QUESITO:
A mio parere le parole combaciare, collimare, coincidere stanno a significare un contatto perfetto fra due superfici ma non necessariamente una fusione, mentre il termine collegare e aderire (come suggerisce l’etimologia) presuppongono non solo il contatto ma anche la fusione. Se ciò fosse vero, asserire che due superfici si trovano nel rapporto indicato dai primi termini (collimare, coincidere, combaciare), significherebbe tassativamente che esse si toccano ma non si fondono l’una con l’altra oppure il fatto che si fondino o meno resterebbe incerto?
RISPOSTA:
In nessuno dei verbi da lei presi in esempio emerge l’idea di “fusione” ma quella di “corrispondenza”. In casi come questo, l’etimologia delle parole può venirci in aiuto.
Collimare è una lettura errata del latino collineare (da cum + linea), che significava ‘mettere sulla stessa linea’ (in italiano diventa termine tecnico nell’astronomia e si espande con il significato generale di ‘coincidere’); coincidere deriva dal latino cum e incidere, cioè ‘cadere dentro insieme’; collegare, dal latino colligare, a sua volta composto da cum e ligare, significa ‘legare insieme’; aderire viene dal latino adhaerere, composto di ad, che significa ‘a’, e haerere, cioè ‘stare attaccato’; infine, combaciare che, come suggerisce la parola stessa, è composto da con e baciare.
Vedendoli insieme, tutti i verbi sono connessi semanticamente dall’idea di corrispondenza fra due unità e per nessuno di essi si può dire che ci sia un grado più o meno alto di “fusione”. Una frase come “due parti del materiale combaciano bene”, per significare che due parti sono perfettamente sovrapponibili, equivale a “due parti del materiale aderiscono bene” / “due parti del materiale coincidono bene” / “due parti del materiale collimano bene”; non è frequente, ma si può usare una frase come “due parti del materiale (si) collegano bene”. Il significato primario di collegare però indica che stiamo mettendo in contatto due parti, cioè che le stiamo unendo, come nella seguente frase: “collegare due parti del materiale”.
Escludendo aderire e coincidere, i cui significati primari sono ‘essere attaccato’ e ‘corrispondere perfettamente’, gli altri verbi in questione sono sovrapponibili nei loro significati figurati (combaciare, collimare) e nel loro uso intransitivo (collegare): “Le idee di Marta combaciano con le mie” equivale a “Le idee di Marta collimano con le mie”, “Le idee di Marta (si) collegano alle mie”.
In una frase come “Luca aderisce a quella manifestazione” il verbo aderire, invece, non può essere cambiato per via del suo uso figurato che significa ‘sostenere con la propria partecipazione’.
Raphael Merida
QUESITO:
Gradirei sapere se è corretto definire col termine situazione l’immagine di una foto che riproduce una realtà urbana del passato. Esempio: “Ricordo vagamente la situazione fissata da questa fotografia”.
RISPOSTA:
Certamente. Il sostantivo situazione può ben rappresentare una circostanza in un determinato momento. Per comprendere perché questa parola può adattarsi a vari contesti d’uso dobbiamo ripercorrere la sua etimologia. Il sostantivo situazione entra in italiano, probabilmente, attraverso il francese situation, a sua volta derivato dal latino medievale situare, verbo mantenuto intatto in italiano con il significato letterale di ‘mettere in un posto’ e con quello figurato di ‘inserire in un contesto’. Il verbo situare è un derivato del latino situs, il cui significato veicola già l’idea di luogo; tant’è che in italiano il sostantivo sito mantiene l’accezione di spazio fisico (“il sito archeologico di Selinunte è meraviglioso”) o figurato (“devo visitare il tuo sito internet”).
Raphael Merida
QUESITO:
I mesi dell’anno sono in italiano sostantivi, tuttavia pur essendo “nomi propri di cosa”, si scrivono con la lettera minuscola. È sbagliato ricondurre l’uso della lettera minuscola al fatto che vengano intesi come “aggettivi”’ del sostantivo “mese” (anche se sottinteso) come avviene, tra l’altro, in latino (dove sono aggettivi)?
RISPOSTA:
In italiano, i nomi dei mesi, così come quelli della settimana e delle stagioni, non sono dei veri nomi propri (in latino, molti nomi dei mesi erano derivati da nomi propri: Ianuarius ‘Giano’; Martius ‘Marte ecc.) e non richiedono l’iniziale maiuscola. A parte i casi di personificazione (per esempio in poesia), quelli in cui un nome è attribuito a una persona (per esempio Domenica, nome proprio di persona), o alcuni casi particolari che indicano una determinata occorrenza (il Sabato Santo, il Martedì grasso ecc.), i nomi dei giorni, dei mesi e delle stagioni non indicano un’unicità, ma una periodicità, cioè qualcosa che si ripete sempre. Nell’italiano antico e moderno i nomi che indicano data (come appunto i nomi dei giorni, dei mesi o delle stagioni) sono stati percepiti da un buon numero di parlanti come nomi propri e per questo scritti spesso con la lettera maiuscola. Nell’italiano contemporaneo questa percezione è venuta meno e l’uso della maiuscola può essere ricondotto all’influsso della grafia inglese che, al contrario di quella italiana, prevede l’iniziale maiuscola per questo tipo di nomi.
Raphael Merida
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).
RISPOSTA:
Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Ho sempre dato per scontato che la lunghezza fosse verticale e la larghezza orizzontale. E che quindi la longitudine fosse orizzontale e la latitudine verticale, essendo il nostro pianeta più lungo orizzontalmente che verticalmente.
Adesso però ho dei dubbi.
Nel grande romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, si accenna a un gradone che corre longitudinalmente verso il Nord, che taglia longitudinalmente la pianura. Non capendo come facesse un piano orizzontale a correre in lungo, ho cercato il significato di longitudinale: «che è disposto nel senso della lunghezza», «orizzontale, in lunghezza». Se è orizzontale, non dovrebbe essere disposto nel senso della larghezza?
RISPOSTA:
La longitudine si calcola in orizzontale (cioè, letteralmente, parallelamente all’Orizzonte), perché segna un punto a Est o a Ovest del meridiano di Greenwich. La latitudine, al contrario, segna un punto a Nord o a Sud dell’Equatore, quindi si calcola in verticale (cioè perpendicolarmente all’Equatore).
Bisogna, però, distinguere tra i nomi longitudine e latitudine e gli aggettivi longitudinale e latitudinale (nonché gli avverbi in -mente da essi derivati): i primi hanno un’applicazione esclusivamente scientifica (e sono usati nella lingua comune solo nelle locuzioni avverbiali in longitudine e in latitudine); i secondi sono usati regolarmente anche con un significato estensivo (che recupera il significato etimologico longus ‘lungo’ e latus ‘largo’), e in particolare longitudinale ‘esteso nel senso della lunghezza’, latitudinale ‘esteso nel senso della larghezza’. Di conseguenza, longitudinale diviene, nella lingua comune, equivalente a lungo (per cui longitudinalmente e in longitudine equivalgono a in lunghezza), mentre il meno usato latitudinale diviene equivalente a largo (e latitudinalmente e in latitudine equivalgono a in larghezza). Dal momento che, per convenzione, in una superficie la lunghezza è la dimensione più estesa e la larghezza quella meno estesa, nell’esempio da lei riportato il gradone descritto è un oggetto orientato nella stessa direzione della dimensione più estesa dell’area considerata.
Si noti che tanto la lunghezza quanto la larghezza sono dimensioni orizzontali, cioè parallele al piano dell’Orizzonte; nel caso di oggetti tridimensionali a queste si aggiunge l’altezza, che è la dimensione verticale, cioè perpendicolare al piano dell’Orizzonte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere la differenza tra : di questa e su questa.
Es: “non mi hanno detto nulla di questa cosa”;
“non mi hanno detto nulla su questa cosa”.
RISPOSTA:
Dire di o dire su si equivalgono perché sia la preposizione di sia la preposizione su introducono un complemento di argomento. L’oscillazione tra queste due preposizioni è da sempre presente in italiano, basti vedere alcuni titoli di opere del passato come “Sulle guerre di Fiandra” o “Dei sepolcri” (in quest’ultimo caso la preposizione di ricalca il complemento di argomento latino, costruito con la preposizione DE + ablativo come “De bello gallico”).
Raphael Merida
QUESITO:
Quali e quante sono le forme ormai cristallizzate che risulterebbero fuori norma se impiegate senza la “d” eufonica, a parte ad esempio, ad eccezione, ad ogni buon conto?
RISPOSTA:
Non esiste una norma precisa che regoli l’uso della d eufonica. Per esempio, alcune delle locuzioni da lei citate possono scriversi legittimamente senza la d eufonica: a eccezione di e a ogni buon conto (così sono riportate anche nei principali vocabolari dell’uso). Una delle rarissime eccezioni in cui la d eufonica è quasi sempre presente per via della sua specificità è la locuzione ad esempio, divenuta a tutti gli effetti una formula (insieme a per esempio). Tuttavia, potremmo trovare la locuzione a esempio in una frase tipo: “La pazienza di Luca viene sempre portata a esempio di virtù da imitare”.
In generale, la d eufonica, che in realtà è etimologica perché risalente a un d o a un t latini in ad, et o aut (da cui a, e, o), ha goduto nel corso del tempo di una certa elasticità: molto usata nella lingua antica, ridotta nell’italiano moderno. Secondo il linguista Bruno Migliorini, l’uso della d eufonica dovrebbe essere limitato ai casi di incontro della stessa vocale come in ad Alberto, ed ecco ecc., ma anche in esempi come questi, per via della flessibilità dell’italiano contemporaneo nei confronti dello iato (cioè l’incontro di due vocali di due sillabe diverse), si potrebbe omette la d come in “Ho chiesto a Luca e Erica”.
Insomma, l’uso della d eufonica non ha regole precise ma cammina costantemente con l’evoluzione della lingua e la sensibilità di chi parla o scrive.
Di seguito suggeriamo alcuni casi in cui l’aggiunta di una d sarebbe sconveniente (1 e 2) o da evitare (3 e 4):
- quando la presenza di una d appesantisce la catena fonica e la vocale della parola successiva è seguita da d come in “edicole ed editoriali”;
- in frasi come “si dice ubbidire od obbedire” perché la presenza della d dopo la vocale o risulterebbe ormai rara e antiquata.
- prima di un inciso: “Ho chiesto a Luca di uscire ed, ogni volta, risponde di no”;
- davanti alla’h aspirata di parole o nomi stranieri: “Case ed hotel” o “Sabine ed Halil”.
Raphael Merida
QUESITO:
Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?
RISPOSTA:
Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.
Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.
Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi sotto riportate, l’articolo e la proposizione, a seconda dei casi, posti tra parentesi, sono facoltativi (e quindi corretti) oppure errati?
La loro presenza nel testo, specie nel caso dell’articolo dei primi due esempi, modifica, anche lievemente, il senso generale del messaggio; oppure non c’è differenza tra le frasi complete e quelle ellittiche?
1) (Il) pensarti mi fa star bene.
2) (Il) leccarsi le ferite è un inutile atteggiamento di autocompatimento.
3) Mi spiace (di) non essere venuta alla festa.
4) Cerco (di) te.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte ben formate, sia con l’articolo (o la preposizione), sia senza. Nessuno dei quattro casi è però configurabile come ellissi, perché si tratta di costrutti alternativi e dotati di loro autonomia senza dover ipotizzare la caduta di un elemento. Nei primi due casi, addirittura, la trafila storica è esattamente al contrario: prima nasce la forma senza articolo, poi quella con articolo.
1) e 2) È sempre possibile trasformare un infinito in un infinito sostantivato, mediante l’aggiunta dell’articolo. Non c’è alcuna apprezzabile differenza semantica tra l’interpretazione come infinito sostantivato e l’interpretazione come completiva soggettiva; stilisticamente, la variante con l’infinito sostantivato è un po’ più pesante, dunque meno adatta a un contesto formale.
3) Le due frasi sono del tutto equivalenti. In molti casi l’italiano presenta alternative nella reggenza verbale, con o senza preposizione. La forma senza preposizione è la più antica (cioè come il latino, che non ammetteva la preposizione davanti all’infinito), mentre quella con la preposizione è più recente; quella con la preposizione è meno formale.
4) La forma con di è decisamente rara e ha anche una sfumatura semantica diversa: ‘chiedere di qualcuno’: «cercano dell’avvocato Rossi», cioè chiedono se c’è l’avvocato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Non mi preoccupano gli effetti avversi immediati, che dicono ESSERE improbabili, bensì quelli differiti”. Volendo scegliere questa linea espressiva è corretto l’ uso di quel essere?
RISPOSTA:
La costruzione delle proposizioni oggettive e soggettive con l’infinito e senza alcuna preposizione introduttiva ricalca quella delle proposizioni infinitive latine, che avevano proprio la funzione delle completive italiane. Tale costruzione è ancora contemplata in italiano, sebbene fosse più diffusa nei secoli passati e sia oggi rara e adatta allo scritto tecnico-scientifico e burocratico. Più comunemente si direbbe che dicono siano improbabili (si noti che anche con questa costruzione il che introduttivo della oggettiva è preferibilmente sottinteso per evitare la ripetizione).
Normalmente, la completiva con l’infinito richiede l’espressione del soggetto (corrispondente al soggetto in accusativo delle infinitive latine): “Gli antichi greci pensavano il fulmine essere un attributo di Zeus”. Nel suo caso, però, il soggetto è assorbito dal pronome relativo precedente, divenendo superfluo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il termine compagno deriva dal latino miedevale companio (“cum panis”) come è riportato nell’Etimologico Cortellazzo-Zolli della Zanichelli e in altri dizionari. Tuttavia mi piacerebbe sapere se è noto quando esattamente è stato introdotto nel Medioevo e le eventuali fonti più antiche conosciute dove compare la parola.
RISPOSTA:
Le consiglio di fare lei stesso questa ricerca, usando lo straordinario TLIO, a cui può accedere a questo indirizzo: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Vedrà che la parola è ben attestata già dalla metà del XIII secolo, quindi dagli albori della scrittura in volgare, in testi di varia provenienza.
Se, invece, a lei interessa non la prima attestazione in un volgare romanzo del territorio italiano della parola compagno, ma la prima attestazione in latino medievale della parola conpanio, il luogo da lei cercato è questo:
Si tratta di un articolo delle novellae della lex salica, di cui è difficile stabilire il periodo di redazione ma il cui terminus ante quem è l’inizio del IX secolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è da considerarsi errore l’espressione “più acerrimo” oramai di uso comune e presente anche in opere di Pirandello.
RISPOSTA:
La risposta più sintetica è: sì, è ancora da considerarsi errore, perché le grammatiche e i dizionari dell’italiano odierno considerano tuttora acerrimo come superlativo colto (latineggiante) di acre e agro, rispetto al meno colto agrissimo (pure possibile); come tale, non ammette alcuna gradazione (più acerrimo, meno acerrimo, il più acerrimo ecc.).
Ma, come ben sa, la lingua, la grammatica e la linguistica raramente ammettono risposte semplificate e rassicuranti, come ogni fenomeno umano e sociale. Acerrimo è sempre più spesso avvertito (e da anni: Pirandello: “Il mio più acerrimo nemico”, La rallegrata) come aggettivo autonomo, proprio in virtù della sua natura anomala rispetto al regolare agrissimo, e come tale si presta ad essere usato come aggettivo non superlativo, anche con più: più/meno acerrimo.
Secondo quanto osserva il glottologo Salvatore Claudio Sgroi, che sul concetto di errore produce tuttora decine di articoli, potremmo dire che su più acerrimo agiscono due regole:
– regola 1, etimologica: più acerrimo non è ammesso, per via della natura superlativa di acerrimo;
– regola 2, analogica e morfologica: acerrimo si distacca dagli altri superlativi, come tale ha acquisito una sua autonomia, tanto da consentire forme come più/meno acerrimo ecc.
Ciascuno è libero di optare per la regola 1 o 2.
Dato che ogni lingua è fatta non soltanto di regole ed eccezioni ma anche di percezioni (sociali), al momento la situazione è più o meno la seguente: sebbene anche autori colti (Pirandello), del passato e del presente, abbiamo usato più acerrimo, la maggioranza dei parlanti italiani colti attuali ritiene discriminante socialmente (cioè “da ignoranti”) l’uso di una forma come più acerrimo, che quindi ancora oggi è bene evitare nel contesto scritto formale.
Dato che ogni lingua cambia nel tempo, è molto probabile che tra pochi anni acerrimo perda completamente la propria trasparenza etimologica e venga dunque considerato un aggettivo non alterato a tutti gli effetti. A quel punto tutte le grammatiche e tutti i dizionari accoglieranno più acerrimo come forma normale e anche noi “reazionari” della lingua ci arrenderemo all’evidenza e scriveremo più acerrimo senza colpo ferire. Ma, finché ciò non accadrà, suggerisco di continuare a evitare forme quali più acerrimo, con buona pace di Pirandello e di Sgroi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Pronti è un verbo (participio presente) oppure un aggettivo? In questa frase sembra un participio presente: “i nuovi personaggi contano veramente: perchè pronti a sacrificare la loro vita per qualcosa di più grande”.
Se è un participio presente, qual è l’infinito? Ho trovato la forma verbale essere promente, che non avevo mai sentito, ma esiste?
RISPOSTA:
Pronti è la forma maschile plurale dell’aggettivo pronto. Effettivamente questo aggettivo ha un’origine verbale: continua, infatti, il latino PROMPTUM, participio perfetto del verbo PROMERE. Si badi, comunque, che il participio perfetto latino corrisponde grosso modo al participio passato, non al presente. Un aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) che continua un participio presente latino è, per esempio, presidente, dal latino PRAESIDENTEM, participio presente del verbo PRAESIDERE.
Si ricordi che i participi presenti italiani finiscono soltanto in -ante (amante) o -(i)ente (ardente, dormiente).
Oltre che dalla terminazione simile a quella dei participi presenti, l’idea che pronto potesse essere una forma verbale potrebbe essere stata suggerita dalla sintassi della frase: perché pronti, infatti, è una proposizione nominale, cioè senza verbo. In questo caso, però, è facile riconoscere che il verbo è essere sottinteso: perché sono pronti.
Per quanto riguarda promente, la forma non è attestata, cioè non è stata mai usata, ma è teoricamente esistente. Sarebbe il participio presente di promere, il verbo che continua proprio il latino PROMERE, etimologicamente legato anche a pronto, e che significa ‘manifestare’ o ‘estrarre’. Se fosse usato, quindi, promente significherebbe ‘manifestante’ o ‘estraente’. Va detto, comunque, che promere, oltre a essere un verbo difettivo, perché è stato usato soltanto alla terza persona singolare dell’indicativo presente, è anche molto raro e aulico; non ci sono molte possibilità, quindi, che promente venga mai usato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Esiste un equivalente italiano del proverbio latino sub pondere crescit palma?
RISPOSTA:
Il proverbio latino, più comune nella forma palma sub pondere crescit, può essere tradotto ‘la palma cresce sotto il suo peso’ o ‘la palma cresce sotto il peso’. Descrive metaforicamente l’idea che le difficoltà della vita rendono più forti.
In italiano molti proverbi o frasi celebri latine sono mantenuti e usati in originale, come parte del patrimonio culturale: ad impossibilia nemo tenetur, beati monoculi in terra caecorum, carpe diem, est modus in rebus, risus abundat in ore stultorum e decine di altri; potremmo dire, quindi, che le frasi latine non hanno quasi mai bisogno di un equivalente in italiano. Ironicamente, un equivalente di questa frase potrebbe essere quest’altra, ugualmente latina, che però circola anche in traduzione: ignis aurum probat, miseria fortes viros ‘il fuoco prova l’oro, la sventura gli uomini forti’. L’originale proviene dal De Providentia di Seneca (V, 10).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potrebbe cortesemente chiarirmi se in analisi grammaticale il nome solitudine è astratto o concreto e se è derivato da solo?
RISPOSTA:
Premetto che la distinzione tra concreto e astratto è spesso vaga e ambigua e, per quanto tradizionalmente sfruttata nelle grammatiche scolastiche, non aggiunge niente alla conoscenza del lessico. Ferma restando questa premessa, il nome solitudine è astratto, perché la sensazione descritta con questo nome non si può percepire attraverso i sensi. Certo, si può obiettare che il concetto stesso di sensazione è legato alla percezione dei sensi, quindi solitudine sarebbe concreto, ma è appunto in questa contraddizione che si fonda l’idea della vaghezza della distinzione.
Il collegamento tra la radice di solitudine e quella di solo è evidente, ma bisogna fare una precisazione. Il nome solitudine si è formato sulla base del nome latino solitudinem, mentre l’aggettivo solo si è formato sulla base del latino solum. In latino solitudinem deriva da solum, ma le due parole italiane solitudine e solo sono nate autonomamente. Non possiamo dire, quindi, che solitudine derivi da solo, perché le due parole in italiano hanno una storia separata; è chiaro, però, che le due parole sono corradicali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La lettera w fa parte dell’alfabeto italiano oppure è una lettera a parte di origine straniera?
RISPOSTA:
Precisiamo innanzitutto che w è un grafema, cioè un simbolo che corrisponde a un suono o fonema. Questa precisazione serve perché alcuni grafemi, tra cui anche questo, corrispondono a più di un fonema. Il termine lettera, invece, confonde il valore grafico con quello fonetico.
Il grafema w non fa parte dell’alfabeto italiano, che comprende solo 21 grafemi, ma rientra nell’alfabeto latino moderno. Fu inventato dagli scrittori anglosassoni del Medioevo per distinguere la u vocale dalla u semiconsonante (quella dell’inglese whisky) o consonante (quella del tedesco wafer).
Nell’alfabeto latino classico, infatti, il grafema u (maiuscolo V) aveva allo stesso tempo il valore consonantico della v, quello vocalico della u e quello semiconsonantico della u di whisky; quindi si potevano avere parole come uult (= vult ‘lui / lei vuole’).
In italiano, a partire dal XVI secolo il grafema u si stabilizzò con il valore vocalico (luce) e semivocalico / semiconsonantico (uomo); il grafema v con quello di consonante (vino). La w, invece, non fu accolta, ma rimase appannaggio delle lingue germaniche, che pure usano lo stesso alfabeto neolatino di base dell’italiano.
Il grafema w fu introdotto molto tempo dopo per poter scrivere alcuni nomi e parole inglesi o tedeschi (Washington, weltanschauung) e si pronuncia, di solito, come nella lingua di origine del termine, quindi u semiconsonante per parole di origine inglese e v per parole di origine tedesca.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?
RISPOSTA:
Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista:
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.
Fabio Rossi
QUESITO:
In aula, durante una lezione in cui si commentavano i versi finali del coro del quarto atto dell’Adelchi di Manzoni, nel termine colono (v. 119) uno studente coglieva una connotazione “ideologica”, estranea invece al termine contadino: colono, diceva, è chi lavora alle dipendenze di un padrone, coltivando terreni non di proprietà. Ne è nata una vivace discussione…
C’è del vero in quanto affermava? E qual è in realtà la sfumatura che diversifica i due sostantivi?
RISPOSTA:
Lo studente mostra una sottile conoscenza del lessico contemporaneo, nel quale, in effetti, con colono si designa un contadino dipendente, cioè un coltivatore di un fondo non suo. Diversa la natura del lessico poetico, spesso rivolto al passato, e in particolare al significato che le parole avevano in latino.
Qui Manzoni (il quale nella prosa si mostra ben più moderno che in poesia, dal punto di vista linguistico) utilizza colono nel significato originario di ‘agricoltore’ (dal verbo còlere ‘coltivare’). Si tratta dunque, nel caso dell’Adelchi, di un latinismo semantico, vale a dire di una parola italiana usata tuttavia nel significato della corrispondente parola latina.
Un dibattito siffatto, peraltro, mostra una bella vivacità sia degli studenti coinvolti sia del docente, in quanto stimola proprio l’arricchimento lessicale e l’approfondimento diacronico della lingua, colta nelle sue sfumature dagli usi poetici a quelli in prosa, dallo scritto al parlato, dagli usi arcaici a quelli contemporanei.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre problemi con le doppie. Come posso fare?
Grazie
RISPOSTA:
I suoi sono problemi più che legittimi, vista l’impossibilità a ricondurre la grafia delle doppie (o geminate) a una serie di regole semplici e sempre valide. Questo è stato a lungo un punto debole della norma dell’italiano scritto e ancora oggi molti parlanti sono incerti su alcuni casi, per via della discrepanza tra il parlato e lo scritto, perché non sempre a un suono rafforzato corrisponde un grafema raddoppiato. I casi problematici sono tanti e, in assenza di un rimedio certo, il primo consiglio che possiamo dare è allenarsi costantemente alla scrittura e alla lettura, non avendo mai timore o vergogna a usare il dizionario.
Per il resto, possiamo solamente accennare ai fenomeni principali alla base delle incongruenze tra il parlato e lo scritto, e suggerire alcuni accorgimenti pratici. Prima di tutto, osserviamo che le geminate possono occorrere solo tra due vocali o se precedute da una vocale e seguite da r o l (occorrere, attrito, applausi): non è, infatti, possibile raddoppiare una consonante che si trova tra due consonanti (contratto) o tra una vocale e una consonante diversa da r o l (vescovo).
Molte parole che la maggior parte dei parlanti italiani pronunciano con una consonante rafforzata a cui corrisponde un solo grafema (che comunemente è chiamato lettera) sono latinismi (detti anche parole dotte), ovvero prestiti dal latino, che mantengono, in tutto o in parte, la forma grafica che avevano originariamente (un po’ come i prestiti dall’inglese, che nello scritto si mantengono inalterati, o cambiano di poco, mentre nel parlato si adattano quasi del tutto alla fonetica italiana). Un esempio di latinismo è vizio (dal latino VĬTĬUM), che, infatti, da Firenze in giù si pronuncia *vizzio. In italiano, i fonemi (o suoni) /ts/ e /dz/, che corrispondono entrambi al grafema z, sono sempre rafforzati quando si trovano tra due vocali, ma se la parola in cui uno dei due occorre è un latinismo, al fonema rafforzato corrisponde un solo grafema. Per questo motivo abbiamo parole popolari, nelle quali la grafia rispecchia la fonetica, come azzoppare, carrozza, corazza, piazza, pazzia, puzza, spazzare ecc., e latinismi come armistizio, ospizio, abbreviazione, razione, sodalizio, inezia, spezia ecc. Purtroppo, essere consapevoli dell’esistenza dei latinismi non è utile nella pratica; non ci consente, cioè, di prevedere se un fonema si scriva scempio o raddoppiato. Un utile accorgimento, molto noto, è scrivere sempre scempia la z del suffisso -zione (tipico dei latinismi), ma anche quella della terminazione -zio, -zia, -zie con la i non accentata (ozio, screzio, amicizia, calvizie) e comunque la z seguita dalla i non accentata, a sua volta seguita da un’altra vocale (come in prezioso e preziario, anche se alla base c’è prezzo). Se la z è seguita da i accentata le cose si complicano, perché abbiamo le parole popolari pazzia e razzia, e le parole dotte abbazia (anche abazia), democrazia e tutti i derivati da -crazia (burocrazia, plutocrazia, tecnocrazia…).
Al contrario, le parole che finiscono con i fonemi /ts/ o /dz/ seguiti direttamente dalla desinenza (e ovviamente preceduti da una vocale) hanno tutte la doppia: lezzo, lizza, pazzo, pezzo, pizza, razza, rozzo, vezzo… Attenzione, il suffisso accrescitivo -one (come tutti gli altri suffissi: -oso, -ino, -erello…) applicato a queste parole mantiene la doppia z, quindi pezzone, puzzone ecc. (da non confondere con le parole in -zione come intuizione, pozione, azione, razione, stazione ecc.).
Specularmente, le parole che finiscono in -gione vogliono sempre una sola g: ragione, regione, pigione, prigione, magione, religione, stagione; tra quelle che finiscono in -ggio e quelle in -gio, invece, prevalgono quelle raddoppiate, ma bisogna stare attenti. Per la grafia del fonema /dʒ/ (corrispondente al grafema g seguito da i o e), infatti, oltre ai latinismi, creano dubbi anche i francesismi; dal francese derivano agio e disagio, malvagio, regìa, ma anche paggio, coraggio, selvaggio, formaggio e, in generale, il suffisso -aggio. Il fonema /dʒ/, inoltre, è rappresentato da una g sola anche in bambagia (dal latino BAMBACĬAM, per effetto della sonorizzazione della /tʃ/), legittimo (dal latino LEGĬTĬMUM), regio ‘regale’ (dal latino REGĬUM, a cui si contrappone la parola popolare reggia ‘dimora del re’), rigido (dal latino RĬGĬDUM), rigettare (perché il prefisso ri- non produce assimilazione, diversamente dai prefissi che finiscono in consonante, come in-, da cui irrigidire, irrituale, irrevocabile) e simili. Un trucco, per la verità soggetto a coincidenze sfortunate, per indovinare con quante g si scriva una parola che termina in -agio o -aggio è separare quest’ultima parte dalla parte precedente: se rimane una parola di senso compiuto, o che si avvicina a una parola di senso compiuto, la parte finale è il suffisso -aggio, altrimenti la parola semplicemente finisce in -agio: quindi a vassallo corrisponde vassallaggio, a forma formaggio, al verbo pestare pestaggio e, meno chiaramente, a cuore coraggio, al francese ligne ‘discendenza’ (a sua volta dal latino LINĔAM) lignaggio, ancora al francese feurre ‘paglia’ foraggio ecc.; malvagio, invece, è una parola senza suffisso, così come contagio (coincidenza sfortunata: conta- potrebbe sembrare una parola, ma basta osservare che contare non ha niente a che fare con le malattie per riconoscere questo come un falso positivo), magio, naufragio, plagio, presagio (anche per presa- vale la considerazione fatta per conta- a proposito di contagio) ecc. Lo stesso trucco funziona per le parole terminanti in -eggio e -egio: alpeggio (corrispondente a Alpi), maneggio (mano), palleggio (palla), ma ciliegio, collegio (che non ha a che fare con colle), egregio, pregio, privilegio, sacrilegio. Per la verità, in quest’ultimo si riconosce la base sacro, come in regio si riconosce re: sono i limiti di questo trucco un po’ arrangiato. Limiti ancora più evidenti quando -ggio e -gio sono precedute dalle altre vocali: in questi casi il trucco perde quasi del tutto valore. Bisogna dire, però, che si tratta di pochissimi casi. C’è una sola parola (a parte qualche altro termine raro) che finisce in -iggio: pomeriggio; qualcuna in più finisce in -igio (bigio, grigio, ligio, fastigio, litigio, prestigio, prodigio…). Pochissime anche quelle che finiscono in -oggio: alloggio, appoggio e poggio, moggio, sloggio e poche altre; ancora meno quelle in -ogio: elogio, mogio, necrologio, orologio e poche altre. Non si registrano, infine, parole in -uggio (ma ricordiamo uggia ‘noia’), mentre rare sono quelle in -ugio: archibugio, indugio, pertugio, rifugio, segugio, sotterfugio.
Anche tra le parole che finiscono in -ggine o -gine queste terminazioni sono quasi sempre precedute dalla vocale a (quindi -aggine o -agine). Poche di queste hanno una sola g: cartilagine, immagine, indagine, ma anche caligine, origine, scaturigine, vertigine. Molte di più sono quelle con la doppia g: si tratta soprattutto di parole che indicano difetti del carattere, come balordaggine, cafonaggine, cocciutaggine, infingardaggine, sbadataggine, sfacciataggine ecc.; accanto a queste troviamo lentiggine, fuliggine, ruggine, testuggine e poche altre.
L’opposizione tra parole popolari, che rispecchiano nella grafia la pronuncia delle consonanti, e parole dotte si manifesta anche nel raddoppiamento incostante della b: da una parte abbiamo abbiamo e abbia, abbaiare, abbinare, babbo, rabbia, scabbia (anche rabbino, non dal latino, ma dall’ebraico rabbi ‘maestro mio’) ecc.; dall’altra abietto, abitare, abitudine, inibire, bibita, imbibire, rubino ecc. In un caso, vanno bene entrambe le soluzioni: obiettivo e obbiettivo. Il francese ha dato un piccolo contributo anche in questo ambito, con bobina, cabina (da cabine ‘capanna’), carabina e carabiniere e qualche altra parola. Ad aumentare la confusione, può capitare che la parola base sia popolare, mentre le derivate (o alcune di esse) siano dotte: è il caso di dubbio, da cui derivano tanto dubbioso quanto dubitare; un caso simile a quello, già visto, di prezzo, legato a prezioso e preziario.
Ricordiamo, infine, le parole univerbate, che hanno la geminata per effetto del raddoppiamento fonosintattico. Questo fenomeno ci porta a rafforzare la consonante iniziale delle parole precedute da alcuni monosillabi (a, da, e, è, che e altri), pochi bisillabi (ad esempio sopra), e tutte le parole che finiscono con una vocale accentata. Per questo motivo re Carlo si pronuncia (tranne che in alcune regioni del Nord) reccarlo (cosa, tra l’altro, utile, perché permette di distinguere nel parlato re Carlo da recarlo ‘portarlo’, che si pronuncia come si scrive). Ovviamente, però, re Carlo si scrive così, con una sola C in Carlo, perché in italiano nessuna parola, che non sia un acronimo, può cominciare con due consonanti uguali (al contrario, esistono rarissime parole che cominciano con due vocali uguali: aaleniano, iinga, oocito e poche altre).
Alcune espressioni di largo uso nelle quali opera il raddoppiamento fonosintattico, però, con il tempo sono divenute parole uniche, ovvero univerbate, come appena (a + pena), dappoco ‘buono a nulla’ (da + poco), sebbene (se + bene), soprattutto (sopra + tutto), vieppiù (via + più) ecc. A volte l’univerbazione è opzionale; infatti si può scrivere anche a pena e da poco, a capo e accapo, da capo e daccapo (ma se bene invece di sebbene, sopra tutto al posto di soprattutto, via più al posto di vieppiù sono decisamente inusuali). Quel che conta, però, è che quando queste parole si scrivono univerbate, la consonante foneticamente rafforzata si scrive geminata, perché rappresenta il raddoppiamento fonosintattico prodottosi quando le parole erano separate.
Un tranello in cui non si deve cadere è unire nella scrittura espressioni che, sebbene del tutto simili ad altre univerbate, si scrivono ancora separate. Così, accanto ad apposta (a + posta) abbiamo a posto, che non si può scrivere *apposto (la parola apposto esiste: è il participio passato del verbo apporre; bisogna stare attenti a non fare confusione), ma anche a volte, che non si può scrivere *avvolte (anche in questo caso, la parola avvolte esiste: è il participio passato del verbo avvolgere), a poco a poco, non *appoco appoco ecc.
Fabio Ruggiano