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Cari linguisti, vi pongo un doppio quesito inerente la consecutio temporum (già ampiamente discussa, ne sono consapevole). Il seguente costrutto:
è un esempio che contiene un periodo ipotetico misto tollerato anche nello scritto sorvegliato, oppure è consigliata la forma canonica con il congiuntivo trapassato nella protasi, considerando che, nel suddetto esempio, la scelta del congiuntivo imperfetto è indotta dall’attualità del fatto proposto? E inoltre, a tal proposito, una variante del tipo:
sarebbe comunque accettabile?
A margine, ma sempre in riferimento al concetto di attualità indicato in precedenza, vi domando se si possa sempre impiegare un verbo coniugato all’indicativo presente, quando la reggente sia retta da un passato remoto o da un trapassato prossimo, oltreché dal passato prossimo: “Il professore mi aveva spiegato che il percorso universitario è arduo”, “Alle elementari mi hanno insegnato che la capitale d’Italia è Roma”, “L’uomo che vedesti due anni fa è mio padre”.
RISPOSTA:
La prima frase, che contiene il periodo ipotetico con la protasi al congiuntivo imperfetto e l’apodosi all’indicativo trapassato, è ben formata, sebbene insolita: sottolinea che il parlante (non avendo ancora ricevuto notizie dal meccanico) ha ragione di credere, ma non ne è certo, che il problema non sia all’avantreno, e che il meccanico non abbia già sostituito i supporti. La costruzione risulta più chiara se eliminiamo il piano del discorso riportato: “Se il problema dell’auto fosse all’avantreno, il meccanico avrebbe dovuto sostituire i supporti motore”.
Rispetto al congiuntivo trapassato, l’imperfetto sottolinea che lo stato di cose (il problema) è ancora possibile nel momento dell’enunciazione (ovvero nel momento in cui il parlante sta raccontando i fatti).
Il periodo ipotetico con il congiuntivo trapassato (“se il problema dell’auto fosse stato all’avantreno”), si badi, sarebbe valido anche nel caso specifico illustrato, ma non veicolerebbe automaticamente la sfumatura di possibilità presente nell’imperfetto; lascerebbe, piuttosto, aperte entrambe le interpretazioni: 1. Il parlante (non avendo ricevuto notizie dal meccanico) ha ragione di credere, ma non ne è certo, che il problema non sia all’avantreno; 2. Al contrario, il parlante sa già che il problema era proprio quello e che il meccanico ha sostituito i supporti.
Per quanto riguarda il secondo quesito, anche queste costruzioni sono legittime e ben formate. Si tratta di casi in cui le proposizioni al presente indicano stati di fatto perduranti nel momento dell’enunciazione, che è presente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, ho riportato qui sotto alcuni esempi di frasi sui quali nutro dei dubbi circa la lo composizione. Ho usato la barra per separarne le alternative:
“Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”.
“Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”.
“Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema”.
“Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”.
“Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda”.
“Tutti i terzi livello/terzo livello/terzi livelli in seno all’azienda, dovranno presentare formale disdetta”.
RISPOSTA:
Il dubbio relativo alla scelta tra il condizionale e il congiuntivo accomuna le seguenti frasi: “Avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero/fossero presentati”, “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero/avrebbero acquistato i biglietti”, “Quando sarebbero/fossero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Nei tre casi, entrambe le opzioni sono valide: il condizionale rappresenta la scelta richiesta dalla consecutio temporum, visto che il verbo esprime un evento successivo rispetto a un altro evento passato (posteriorità nel passato). In nessuno dei tre casi, ovviamente, l’evento rispetto al quale va valutata la posteriorità è quello espresso dal verbo delle reggenti; anzi, le reggenti presentano eventi posteriori rispetto a quelli delle subordinate. L’evento è quello espresso dal verbo di dire, pensare o simili della proposizione principale, esplicitato nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avrebbero acquistato i biglietti”, sottintesa nelle altre due: “(Dichiarò/pensò che) avrebbe parlato a tutti coloro che si sarebbero presentati”, “(Dichiararono/pensarono che) quando sarebbero giunti al parco, avrebbero camminato tra gli alberi”. Rispetto a questa relazione temporale, quella tra gli eventi delle due subordinate passa in secondo piano e non viene rappresentata al livello morfologico. La sostituzione dei condizionali con i congiuntivi conferisce agli eventi una sfumatura di potenzialità: ad esempio, nella frase “Mi disse che sarebbero partiti appena avessero acquistato i biglietti” si suggerisce che l’acquisto dei biglietti è ancora da decidere e potrebbe non avvenire.
Nella protasi del periodo ipotetico della realtà “Se non è/sia possibile fare altrimenti, vado al cinema” è preferibile l’indicativo presente.
Nella frase “Va/vanno bene tanto la prima l’opzione quanto la seconda” è preferibile il plurale; il singolare costituisce un caso di concordanza ad sensum, fenomeno largamente accettato, ma da evitare in contesti di media e alta formalità, e soprattutto nello scritto.
Infine, l’unica parola ben formata (tecnicamente si tratta di una unità polirematica) è i terzo livello, che è invariabile perché fa parte di un’espressione più ampia, nella quale la parte variabile è sottintesa: il (soggetto inquadrato / i soggetti inquadrati nel) terzo livello. Si tratta, comunque, di un termine burocratico, da evitare in contesti estranei all’ambito dell’amministrazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei apprendere la giusta sintassi delle proposizioni reggenti nei casi in cui la subordinata sia introdotta da qualora, nel caso che, se.
Mi spiego meglio: se non erro, qualora e nel caso che pretendono il modo congiuntivo e tollerano i vari tempi di esso; ma non sono certa che le forme riportate di seguito siano tipiche del linguaggio colloquiale e quindi da evitare:
“Qualora volesse, può (oppure potrebbe?) scegliere il libro che preferisce”.
“Qualora voglia, potrebbe (oppure può?) scegliere il libro che preferisce”.
“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò (oppure andrei?) a casa”.
“Se non ci fossero le condizioni, lascerò (anziché lascerei) perdere”.
“Se per te non è un problema, potrei contattarti domani oppure Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani”.
RISPOSTA:
La scelta dei tempi verbali per la protasi e per l’apodosi del periodo ipotetico deve tener conto della relazione sintattica che la protasi ha con l’apodosi, ma anche delle possibili sfumature semantiche risultanti da accostamenti insoliti.
La soluzione più comune per il periodo ipotetico detto della possibilità o del secondo tipo è quella con il congiuntivo imperfetto nella protasi e il condizionale imperfetto nell’apodosi. Rispetto a questa, le frasi da lei proposte con il congiuntivo imperfetto nella protasi e l’indicativo presente o futuro nell’apodosi (“Qualora volesse, può scegliere il libro che preferisce” e “Se non ci fossero le condizioni, lascerò perdere”), lungi dall’essere errate, veicolano una sfumatura di certezza che le rende più dirette e adatte a contesti informali. Si veda questo esempio letterario (nel quale si imita un tipo di parlato colto) per il caso del futuro: “Sì e no… Ma soprattutto se è no, rispondermi ti servirà di allenamento, qualora ti trovassi costretto a dire alla Polizia di essere stato a Milano” (Vasco Pratolini, Un eroe del nostro tempo, 1949, p. 199). Questo altro esempio, invece, dimostra che l’indicativo (presente, ma lo stesso si può dire del futuro), con la sua sfumatura fattuale, può essere funzionale anche in un contesto tecnico-scientifico: “né la prospettiva muta, qualora volesse ritenersi che il datore debba comunque edurre il lavoratore a termine delle maggiori esigenze” (Luigi Di Paola, Ileana Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, 2011, p. 296).
Per quanto riguarda la frase con il congiuntivo presente nella protasi (“Qualora voglia, potrebbe/può scegliere il libro che preferisce”), la soluzione più comune è quella con il presente indicativo nell’apodosi. Si viene, così, a formare quello che viene definito periodo ipotetico della realtà o del primo tipo. Si consideri che, in questo caso, se sostituiamo qualora con se, il congiuntivo presente diviene quasi innaturale, e la costruzione normale prevede l’indicativo tanto nella protasi quanto nell’apodosi. Il condizionale nell’apodosi non è, comunque, scorretto, ma si configura come variante più indiretta e cortese.
Da quanto detto finora consegue che le seguenti frasi, da lei poste come alternative, sono entrambe valide, ma diverse: “Se per te non è un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del primo tipo, con il condizionale di cortesia nell’apodosi; “Se per te non fosse un problema, potrei contattarti domani” è un periodo ipotetico del secondo tipo canonico.
Allo stesso modo, l’ultima frase (“Nel caso non fosse arrivato per tempo, andrò/andrei a casa”) può essere interpretata in due modi, entrambi perfettamente validi e ugualmente formali. Se interpretiamo non fosse arrivato come un evento ormai concluso, siamo di fronte a un’ipotesi irreale (perché sappiamo che lui, in realtà, è arrivato), che richiede, nell’apodosi, un condizionale passato (in questo caso sarei andato o sarei andata). In questo modo si viene a costituire un periodo ipotetico dell’irrealtà o del terzo tipo. Se, invece, interpretiamo non fosse arrivato come evento ancora attuale, che presenta l’ipotesi come da verificare (non sappiamo, cioè, se lui sia effettivamente arrivato), rientriamo nella fattispecie del periodo ipotetico del secondo tipo, descritto sopra; in questo caso, quindi, nell’apodosi ci si aspetta un condizionale presente (andrei) o, con la sfumatura di certezza di cui si è detto, un indicativo futuro, o persino presente (se si vuol suggerire che la decisione di andare a casa non ammette deroghe).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il congiuntivo presente rispettino. Lo ritenete preferibile all’indicativo presente rispettano?
Grazie
“…E tu scegli parole che sfiorando le cose
ne rispettino la figura,
tenendosi alla giusta distanza
per non ingannare, per non ingannarsi”
RISPOSTA:
La scelta tra indicativo e congiuntivo nella proposizione relativa è quasi sempre una questione di sfumature, non di correttezza. In generale, ricordiamo che il congiuntivo nelle subordinate rappresenta la scelta più formale, mentre l’indicativo è oggi più comune nel parlato e nello scritto informale. Il congiuntivo, inoltre, conferisce all’azione una sfumatura di eventualità che l’indicativo, modo della fattività, non possiede. La frase così costruita (“scegli parole che… ne rispettino la figura”) suggerisce che il rispetto è possibile, non scontato, per cui né l’emittente né il soggetto della scelta (è difficile distinguere il punto di vista dell’uno da quello dell’altro) possono garantire che la scelta produca l’effetto desiderato. Diversamente, l’indicativo (“scegli parole… che ne rispettano la figura”) suggerisce che il soggetto scelga le parole con la certezza che queste realizzino il suo scopo (sebbene si tratti sempre di una certezza psicologica, non oggettiva, anche in questo caso attribuibile al soggetto stesso o all’emittente, o a entrambi).
Dal punto di vista sintattico, va sottolineato che la costruzione del referente parole senza articolo o altro modificatore (per esempio un aggettivo dimostrativo) rende la scelta dell’indicativo un po’ forzata (ma in un testo poetico questo può anche essere un artificio ricercato consapevolmente), sebbene non scorretta, perché la certezza espressa dall’indicativo è più coerente con un referente determinato.
La questione della scelta tra indicativo e congiuntivo è stata affrontata in molte altre risposte, che può leggere nell’archivio di DICO, usando il motore di ricerca interno (con la parola chiave congiuntivo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo un breve elenco di frasi che mi è capitato di leggere o sentire in TV. Ho inserito tra parentesi le mie varianti. Vi sarei grata se per ognuno dei casi proposti mi esponeste la vostra opinione.
1. Peccato tu non abbia comprato il costume: avresti potuto indossarlo quando fossi andata al mare.
2. Se verrai a trovarmi, potresti fermarti a pranzo. (Se venissi a trovarmi, potresti fermarti a pranzo oppure Se verrai a trovarmi, potrai fermarti a pranzo.)
3. Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sono/saranno aperti. (Ho telefonato poco fa al negozio per sapere se nel pomeriggio sarebbero stati aperti.)
4. Se fossero stati amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più. (Se fossero amici, oggi, durante il pranzo, avrebbero parlato di più.)
5. Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi finiranno. (Probabilmente, entro tutto il prossimo mese i lavori agli scavi saranno finiti.)
6. I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, anche in antologia o su piattaforme online. (I testi non dovranno mai essere stati pubblicati, neppure in antologia né su piattaforme online.)
7. Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 o alle 7 (Verrò volentieri a cena, a meno che non debba presentarmi alle 6 né alle 7 oppure […] non debba presentarmi né alle 6 né alle 7.)
8. Se venisse qui, non saprebbe neppure con chi avrebbe a che fare.
RISPOSTA:
Nell’ordine:
1. è ben formata. Interessante è la congiunzione quando, qui equivalente a qualora, che introduce una proposizione temporale-ipotetica, coincidente con la protasi del periodo ipotetico composto insieme all’apodosi “avresti potuto indossarlo”.
2. Le tre varianti sono tutte valide. La prima è descrivibile come periodo ipotetico misto, con l’apodosi al condizionale passato e la protasi all’indicativo. I tre tipi “canonici” di periodo ipotetico, realtà, possibilità, impossibilità, non devono essere considerati gli unici possibili: l’incrocio tra essi è una risorsa sfruttabile al fine di esprimere varie sfumature di significato. In questo caso specifico, l’apodosi al condizionale, invece che all’indicativo, serve a formulare un invito, mentre la variante “potrai fermarti a pranzo” esprime solamente l’astratta possibilità che ciò avvenga e suona meno accogliente. Il periodo ipotetico della possibilità (“se venissi… potresti fermarti”), invece, mantiene l’aspetto di invito dell’apodosi, ma sposta la protasi dall’indicativo al congiuntivo, rendendola più dubbiosa. Questa formulazione indica che l’emittente non vuole sbilanciarsi riguardo alla possibilità che l’evento si realizzi, o perché non ci tiene, o perché vuole lasciare piena libertà di scelta al ricevente (quindi come forma di cortesia).
3. Vanno bene entrambe le varianti. Quella con il presente è meno formale.
4. Vanno bene entrambe le varianti. La prima (“Se fossero amici… avrebbero parlato di più”) è un periodo ipotetico misto; la protasi al congiuntivo imperfetto esprime una sfumatura di dubbio riguardo al fatto che le due persone siano effettivamente amici, e che, quindi, non si siano parlate per qualche ragione ignota. Diversamente, la protasi al congiuntivo trapassato dà per presupposto che i due non siano amici.
5. Dicasi lo stesso che per la frase 3. Qui il futuro semplice è meno formale. Mi concentrerei, però, su “entro tutto il mese prossimo”, che sostituirei con “entro la fine del mese prossimo”.
6. La variante da lei proposta è migliore, perché più chiara, sebbene non si possa dire che l’altra sia errata. L’italiano tollera bene la doppia negazione, e la preferisce in casi ambigui, quindi per coordinare una proposizione negativa a un’altra pure negativa è preferibile neanche o neppure, rispetto a anche. Una volta sostituito anche con neanche o neppure, la congiunzione o può rimanere oppure essere sostituita da né.
7. Qui non è in gioco la coordinazione, quindi la prima frase va bene. Anche la seconda va bene: come detto per la frase 6, se la negazione della proposizione è chiara, o e né sono quasi intercambiabili. Nella terza, la doppia negazione “a meno che non debba presentarmi né alle 6…” suona eccessivamente esplicita: la eviterei.
8. Ben formata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Tra gli impieghi dell’indicativo imperfetto ne troviamo uno analogo a quello del passato prossimo di tempo deittico, ovvero che indica l’anteriorità rispetto al tempo della principale?
A tal proposito, riporto di seguito due passi letterari che gradirei portare alla vostra attenzione critica; in essi si evidenziano scelte sintattiche diverse per enunciare la contemporaneità di due o più azioni nel futuro:
1. Peccato che sia saltato il programma: io avrei letto sotto l’ombrellone mentre (usato con valore temporale e non avversativo, ndr) tu ti saresti abbronzata al sole.
2. Ci sarebbero state battute goliardiche e ciniche, mentre la vittima, non l’assassino, finiva sotto processo e ogni aspetto della sua persona, del suo modo di vita, veniva esaminato.
Senza presunzione di sapienza, ritengo che spesso si assista a una sopraffazione del futuro anteriore da parte del passato prossimo e che sia proprio questo a generare degli equivoci interpretativi.
Cito alcuni esempi:
1. Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo ho letto.
A mio modesto parere, la frase genera delle difficoltà a livello comunicativo, che sarebbero invece fugate dalla scelta del futuro anteriore:
2. Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo avrò letto.
In questo caso, si avrebbe infatti la certezza che i libri, al momento dell’enunciazione, non sono stati ancora letti (perché lo saranno in un prosieguo di tempo).
Stessa riflessione per il seguente costrutto:
3. Se ogni sei mesi ti sottoponi (o sottoporrai) all’esame, tra un anno potrai presentare al medico tutti i referti che hai/avrai raccolto.
Con il passato prossimo, i referti in questione potrebbero essere già stati raccolti; se, per contro, ci si vuole riferire a referti non ancora presenti, non scorgo, malgrado i tentativi, nessuna valida alternativa al futuro anteriore.
Mi rendo conto di aver fatto l’apologia di un tempo verbale che, nell’uso moderno, è di frequente scartato, anche quando – come stabilito da ogni grammatica – è prezioso per determinare l’anteriorità rispetto al futuro semplice.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima parte della sua domanda, relativa agli usi dell’imperfetto, la risposta, anticipata dagli eloquenti esempi da lei stesso addotti, è sì: l’imperfetto, tempo particolarmente versatile, può fare le veci del condizionale passato per indicare il futuro nel passato. Si tratta di una scelta meno formale, ma che semplifica la frase, quindi particolarmente adatta al parlato. Per capirci, “Ha detto che veniva” è equivalente, ma meno formale, di “Ha detto che sarebbe venuto”.
La sua sensazione riguardo al progressivo abbandono del futuro anteriore è corretta: i parlanti sono solitamente disposti a sacrificare la sfumatura di significato che questo tempo veicola (ma che è quasi sempre ricavabile dal co-testo) in favore della maggiore semplicità del futuro semplice o del presente indicativo (“Se arrivi entro le cinque mi trovi in casa” è più pratico di “Se arriverai entro le cinque mi troverai in casa” e decisamente più pratico di “Se sarai arrivato entro le cinque mi troverai in casa”).
Niente vieta, ovviamente, di preferire il futuro anteriore, soprattutto in contesti di alta formalità, oppure quando il co-testo lasci spazio per ambiguità. Questo non è il caso del suo esempio “Se ti incontrassi tra un anno, ti porterei i libri che nel frattempo ho letto”, nel quale l’avverbio nel frattempo (che fa parte del co-testo, appunto) esclude che ho letto sia passato rispetto al momento dell’enunciazione e indirizza il ricevente a interpretarlo come passato rispetto al tempo della reggente, ovvero rispetto al futuro (potremmo dire che è un passato nel futuro). Senza accorgersene, quindi, lei stesso ha costruito la frase in modo da prevenire la potenziale ambiguità generata dal passato prossimo in questo contesto.
Diversamente, l’esempio “Se ogni sei mesi ti sottoponi (o sottoporrai) all’esame, tra un anno potrai presentare al medico tutti i referti che hai/avrai raccolto” sarebbe ambiguo con il passato prossimo e più chiaro con il futuro anteriore. Si tratta, comunque, di una ambiguità minima: il significato complessivo della frase consentirebbe facilmente di inferire la funzione specifica del tempo verbale anche qualora si usasse il passato prossimo. Questo non deve sorprendere: il progressivo abbandono del futuro anteriore è causato proprio dalla sua scarsa funzionalità, ovvero dalla sua sostituibilità quasi in ogni contesto con altri strumenti (avverbi o altri tempi verbali).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, sono straniera e ho un dubbio: vorrei sapere se è un pleonasmo dire: “sono sicuro e certo”. Secondo me sì, perché è una esagerazione: chi è sicuro è certo! Comunque una mia amica italiana dice di no, dice che è una endiadi. Non sono d’accordo perché sono due aggettivi e non due sostantivi.
Grazie!
RISPOSTA:
Il pleonasmo e l’endiadi non si escludono a vicenda, anzi possono coincidere: l’ampliamento di un concetto attraverso l’uso coordinato di due sinonimi può essere inquadrato in entrambe le categorie. La scelta dell’una o dell’altra dipende dall’intenzione del parlante: se la costruzione coordinata è fatta per ottenere una sfumatura di significato o anche solamente per far suonare la frase in un certo modo, si parlerà di endiadi, se, invece, la costruzione è frutto di distrazione o trascuratezza si interpreterà come pleonasmo. Entrambe le funzioni, semantica (ottenere un certo significato) e “poetica” (ottenere un certo suono), sono presenti nelle endiadi cristallizzate nell’uso, come sano e salvo, fuoco e fiamme, casta e pura. Dagli esempi appena fatti si nota, tra l’altro, che l’endiadi si può fare con i nomi, gli aggettivi, come anche con i verbi e gli avverbi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho cercato un sinonimo di una parola sul Dizionario dei sinonimi e dei contrari della lingua Italiana di Michele Giocondi e ho trovato come risposta dei sinonimi che però ho trovato solo in alcuni vocabolari ma non in altri. È possibile che alcuni dizionari non contengano tutti i sinonimi di una parola, ma solo alcuni?
E se trovo un sinonimo di una parola in alcuni dizionari ma non in tutti, posso considerare valido questo sinonimo?
RISPOSTA:
Non deve sorprendere che i dizionari differiscano tra loro. Ognuno offre risposte ispirate a una certa visione della lingua e al tipo pubblico a cui è indirizzato. Se non ci fossero differenze del genere, del resto, non avrebbe senso pubblicare tanti dizionari diversi. Ne consegue che è utile fare una ricerca più ampia, usando più di uno strumento, sia cartaceo sia on line. Un ottimo dizionario dei sinonimi disponibile gratuitamente in Internet, ad esempio, è quello Treccani.
Ci si può, in genere, fidare dei dizionari, anche se differiscono tra loro. Un sinonimo registrato in uno o in alcuni, e non in altri, può essere considerato valido; solo in astratto, però; bisogna sempre assicurarsi che quel sinonimo sia adatto al contesto nel quale serve, perché i sinonimi non coincidono mai perfettamente tra loro: hanno sfumature di significato e ambiti d’uso specifici. Per farle un esempio riguardo al significato: carino è un sinonimo di bello, ma non posso dire “Oggi il tempo è proprio carino”, mentre posso dire “Oggi il tempo è proprio bello”. Viceversa, non posso dire “Luca è stato bello ad accompagnare Maria a casa”, mentre posso dire “Luca è stato carino ad accompagnare Maria a casa” (anche se sarebbe meglio dire gentile, cortese, generoso o simili). Per quanto riguarda gli ambiti d’uso, prendiamo buco e foro: in astratto sono sinonimi, ma foro è più tecnico di buco, infatti di solito “si fa un buco nel muro” (con martello e chiodo), ma “si pratica un foro nel muro” (con uno strumento di precisione) e i proiettili hanno un foro d’entrata e uno d’uscita (non un buco). Nelle frasi idiomatiche, poi, buco è molto più produttivo di foro: si può scoprire un buco nel bilancio (ma un *foro nel bilancio), si può vivere in una casa molto piccola, che è un buco (non un foro) e così via.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la differenza tra nascere ed essere nato? Non riesco a trovare una regola che ne giustifichi l’uso. Perché è corretto dire “Il bambino nascerà domani” e non “Il bambino sarà nato domani”? Invece non ci sono dubbi sulla correttezza di “Il bambino sarà già nato quando arriverà mio padre”. E che dire di “In primavera nasceranno nuove rose” e “In primavera saranno nate nuove rose”? Perché “È nato per fare il matematico” funziona, mentre “Nasce per fare il matematico” sembrerebbe avere poco senso?
Ho la sensazione che la differenza risieda nell’uso di certi tempi verbali.
Grazie.
RISPOSTA:
Nascere può essere classificato tra i verbi trasformativi, al pari di morire, arrivare, accorgersi, partire, svegliarsi e altri. Questa categoria di verbi ha due tratti semantici caratterizzanti: la non-duratività e la trasformatività. Indica, cioè, un cambiamento di stato che è il risultato di un processo; quando il bambino è nato, infatti, il processo della nascita, che ha avuto una certa durata, ha prodotto un cambiamento di stato nel bambino.
Questi verbi tollerano i tempi imperfettivi (posso dire, per esempio, “mentre Luca nasceva, io ero all’aeroporto in fila”), ma in questo caso non implicano che il processo sia effettivamente arrivato a compimento (sebbene nel caso di nascere la comune conoscenza della natura lasci prevedere che il processo, una volta cominciato, non possa che concludersi). A maggior ragione, questi verbi possono essere coniugati senza difficoltà al futuro e al futuro anteriore, nel caso in cui l’evento (il risultato del processo) futuro sia precedente a un altro evento.
Venendo allo specifico delle sue domande, quindi, non c’è alcuna difficoltà nell’esempio “Il bambino sarà nato domani”, che, ovviamente, viene interpretato come nell’esempio che lei stesso fa subito dopo: “Il bambino sarà (già) nato (domani,) quando arriverà mio padre”. Lo stesso vale per l’esempio sulle rose: “In primavera (, quando tornerò a casa,) saranno nate nuove rose”.
Per quanto riguarda, infine, la stranezza di “Nasce per fare il matematico”, essa dipende dal significato specifico del verbo nascere; L’azione del nascere non permette di attribuire alcuno scopo ulteriore all’evento: si nasce per nascere e basta.
Non a caso, l’espressione “essere nato per” è idiomatica, è una frase fatta iperbolica, che non va presa alla lettera, e che non si può modificare in nessuna delle sue componenti; un po’ come “ha il bernoccolo per gli affari”, che non allude affatto a una protuberanza sulla testa del soggetto, e che non può diventare *”ha avuto il bernoccolo per gli affari”, o *”domani avrà il bernoccolo per gli affari”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la differenza tra AFFERENTE ed EFFERENTE, ovvero se sono afferente vado verso qualcosa, faccio e se sono efferente sono ricettivo e ascolto? Nella comunità Osteopatia si usano questi termini e secondo me a senso invertito…
DOMANDA:
In questo caso l’etimologia è chiarificatrice: il prefisso ad- del verbo latino affero (che in italiano non si è continuato, ma ha lasciato solamente il participio presente con funzione di aggettivo afferente) indica un moto verso un punto nello spazio; ne consegue che afferente è detto di un mezzo che trasporta un contenuto di qualche genere verso una meta. Allo stesso modo, il prefisso ex-, che fa parte del verbo latino effero (anch’esso senza “eredi” in italiano, tranne il participio presente efferente), indica il movimento da dentro verso fuori, con le conseguenze semantiche prevedibili sulla parola. L’interpretazione di efferente come ‘ricettivo’, pertanto, è calzante, perché rispecchia l’idea di un trasferimento dall’interno di un luogo, fisico o metaforico, verso la persona che si sta concentrando su quel luogo, mentre quella di afferente come ‘in movimento verso qualcosa’ è leggermente imprecisa, perché non tiene conto del tratto semantico ‘portare’, ma tutto sommato adeguata, perché per poter portare qualcosa verso un punto bisogna andare verso quel punto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “per essere grande di età, sembra più giovane”; ” per essere grande di età “, si può considerare complemento di limitazione?
RISPOSTA:
Dato che, nella frase in questione, per regge un verbo, di modo infinito, non si tratta di un complemento, bensì di una proposizione subordinata implicita, in questo caso una concessiva. Infatti, come corrispettivo esplicito, basterebbe pensare a un esempio del genere: “sebbene sia grande di età, sembra più giovane”. Un altro uso simile di per introduttore di concessiva, stavolta esplicita, è il seguente: “per grande che sia di età, sembra più giovane”. Per può introdurre anche le subordinate limitative implicite, ma con altro valore semantico. Per es.: “per essere grande, è grande”. La differenza semantica tra la limitativa e la concessiva è evidente dagli esempi citati: nella limitativa, la principale conferma l’ambito della subordinata (un equivalente, più o meno, con un complemento di limitazione sarebbe il seguente: “quanto all’età, è grande”), mentre, nella concessiva, la principale è in certo qual modo controfattuale rispetto alla subordinata, cioè la smentisce (un equivalente con un complemento sarebbe il seguente: “nonostante l’età elevata, sembra più giovane”).
Fabio Rossi
QUESITO:
“Nel 2012, all’età di 25 anni, era sposato con la donna dei suoi sogni, aveva un ottimo lavoro e una bella casa”.
Mi chiedo: nell’esempio citato, l’imperfetto ha valore narrativo (storico)?
Sia in caso di risposta positiva che negativa, è corretto dire che, senza un contesto più ampio, non si può interpretare la frase in senso univoco, ossia non siamo certi se il soggetto sia ancora sposato, abbia ancora un ottimo lavoro e una bella casa?
RISPOSTA:
Gli imperfetti della frase hanno il valore tipico dell’imperfetto, ovvero designano situazioni continuate nel passato. L’imperfetto narrativo, al contrario, è usato in luogo del passato puntuale (passato prossimo o remoto), oppure con verbi che per la loro semantica non ammetterebbero l’aspetto durativo o abituale. Nella seguente frase troviamo un esempio per entrambi i casi: “A 19 anni veniva accolto a Londra come una star, a 22 moriva ucciso dall’abuso di alcol” (repubblica.it, 2011). Come si vede, l’azione dell’accogliere nella frase non è durativa, perché avviene in un momento puntuale (è durativa, o meglio abituale, in una frase come “Gli antichi greci accoglievano i viandanti come persone di famiglia”); il morire, poi, non può essere mai un processo durativo. L’imperfetto narrativo è anche tipico dei verbali di polizia: “Il soggetto si introduceva nell’appartamento e asportava oggetti di valore”.
L’effetto dell’imperfetto narrativo è quello di dilatare l’azione puntuale, dando l’impressione che si sia protratta nel tempo; di conseguenza, avvicina anche l’azione al momento dell’enunciazione, rendendola, quindi, più vivida.
Per quanto riguarda la seconda domanda, è vero che la formulazione della frase non consente di stabilire se la situazione descritta sia ancora valida; il tempo passato, però, suggerisce fortemente che non sia così.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Non potrà suonare più”, oppure “non ti bacerà più” indica sia la cessazione di qualcosa che prima accadeva sia un fatto che non si verificherà per la prima volta? Cioè è una frase da contestualizzare?
RISPOSTA:
Normalmente, tra le funzioni di più c’è quella di indicare, in correlazione con una negazione, la cessazione di un’azione; usando i suoi esempi, quindi, “Non potrà suonare più” può essere riferito a un musicista che si è rotto due dita, mentre “Non ti bacerà più” a una persona che è stata lasciata da un fidanzato e quindi in futuro non riceverà da lui i baci che riceveva in passato. In questi casi, più prende il significato di ‘più a lungo’, quindi ‘ancora’; non a caso, in inglese questa funzione è spesso svolta dalla perifrasi (no) longer, che significa letteralmente ‘(non) più a lungo’: “I will not serve that in which I no longer believe” (‘Non servirò più ciò in cui non credo più’) scrive James Joyce in A Portrait of the Artist as a Young Man.
La funzione di più ‘ancora’, inoltre, opera per la massa, oltre che per il tempo, in frasi come “Non ne voglio più”, ovvero ‘Non voglio una quantità maggiore di ciò’.
Tornando alla dimensione del tempo, più può facilmente essere usato in riferimento ad azioni che non si sono ancora verificate, ma erano state programmate; quindi “Non potrà suonare più” può anche essere riferito a un musicista che avrebbe dovuto esibirsi in un concerto ma ha avuto un incidente. In questo caso la frase è parafrasabile come ‘Non potrà dare seguito alla preventivata azione di suonare’. Lo stesso vale per “Non ti bacerà più”, che può riferirsi a qualcuno che era pronto a impegnarsi in una relazione amorosa e ha cambiato idea prima che questa iniziasse, quindi ‘Non darà seguito alla preventivata azione del baciare’. Quest’uso estensivo di più è da considerarsi meno formale di quello descritto sopra (e infatti è più comune in comunicazioni informali); si può trovare anche in frasi al passato come “Sei più andato a Parigi?” nel senso di ‘Hai poi dato seguito alla preventivata azione di andare a Parigi?’.
In conclusione, come sempre quando è possibile una doppia interpretazione, è meglio contestualizzare l’enunciato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Cadendo dal tavolo la penna ha macchiato il tappeto”: nell’analisi del periodo,”cadendo dal tavolo” è una subordinata modale o strumentale?
RISPOSTA:
Il gerundio dipendente può assumere molte funzioni, tra le quali quella modale e quella strumentale sono le più comuni. Questo modo verbale, però, sfugge a una interpretazione univoca: quasi sempre assomma in sé contemporaneamente almeno due funzioni.
Come si evince dal nome, quando ha funzione modale, il gerundio rappresenta la trasposizione verbale di un complemento di modo: “Mi venne incontro sorridendo” (‘… con un sorriso’); quando ha funzione strumentale, invece, il gerundio ricalca un complemento di mezzo: “Mi sono fatto largo tra la folla sgomitando” (‘… per mezzo dello sgomitare’).
Può capitare che le due funzioni siano compresenti nello stesso gerundio; in questo caso si dice che esso ha funzione modale-strumentale: “Mentre il sindaco, Gianni Alemanno, stava parlando dal palco, un gruppo di ragazzi ha iniziato a contestarlo denunciando il mancato coinvolgimento dei comitati di quartiere” (repubblica.it, 2011) (‘…per mezzo della denuncia…’, ma anche ‘… con un atteggiamento di denuncia…’).
Come si può vedere dagli esempi, infine, nel gerundio modale è spesso presente una sfumatura temporale: “Mi venne incontro sorridendo” può anche essere parafrasato con ‘Mi venne incontro mentre sorrideva’.
Venendo al suo caso, “Cadendo dal tavolo” si potrebbe interpretare come strumentale, non modale (‘con la / attraverso la / per mezzo della caduta dal tavolo…’). Più convincente, però, mi sembra l’interpretazione causale, con una sfumatura temporale: ‘A causa del fatto che è caduta dal tavolo…’, ma anche ‘Dopo che è caduta dal tavolo…’. Questo gerundio rappresenta, se vogliamo, quella che in latino era una proposizione narrativa (quella costruita con cum + congiuntivo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non ha hobby, fuorché andare a ballare”. A ballare va analizzato insieme ad andare o sono separati? Nel caso in cui andassero analizzati separatamente, a ballare è una proposizione finale?
RISPOSTA:
“A ballare” è una proposizione finale, subordinata alla reggente, nella quale figura il verbo andare. Diversamente, l’infinito non sarebbe stato da considerare una proposizione a sé stante se fosse stato parte della perifrasi andare a + infinito, come nell’espressione piuttosto comune “andare a vivere insieme”. In tale perifrasi, il verbo andare perde il suo significato proprio di ‘dirigersi in un luogo’ e assume un valore temporale-aspettuale: conferisce, cioè, al verbo all’infinito una sfumatura relativa alla fase di realizzazione dell’azione da esso espressa. Quale sia questa fase è chiaro: la formula “andare a vivere insieme”, infatti, significa ‘stare per cominciare la convivenza’; la fase, dunque, è quella appena precedente alla realizzazione. Lo stesso vale per la frase fatta “andare a finire”: “Lo sapevo che andava a finire male” significa ‘… che stava per finire male’.
La perifrasi può anche essere imperativa: “Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile” (Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, 1974, p. 110). L’imperativo impedisce l’interpretazione temporale-aspettuale (sarebbe come dire *’stiate sul punto di spiegarlo’) e induce, invece, a interpretare l’espressione come ‘provate a spiegare…’. Questa interpretazione opera anche nell’espressione vattelappesca, ovvero ‘vattelo a pescare’, quindi ‘prova a pescartelo’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei alcuni dubbi sull’uso della parola stigmatizzare. In particolare volevo chiederle un chiarimento sull’uso di questa parola nella frase riportata di seguito:
Si può utilizzare la parola stigmatizzata in riferimento al suo contenuto etimologico di stigma: ‘marcare un carattere distintivo’, invece che intenderne necessariamente il suo significato derivato – sempre da stigma – di ‘criticare, biasimare’?
RISPOSTA:
Il problema riguardo al significato del verbo stigmatizzare deriva dalla complessità del concetto espresso dalla parola stigma. Uno stigma non è solamente una caratteristica, ma è il risultato della percezione sociale di quella caratteristica, che distingue fortemente un individuo dalla maggioranza degli altri. Per questo motivo, uno stigma viene sempre imposto dagli altri, e per questo motivo è comunemente inteso come una caratteristica negativa. Il termine stigma, cioè, designa non un difetto in sé, ma un aspetto dell’individuo percepito da chi gli sta intorno come un difetto. Va de sé che spesso lo stigma di un individuo rappresenta non una pecca, ma una virtù, rilevata come pecca dalla società che mal tollera i diversi.
Il verbo stigmatizzare significa ‘attribuire uno stigma’, quindi ‘evidenziare una caratteristica come difetto’: è, quindi, decisamente connotato in senso negativo. Si può certamente contestare il senso che il sostantivo e il verbo da esso derivato hanno assunto, argomentando, per esempio, che è figlio di una società omologante intollerante verso i diversi. Questa, però, è un’operazione che andrebbe fatta esplicitamente, cioè spiegando perché e come si vuole attribuire al verbo stigmatizzare un significato diverso da quello corrente. Al contrario, usare il verbo nel senso di ‘rilevare un carattere, rimarcare’ senza giustificare tale scelta causerebbe certamente un fraintendimento del senso inteso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire “volevo vedere come lo facessi”?
RISPOSTA:
La proposizione interrogativa indiretta (“come lo facessi”) retta da un verbo di percezione affermativo (vedere) è costruita normalmente con l’indicativo. La costruzione più comune della sua frase, pertanto, è “volevo vedere come lo facevi”.
C’è da dire, però, che la variante con il congiuntivo non è scorretta, bensì insolita: è resa accettabile dalla sfumatura volitiva del verbo reggente; può, dunque, usarla, soprattutto in un contesto scritto e di alta formalità. È bene sottolineare che quando si usa il congiuntivo imperfetto il soggetto di seconda persona va esplicitato, visto che la prima e la seconda persona del verbo coincidono, quindi: “volevo vedere come tu lo facessi”. Il senso di questa frase in particolare rende altamente improbabile che il soggetto di facessi possa essere io, ma casi di possibile fraintendimento sono possibili, quindi è sempre bene seguire questa regola.
In mancanza della sfumatura volitiva, la frase sarebbe stata scorretta: *”Vedevo come tu lo facessi”. Al contrario, se il verbo reggente fosse negativo, il congiuntivo sarebbe la scelta migliore: “non volevo vedere come tu lo facessi” (e anche “non vedevo come tu lo facessi”).
Per quanto riguarda il tempo, l’imperfetto, indicativo o congiuntivo, indica la contemporaneità nel passato; instaura, cioè, un rapporto di contemporaneità con il verbo reggente (in questo caso volevo). Se, invece, l’intento è di instaurare un rapporto di posteriorità rispetto al passato, la scelta più corretta è il condizionale passato: “volevo vedere come lo avresti fatto”.
Fabio Ruggiano
Sublime ha comunemente il significato di ‘eccelso, nobilissimo’; è, quindi, pleonastico farne il superlativo (il più sublime equivale, appunto, a *il più nobilissimo). Quando accompagna alcuni nomi, però, l’aggettivo prende la sfumatura filosofica di ‘relativo al sublime’, cioè legato alla sensazione di elevazione spirituale e intellettuale comunicata da un’opera d’arte o da un’esperienza particolarmente intensa; in questi casi il superlativo relativo è accettabile (il superlativo assoluto, *sublimissimo o *molto sublime, è comunque impossibile). Tra i nomi che accettano il superlativo relativo di sublime ci sono sentimento, atto, opera d’arte, significato. Qualche esempio: “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera […] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana” (Giacomo Leopardi, Pensiero LXVIII); “Il pittore o lo scultore, il cui genio è tale che riescono a ritrarre l’anima nel corpo, esprimono senza moti veementi il più sublime dei sentimenti” (Piero Giordanetti e Maddalena Mazzocut-Mis, I luoghi del sublime moderno, 2005, p. 77); “Allora ‘l’opera d’arte più sublime’, quando essa, come dall’altro lato il crimine classico, si avvicina mimeticamente alle cose, rappresenta un medium cognitivo attraverso il quale possono essere acquisite non concettualmente conoscenze sulla realtà” (Axel Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, 1986); “Nel suo significato più sublime, l’arte è l’espressione estetica dell’interiorità umana” (http://libreriamo.it/arte/che-cose-unopera-darte/, 5 febbraio 2015); “Nell’adorazione, compiamo l’atto più sublime, più miracoloso del creato” (Luca Asprea, Il previtocciolo, 2003, p. 336).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è corretta questa frase: “Se desideri cosi tanto che lui faccia questo , forse non avresti dovuto chiederglielo in questo modo.”
RISPOSTA:
Sì, è corretta. È un tipico esempio di periodo ipotetico misto, che combina, in questo caso, caratteristiche del periodo dell’irrealtà con quelle del periodo della realtà.
La versione più formale, dell’irrealtà, sarebbe stata: “se avessi desiderato… che lui facesse…”, oppure, molto informalmente: “se desideravi… che lui faceva”. La versione da Lei proposta va benissimo, in quanto combina il verbo dell’apodosi (o reggente) al condizionale passato (“avresti dovuto”, tipico del periodo ipotetico dell’irrealtà), come se fosse definitivamente tramontata l’ipotesi che “lui facesse questo”, e l’atteggiamento del desiderio, ben ancora presente e reale, che lui, con un comportamento diverso del/della richiedente, possa ancora farlo… Morale della favola: non è mai troppo tardi, e gli usi linguistici, talora, rivelano ben più di quanto crediamo sui nostri desideri reconditi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho una domanda di tipo semantico: l’avverbio spesso è di tempo e corrisponde a frequentemente. Secondo Voi, è corretto scrivere: “La gente spesso non ha denti”?
Se la frequenza è una fatto temporale, la gente (nome collettivo), non può avere i denti qualche volta sì e qualche volta no.
RISPOSTA:
Quella che a lei sembra una stranezza si può spiegare sulla base della comune concezione semplificata del tempo come di un contenitore che si riempie e si svuota. Questa concezione porta alla associazione tra numerosità, quantità della massa e ricorsività: c’è una stretta relazione, cioè, tra il numero di individui che compie un’azione o si trova in uno stato, la grandezza di un fenomeno e la probabilità che l’azione, lo stato o il fenomeno si presentino nel tempo (cioè “riempiano il tempo”). Del resto, l’aggettivo italiano spesso ‘dotato di un certo spessore’ e l’avverbio spesso ‘molte volte’ continuano l’aggettivo latino spissus ‘folto, affollato’; come si vede, quindi, numerosità, massa e ricorsività sono concettualmente prossime, tanto da essere difficilmente distinguibili.
Si aggiunga che l’aggettivo frequente in latino (frequens) e in italiano antico significava anche ‘affollato’ (oltre che ‘solito, frequente’: “Questo sicuro e gaudioso regno, / frequente in gente antica e in novella, / viso e amore avea tutto ad un segno” (Paradiso, XXXI, 25-27). Ancora oggi, in italiano, il verbo frequentare, pur derivando da frequente, mantiene l’ambiguità concettuale di fondo: “Quel locale non lo frequenta nessuno” significa ‘nessuno affolla quel locale’.
Il suo esempio, sulla base di questa concezione comune, rispecchiata implicitamente nella lingua, è sensato: “la gente spesso non ha denti” equivale a “molta gente non ha denti”.
Fabio Ruggiano
Il nome casa indica al contempo un luogo delimitato e un ambito sociale; per questo motivo, quando è accompagnato da verbi di stato e di moto, può essere costruito con preposizioni diverse, a seconda di quale aspetto vogliamo valorizzare. Con il verbo uscire (ma la doppia costruzione si può trovare, più raramente, con verbi analoghi, come partire, allontanarsi, scappare), la preposizione da fa pensare al luogo (ed è la scelta più naturale): “‘Vigliacchi! Spudorati! Uscite da casa mia!’, si era messa a urlare” (Giorgio Bassani, Cinque storie ferraresi, 1956, p. 260). La preposizione di indica, invece, l’ambito sociale, come se in questo caso casa indicasse le abitudini, le dinamiche, le relazioni che si intrecciano nel luogo (ed è la scelta più carica di forza idiomatica, o più marcata, se vogliamo): “Sarebbe capace di non uscire più di casa, se si accorgesse che tu vai fuori soltanto per farla muovere” (Giuseppe Berto, Il tempo di uccidere, 1947, p. 197). Si noterà che, in linea con quanto detto, quando casa è costruito con di indica obbligatoriamente la casa del soggetto.
Un altro nome che condivide con casa la doppia costruzione è prigione: si può, infatti, uscire dalla prigione (dal luogo delimitato) o uscire di prigione (dall’ambito sociale).
Per quanto riguarda l’articolo, è vero che la costruzione con la preposizione da ne preferisce, e a volte obbliga, l’uso, mentre quella con di lo impedisce: questo dipende dal fatto che le espressioni con una forte valenza idiomatica tendono a cristallizzarsi e a perdere proprio l’articolo. Anche con da, del resto, l’articolo può essere escluso quando l’espressione è molto comune: “Sono uscito da casa di XXX alle sei” (e si veda anche, nell’esempio riportato sopra, da casa mia).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: ” ti fa piacere un caffè”; il verbo fare ha funzione di verbo causativo? Cioè “fa piacere” è un unico predicato?
RISPOSTA:
Sì, indubbiamente fa piacere è un unico predicato, del resto facilmente parafrasabile con un unico verbo: ti va… ?
I linguisti chiamano i costrutti di questo tipo “a verbo supporto”, ovvero con un verbo generico che regge un sostantivo più specifico, che dà il significato proprio del sintagma. A volte, sono più informali dell’equivalente costrutto con il semplice verbo (fare una fotografia o dare un’occhiata o uno sguardo sono più informali, e nel secondo caso con una sfumatura semantica in più, rispetto al semplice fotografare o guardare/badare a), altre volte più formali (dare aiuto, rispetto ad aiutare).
Non lo definirei, però, un uso causativo, dal momento che, di norma, si parla di verbi causativi o fattitivi per quei verbi che indicano un’azione fatta compiere da/ad altri; per es. “mi hai fatto aspettare per ore”; “ti lascio studiare in pace”.
Naturalmente, anche fare piacere, ma in un contesto e in una struttura del tutto diversi, potrebbe avere valore causativo: “se non ti piace la minestra, tua madre te la fa piacere per forza”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio molto grande in quanto ogni volta non so se usare “venne” o “fu”. Per esempio: si dice “venne rapita” o “fu rapita”?. Per quello che so io, la forma corretta è “fu rapita”, in quanto il passato prossimo del verbo “fu” è “è stata”, mentre quello del verbo “venne” è “è venuta”, e se la stessa frase si dovesse scrivere con il passato prossimo, diventerebbe “è stata rapita” e non “è venuta rapita”. Ma in un film che ho visto, un personaggio ha detto “venne rapita”, e allora ecco che arriva il dubbio!
Potrei fare altri esempi: “venne accantonata” o “fu accantonata”?
Illuminatemi!
RISPOSTA:
Il verbo venire può essere usato al posto di essere in funzione di ausiliare solamente al passivo e nei tempi semplici (non si può dire *io sono venuto chiamato). La scelta tra essere e venire è spesso legata a una preferenza stilistica da parte dell’emittente, ma, in alcuni casi, può esprimere una sfumatura di significato; ad esempio una frase come “I cancelli vengono chiusi alle 8:00” chiarisce che la chiusura dei cancelli avviene alle 8:00, mentre “I cancelli sono chiusi alle 8:00” può essere interpretata come la descrizione di una situazione, successa anche molto tempo prima. In altre parole, venire come ausiliare del passivo conferisce al verbo una sfumatura di dinamicità che manca al verbo essere, più adatto a descrivere i fatti come fermi nel tempo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riguardo al sintagma “non è da me”, ho trovato nella grammatica di Serianni la seguente spiegazione: costrutto con valore destinativo-vincolativo, in cui “da” significa ‘che si addice a’.
La mia domanda è questa: non esiste un complemento tipico dell’analisi logica che potrebbe identificarlo?
Mi sembra di capire che per Serianni è solo un costrutto senza etichette di complemento.
Aggiungo una richiesta simile: nella frase “Un comportamento simile non è da lui” il costrutto potrebbe avere un valore di complemento predicativo? Ma come sarebbe l’analisi logica di una frase del genere?
RISPOSTA:
Il valore destinativo-vincolativo attribuito alla preposizione da è un modo per spiegare la semantica di questo connettivo usato in costrutti che indicano una qualità che si addice a qualcuno o a qualcosa. Dal punto di vista dell’analisi logica, questi costrutti vanno ascritti al complemento predicativo del soggetto, che completa il significato del verbo essere nella sua funzione di copula, oppure di qualunque altro verbo copulativo (ad esempio nella frase “Questo comportamento non sembra da lui”). Molte grammatiche distinguono il particolare complemento predicativo retto dal verbo essere, chiamandolo parte nominale, con riferimento al predicato nominale formato con la copula. Si tratta di una distinzione non del tutto giustificata dal punto di vista semantico, o, se vogliamo, logico (nonostante il nome diverso, infatti, il complemento è lo stesso), che serve a distinguere il verbo essere, la copula per eccellenza, dai verbi copulativi, che si comportano come il verbo essere. È, questo, uno dei tanti punti discutibili dell’analisi logica, che rendono questa attività cavillosa e spesso ingannevole.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non ho accordi quadro che modificano quelli in essere” oppure “Non ho accordi quadro che modifichino quelli in essere”?
RISPOSTA:
Entrambe le versioni sono corrette, ma si differenziano perché quella con il congiuntivo aggiunge una sfumatura di significato: nella proposizione relativa, infatti, l’indicativo presenta l’azione o l’evento come un dato di fatto, senza suggerire alcuna valutazione soggettiva dell’emittente; il congiuntivo, invece, attribuisce all’azione una sfumatura di eventualità (che deriva da una valutazione dell’emittente), interpretabile in vari modi. In questo caso “accordi che modifichino” vale “che possano (secondo me) modificare”, quindi “tali da poter modificare”; la proposizione relativa, pertanto, si avvicina a una consecutiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È possibile definire sinonimi gli aggettivi manicheo e divisivo?
RISPOSTA:
I due aggettivi hanno significati piuttosto distanti e pertanto non possono essere considerati sinonimi. Manicheo (o manicheista) si riferisce specificamente alla corrente religiosa e di pensiero del manicheismo, e solo con una generalizzazione può definire una persona o un modo di pensare che considera la realtà divisa tra due principi opposti e di uguale peso, tra cui non ci può essere accordo né compromesso.
Divisivo ha un significato molto più ampio: può essere sinonimo di divisorio (linea divisiva, muro divisivo) o, più comunemente, designare una persona, un comportamento, un evento su cui ci sono interpretazioni diverse e contrastanti. Un esempio d’uso dei due aggettivi nello stesso contesto potrà chiarire la loro distanza semantica:
Si capisce perché sia così divisivo, eroe per alcuni […]; bluff assoluto per altri (Goffredo Buccini, Governatori, Venezia, Marsilio, 2015).
Come si vede, manicheo è usato per definire una dichiarazione che parla di scontro insanabile tra bene e male, mentre divisivo ha a che fare con i giudizi contrastanti su un personaggio pubblico.
Pur nella considerazione che la sinonimia non è mai perfetta, aggettivi più vicini ad essere sinonimi di manicheo sono assolutistico, categorico, intransigente; al contrario, divisivo, nell’accezione legata all’esempio riportato, si avvicina a controverso, dibattuto e, meno precisamente (perché contiene una sfumatura più negativa), discutibile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, volevo sapere se infausto e infernale possono essere considerati sinonimi.
RISPOSTA:
Il significato dei due aggettivi è decisamente diverso, anche se la coincidenza delle prime lettere, e anche la comune accezione negativa, può far pensare il contrario. Infausto è l’opposto di fausto (collegato al verbo favēre ‘favorire’), e significa ‘malaugurato, che presagisce eventi negativi’. Torquato Tasso, nel canto XII della Gerusalemme liberata, così descrive l’armatura di Clorinda: “Depon Clorinda le sue spoglie inteste / d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, / e senza piuma o fregio altre ne veste / (infausto annunzio!) ruginose e nere”. Tasso, cioè, suggerisce che i colori rosso (rugginoso) e nero delle armi presagiscano il sangue e la morte a cui il pesonaggio sta andando inconsapevolemente incontro. Da qui, il significato dell’aggettivo si è evoluto verso quello più generico di ‘sfortunato’; come in questo esempio, dal romanzo del 2003 Vita di Melania G. Mazzucco (p. 252): “Sua madre gli aveva raccontato spesso l’ultima incursione – che aveva reso infausto il 1860. I corsari erano sbarcati sulla spiaggia di Scauri e da lì saliti a depredare Minturno e i suoi villaggi, ammazzando uomini e bambini fin nei vicoli di Tufo”.
Infernale è l’aggettivo di relazione di inferno (dal latino infer ‘che sta in basso’). Indica, cioè, qualcosa che ‘ha a che fare con l’inferno’. Da questo significato si è sviluppato quello di ‘malvagio, diabolico’ e poi quello, iperbolico, di ‘terribile, tremendo, insopportabile’ e anche ‘faticosissimo’. Addirittura, nel caso di ritmo infernale, l’aggettivo prende il significato di ‘sfrenato, convulso’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La parola riluttante ha come significato esitante, refrattario. Il significato della parola può essere esteso ad inaffidabile Es: è una persona riluttante inteso come una persona poco chiara, di cui non ci si può fidare ciecamente, una persona che non mi convince…
RISPOSTA:
Alla base della riluttanza c’è il concetto della lotta (deriva, infatti, dal latino luttare), della resistenza a fare qualcosa, anche a comprendere qualcosa, a collaborare. Ripercorrendone gli usi letterari, spesso a riluttante è assegnato proprio il significato di chi non vuole collaborare, non vuole essere d’accordo, non vuole ascoltare le opinioni e le ragioni altrui, ecc. Il contesto, come sempre, è dirimente: si può essere riluttanti (cioè non voler collaborare) alla chiarezza, cioè volersi ostinare ad essere oscuri, ambigui. Ambiguo, per l’appunto: visto che l’italiano ha un bel termine preciso per esprimere il concetto di cui lei sta parlando (una persona poco chiara, che non mi convince), perché non usarlo? Se il lessico italiano fornisce la parola che esprime esattamente quello che vogliamo esprimere, usiamola, senza ricorrere a complicate metafore, metonimie, sinestesie, ipallagi ecc., e senza far troppo affidamento sulle capacità di comprensione dei nostri interlocutori. I quali, se confusi da termini poco chiari, possono ben essere… riluttanti alla comprensione!
Fabio Rossi
QUESITO:
Per indicare una situazione particolarmente affollata si dice “c’è gente a flotte” o “…a frotte?” C’è una connessione con la flotta navale?
RISPOSTA:
I termini flotta e frotta hanno significati diversi: il primo indica un insieme di navi, militari, mercantili o da trasporto, e, più recentemente, anche un insieme di aerei: “Alitalia vanta una delle flotte più moderne ed efficienti al mondo” dichiara il sito ufficiale della compagnia. Il secondo designa un gruppo di persone, o, estensivamente, di animali, soprattutto numeroso e disordinato (e si usa nell’espressione a frotte ‘in gran numero’).
Di là dalla differenza di significato, flotta e frotta sono geneticamente imparentati, perché hanno una base comune, il francese flotte. A sua volta, la parola francese è di derivazione latina: ha a che fare con il verbo fluo ‘scorrere’ e con il nome fluctum ‘onda, corrente’. Flotte è entrato in italiano come frotta, con il significato di ‘gran numero’, già nel Trecento (frotta è, quindi, più antico di flotta): per fare qualche esempio, Giovanni Boccaccio, nel Ninfale fiesolano, parla di “frotta delle ninfe” e Fazio degli Uberti, nel Dittamondo, scrive “Quegli uccelli, che volavano, a frotte / sentito avresti cadere tra’ piedi”.
La trasformazione della l di flotte nella r di frotta è dovuta al fenomeno della dissimilazione: in italiano ci sono poche parole che iniziano per fl-, perché fino all’XI secolo il nesso fl- era trasformato sistematicamente in fi- (florem > fiore, fabulam > *flaba > fiaba, persino lo stesso fluctum > fiotto). Le parole che hanno fl- sono latinismi o prestiti più moderni da altre lingue, flutto, floreale, flagranza ecc. Nel Trecento, quindi, flotta doveva sembrare sbagliato (si poteva pensare che la l fosse stata inserita per sbaglio per influenza dell’articolo nella sequenza la flotta) e per questo i parlanti alla lunga l’hanno modificato in frotta. Del resto, come testimonia il suo dubbio, si fa presto a confondere flotta e frotta.
Flotta è entrato di nuovo in italiano nel Cinquecento, indipendentemente da frotta, per definire un insieme di navi: Giovan Battista Ramusio scrive, a metà Cinquecento, in un’opera che è tutto un programma, Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali: “alli 28 del detto mese partimmo de lì tutta la flotta con vento calma”. Da allora non ha mai smesso di riferirsi alle navi, che vanno per mare o per aria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non tutti i dizionari danno una definizione dei termini croccantino e crocchetta come ‘mangime per cani/gatti’: perché? e quale dei due è più corretto?
RISPOSTA:
I due nomi condividono l’origine, che è il verbo francese croquer ‘scricchiolare’ (ma in italiano esiste anche il verbo croccare) e sono stati coniati in ambito gastronomico. Fin dal Settecento, il croccante è un dolce di mandorle e zucchero caramellato, mentre ottocentesca è la polpetta di patate o carne impanata e fritta nota come crocchetta. Va detto che la crocchetta non è affatto croccante, ma deriva il suo nome probabilmente dalla forma di un biscotto, chiamato crochetto (quello sì croccante), che esisteva già nel Settecento.
Croccantino, diminutivo di croccante, è recentissimo, addirittura degli anni Duemila (il dizionario Treccani lo ha inserito solamente nel 2016), e designa esattamente il cibo secco per gli animali domestici, oltre che, marginalmente, il gusto di gelato o altro dolce ispirato al croccante.
Entrambi i nomi sono ben formati; dal punto di vista semantico, croccantino è del tutto legittimo (sebbene di recente coniazione), mentre l’uso di crocchetta è curioso, visto che le crocchette tradizionali non richiamano affatto, per forma e consistenza, il cibo secco per gli animali. Si aggiunga che il GRADIT registra sotto il lemma crocchetta solamente quello tradizionale di ‘polpetta’. Per quanto curioso, però, non si può dire scorretto: l’evoluzione della lingua segue spesso dei percorsi non riconducibili solamente alla logica razionale; e nemmeno poco comune: una rapida ricerca in Internet con il motore di ricerca google restituisce molti più risultati per “crocchette per cani e gatti” che per “croccantini per cani e gatti”. I parlanti, quindi, nonostante la poca somiglianza tra le crocchette e il cibo secco per gli animali, sembrano preferire crocchette a croccantini per definire questo alimento. La preferenza dei parlanti è un argomento decisivo per ritenere legittimo anche crocchetta, accanto a croccantino.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il termine ponderato ha come sinonimo oculato, equilibrato: è possibile sostituire in una frase il termine ponderato con il termine parsimonioso (che ha come sinonimi oculato ed equibrato). I due termini (ponderato e parsimonioso) possono essere considerati sinonimi o almeno sostuibili in un contesto (per dire oculato, equilibrato, dosato)?
RISPOSTA:
Ponderato ha a che fare con la capacità di prendere decisioni in modo equilibrato e in seguito a riflessione, non in modo impulsivo (deriva dal verbo latino pondo ‘soppesare, valutare’). Parsimonioso, invece, indica una persona oculata nello spendere o nell’amministrare i propri beni (deriva dal verbo latino parco ‘risparmiare’). A volte parsimonioso è usato in modo ironico o eufemistico per indicare una persona avara.
Possiamo dire che ponderato sia un iperonimo di parsimonioso, perché ne contiene il significato, oppure, che è lo stesso, che parsimonioso sia un iponimo di ponderato. Ponderato, quindi, può sostituire parsimonioso, ma necessita di una specificazione: “Paolo è una persona parsimoniosa” equivale a “Paolo è una persona ponderata nello spendere”; al contrario, parsimonioso può sostituire ponderato solamente con riferimento alle spese o all’amministrazione dei propri beni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buon giorno, volevo sapere se i termini ponderare e centellinare possono essere considerati sinonimi o almeno sostituibili in un contesto (entrambi hanno come sinonimo misurare, soppesare, dosare). Nel caso di dosare o misurare una quantità i termini, centellinare e ponderare possono sostituirsi?
Ad esempio, posso sostituire il termine ponderare con centellinare nella seguente frase: “Pondera (inteso come giusta misura) bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”/”Centellina bene la quantità di liquido che metti nel bicchiere”?
Il vocabolario dà come significato di centellinare anche ‘dosare con parsimonia’.
RISPOSTA:
I due verbi in questione hanno un significato molto diverso: ponderare significa ‘valutare con calma tutti gli aspetti di un problema per prendere una decisione al riguardo’, mentre centellinare vuol dire ‘bere a piccoli sorsi’ (un centellino è, appunto, un piccolo sorso), oppure, metaforicamente, ‘distribuire oggetti lentamente al fine di prolungare il piacere, o il valore, proprio degli stessi oggetti’ (si possono centellinare le energie, le informazioni, le parole).
Difficilmente, pertanto, i due verbi possono essere scambiati; per esempio, “Paolo di solito pondera le sue parole” significa che Paolo riflette bene prima di parlare, per non urtare la sensibilità di chi ascolta, mentre “Paolo di solito centellina le sue parole” vuol dire che Paolo ama creare suspense quando parla, per tenere vivo l’interesse di chi lo ascolta.
Nel suo esempio, infatti, le due varianti sono possibili, ma hanno significati diversi: “Pondera la quantità” vuol dire ‘rifletti bene sulla quantità’, mentre “Centellina la quantità” significa ‘metti goccia a goccia la quantità”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buon giorno, vorrei sapere se sproloquio può significare ‘pettegolezzo senza malignità’. Ad es. ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ può essere una forma di sproloquio?
RISPOSTA:
Il nome sproloquio può essere usato per definire l’azione del ‘parlare continuamente degli affari degli altri senza usare malignità’ solo se si vuole sottintendere una sfumatura di inconcludenza, confusione, scarso dominio dell’argomento di cui si parla. Per ottenere il significato cercato suggerisco di usare, invece di sproloquio, chiacchiera, oppure ciancia, ciarla, cicalata o cicaleccio (e i relativi verbi chiacchierare, cianciare, ciarlare, cicalare).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sparlare e sproloquiare possono essere considerati sinonimi relativi, almeno sostituibili in un contesto? Dalla ricerca che ho effettuato sul dizionario de Mauro risulta che sparlare ha 2 significati, 1 Parlare con malignità, 2 parlare a sproposito inopportunamente. Per sproloquiare ho trovato come significato sul Treccani ‘parlare a sproposito’. Italwordnet, database semantico, li definisce sinonimi. Secondo voi ci può essere una sinonimia tra questi due termini?
RISPOSTA:
In generale, le lingue non amano i sinonimi, perché sono uno spreco di materiale. Per questo, le parole che ci sembrano avere lo stesso significato si sovrappongono solo parzialmente, oppure hanno ambiti d’uso diversi (come comprare, comune, e acquistare, tecnico). Nel caso di sparlare e sproloquiare, i due verbi hanno un significato vicino, ma che rimane distinto. Sparlare significa, secondo il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da Tullio De Mauro), quasi esclusiavamente ‘parlare con maldicenza’, come suggerisce il prefisso s-, che indica in questo caso lo stravolgimento in negativo, la degenerazione, del significato della base. Il prefisso s- di sproloquiare non ha lo stesso significato di quello di sparlare, ma indica la ripetizione dell’azione espressa dal verbo (come in sbattere, sfarfallio, spennellare…): chi sproloquia, insomma, ripete l’introduzione (proloquium in latino è proprio l’introduzione al discorso) senza arrivare mai a trattare il cuore dell’argomento.
La sfumatura di malevolenza insita nel verbo sparlare, quindi, non appartiene a sproloquiare, che riguarda un modo di fare confuso e prolisso, a volte da fanfaroni, ma non malevolo.
Anche nel significato secondario di sparlare, ‘parlare a sproposito’, si mantiene una certa sfumatura di inopportunità, estranea a sproloquiare (e si consideri anche che il GRADIT classifica questa accezione di sparlare come BU, cioè ‘basso uso’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’espressione “il male può annidarsi anche laddove sembri non esistere” è corretta la forma col congiuntivo o andrebbe corretta in “il male può annidarsi anche laddove sembra non esistere”?
RISPOSTA:
Nel suo esempio laddove ha il valore di avverbio, del tutto equivalente a là dove. La proposizione introdotta da questo connettivo spesso esclude il congiuntivo: “Laddove un tempo crescevano solo i fiori del male ora sono stati piantati semi di iris, glicine e narciso” (repubblica.it, 2018). Il congiuntivo è ammesso, sebbene non obbligatorio, quando, come nel suo esempio, la proposizione ha una forte sfumatura eventuale. Quando è usato, esso produce anche un innalzamento della formalità della frase.
Oltre che da avverbio, laddove può fungere da congiunzione avversativa (analoga a mentre), costruita obbligatoriamente con l’indicativo (fatta salva la possibilità, sempre valida, di sostituire l’indicativo con il condizionale): “ma in alcuni casi questo stesso vizio può portare all’errore esattamente opposto, decretando la pura e semplice insopportabilità del dolore altrui, laddove invece quel dolore non è affatto insopportabile, o non lo è ancora” (Sandro Veronesi, Caos calmo, 2006).
Può, infine, essere una congiunzione condizionale; in questo caso obbligatorio è il congiuntivo (prevedibilmente, visto che quest’uso è raro e altamente formale): “Laddove Luca lo desideri, può raggiungerci più tardi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si dice: comprare una cassa d’acqua o confezione di bottiglie d’acqua?
RISPOSTA:
Le due espressioni sono perfettamente equivalenti e vanno bene per tutte le situazioni comunicative. Sicuramente la seconda (“confezione di bottiglie d’acqua”) è più formale (ma anche, direi, eccessivamente pomposa e un po’ burocratica), ma la prima (“cassa d’acqua”) è del tutto corretta e adatta anche agli usi formali. Immagino che il motivo della sua richiesta sia dovuto alla supposizione che la prima espressione (“cassa d’acqua”) possa sembrare a taluni eccessivamente generica, imprecisa e informale, per via del fatto che, materialmente, l’acqua non è disposta in una vera e propria cassa, bensì in bottiglie tenute insieme da un foglio di plastica. Ebbene, tale critica è insussistente, dal momento che la lingua (qualunque lingua, non soltanto quella italiana) non funziona secondo una logica astratta e il rispetto pedissequo dell’etimologia e del significato letterale delle parole, ma in base a usi e funzioni concrete e consolidate. Pertanto, in virtù degli usi figurati (metonimia), così come possiamo dire “ho bevuto un bicchiere di Pinot”, piuttosto che “ho bevuto una certa quantità di vino di tipo Pinot contenuta in un bicchiere”, altrettanto felicemente possiamo dire “cassa d’acqua”, intendendo, per metonimia, con cassa ‘contenuto di una cassa o di contenitore analogo, di forma più o meno di parallelepipedo’, e con acqua, sempre per metonimia, ‘bottiglia contenente dell’acqua’. Se vuole saperne di più sulla metonimia, legga questo quesito.
Purtroppo molti parlanti e scriventi pretendono di guardare alla lingua secondo astratti meccanismi razionalistici, come se le lingue non mutassero nelle forme e nei contenuti in base al tempo, allo spazio, e alle situazioni comunicative. Ma, se così fosse, ancora parleremmo latino, o addirittura la lingua di Adamo!
Fabio Rossi
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda l’avverbio sempre. Essendo un avverbio indefinito, quando lo troviamo nelle frasi al futuro, come facciamo a capire se si tratta di una continuità ininterrotta ”con termine di tempo” o ”senza termine di tempo”? Per esempio: “La Terra girerà sempre”, “Ti amerò sempre”…
RISPOSTA:
Quando accompagna un verbo al futuro, sempre assume un valore non pienamente temporale, quale invece gli è proprio con verbi al presente e al passato. Con verbi al futuro, sempre ha una sfumatura concessiva (indica che l’azione o la circostanza continuerà a realizzarsi a dispetto di qualunque avversità) , mentre un valore pienamente temporale è assunto da per sempre. Prendiamo, per chiarire questa differenza, una frase come “I genitori perdoneranno sempre gli sbagli dei figli”; difficilmente sarebbe costruita come “I genitori perdoneranno per sempre gli sbagli dei figli”, perché il senso è che qualunque cosa succeda, l’azione continuerà a realizzarsi (e la dimensione temporale è secondaria). È vero che i due avverbi possono avvicinarsi molto nel significato, come nella frase “Rimarrò sempre con te”/”Rimarrò con te per sempre”; anche in questo caso, comunque, si nota la sfumatura più concessiva (quasi a dire nonostante tutto ) di sempre e quella più temporale di per sempre.
Un confronto interlinguistico con l’inglese ci consente di vedere più chiaramente la differenza tra sempre e per sempre: il primo, infatti, corrisponde a always, il secondo a forever; due avverbi del tutto diversi, quindi.
Come ho detto all’inizio, però, sempre ha un valore più chiaramente temporale con verbi al passato (“Sono sempre stato contrario alla caccia”) e al presente (“Chiamo sempre lo stesso idraulico, perché di lui mi fido”). In questo tipo di frasi, per sempre non è accettabile.
Venendo, infine, alla sua domanda, per quanto ne sappiamo, nel mondo fisico tutto ha fine, quindi l’uso dell’avverbio (per) sempre accanto ad un verbo al futuro indica non la reale eternità dell’azione o della circostanza, ma la sua prosecuzione fino al suo termine naturale, che non è noto. In altre parole, la durata dell’azione o della circostanza è intesa non come eterna, ma come indeterminatamente duratura.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Alcuni dizionari dicono ”sempre: indica continuità”. Il treccani, invece,
dice ”continuità ininterrotta”. Che differenza c’è tra continuità e
continuità ininterrotta?
RISPOSTA:
In effetti è una minuzia. Però, a rigore, anche l’avverbio abitualmente, oppure sistematicamente, ecc. indicano continuità. Tuttavia sempre esclude, o tende ad escludere, che tale continuità abbia interruzioni. Per es.: “Da dieci anni, tra le due e le tre schiaccio abitualmente un pisolino”: vuol dire che potrei anche non farlo, qualche volta. Con sempre, escludo questa eventuale interruzione di continuità.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “la neve si sta poggiando per terra” o “la neve si sta appoggiando per
terra”?
RISPOSTA:
La soluzione migliore sarebbe: “la neve si sta posando a terra”.
Poggiarsi e appoggiarsi, in questo caso, non sono errati, ma lievemente inappropriati, perché lasciano pensare a una volontarietà dell’azione e anche alla presenza di un certo sostegno o appiglio, che sembrano stridere con la leggerezza della neve che cade e si posa a terra senza alcun sostegno o appiglio e senza esplicita e umana volontà.
Inoltre, anche la preposizione per non è del tutto consona al contesto, che richiede preferibilmente a o in : cade a (o in ) terra e simili, a differenza di frasi fatte, come la conclusione del girotondo: tutti giù per terra. Più che un motivo grammaticale vero e proprio, in questo caso, valgono le sfumature semantiche e la consuetudine dell’uso; sia a, sia in, sia per possono indicare, infatti, il complemento di moto a luogo, ma con modalità e consuetudini differenti: andare al mare , andare in montagna , andare per mari e per monti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi confondo sempre con questi due termini. Castrato si usa per il gatto maschio e sterilizzato si usa per il gatto femmina?
RISPOSTA:
Non è esattamente così. La sterilizzazione è un procedimento che rende un organismo o un ambiente sterile, sia nel senso di ‘incapace di generare prole’, sia in quello di ‘incapace di generare germi, igienico’. Quest’ultimo senso, per essere più precisi, è molto più recente del primo, essendo stato introdotto in italiano, dal francese stériliser, solo alla fine dell’Ottocento, mentre il verbo esiste con il primo significato almeno dall’inizio del Seicento.
Esistono diversi metodi per sterilizzare un animale (compreso l’essere umano), tra cui la castrazione (gli altri più comuni sono la vasectomia e la sterilizzazione chimica). Castrazione deriva dal verbo latino castro, che ha lo stesso significato dell’italiano ed è di solito accostato al verbo greco keá zo ‘fendere’. Il procedimento della castrazione consiste nell’asportazione delle gonadi, e si opera, con le ovvie differenze dovute alla diversa anatomia, tanto sui maschi quanto sulle femmine.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno la mia per chiedervi se è corretto un errore che hanno segnato a mio figlio di 11 anni sul tema e cioè lui ha scritto “poi andammo in classe ed i maestri ci spiegarono tutto”, la professoressa ha corretto con “poi andammo in classe ed i professori ci spiegarono tutto”. È un errore scrivere maestro al posto di professore? Vi ringrazio in anticipo della vostra cortese risposta in quanto il bambino è rimasto sbalordito da questa correzione.
RISPOSTA:
Immagino che suo figlio frequenti la prima media, giusto? Se ho ragione, allora in effetti il personale docente che insegna alle scuole medie si denomina con l’etichetta di “professore” e non con quella di “maestro”. “Maestro/maestra” è invece la denominazione del personale docente delle scuole elementari e materne. In questo senso, l’insegnante di suo figlio (che infatti lei stessa definisce “professoressa”) ha corretto giustamente l’errore. Naturalmente, non si tratta di un errore di grammatica, bensì di lessico. Ma le lingue sono fatte anche di lessico.
È bene abituare i ragazzi, fin dai primi di anni di scuola, ad usare le parole secondo il loro significato più preciso e più adatto alle situazioni comunicative. Non è che un “maestro” valga di meno di un “professore” (si figuri che in ambito musicale il rapporto è ribaltato: “maestro” è il titolo che spetta al direttore d’orchestra, mentre “professore” è il titolo degli orchestrali da lui diretti), ma semplicemente la lingua è fatta di convenzioni (anche sociali) e di abitudini. Visto che l’uso odierno dell’italiano assegna un nome per gli insegnanti della scuola primaria e dell’infanzia (maestre e maestri) e un nome per quelli di scuola secondaria e dell’università (professoresse e professori), chi viola tale uso viola una regola della nostra lingua.
Ciò detto, spieghi a suo figlio che non deve certo mortificarsi per la correzione: è in ottima compagnia. Anche mio figlio, di dodici anni (e chissà quante migliaia di bambini italiani!), all’inizio delle medie si confondeva spesso tra “maestra” e “professoressa”. Ma, come si sa, e per fortuna, “sbagliando si impara”.
Un caro saluto
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo e della parola come. Perché questa frase regge il congiuntivo?
“Mi aveva colpito come fosse riuscito a raccontare la storia”
mentre in questa non è necessario usarlo?
“Non si è preoccupato delle mie osservazioni quando gli ho detto che cosi, come mi aveva esposto la trama, temevo fosse poco spettacolare”?