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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il mio dubbio riguarda l’ammissibilità del congiuntivo presente nella relativa esplicita dopo il passato prossimo nella reggente:
“Nel mio libro ho immaginato qualcosa che abbia anche un valore pedagogico”; che quindi abbia tale valore oggi e ogniqualvolta venga letto”.
Ora se, come da consecutio, mettessi qualcosa che avesse anche… farei riferimento al presente della scrittura, cioè a qualcosa di passato, concluso. Ma poiché il libro è di per sé rivolto a futuri lettori mi sembrerebbe più calzante il congiuntivo presente.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa è svincolata dalla consecutio temporum: al suo interno, il tempo verbale si riferisce non alla relazione con il tempo della reggente, ma al tempo in sé: passato, presente o futuro. Di conseguenza il congiuntivo presente è pienamente legittimo, per sottolineare che il possesso del valore pedagogico è pancronico, cioè valido sempre. Va comunque rilevato che è possibile usare il congiuntivo imperfetto avesse nella relativa, mantenendo la prospettiva fissata dal verbo della reggente, che parte dal passato. L’imperfetto, del resto, non esclude l’interpretazione pancronica del contenuto della relativa: non solo, infatti, il passato prossimo nella reggente descrive un evento agganciato al presente, ma la relativa al congiuntivo assume anche una sfumatura consecutivo-finale che ne proietta il contenuto nella posterità.
L’imperfetto non è escluso neanche nella relativa giustapposta e nella coordinata seguente, che sono inequivocabilmente collocate nel presente e nel futuro: che quindi avesse tale valore oggi e ogniqualvolta venisse letto; qui, però, il congiuntivo presente è preferibile, perché l’accostamento di avesse e oggi nella giustapposta crea un effetto di discorso indiretto libero che può risultare straniante (per quanto non possa dirsi scorretto).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In una presentazione ho trovato questa frase:
“Sin da quando avevo 10 anni sognavo di studiare lingue straniere e viaggiare in giro per il mondo”.
Io credevo che dopo da quando si dovesse usare il presente, mentre l’imperfetto si usasse nel caso in cui l’azione fosse terminata. Questa frase è corretta?

 

RISPOSTA:

La frase è comprensibile e accettabile, ma migliorabile: avevo è giustificato dal fatto che effettivamente chi scrive non ha più 10 anni, quindi lo stato è concluso; meno giustificato è sognavo, visto che l’azione perdura nel momento dell’enunciazione. Ci si aspetterebbe, pertanto, Sin da quando avevo 10 anni sogno di…. L’imperfetto sognavo è motivato dall’attrazione operata da avevo: quando si parla, e spesso anche quando si scrive, si tende spesso a replicare la stessa forma usata in precedenza, soprattutto se a poca distanza, trascurando le regole astratte. A una prima considerazione, del resto, l’accostamento del tempo imperfetto con il presente, che in questo caso è corretto, può risultare sospetto. Una soluzione che consente di rimanere formalmente nel passato, pur rappresentando il sognare come attuale è ho sognato: il passato prossimo, infatti, descrive un evento iniziato nel passato ma ancora attivo, direttamente o attraverso una qualche conseguenza, al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Se io dico «non penso che ricapiti a me» e mi rispondono con «speriamo» vuol dire che sperano che quell’azione accada o non accada?

 

RISPOSTA:

Se la lingua funzionasse soltanto grazie alle regole sintattiche e se gli elementi sottintesi fossero da recuperare rigidamente in quel che è stato detto o scritto subito prima, non c’è dubbio che la reazione «speriamo» alla frase «non penso che ricapiti a me» si possa interpretare soltanto come ‘speriamo che ricapiti a te’. Sempre secondo il rigido rispetto delle regole sintattiche, la reazione atta a esprimere l’auspicio che la cosa non ricapiti dovrebbe essere «speriamo di no». Tuttavia, dato che la lingua, o per meglio dire l’attività comunicativa, funziona anche in base alle inferenze e alla cooperazione tra gli interlocutori, ovvero grazie alla capacità di ricostruire la coerenza degli enunciati in base alla propria esperienza del mondo, oltreché in base a quanto detto negli enunciati precedenti, considerando anche la presenza della negazione all’inizio della prima frase («non penso che…»), la reazione «speriamo» può anche essere interpretata, con buona probabilità, nel senso di ‘speriamo che non ricapiti a te’. In casi come questi, in cui si pone il dubbio che qualcosa possa o non possa essere, possa o non possa accadere e simili, sarebbe meglio, a scanso di equivoci, precisare sempre «speriamo di sì» / «speriamo di no», e simili. Tuttavia, dato che il contesto aiuta quasi sempre a disambiguare gli enunciati, è probabile che gli interlocutori siano in grado di dare la giusta interpretazione del caso in questione. Se l’interlocutore che dice «speriamo» si mostra solidale con il primo interlocutore, se non gli dimostra astio o simili, perché mai dovrebbe augurarsi che all’altro capiti qualcosa che il primo spera che non accada? In conclusione, è sempre bene sforzarsi di essere chiari, senza però dimenticare che la comunicazione è un’attività da compiere in due (o più di due), cioè un mittente (o più d’uno) e un ricevente (o più d’uno), che si scambiano di ruolo e che debbono necessariamente cooperare alla codifica e alla decodifica degli atti comunicativi, se davvero vogliono comprendersi reciprocamente. L’inferenza, cioè la capacità di comprendere anche le informazioni non dette, è un’abilità cognitiva indispensabile alla comunicazione, poiché non è possibile rendere sempre tutto esplicito negli enunciati. In caso contrario, gli enunciati sarebbero sempre di una lunghezza snervante al punto da essere inservibili e da far fallire la comunicazione. Ogni comunicazione si regge dunque sul sottile equilibrio tra esplicito e implicito, tra detto e non detto, e soprattutto sulla volontà degli interlocutori di cooperare e di venirsi incontro reciprocamente.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Preferire può essere considerato un verbo servile? Dalle principali grammatiche non mi risulta. Un periodo come: “Preferisco restare a casa” è da intendersi quindi come formato da due proposizioni (Preferisco = principale; restare a casa = subordinata oggettiva di 1º alla principale, implicita)?

 

RISPOSTA:

I verbi servili servono a modificare il significato di altri verbi aggiungendovi una sfumatura; devono, pertanto, essere semanticamente quasi vuoti. Il verbo volere, infatti, può anche essere non servile, se non accompagna un altro verbo, ma è usato da solo (“Voglio che tu mi chieda scusa”). Preferire significa grosso modo ‘volere maggiormente’, quindi è molto vicino al significato di volere; anche quando accompagna direttamente un infinito, però, veicola una piccola quantità di significato autonomo e tanto basta per non considerarlo servile. Inoltre, i verbi servili condividono la caratteristica sintattica di ammettere la risalita del clitico (evidentemente perché sono percepiti come strettamente solidali con il verbo retto): voglio farlo, ma anche lo voglio fare; lo stesso non vale per preferire: *lo preferisco fare risulta del tutto innaturale. L’analisi della periodo fatta da lei, in conclusione, è corretta.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1) Lo avrei fatto ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno o ne avessi bisogno.
2) Lo avrei fatto prima che fosse entrato lui o entrasse lui.
3) Sarebbe stato preso in considerazione chi/chiunque ne fosse capace o fosse stato capace.
4) Avrei chiesto scusa a patto che lo avesse fatto anche lui o la facesse anche lui.
Dando per scontato che il trapassato è corretto, lo è anche l’imperfetto congiuntivo?

 

RISPOSTA:

Nelle subordinate delle frasi da lei proposte si possono usare sia l’imperfetto sia il trapassato. Con con il trapassato emerge il modello ipotetico latente in tutte le quattro frasi, che spinge a completare una proposizione al condizionale passato con una al congiuntivo trapassato. L’imperfetto, invece, rappresenta gli eventi delle subordinate come contemporanei nel passato rispetto a quelli delle reggenti, in linea con la consecutio temporum. Si noti che la contemporaneità è un concetto flessibile, proiettabile nella posteriorità, come nella frase 2, in cui l’evento dell’entrare è successivo a quello del fare, e nella anteriorità, come nella 4, in cui l’evento del fare è precedente a quello del chiedere.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Invito un amico ad una festa per l’indomani. Mi risponde che non può partecipare. Al che gli dico:
1 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi venuto.
(Ma non è giusto, così sembra che la festa sia già passata, mentre avrà luogo in futuro).
2 – Mi sarebbe piaciuto se tu potessi venire.
(Neanche qui è giusto. L’amico ha già detto che non verrà).
3 – Mi sarebbe piaciuto se tu saresti venuto.
(Credo che sia totalmente sbagliata).
4 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi potuto venire.
(Qui ho dei dubbi: perchè in effetti la festa non ha avuto ancora luogo).
Naturalmente, nel linguaggio informale potremmo dire
5 – Mi sarebbe piaciuto se potevi venire.
(Ma mi sembra una forma un po’ sciatta).

 

RISPOSTA:

La variante 1 è legittima: che la festa non sia avvenuta è ininfluente; quello che conta è che l’amico ha già dichiarato che non parteciperà, quindi la sua mancanza deve essere rappresentata come avvenuta. Proprio per questa ragione è impossibile se tu potessi venire (come anche se tu venissi, non presente tra le alternative): c’è una incoerenza interna in questa frase tra mi sarebbe piaciuto, che presenta lo stato d’animo come condizionato da un evento irrealizzabile, e la protasi con il congiuntivo imperfetto, che presenta l’ipotesi come possibile. L’alternativa “Mi piacerebbe se tu venissi” (o potessi venire), del resto, risulterebbe incoerente con il contesto, visto che, come si è detto, la partecipazione è stata già esclusa. La 3 è impossibile, perché la proposizione ipotetica non ammette il modo condizionale. La 4 è equivalente alla 1, con la sola aggiunta del verbo servile, che non modifica la costruzione generale della frase. La 5 è la variante informale della 4.
Aggiungo anche un’ulteriore variante: “Mi sarebbe piaciuto che tu venissi (o potessi venire)”. Con la sostituzione di_se_ con che la proposizione subordinata diviene soggettiva; al suo interno il congiuntivo imperfetto non indica l’ipotesi possibile ma la contemporaneità nel passato con proiezione nella posteriorità rispetto alla reggente. In questo modo la reggente esprimerebbe ancora il dispiacere condizionato da un evento non realizzabile (la partecipazione dell’amico alla festa), ma tale evento sarebbe lasciato implicito, mentre la subordinata descriverebbe semplicemente l’argomento del dispiacere. Possibile sarebbe anche “Mi sarebbe piaciuto che tu fossi venuto (o fossi potuto venire)”, che rappresenterebbe il venire come precedente al dispiacere, sottolineando il rapporto di causa-effetto tra i due eventi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Ho sempre usato l’aggettivo abitudinario; oggi, però, in un testo ho letto abitudinale. È corretto?

 

RISPOSTA:

L’aggettivo abitudinale è registrato dal Grande Dizionario della Lingua italiana come variante alternativa di abituale, formata per derivazione dal nome abitudine. L’aggettivo non ha avuto successo e oggi è uscito dall’uso (infatti non è registrato nei dizionari dell’uso); usarlo oggi, pertanto, non può essere giudicato un errore, ma è certamente una scelta estremamente ricercata, adatta soltanto a contesti altamente formali. Attenzione, non bisogna confondere abituale (e la variante non più in uso abitudinale) con abitudinario, che ha un significato diverso: ‘consuetudinario, che segue abitudini acquisite per mancanza di iniziativa’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella biografia di Kim Jong-Un su Wikipedia ho trovato la seguente frase: “Nonostante i provvedimenti presi da Kim Jong-il, in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avesse davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”. Il mio dubbio è: non era chiaro se introduce oppure no un’interrogativa indiretta? E se sì, la frase avrebbe dovuto essere “Non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”? Quindi al posto del congiuntivo trapassato andava messo il condizionale passato che svolge in questo caso la funzione di “futuro nel passato”? Oppure questa subordinata può essere interpretata sia come Interrogativa Indiretta che come subordinata condizionale? A me la frase imputata è come se suonasse simile a una così: “All’epoca dei fatti non si sapeva se il governo nordcoreano avrebbe voluto seguire il percorso che gli era stato tracciato”. Inoltre, se il mio ragionamento è giusto, la frase “… se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire ecc.” puo’ svolgere anche la funzione di apodosi di un periodo ipotetico?

 

RISPOSTA:

La subordinata è una interrogativa indiretta, costruita con il congiuntivo trapassato. La scelta di questa forma verbale è perfettamente in linea con la norma grammaticale, se si vuole intendere che l’evento descritto nella subordinata precede quello descritto nella reggente, che è già passato. In astratto, quindi, la frase è ben costruita e significa che in seguito alla morte di Kim Jong-il non era chiaro se mentre il dittatore era in vita il governo aveva effettivamente voluto seguire il percorso da lui tracciato. Se si legge il cotesto in cui la frase è inserita (cioè le frasi che la circondano) , però, diviene chiaro che il senso inteso non è questo: la domanda riguarda l’intenzione del governo di seguire il percorso del dittatore dopo la sua morte. Il congiuntivo trapassato è, quindi, sbagliato in relazione al cotesto: la forma richiesta è il condizionale passato (avrebbe voluto). L’interrogativa indiretta se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto… può reggere una proposizione ipotetica, divenendo l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio “… in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato, se avesse avuto la possibilità di fare altrimenti”.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Secondo gli schemi della consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al condizionale presente si costruisce con l’indicativo o con il congiuntivo, in base al verbo (certezza o dubbio e simili) della reggente. Mi chiedo se, sempre nel rispetto di questo rapporto di subordinazione temporale, sia possibile adoperare, quale alternativa attenuata dell’indicativo, il condizionale passato, senza che questo sia interpretato come futuro nel passato.
“Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito.”
In questo caso, avrebbe mentito rappresenta un’azione analoga, dal punto di vista temporale, a quella costruita con ha mentito, accentuando rispetto a quest’ultima una sfumatura di incertezza, ma senza mutare il rapporto di anteriorità? Oppure il condizionale passato sarebbe interpretato (al di là della semantica della frase che ho scelto per esemplificare il quesito), come
“(…) Significherebbe che Y (in un momento successivo) avrebbe mentito”?
E infine, il condizionale passato implica sempre una protasi, anche implicita (“(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito (se lo avessero costretto a confessare)”) oppure, come ho ventilato poc’anzi, può imporsi in maniera autonoma come una mera attenuazione del modo indicativo, per ridurne l’impatto diretto, senza significative differenze a livello sintattico?

 

RISPOSTA:

Il condizionale passato può essere usato nel contesto da lei immaginato proprio come variante condizionata dell’indicativo, senza innescare il senso di posteriorità nel passato. In questo caso la forma verbale ha una funzione epistemica, e in particolare serve a limitare la responsabilità del parlante (o dello scrivente) sul contenuto della frase. Di norma si usa in proposizioni dipendenti da altre proposizioni all’indicativo, al congiuntivo o nominali, non al condizionale, perché se la reggente è al condizionale, questo è già sufficiente a svolgere la funzione di distanziamento epistemico; per esempio: “Misura cautelare per un uzbeko che risiede a Ravenna, che sarebbe la mente del sequestro” (da un titolo di repubblica.it del 16 novembre 2024). Se la reggente è al condizionale, quindi, l’indicativo o il congiuntivo (a seconda della frase) sono scelte più logiche. Non di sola logica vive la lingua, però, per cui il condizionale attratto da quello della reggente non può dirsi sbagliato. Si noti che anche quando ha questa funzione, il condizionale presuppone la presenza di una protasi. Nel suo caso, però, la protasi implicita praticamente ripete quella già collegata alla principale (a dimostrazione del fatto che si tratta di un uso pleonastico): “Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito (se la versione di X fosse confermata)”.
L’interpretazione del condizionale passato come tempo della posteriorità nel passato non è, in astratto, esclusa neanche in questo caso: per farla emergere, però, bisognerebbe aggiungere qualche segnale, per esempio “(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito, in seguito”. Si tratta, comunque, di un esempio “d’accademia”: difficilmente si può immaginare un contesto autentico in cui si possa usare una frase con questo significato.
Fabio Ruggiano

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Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.

2. (…) la seguente questione pregiudiziale:

se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:

  1. l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
  2. l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.

 

Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …

Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:

“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.

Nel secondo caso avremo:

“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.

Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.

 

RISPOSTA:

La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho delle incertezze circa l’uso del termine struttura. Questo termine può essere usato in modo generico per definire qualunque cosa anche semplice, cioè non formata da più parti macroscopiche interagenti fra di loro (es. un sasso o un oggetto non definibile ma comunque non articolato) oppure deve essere usato esclusivamente per definire un oggetto complesso (es. un televisore, un computer)?

 

RISPOSTA:

La risposta alla sua domanda non è semplice, come tutte le questioni relative alla semantica, perché i significati delle parole sono in continua rinegoziazione negli usi dei parlanti, con sfumature ora metaforiche, ora metonimiche, ora ironiche ecc. Sarebbe meglio limitare struttura a oggetti (più o meno concreti) costituiti dall’interrelazione tra più elementi. La struttura, come un edificio, implica che tutti gli elementi coinvolti siano necessari gli uni agli altri e anche l’alternazione di uno solo di essi compromette l’insieme, cioè la struttura stessa. Per la minuta casistica e l’esemplificazione rimando al Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro, consultabile gratuitamente nel sito di internazionale.it. In linea di massima, a meno che non ci si riferisca proprio all’interrelazione e all’intelaiatura di qualcosa (la struttura di un discorso, di un edificio, di un’azienda, della mente, della lingua, di uno stato, dell’economia ecc.) sarebbe meglio non abusare di un simile termine, troppo spesso (nei media) usato per imbellettare il discorso economico, burocratico o politico. Chiaramente anche un sasso è formato di elementi (cellule, atomi ecc.), pertanto nulla vieterebbe, in ambito scientifico, di definirlo una struttura, ma eviterei di farlo nel discorso comune. Così come, fuor dall’ambito tecnico-scientifico, potrei pure riferirmi alla struttura di un televisore o di un computer, ma mai e poi definirei un computer o un televisore come una struttura.

Fabio Rossi

Parole chiave: Nome, Registri, Retorica
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QUESITO:

Gradirei sapere se l’affermazione «non vorrei apparire tautologica ma le ripeto che eccetera» è corretta o meno. Mi viene il sospetto che l’aggettivo tautologico non possa essere applicato ad una persona; d’altro canto mi sembra piuttosto arzigogolato ricorre ad affermazioni del tipo

«non vorrei usare una affermazione tautologica o esprimermi in modo tautologico eccetera» per veicolare lo stesso concetto.

 

RISPOSTA:

Secondo i dizionari e gli usi correnti tautologico può essere riferito a concetti, espressioni, ragionamenti e simili, non a una persona. Però la lingua funziona anche grazie a questi piccoli slittamenti semantici (metafore, metonimie), per cui, nell’uso meno formale, non mi parrebbe un errore così grave riferire tautologico a una persona che fa uso di tautologie.

Forse, per maggior precisione, in riferimento a una persona si potrebbero utilizzare termini non proprio sinonimi ma contigui alla sfera semantica della tautologica. Per esempio: Non vorrei apparire pleonastica, ridondante, puntigliosa, ripetitiva, didascalica…

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo, Registri, Retorica
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QUESITO:

  1. Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento.
  2. Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non aver richiesto la prosecuzione a pagamento.

1=contemporaneità. 2=anteriorità.

Vorrei sapere se la mia osservazione è corretta.

 

RISPOSTA:

Sì, la sua osservazione è corretta. Va però detto che in questi e in altri casi di consecutio temporum i parlanti si muovono con maggiore elasticità rispetto alle norme astratte. Pertanto, pur trattandosi propriamente di anteriorità, nel caso in questione, entrambe le soluzioni sono accettabili. In altre parole, «Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento» può essere usato anche se la richiesta di prosecuzione è stata richiesta, o va richiesta, prima della cessazione. Del resto, per senso comune, sarebbe ben strano non formulare la richiesta prima della cessazione.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».

«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?

Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?

 

RISPOSTA:

Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.

Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.

Poteva scrivere: SAREBBE STATO…

 

RISPOSTA:

Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

1)”Vorrei qualcuno che dica (e non “dicesse”) la verità”
2)”Avrei voluto (ma anche “Volevo”) qualcuno che dicesse la verità”

Sono giuste le scelte verbali nelle relative delle tre frasi? Nella frase 1 la scelta migliore è il congiuntivo presente “dica” perché lo stato dell’essere è presente, come indica il condizionale presente. Di conseguenza la frase col congiuntivo imperfetto “dicesse” è incoerente, perché il verbo della reggente “Vorrei” implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato (d’altra parte il congiuntivo imperfetto si usa principalmente per esprimere un’azione passata). Probabilmente nella costruzione della relativa “Vorrei qualcuno che dica la verità” agisce il modello della completiva “Vorrei che qualcuno dicesse la verità”, senza che ci sia, però, una ragione sintattica per questo. Si noti, quindi, che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella relativa “Vorrei qualcuno che dicesse la verità” è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto: “Vorrei qualcuno che dicesse la verità”<"Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento". Perciò l'uso del congiuntivo imperfetto in una relativa retta da un condizionale semplice dipende dal fatto che il congiuntivo imperfetto è una forma che "ricalca" il periodo ipotetico del secondo tipo: infatti è come se dicessimo "Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento", ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indicherebbe che la qualità di “qualcuno”, e cioè “Qualcuno che dica la verità ”, riguardi il passato, e ciò sarebbe un po’ bizzarro, rispetto alla reggente che invece è al condizionale presente. Viceversa, nella frase numero 2 c'è un tempo passato nella principale che si riferisce ad un momento trascorso (ieri, in passato), e perciò nella relativa troviamo il congiuntivo imperfetto "dicesse", quindi un tempo passato.

 

RISPOSTA:

Le soluzioni migliori nelle proposizioni relative sono quelle indicate da lei: il congiuntivo presente in dipendenza da una reggente con vorrei, l’imperfetto in dipendenza da una reggente con avrei voluto. Per maggiori dettagli si vedano questa risposta e quest’altra, collegata alla prima.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ci vuole o no l’accento sulla e nella frase “E / È certo che spengo le luci”?
Io credo che ci voglia, eppure, dopo essermi confrontato con dei conoscenti, loro hanno detto di no. Sinceramente non capisco perché non ci voglia. Mi è sempre stato insegnato che se si sostituisce la e con essere oppure con un tempo passato del verbo essere e la frase ha senso, allora ci vuole l’accento sulla e, e in questo caso a me sembra proprio che le sostituzioni possono essere fatte: “Essere certo che spengo le luci” oppure “Era certo che spegnevo le luci” o ancora “Era (un fatto) certo che spegnevo le luci”. Se non ci vuole l’accento, potete spiegarmi, cortesemente, il perché?

 

RISPOSTA:

In questo caso avete ragione sia lei sia i suoi conoscenti: la frase può cominciare sia con e sia con è. Nel primo caso la e serve come segnale discorsivo, cioè come elemento che segnala la presa di turno nel parlato, e nello stesso tempo rafforza l’assertività dell’affermazione, un po’ come se facesse intendere “Non potrei fare altrimenti”. Un uso simile lo vediamo in una frase come “E come no?”, in cui, appunto, la e iniziale conferisce maggiore enfasi all’affermazione nascosta sotto la domanda retorica (“E come no?” = “Certamente sì, non potrebbe essere altrimenti”). Nel secondo caso vale la sua spiegazione; con il verbo essere il parlante intende soltanto confermare che l’azione è certa. Nove volte su dieci il parlante intenderà “E certo che spengo la luce”, non “È certo che spengo la luce”: qust’ultima costruzione, infatti, per quanto corretta in astratto, sarebbe coerente in ben poche situazioni comunicative autentiche.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei sapere se è corretto utilizzare il verbo imputare anche in un’accezione non negativa. Si può di certo affermare: “Gli è stata imputata la responsabilità della sconfitta”. Ma possiamo dire: “Gli è stato imputato il merito della vittoria”? Il verbo imputare, secondo i dizionari, è anche sinonimo di “attribuire”.
Ma non credo lo si possa usare in un’accezione che implica un merito. 

 

RISPOSTA:

Il significato più comune e utilizzato del verbo imputare è certamente quello di ‘attribuire come motivo di colpa’. Nella storia dell’italiano, anche recente, non mancano però esempi di imputare usato con valore positivo in frasi come “imputare a merito”, dove imputare è usato come sinonimo di ascrivere. Tuttavia, quest’accezione, così come registrano i principali dizionari dell’uso, è da considerarsi non comune e arcaica.
Anche se i dizionari registrano come sinonimo di imputare il verbo attribuire, occorre sempre ragionare sul fatto che la sinonimia perfetta è un concetto astratto e che è opportuno scegliere la parola in base al contesto d’uso.
Raphael Merida

Parole chiave: Storia della lingua, Verbo
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QUESITO:

Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel  credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?

 

RISPOSTA:

1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scrittati ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Spesso faccio confusione nel distinguere i verbi andare e venire in determinati contesti.

“Lara è uscita di casa ed è venuta a prendere il figlio a scuola.”

Il parlante in questo esempio usa venire sottintendendo che nel momento in cui Lara si è presentata a scuola era in quel luogo. Se invece tale verbo fosse stato sostituito da andare, il parlante avrebbe evidenziato tutta la sua distanza dall’azione. La mia interpretazione è corretta?

 

RISPOSTA:

Sì, la sua interpretazione è corretta, perché i verbi andare e venire esprimono un movimento di allontanamento o di avvicinamento da chi parla. Nel caso di andare, il parlante si trova lontano dalla destinazione di spostamento; nel caso di venire, il parlante si trova vicino o è già nella destinazione di riferimento.
Raphael Merida

 

Parole chiave: Analisi logica, Verbo
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QUESITO:

Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.

 

RISPOSTA:

La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei proporvi questa frase: “Dimmi quando sei nato che ti faccio l’oroscopo”.
Quel che è corretto? Sta per perché poi potrò farti l’oroscopo, quindi sarebbe un’abbreviazione di perché e penso che, per questo motivo, richiederebbe l’accento. Vi sarei grata se voleste chiarirmi questo dubbio.

 

RISPOSTA:

Non è un’abbreviazione, ma è proprio la congiunzione che, che, effettivamente, ha in questo caso una funzione consecutivo-finale. Questa funzione, come anche quella causale e altre meno comuni, è stata assunta dalla congiunzione che nell’italiano contemporaneo. In virtù di tale allargamento di funzionalità, la congiunzione è chiamata anche che polifunzionale. Per approfondire questo tratto dell’italiano contemporaneo è possibile consultare l’archivio delle risposte cercando la parola chiave polifunzionale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi su queste frasi:
1) Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (o fosse calato), avresti potuto comprarla.
2) Non appena/Quando sarebbe arrivato (fosse arrivato) il tuo turno, avresti potuto alzare la mano.
3) Finché non sarebbe sorto il sole, non si sarebbe svegliato.

Mi viene spontaneo usare il condizionale passato dopo Quando/Non appena/Finché, eppure, dopo aver fatto una piccola ricerca su internet, ho potuto constatare che è molto più diffuso il congiuntivo trapassato (come se quandonon appena e finché eqivalessero a se). È corretto usare il condizionale passato nelle frasi che vi ho sottoposto?

 

RISPOSTA:

Il condizionale passato è corretto tanto quanto il congiuntivo trapassato. In particolare, nelle prime due frasi il condizionale rappresenta gli eventi come successivi ad altri eventi passati (e secondariamente condizionati dagli stessi eventi). Si noti che se trasportiamo la prima frase al presente avremo “Quando il prezzo calerà potrai comprarla”: tanto il calare quanto il poter comprare sono rappresentati come fatti che avverranno nel futuro. Ebbene, se l’evento futuro è collocato nel passato, esso si costruisce, per l’appunto, con il condizionale passato: questa forma corrisponde, quindi, al futuro nel passato. Gli eventi rispetto a cui il calare e l’arrivare sono sucessivi non sono esplicitati, ma il ricevente non può che presupporre la loro esistenza proprio per via dell’uso del condizionale passato. Il ricevente, cioè, rappresenta nella sua mente la prima frase come “Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…” e la seconda, ugualmente, come “Non appena/Quando sarebbe arrivato il tuo turno (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…”.
Il congiuntivo trapassato rappresenta gli stessi eventi come non fattuali, e più precisamente come ipotetici; il suo uso è attratto dal condizionale passato della proposizione reggente, che viene identificato dal parlante come una conseguenza, rispetto alla quale è necessario individuare un’ipotesi. Le congiunzioni che introducono le proposizioni sono, quindi, equivalenti a se (come suggerito da lei) e tutta la frase diventa una sorta di periodo ipotetico del terzo tipo.
La terza frase è apparentemente diversa dalle prime due perché il sorgere del sole è per definizione non ipotetico. Immagino che per questo motivo lei proponga soltanto la variante con il condizionale passato. Il congiuntivo trapassato è, invece, corretto anche in questo caso: con finché non fosse sorto, infatti, l’emittente intenderebbe non se non fosse sorto, che sarebbe illogico, ma se non prima fosse sorto, che sottolinea la consecutività del rapporto tra il sorgere del sole e lo svegliarsi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.

 

RISPOSTA:

L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.

 

RISPOSTA:

Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Desidererei sapere se il termine qualunquista definisce una persona disinteressata nei confronti dei problemi politici e sociali oppure una persona che, pur interessandosi di queste tematiche, emette giudizi grossolani, banali, da uomo della strada e non da persona competente. Sento usare frequentemente questo termine con il secondo significato, ma, stando al vocabolario, dovrebbe essere usato esclusivamente con il primo significato.

 

RISPOSTA:

Come sempre quando si entra nell’ambito della semantica, non è possibile fissare confini netti. In questo caso specifico, il termine qualunquismo ha subito diversi ampliamenti di significato a partire da quello originario, legato al movimento politico promosso da Guglielmo Giannini negli anni Quaranta. L’obiettivo del movimento era il superamento della democrazia parlamentare in favore di un sistema statale puramente amministrativistico. Tale obiettivo era motivato da una visione critica del parlamentarismo, giudicato corporativistico e contrario agli interessi della classe media, rappresentata simbolicamente dall’uomo qualunque. A partire da questa visione, il termine assunse presto il significato, connotato negativamente, di ‘sfiducia pregiudiziale e generalistica nelle forme, nei riti, nell’organizzazione della politica’. Già questa evoluzione è sorprendente, se si considera che il termine era nato come nome di un movimento politico. Il processo non è, però, finito: una volta associato alla sfiducia per la politica, il termine scivolò gradualmente verso il riferimento al disinteresse e al disimpegno, e nei confronti non solo della politica, ma di ogni ambito della vita sociale e civile. Ecco come si è arrivati al significato attuale del termine.
Veniamo, così, allo specifico della sua domanda: l’atteggiamento di chi si interessa a una questione ma esprime sulla stessa opinioni banali e grossolane può essere definito qualunquista? Certo, perché le opinioni superficiali rivelano che l’interesse è simulato. In altre parole, non c’è differenza sostanziale tra chi non partecipa e chi partecipa, ovvero finge di partecipare, in modo superficiale: entrambe queste persone possono essere definite qualunquiste secondo il significato correntemente associato alla parola.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Da professore riesco a capire che la lingua non è la matematica e che ci sono diversi fattori che influenzano l’uso di una lingua che non sono così semplice da spiegare. Ma per me buoni esempi sono fondamentali per la pedagogia e spero che ci sia qualche valore per Lei in questo scambio.

Comunque mi piacerebbe provare a estrarre i fattori communi in diversi gruppi di questi esempi col motivo di usare il condizionale in modo corretto. Spero di non farla annoiato.

Gruppo I

Gli esempi in cui il condizionale da solo secondo Lei esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità, ecc.:

Volevo capire se la ragione di base per cui va bene il condizionale da solo in questi esempi I.a – I.c fosse è perché in tutti e tre gli esempi LA PERSONA CHE RISPONDE ALLA RICHIESTA POTREBBE RIMANERE SUL VAGO INVECE DI RISPONDERE CON UN SECCO NO CHE SAREBBE TROPPO DIRETTO. Se quest’analisi è giusta, chiamerò Gruppo I

L’USO DEL CONDIZIONALE PER RIPONDERE IN MODO VAGO/ELEGANTE A UNA RICHIESTA.

(a) Tu: <<Andiamo a bere un ultimo bicchiere?

Io: <<Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello».

(b) Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato» dove l’uso del condizionale semplice ha valore dubitativo o potenziale.

(c) «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso».

GRUPPO II.

In questo gruppo non riesco a estrarre la ragione di base per cui II.a vada bene, ma II.b sia incompleta.

(a) «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» secondo lei e Prof Tartaglioine sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi.

(b) Sarebbe difficile studiare la lingua cinese. (Il mio esempio di partenza. È corretta anche da sola o soltanto come risposta alla domanda “vuoi studiare la lingua cinese?)

COME MAI II.B va bene ma II.A come scritta non è completa?

Se avessi cambiato II.a per creare II.a1 “Sarebbe un bel film  AL MIO PARERE ”  reggerebbe il condizionale da solo?  (non sono un giornalista, ma ho messo in evidenza che è la mia opinione che è soggettiva).

La mia frase II.a1 mi sembra molto simile a una che ho trovato sul sito LEARNAMO:

(c) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. SAREBBE una cosa carina A MIO PARERE.

Secondo Lei la frase sopra (c) è corretta e chiara? Per me ha il significato sottinteso “se lei la facesse”.

Se togliamo A MIO PARERE  per creare

(c1) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. “Sarebbe una cosa carina”

il condizionale regge da solo? o no? Se regge, c’è una ragione per “Sarebbe una cosa carina” va bene, ma “Sarebbe un bel film” non è completa.

Gruppo III

Un altro esempio dal video da Prof Tartaglione.

(a) Marco avrebbe da fare (errata)

Marco dovrebbe avrebbe da fare (corretta – è un’ipotesi)

Come mai non va bene senza dovrebbe?

Due variazioni che faccio io con altro contesto:

(b) Non vedo Marco da tanto tempo. Lui avrebbe da fare.

(c) Non vedo Marco da tanto tempo. AL MIO PARERE lui avrebbe da fare.

Con l’aggiunto del contesto “ non vedo Marco da tanto tempo” o “con al mio parere” il condizionale da solo regge? (Sottointeso “se io non sbagliassi”).

 

RISPOSTA:

A profitto di chi legge, questa risposta fa riferimento ai temi trattati da ultimo qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/) e qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-e-la-pragmatica/).

Gruppo I: va bene, niente da aggiungere.

Gruppo II: Sarebbe difficile il cinese (se lo studiassi): meno naturale di “è difficile” ma comunque possibile (non scorretto). Funziona solo in risposta alla domanda. Il motivo per cui questo è più naturale di IIa non è chiarissimo, secondo me: non sempre è semplice risalire induttivamente da una consuetudine dell’uso a una regola, perché talora è la sola frequenza, o le convenzioni culturali, a far scattare la preferenza per una versione piuttosto che un’altra. Credo però che il motivo della preferenza risieda nella protasi sottintesa (cioè nelle presupposizioni  attivate negli interlocutori: ancora una volta conta la pragmatica): Se lo studiassi il cinese sarebbe difficile (presentata come giudizio oggettivo, in un certo senso: nessuno chiederebbe perché); Se lo vedessi, quel film, sarebbe bello (è ambiguo: perché non puoi vederlo? Oppure è questione di gusti, è bello o no?).

Stesso discorso sulla festa: l’aggiunta di “a mio parere” non rende meno ambiguo il caso del film: forse è bello, è bello a mio parere.  Mentre, nel caso della festa, sia con sia senza “a mio parere”, il giudizio non desta ambiguità: senza dubbio organizzare una festa a qualcuno è un’idea carina. Anche se lo esprimo al condizionale o in forma (pseudo)dubitativa: può essere un’idea carica, potrebbe essere un’idea carina.

Marco avrebbe / dovrebbe avere da fare. In certi contesti, anche “Marco avrebbe da fare” può essere accettabile: “In teoria, Marco avrebbe da fare, ma forse se sa che viene anche Liz vedrai che viene di corsa!”.

Ancora una volta: questioni di pragmatica, direi, cioè di presupposizioni attivate dai diversi contesti (e dai presupposti attivati su certi argomenti: film, soggettivo; cinese, considerato da tutti difficile; festa, considerata da tutti una idea carina ecc.).

No, l’aggiunta di “a mio parere” non è dirimente, non è questo che rende migliore o peggiore una frase, ma, come ripeto, il contesto e l’attivazione di questa o quella presupposizione. Le frasi naturali sono: Ha da fare, Forse ha da fare, Dovrebbe avere da fare, ma non “Avrebbe da fare”, neppure se aggiunge “A mio parere”.

Lei ha messo il dito in una piaga molto interessante, cioè questa: una lingua non è fatta solo di morfosintassi ma anche di convenzioni (NON SCRITTE) che vanno di là dalla grammatica e che rientrano nelle presupposizioni, nell’enciclopedia dei parlanti, nelle convenzioni culturali, nella frequenza d’uso e in molto altro ancora.

L’uso del condizionale, inoltre, è in continuo e rapido movimento, nella lingua italiana. Costrutti vivi fino a venti-trenta anni fa oggi sono inaccettabili e viceversa. Proprio perché è legato alle sfumature modali (epistemico), il condizionale ha una quantità di oscillazioni non ancora tutte sondate dai linguisti. Lo stesso discorso vale per l’imperfetto indicativo. Per questo, a suo tempo, le suggerii il precoce Le facce del parlare della compianta Carla Bazzanella, studiosa di pragmatica.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

Non voglio fare polemica, soltanto vorrei avere il suo giudizio su una cosa detta da un “professore” Roberto Tartaglione che lavoro con l’editrice Alma. Lui dice in questo video del esprimere dubbio in italiano con diversi modi/tensi qui à https://www.almaedizioni.it/video-alma-tv/esprimere-un-dubbio/?srsltid=AfmBOorzT7QjoinvWZqfkLwx25Ng1uOqwFVyz8gV3brFIpy1xgcwXwDp

che per esprimere un dubbio su un film, non si può dire SAREBBE UN BEL FILM quando non si usa la voce giornalistico.

Secondo lei, seguendo gli esempi sotto, sarebbe sbagliato dire “sarebbe un bel film” (la mia opinione personale) non per esprimere un dubbio, ma una possibilità? È necessario dire “dovrebbe essere un bel film”? (So perfettamente che l’uso epistemologo del futuro per esprimere un dubbio è qualcosa diversa).

So che sono un po’ academico, ma è soltanto per approfondire.

 

RISPOSTA:

L’ottimo professor Tartaglione (tra i miei primi datori di lavoro) ha perfettamente ragione. Ma vi sono contesti in cui il condizionale da solo esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità..: «A. Andiamo a bere un ultimo bicchiere? B. Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello». Se mi chiedono: «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi: (per esempio) «Se non fosse così lungo», oppure, giornalisticamente, «secondo la critica». Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato», e moltissimi altri esempi sarebbero (appunto!) ancora possibili, d’uso del condizionale semplice con valore ora dubitativo, ora potenziale. Tartaglione giustamente semplifica il discorso limitandolo a un solo esempio facile: «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso». E dunque sarebbe una risposta errata per esprimere invece: «Alcuni pensano che sia bello», «Dicono che è bello» ecc. Anche «Potrebbe essere bello», in questo caso, sarebbe ambiguo, perché chi ascolta capirebbe «Può essere bello andare al cinema» e non «può essere bello il film».

Ma la lingua è sempre più sfaccettata di quanto le sue schematizzazioni non riescano a rappresentare. Nel suo primo esempio sul cinese (b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile”, di cui alla domanda DICO https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/), il contesto e le presupposizioni dei parlanti (cioè la pragmatica) ammettono l’uso del condizionale, nell’esempio sul film no. Questo perché tutte le componenti della lingua (fonetica, morfologia, sintassi, lessico, semantica, pragmatica) cooperano tra loro simultaneamente nella realizzazione di atti linguistici. Se separiamo le componenti, come pure dobbiamo fare per semplificarne la spiegazione e la didattica, non riusciamo a dar conto del funzionamento complessivo degli enunciati. In certa misura potremmo dire che tanti sono i significati di una lingua quanti ne sono i contesti d’uso. Morale della favola, la contraddizione tra l’esempio del cinese e quello del film è solo apparente: i contesti, infatti, disambiguano l’uso. Come livello didattico basico per spiegare l’impiego del condizionale il modello di Tartaglione è più che sufficiente. Per un livello più avanzato si può aggiungere il modello della protasi sottintesa (se potessi, se lo studiassi ecc.), che aggiunge un ulteriore livello di spiegazione

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

«Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del padre» oppure «di suo padre». Vorrei sapere quale delle due opzioni è consigliata e se, tra esse, ve ne sia una errata.

 

RISPOSTA:

Le due opzioni sono entrambe corrette. Sebbene si debba spesso evitare l’uso pleonastico dei possessivi, talora indotto da calco dall’inglese per influenza del doppiaggio («devo lavare le mie mani» è decisamente da evitare rispetto a «devo lavarmi le mani»), in certi contesti può essere utile il possessivo per evitare ambiguità. Pertanto, se nel caso specifico può esservi il dubbio che «la stessa malinconia del padre» venga riferito a un altro padre, piuttosto che a quello della ragazza, è allora meglio essere precisi scrivendo: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia di suo padre». In realtà, anche in quest’ultimo caso potrebbe sussistere l’ambiguità sul padre di qualcun altro, ambiguità che soltanto l’uso di «proprio» (riferito alla ragazza) potrebbe evitare: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del proprio padre», che però sarebbe davvero pesante, e dunque da evitare, anche a costo di una piccola ambiguità sicuramente poi sanabile nel resto della narrazione.

Fabio Rossi

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QUESITO:

«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».

I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?

 

RISPOSTA:

Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».

Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».

Fabio Rossi

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QUESITO:

«A quelli come me la pazienza sta finendo». Ho sentito e letto che in latino era comune il verbo in fondo alla frase, mentre in italiano non è raccomandabile se non sbagliato. Vorrei sapere, se possibile, perché. Secondo me, il verbo è posto in fondo alla frase per essere enfatizzato/focalizzato, quindi non intravedo errori.

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei, non è un errore. Nella frase «A quelli come me la pazienza sta finendo» il soggetto «la pazienza» è topicalizzato, svolge cioè il ruolo di secondo topic (il primo è «A quelli come me»), mentre il verbo «sta finendo» in questo caso svolge il ruolo di comment ed è focalizzato. Quindi in questo caso non c’è alcuna influenza regionale (come nel caso di «Montalbano sono») nella posizione conclusiva del verbo, bensì è la struttura informativa che influenza quella sintattica, cioè il ruolo del topic e del comment condiziona l’ordine dei sintagmi nella frase.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».

 

RISPOSTA:

«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: , infatti, significa ‘e non’.

Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché , come già detto, significa già ‘e non’.

Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Chiedo un chiarimento sulla seguente espressione: «aver svolto una attività negli ultimi dieci anni».

Indica lo svolgimento dell’occupazione nella totalità dei precedenti 10 anni oppure, in modo meno definito, la preposizione “in” sta a significare un espletamento cronologico più “aleatorio” dell’azione nel lasso temporale decennale ma non nell’interezza dei 10 anni pregressi?

 

RISPOSTA:

Locuzioni come «negli ultimi dieci anni», «in due mesi» e simili hanno un significato generico e possono, eventualmente, essere disambiguate soltanto da altri elementi del contesto. Quindi, nel caso qui segnalato, entrambi i significati sono possibili: 1) l’attività ha occupato interamente i dieci anni; 2) l’attività è durata soltanto per un periodo limitato di tempo, compreso entro i dieci anni.

Se si vuole essere più previsi, si possono aggiungere alla frase altri sintagmi con valore temporale, quali per es.: 1) «negli ultimi dieci anni ha sempre (o continuativamente) lavorato come giardiniere; 2) «negli ultimi dieci anni ha lavorato come consulente editoriale per un totale di tre mesi».

Diverso sarebbe il caso della preposizione “per”, che invece indicherebbe il tempo continuato, ovvero lo svolgimento dell’azione per gli interi dieci anni: «Per dieci anni ha lavorato come chirurga».

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.

 

RISPOSTA:

Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Che differenza c’è tra al solito e di solito?

 

RISPOSTA:

Le due espressioni sono molto diverse. Al solito significa ‘come avviene di solito’, quindi mette a confronto un evento con tutti gli altri eventi simili accaduti in passato: “Al solito, quando non prendo l’ombrello piove”. Questo confronto è usato tipicamente in commenti polemici oppure amaramente ironici (come quello dell’esempio). Di solito significa semplicemente ‘abitualmente, normalmente’, quindi non instaura nessun confronto e non suggerisce nessuna sfumatura polemica o ironica. Per questo motivo, una frase come “Di solito, quando non prendo l’ombrello piove” sarebbe un po’ strana, perché rappresenterebbe l’evento come un fatto effettivamente abituale (mentre, ovviamente, non può essere così).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Avverbio, Retorica
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QUESITO:

Mi capita spesso di sentir usare, anche da persone colte, il verbo implementare come sinonimo di aumentarepotenziare, mentre il vocabolario riporta tutt’altro significato e cioè ‘attivare, rendere operante’. Vorrei conoscere il vostro parere in proposito.

 

RISPOSTA:

Il verbo implementare è un anglismo ormai acclimato in italiano, dal momento che si trova registrato nei dizionari addirittura all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, quindi aveva cominciato a circolare almeno nel decennio precedente. Inoltre, da implementare si sono formati derivati, come implementazione e, più recentemente, implementoimplementabileimplementale e implementare (agg.). Come da lei notato, il significato del verbo ricalca quello del verbo implement da cui deriva: ‘mettere in atto, perfezionare, portare a compimento un processo’; frequentemente, però, nel linguaggio comune, il verbo è usato con il significato di ‘accrescere, aumentare, aggiungere’. Lo slittamento semantico, ancora non penetrato nei vocabolari dell’uso (neanche al fine di censurarlo), quindi recente, dipende dalla sovrapposizione tra l’inglese implement e il latino IMPLERE (da cui implement deriva), che in italiano ha dato empire, oggi quasi del tutto sostituito da riempire. I parlanti italiani, cioè, riconoscono in implementare la radice di riempire, grazie alla quantità di parole della famiglia plen- in cui facilmente si riconosce la corrispondenza con l’italiano pien/pi: pensiamo al latinismo plenum ‘riunione plenaria’, e allo stesso aggettivo plenario, al prefissoide pleni-, da cui, per esempio, plenipotenziario ‘che ha pieni poteri’ ecc. La sovrapposizione tra implement e riempire attraverso il latino è un’operazione indebita; rivela, però, una certa creatività da parte dei parlanti, nonché una forza reattiva della lingua italiana all’inclusione passiva di parole straniere. Bisogna, infine, ricordare che l’uso, se si diffonde, finisce sempre per avere la meglio: è prevedibile, quindi, che in questo caso il significato comune di implementare si aggiunga a quello attualmente registrato nei vocabolari e, addirittura, alla lunga lo sostituisca del tutto.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?

 

RISPOSTA:

La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?

 

RISPOSTA:

In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

A proposito di se con valore concessivo, vi chiedo se la seguente frase sia corretta utilizzando il condizionale nella protasi e se la stessa sia possibile omettendo la congiunzione anche: “Ho pochissimo denaro e non ho niente da comprare. Anche se mi piacerebbe avere una bicicletta nuova, non posso permettermela”.

 

RISPOSTA:

La frase è corretta; la proposizione anche se mi piacerebbe, però, non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una concessiva. La protasi del periodo ipotetico, ovvero la proposizione ipotetica, detta anche condizionale, non ammette il modo condizionale. Se si elimina anche dalla proposizione concessiva, chiunque continuerà a interpretare la proposizione come concessiva, sulla base del significato complessivo della frase, e della presenza del condizionale; la proposizione sarebbe, però, mal composta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’

Quale delle due è corretta? La prima, vero?

 

RISPOSTA:

Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre  la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di ina; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.

 

RISPOSTA:

Il superlativo relativo si misura, appunto, in relazione a una categoria di cui fa parte l’individuo dotato della qualità. Per questo motivo il sintagma che segue questo superlativo è considerato un complemento partitivo. Ovviamente, un sintagma formato con in o a + nome di luogo non può essere un complemento partitivo. Vero è, però, che può svolgere quasi la stessa funzione si potrebbe dire per metonimia. Se dico, cioè, che qualcuno ha una qualità al massimo grado in un luogo, per metonimia sto dicendo che la qualità è al massimo grado in relazione a tutti gli individui della stessa categoria che si trovano in quel luogo. Ad esempio, “Luca è il più bravo della sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che fanno parte della sua squadra” / “Luca è il più brano nella sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che si trovano nella sua squadra’, Lo stesso vale, ad esempio, per “L’Empire State Building è il grattacielo più alto di New York / a New York”. La differenza tra il complemento partitivo e quello di stato in luogo in questi casi è effettivamente minima, tanto che i nativi non riuscirebbero a individuarla facilmente. In ogni caso, l’uso del complemento di stato in luogo per esprimere (per metonimia) il partitivo è piuttosto raro (anche se il gusto personale può avere un certo ruolo nella preferenza): in generale è preferito soltanto in alcuni casi quasi idiomatici, come al mondo; per il resto è una possibilità poco sfruttata. Direi che le ragioni per cui le grammatiche non riportano questa possibilità sono proprio queste: si tratta di un uso estensivo ed è piuttosto raro.
Se poi ti interessa sapere perché a volte si usi in e a volte a, questo dipende dalla regola generale dell’alternanza tra queste preposizioni: in Italiain Sicilia, ma a New Yorka Roma… 
La questione dell’articolo è così schematizzabile: tra i nomi propri geografici non richiedono l’articolo i nomi di città e piccola isola, mentre lo richiedono i nomi di Stato, continente e simili (con pochissime eccezioni, come Israele). Neanche questi ultimi, però, vogliono l’articolo quando sono preceduti da in e a (in Italiain Asia). Soltanto i nomi di Stato o simili plurali richiedono l’articolo anche con in anegli Stati Uniti. Vogliono sempre l’articolo, infine, i nomi di luoghi fisici, come il Mediterraneogli Appenniniil Gardale Baleari ecc., perché sottintendono sempre un nome comune (il mar Mediterraneoi monti Appennini, il lago di Gardale isole Baleari). Lo stesso vale anche per quei pochi nomi di luoghi fisici che non sottintendono un nome, come le Alpi (nelle Alpi).  
Questa distribuzione dell’articolo è una di quelle regole che si formano per convenzione e non hanno alla base una motivazione razionale o funzionale. 
Fabio Ruggiano
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QUESITO:

Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.

1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».

2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).

 

RISPOSTA:

No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».

Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.

Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?

 

RISPOSTA:

Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.

L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:

A: Come mai sei interessato all’italiano?

Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.

Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.

Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.

 

RISPOSTA:

Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».

Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”

Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?

 

RISPOSTA:

La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida

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QUESITO:

Dopo la parola giardino, alla fine del terzo verso è opportuno l’uso del punto e virgola o sarebbe stato corretto l’utilizzo dei due punti?

È facile mimare le vocazioni dell’egoismo,
basta ammutolire la coscienza e la sete va libera
come una bimba nel primo giardino;
la mano si allunga, compulsiva nel prendere,
e senza uno specchio più largo della faccia,
restano dietro persino i fanghi del rimorso.

 

RISPOSTA:

Entrambe le proposte sono legittime. Con il punto e virgola si separano due unità informative logicamente e sintatticamente autonome; con i due punti, invece, si introduce una conseguenza di quanto detto prima.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo
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QUESITO:

Dopo mare e prima di che (al primo verso) è opportuno inserire la virgola (come nel testo) o sarebbe stato meglio l’uso del punto?

“Sogno il mare, che ancora mi sveli
il petto incostante, le possibilità!”

RISPOSTA:

La proposizione in questione (“che ancora mi sveli) è senza dubbio un’oggettiva introdotta dal verbo sognare, quindi prima di che non va inserita la virgola. Si può, eventualmente, spezzare la frase, ma cambiandone il significato, aggiungendo i due punti (“Sogno il mare: che ancora mi sveli…); in questo modo, quella introdotta da che è una proposizione indipendente di tipo esclamativo (segnalata, appunto, dal segno interpuntivo finale). In ogni caso, in un testo poetico la punteggiatura raramente è vincolata dalla grammatica.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.

 

RISPOSTA:

La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?

 

RISPOSTA:

Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Insegnate a vostro figlio a pensare alle azioni da fare per prepararsi per categorie anziché elenchi”, quale complemento è per categorie?

 

RISPOSTA:

Complemento di fine, visto che la preparazione è finalizzata alle categorie.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi
RISPOSTA:

Nelle due frasi, come introduce proposizioni di natura diversa, che si costruiscono diversamente. Nella prima frase la proposizione è un’interrogativa indiretta, che preferisce sempre il congiuntivo, e in particolare lo richiede decisamente quando è introdotta da come; nella seconda è una comparativa, che, al contrario, richiede l’indicativo quando è introdotta da come. Si noti che nella prima subordinata l’uso dell’indicativo non è escluso: “Mi aveva colpito come era riuscito a raccontare la storia” è possibile, con uno slittamento della proposizione verso il valore di oggettiva, non più di interrogativa indiretta. Con l’indicativo, in altre parole, come diviene equivalente a che.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?

 

RISPOSTA:

In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

Volevo chiedere se il verbo “sei passato” al quinto verso della mia strofa sia corretto al maschile (accordato a me che scrivo) o debba andare al femminile, accordato a “nuvola” del secondo verso?

Sei fermo, ma ti vedi
come una nuvola rapida
in un cielo che non sa affezionarsi
e che torna all’azzurro con indifferenza
quando sei passato.

 

RISPOSTA:

Il participio passato è accordato al “tu” sottinteso (tu sei fermo, tu sei passato) e non a chi scrive (cioè “io”). Se volessimo accordare il participio passato a nuvola, la frase non potrebbe mantenere l’accordo con il “tu”, ma con nuvola, quindi alla terza persona: “quando è passata“. D’altronde, già nel verso precedente il verbo è accordato a nuvola in questo modo: “e che torna (la nuvola) all’azzurro”.
Se si scegliesse di accordare a nuvola, i due versi prenderebbero questa forma: “e che torna all’azzurro con indifferenza / quando è passata”.
Raphael Merida

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QUESITO:

Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:

“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,

– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)

– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”

– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.

 

RISPOSTA:

Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.

Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.

Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.

Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “esprimo la mia opinione in relazione alla mia esperienza con voi”, il sintagma introdotto da “in relazione alla” esprime un complem. di limitazione?

 

RISPOSTA:

Sì. Potrebbe peraltro anche essere considerato un complemento di argomento, dal momento che le aree semantiche di questi due complementi sono spesso limitrofe, se non addirittura in parte sovrapponibili. Dipende dal contesto: se l’opinione verte sulla relazione, allora si tratta di complemento di argomento, se l’opinione verte su altre cose, ma è data nell’ambito di una relazione, allora è complemento di argomento. Naturalmente, come ben si vede, queste considerazioni riguardano la sfera meramente semantico-contestuale e nulla hanno a che vedere con la sintassi. Il che ci fa ribadire, per l’ennesima volta, la suprema inutilità (a non dir di peggio) dell’analisi logica (che di logica non ha nulla) tradizionalmente intesa.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.

 

RISPOSTA:

L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.

Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida

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QUESITO:

Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?

Uomo = soggetto

Era impegnato = pred. verbale

Per conto di una ditta = complemento di sostituzione

In una attività = stato in luogo figurato

Di manutenzione = complem. di specificazione

Su un impianto = stato in luogo

Di zuccherificio = compl. specificazione

 

RISPOSTA:

L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto dire “La Ficht conferma il rating BBB dell’Italia” oppure “per l’Italia”?
Inoltre:
1) dell’Italia = compl. specificazione?
2) per l’Italia= compl. di vantaggio?

 

RISPOSTA:

Le due varianti sono corrette ma cambiano il significato della frase: conferma il rating BBB dell’Italia indica che il rating era già stato assegnato (è, appunto, il rating dell’Italia) e ora l’agenzia lo conferma; conferma il rating BBB per l’Italia indica che il rating era stato annunciato, se ne era parlato, ma soltanto adesso è stato effettivamente assegnato (quindi la conferma riguarda non il rating già assegnato, ma l’anticipazione a proposito del rating che sarebbe stato assegnato). In analisi logica dell’Italia è complemento di specificazione, per l’Italia è complemento di vantaggio (o di svantaggio, se la frase lascia intendere che il rating è una brutta notizia) se si intende il rating come un servizio reso all’Italia; è, in alternativa, complemento di argomento se si intende il rating come un voto che riguarda l’Italia.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?

 

RISPOSTA:

Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.

Fabio Rossi

Parole chiave: Accordo/concordanza, Pronome
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Le frasi seguenti sono corrette?

Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.

A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.

In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.

Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:

Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,

La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.

E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.

Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.

Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.

apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.

Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.

Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.

Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.

 

RISPOSTA:

Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.

“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.

In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei una consulenza sul significato della frase complessa riportata di seguito: “La frase è una forma linguistica indipendente, non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore, escluso il testo”.

La frase è una forma linguistica indipendente = frase reggente principale;

Non compresa (che non è compresa = subordinata relativa) mediante alcuna costruzione grammaticale (attributo + complemento di esclusione) in una forma linguistica maggiore (complemento di stato in luogo figurato) escluso il testo (subord. di esclusione).

Come può essere parafrasata, ossia cosa significa in concreto, la frase in questione?

 

RISPOSTA:

Cominciamo dall’analisi del periodo.

“La frase è un forma linguistica indipendente”: proposizione principale;

“non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”: subordinata relativa implicita;

escluso il testo (subordinata esclusiva implicita).

Analisi logica della proposizione relativa:

la frase: soggetto sottinteso evincibile dal predicato verbale “non compresa”;

non compresa: predicato verbale;

mediante alcuna costruzione grammaticale: attributo + complemento di mezzo;

in una forma linguistica maggiore: complemento di stato in luogo figurato + attributo.

Il senso (e quindi la parafrasi) della frase in questione, che è una delle tante possibili definizioni di “frase”, è il seguente. La frase è, dal punto di vista sintattico, indipendente da altre frasi, cioè non fa parte di nessuna frase complessa (in quanto è essa stessa una frase, semplice o complessa, che si conclude con un punto, senza altri vincoli sintattici con strutture esterne alla frase stessa). Naturalmente, bisogna tener conto del contesto, o per meglio dire del cotesto, cioè dell’intero testo in cui la frase è inserita, per comprenderne a pieno il significato. Quindi, benché autonoma sul piano sintattico, sul piano semantico la frase non è del tutto autonoma, perché va inquadrata in un’unità di rango superiore detta testo.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretta l’analisi della seguente frase?  “Tiziano propone classi separate per studenti disabili, una mossa lesiva dei diritti di queste persone, in contrasto con i principi pedagogici”.

Tiziano = soggetto

Propone = predicato Verbale

Classi separate = compl. Oggetto + attributo

Per studenti disabili = complemento di destinazione + attributo

Una mossa lesiva = apposizione + attributo

Dei diritti = complemento di termine

Delle persone = compl. di specificazione

In contrasto con i principi pedagogici = complemento di paragone e attributo

 

RISPOSTA:

Secondo l’analisi logica tradizionale, vi sono alcune inesattezze o precisazioni da fare. Quello che lei chiama complemento di destinazione può essere classificato anche come complemento di vantaggio. “Dei diritti” è complemento di specificazione, anziché di termine. Come si vede e come chiarito più volte nelle risposte di DICO, però, una analisi siffatta non spiega nulla della struttura sintattica della frase, limitandosi ad apporre impressionistiche etichette semantiche ai vari sintagmi. Più utile sarebbe invece comprendere e distinguere, per esempio, il valore argomentale di “classi separate” e di “dei diritti” (che completa il sintagma “mossa lesiva”), rispetto al valore di circostante o di espansione degli altri sintagmi. In particolare, il circostante “una mossa lesiva dei diritti” (del tutto omologa a una relativa “che lede i diritti”) amplifica tutto ciò che precede (“propone classi separate per studenti disabili”); questa funzione di amplificazione (o circostante) si perde nella banale etichetta di apposizione, che sembra limitare (erroneamente) il riferimento di “una mossa lesiva dei diritti” al solo “classi separate”, quando invece è evidente che ad essere una mossa lesiva non siano soltanto le classi separate, bensì la proposta delle classi separate. Ancora una volta, dunque, più che la sciocca, inutile e dannosa analisi logica tradizionale sarebbe importante che la scuola insegnasse un’oculata e semplificata versione della grammatica valenziale.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.

Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?

 

RISPOSTA:

Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La frase “Si fa presto a dire amore” potrebbe essere analizzata nel seguente modo?

Si fa presto = reggente impersonale

A dire amore = subordinata limitazione

 

RISPOSTA:

Sì, la subordinata è una limitativa implicita. Tenga poi conto, però, che per le implicite il confine tra diversi tipi di subordinata è molto sfumato (limitativa, causale, finale, consecutiva, tra le altre, spesso possono legittimamente essere confuse), in virtù della estrema polisemia dei connettivi (per, di, a ecc.) e dei modi verbali. Dunque, vale per le subordinate quanto detto spesso per i complementi: più che accanirsi sul tipo (semantico), è meglio comprendere la funzione sintattica della subordinata. In questo caso, non v’è alcun dubbio sulla natura avverbiale della subordinata.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “I romani, sotto la guida di Cesare Giulio, conquistarono le Gallie”, sotto la guida può considerarsi complemento di mezzo?

“Voteremo sulla base/ in base a queste considerazione”….”Sulla base di” introduce un complem. di limitazione?

 

RISPOSTA:

Le due risposte sono entrambe corrette. Resta l’insensatezza della tipologia dei complementi secondo l’analisi logica tradizionale, che si limita a porre etichette semantiche (e impressionistiche) del tutto inutili a spiegare il funzionamento sintattico e logico della frase. Su questo aspetto, si rimanda alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/il-complemento-di-quantita-e-il-complemento-di-specificazione-linutilita-dellanalisi-logica-tradizionale/

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In un recente intervento di una parlamentare ho sentito questa frase: “Non vorrei che nessuna donna che in questo momento VORREBBE abortire si sentisse attaccata da questo stato”. Si tratta di un intervento emotivamente concitato, però l’uso del condizionale non mi convince, per via della sfumatura ipotetica. Cosa ne pensate, è accettabile?

 

RISPOSTA:

Il condizionale nella relativa di questa frase non è accettabile, ma va sostituito con il congiuntivo imperfetto: la relativa, infatti, è fortemente attratta dal modello della proposizione ipotetica (che in questo momento volesse abortire = se in questo momento volesse abortire).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).

“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.

Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?

 

RISPOSTA:

A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascoltofare il proprio ingressoprendere una decisionemettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.

 

RISPOSTA:

In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

I prefissi come super-arci-iper-ultra- ecc, si possono, indifferentemente, premettere a tutti gli aggettivi qualificativi di grado positivo, oppure seguono delle regole?

 

RISPOSTA:

Questi prefissi formano il superlativo assoluto dell’aggettivo a cui si uniscono; non possono essere usati, pertanto, con gli aggettivi che non ammettono il grado superlativo, ovvero gli aggettivi di relazione (quelli che instaurano una relazione oggettiva tra il nome che determinano e il nome da cui sono derivati) e quelli di grado positivo dal significato superlativo. Tra i primi figurano aggettivi come mattutinomensilearchitettonico; tra i secondi troviamo aggettivi come stupendofantasticomeraviglioso. Va detto che molti aggettivi di relazione hanno significati estensivi che ammettono la gradazione; per esempio civile è di relazione in codice civile ‘relativo alle relazioni sociali’ (impossibile *codice supercivile, come anche codice civilissimo), ma indica una qualità graduabile in una persona civile ‘che si comporta seguendo le regole’ (possibile una persona supercivile, come anche una persona civilissima). Per altri versi, anche gli aggettivi dal significato superlativo ammettono il grado superlativo quando sono usati con un valore enfatico o ironico (in contesti non formali); in questi casi preferiscono unirsi ai prefissi piuttosto che al suffisso -issimosupermeravigliosoiperfantastico ecc. (meno comuni meravigliosissimofantasticissimo ecc.).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:

(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).

Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?

Secondo esempio:

(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).

A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?

Terzo esempio:

(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.

Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.

 

RISPOSTA:

La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che, tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Potreste correggere le seguenti frasi? 
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.

 

RISPOSTA:

Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Norda Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nordal Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro

 

RISPOSTA:

Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Il file è in fase di caricamento”, il complemento in fase di caricamento può considerarsi predicativo del soggetto o stato in luogo? L’espressione in sciopero della fame si può analizzare così?
In sciopero = c. di luogo figurato;
della fame = c. di fine

 

RISPOSTA:

La fase di caricamento non è una qualità del file, ma è un processo nel quale si trova il file; si può, quindi, interpretare il sintagma come luogo figurato. Volendo sottolineare che tale luogo si configura come un processo, si può anche sostenere che il complemento sia di moto per luogo.

In sciopero indica una situazione in cui si trova una persona, quindi può rientrare nell’idea di stato in luogo figurato; della fame, invece, specifica di che tipo è lo sciopero, cioè che cosa lo caratterizza, quindi è un complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In “Fattelo spiegare da Giulio”, il complemento da Giulio si può considerare un complemento di origine?

 

RISPOSTA:

Sì. In alternativa, considerando che la costruzione fattitiva (fare + infinito) è parafrasabile con quella passiva: io mi faccio spiegare un argomento da Giulio = io faccio in modo che l’argomento mi sia spiegato da Giulio, è giustificabile anche l’interpretazione del sintagma come complemento d’agente.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

In base a può introdurre un complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

Sì, per esempio nella frase “In base ai dati, la situazione è in miglioramento”.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “in risposta alle sue richieste, Le daremo appuntamento per giovedì prossimo” è corretta la seguente analisi logica?
In risposta alle sue richieste = complem di fine+ attributo;
Le = c. di termine;
daremo = predicato verbale;
appuntamento = c. oggetto;
per giovedì prossimo = c. di tempo determinato + attributo.

 

RISPOSTA:

L’analisi ha un solo problema: il sintagma In risposta alle sue richieste non dovrebbe essere considerato insieme, ma dovrebbe essere diviso in In risposta e alle sue richieste. Di questi due, alle sue richieste è un complemento di termine, mentre In risposta può essere considerato un complemento di fine, se intendiamo il sintagma equivalente a al fine di rispondere, oppure – opzione per me più ragionevole – un complemento predicativo dell’oggetto (che è appuntamento) se lo consideriamo equivalente a in qualità di risposta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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QUESITO:

Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?

 

RISPOSTA:

La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Coerenza
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QUESITO:

La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?

 

RISPOSTA:

L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesseavrebbe volutovoleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.

  • Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;

  • L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.

 

RISPOSTA:

Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida

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QUESITO:

Vorrei sapere se nella frase che segue è consentito l’uso della virgola prima della preposizione “per”, e se non sia il caso di inserire una virgola prima del “che” (anche in relazione alla presenza o assenza del termine “altrettanto”): “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che vedranno il nostro gruppo offrire servizi sempre migliori, per una crescita in linea con quelle che sono le richieste dei propri fornitori”.

 

RISPOSTA:

La virgola prima della subordinata introdotta da per è facoltativa; inserendola, poniamo la subordinata sullo stesso piano informativo della altre proposizioni. L’assenza o la presenza della virgola prima della proposizione relativa influisce sul significato della frase (nel primo caso si parla di relative limitative, nel secondo di relative esplicative: la rimando a quest’articolo per approfondire il tema). Nella frase esemplificata l’interpretazione più ovvia della relativa è quella limitativa perché l’informazione è determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa.
In generale, però, l’intera frase risulta appesantita da costrutti ridondanti (quelle che sono le richieste) e da costruzioni sintattiche poco chiare (vedranno il nostro gruppo offrire servizi). Le suggerisco, quindi, una possibile riscrittura: “Il prossimo anno segnerà l’inizio di altrettante collaborazioni che permetteranno al nostro gruppo di offrire servizi migliori, per una crescita in linea con le richieste dei fornitori”.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere se nello scritto è più corretta la forma con il congiuntivo o l’indicativo: “Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti” oppure “Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti”?

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono ugualmente corrette, ma diverse. La prima è un periodo ipotetico del primo tipo, o della realtà, con l’indicativo sia nell’apodosi (la proposizione principale), sia nella protasi (la proposizione ipotetica); la seconda è un periodo ipotetico misto, con un’apodosi della realtà e una protasi del secondo tipo, o della possibilità. La scelta tra le due frasi dipenderà dal significato ricercato: con la prima l’ipotesi è rappresentata come fattuale, con la seconda la stessa ipotesi è rappresentata come possibile, eventuale, incerta.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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QUESITO:

A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?

 

RISPOSTA:

In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso della parola sino per determinare l’esatta conclusione di una azione in un determinato tempo. Provo a chiarire la mia richiesta attraverso un esempio. Dire che “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2”, significa che il 2 l’azienda è aperta, o che l’azienda è chiusa?

 

RISPOSTA:

Il problema non dipende dalla locuzione preposizionale sino a, ma è concettuale (infatti permane anche se eliminiamo sino): quando il termine di un periodo di tempo non è momentaneo, ma ha una certa durata (come una giornata), il periodo potrebbe finire in coincidenza con l’inizio del termine o con la fine dello stesso.
Questo problema è alla base delle gag comiche classiche in cui due personaggi non riescono a mettersi d’accordo se il conto alla rovescia finisca in coincidenza con la parola uno o dopo che questa è stata pronunciata. Nel suo caso, in teoria il periodo di chiusura potrebbe finire all’inizio del giorno 2, quindi il giorno 2 sarebbe escluso dalla chiusura, o alla fine dello stesso giorno, che quindi sarebbe incluso. Questo in teoria, perché in pratica l’indicazione del giorno implica che questo faccia parte del periodo; se, infatti, il giorno 2 fosse escluso il periodo finirebbe il giorno 1 e sarebbe antieconomico, quindi fuorviante, nominare il giorno 2 per riferirsi al giorno 1. Anche nel conto alla rovescia, del resto, dopo uno si dice spesso via o qualcosa di simile, a conferma che il conto include uno. Ancora, per fare un altro esempio, una frase come “Hai tempo fino al 2 per ridarmi i soldi” significa che i soldi devono essere restituiti al massimo alla fine del giorno 2, quindi il giorno 2 fa parte del periodo indicato.
In ogni caso, per evitare qualsiasi incertezza, anche teorica, è possibile aggiungere la dicitura incluso o compreso al termine finale del periodo: “l’azienda rimane chiusa dal 29 sino al giorno 2 incluso” (oppure sino al giorno 1 incluso se il 2 è escluso). Tale dicitura è tipica del linguaggio burocratico ed è spesso usata insieme alla preposizione entroentro il giorno 2 incluso / compreso. Esiste anche la possibilità di aggiungere escluso, che, però, è paradossale e difficilmente giustificabile: come detto sopra, se un termine è escluso dovrebbe essere semplicemente non nominato. Incluso può essere anche sostituito da e non oltre, creando l’espressione bandiera del burocratese entro e non oltre. Questa alternativa è meno trasparente, quindi non preferibile, ma è tanto apprezzata perché conferisce al testo una (malintesa) patina di ufficialità.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.

 

RISPOSTA:

L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Quale delle due frasi è corretta: “Sarà difficile che ti ricorderai di me” oppure “sarà difficile che ti ricordi di me”?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette. Un evento futuro espresso con una proposizione completiva dipendente da una reggente al futuro o al presente può essere descritto con il congiuntivo presente (qui ricordi) o con l’indicativo futuro (qui ricorderai). Il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più adatta al parlato e allo scritto medio-basso. Per un approfondimento della questione si veda questa risposta.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nelle frasi che costituiscono l’elenco numerato è più appropriato utilizzare il congiuntivo o l’indicativo del verbo indicato tra parentesi?
Per l’analisi dei libri di testo è stato impiegato il modello di sviluppo dell’autonomia di Reinders, basato su 8 livelli, per ciascuno dei quali sono stati ricercati nei testi specifici elementi:
1. Per il livello della definizione dei bisogni sono stati ricercati elementi che (permettono o permettano?) al discente di riflettere sui propri punti di forza, di debolezza ed esigenza nell’utilizzo della LS.
3. Per la pianificazione dell’apprendimento è stato verificato se i libri (consentono o consentano?) al discente di definire i tempi, le modalità e gli obiettivi di apprendimento per ciascuna unità o alcune di esse.
5. Per la selezione delle strategie di apprendimento sono state ricercate sia attività che informazioni che (aiutano o aiutino?) il discente ad adottare consapevolmente una specifica strategia di apprendimento.
6. Per il livello delle esercitazioni è stata osservata la presenza di esercizi liberi, in cui lo studente (può o possa?) utilizzare la LS senza rigide linee guida ed esprimersi, quindi, in modo più autentico sia in classe che al di fuori.
7. Per il monitoraggio dei progressi sono state ricercate sezioni che (permettono o permettano?) al discente di registrare e riflettere su cosa e come ha imparato.
8. Infine, per il livello della valutazione sono state considerate attività di autovalutazione o di feedback tra pari che (consentono o consentano?) agli studenti di esprimere un giudizio su ciò che essi stessi o i propri pari hanno appreso.

 

RISPOSTA:

In tutti i casi meno uno il verbo si trova all’interno di proposizioni relative. Queste ultime, tipicamente costruite con l’indicativo, possono prendere il congiuntivo quando il pronome relativo ha un antecedente indeterminato; il congiuntivo invece dell’indicativo produce un innalzamento diafasico, mentre il significato, a seconda della frase, non cambia affatto oppure assume una sfumatura consecutivo-finale. Mentre, ad esempio, elementi che permettono indica che gli elementi ricercati posseggono la qualità descritta (cioè permettono al discente di riflettere), elementi che permettano indica che gli elementi sono ricercati perché posseggano quella stessa qualità, o, in altre parole, nel primo caso si cercano degli elementi con una certa qualità, nel secondo si cerca una certa qualità posseduta da alcuni elementi. Del tutto ininfluente sul significato è, invece, la scelta del modo verbale nella proposizione interrogativa indiretta nella frase 3: qui la scelta dipende soltanto da ragioni diafasiche, ovvero dall’intento di usare un registro medio-alto (con il congiuntivo) o medio-basso (con l’indicativo).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.

 

RISPOSTA:

Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Maria traduce il testo dall’italiano all’inglese”. Che complementi sono dall’italiano e all’inglese?

 

RISPOSTA:

Sono, rispettivamente, complemento di origine o provenienza e complemento di moto a luogo figurato. Quest’ultimo può anche essere definito in questo caso complemento di destinazione, ma questa etichetta non rientra tra quelle più comunemente usate nei manuali di grammatica italiana (è usata, invece, per descrivere la funzione del caso dativo delle lingue antiche).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le due frasi sono corrette?

1. Non ve n’è mai fregato della vostra famiglia.

2. Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia.

 

RISPOSTA:

Le due frasi sono corrette, ma hanno significati opposti per via del verbo, che soltanto in apparenza è uguale. Nel primo esempio, il verbo coinvolto è fregarsi, un verbo intransitivo pronominale che significa ‘importare’; la frase, quindi, può essere interpretata così: “Non vi è mai importato della vostra famiglia”. Il pronome atono ne, in questo caso, serve ad anticipare il tema: “Non ve n‘è mai fregato della vostra famiglia“. La costruzione dell’enunciato con il tema isolato a destra (o a sinistra) è definita dislocazione e serve a ribadire il tema, per assicurarsi che l’interlocutore l’abbia identificato.
Nel secondo esempio, invece, la frase è costruita attorno al verbo procomplementare fregarsene (sui verbi procomplementari rimando alle risposte contenute nell’Archivio di DICO). Il suo significato non è ‘importare’, come per fregarsi, ma ‘mostrare indifferenza, infischiarsene’. La frase, quindi, assume tutto un altro senso: “Non ve ne siete mai fregati della vostra famiglia” equivale a “Non avete mai mostrato indifferenza nei confronti della vostra famiglia”, quindi “Vi siete sempre interessati della vostra famiglia”.
Questo caso, molto interessante, è un tipico esempio la cui risoluzione richiede una particolare attenzione alle particelle pronominali presenti nella frase, che possono modificare o, addirittura, ribaltare il significato di ciò che si vuole scrivere o dire.
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È corretto iniziare una frase, che non ne precede altre, con affinché?

 

RISPOSTA:

Sì, l’ordine delle proposizioni all’interno di una frase può variare, quindi una proposizione subordinata finale introdotta dalla congiunzione affinché può precedere la reggente, come nel seguente esempio: “Affinché la torta sia cotta [subordinata], il forno deve mantenere una temperatura di 150 gradi [reggente]”. Sarebbe sbagliato, invece, lasciare la subordinata sospesa, cioè senza la proposizione reggente; una frase come *Affinché la torta sia cotta risulterebbe priva di senso.
Raphael Merida

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QUESITO:

Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.

 

RISPOSTA:

Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si nota l’influenza dell’arte africana sulla sua opera.
Buonasera! In analisi logica, “l’influenza” è soggetto o oggetto? Ovvero “si nota” è passivante o impersonale? Inoltre mi permetto di chiedere che complemento sia “sulla sua opera”: luogo figurato?

 

RISPOSTA:

Nel suo esempio, il verbo è costruito con il si impersonale. Si nota assume la funzione di soggetto (è come se si intendesse “Qualcuno nota”), l’influenza è complemento oggetto, dell’arte africana complemento di specificazione, sulla sua opera complemento di stato in luogo figurato.
Per un approfondimento sul si impersonale / si passivante, la esorto a consultare l’archivio di DICO.
Raphael Merida

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.

 

RISPOSTA:

No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.

 

RISPOSTA:

Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mariola porta di casail tavolo di legnomangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddodi caldodi famedi setedi gioia ed altre emozioni (di pauradi doloredi felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria freddaPer ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

I verbi in maiuscolo nella seguente frase sono corretti?
“Se ci ferissimo in una zona remota dovremmo avere con noi un buon kit di primo soccorso, che CONTENGA quegli strumenti che ci CONSENTIREBBERO di fronteggiare anche gravi situazioni di urgenza”.

 

RISPOSTA:

Il congiuntivo presente contenga è adatto a esprimere l’atemporalità (o meglio la pantemporalità, ovvero l’indipendenza da coordinate temporali particolari) del processo che qualifica il kit. Si noti che il conguntivo è preferibile all’indicativo in questo caso perché l’antecedente del relativo, un buon kit, è indeterminato; se al posto di un buon kit ci fosse, per esempio, il kit, l’indicativo presente contiene sarebbe preferibile (in quel caso, però, la proposizione relativa diventerebbe automaticamente limitativa, quindi si dovrebbe anche eliminare la virgola prima del pronome relativo).
La decisione riguardo a consentirebbero è più complicata: nella frase così costruita si può usare sia questa forma sia l’indicativo presente consentono. Nel primo caso il processo è rappresentato come conseguenza di una condizione sottintesa (per esempio se si presentassero); nel secondo caso il processo è presentato come pantemporale, al pari di contenga. Rispetto a contenga, qui l’indicativo è preferibile al congiuntivo perché l’antecedente del relativo, quegli strumenti, è determinato.
Va detto, comunque, che bisogna evitare di subordinare una relativa a un’altra relativa. A questo scopo si può sostituire, per esempio, che ci consentono o che ci consentirebbero con utili a.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Pronome, Verbo
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QUESITO:

In diversi dizionari on line ho trovato come sinonimo di sinagoga il termine Chiesa.
Il sito Virgilio sapere Sinonimi mette come sinonimo di moschea chiesa musulmana.
Volevo sapere se il termine chiesa può essere usato come sinonimo di sinagoga.

 

RISPOSTA:

sinagoga, né moschea possono essere considerati sinonimi di chiesa e nessuno dei principali dizionari dell’uso mette in relazione sinonimica le tre parole. Chiesa, infatti, designa esclusivamente un edificio destinato al culto cristiano, oppure un gruppo di fedeli che professa la religione cristiana; allo stesso modo, sinagogaindica un edificio consacrato al culto ebraico o la comunità ebraica. Si differenzia la parola moschea, che indica soltanto l’edificio caratteristico della religione musulmana senza riferirsi alla comunità musulmana.
Raphael Merida

Parole chiave: Lingua e società, Nome
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QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Morfologia, Semantica

Quale delle seguenti è una forma passiva del verbo andare?
a) Io vado
b) Io sono andato
c) Andando
d) Nessuna delle precedenti; il verbo andare non ha la forma passiva

La risposta corretta è d. Il verbo andare non ha la diatesi passiva, come tutti i verbi intransitivi; non è possibile, infatti, rappresentare il processo dell’andare come subito da qualcuno o qualcosa.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Vorrei sapere la differenza che c’è tra i due tempi verbali delle due frasi che seguono:

1. Ora Luca mangia un gelato;

2. Ora Luca sta scrivendo al computer.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi descrivono un evento che avviene mentre l’emittente sta parlando o scrivendo, quindi Luca mangia un gelato mentre io sto parlando, o Luca sta scrivendo al computer mentre io mangio. A differenza della prima frase all’indicativo presente (mangia), la seconda è costruita con la perifrasi progressiva stare + gerundio (sta scrivendo), che indica un processo in corso di svolgimento la cui durata si protrae oltre il momento in cui l’emittente si focalizza.
Raphael Merida

Parole chiave: Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nel periodo: “Avevo visto Mario e gli avevo chiesto di passare dal mio studio, ma non ha portato i documenti che avrei dovuto consultre” la coordinata avversativa ma non ha portato i documenti è da considerare legata alla coordinata copulativa e gli avevo chiesto oppure alla subordinata oggettiva di passare dal mio studio?

 

RISPOSTA:

La coordinata introdotta da ma è formalmente collegata alla coordinata alla principale e gli avevo chiesto; nessun elemento al suo interno, infatti, può collocarla su un piano della gerarchia sintattica diverso dal primo. Certo, se sottraessimo la subordinata oggettiva, il contenuto della seconda coordinata non sarebbe comprensibile (e gli avevo chiesto, ma non ha portato i documenti); questo, però, è un effetto della forza del legame di subordinazione completivo (quello che lega gli avevo chiesto e di passare dal mio studio), per il quale la reggente risulta incompleta senza la subordinata.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Parlerò soltanto con chi conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
“Non parlerò con chi non conosca / conoscesse almeno i principi essenziali”.
Con chi parlerò?

 

RISPOSTA:

La relativa introdotta da chi ha un valore consecutivo (chi (non) conosca = ‘le persone tali da (non) conoscere’), che giustifica l’uso del congiuntivo. Il tempo del congiuntivo nella relativa è deittico, cioè allineato con il tempo extralinguistico: se il conoscere è presente o futuro (quindi comunque presente ai fini della scelta del tempo del congiuntivo) si dovrà usare il presente; se, invece, il conoscere è passato (“parlerò ora o domani con chi conoscesse ieri i principi essenziali”), si userà l’imperfetto. L’imperfetto, per la verità, potrebbe essere usato anche per il presente, perché chi (non) conoscesse può essere interpretato come se qualcuno (non) conoscesse; si tratterebbe, però, di un uso ambiguo e, in più, la sfumatura ulteriore di eventualità aggiunta dall’imperfetto sarebbe superflua. In questa risposta può trovare la spiegazione di un caso analogo al suo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Si dice «ha constatato che il sig. X fosse presente» o «ha constatato che il sig. X era presente»?

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono corrette: quella al congiuntivo è più formale, ma quella all’indicativo è più comune. Nelle subordinate completive l’indicativo e il congiuntivo sono intercambiabili, sebbene con gradi di accettabilità differenti a seconda del verbo reggente e anche del fatto che vi sia o no la negazione, oltre che in base al grado di formalità. Con la negazione, per esempio, il congiuntivo è sempre preferibile: «Non ha constatato se X fosse presente». Con la negazione, tra l’altro, la completiva non è un’oggettiva, bensì una interrogativa indiretta, introdotta da se. Nelle frasi affermative, vi sono verbi che ammettono, e quasi prediligono, l’indicativo, quali constatare, appurare, dire, vedere, sentire (una frase come «sento che Luca sia affannato», ancorché non erronea, è al limite dell’inaccettabile, in un italiano comune); e verbi che invece preferiscono il congiuntivo (la maggior parte: volere, temere, credere, pensare, ritenere, dubitare, sognare…). In linea di massima, i verbi che esprimono una percezione diretta della realtà prediligono l’indicativo (tranne che con la negazione), mentre i verbi che esprimono un’ipotesi, un timore, una volontà e simili prediligono il congiuntivo. Oltre che dal grado di formalità, la presenza dell’indicativo o del congiuntivo nelle subordinate, dunque, non dipendono tanto dal grado di certezza (come erroneamente spesso si dice), quanto dalla percezione più o meno diretta. Se dipendesse dalla certezza, allora frasi come le seguenti sarebbero impossibili: «credo fermamente che Dio esista»; «ho sognato che volevi uccidermi», mentre invece sarebbero poco naturali «credo fermamente che Dio esiste» e «ho sognato che volessi uccidermi». Questo perché sognare si riferisce comunque al frutto di una percezione diretta, mentre il verbo credere (così come avere fede), pur non mettendo in dubbio il frutto di quanto viene creduto, lo esprime comunque con un verbo che indica una elaborazione del pensiero (come pensare).  

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:

L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.

Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?

 

RISPOSTA:

Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.

Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nel seguente esempio la proposizione che inizia con dovreste esprime una possibilità, giusto?

Non mi pare che dovreste avere troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note (M. Morazzoni).

È possibile formulare la proposizione senza dovere (“Non mi pare che avreste troppa difficoltà a collocare una trama sopra delle note”)?

Un altro esempio: “Penso che Mario potrebbe uscire stasera” (possibilità); se cambio la frase con “Penso che Mario uscirebbe stasera” dovrei esplicitare una condizione, ad esempio se avesse tempo?

Nella frase “Io penso che dovremmo tenerla unita, questa fortuna, tenere insieme i figli, e le donne e noi stessi, tutti insieme” (U. Riccarelli), mi sembra che dovremmo esprima in modo cordiale un consiglio invece che una possibilità. Per questo tipo di completiva penso che sia necessario usare dovere, potere, o volere e non sarebbe possibile scrivere la proposizione senza un verbo servile; giusto?

 

RISPOSTA:

I verbi servili aggiungono sempre una sfumatura di significato al verbo che reggono. Nella prima frase, dovreste rappresenta il non avere difficoltà come ipotizzato dall’emittente, quindi che il parlante è incerto se quello che sta dicendo si avvererà. Il condizionale, in questo caso, non è legato a una premessa, ma esprime il dubbio dell’emittente (come se nella frase fosse sottinteso se avessi ragione, se la mia idea fosse corretta o simili). Se eliminiamo il verbo servile, viene meno la sfumatura ipotetica; avreste indicherebbe che il non avere difficoltà è la conseguenza di una premessa. Tale premessa dovrebbe essere esplicitata, altrimenti la frase rimane in sospeso. Lo stesso vale per la seconda frase: come da lei proposto, il servile potere rappresenta l’uscire come potenziale; senza il servile, uscirebbe diviene la conseguenza di una premessa che deve essere esplicitata.

Nella terza frase, dovremmo esprime ancora un’ipotesi dell’emittente; visto il significato della frase, però, in questo caso l’ipotesi è interpretata automaticamente come un auspicio, quindi anche come un invito all’interlocutore a realizzare il contenuto della frase. Anche qui senza il verbo servile il tenerla unita e le altre azioni diventerebbero conseguenze di premesse che devono essere esplicitate. Ovviamente, se sostituiamo dovere con un altro verbo servile il significato della frase cambia: con potere l’invito si trasforma in una possibilità, con volere in un desiderio.

Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi del periodo, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Mario è nato al rombo del cannone” o “Mario era nato al rombo del cannone”? A mio parere la prima espressione è corretta a patto che Mario sia ancora in vita, la seconda invece è da preferirsi qualora Mario sia ormai defunto. Vorrei sapere se questa mia opinione è corretta.

 

RISPOSTA:

La sua interpretazione, ancorché non del tutto priva di qualche intuizione, è troppo rigida e quindi, sì, infondata nella sua assolutezza. Sebbene il passato prossimo indichi di norma una conseguenza o una ricaduta (talora in verità più teorica, o “pragmatica”, che reale) dell’azione al passato sul tempo presente, e il remoto tenda a escludere, invece, tale ricaduta, i due tempi sono ampiamente intercambiabili in italiano (tranne che per verbi dal significato decisamente durativo, non puntuale, quali capire e sentire in espressioni quali hai capito, hai sentito e simili, decisamente substandard, o regionali, se al passato remoto in certi contesti: *capisti, *sentisti e simili), con una maggiore formalità per il passato remoto. Quindi, anche per una persona defunta, posso ben dire, per esempio: «Giacomo Leopardi è nato a Recanati» (e non necessariamente «nacque»). Quanto al trapassato prossimo, esso implica di norma il rapporto di anteriorità rispetto ad altro evento sempre al passato. Nel suo esempio, peraltro sempre corretto, dunque, «era nato» non ha nulla a che vedere col fatto che Mario sia morto o vivo e vegeto, bensì con l’eventuale prosecuzione del discorso, al passato, con altre azioni o eventi legati a Mario: «era nato al rombo del cannone mentre era in corso la seconda guerra mondiale».

Fabio Rossi

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QUESITO:

1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.

 

RISPOSTA:

La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida

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QUESITO:

Una giornalista, alla radio, ha detto: «Era un artista che metteva tutti i suoi discepoli a proprio agio». Forse sono troppo pedante, fossilizzandomi sulle regole della sintassi e trascurando così il messaggio che il parlante voleva chiaramente suggerire, o, forse, sono io a essere in errore; ma quell’aggettivo, proprio, non dovrebbe riferirsi al soggetto?

Se così fosse, il significato della frase sarebbe alquanto bizzarro: l’“agio” sarebbe stato dell’artista stesso invece che dei discepoli di quest’ultimo. Al posto della giornalista, avrei detto «a loro agio».

 

RISPOSTA:

Ha perfettamente ragione, proprio è un errore, perché può riferirsi soltanto al soggetto della proposizione nella quale è inserito. Viceversa, a volte in luogo di proprio è ammesso anche loro, se non genera equivoci: «gli studenti, con le loro brave cartelle sulle spalle» (o «proprie cartelle»).

Fabio Rossi

Parole chiave: Aggettivo
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QUESITO:

Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».

La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.

La costruzione è corretta?

 

RISPOSTA:

No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!

Fabio Rossi

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QUESITO:

Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.

 

RISPOSTA:

Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.

Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.

Fabio Rossi

Parole chiave: Analisi logica, Tema e rema, Verbo
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Categorie: Morfologia, Semantica

QUESITO:

  1. Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.

Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.

  1. Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
  2. Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.

 

RISPOSTA:

La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Le mogli litigano con i mariti.

Le fidanzate ballano con i fidanzati.

Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.

Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.

È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.

Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?

Le donne litigano con i (propri) mariti.

Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.

Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…

Quali soluzioni suggerireste?

 

RISPOSTA:

L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.

Fabio Rossi

Parole chiave: Coerenza, Retorica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È possibile dire «Vorrei che faccia» invece che «Vorrei che tu facessi»? È corretto pensare che il congiuntivo presente dia al mio desiderio una sfumatura di maggiore cogenza, un senso imperioso? Normalmente, da quello che trovo anche nelle grammatiche, si usa il congiuntivo imperfetto nella subordinata, poiché l’evento è dato come realizzabile solo se si attua il mio desiderio. Ma nel caso in cui io parlante intenda il mio vorrei come ‘obbligo’, e usi il condizionale solo in quanto formula di cortesia, è accettato il congiuntivo presente? In sintesi: è un vero e proprio errore usare il congiuntivo presente nella frase citata in apertura, o si tratta di una forma poco usuale, ma in alcuni casi prevista e possibile? Si tratta di un problema di grammatica o di semantica?

 

RISPOSTA:

Come spesso accade, di errori veri e propri nella lingua ve ne sono pochi; il più delle volte si tratta di varietà, improprietà, sfumature. In questo caso, se non errato, l’uso del presente congiuntivo in associazione col condizionale presente, possibile in astratto, è improprio e decisamente minoritario (nelle persone colte), sia per ragioni semantiche, sia per ragioni grammaticali, o per meglio dire di analogia con altri costrutti che associano congiuntivo a condizionale. Dal punto di vista semantico, come giustamente ricorda lei, la spiegazione che si dà al condizionale è che il parlante/scrivente «mostra di credere poco alla realizzabilità del proprio desiderio, lo dà quasi come fosse già alle spalle» (L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 63). Può trovare approfondimenti al riguardo in numerose altre domande di DICO, riassunte qui. Quel che più conta, però, è l’uso dei parlanti e degli scriventi, più che le loro eventuali intenzioni recondite. Nell’uso comune, quando compare il condizionale presente nella reggente, scatta quasi sempre l’uso combinato del congiuntivo imperfetto. Perché? Evidentemente per via del costrutto che più d’ogni altro (come frequenza d’uso) combina i due modi e tempi, vale a dire il periodo ipotetico del secondo tipo (il più frequente dei periodi ipotetici): «verrei se potessi» (e non «se possa»!). Per questa ragione, i parlanti e gli scriventi colti (e conseguentemente le grammatiche) associano all’uso combinato di condizionale presente più congiuntivo presente un valore di estrema trascuratezza, prossimo all’errore. La giustificazione che lei dà dell’opzione del congiuntivo presente è ineccepibile, ma logicistica: le lingue non funzionano con astratte logiche a posteriori, bensì in base a consuetudini consolidate.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».

 

RISPOSTA:

La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).

Fabio Rossi

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QUESITO:

Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?

 

RISPOSTA:

A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vi sottopongo questa frase: “Lei non volle andare in camera da letto. Restammo lì, su quelle vecchie poltrone, e pensai che eravamo i primi a farci l’amore”. Ovviamente a farci l’amore significa: ‘a fare l’amore SU quelle poltrone’. Ora vi chiedo: può il pronome ci sostutuire su (sulle poltrone)? Inoltre, la frase risulta subito comprensibile e scorrevole?

 

RISPOSTA:

La frase è scorrevole e comprensibile. I pronomi non hanno un significato preciso, ma prendono il significato del sintagma che di volta in volta riprendono, o a cui rimandano, adattandolo alla sintassi della frase in cui si trovano. Così, nella sua frase ci significa ‘su quelle poltrone’, in una frase come “Amo Roma e ci vado ogni volta che posso” il pronome ci significa ‘a Roma’, in una frase come “Se scavi sotto l’albero ci troverai una scatola” lo stesso pronome significa ‘sotto l’albero’ e così via.
Quasi tutte le grammatiche sostengono che civi e ne abbiano la natura di avverbi, non di pronomi, quando rappresentano indicazioni di luogo, come nella sua frase, dal momento che equivalgono a qui, da qui, da lì. Come si vede dagli esempi per ci (ma questo vale anche per gli altri), però, essi mantengono sempre la funzione di riprendere un sintagma introdotto altrove nella frase o nel testo, o ricavabile dal contesto (per esempio, davanti alla brochure di un viaggio organizzato un interlocutore potrebbe chiedere a un altro: “Ci andiamo?”): possiamo, quindi, considerarli pronomi anche in questo caso.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Gradirei sapere se entrambe le soluzioni riportate di seguito sono corrette, oppure se ve ne sia una meno formale rispetto all’altra:
È una sfumatura semantica che risulta difficile cogliere.
È una sfumatura semantica che risulta difficile da cogliere.

 

RISPOSTA:

Entrambe le frasi sono possibili e praticamente equivalenti dal punto di vista semantico; la prima, però, ha una costruzione sintattica intricata, per quanto del tutto comprensibile e ammessa dalla grammatica.
L’intrico dipende dalla natura della proposizione che cogliere, contemporaneamente relativa e soggettiva; da una parte, infatti, che riprende il sintagma una sfumatura semantica (quindi introduce una relativa), dall’altra la proposizione funge da soggetto di risulta difficile (quindi è una soggettiva). Per evidenziare questa sovrapposizione di funzioni, potremmo parafrasare questa parte della frase con cogliere la quale risulta difficile.
La seconda frase è più lineare dal punto di vista sintattico: che è il soggetto della proposizione relativa che risulta difficileda cogliere è una proposizione completiva assimilabile a una oggettiva, retta dall’aggettivo difficile. Non è facile associare le due frasi a determinati registri: in linea generale, mentre la seconda è adatta a tutti i contesti, la prima è più adatta a contesti medio-alti, soprattutto scritti, per via della complessità della costruzione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito digrazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?

 

RISPOSTA:

La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.

La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?

 

RISPOSTA:

Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.

 

RISPOSTA:

Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Aggettivo, Coerenza, Nome
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QUESITO:

Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?

 

RISPOSTA:

I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

È corretto usare espressioni come risposta inviata a mezzo mailrichiesta evasa a mezzo pec, oppure è più corretto l’uso della locuzione per mezzo mailper mezzo pec?

 

RISPOSTA:

Le locuzioni preposizionali a mezzocon il mezzoper il mezzoper mezzo sono tutte attestate nella storia della lingua italiana, con fortuna diversa a seconda delle epoche e del gusto dei parlanti. Il Grande dizionario della lingua italiana, infatti, le riporta tutte insieme come varianti della stessa locuzione (s. v. Mèzzo^2^). Bisogna, però, ricordare che tutte queste varianti sono, nell’italiano standard, completate dalla preposizione di, quindi a mezzo dicon il mezzo diper il mezzo diper mezzo di. Contro a mezzo di si pronunciano Pietro Fanfani e Costantino Arlía nel loro famoso “Lessico dell’infima e corrotta italianità” del 1881, un dizionario di voci considerate dai due studiosi scorrette o ingiustificate. Il dizionario ottocentesco suggerisce che a mezzo di sia un calco del francese au moyen (ma chiaramente intende au moyen de) e sostiene che non ci sia motivo per usare in italiano questa espressione perché a non può sostituire per (quindi a mezzo non può sostituire il ben più comune per mezzo) e perché la locuzione a mezzo esiste già e significa ‘a metà’. Il dizionario registra persino l’uso del simbolo matematico 1/2 al posto della parola mezzo nella locuzione, ovviamente condannandolo sprezzantemente, a testimonianza che la sostituzione delle parole con i numeri era una strategia già sfruttata a metà Ottocento.
Gli argomenti dei due studiosi contro a mezzo di funzionano in ottica puristica: non c’è motivo di introdurre in una lingua nuove espressioni se la lingua ha già gli strumenti per esprimere gli stessi concetti. Bisogna, però, rilevare che molte parole ed espressioni sono entrate in italiano da altre lingue in ogni epoca, anche se la lingua italiana in quel momento aveva strumenti espressivi equivalenti; l’innovazione, l’accrescimento, l’adattamento ai tempi sono fenomeni fisiologici in una lingua. Inoltre, l’ipotesi che a mezzo di si confonda con a mezzo è pretestuosa: intanto la preposizione di distingue nettamente le due espressioni, e poi il loro significato e la loro funzione sintattica sono talmente diversi che è impossibile scambiare l’una per l’altra.
Rispetto ad a mezzo di, oggi si va diffondendo a mezzo, senza la preposizione di. Ferma restando l’impossibilità di confondere anche questa variante accorciata della locuzione preposizionale con la locuzione avverbiale a mezzo (peraltro oggi rarissima), rileviamo che tale accorciamento è tipico dell’italiano contemporaneo: le preposizioni cadono in espressioni come pomeriggio (per di pomeriggio) e, proprio nel linguaggio burocratico, (in) zona (per nella zona di) in frasi come “La viabilità in zona Olimpico è stata ripristinata” (o anche “La viabilità zona Olimpico è stata ripristinata”), causa (per a causa di) in frasi come “La ditta dovrà pagare una penale causa ritardo dei lavori” e simili. L’eliminazione della preposizione è, come si vede dagli esempi, adatta a contesti burocratici o, in alcuni casi, contesti comunicativi rapidi e informali (è favorita, per esempio, dalla scrittura di messaggi istantanei); è facile prevedere, però, che le riformulazioni accorciate di queste espressioni diventeranno prima o poi più comuni di quelle complete, fino a scalzarle del tutto dall’uso. Non a caso, nella sua stessa domanda lei propone di sostituire a mezzo con per mezzo, ugualmente priva della preposizione di.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?

 

RISPOSTA:

In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi diservirsi di, contare suobbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Marioil cancello della scuolal’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcunoobbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Queste frasi sono tutte grammaticalmente corrette?
Non hai pensato all’eventualità che sia lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che sia stato lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse lui il colpevole?
Non hai pensato all’eventualità che fosse stato lui il colpevole?

 

RISPOSTA:

Le frasi sono tutte corrette; il diverso tempo del congiuntivo nella subordinata dichiarativa instaura di volta in volta un rapporto temporale diverso tra lo stato descritto nella dichiarativa e l’evento della reggente. Nello stabilire quale sia tale rapposto bisogna considerare che nella reggente figura un passato prossimo, un tempo che si comporta a volte come storico, a volte come presente, perché indica un evento passato ancora valido nel presente. Nella prima frase, per esempio, il presente sia instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con hai pensato, perché in questa frase hai pensato indica che il pensare iniziato nel passato è ancora in corso (deve essere così, altrimenti non avrebbe senso rappresentare l’essere colpevole come presente). Anche nella seconda frase hai pensato stabilisce un punto di vista presente, rispetto al quale l’essere colpevole è anteriore, quindi passato. Nella terza frase possiamo avere due interpretazioni: se hai pensato stabilisce un punto di vista presente fosse esprime uno stato anteriore (nonché continuato nel passato); se, però, hai pensato stabilisce un punto di vista passato (in questa frase ciò è possibile proprio perché questo verbo è messo in relazione con un imperfetto), fosse indica contemporaneità nel passato. Per vedere più chiaramente questa differenza si osservino le seguenti frasi:
1. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole;
2. Stamattina ho pensato che lui fosse colpevole.
Nella prima frase l’essere colpevole è contemporaneo nel passato rispetto a ho pensato; nella seconda è anteriore (e continuato) rispetto al presente, perché qui ho pensato stabilisce un punto di vista presente. Si noti, comunque, che nella frase 1 non è esclusa l’interpretazione anteriore (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse colpevole anche le altre volte che l’avevano arrestato”) così come nella 2 non è esclusa quella contemporanea (per esempio “Stamattina ho pensato che proprio mentre lo guardavo lui fosse colpevole”).
Nella quarta frase, infine, il trapassato indica che lo stato dell’essere colpevole è anteriore a un altro evento, anch’esso passato; questo altro evento può coincidere con il pensare se hai pensato funziona da tempo storico, altrimenti deve essere un altro evento, non esplicitato. Anche in questo caso, per vedere meglio la differenza si osservino queste frasi:
3. Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole;
4. Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole.
Nella prima l’essere colpevole precede nel tempo il pensare, che è passato; nella seconda l’essere colpevole precede un altro evento (per esempio “Stamattina ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”), perché il pensare funziona da presente. La presenza di un terzo evento non è, comunque, esclusa dalla frase 3 (per esempio “Quando l’ho visto in manette, quel giorno, ho pensato che lui fosse stato colpevole anche di altri crimini prima di essere arrestato per rapina”).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.

 

RISPOSTA:

Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.

Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:

1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;

2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.

Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.

Ora si osservino queste due frasi:

3. Dieci persone sono venute alla festa;

4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.

In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.

Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.

Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:

5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!

6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!

Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.

7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.

8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.

Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.

Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?

 

RISPOSTA:

I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

È sbagliato far seguire il congiuntivo presente all’espressione come se, oppure è obbligatorio l’imperfetto?
“Ne parli come se sia colpa mia!”
“Apri le finestre come se faccia caldo”.
È possibile omettere se fosse senza alterare il significato della frase dal punto di vista temporale?
“Carlo cammina come se fosse un ubriaco che non riuscisse a reggersi in piedi”.
“Carlo cammina come un ubriaco che non riuscisse / riesca a reggersi in piedi”.
La seconda alternativa conserva la stessa sfumatura ipotetica oppure colloca l’azione nel passato?

 

RISPOSTA:

La proposizione comparativa ipotetica, introdotta da come se, presenta un evento ipotetico che somiglia a quello descritto nella reggente e che potrebbe, pertanto, spiegarlo. L’ipoteticità dell’evento presentato richiede una costruzione che ricalca quella della proposizione ipotetica, ovvero il congiuntivo imperfetto per la possibilità, il congiuntivo trapassato per l’irrealtà. L’irrealtà, si noti, corrisponde in questa proposizione all’atteggiamento di incertezza dell’emittente riguardo alla somiglianza tra gli eventi); ad esempio: “Rispose come se avesse paura” (l’avere paura è presentato come potenzialmente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, spiegarlo), “Rispose come se avesse avuto paura” (l’avere paura è presentato come incertamente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, essere preso in considerazione tra le spiegazioni possibili).
Per quanto riguarda le due frasi confrontate, la prima presenta una comparazione ipotetica, la seconda presenta una comparazione oggettiva; con la prima, pertanto, l’emittente è più cauto nell’accostare il modo di camminare di Carlo a quello di un ubriaco. In ogni caso, la rappresentazione della comparazione non condiziona la costruzione della proposizione relativa (che non riesca / riuscisse). Questa proposizione può essere costruita nella prima e nella seconda frase tanto con il presente quanto con l’imperfetto; nel primo caso il riuscire è semplicemente rappresentato come presente, nel secondo si aggiunge una sfumatura ipotetica, conferita dalla sovrapposizione tra che non riuscisse e se non riuscisse.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?

 

RISPOSTA:

Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadrettia losanghea pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti afuori dainvece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.

L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.

 

RISPOSTA:

Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Stringo la coppa tra le mani” che funzione logica ha il sintagma tra le mani? Indica uno stato in luogo o un complemento di mezzo?

 

RISPOSTA:

Indica uno stato in luogo, ma l’interpretazione come complemento di mezzo è legittima. Non è raro che un’indicazione di luogo sia ulteriormente interpretabile come informazione circa un mezzo. Succede, per esempio, in espressioni come in trenoin macchinain bicicletta…: in una frase come “Vado a scuola in bicicletta”, infatti, il complemento introdotto da in indica il luogo in cui mi trovo mentre vado a scuola, ma quel luogo ha anche la funzione del mezzo con cui copro il tragitto.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Preposizione
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QUESITO:

Può essere ritenuto corretto (o almeno non scorretto) un uso della virgola dopo espressioni come a seguire e al termine?
Ad esempio: “Al termine, consegna della medaglia al vincitore”, “A seguire, assegnazione di una borsa di studio al miglior studente”.

 

RISPOSTA:

La virgola non è affatto scorretta; al contrario, è preferibile inserirla. In generale, i sintagmi che hanno la funzione di espansioni (ovvero contengono informazioni che non sono collegate al verbo o a un singolo argomento del verbo, ma riguardano l’intera frase) e sono inseriti all’inizio della frase vanno separati con la virgola dal resto della frase. Se, invece, le espansioni si trovano in coda, la virgola è opzionale: “Consegna della medaglia al vincitore al termine” / “Consegna della medaglia al vincitore, al termine”. L’inserimento della virgola accentua la rilevanza informativa dell’espansione. Se, infine, la frase lo consente, l’inserimento dell’espansione al centro della frase richiede tipicamente la separazione dal resto della frase con le virgole di apertura e chiusura: “La medaglia sarà consegnata, al termine, al vincitore”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.

 

RISPOSTA:

La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica, Pronome, Verbo
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?

 

RISPOSTA:

La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

Quale complemento rappresenta il sintagma introdotto da in base a nella seguente frase?
“È necessario agire in base alle esigenze del volgo”.

L’analisi logica non permette di classificare con la stessa precisione tutti i sintagmi possibili, nonostante la tipologia sia ricca (secondo alcuni persino troppo ricca). Nel caso in questione, il complemento più vicino alla funzione sintattico-semantica svolta dal sintagma in base alle esigenze è quello di causa, visto che si può parafrasare il sintagma con ‘in modo che il nostro agire sia l’effetto di’.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.

 

RISPOSTA:

Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.

Fabio Ruggiano

Francesca Rodolico

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QUESITO:

Quali frasi sono corrette?

1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi

Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone

 

RISPOSTA:

Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida

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QUESITO:

A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?

 

RISPOSTA:

In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nell’espressione spaziare da un argomento all’altro che complemento è da un argomento?

 

RISPOSTA:

Complemento di origine.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica
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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase “Mi piacciono molto i romanzi, soprattutto quelli di avventura”, di avventura è un complemento di specificazione o di argomento?

 

RISPOSTA:

Entrambe le risposte sono giustificate. Volendo essere pignoli, possiamo osservare che un romanzo di avventura non ha come argomento l’avventura, ma racconta una storia avventurosa, ovvero caratterizzata da avventurosità. Propenderei, pertanto, per il complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano

Parole chiave: Analisi logica