QUESITO:
Ho una foto che ritrae un manipolo di Alpini. La foto è datata 1941. Ora vorrei scrivere, come didascalia, che questi soldati hanno combattuto l’anno successivo, nel 1942, sul fronte del Don.
Quale frase si fa preferire?
1) Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don.
2) Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don.
3) Combatterono nel ’42 sul fronte del Don.
Credo che siano tutte e tre accettabili.
Io preferisco la prima.
RISPOSTA:
Come giustamente dice lei, tutte e tre le frasi sono corrette. Si tratta qui di esprimere il futuro nel passato, cioè di parlare di un’azione passata che però non si era ancora verificata al momento dell’evento che si sta narrando (evento, per inciso, a me molto caro, visto che un prozio bersagliere umbro cui ero affezionato fu ferito alla gola nella battaglia del Don!). Quindi:
1) «Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don»: si sottolinea il fatto che nel 1941, anno in cui è stata scattata la foto, la battaglia del Don non era ancora avvenuta. In questo caso si dà valore sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
2) «Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don»: si focalizza la battaglia del Don e si lascia sullo sfondo l’anno della foto. Il 1941, peraltro, cioè l’anno in cui è stata scattata la foto, non scompare dall’attenzione dello spettatore, perché diventa l’hic et nunc da cui parte la narrazione.
3) «Combatterono nel ’42 sul fronte del Don»: sì focalizza soltanto la battaglia del Don e il 1941 scompare.
Tutte e tre le frasi sono corrette, ma esprimono punti di vista diversi, come in una scena cinematografica in cui il regista decide che cosa mettere più a fuoco rispetto al resto. Nel primo caso, sono a fuoco tanto la battaglia del Don quanto l’anno precedente, in cui è stata scattata la foto. Nel secondo caso, l’anno della foto è ancora più sfocato. Nel terzo caso, l’anno in cui è stata scattata la foto scompare del tutto. Se lei preferisce la prima (scelta legittima, come del resto anche le altre due) vuol dire che vuol dare il giusto rilievo sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
Il raffinato sistema della consecutio temporum in italiano consente di scegliere il punto di vista delle azioni narrate esattamente tanto quanto le lenti della macchina da presa consentono a un regista raffinato di far capire allo spettatore che cosa deve essere in primo piano e che cosa sullo sfondo. Un accorto uso della consecutio temporum, dunque, lungi dall’essere un mero esercizio retorico-grammaticale, consente dunque maggiori sfumature nello storytelling.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto la risposta di Fabio Rossi dell’8 gennaio 2024 su «anni fa» e «anni prima», ma non chiarisce esattamente un mio dubbio.
Trovo spesso frasi al discorso indiretto di questo genere: «Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Secondo voi, in questa frase si può dire «dieci anni fa»? A me sembra sbagliato, io direi «dieci anni prima» in una frase al discorso indiretto e «anni fa» al discorso diretto: «Mario, quando ti ho conosciuto, dieci anni fa, avevi dei capelli nerissimi».
RISPOSTA:
Come chiarito nella risposta da lei citata, «La locuzione temporale “X fa” (per es. “dieci anni fa”) può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione». Quindi, non è il fatto che l’espressione si trovi nel discorso diretto oppure indiretto a far scattare la scelta tra «prima» e «fa», bensì il fatto che, quando si dice o scrive «prima» o «fa», sia in effetti dieci anni prima del momento in cui lo si scrive o dice. Nella frase da lei riportata («Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi»), si comprende chiaramente che la frase è stata detta o scritta effettivamente dieci anni prima dell’evento riportato (cioè il fatto che lui avesse dei capelli nerissimi), quindi sono corretti tanto «dieci anni fa», quanto «dieci anni prima». Diverso sarebbe il caso in cui intervenisse un terzo termine temporale, passato rispetto al momento della narrazione e al momento dell’evento riportato (come già spiegato nella risposta citata). Per esempio (siamo nel 2024): «Nina stava pensando [nel 2024] al momento in cui reincontro Mario [nel 2014] e pensò che quando, dieci anni prima [cioè nel 2004], aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi». Ma se, come ripeto, Nina narra nel 2024 di come Mario avesse i capelli nel 2014, vanno vene sia «prima» sia «fa»: «Nina pensò che quando, dieci anni fa/prima, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda l’ammissibilità del congiuntivo presente nella relativa esplicita dopo il passato prossimo nella reggente:
“Nel mio libro ho immaginato qualcosa che abbia anche un valore pedagogico”; che quindi abbia tale valore oggi e ogniqualvolta venga letto”.
Ora se, come da consecutio, mettessi qualcosa che avesse anche… farei riferimento al presente della scrittura, cioè a qualcosa di passato, concluso. Ma poiché il libro è di per sé rivolto a futuri lettori mi sembrerebbe più calzante il congiuntivo presente.
RISPOSTA:
La proposizione relativa è svincolata dalla consecutio temporum: al suo interno, il tempo verbale si riferisce non alla relazione con il tempo della reggente, ma al tempo in sé: passato, presente o futuro. Di conseguenza il congiuntivo presente è pienamente legittimo, per sottolineare che il possesso del valore pedagogico è pancronico, cioè valido sempre. Va comunque rilevato che è possibile usare il congiuntivo imperfetto avesse nella relativa, mantenendo la prospettiva fissata dal verbo della reggente, che parte dal passato. L’imperfetto, del resto, non esclude l’interpretazione pancronica del contenuto della relativa: non solo, infatti, il passato prossimo nella reggente descrive un evento agganciato al presente, ma la relativa al congiuntivo assume anche una sfumatura consecutivo-finale che ne proietta il contenuto nella posterità.
L’imperfetto non è escluso neanche nella relativa giustapposta e nella coordinata seguente, che sono inequivocabilmente collocate nel presente e nel futuro: che quindi avesse tale valore oggi e ogniqualvolta venisse letto; qui, però, il congiuntivo presente è preferibile, perché l’accostamento di avesse e oggi nella giustapposta crea un effetto di discorso indiretto libero che può risultare straniante (per quanto non possa dirsi scorretto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io dico «non penso che ricapiti a me» e mi rispondono con «speriamo» vuol dire che sperano che quell’azione accada o non accada?
RISPOSTA:
Se la lingua funzionasse soltanto grazie alle regole sintattiche e se gli elementi sottintesi fossero da recuperare rigidamente in quel che è stato detto o scritto subito prima, non c’è dubbio che la reazione «speriamo» alla frase «non penso che ricapiti a me» si possa interpretare soltanto come ‘speriamo che ricapiti a te’. Sempre secondo il rigido rispetto delle regole sintattiche, la reazione atta a esprimere l’auspicio che la cosa non ricapiti dovrebbe essere «speriamo di no». Tuttavia, dato che la lingua, o per meglio dire l’attività comunicativa, funziona anche in base alle inferenze e alla cooperazione tra gli interlocutori, ovvero grazie alla capacità di ricostruire la coerenza degli enunciati in base alla propria esperienza del mondo, oltreché in base a quanto detto negli enunciati precedenti, considerando anche la presenza della negazione all’inizio della prima frase («non penso che…»), la reazione «speriamo» può anche essere interpretata, con buona probabilità, nel senso di ‘speriamo che non ricapiti a te’. In casi come questi, in cui si pone il dubbio che qualcosa possa o non possa essere, possa o non possa accadere e simili, sarebbe meglio, a scanso di equivoci, precisare sempre «speriamo di sì» / «speriamo di no», e simili. Tuttavia, dato che il contesto aiuta quasi sempre a disambiguare gli enunciati, è probabile che gli interlocutori siano in grado di dare la giusta interpretazione del caso in questione. Se l’interlocutore che dice «speriamo» si mostra solidale con il primo interlocutore, se non gli dimostra astio o simili, perché mai dovrebbe augurarsi che all’altro capiti qualcosa che il primo spera che non accada? In conclusione, è sempre bene sforzarsi di essere chiari, senza però dimenticare che la comunicazione è un’attività da compiere in due (o più di due), cioè un mittente (o più d’uno) e un ricevente (o più d’uno), che si scambiano di ruolo e che debbono necessariamente cooperare alla codifica e alla decodifica degli atti comunicativi, se davvero vogliono comprendersi reciprocamente. L’inferenza, cioè la capacità di comprendere anche le informazioni non dette, è un’abilità cognitiva indispensabile alla comunicazione, poiché non è possibile rendere sempre tutto esplicito negli enunciati. In caso contrario, gli enunciati sarebbero sempre di una lunghezza snervante al punto da essere inservibili e da far fallire la comunicazione. Ogni comunicazione si regge dunque sul sottile equilibrio tra esplicito e implicito, tra detto e non detto, e soprattutto sulla volontà degli interlocutori di cooperare e di venirsi incontro reciprocamente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vattene, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Invito un amico ad una festa per l’indomani. Mi risponde che non può partecipare. Al che gli dico:
1 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi venuto.
(Ma non è giusto, così sembra che la festa sia già passata, mentre avrà luogo in futuro).
2 – Mi sarebbe piaciuto se tu potessi venire.
(Neanche qui è giusto. L’amico ha già detto che non verrà).
3 – Mi sarebbe piaciuto se tu saresti venuto.
(Credo che sia totalmente sbagliata).
4 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi potuto venire.
(Qui ho dei dubbi: perchè in effetti la festa non ha avuto ancora luogo).
Naturalmente, nel linguaggio informale potremmo dire
5 – Mi sarebbe piaciuto se potevi venire.
(Ma mi sembra una forma un po’ sciatta).
RISPOSTA:
La variante 1 è legittima: che la festa non sia avvenuta è ininfluente; quello che conta è che l’amico ha già dichiarato che non parteciperà, quindi la sua mancanza deve essere rappresentata come avvenuta. Proprio per questa ragione è impossibile se tu potessi venire (come anche se tu venissi, non presente tra le alternative): c’è una incoerenza interna in questa frase tra mi sarebbe piaciuto, che presenta lo stato d’animo come condizionato da un evento irrealizzabile, e la protasi con il congiuntivo imperfetto, che presenta l’ipotesi come possibile. L’alternativa “Mi piacerebbe se tu venissi” (o potessi venire), del resto, risulterebbe incoerente con il contesto, visto che, come si è detto, la partecipazione è stata già esclusa. La 3 è impossibile, perché la proposizione ipotetica non ammette il modo condizionale. La 4 è equivalente alla 1, con la sola aggiunta del verbo servile, che non modifica la costruzione generale della frase. La 5 è la variante informale della 4.
Aggiungo anche un’ulteriore variante: “Mi sarebbe piaciuto che tu venissi (o potessi venire)”. Con la sostituzione di_se_ con che la proposizione subordinata diviene soggettiva; al suo interno il congiuntivo imperfetto non indica l’ipotesi possibile ma la contemporaneità nel passato con proiezione nella posteriorità rispetto alla reggente. In questo modo la reggente esprimerebbe ancora il dispiacere condizionato da un evento non realizzabile (la partecipazione dell’amico alla festa), ma tale evento sarebbe lasciato implicito, mentre la subordinata descriverebbe semplicemente l’argomento del dispiacere. Possibile sarebbe anche “Mi sarebbe piaciuto che tu fossi venuto (o fossi potuto venire)”, che rappresenterebbe il venire come precedente al dispiacere, sottolineando il rapporto di causa-effetto tra i due eventi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella biografia di Kim Jong-Un su Wikipedia ho trovato la seguente frase: “Nonostante i provvedimenti presi da Kim Jong-il, in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avesse davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”. Il mio dubbio è: non era chiaro se introduce oppure no un’interrogativa indiretta? E se sì, la frase avrebbe dovuto essere “Non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”? Quindi al posto del congiuntivo trapassato andava messo il condizionale passato che svolge in questo caso la funzione di “futuro nel passato”? Oppure questa subordinata può essere interpretata sia come Interrogativa Indiretta che come subordinata condizionale? A me la frase imputata è come se suonasse simile a una così: “All’epoca dei fatti non si sapeva se il governo nordcoreano avrebbe voluto seguire il percorso che gli era stato tracciato”. Inoltre, se il mio ragionamento è giusto, la frase “… se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire ecc.” puo’ svolgere anche la funzione di apodosi di un periodo ipotetico?
RISPOSTA:
La subordinata è una interrogativa indiretta, costruita con il congiuntivo trapassato. La scelta di questa forma verbale è perfettamente in linea con la norma grammaticale, se si vuole intendere che l’evento descritto nella subordinata precede quello descritto nella reggente, che è già passato. In astratto, quindi, la frase è ben costruita e significa che in seguito alla morte di Kim Jong-il non era chiaro se mentre il dittatore era in vita il governo aveva effettivamente voluto seguire il percorso da lui tracciato. Se si legge il cotesto in cui la frase è inserita (cioè le frasi che la circondano) , però, diviene chiaro che il senso inteso non è questo: la domanda riguarda l’intenzione del governo di seguire il percorso del dittatore dopo la sua morte. Il congiuntivo trapassato è, quindi, sbagliato in relazione al cotesto: la forma richiesta è il condizionale passato (avrebbe voluto). L’interrogativa indiretta se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto… può reggere una proposizione ipotetica, divenendo l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio “… in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato, se avesse avuto la possibilità di fare altrimenti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si scrive “Non so chi tu sia”, “Non so tu chi sia” o “Non so chi sia tu”? la prima sembra l’opzione più comune.
RISPOSTA:
La forma più naturale della frase è la prima, con la proposizione principale, non so, che regge una subordinata interrogativa indiretta al congiuntivo introdotta da un pronome interrogativo, chi tu sia. La seconda versione si spiega con l’intento del parlante di tematizzare il soggetto, cioè sottolineare, anticipandolo, che esso rappresenta l’informazione sulla quale verte il contenuto del pezzo di frase seguente. Con questo movimento, si noti, si crea una forzatura sintattica, perché il soggetto della subordinata viene a trovarsi all’interno della reggente (non so tu | chi sia) oppure la subordinata è costruita in modo anomalo (tu chi sia). Per questa ragione questa versione è adatta al parlato ma non allo scritto.
Anche la terza versione è il risultato di un intento pragmatico, come la seconda: in questo caso il soggetto della proposizione subordinata è focalizzato attraverso lo spostamento a destra. Tale sfumatura pragmatica, che nel parlato è accompagnata da un innalzamento del tono della voce, lascia intendere che ci sia un confronto con un altro soggetto. Per la verità, questa formulazione sembra più teorica che concreta: non è facile immaginare un contesto in cui potrebbe essere effettivamente usata; se ne può immaginare una variante inserita in una conversazione del genere:
- Non so più chi sei.
- No, io non so chi sia tu.
Lo spostamento a destra del soggetto non produce forzature sintattiche: la frase così formata è, quindi, comunque più adatta al parlato che allo scritto (in quanto marcata), ma nello scritto non determina un abbassamento stilistico.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.
RISPOSTA:
La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».
«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?
Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?
RISPOSTA:
Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».
Fabio Rossi
QUESITO:
Ci vuole o no l’accento sulla e nella frase “E / È certo che spengo le luci”?
Io credo che ci voglia, eppure, dopo essermi confrontato con dei conoscenti, loro hanno detto di no. Sinceramente non capisco perché non ci voglia. Mi è sempre stato insegnato che se si sostituisce la e con essere oppure con un tempo passato del verbo essere e la frase ha senso, allora ci vuole l’accento sulla e, e in questo caso a me sembra proprio che le sostituzioni possono essere fatte: “Essere certo che spengo le luci” oppure “Era certo che spegnevo le luci” o ancora “Era (un fatto) certo che spegnevo le luci”. Se non ci vuole l’accento, potete spiegarmi, cortesemente, il perché?
RISPOSTA:
In questo caso avete ragione sia lei sia i suoi conoscenti: la frase può cominciare sia con e sia con è. Nel primo caso la e serve come segnale discorsivo, cioè come elemento che segnala la presa di turno nel parlato, e nello stesso tempo rafforza l’assertività dell’affermazione, un po’ come se facesse intendere “Non potrei fare altrimenti”. Un uso simile lo vediamo in una frase come “E come no?”, in cui, appunto, la e iniziale conferisce maggiore enfasi all’affermazione nascosta sotto la domanda retorica (“E come no?” = “Certamente sì, non potrebbe essere altrimenti”). Nel secondo caso vale la sua spiegazione; con il verbo essere il parlante intende soltanto confermare che l’azione è certa. Nove volte su dieci il parlante intenderà “E certo che spengo la luce”, non “È certo che spengo la luce”: qust’ultima costruzione, infatti, per quanto corretta in astratto, sarebbe coerente in ben poche situazioni comunicative autentiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.
RISPOSTA:
La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi su queste frasi:
1) Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (o fosse calato), avresti potuto comprarla.
2) Non appena/Quando sarebbe arrivato (fosse arrivato) il tuo turno, avresti potuto alzare la mano.
3) Finché non sarebbe sorto il sole, non si sarebbe svegliato.
Mi viene spontaneo usare il condizionale passato dopo Quando/Non appena/Finché, eppure, dopo aver fatto una piccola ricerca su internet, ho potuto constatare che è molto più diffuso il congiuntivo trapassato (come se quando, non appena e finché eqivalessero a se). È corretto usare il condizionale passato nelle frasi che vi ho sottoposto?
RISPOSTA:
Il condizionale passato è corretto tanto quanto il congiuntivo trapassato. In particolare, nelle prime due frasi il condizionale rappresenta gli eventi come successivi ad altri eventi passati (e secondariamente condizionati dagli stessi eventi). Si noti che se trasportiamo la prima frase al presente avremo “Quando il prezzo calerà potrai comprarla”: tanto il calare quanto il poter comprare sono rappresentati come fatti che avverranno nel futuro. Ebbene, se l’evento futuro è collocato nel passato, esso si costruisce, per l’appunto, con il condizionale passato: questa forma corrisponde, quindi, al futuro nel passato. Gli eventi rispetto a cui il calare e l’arrivare sono sucessivi non sono esplicitati, ma il ricevente non può che presupporre la loro esistenza proprio per via dell’uso del condizionale passato. Il ricevente, cioè, rappresenta nella sua mente la prima frase come “Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…” e la seconda, ugualmente, come “Non appena/Quando sarebbe arrivato il tuo turno (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…”.
Il congiuntivo trapassato rappresenta gli stessi eventi come non fattuali, e più precisamente come ipotetici; il suo uso è attratto dal condizionale passato della proposizione reggente, che viene identificato dal parlante come una conseguenza, rispetto alla quale è necessario individuare un’ipotesi. Le congiunzioni che introducono le proposizioni sono, quindi, equivalenti a se (come suggerito da lei) e tutta la frase diventa una sorta di periodo ipotetico del terzo tipo.
La terza frase è apparentemente diversa dalle prime due perché il sorgere del sole è per definizione non ipotetico. Immagino che per questo motivo lei proponga soltanto la variante con il condizionale passato. Il congiuntivo trapassato è, invece, corretto anche in questo caso: con finché non fosse sorto, infatti, l’emittente intenderebbe non se non fosse sorto, che sarebbe illogico, ma se non prima fosse sorto, che sottolinea la consecutività del rapporto tra il sorgere del sole e lo svegliarsi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».
I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?
RISPOSTA:
Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».
Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:
“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,
– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)
– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”
– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.
RISPOSTA:
Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.
Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.
Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.
Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.
Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?
RISPOSTA:
Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.
RISPOSTA:
Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?
RISPOSTA:
La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?
RISPOSTA:
L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesse, avrebbe voluto, voleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito è duplice. Mi farebbe piacere sapere se nella frase “Non feci in tempo a scansarmi che l’uomo in bicicletta mi travolse” ci troviamo di fronte a un caso di che polivalente. Io lo percepisco come tale e mi sentirei di segnalarlo e correggerlo in un tema. Non trovo però una forma valida con cui sostituirlo senza intervenire su tutta la struttura della frase, ad esempio “L’uomo in bicicletta mi travolse senza che potessi fare in tempo a scansarmi”. Più in generale mi chiedo spesso se i tratti di italiano neo-standard vadano corretti o accettati in ambito scolastico.
RISPOSTA:
In frasi come la sua il connettivo che è usato con una funzione esplicativo-consecutiva, che rientra tra quelle raggruppate sotto l’etichetta di che polivalente. La stessa funzione può essere ravvisata in frasi come “Tu esercitati, che prima o poi avrai successo”, o “Vieni che ti spiego tutto”. Quest’uso è certamente tipico del parlato di formalità medio-bassa (come suggerisce il senso stesso delle frasi esempio); la sua accettabilità nello scritto di media formalità, invece, oscilla in relazione alla sensibilità dei parlanti e alla costruzione dell’intera frase. Nella sua frase, per esempio, l’uso ha un’accettabilità più alta che negli esempi fatti da me, perché non fare in tempo che è un costrutto quasi cristallizzato (un costrutto pienamente cristallizzato di questo tipo è fare in modo che). Per la verità, un’alternativa del tutto standard (e per questo meno espressiva) alla costruzione che non richieda lo stravolgimento della frase esiste: “Non feci in tempo a scansarmi: l’uomo in bicicletta mi travolse”. La variante sintattica, si noti, rivela che il che polivalente è spesso un “riempitivo” coesivo per un collegamento logico che altrimenti rimarrebbe implicito; anche nei miei esempi, infatti, il che si può semplicemente eliminare (con l’effetto secondario di elevare il registro).
Anche per altri tratti del neostandard l’accettabilità dipende oltre che, ovviamente, dal contesto, dalla sensibilità dei parlanti e dalla costruzione dell’intera frase. Per esempio, una dislocazione a sinistra come “Questo argomento lo tratteremo la prossima volta” è più accettabile di “Di questo argomento ne parleremo la prossima volta”, perché anche se in entrambe le frasi la tematizzazione del costituente rafforza il collegamento con la frase precedente, nella seconda la ripresa pronominale non è necessaria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi seguenti sono esempi di ridondanza, oppure rappresentano dei rafforzativi legittimi?
“È un libro che ho (già) letto due volte”.
“Lui ha reagito con un ‘ciao’ e lei ha reagito (a sua volta) con un sorriso tirato via”.
Ho fatto riferimento al fenomeno della ridondanza perché mi pare che le due costruzioni funzionino anche senza le parti inserite tra parentesi. Se la mia osservazione è corretta, vi domando se sia consigliato mantenere o rimuovere tali parti.
RISPOSTA:
L’avverbio già e la locuzione avverbiale a sua volta sono ridondanti solo apparentemente, mentre a un’analisi più attenta contribuiscono a costituire il significato delle frasi in cui sono inseriti.
Nella prima frase, già punta l’attenzione sul fatto che la doppia lettura è avvenuta in un periodo che si è concluso; la frase senza già, invece, sottolinea che la lettura si è ripetuta. Questa differenza potrebbe essere appena percepibile o, al contrario, molto rilevante a seconda del contesto in cui la frase è inserita. Se, per esempio, il parlante avesse appena ricevuto il libro in questione in regalo, la frase con già implicherebbe che tale regalo lo ha deluso (perché ha già letto quel libro due volte); quella senza già, invece, implicherebbe piuttosto che il regalo lo ha sorpreso (perché conosce benissimo quel libro, e lo apprezza molto, tanto da averlo letto due volte).
Nella seconda frase, a sua volta è ancora più necessario: se lo eliminiamo viene meno l’esplicitazione della reciprocità del saluto e il lettore non può, quindi, stabilire se i due personaggi si stiano salutando a vicenda o stiano entrambi salutando un terzo personaggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto iniziare una frase, che non ne precede altre, con affinché?
RISPOSTA:
Sì, l’ordine delle proposizioni all’interno di una frase può variare, quindi una proposizione subordinata finale introdotta dalla congiunzione affinché può precedere la reggente, come nel seguente esempio: “Affinché la torta sia cotta [subordinata], il forno deve mantenere una temperatura di 150 gradi [reggente]”. Sarebbe sbagliato, invece, lasciare la subordinata sospesa, cioè senza la proposizione reggente; una frase come *Affinché la torta sia cotta risulterebbe priva di senso.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella seguente frase il congiuntivo cerchino è preferibile rispetto all’indicativo cercano?
“Scelgo le forme che non cercano scopi per descrivere quello che sento per te”.
RISPOSTA:
No: l’indicativo è la forma migliore, perché l’antecedente del relativo, le forme, è determinato, quindi non si armonizza bene con il congiuntivo, che renderebbe la qualità del cercare scopi eventuale, quindi indeterminata. Diversamente, il congiuntivo sarebbe possibile, ma comunque non obbligatorio, se la frase fosse “Scelgo forme che non cerchino scopi…”. In questo caso cerchino sarebbe interpratato come un processo consecutivo-finale (come se le forme fossero scelte allo scopo di non cercare scopi), mentre cercano qualificherebbe in astratto le forme scelte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel periodo: “Avevo visto Mario e gli avevo chiesto di passare dal mio studio, ma non ha portato i documenti che avrei dovuto consultre” la coordinata avversativa ma non ha portato i documenti è da considerare legata alla coordinata copulativa e gli avevo chiesto oppure alla subordinata oggettiva di passare dal mio studio?
RISPOSTA:
La coordinata introdotta da ma è formalmente collegata alla coordinata alla principale e gli avevo chiesto; nessun elemento al suo interno, infatti, può collocarla su un piano della gerarchia sintattica diverso dal primo. Certo, se sottraessimo la subordinata oggettiva, il contenuto della seconda coordinata non sarebbe comprensibile (e gli avevo chiesto, ma non ha portato i documenti); questo, però, è un effetto della forza del legame di subordinazione completivo (quello che lega gli avevo chiesto e di passare dal mio studio), per il quale la reggente risulta incompleta senza la subordinata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Mario è nato al rombo del cannone” o “Mario era nato al rombo del cannone”? A mio parere la prima espressione è corretta a patto che Mario sia ancora in vita, la seconda invece è da preferirsi qualora Mario sia ormai defunto. Vorrei sapere se questa mia opinione è corretta.
RISPOSTA:
La sua interpretazione, ancorché non del tutto priva di qualche intuizione, è troppo rigida e quindi, sì, infondata nella sua assolutezza. Sebbene il passato prossimo indichi di norma una conseguenza o una ricaduta (talora in verità più teorica, o “pragmatica”, che reale) dell’azione al passato sul tempo presente, e il remoto tenda a escludere, invece, tale ricaduta, i due tempi sono ampiamente intercambiabili in italiano (tranne che per verbi dal significato decisamente durativo, non puntuale, quali capire e sentire in espressioni quali hai capito, hai sentito e simili, decisamente substandard, o regionali, se al passato remoto in certi contesti: *capisti, *sentisti e simili), con una maggiore formalità per il passato remoto. Quindi, anche per una persona defunta, posso ben dire, per esempio: «Giacomo Leopardi è nato a Recanati» (e non necessariamente «nacque»). Quanto al trapassato prossimo, esso implica di norma il rapporto di anteriorità rispetto ad altro evento sempre al passato. Nel suo esempio, peraltro sempre corretto, dunque, «era nato» non ha nulla a che vedere col fatto che Mario sia morto o vivo e vegeto, bensì con l’eventuale prosecuzione del discorso, al passato, con altre azioni o eventi legati a Mario: «era nato al rombo del cannone mentre era in corso la seconda guerra mondiale».
Fabio Rossi
QUESITO:
1. Seppur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
Mi è capitato di sentire delle frasi del genere e mi chiedevo se fossero corrette.
Per me, le uniche due versioni corrette sono quelle formate da “seppure” + verbo di modo finito e “pur(e)” con gerundio:
2. Seppure io abbia sbagliato, ho fatto tutto in buona fede.
3. Pur sbagliando, ho fatto tutto in buona fede.
RISPOSTA:
La frase 1. è senza dubbio scorretta; la 2. e la 3., invece, sono ben formate. Le proposizioni concessive esplicite, come nel caso di 2., possono avere il verbo al congiuntivo o all’indicativo, a seconda delle congiunzioni dalle quali sono introdotte. Reggono il congiuntivo, per esempio, le congiunzioni seppure, sebbene, malgrado ecc.: “Seppure/Sebbene/Malgrado abbia sbagliato”; regge l’indicativo una locuzione congiuntiva come anche se: “Anche se ho sbagliato”. Le concessive implicite, come nel caso di 3., sono costruite invece con il gerundio (o con il participio e in rari casi con l’infinito) preceduto da un connettivo come pure: questa costruzione è possibile soltanto nel caso in cui il soggetto della concessiva coincida con quello della reggente.
Raphael Merida
QUESITO:
- Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.
Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.
- Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
- Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
RISPOSTA:
La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le mogli litigano con i mariti.
Le fidanzate ballano con i fidanzati.
Le mamme aspettano i figli all’uscita della scuola.
Vorrei sapere se questi tre esempi (che sono solo alcuni tra i tanti ricavabili nei contesti più disparati) creano, per così dire, delle relazioni semantiche ridondanti tra le “categorie” che citano all’interno della medesima frase.
È evidente che una moglie è tale se e solo se sussiste un marito, e lo stesso dicasi per una mamma in funzione di un figlio, ecc.
Non sarebbe stato sufficiente, e forse anche meno ridondante, citare una categoria più “ampia“ (una delle due, o quella del soggetto o quella dell’oggetto), senza per questo disperdere la semantica generale della frase?
Le donne litigano con i (propri) mariti.
Le fidanzate ballano con i (propri) fidanzati.
Le donne (le ragazze) aspettano i (propri) figli…
Quali soluzioni suggerireste?
RISPOSTA:
L’eliminazione della ridondanza è un proposito decisamente salutare nella scrittura, sebbene nessuna lingua possa eliminarla del tutto: il rumore di fondo (cioè la ridondanza) talora serve a far capire meglio i concetti e a veicolare meglio gli atti comunicativi. Nei casi dai lei proposti mi sembra che il suo giudizio sia forse un po’ troppo severo, e oltre tutto nel secondo caso non propone (forse per mero refuso) alcuna alternativa: «le fidanzate ballano con i fidanzati» (forse voleva intendere le ragazze?). Quello che risulterebbe invece davvero inutilmente ridondante sarebbe «propri»: è infatti del tutto controintuitivo che le fidanzate ballino con fidanzati altrui, o che le mogli litighino con mariti altrui ecc. Sicuramente, le altre sue alternative sono possibili, e il senso non ne risentirebbe (grazie all’inferenza semantica del contesto, come lei stessa ben intuisce). Tuttavia, non mi sentirei di affermare che «le donne litigano con i mariti» sia migliore di «le mogli litigano con i mariti» ecc. Anzi, tutto sommato, la seconda alternativa mi sembra più precisa, e dunque preferibile: «le ragazze aspettano i figli» potrebbe addirittura ingenerare l’equivoco di interpretare «ragazze» come ‘baby-sitter’ (per esempio) che aspettano figli di altre. E simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedere un parere su questa frase: “Io da piccolo ero geloso di mio cugino, ma con il passare degli anni noi abbiamo creato un legame che oggi è saldo. Nel 2021 lui aveva subito un incidente e sua moglie non mi aveva avvisato, lo avevo saputo solo quando i vicini mi informarono. Andai subito a trovarlo.”
Non si dovrebbe usare solo il passato remoto (subì, avvisò, seppi)?
RISPOSTA:
No, perché il trapassato prossimo serve a indicare un evento passato rispetto a un altro, anch’esso passato. In questo caso l’evento dell’incidente è trapassato perché è precedente all’altro evento, quello dell’informare.
Raphael Merida
QUESITO:
Si dice: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa (o prima?), aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi».
RISPOSTA:
La locuzione temporale “X fa” (per es. «dieci anni fa») può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione. Quindi, ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni fa, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» vuol dire che il povero padre, nel momento in cui è morto (cioè dieci anni fa, rispetto al momento in cui si fa l’affermazione, e dunque nel 2014), aveva già pensato al futuro dei figli. «Prima», invece, è usato rispetto a un altro termine temporale, sempre al passato, oltre al momento in cui si riporta l’evento. Quindi, sempre ponendo che chi sta parlando lo stia facendo adesso, nel 2024: «Mio padre, prima di morire, dieci anni prima, aveva già pensato al futuro dei suoi ragazzi» significa che il padre dieci anni prima di morire aveva già pensato al futuro dei figli. Per cui, ponendo che il padre sia morto nel 2014, già nel 2004 aveva pensato al loro futuro. Per riassumere: si usa «dieci anni fa» se i riferimenti temporali sono soltanto due, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento e il momento in cui l’evento è avvenuto; si usa invece «dieci anni prima» se i riferimenti temporali sono tre, cioè il momento in cui si parla o scrive dell’evento, il momento in cui l’evento è avvenuto e un terzo momento (cioè, per l’appunto, «dieci anni prima dell’evento 2, cioè quello della morte). Se io dico, nel 2024, «ci siamo conosciuti due anni fa», vuol dire che ci siamo conosciuti nel 2022; ma non posso dire «ci siamo conosciuti due anni prima», perché chi mi ascolta chiederebbe «prima di che cosa?». Posso invece dire: «ci siamo conosciuti due anni prima della maturità (oppure: due anni prima che finissimo la scuola)», perché, oltre al 2024 e al momento in cui ci siamo conosciuti, viene specificato anche un terzo riferimento cronologico (cioè la maturità, o la fine della scuola).
Fabio Rossi
QUESITO:
«Iniziò tutto un anno fa: ero solo e lei venne a parlarmi. Quest’inverno lei mi è stata vicina».
Non sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo visto che questo legame continua?
RISPOSTA:
L’esempio è ben scritto sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Con il passato remoto il livello stilistico si innalza: non a caso, il passato remoto è il tempo tipico dei testi narrativi letterari (racconti, romanzi ecc.). È senza dubbio vero che il passato prossimo, a differenza del remoto, serve a indicare una conseguenza dell’azione nel presente, tant’è vero che sarebbe quasi inaccettabile una frase come «Quest’inverno lei mi fu vicina», poiché ci si aspetta una conseguenza di quella vicinanza (per esempio lo sbocciare di una storia d’amore, il consolidarsi di un’amicizia e simili), ancor più evidente per via del deittico questo. Diverso sarebbe «Lo scorso inverno mi fu vicina»: da una frase del genere non mi aspetto le conseguenze dell’evento. È vero altresì che non è bene passare dal passato remoto al passato prossimo (o viceversa), senza un’effettiva necessità. Tuttavia, l’attacco del periodo («Iniziò tutto un anno fa») e anche il suo seguito immediato («venne a parlarmi») sembrano qui indicare un evento preso nel suo isolamento, anche indipendentemente da quel che segue. Nella frase successiva è come se il discorso riprendesse da capo. Se si vuole ottenere una maggiore contiguità tra gli eventi si può volgere tutto al passato e al trapassato prossimo: «È iniziato (o Era iniziato)… è venuta (o era venuta)». Devo dire però che il passato remoto ben si presta, come già detto, allo stile letterario e a quel distacco temporale tipico dell’incipit dei romanzi e dei racconti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Se io chiedo “Non sei mai stato a Granada, vero?”, la risposta corretta, se l’interlocutore non c’è stato, è “No”. Secondo mio padre invece la risposta corretta è “Sì”, che sottintende “Sì, è vero che non ci sono mai stato”. Io ho cercato senza successo di spiegargli che vero? è una componente della frase necessaria a disambiguarla da quella che sarebbe una semplice affermazione quale “Non sei mai stato a Granada” e non una domanda. È diventato difficile fargli domande di questo tipo. Mi poteste fornire una regola rigorosa, chiara ed esaustiva per chiarire la questione?
RISPOSTA:
A rigore la risposta corretta è “Sì (, non sono mai stato a Granada)”, a prescindere dalla presenza di vero; l’interlocutore, infatti, dovrebbe confermare la negazione contenuta nella domanda per rispondere negativamente. Al contrario, per rispondere positivamente (nel caso in cui sia stato a Granada), l’interlocutore dovrebbe negare la negazione con un “No (, sono stato a Granada)”. Le risposte corrette a rigore, però, non sono gradite ai parlanti, perché è controintuitivo rispondere negativamente confermando e positivamente negando; da qui nasce l’abitudine a trascurare la forma della domanda e rispondere considerando soltanto la polarità della risposta. Nonostante questa abitudine, però, non si può dire che le risposte “rigorose” siano scorrette (per quanto, in un contesto informale, risultino un po’ pedanti).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste frasi possono essere scritte in tutti i modi proposti?
“Sarebbe bello se nella vita di tutti i giorni avessimo dei motori, come quelli scacchistici, che ci indicassero / indicano / indichino sempre la mossa migliore”.
“Da quando i Fenici hanno inventato / inventarono il denaro(,) il mondo va / sta andando a rotoli”.
È possibile inserire la virgola tra parentesi?
RISPOSTA:
Nella proposizione relativa della prima frase l’indicativo presente rappresenta l’azione dell’indicare come fattuale e atemporale; la relativa, così costruita, serve esclusivamente a identificare dei motori, come se fosse un aggettivo (dei motori che ci indicano la mossa migliore = dei motori indicanti la mossa migliore). Il congiuntivo imperfetto aggiunge una sfumatura di eventualità, che viene interpretata come desiderabilità, per via della doppia attrazione esercitata dalla reggente ipotetica (se avessimo dei motori) e dalla principale, perché la relativa viene facilmente scambiata per una completiva (sarebbe bello… che ci indicassero). Il congiuntivo presente nella relativa è in teoria possibile, con lo stesso valore del congiuntivo imperfetto, ma di fatto è poco accettabile proprio a causa dell’attrazione della struttura sarebbe bello… che ci indicassero: la completiva retta da verbi o espressioni di desiderio richiede, infatti, il congiuntivo imperfetto (si veda la discussione di questa norma qui).
Nella seconda frase nella temporale è preferibile il passato prossimo, perché l’evento dell’inventare è chiaramente ancora influente sul presente; nella principale si possono usare il passato prossimo è andato, per indicare che l’evento è iniziato nel passato ma è ancora attuale, il presente, per focalizzare l’attenzione sul presente, la perifrasi progressiva sta andando, per sottolineare ulteriormente la contemporaneità tra l’enunciazione e l’andare.
L’inserimento della virgola è possibile, ma non obbligatorio. La virgola tra una subordinata anteposta alla reggente e la reggente stessa è possibile, e persino consigliabile, nel caso in cui si vogliano separare le due informazioni in modo da far risaltare ciascuna. Questa separazione sarebbe più funzionale, per la verità, se la subordinata fosse posposta: “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli, da quando i Fenici hanno inventato il denaro” (= “Il mondo è andato / va / sta andando a rotoli; e questo sta succedendo da quando i Fenici hanno inventato il denaro”); nel caso specifico, invece, il collegamento logico tra le informazioni instaurato proprio dalla anteposizione della subordinata è talmente forte che il segno risulta controintuitivo. Esso, però, mantiene la sua utilità dal punto di vista sintattico, perché segmenta la frase in modo chiaro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere a quale persona si riferisce il pronome _questi _nella seguente frase:
“Con l’acquisto operato dal donante, Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e questi con atto del 2002 enunciava che il trasferimento avveniva nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava il cespite”.
RISPOSTA:
In base alle regole del riferimento anaforico questi riprende (o è coreferente con) Tizio, ovvero quello tra i due possibili antecedenti (Caio e Tizio) che non è il soggetto della proposizione reggente (Con l’acquisto Caio trasferiva lo stesso bene con i relativi confini). Per riprendere il soggetto di una proposizione reggente, infatti, bisogna usare l’ellissi del soggetto; per riprendere Caio nella coordinata, quindi, la frase avrebbe dovuto essere “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e con atto del 2002 enunciava…”. Esiste un’alternativa all’ellissi per riprendere il soggetto della reggente, ma non è questi, bensì un pronome esplicito come lo stesso (preferibilmente completato dal nome): “… Caio trasferiva a Tizio lo stesso bene con i relativi confini e lo stesso Caio con atto del 2002 enunciava…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ritengo che il termine ipotesi si riferisca ad un contenuto, oggettivamente incerto, che viene dato come puramente possibile anche dal parlante, mentre i vocaboli arbitrario e illazione (che considererei sinonimi) definiscano un’affermazione data erroneamente come certa dal parlante, pur essendo oggettivamente solo possibile. Non essendo sicuro della mia posizione, gradirei un vostro parere al riguardo.
RISPOSTA:
Il nome ipotesi indica un presupposto logico che deve essere dimostrato vero o falso. Per esempio, l’ipotesi che il riscaldamento globale attuale sia prodotto in larga parte dalle attività umane è stata ampiamente provata. Una volta dimostrata, l’ipotesi diviene una tesi; è, comunque, spesso possibile mettere in discussione le prove a sostegno dell’ipotesi, quindi revocare la certezza della tesi derivante. Da questo significato di base, il nome ipotesi ha sviluppato quello, più comune, di ‘congettura’, che apparentemente è equivalente a ‘presupposto di un ragionamento’, ma invece presenta una determinante differenza di prospettiva: mentre, infatti, il presupposto innesca un ragionamento finalizzato a provarlo, una congettura potrebbe avere lo stesso valore ma è più spesso, al contrario, proposta come conclusone incerta di un ragionamento. Per quanto incerta, quindi, la congettura è rappresentata come un’opinione già formata, non come un’idea ancora da verificare. Con questo secondo significato, ipotesi si avvicina al significato comune di illazione, che è proprio ‘deduzione, congettura basata su prove incerte’. Rispetto a ipotesi, inoltre, nel significato di illazione è sottolineata la componente di incertezza, ovvero di insufficienza di prove, che porta con sé una connotazione negativa. Una illazione è, cioè, una congettura decisamente incerta, partigiana, una supposizione presentata come conclusiva ma in realtà indebita o ingiustificata, spesso introdotta per confondere il ragionamento di altri, o per danneggiare maliziosamente la reputazione di qualcuno.
L’aggettivo arbitrario ha, nel linguaggio comune, il significato di ‘non necessariamente ben motivato’ o ‘poco giustificato’; per questo motivo può considerarsi sinonimo di indebito e persino illegittimo. Tanto un’ipotesi quanto un’illazione possono essere arbitrarie, ma se un’ipotesi arbitraria è un passaggio logico azzardato, un errore in buona fede, l’illazione arbitraria è una fallacia architettata con dolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.
RISPOSTA:
Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.
Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:
1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;
2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.
Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.
Ora si osservino queste due frasi:
3. Dieci persone sono venute alla festa;
4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.
In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.
Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.
Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:
5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!
6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!
Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.
7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.
8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.
Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se la seguente espressione è corretta: “Erano rimasti due sorelle e un fratello ed erano tutti celibi”. È corretto definire i fratelli e la sorella con l’unico termine celibi o è d’obbligo esprimersi diversamente, attribuendo ai maschi il termine celibi e alle femmine il termine nubile?
RISPOSTA:
I termini celibe e nubile hanno un riferimento di genere inequivocabile, quindi sarebbe scorretto attribuire l’uno o l’altro al genere opposto. Per descrivere la situazione bisogna costruire la frase diversamente, per esempio … e nessuno dei tre si era sposato o … e né le sorelle né il fratello si erano sposati, oppure scegliere un termine diverso, come single o non sposati.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato far seguire il congiuntivo presente all’espressione come se, oppure è obbligatorio l’imperfetto?
“Ne parli come se sia colpa mia!”
“Apri le finestre come se faccia caldo”.
È possibile omettere se fosse senza alterare il significato della frase dal punto di vista temporale?
“Carlo cammina come se fosse un ubriaco che non riuscisse a reggersi in piedi”.
“Carlo cammina come un ubriaco che non riuscisse / riesca a reggersi in piedi”.
La seconda alternativa conserva la stessa sfumatura ipotetica oppure colloca l’azione nel passato?
RISPOSTA:
La proposizione comparativa ipotetica, introdotta da come se, presenta un evento ipotetico che somiglia a quello descritto nella reggente e che potrebbe, pertanto, spiegarlo. L’ipoteticità dell’evento presentato richiede una costruzione che ricalca quella della proposizione ipotetica, ovvero il congiuntivo imperfetto per la possibilità, il congiuntivo trapassato per l’irrealtà. L’irrealtà, si noti, corrisponde in questa proposizione all’atteggiamento di incertezza dell’emittente riguardo alla somiglianza tra gli eventi); ad esempio: “Rispose come se avesse paura” (l’avere paura è presentato come potenzialmente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, spiegarlo), “Rispose come se avesse avuto paura” (l’avere paura è presentato come incertamente simile al modo di rispondere del soggetto e potrebbe, pertanto, essere preso in considerazione tra le spiegazioni possibili).
Per quanto riguarda le due frasi confrontate, la prima presenta una comparazione ipotetica, la seconda presenta una comparazione oggettiva; con la prima, pertanto, l’emittente è più cauto nell’accostare il modo di camminare di Carlo a quello di un ubriaco. In ogni caso, la rappresentazione della comparazione non condiziona la costruzione della proposizione relativa (che non riesca / riuscisse). Questa proposizione può essere costruita nella prima e nella seconda frase tanto con il presente quanto con l’imperfetto; nel primo caso il riuscire è semplicemente rappresentato come presente, nel secondo si aggiunge una sfumatura ipotetica, conferita dalla sovrapposizione tra che non riuscisse e se non riuscisse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“I bambini dovranno allegare un file in formato pdf, elaborato secondo lo schema allegato, contenente l’elenco dei disegni trasmessi, in pdf non modificabile, di seguito indicati:”
Nella frase precedente è il file contenente l’elenco che deve essere in pdf non modificabile, o ciascuno dei disegni?
RISPOSTA:
Il sintagma in pdf non modificabile non può che essere interpretato dal lettore come retto da disegni, perché si trova tra disegni e di seguito indicati, che è inequivocabilmente concordato con disegni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo/condizionale avesse / avrebbe nella frase che segue.
L’ufficio ha quindi proceduto all’istruttoria ed all’esitazione delle istanze per impedire da un lato che il condono potesse agire da “scudo giudiziario” (in quanto la presentazione della domanda di condono sospende il procedimento penale e quello per le sanzioni amministrative) e dall’altro per evitare all’ente eventuali richieste di risarcimento da chi avesse / avrebbe voluto avere ragione della propria istanza di sanatoria prima che l’AG procedesse, ad ogni modo, all’abbattimento dell’immobile abusivo.
RISPOSTA:
Il dubbio tra il condizionale passato e il congiuntivo trapassato dipende dalla presenza, nella frase, di due possibili momenti di riferimento, uno precedente al volere avere ragione (coincidente con il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), uno successivo (coincidente con il procedere all’abbattimento). Il condizionale passato ha la funzione di esprimere la posteriorità rispetto a un punto prospettico collocato nel passato, quindi descrive il processo del volere avere ragione come posteriore all’evento, passato, del procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze. Il congiuntivo trapassato, diversamente, descrive il volere avere ragione come precedente rispetto all’evento, pure passato (ma, attenzione, successivo al procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze), del procedere all’abbattimento. Entrambe le scelte sono, pertanto, legittime in astratto; entrambe, però, presentano dei difetti: la prima non veicola alcuna sfumatura eventuale, che sarebbe, invece, utile; la seconda veicola sì un senso di eventualità (per via della sovrapposizione tra la proposizione relativa e la condizionale: da chi avesse voluto = se qualcuno avesse voluto), ma costringe a cambiare il momento di riferimento a metà frase, creando una certa ambiguità (il volere avere ragione precede il procedere all’abbattimento o il procedere all’istruttoria e all’esitazione delle istanze?). Consigliamo, allora, una terza soluzione: il congiuntivo imperfetto (da chi volesse avere ragione), che non cambia il momento di riferimento e veicola una sfumatura eventuale. Il congiuntivo imperfetto ha, inoltre, il vantaggio di essere percepito come più formale del condizionale passato, quindi più appropriato a un contesto come questo.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?
RISPOSTA:
La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sottoporre alla vostra attenzione questa frase: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si sono sposati”. Se i nonni non ci sono più o anche uno solo di essi è mancato, è corretto esprimersi in questo modo o è necessario ricorrere ad un’altra espressione? Per esempio: “Oggi sono 70 anni che i miei nonni si erano sposati” oppure “I miei nonni si erano sposati, come oggi, 70 anni fa”.
RISPOSTA:
Il trapassato prossimo si usa per esprimere un rapporto di anteriorità rispetto a un altro evento avvenuto nel passato. Nella frase in questione l’organizzazione sintattica mette l’accento sui 70 anni, per cui l’inserimento di un momento di riferimento passato (la morte di uno dei due coniugi o di entrambi), che giustificherebbe l’uso del trapassato, comporterebbe una contraddizione; il lettore, cioè, non saprebbe come armonizzare l’informazione che il calcolo degli anni ammonta a 70 con l’informazione che tale calcolo non ha valore, perché nel frattempo è successo un fatto che lo ha modificato. Inoltre, dal punto di vista semantico l’evento dello sposarsi è momentaneo: una volta avvenuto non può essere annullato da un altro evento successivo. Anche con la morte di uno dei coniugi, la circostanza del matrimonio rimane valida e legata a un preciso momento del passato. Diversamente, il processo dell’essere sposati può essere modificato dalla morte (o il divorzio). Il messaggio da lei richiesto, insomma, può essere espresso con un periodo ipotetico, per esempio: “Oggi i miei nonni festeggerebbero 70 anni di matrimonio (se uno dei due non fosse morto)”, oppure “Oggi i miei nonni sarebbero sposati da 70 anni (se uno dei due non fosse morto)”.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo sulla Treccani che nella proposizione concessiva il verbo è al congiuntivo tranne quando introdotta da anche se. Dunque volevo la conferma che solo il primo di questi due periodi sia corretto, e perché:
“Anche se vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
“Seppure vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
Inoltre volevo sapere cosa ne dite della variante:
“Se anche vai in Ferrari, non significa che tu debba andare sfrecciando”.
RISPOSTA:
La prima frase è del tutto corretta; la seconda può essere considerata scorretta in qualsiasi contesto scritto, nonché in contesti parlati medi. Va detto, però, che esempi di seppure vai, seppure sei e simili non mancano in rete, per quanto siano di gran lunga minoritari rispetto alle varianti con il congiuntivo. Il modo congiuntivo ha un ambito d’uso variegato: in alcune proposizioni è obbligatorio, in altre è in alternanza con l’indicativo, in altre è richiesto da alcune congiunzioni e locuzioni congiuntive ma non da altre. Un esempio di quest’ultimo caso, oltre a quello discusso qui, è la proposizione temporale, che richiede il congiuntivo soltanto se è introdotta da prima che. L’associazione di anche se all’indicativo è probabilmente dovuta alla vicinanza di questa locuzione alla congiunzione ipotetica se, che al presente richiede l’indicativo (se vai in Ferrari…). Il parallelo tra se e anche se è confermato dal fatto che entrambe richiedono il congiuntivo all’imperfetto e al trapassato (anche se tu andassi / fossi andato). Proprio questa vicinanza semantica rende indistinguibile in molti casi anche se da se anche, sebbene la seconda sia una locuzione congiuntiva ipotetica, non concessiva, che equivale a se, eventualmente,. La differenza emerge chiaramente se l’ipotesi presenta una realtà certamente verificatasi o certamente non verificatasi; per esempio: “Anche se il computer si è rotto, non ne comprerò un altro” / *”Se anche il computer si è rotto…”. La seconda frase è impossibile, perché non presenta una concessione contrastata dal contenuto della proposizione reggente, ma presenta un fatto sicuramente avvenuto come un’ipotesi. Si noti, comunque, che in una comunicazione autentica il ricevente tenderebbe a interpretare anche nel secondo caso la proposizione ipotetica come una concessiva, vista la vicinanza tra le due costruzioni. Con l’imperfetto e il trapassato, per di più, le due locuzioni diventano praticamente equivalenti: “Anche se il computer si rompesse, non ne comprerei un altro” / “Se anche il computer si rompesse…”. In questi casi, sebbene la locuzione se anche sia sempre ipotetica, non concessiva, essa sarebbe interpretata dalla maggioranza dei parlanti come concessiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si svolge l’analisi logica di una frase come “Eccolo!”?
Da qui la mia domanda: si può svolgere l’analisi logica di una frase nominale, visto che manca il predicato? Nell’esempio citato, bisogna considerare sottinteso un predicato? Come si può analizzare (se si può)?
RISPOSTA:
L’analisi logica è una procedura con molti limiti. Già nelle frasi standard produce a volte risultati insoddisfacenti (per esempio nella classificazione degli oggetti obliqui, come in obbedire alle leggi); si rivela, inoltre, inadeguata, e persino inutilizzabile, per capire la struttura degli enunciati che infrangono le regole sintattiche standard, come le frasi marcate (per esempio quelle dislocate) o le frasi nominali. Bisogna ammettere, comunque, che anche gli altri tipi di analisi sintattica (la grammatica valenziale e quella trasformazionale, per esempio) non sono attrezzati per spiegare la struttura degli enunciati sintatticamente imperfetti. Gli enunciati, è bene ricordare, sono costruzioni linguistiche legittimate dalla situazione in cui vengono realizzate; a volte coincidono con frasi standard (e in questi casi possono essere analizzati con le categorie dell’analisi logica), altre volte sfuggono alle regole della sintassi standard. Eccolo è un esempio di enunciato sintatticamente imperfetto ma comunicativamente funzionale: potrebbe essere usato in risposta a una domanda banale come “Dov’è il telecomando?” eppure manca dell’elemento imprescindibile per la sintassi: il verbo. Né c’è modo di riconoscere accanto a Eccolo un verbo sottinteso, rispetto al quale individuare il soggetto. Costruzioni come questa, o Bravo!, Forza!, Su, coraggio e simili, sono opache agli occhi dell’analisi logica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei farvi una domanda riguardo all’uso delle congiunzioni condizionali (escluso se).
Come sappiamo, nella parte condizionale va messo il congiuntivo, ma non sono certa se la scelta tra il presente e l’imperfetto dipenda soltanto dalla possibilità oppure anche dal tempo presente / passato?
A condizione che / purché / a patto che / casomai studi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, supererai l’esame.
A condizione che / purché / a patto che / casomai studiassi bene, avrai / avresti superato l’esame.
Ho anche un altro dubbio: dopo aver scelto il tempo della parte condizionale, cosa posso fare con quella reggente? Uso l’indicativo per esprimere una certezza e il condizionale per una possibilità?
RISPOSTA:
Le proposizioni introdotte da a patto che, purché, a condizione che e casomai (o caso mai) sono condizionali (nel periodo ipotetico sono chiamate protasi e contengono la descrizione della condizione) e richiedono il modo congiuntivo; il tempo dipende sia dal grado di possibilità dell’evento espresso sia dal rapporto temporale (la cosiddetta consecutio temporum) con il verbo della reggente (che nel periodo ipotetico è chiamata apodosi e contiene la conseguenza della condizione contenuta nella protasi). La sua prima frase è un caso canonico di periodo ipotetico della realtà. Questo costrutto serve a rappresentare l’evento della reggente come certo.
La seconda frase presenta un esempio di apodosi della realtà e protasi della possibilità: il costrutto, corretto, esprime un dubbio circa la possibilità della condizione (il parlante non è certo che l’interlocutore si metta a studiare bene) e la certezza riguardo alla conseguenza della condizione.
Il terzo e ultimo esempio presenta nuovamente nella subordinata il congiuntivo imperfetto, mentre nella reggente propone due opzioni diverse: un verbo all’indicativo (il futuro anteriore avrai superato) e un verbo al modo condizionale composto, o passato (avresti superato).
Il futuro anteriore si usa per indicare un evento che avverrà in un futuro più prossimo rispetto a un altro più lontano nel futuro. Si tratta di un tempo verbale usato raramente, perché il rapporto di successione tra gli eventi risulta quasi sempre chiarito dal contesto. In questo caso specifico non è presente un altro evento di riferimento successivo, di conseguenza il futuro anteriore non è giustificato. L’opzione diventerebbe possibile se si aggiungesse un evento di riferimento; per esempio: “A patto che studiassi bene avrai superato l’esame prima di accorgertene”. Bisogna, però, ammettere che la frase, corretta in astratto, difficilmente sarebbe prodotta da un parlante, per via della sua complessità.
L’ipotesi con avresti superato è impossibile se studiassi si riferisce al presente: presenta, infatti, la conseguenza come precedente rispetto alla condizione. La frase diviene corretta se il congiuntivo imperfetto è usato con valore astorico, legato non al presente, ma a un principio generale: “Se tu studiassi (= avessi l’abitudine di studiare) bene avresti superato l’esame”.
Prima di selezionare i tempi e modi verbali è opportuno valutare il grado di possibilità degli eventi selezionati a partire dalla reggente: è il verbo della reggente che governa quello della subordinata, in relazione al rapporto temporale e, nel caso del periodo ipotetico, al grado di possibilità che si vuole rappresentare.
Per ulteriori informazioni sull’uso di a patto che è possibile consultare questa risposta nell’archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Nella frase “… a cui vorresti rivolgerti tu” il tu è pleonastico o si può considerare un rafforzativo?
RISPOSTA:
Non è pleonastico: il soggetto pronominale ribadito a destra della frase serve a sottolineare che la volontà di rivolgersi a quel qualcuno è proprio del soggetto, non di altri. Questa sottolineatura può essere utile per esempio se il parlante non condivide tale volontà, oppure se vuole elogiarla, perché altri avrebbero manifestato una volontà più comoda (ovviamente, dipende tutto dal contesto). L’esplicitazione del soggetto pronominale non sarebbe pleonastica neanche se questo fosse collocato prima del verbo: “… a cui tu vorresti rivolgerti”. In questo caso il pronome richiamerebbe al centro della discussione la responsabilità del soggetto nell’esprimere la volontà, senza, però, veicolare sfumature contrastive. Tali sfumature, però, sarebbero veicolate anche con il soggetto preverbale, se la frase fosse pronnciata con un’enfasi intonativa sul pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Chi fosse interessato mi contatti” o “chi sia interessato mi contatti”?
Con l’imperfetto ci si riferisce al passato? (Chi era interessato, tre giorni fa, mi contatti adesso).
RISPOSTA:
La variante con il congiuntivo presente è ingiustificata, quindi da considerare errata. Le alternative possibili sono chi fosse… e chi è... Lei ha ragione a rilevare nell’imperfetto un valore di passato: in effetti il significato della prima frase potrebbe essere quello da lei inteso; tale significato astratto, però, sarebbe senz’altro scartato dai parlanti per via dell’incoerenza tra un interesse passato e l’azione presente. In altre frasi potrebbe, comunque, essere attivo; per esempio “Chi fosse vivo nel 1910 oggi è certamente morto”. Rimane da spiegare quale sia la differenza tra chi è… e chi fosse…. Il congiuntivo imperfetto aggiunge alla proposizione relativa una sfumatura di ipoteticità (chi fosse = se qualcuno fosse) assente nell’indicativo presente. A ben vedere, tale sfumatura è superflua, visto che la situazione descritta è già ipotetica in sé (il parlante non sa se qualcuno lo contatterà e chi sia questo qualcuno); i parlanti, però, dimostrano di apprezzare l’enfatizzazione di questo tratto, ottenuta proprio con il congiuntivo imperfetto, che avvicina, come detto, chi fosse a se qualcuno fosse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le ricordo che, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”
Vorrei sapere se il periodo è sintatticamente corretto, oppure se sarebbe preferibile evitare di “spezzare” la proposizione principale con una subordinata (in questo caso, “qualora ci fosse…”).
RISPOSTA:
La frase è ben costruita e l’inciso, segnalato opportunamente dalle due virgole, non crea problemi alla comprensione del messaggio. Tuttavia, il testo, che sembra di natura amministrativa, può essere semplificato:
- spostando l’inciso all’inizio o alla fine del periodo, in modo tale da non spezzare la proposizione principale (“Qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.” / “Le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale”);
- sostituendo la congiunzione composta qualora con quella semplice se (“Se ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”);
- riducendo le informazioni non necessarie o ridondanti (in tempo reale non si presta bene a designare un servizio telefonico; semmai, potrebbe essere attribuito a un servizio di messaggistica istantanea).
Raphael Merida
QUESITO:
Non mi è molto chiara la differenza tra i verbi essere e esserci.
Ad esempio alla domanda “C’è Mario?”, possiamo rispondere “Sì, c’è /Sì, è qui”, ma non va bene “Sì, c’è qui”, ma non capisco perchè, invece, va bene dire “C’è un uomo qui”.
RISPOSTA:
Il verbo esserci significa proprio ‘essere in luogo’, quindi l’espressione c’è qui è inutilmente ripetitiva. La ripetizione, però, è ammessa, e in certi casi necessaria, se la frase è marcata, cioè è costruita per mettere in forte evidenza una certa informazione, per segnalare il collegamento tra la frase e il resto del testo o per precisare quale sia la rilevanza della frase nel contesto situazionale. Nella frase “C’è un uomo qui”, per esempio, il parlante precisa che l’uomo si trova nello stesso luogo in cui si svolge la conversazione, perché dal suo punto di vista la presenza dell’uomo è rilevante soltanto in relazione al luogo (per esempio perché è sorpreso di trovare un uomo in quel luogo). Va detto che tale frase sarà pronunciata con una pausa prima di qui, a dimostrazione del fatto che l’informazione qui è isolata rispetto a c’è un uomo, come se fosse un elemento aggiunto a parte. Nello scritto, tale pausa può essere rappresentata con una virgola, quindi “C’è un uomo, qui”. La stessa costruzione può adattarsi a “C’è Mario, qui” soltanto in assenza della domanda precedente (“C’è Mario?”): se il parlante risponde alla domanda, non ha motivo di precisare qui, perché la presenza nel luogo è presupposta proprio nella domanda. A sua volta, la domanda può essere costruita in modo marcato: “C’è Mario, qui”, per precisare che l’interesse per la presenza di Mario è legato proprio al luogo in cui si svolge la conversazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire se in questo elenco («camicie a righe, a disegni, a scacchi color corallo e verde mela e lavanda e arancione chiaro, coi monogrammi in indaco») le due coppie di colori – corallo e verde mela, lavanda e arancione chiaro – sono riferite soltanto alle camicie a scacchi o all’intero elenco di camicie. E, nel secondo, caso se a tutt’e tre i tipi di camicia.
Questa citazione è tratta da “Il grande Gatsby”.
RISPOSTA:
Il dubbio può essere sciolto controllando la versione originale del testo: «shirts with stripes and scrolls and plaids in coral and apple-green and lavender and faint orange, with monograms of Indian blue». Stando al testo in inglese, sarei orientato ad affermare che i colori non si riferiscono necessariamente ai tipi di camicie descritti prima; lo si deduce dalle preposizioni che seguono la parola shirts ‘camicie’: with, in e dopo ancora with. Si suppone, quindi, che le camicie siano di vario genere (a righe e a disegni e a scacchi) e di vari colori (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). La presenza della virgola prima di with monograms (coi monogrammi in indaco) mi pare dimostri quasi sicuramente il riferimento dei monogrammi a tutti i tipi di camicia. Del resto, una persona cifra tutte le camicie (per marcarne l’appartenenza e l’identità), non solo un certo tipo. Sia i colori sia il monogramma, quindi, si riferiscono, a mio modo di vedere, a tutte le camicie, non soltanto a quelle a scacchi.
La traduzione in italiano, pur fedele, rende meno tutta la distinzione che, invece, si nota meglio nel testo originale (anche se l’assenza della virgola dopo plaids lascia un certo margine di ambiguità). La differenza fra testo originale e traduzione risiede nel modo di elencare: il primo per polisindeto, cioè attraverso l’accumulo della congiunzione and (e); il secondo per asindeto nella prima parte (a righe, a disegni, a scacchi) e per polisindeto nella seconda (color corallo e verde-mela e lavanda e arancione chiaro). L’elencazione per polisindeto rallenta la prosa, quella per asindeto, al contrario, la velocizza.
Raphael Merida
QUESITO:
La lineetta, come nel caso della parentesi, va posta due volte, all’inizio e alla fine di un inciso anche nel caso in cui dopo si trovi il punto, oppure può bastare anche una volta sola?
- Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie – rosse, marroni e verdi –.
- Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie – rosse, marroni e verdi.
Inoltre, in ambito digitale, la lineetta a quale segno corrisponde? Escludendo il trattino breve, rimangono questi due: (–), (—).
RISPOSTA:
La lineetta, o trattino lungo, è un segno grafico che insieme alle parentesi e alle virgole correlative provocano discontinuità nell’enunciazione. È possibile che un inciso o una parentetica inseriti alla fine della frase siano introdotti da una lineetta priva della lineetta di chiusura (assorbita comunque dal segno di fine frase, per esempio il punto fermo), come nella frase 2. In questi casi, solitamente si preferiscono le parentesi tonde alle lineette: «Mi fece sedere e mi mostrò le sue camicie (rosse, marrone e verdi).» con il punto dopo la parentesi di chiusura.
In ambito digitale la lineetta corrisponde al segno (–).
Raphael Merida
Quesito:
Ho un dubbio riguardo alla corretta interpretazione dell’uso di anche nella seguente frase:
Si consiglia intervento psico-educativo (2-4 ore a settimana, anche in piccolo gruppo).
Sulla base delle diverse definizioni del significato di anche“, sembrerebbe che la frase dovrebbe interpretarsi nel seguente modo:
Si consigliano 2/4 ore di intervento psico-educativo e anche 2/4 ore del medesimo intervento da svolgersi in piccolo gruppo (per un totale dunque di 4/8 ore).
L’interpretazione in senso “additivo” di anche del secondo elemento intervento in gruppo rispetto al primo elemento intervento sottinteso è corretta? L’interpretazione, se corretta, può definirsi univoca o può essere ambigua?
RISPOSTA:
Il significato di anche nella frase è senza dubbio rafforzativo; con esso, cioè, si ammette che l’intervento descritto precedentemente venga svolto nella modalità indicata subito dopo (in piccolo gruppo). Non bisogna, quindi, considerare l’intervento in piccolo gruppo come aggiuntivo rispetto a un altro intervento da svolgere con modalità diversa. Si tratta comunque di un’aggiunta, a ben vedere, ma ciò che viene aggiunto è una modalità alternativa per lo stesso intervento, non un ulteriore intervento. Se fosse aggiunto un intervento, la frase sarebbe stata formulata diversamente, esplicitando i termini salienti dell’intervento aggiuntivo (2-4 ore); per esempio (2-4 ore a settimana in seduta individuale e anche / inoltre 2-4 ore in piccolo gruppo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere in quale contesto è possibile usare il termine aporia Mi risulta che la aporia sia un problema senza soluzione ma di tipo specifico. Se X è alto e Y è basso e mi si chiede chi è il più ricco, non posso certo dire che questo problema sia una aporia bensì un problema irrisolvibile per insufficienza di informazioni. Se invece X è cardiopatico e l’inattività fisica danneggia il cuore, ma anche l’attività fisica nei cardiopatici può causare la morte, allora che possibilità ha X di risolvere il suo problema? Nessuna. Questo paradosso che si viene a creare (se faccio sforzi muoio ma se non ne faccio danneggio il cuore già compromesso e muoio ugualmente) io lo definirei aporia. Non essendo certo di ciò chiedo il vostro aiuto.
RISPOSTA:
Sì, ha ragione, l’aporia, anche in senso generale, implica comunque una contraddizione che non consente di giungere alla soluzione di un problema, esattamente come l’esempio del cardiopatico, danneggiato sia dal movimento, sia dall’assenza di movimento. Invece il primo caso rientra, caso mai, nell’incoerenza, dal momento che non si possono mettere in relazione altezza e ricchezza, in quanto appartenenti a sfere concettuali diverse.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il condizionale passato può essere impiegato – come spiegato a più riprese – per indicare il futuro nel passato; può, però, esprimere anche anteriorità rispetto a un dato momento di riferimento e, nel contempo, mantenere la sua funzione di eventualità?
In un periodo come quello riportato più sotto, l’azione descritta con il condizionale passato sarebbe interpretata come anteriore, posteriore (rispetto a quella della subordinata) o sarebbero possibili entrambe le soluzioni?
1. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero lasciato la spiaggia.
In assenza di altri elementi, la semantica mi porterebbe a optare per l’interpretazione posteriore; ma, in astratto, potrebbe anche essere vero il contrario.
Con verbi differenti, ad esempio, non avrei alcuna esitazione a stabilire il rapporto tra le due proposizioni.
2. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa (condizionale passato = posteriorità rispetto al congiuntivo trapassato: Laura raggiunge lo stabilimento e i suoi amici, dopo, vanno a casa).
3. Laura sapeva che nel momento in cui (valore ipotetico-temporale) avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero stati a casa (condizionale passato = anteriorità rispetto al congiuntivo trapassato. Laura raggiunge lo stabilimento, ma i suoi amici se ne sono andati a casa).
In sintesi, il condizionale passato, a seconda dei casi, può esprimere anteriorità o posteriorità rispetto a un momento di riferimento (anche tralasciando l’enunciazione), come negli esempi sopra indicati?
Riguardo al periodo 1, l’inserimento di un avverbio come già potrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione temporale dell’azione, spingendo a considerare la proposizione espressa con il condizionale passato nel passato rispetto alla subordinata? (“Laura sapeva che nel momento in cui avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici avrebbero già lasciato la spiaggia” = Gli amici di Laura hanno lasciato la spiaggia prima che lei abbia raggiunto lo stabilimento).
RISPOSTA:
Il condizionale descrive un evento condizionato rispetto a un altro condizionante (tipicamente costruito con una proposizione ipotetica); il rapporto tra la condizione e la conseguenza attiva automaticamente un rispecchiamento temporale in cui la condizione precede la conseguenza. Questa funzione modale e temporale che lega la proposizione con il condizionale alla proposizione con il congiuntivo (o l’indicativo) da essa dipendente si intreccia con quella relativamente temporale che lega la stessa proposizione con il condizionale a quella che la regge (se la frase la prevede). In questa seconda relazione entra in gioco il valore di futuro nel passato.
In particolare, quando la reggente è al presente, quindi il momento dell’enunciazione è presente, il condizionale passato descrive un evento anteriore, quindi passato: “Penso [adesso] che lui avrebbe agito diversamente [nel passato] se le condizioni lo avessero consentito”. Lo stesso vale se il momento dell’enunciazione è futuro: “Ti renderai conto che lui avrebbe agito diversamente…”. Se il momento dell’enunciazione è passato, la funzione relativamente temporale del condizionale passato diviene di posteriorità (è il cosiddetto futuro nel passato). Per questo, nelle sue tre frasi, gli eventi al condizionale passato sono sempre successivi a quello del sapere espresso nella proposizione principale Laura sapeva. Per quanto riguarda la relazione tra la proposizione con il condizionale e la subordinata al congiuntivo nelle sue frasi, bisogna considerare l’ambiguità provocata dalla semantica dei verbi e dalla congiunzione che introduce la subordinata stessa. Nella frase 1 non c’è dubbio che l’evento del lasciare sia conseguente, quindi anche successivo, a quello del raggiungere; nella frase 2 l’evento dell’andare potrebbe essere avvenuto precedentemente a quello del raggiungere, quindi potrebbe non esserne la conseguenza. Questa possibilità vale perché la locuzione congiuntiva nel momento in cui ammette un’interpretazione temporale, quindi è possibile che l’andare segua il sapere ma preceda il raggiungere. Questa interpretazione non sarebbe possibile se al posto di nel momento in cui ci fosse se (“Se avesse raggiunto lo stabilimento balneare, i suoi amici sarebbero andati a casa” = gli amici vanno certamente via come conseguenza dell’arrivo di Laura, quindi dopo). Lo stesso vale a maggior ragione per la frase 3, in cui il verbo essere costringe a un’interpretazione anteriore rispetto a raggiungere (ma comunque sempre successiva a sapere), perché indica uno stato e non un’azione (diversamente da lasciare e andare). Nella frase, infatti, la congiunzione se sarebbe ammessa soltanto con una sfumatura concessiva (se = anche se), perché rappresentare un evento precedente a un altro come la conseguenza di quest’ultimo sarebbe incoerente. Ovviamente, l’aggiunta di già enfatizza la precedenza dell’essere rispetto al raggiungere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle frasi indicate, l’uso del gerundio è appropriato?
1a) Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, vincendo però la guerra.
1b) Chi non avesse la possibilità di presenziare alla cerimonia di premiazione [domanda un candidato, nda] perderebbe esclusivamente il diritto al ritiro del premio, mantenendo quindi il piazzamento ottenuto, oppure no?
RISPOSTA:
Sì, il modo gerundio è appropriato in entrambe le frasi, dal momento che esprime una subordinata implicita (in entrambi i casi di tipo avversativo, con le precisazioni fatte sotto) con identità di soggetto rispetto alla reggente. Per quanto riguarda la consecutio temporum, è perfetta nella seconda frase (perderebbe il diritto ma manterrebbe il piazzamento), mentre nella prima sarebbe in realtà preferibile usare il gerundio passato, se davvero si vuole mantenere un rapporto di parallelismo con l’aver perso la prima battaglia (anteriore rispetto a immaginava) e l’aver vinto la guerra. Dunque una versione più corretta della frase sarebbe: «Non immaginava che avesse perso la prima battaglia, avendo però vinto la guerra». Se invece si volesse intendere che la vittoria della guerra è causa della sconfitta della prima battaglia, allora andrebbe bene il gerundio presente; ma quest’ultima interpretazione sarebbe incoerente: semmai, dovrebbe essere ribaltata (per quanto anche in questo caso la coerenza sarebbe labile): «Non immaginava che avesse vinto la guerra perdendo la prima battaglia». Per evitare equivoci sull’esatto significato della frase, sarebbe meglio trasformare la gerundiva in una subordinata esplicita, oppure utilizzando comunque un connettivo che ne chiarisca il rapporto logico tra gli elementi. Per es. «Non immaginava di aver vinto la guerra pur avendo perso la prima battaglia»; oppure (visto che il verbo immaginare, a differenza di sapere, fa ipotizzare che ancora non si sapesse l’esito della guerra, che dunque non era ancora finita all’epoca dell’immaginava; pertanto bisognerebbe ipotizzare una subordinata posteriore, e non anteriore, alla reggente): «Non immaginava che avrebbe vinto la guerra, dato che aveva perso la prima battaglia». Quest’ultima mi sembra la versione più coerente della frase 1a, e dunque forse la più fedele all’intento dell’emittente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nonostante abbia già letto molte grammatiche su imperfetto e passato prossimo, continuo ad avere dei dubbi. Ad esempio, se voglio raccontare del concerto dove sono andata, che tempo devo usare nella frase seguente: “C’erano / ci sono stati tanti cantanti al concerto”.
E in queste altre frasi qual è il tempo piú adatto?
– Stavo benissimo / sono stato benissimo in vacanza.
– Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?
– Oggi pomeriggio ero / sono stato al cinema.
– Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto.
– Ieri al concerto ero seduto / sono stato seduto dietro.
– Non hanno mai ricevuto i soldi di cui hanno avuto bisogno / hanno bisogno / avevano bisogno.
RISPOSTA:
Bisogna ricordare che l’imperfetto rappresenta l’evento come continuato nel passato, mentre il passato prossimo come concluso, sempre nel passato, ma con una persistenza delle conseguenze nel presente. A volte un tempo esclude l’altro, ma più spesso entrambi possono essere usati, modificando il significato della frase. Nella prima frase, il tempo più naturale è l’imperfetto, perché lo scopo della frase è descrivere lo svolgimento del concerto, non darne una visione complessiva; al contrario, molto strana sarebbe la frase “Il concerto era entusiasmante”, mentre del tutto naturale sarebbe “Il concerto è stato entusiasmante”, proprio perché, in questo caso, ciò che conta è la visione d’insieme, non lo svolgimento. La seconda frase è simile alla mia riscrittura della prima, per cui ci si aspetta il passato prossimo, che rappresenta la visione d’insieme della vacanza; l’imperfetto, si badi, non è del tutto escluso, ma andrebbe meglio in un contesto come “Quanto mi pesa tornare al lavoro; stavo così bene in vacanza!”. Nella terza frase le due opzioni sono ugualmente valide: con la prima ci si riferisce, ancora una volta, alla situazione nel suo svolgimento; con la seconda si considera la situazione nel suo complesso. Lo stesso vale per la quarta. Nella quinta la scelta tra volevo e ho voluto produce una conseguenza importante: con la prima forma la frase significa che la volontà del soggetto caratterizzava quel periodo, ma non esclude che, passato quel periodo, essa sia cessata e l’incontro sia avvenuto; con la seconda forma, invece, si esclude che l’incontro sia avvenuto, perché il processo del non volere è rappresentato come concluso, ovvero definitivo. Per la sesta frase vale quanto detto per la terza (“Dove eri / sei stato il 12 febbraio alle 15?”). Per l’ultima vale quanto detto per la quinta (“Voleva incontrarmi ma io non volevo / ho voluto”): avevano bisogno comporta che forse in un momento successivo non ne hanno avuto più bisogno; hanno avuto bisogno comporta che il fine per cui avevano bisogno dei soldi si è concluso, quindi in qualche modo i soggetti sono riusciti a risolvere il problema anche senza aver ricevuto i soldi. In quest’ultima frase il presente hanno bisogno cambierebbe anche il tempo, implicando che il bisogno è ancora in corso nel momento in cui il parlante sta parlando.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Traggo questa frase dall’esordio di Sosia di Dostoevskij.
“Come se non fosse ancora pienamente certo di essersi già svegliato o di non stare ancora dormendo.”
Non mi è sembrato molto chiaro il significato della frase (non stare ancora dormendo vuol dire ‘essere sveglio’, quindi non avrebbe senso). Presuppongo dunque che quel non non abbia valore e la frase corrisponda a: “Come se non fosse certo di essersi già svegliato o come se non fosse certo di stare ancora dormendo”, ma vorrei sapere se questo uso di offrire un’alternativa che è quasi una supposizione sia corretto.
Un’altra edizione dello stesso romanzo: “Come una persona che non è ancora pienamente sicura se sia desta o se dorma tuttora.”
In questo caso il significato mi è sembrato subito chiaro, ma non credo che la frase sia corretta, avendo lo stesso soggetto in forma esplicita. Vorrei capire quale delle due è la più corretta. Da qui è scaturita tutta una serie di dubbi:
“Ti giuro che sto piangendo / di stare ancora piangendo”?
“Mi rinfacciavi di stare male / che stavo male”?
RISPOSTA:
Riguardo al dubbio sul valore di non, effettivamente qui l’avverbio deve avere valore espletivo (sul quale può leggere questa risposta dell’archivio di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/non-proprio-una-negazione/), altrimenti la frase ripeterebbe due volte lo stesso concetto con parole diverse (non era certo di essere sveglio o di essere sveglio). Il non espletivo è una forma legittima e tutto sommato la logica consente di attribuirgli il valore corretto; in un contesto letterario, del resto, la precisione descrittiva e l’assenza di ambiguità non sono necessariamente obiettivi ricercati dall’emittente.
La costruzione implicita della subordinata oggettiva che condivide il soggetto della reggente non è quasi mai obbligatoria, ma è una scelta stilistica. L’obbligo scatta quando nella reggente c’è un verbo di comando o consiglio e il soggetto della completiva è la persona comandata (“Ti ordino di venire”). Nel suo primo esempio, la variante implicita (di stare ancora piangendo) è chiaramente una scelta formale, che risulterebbe inconsueta in un contesto colloquiale. Nel secondo esempio, addirittura, la variante implicita non segnala automaticamente l’identità di soggetto, perché l’identità confligge con la logica dell’intera frase (rinfacciare a qualcuno il proprio malessere è possibile soltanto all’interno di un contesto che deve essere chiarito); la costruzione, quindi, è più facilmente interpretata come se il soggetto della completiva fosse l’oggetto del verbo della reggente, ovvero come se fosse esplicita (assimilando, un po’ forzatamente, rinfacciare ai verbi di comando o consiglio).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulle frasi seguenti.
1a. È la prima volta che vedo questo film.
1b. È la prima volta che ho visto questo film.
1c. È stata la prima volta che ho visto questo film.
2a. Visto/viste tutte le poesie, abbiamo deciso che…
2b. Dato/dati i risultati, abbiamo deciso che…
RISPOSTA:
Nel primo gruppo di frasi la proposizione subordinata è di fatto una relativa (il che che la introduce è detto polivalente, ma la proposizione si comporta comunque come una relativa), quindi ha ampia libertà nella scelta del tempo verbale. La logica esclude la 1b, perché se la prima volta è presente anche la visione del film deve essere presente. Le altre due sono corrette. Nel secondo gruppo i participi passati concordano con i soggetti delle subordinate implicite (le poesie e i risultati): le proposizioni, infatti, sono equivalenti a “Essendo state viste tutte le poesie” e “Essendo stati dati tutti i risultati”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.
– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.
– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile
– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.
RISPOSTA:
Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:
– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.
Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.
– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).
In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.
L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.
– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.
Esclusa fosse.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
Tutte le forme sono possibili.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.
Tutte le forme sono possibili.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.
Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
Tutte le forme sono possibili.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).
Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.
Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.
In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.
La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.
Impossibile avessimo trovato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un discorso racconto o poesia, passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?
RISPOSTA:
In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:
«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo all’uso del termine quest’ultimo, per il fatto che ho paura che ci siano dei fraintendimenti nelle frasi e nei concetti espressi. L’esempio è questo:
«Carla l’ultima volta che l’ho vista indossava una giacca di lana, quest’ultima era molto bella e aveva un colore blu scuro”. In questa frase è possibile che ci sia l’ambiguità quando si usa quest’ultima insieme agli aggettivi bella e di colore blu scuro, che magari non si capisce se questi aggettivi sono riferiti alla giacca come capo d’abbigliamento nella sua interezza o specificamente e solamente alla stoffa di lana di cui è composta la giacca? Chiedo questo perché l’ultimo sostantivo in ordine di apparizione nella frase è la parola lana che viene dopo la parola giacca, quindi quest’ultima potrebbe sembrare si riferisca solo a lana anziché a giacca.
RISPOSTA:
In effetti è spesso problematico il recupero anaforico di quest’ultimo, motivo per cui, in casi dubbi, è meglio ripetere il sintagma piuttosto che pronominalizzarlo con quest’ultimo. Ora nel caso che pone lei il buon senso aiuta a non riferirsi alla lana, ma all’intero capo di abbigliamento, però ci sono casi davvero problematici, soprattutto nei giornali, e soprattutto, come dice lei, nel caso di sintagmi che dipendono da altri sintagmi. Per esempio: «Il figlio del tabaccaio è stato rapito. Quest’ultimo aveva trent’anni». Chi, il tabaccaio o suo figlio? Meglio ripetere: Il figlio aveva trent’anni.
Fabio Rossi
QUESITO:
Una commentatrice mi ha contestato la costruzione di una frase tramite l’estensore del seguente articolo:
«“Ancora una volta XXX NON perde occasione per tacere e fare un uso sconsiderato e violento dei social network – afferma YYY –”… che dovrebbe, prima, imparare l’italiano (Non per difendere XXX, ma la nostra lingua)».
Faccio osservare alla commentatrice che:
«Non capisco se ti riferisci al NON, visto che l’hai evidenziato:
“La negazione espletiva (o fraseologica) è in linguistica la comparsa facoltativa di un elemento con valore di negazione (ad esempio, l’italiano non), senza che cambi il significato della frase. Si parla anche di negazione pleonastica, dato che la presenza della negazione è ritenuta superflua (pleonastica) o giustificata al più da considerazioni stilistiche.”. O trattasi di altro?».
Al che lei ribatte:
«Trattasi del fatto che, col non, il concetto assume proprio il significato opposto.
Avrebbero dovuto scrivere perde l’occasione di tacere o non perde l’occasione di fare un uso sconsiderato etc etc. I due concetti sono in antitesi. Il primo è considerato positivo e il secondo negativo, ma li hanno accorpati nella stessa frase usando lo stesso verbo. OK?».
Per me ci sono due questioni. La prima è che quel NON può essere considerato una negazione pleonastica o espletiva, per cui …NON perde occasione per tacere… ha lo stesso valore di … perde l’occasione di tacere…; la seconda è che le frasi non sono affatto in antitesi, in quanto nella seconda …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sottesa la stessa condizione che ha definito la prima, ovvero e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network.
Infatti, di nuovo faccio osservare che:
«E infatti avevo intuito giusto. Quel NON non è una negazione vera e propria, ma un accorgimento stilistico che non cambia il senso della frase, come ho evidenziato nella citazione riportata. Frase che resta sempre del valore di perde l’occasione di tacere. Inoltre, se nel primo concetto, cioè perde occasione per tacere è stato specificato il NON, nel secondo …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sotteso, per cui diventa …e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network. Insomma, il comun denominatore è NON perde occasione…, i concetti a cui si riferisce sono per tacere… e … e (di) fare uso…».
A giustificazione, porto gli esempi della Treccani:
“Non sono propriamente negative le frasi comparative, esclamative e temporali, nelle quali il non (soggetto a frequenti oscillazioni nell’uso) è solo espletivo, cioè riempitivo e opzionale:
a. è più furbo di quanto non pensassi
b. quante sciocchezze non ha detto!
c. l’ho aspettato finché non è arrivato”.
Ora, anche se la frase imputata, a mio avviso, potrebbe rientrare benissimo nella categoria del caso “b.” riportato da Treccani, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutrice, Le chiedo: abbiamo a che fare o no con una negazione espletiva?
RISPOSTA:
La commentatrice ha ragione: il non nella sua frase non è pleonastico, ma ha pieno valore sintattico. Lo dimostrano due rilievi: 1. se lo eliminiamo la frase passa a significare l’opposto (mentre se eliminiamo un non pleonastico la frase continua ad avere lo stesso significato); 2. come lei stesso argomenta, il non ha pieno valore in relazione al secondo verbo (non perde occasione per fare un uso sconsiderato…): ha, quindi, necessariamente lo stesso valore proprio nel primo caso (non perde occasione per tacere). Non è possibile, insomma, che il non abbia, all’interno della stessa costruzione duplicata (non perde occasione), prima un valore e poi un altro. La frase corretta potrebbe prendere due strade: negare due azioni valorialmente negative, per esempio così: “Ancora una volta XXX non perde l’occasione per parlare a sproposito e fare un uso sconsiderato e violento dei social network”; affermare due azioni valorialmente positive, per esempio così: “Ancora una volta XXX perde l’occasione per tacere e per fare un uso moderato e pacifico dei social network” (soluzione sicuramente meno incisiva).
Si noti che nella riscrittura ho sostituito l’espressione perdere occasione con perdere l’occasione, perché la variante senza articolo è adatta a descrivere comportamenti in modo generico (non perde mai occasione per fare una battuta), mentre qui si parla di un evento specifico, per quanto inserito nel quadro di un comportamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei inoltrarvi due quesiti.
Il primo di questi riguarda la negazione “né”.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato negli uffici, né (che) abbia subito modifiche.
– Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né (che) sia stata presentata ad altri uffici?
– Senza essere stato nominato né aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere?
Le tre costruzioni sono corrette dal punto di vista sintattico? I “che” indicati tra parentesi nelle prime due sono consigliati, errati o a discrezione dello scrivente?
RISPOSTA:
Né significa letteralmente ‘e non’, quindi si può usare soltanto in frasi che richiederebbero, se non coordinate, un non inziale. Senza non equivale a non, sebbene esprima, ovviamente, l’idea negativa della privazione. Dunque se a senso, e nell’italiano informale, le alternative da lei proposte sono accettabili, non lo sono a rigore secondo l’italiano atteso in un testo formale. Eccone le possibili riscritture, che tengono conto anche della richiesta sull’uso di che e di altri fattori.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato prima negli uffici e senza che abbia subito modifiche. In questo caso andrebbe aggiunto un prima, forse: se la notizia può essere diffusa, come potrebbe non circolare? Inoltre, l’intera frase è davvero molto faticosa (anche a causa di quel sia circolato, che tra l’altro andrebbe preferibilmente cambiato in abbia circolato). Eccone una possibile variante più elegante, più chiara e meno burocratica: La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana; prima di allora, non potrà circolare negli uffici né essere modificata.
– Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né [il che non si ripete quasi mai, in coordinazione a precedente proposizione con che] sia stata presentata ad altri uffici (oppure: e che non sia stata presentata ad altri uffici). Questa frase è davvero strana: perché mai una domanda non dovrebbe contenere richieste specifiche, dal momento che è, per l’appunto, una domanda, cioè una richiesta? Insomma, il primo requisito di un testo è che dica cosa sensate, non senza senso, di là dalla forma in cui è scritto.
– Senza essere stato nominato e senza aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere? Anche qui si può esprimere lo stesso concetto in modo più chiaro, elegante e meno faticoso: Un autore che non abbia presentato domande ad altre competizioni può presentare le sue opere?
Fabio Rossi
QUESITO:
La mia domanda riguarda la traduzione del seguente testo in lingua inglese.
“Having worked with any number of students through the years, I feel that meditators should follow the breathing where it seems most vivid and comfortable to them, where it is most likely to hold their attention. None of these places will always, in every sitting, remain the most vivid. But it is important not to keep jumping from one to another, feeding an already restless mind”.
Nella frase None of this places will always, in every sitting, remain the most vivid l’avverbio always non significa ‘in tutte le sedute’, sta solo dicendo che sempre in ogni seduta accade questo? Per spiegarmi meglio, non sta spiegando tra le parentesi cosa intende per always.
RISPOSTA:
La parte tra virgole, in every sitting, contraddice il verbo remain, perché il fatto che i posti non rimarranno vividi nel ricordo riguarda certamente la vita futura oltre le sedute, non le sedute di meditazione future. La traduzione che mi sembra più plausibile è questa: “Nessuno di questi posti sperimentati nelle sedute rimane mai più vivido degli altri”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se scrivendo una frase come “Voleva la medaglia d’oro, ma fallì”, siccome si intende che fallì non nel volere la medaglia ma nell’ottenerla, quest’ultimo verbo è sottinteso?
RISPOSTA:
Nella frase, in teoria se non si specifica in che cosa il soggetto fallisca, il verbo fallire si riferisce al volere; la logica, però, consente di colmare questo vuoto e chiarisce che il fallimento non può che riguardare l’ottenimento della medaglia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Queste due frasi sono scritte correttamente, anche a livello di punteggiatura? In particolar modo, mi interessa sapere se la congiunzione causale perché è appropriata per la frase oppure se ci sono altri modi per formularla meglio. La stessa cosa per quanto riguarda la seconda, cioè se anche quest’ultima è scritta correttamente o se si può formulare meglio. Inoltre mi interessa sapere se la virgola prima di fino a quando sia corretta oppure facoltativa. Nel caso in cui fosse opzionale, vorrei sapere quale sia la differenza fra le due varianti.
1a) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché è eccessivamente minuscolo; tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.
1b) In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non riesce: è eccessivamente minuscolo. Tuttavia non si arrende, e finalmente dopo diversi sforzi riesce ad afferrarlo.
2a) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.
2b) La ragazza lascia che l’olio coli giù dalla bottiglia, fino a quando la pozzanghera d’olio diventa così grande che inizia ad allagare tutta la cantina. Va avanti così per 2 minuti.
RISPOSTA:
Tutte le varianti sono possibili e tutto sommato ben scritte, con qualche sbavatura nella prima frase. In questa, il perché è appropriato: alternative ugualmente valide sono in quanto, dal momento che, poiché, visto che, dato che. Aspetti migliorabili della frase sono altri: l’omissione del soggetto nella proposizione causale è inappropriata perché il soggetto della proposizione reggente è diverso; l’espressione eccessivamente minuscolo, inoltre, è ridondante, visto che minuscolo è semanticamente un superlativo (sarebbe come dire troppo minuscolo); l’espressione dopo diversi sforzi richiede un incassamento interpuntivo, perché è un’espansione, ovvero un dettaglio aggiuntivo, inserita in mezzo alla frase. L’espressione riesce ad afferrarlo, infine, è ripetitiva rispetto allo sviluppo precedente della frase: poco prima, infatti, è scritto tenta di afferrare… non ci riesce. Quest’ultima osservazione è di natura stilistica: la ripetizione è, in questo caso, sgradevole ma grammaticalmente legittima.
La prima versione della prima frase, pertanto, può essere migliorata così:
In seguito la ragazza tenta di afferrare lo spillo, ma inizialmente non ci riesce perché esso / questo è minuscolo / troppo piccolo; tuttavia non si arrende, e finalmente, dopo diversi sforzi, lo prende / ha successo.
Per la seconda versione della prima frase valgono le stesse osservazioni fatte per la prima versione. Per quanto riguarda la punteggiatura alternativa, è una soluzione valida tanto quanto la prima. I due punti svolgono qui la funzione di anticipare una spiegazione di quanto è stato detto prima; in questa versione, pertanto, la proposizione è eccessivamente minuscolo è esplicativa, non causale (come se fosse infatti è eccessivamente minuscolo). Si noti che il collegamento giustappositivo (ovvero la coordinazione tramite punteggiatura) tra la proposizione precedente e quella seguente i due punti rende più accettabile l’omissione del soggetto di quest’ultima: non è, quindi, necessario inserire al suo interno un pronome con la funzione di soggetto.
Il punto prima di tuttavia separa più nettamente la prima parte dalla seconda, creando due frasi, quindi due informazioni, distinte, mentre nella prima versione il punto e virgola separava le due parti mantenendo un collegamento logico più stretto. Allo stesso modo, la virgola prima di e tuttavia crea una piccola frattura logica tra l’informazione non si arrende e quella che segue, per cui la frase andrà interpretata come una sequenza di due informazioni tra loro collegate, non come un’unica informazione. Alla luce dell’aggiunta delle virgole che racchiudono dopo diversi sforzi è sensato non inserire questa virgola, per evitare la sequenza , e finalmente, dopo diversi sforzi, (si tratta, comunque, di una scelta stilistica: in nessuno dei due casi si incorre in errore).
La virgola prima di fino a quando nella seconda frase opera allo stesso modo della virgola prima di e finalmente: produce una piccola frattura logica tra la parte precedente e quella successiva, indicando che la frase contiene due informazioni tra loro strettamente collegate, non un’unica informazione complessa. Senza virgola l’azione del lasciar colare è vista nell’ottica dell’allagare la cantina: la ragazza lascia colare l’olio proprio con questo scopo; con la virgola, invece, l’azione del lasciar colare è autonoma e l’allagamento è rappresentato come una conseguenza collegata, ma non insita nell’azione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alla frase:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente essendo stata estrapolata una frase da un contesto ben più ampio.”
La domanda è: la frase è espressa in modo corretto?
La contestazione dei ricorrenti è ritenuta apodittica e non autosufficiente perchè l’adempimento è stato compiuto o perchè è stata estrapolata una frase? Oppure vi è il concorso di entrambe le circostanze?
RISPOSTA:
In questa forma, la frase collega le qualità della contestazione soltanto all’estrapolazione della frase. Va detto che la scelta del gerundio passivo non aiuta la comprensione, perché rende ambiguo il riferimento tematico. Suggerisco, pertanto, di riformulare così:
“Ma tale adempimento è stato, appunto, compiuto e la contestazione dei ricorrenti circa le modalità di svolgimento di tale ascolto è del tutto apodittica e non autosufficiente poiché basata sull’estrapolazione di una frase da un contesto ben più ampio.”
Rilevo, inoltre, una scelta lessicale non felice: apodittico significa ‘autoevidente, logico, che non necessita dimostrazioni’, mentre non autosufficiente significa, in questo contesto, ‘che necessita di ulteriori prove’ (sempre che io interpreti correttamente la frase): sembra, quindi, da una parte che i due aggettivi si contraddicano, dall’altra che soltanto il secondo sia coerente con il rigetto della contestazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste indicarmi se nelle due espressioni sottostanti la data si riferisce all’inizio del pagamento del mantenimento o all’inizio della rivalutazione Istat?
1. In ordine all’entità di detto assegno, che la ricorrente ha chiesto determinarsi nella somma di euro XXX, si ritiene congruo, anche tenuto conto dell’attuale condizione lavorativa del marito, di determinarlo nella somma di euro YYY mensili, importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a decorrere dall’1.6.2022.
2. … determina il contributo al mantenimento dei minori da parte del padre, nella somma di euro YYY mensile, da versare alla moglie entro il giorno cinque di ogni mese importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a decorrere dall’1.6.2022.
RISPOSTA:
La data si riferisce all’inizio del pagamento. Non solo è più logico che sia così (sarebbe, infatti, stranamente pignolo richiedere che la rivalutazione parta da un momento intermedio dell’anno e non dall’inizio dell’anno, come, del resto, suggerisce l’aggettivo annualmente), ma è anche la punteggiatura che lo chiarisce. Nel primo stralcio, la parte che si trova tra due virgole (, importo da rivalutare annualmente secondo indici Istat,) va considerata un inciso, quindi potrebbe anche essere estratta, lasciando determinarlo nella somma di euro YYY mensili a decorrere dall’1.6.2022. Vero è che la mancanza di un verbo che regga a decorrere dall’1.6.2022 rende un po’ forzata la costruzione e induce quindi a collegare la proposizione a rivalutare, ma tale collegamento sarebbe indebito. Il secondo stralcio ha una costruzione meno chiara, ma in compenso presenta il verbo versare, che regge a decorrere dall’1.6.2022. Quest’ultima proposizione, inoltre, è separata con la virgola da rivalutare annualmente secondo indici Istat, a rafforzare la separazione tra le due informazioni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Parlando con uno straniero mi è venuto un dubbio. È meglio dire ero interessato a questa cosa o me ne ero interessato? Gli ho detto che erano due espressioni equivalenti invece ora mi rendo conto che hanno un significato diverso. Lui intendeva dire che una cosa aveva destato interesse in lui per un po’, ma voleva sapere come dirlo senza indicare quella cosa specifica.
Il mio dubbio è questo: posso dire ero interessato a questa cosa senza un pronome indiretto o devo dire
mi interessava questa cosa? Mi ha chiesto se si può usare il ne al posto di questa cosa, ma così mi sembra che cambi il senso. Leggendo sulla Treccani sembra che sia giusto solo interessarsi a, ma a me le frasi ero interessato a lui e mi sono interessata a lui sembrano diverse.
RISPOSTA:
Nella sua domanda si sovrappongono due questioni diverse: da una parte la differenza tra il verbo interessarsi e l’espressione essere interessato; dall’altra la possibilità di pronominalizzare (ovvero sostituire con un pronome) il sintagma proposizionale a questa cosa con ne.
Per quanto riguarda la prima questione, interessarsi è quasi un sinonimo di essere interessato; contiene, però, una sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto non riscontrabile in essere interessato. Con interessarsi, cioè, si descrive l’interesse come attivo, non statico; per questo motivo interessarsi significa anche ‘prendersi cura, occuparsi’, e persino ‘intervenire per la risoluzione di un problema’.
Oltre alla differenza semantica, tra le due forme c’è una differenza sintattica, perché interessarsi richiede la preposizione a quando è sinonimo di essere interessato, la preposizione di quando significa ‘prendersi cura, occuparsi’ o ‘provvedere per la risoluzione di un problema’; essere interessato, invece, richiede sempre la preposizione a, mai di. Come conseguenza, essere interessato a una cosa è molto simile a interessarsi a una cosa; interessarsi di una cosa, invece, significa tutt’altro, ovvero ‘occuparsi di una cosa’, oppure ‘provvedere’ (nel caso in cui la cosa sia una problema da risolvere).
A rigore, un complemento di termine (come a una cosa) può essere pronominalizzato con gli o le; questi pronomi, però, hanno un chiaro riferimento umano e difficilmente li associamo a oggetti inanimati; in questo caso, inoltre, il complemento di termine non indica una persona a cui viene dato qualcosa, ma soltanto l’oggetto di un interesse (e può essere definito, infatti, complemento oggetto preposizionale), quindi rifiuta a maggior ragione la pronominalizzazione con i pronomi indiretti. Per questo motivo un parlante nativo non direbbe mai esserle interessato (o io le sono interessato), ma preferirà sempre essere interessato a una / quella cosa (e io sono interessato a una / quella cosa). Lo stesso vale per interessarsi: nessun parlante direbbe interessarlesi (o io le mi interesso), ma dirà sempre interessarsi a una / quella cosa (e mi interesso a una / quella cosa).
Diversamente, un complemento di specificazione o partitivo può essere pronominalizzato quasi sempre con ne, per questo è possibile dire interessarsene. Si badi, però, che non è possibile dire *esserne interessato perché significherebbe *essere interessato di una cosa, che non è corretto. Inoltre, interessarsene non significa essere interessato a una cosa, ma ‘occuparsi di una cosa’ oppure ‘provvedere alla risoluzione di un problema’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il pronome ne può alludere a due sintagmi distinti all’interno della stessa frase? In questi casi ci si affida alla logica, che ci permetterebbe di risalire al giusto riferimento, oppure esiste una regola grammaticale che inibisce tutto ciò?
Un esempio: “Abbiamo intervistato una ragazza di diciotto anni, ma dovremmo intervistarne anche una che ne avesse venti”.
RISPOSTA:
La costruzione è possibile e corretta: come ha supposto lei, in casi come questi la logica permette di ricondurre i due pronomi ognuno al suo antecedente. Piuttosto, nella sua frase la sbavatura è il tempo del congiuntivo nella proposizione relativa; visto che la qualità dell’età è presente, il congiuntivo deve essere presente (che ne abbia venti).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio circa la seguente costruzione:
“Michele ascoltò la storia della sua adolescenza vista dall’esterno: in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso”.
È corretto scrivere (o dire) lui stesso, o si sarebbe dovuto propendere per se stesso?
RISPOSTA:
Questa frase è senz’altro un caso limite: rappresenta una situazione in cui una persona sente parlare di sé da un’altra persona. Non è sorprendente che questo provochi una certa confusione nei riferimenti dei pronomi. A rigore, sé rimanda al soggetto della frase, quindi nella frase in quelle parole, lucide, c’era tutto lui stesso non si può usare, perché il soggetto della frase non è Michele, bensì tutto lui stesso. Ne consegue che lui stesso è il pronome corretto. Nello stesso tempo, però, è evidente che tutto lui stesso è proprio Michele, quindi sé stesso è giustificabile per logica.
Piccola notazione grafematica: nonostante l’inveterata abitudine a scrivere sé senza accento quando è seguito da stesso, consiglio di mantenere sempre l’accento, perché la parola è sempre la stessa e non c’è ragione di modificarne la grafia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla correttezza dei verbi in questa frase: “Già piangeva, prima di sapere se l’avrei interrogata”.
RISPOSTA:
Le forme verbali sono corrette: l’infinito sapere nella temporale è richiesto dall’identità di soggetto tra la temporale stessa e la reggente ed è in linea con la consecutio temporum, perché il sapere è successivo al piangere. Il condizionale passato avrei interrogata nella interrogativa indiretta è a sua volta in linea con la consecutio, perché l’evento è successivo rispetto a un altro evento passato, ovvero sapere (consideriamo l’evento del sapere passato perché esso è successivo rispetto a un tempo passato). Si intende, ovviamente, che il pronome eliso l’ stia per la, così da giustificare il participio femminile singolare interrogata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quando è possibile non usare il trapassato prossimo? Nelle seguenti frasi, l’anteriorità non viene espressa con il trapassato ma con gli avverbi di tempo:
“Stamattina Franco mi ha detto che ieri è andato dal medico”.
“Marta ha detto che ieri è rimasta a casa tutto il giorno”.
Forse se l’avverbio di tempo esprime chiaramente la relazione dei due fatti passati non è necessario esprimerla con i tempi passati? Quindi sarebbe sbagliata la frase con il trapassato?
Nell due frasi seguenti al passato però bisogna esprimere l’anteriorità con il trapassato. Quindi non sarebbero giuste con il passato prossimo?
“A casa di Lucia ho rivisto una ragazza che avevo conosciuto qualche mese fa in discoteca”.
“Ieri Giulio mi ha reso i soldi che gli avevo prestato un mese fa”.
Nelle seguenti frasi al futuro bisogna usare il passato prossimo o il futuro anteriore? O tutto dipende dal fatto che l’azione sia già accaduta o no?
“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”.
Sono andate = già di sicuro sono accadute;
saranno andate = queste cose non sono ancora avvenute.
“Se Luisa non ci vedrà alle sei, penserà che ci siamo / ci saremo dimenticati dell’appuntamento.
“Diremo ai nostri amici che siamo / saremo dovuti restare a casa fino a quando tornerà Carlo”.
“Sergio sarà sicuro che noi abbiamo / avremo sbagliato strada”.
“Quando vedranno che il figlio è / sarà rimasto a dormire fuori, si arrabbieranno certamente.
RISPOSTA:
La ragione della preferenza per il passato nelle proposizioni subordinate completive nelle prime due frasi è senz’altro la vicinanza dell’evento della reggente al presente e, in più, la presenza dell’avverbio ieri nella subordinata, che instaura una relazione diretta con il presente (ovvero con il momento dell’enunciazione), non con il momento di riferimento, rappresentato dal verbo della reggente. Se modifichiamo ieri con il giorno prima, vediamo che il trapassato diviene molto meno forzato (per poterlo fare, però, dobbiamo anche spostare la principale indietro nel tempo): “L’altro giorno Franco ha detto che il giorno prima è / era andato dal medico”; “Marta ha detto che il giorno prima è / era rimasta a casa tutto il giorno”. Il passato nella completiva rimane possibile anche spostando indietro nel tempo l’evento della reggente: questo avviene perché nella reggente c’è ancora il passato prossimo, che mantiene una relazione logica con il presente. Se sostituiamo il passato prossimo con il passato remoto o con l’imperfetto, il passato prossimo nella completiva diviene quasi impossibile: “Franco disse / diceva che il giorno prima era andato dal medico”; “Marta disse / diceva che il giorno prima era rimasta a casa tutto il giorno”.
Nelle seconde due frasi le subordinate sono relative, non completive. Le relative sono del tutto svincolate dalla consecutio temporum e prendono il tempo che serve a indicare il momento in cui è avvenuto l’evento. Il tempo usato a volte coincide con quello della consecutio (come nei suoi esempi), ma può essere diverso; ce ne accorgiamo perché possiamo usare al suo interno il passato remoto, che nella consecutio temporum non è contemplato: “A casa di Lucia ho rivisto quella ragazza di cui ti parlai qualche mese fa in discoteca”.
Nell’ultimo gruppo di frasi, infine, si può usare il passato prossimo e il futuro anteriore. La differenza è nel punto di vista da cui si guarda l’evento della completiva. Prendiamo ad esempio la prima frase (“A voce ti dirò come sono / saranno andate le cose con Franco”): se si considera il momento dell’evento della reggente (dirò) come futuro rispetto al momento dell’enunciazione (adesso) nella completiva si userà il futuro anteriore (saranno andate), se lo si considera come coincidente con il momento dell’enunciazione (dirò = adesso) si userà il passato prossimo (sono andate). In questo secondo caso, ovviamente, si fa una piccola forzatura logica, immaginando di spostarsi per un attimo nel futuro e di guardare l’evento della completiva da quel punto di vista come se fosse presente. I parlanti fanno spesso tale forzatura per semplificare la costruzione delle frasi eliminando il problema del momento di riferimento. Questa scelta comporta una conseguenza negativa: si crea ambiguità tra i punti di vista. Il passato prossimo, infatti, può riferirsi anche a un momento precedente all’evento della reggente. In “A voce ti dirò come sono andate le cose con Franco”, cioè, sono andate può essere successo prima di adesso (momento dell’enunciazione) o prima di dirò (momento di riferimento = momento dell’enunciazione). Il fatto che il passato prossimo sia più ambiguo del futuro anteriore lo rende più trascurato; spesso, però, nella comunicazione reale l’ambiguità si risolve in altri modi, per cui il passato prossimo è un’opzione valida.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In questa frase è vero che vanno bene entrambe le forme verbali?
Ho saputo che Nicola domenica prossima sarebbe partito / partirà con la macchina e non con l’aereo.
RISPOSTA:
L’indicativo futuro è preferibile per due ragioni: 1. quando il momento dell’enunciazione, cioè adesso, si inserisce tra il momento di riferimento (in questo caso quello in cui ho saputo) e il momento dell’evento (partirà), il momento dell’enunciazione attrae il tempo dell’evento, che quindi entra in relazione con il presente; 2. il passato prossimo (ho saputo) è proiettato sul presente, per cui spesso si comporta come il presente nella consecutio temporum. Il condizionale passato non si può dire scorretto, ma è forzato; sarebbe più adatto in dipendenza da un imperfetto o un passato remoto: sapevo / mi dissero che domenica prossima sarebbe partito. Per la ragione 1. spiegata sopra, comunque, anche in questo caso si può usare anche l’indicativo futuro: sapevo / mi dissero che domenica prossima partirà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le locuzioni a meno che e a a meno di sono intercambiabili a prescindere dalla costruzione che vadano a comporre? Se e quando sarebbe eventualmente opportuno sceglierne una a discapito dell’altra?
Nel caso, ad esempio, di coincidenza dei soggetti di reggente e subordinata, è suggerito l’uso di a meno di, per evitare che si vengano a creare difficoltà interpretative?
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno di non sbagliare l’esame finale.
Lo studente sarebbe stato ammesso all’università, a meno che non sbagliasse (avesse sbagliato?) l’esame finale.
Chiedo, infine, se la scelta tra congiuntivo presente o congiuntivo imperfetto, oppure tra imperfetto e trapassato (come nell’esempio sopra), dipende dal grado di attuazione dell’evento che descrivono.
Non vorrei farlo, a meno che lui non me lo chieda/chiedesse.
RISPOSTA:
Come mostrato dai suoi esempi, a meno che introduce una proposizione eccettuativa esplicita, al congiuntivo o all’indicativo, a meno di introduce la stessa proposizione implicita, cioè all’infinito. La domanda, pertanto, dovrebbe riguardare la differenza non tra le due locuzioni congiuntive, ma tra le due costruzioni della proposizione. Questa proposizione si costruisce quasi sempre in modo esplicito (quindi è introdotta da a meno che); il modo implicito (per il quale è richiesta a meno di) si può usare soltanto quando il soggetto coincide con quello della reggente, ma anche in questo caso la costruzione esplicita è comunissima, come si vede ancora dai suoi esempi.
Per quanto riguarda i tempi del congiuntivo all’interno di questa proposizione, essi dipendono dalla consecutio temporum: il presente indica contemporaneità o posteriorità rispetto al presente, l’imperfetto contemporaneità o posteriorità rispetto al passato, il passato anteriorità rispetto al presente, il trapassato anteriorità rispetto al passato. Il condizionale passato, infine, può essere usato in alternativa con il congiuntivo imperfetto per indicare la posteriorità rispetto al passato. Da questo quadro consegue che le due varianti della seconda frase sono corrette, ma diverse: a meno che non sbagliasse descrive l’evento come posteriore rispetto al momento di riferimento passato implicito nella frase, sullo stesso piano di sarebbe stato ammesso, anch’esso posteriore rispetto allo stesso momento di riferimento implicito; a meno che non avesse sbagliato, invece, descrive l’evento come precedente rispetto a sarebbe stato ammesso. Nella frase finale la situazione è leggermente diversa: a meno che non me lo chiedesse dovrebbe essere impossibile, perché il verbo reggente è al presente, ma il condizionale vorrei avvicina la frase a un periodo ipotetico del secondo tipo = lo farei se lui me lo chiedesse, che rende l’imperfetto accettabile (ma non preferibile). Non a caso, se al condizionale vorrei farlo sostituiamo l’indicativo, l’imperfetto diviene difficilmente giustificabile (*non lo faccio a meno che lui non me lo chiedesse), perché il modello del periodo ipotetico non è più attivato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase seguente si possono usare entrambi i verbi?
“Lucia si stancò di parlare con l’amico Stefano quindi gli disse che doveva andare / sarebbe andata a fare la spesa”.
RISPOSTA:
I verbi sono corretti, ma ci sono delle differenze tra l’uno e l’altro. Il primo esprime l’idea di futuro nel passato, ovvero di un evento (andare) successivo a un altro passato (disse), con l’indicativo imperfetto; il secondo fa lo stesso con il condizionale passato. L’indicativo imperfetto è meno formale, più familiare e adatto al parlato rispetto al condizionale passato, che è comunque adatto a tutti i contesti. La scelta tra l’uno e l’altro verbo andrà fatta, quindi, sulla base del registro che si vuole tenere nel discorso.
Il primo, inoltre, integra il servile dovere, che aggiunge una sfumatura di significato assente nel secondo. Con il primo verbo, infatti, l’azione dell’andare è rappresentata come obbligata, non come certa (il soggetto dice che deve andare, lasciando aperta la possibilità che scelga di non andare); con il secondo, invece, l’azione è rappresentata come già stabilita, anche se permane un minimo grado di incertezza necessariamente legato all’idea stessa di futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi interpello a proposito della posizione e della funzione che possano, di volta in volta, assumere nomi e pronomi all’interno di un periodo. Partiamo con le seguenti costruzioni:
1A) Se non potesse farti una visita, Marco potrebbe telefonarti?
1B) Se Marco non potesse farti una visita, potrebbe telefonarti?
2A) Quando lui le passò accanto, Donatella lo guardò con attenzione.
2B) Quando lui passò accanto a Donatella, lei lo guardò con attenzione.
Nonostante il significato sia il medesimo, quale costruzione consigliereste?
Procediamo con il secondo e ultimo caso:
3) Ognuno all’occorrenza presenterebbe la propria motivazione. Queste / Esse sarebbero quindi valutate da una commissione speciale.
Queste / Esse si riferiscono alle motivazioni considerate nella loro totalità (e ciò mi pare che sia facilmente arguibile dalla semantica della frase). Ma a livello grammaticale è corretto usare un pronome plurale per riferirsi a un soggetto o a un complemento che, come nell’esempio sopraindicato, è al singolare?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda le frasi 1 e 2 la preferenza è legata al contesto in cui le frasi sono inserite, visto che sono tutte ugualmente corrette. La frase 1A ritarda la presentazione di un elemento (Marco) introducendolo la prima volta con una ellissi (se non potesse); la 2A fa quasi lo stesso, ma usa un pronome (le) che rimanda alla presentazione successiva (Donatella) dell’elemento anticipato, e vieve detto per questo cataforico. Nella frase 1B, al contrario, l’elemento viene presentato fin da subito in forma piena, e poi ripreso nella 1B con una ellissi (potrebbe); nella 2B, infine, l’elemento introdotto è ripreso con un pronome (lei) che rimanda all’indietro, e viene detto per questo anaforico.
La costruzione cataforica è più insolita e sorprendente; è adatta allo scritto più che al parlato, e in particolare a uno scritto in cui spicchi la funzione poetica, ovvero l’uso della lingua a scopo estetico, per suscitare emozioni nel lettore.
Nella frase 3 la concordanza tra il nome singolare (motivazione) e un pronome plurale (queste o esse) è al limite dell’accettabilità. Per quanto Ognuno… la propria motivazione sia logicamente assimilabile a tutti… le proprie motivazioni, grammaticalmente l’accordo è scorretto. Preferibile è, pertanto, Questa / Essa sarebbe quindi valutata…, oppure, appunto, Tutti… le proprie motivazioni. Queste / Esse sarebbero quindi valutate… Possibile anche una soluzione di compromesso: Ognuno… la propria motivazione. Tutte le motivazioni presentate sarebbero quindi valutate…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi “Io vengo a Milano” e “Io vado a Milano” hanno lo stesso significato e sono entrambe corrette?
RISPOSTA:
Sono entrambe corrette ma hanno un significato leggermente diverso. Il verbo andare significa ‘spostarsi verso un posto nel quale non sono presenti né il parlante né la persona con cui si sta parlando’; venire, invece, significa ‘spostarsi verso un posto dove sono presenti o il parlante, o la persona con cui si sta parlando, o entrambi’. Quindi vado a Milano implica che la persona con cui si sta parlando non sia a Milano (e ovviamente neanche il parlante, visto che è lui che si sposta); vengo a Milano implica che la persona con cui si sta parlando sia a Milano (ma, ancora, non il parlante, visto che è lui che si sposta).
Se la persona che si sposta è quella a cui ci si rivolge (tu o voi) o una terza persona, è il luogo in cui si trova il parlante a determinare la scelta: tu vai a Milano / Mario va a Milano (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano (se il parlante è a Milano).
Si noti che la terza persona non è influente nella scelta tra i due verbi: contano soltanto il parlante e la persona a cui il parlante si rivolge. Vengo a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo è a Milano; vado a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo non è a Milano; tu vai a Milano / Mario va a Milano con Andrea (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano con Andrea (se il parlante è a Milano).
Nel caso in cui nessuno degli interlocutori sia nel luogo verso dove il soggetto di prima o seconda persona (io / noi o tu / voi) si sposta, ma uno dei due accompagni l’altro, si sceglie ancora venire, anche se di norma sarebbe richiesto andare; per questo si dice vengo a Milano con te e vieni a Milano con me (anche se è chiaro che nessuno di noi due si trova a Milano) e non vado a Milano con te, né vai a Milano con me. Un confronto tra italiano e inglese a proposito di quest’uso si può leggere nella risposta “Andare e venire tra italiano e inglese” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riconosco di incontrare talvolta un qualche problema nel risalire alla cosa o alla persona cui si riferisce il ne. Un esempio è questo:
1a) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché ne acquisisca il metodo”.
Ecco: chi deve acquisire il metodo di chi?
Supporrei che sia Giulia a dover imparare da Valentina. Nel caso la mia interpretazione sia giusta, se volessimo ribaltare i ruoli, dovremmo escogitare formule più precise (ma meno snelle) come
1b) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché questa acquisisca il metodo di quella” oppure basterebbe
1c) “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché quest’ultima ne acquisisca il metodo”?
Mi chiedo inoltre se la grammatica ci dia regole ferree a tal proposito, oppure se ci si possa sempre affidare alla logica.
Porto un altro esempio che mi è capitato di formulare:
2a) “Bisogna associare l’autorimessa all’appartamento, affinché ne diventi pertinenza”.
Seguendo la sola logica, la frase è di immediata comprensione: l’unico immobile destinato a diventare pertinenza può essere l’autorimessa. Ma prescindendo dalla logica, la frase è corretta sotto il profilo sintattico?
Se essa fosse stata costruita diversamente, invertendo le posizioni dei complementi, per ottenere lo stesso messaggio, avremmo potuto scrivere
2b) “Bisogna associare l’appartamento all’autorimessa, affinché quest’ultima diventi la sua pertinenza”?
RISPOSTA:
Il collegamento tra i pronomi e i nomi (o gli altri pronomi) a cui questi si riferiscono è un punto in cui la grammatica incontra la testualità. Da una parte, infatti, abbiamo l’accordo morfologico, ovvero l’adattamento del pronome al nome a cui si riferisce (nel caso di ne questo adattamento non si vede, perché questo pronome è invariabile), dall’altra abbiamo la coreferenza, ovvero la capacità di più parole di rimandare allo stesso referente. Nella sua frase 1a, per esempio, Valentina e ne rimandano allo stesso referente, che è la persona di Valentina. La coreferenza richiede sempre un minimo di sforzo interpretativo da parte del ricevente, perché non è di per sé evidente che, rimanendo al nostro esempio, Valentina e ne rimandino alla stessa persona, visto che sono parole così diverse. Nella stessa proposizione finale in cui si trova ne c’è anche un’altra forma coreferenziale: l’ellissi del soggetto di acquisisca. L’ellissi è una forma coreferenziale perché rimanda a un referente presentato attraverso un nome da qualche parte nella stessa frase (come in questo caso), oppure in un’altra frase del testo. Risalire alla parola con cui l’ellissi è coreferente è in teoria molto difficile, proprio perché l’ellissi si realizza come la sottrazione di una parola o un gruppo di parole (o sintagma).
Per favorire l’interpretazione coreferenziale da parte del ricevente, ovvero il corretto rimando da un pronome, o da un’ellissi, all’elemento coreferente, l’emittente deve rispettare alcune regole nella costruzione della frase. La coreferenza, quindi, coinvolge anche la sintassi. Nell’esempio, il dubbio sul collegamento tra ne e Valentina potrebbe nascere a causa della presenza, nella proposizione reggente, di due nomi in astratto collegabili a ne: Giulia e Valentina, e dall’ellissi del soggetto del verbo acquisire. In questa situazione, il ricevente potrebbe rimanere nel dubbio su chi sia che deve acquisire il metodo da chi. Tale dubbio è risolto immediatamente dalla regola secondo cui il soggetto ellittico di una subordinata deve coincidere con il soggetto della proposizione reggente. Ne consegue che il soggetto di acquisisca è lo stesso di studi, ovvero Giulia. Per esclusione, quindi, ne rimanda a Valentina. Lo stesso vale per la frase 2a: il soggetto di diventi deve essere l’autorimessa, quindi ne rimanda all’appartamento.
Il suo ragionamento sull’inversione dei ruoli sintattici nelle subordinate è corretto: per farlo bisogna esplicitare il soggetto delle subordinate, attraverso un pronome (come nelle frasi 1b e 2b) o anche attraverso un sintagma nominale, per esempio: “Bisogna che Giulia studi con Valentina, affinché Valentina acquisisca…”. Una volta esplicitato il soggetto della subordinata, si può usare anche ne per rimandare all’altro possibile elemento coreferente, non più ambiguo, come nella frase 1c.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi la seguente frase:
“Preferirei che gli regalassero qualcosa che usa / userebbe / usasse volentieri”.
In questa frase possono essere utilizzati tutti e tre i modi verbali in parentesi? Oppure qual è quello giusto da adottare?
RISPOSTA:
Tutte e tre le forme sono corrette; ognuna produce un significato diverso, adatto a situazioni diverse.
Normalmente la proposizione relativa richiede il modo indicativo se descrive un fatto o il condizionale se descrive un evento condizionato. Nella sua frase, pertanto, usa indica che il qualcosa regalato è effettivamente usato dal destinatario del regalo. Si tratta di una situazione a rigore illogica, perché il destinatario non può usare un oggetto prima che gli sia regalato; a meno che chi parla non si stia augurando (ma non sembra che sia così) che al destinatario sia regalato qualcosa che già possiede. La frase può comunque essere interpretata con meno rigore, attribuendo a qualcosa il significato di ‘qualcosa di un certo genere’: in questo modo l’illogicità sparisce, perché l’emittente si sta augurando che il destinatario riceva un oggetto di un genere che usa volentieri. Ovviamente, l’imprecisione abbassa il livello di formalità della frase, che risulta leggermente trascurata.
Il condizionale userebbe indica che l’uso del qualcosa è, appunto, condizionato dalla ricezione del regalo: … qualcosa che userebbe (se gli venisse regalato). Questa opzione non presenta difficoltà.
Il congiuntivo usasse ricalca il senso dell’indicativo, a cui aggiunge una sfumatura consecutivo-finale che fa sparire automaticamente l’illogicità: … che usasse = ‘che comportasse come conseguenza che il destinatario lo usi’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due frasi è corretta?
– Intanto il fiume scava l’alveo dove scorre finché non si DISPERDE oltre la foce.
– Intanto il fiume scava l’alveo dove scorre finché non si DISPERDA oltre la foce.
RISPOSTA:
La proposizione temporale introdotta da finché (non) ha un comportamento peculiare. Quando descrive un evento al presente ammette sia l’indicativo sia il congiuntivo, anche se il congiuntivo risulta un po’ forzato. Quando descrive un evento futuro, ammette soltanto l’indicativo (futuro) se descrive un evento che continua fino a un punto; ammette sia l’indicativo (futuro), sia il congiuntivo (presente) se descrive un evento che avviene a un certo punto.
Di conseguenza, se la frase rappresenta l’evento come attuale, continuamente presente, è preferibile finché non si disperde; se, invece, la frase rappresenta l’evento come futuro, perché l’emittente sta immaginando che il fiume alla fine, quando non sarà più visibile, si disperderà nel mare, è possibile usare il congiuntivo si disperda o l’indicativo futuro si disperderà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “Questo verbo regge il dativo della persona che si comanda” oppure bisogna dire “Questo verbo regge il dativo della persona a cui si comanda”?
RISPOSTA:
Molti verbi italiani (e anche latini) hanno diverse reggenze. Comandare, In particolare può reggere in italiano:
1. il complemento oggetto della cosa e il complemento di termine della persona (comandare qualcosa a qualcuno);
2. il complemento oggetto della persona e un complemento che indica una destinazione (comandare qualcuno a un luogo o una mansione);
3. solo il complemento oggetto della persona.
Nel primo caso il verbo prende il significato di ‘dare un ordine’ e la cosa che viene comandata è quasi esclusivamente rappresentata da una proposizione oggettiva all’infinito introdotta da di: “Ho comandato a Luca di star fermo”.
Nel secondo caso il verbo significa ‘inviare, destinare, spostare’: “Luca è stato comandato a un nuovo ufficio”. Come si vede, questo uso è prettamente burocratico.
Nel terzo caso il verbo significa ‘dirigere, governare’: “Luca comanda suo figlio a bacchetta”; “Il generale comanda l’esercito con fermezza” (ma, per esempio, comanda all’esercito di avanzare).
In conclusione, la risposta alla sua domanda è che si comanda se il verbo significa ‘dirigere, governare, avere il comando di’ (o, ma è meno probabile, se significa ‘inviare’), oppure a cui si comanda se significa ‘dare un ordine’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un elenco in cui gli elementi sono separati dal punto e virgola, è ammisibile che tale segno di punteggiatura preceda la congiunzione e che introduce l’ultimo della serie?
1) La ragazza aveva begli occhi, scuri, profondi; una bocca carnosa, armoniosa; e una cascata fluente di capelli d’ebano.
Posto che la congiunzione in questo esempio si potrebbe omettere, l’accostamento con il punto e virgola è scorretto?
La virgola, inoltre, prima della proposizione relativa è obbligatoria, facoltativa o errata?
2) Ha salutato i suoi amici, i cui figli sono in vacanza.
3) Ha salutato i suoi amici, i figli dei quali sono in vacanza.
E un’ultima cosa.
Ho la tendenza a inserire la virgola all’interno di frasi in cui credo che essa potrebbe essere tralasciata. Due esempi:
4) Lei osservava il suo riflesso sul lago, e l’autunno accendeva di colori il parco deserto.
5) Mi piacerebbe conoscere la sintassi italiana, e, inoltre, studiare l’etimologia delle parole più diffuse.
La virgola, a differenza della sola congiunzione, mi sembra che segnali meglio lo stacco tra le due proposizioni. È un uso sconsigliato?
RISPOSTA:
In astratto l’inserimento di un segno di punteggiatura prima della congiunzione e è legittimo, quando la costruzione e il senso della frase lo richieda; quando, cioè, la e introduca una parte della frase costruita in modo diverso rispetto alla parte precedente e l’informazione veicolata da questa parte sia solo indirettamente legata a quelle precedenti. Ad esempio: “L’ho invitato per farti un favore; e ti ricordo che non mi sta simpatico”; e anche “L’ho invitato per farti un favore. E ti ricordo che non mi sta simpatico”.
Con la e questo succede non frequentemente (perché questa congiunzione solitamente unisce sintagmi o proposizioni molto solidali): per questo si è generalizzata la falsa regola che non sia possibile far precedere la e da un segno di punteggiatura.
Nella sua frase 1 il caso è diverso: la e conclude un elenco omogeneo, con membri nominali, ma che al loro interno sono articolati in segmenti più piccoli separati da virgole. Questa situazione giustifica sintatticamente la separazione dell’ultimo membro dell’elenco con il punto e virgola; la solidarietà tra i membri dell’elenco, però, potrebbe suggerire di evitare non la punteggiatura, ma proprio la e: “La ragazza aveva begli occhi, scuri, profondi; una bocca carnosa, armoniosa; una cascata fluente di capelli d’ebano”. Si tratta, comunque, di una scelta libera.
La virgola che precede la proposizione relativa è stata più volte trattata nelle risposte di DICO: la rimando alla risposta “Quel ragazzo che parlava a vanvera” o “Quel ragazzo, che parlava a vanvera”?” , ma potrà trovarne altre cercando le parole chiave esplicativa e limitativa nell’archivio.
Per le frasi 4 e 5 vale quanto detto per la 1: la virgola è possibile, ma bisogna valutare quanto si vogliono rappresentare come autonome semanticamente le proposizioni coordinate. Il cambiamento sintattico (del soggetto della proposizione, del tipo di sintagma preposizionale…) è un segnale di autonomia: è il caso della frase 4, nella quale la proposizione coordinata ha un soggetto diverso da quella precedente. Anche se la sintassi non cambia, però, è sempre possibile lasciare intendere che la parte introdotta dalla e sia da considerarsi semanticamente non solidale con quella precedente. La frase 5, quindi, può ammettere la virgola prima della e, per rappresentare i due eventi come non strettamente collegati (come a dire vorrei fare la prima cosa, e poi vorrei fare anche l’altra cosa).
Bisogna, comunque, chiedersi sempre che cosa si vuole rappresentare, e selezionare gli strumenti adatti di volta in volta allo scopo (si noti in questa stessa frase la virgola prima della e).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” o “credo che avesse dovuto valorizzarti di più”? Perché?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette, ma hanno un significato diverso. Il condizionale passato in questo caso non funge da futuro nel passato, ma rappresenta una variante più cortese del congiuntivo imperfetto. In altre parole “credo che avrebbe dovuto valorizzarti di più” equivale dal punto di vista del significato a “credo che dovesse valorizzarti di più”, ma è pragmaticamente meno diretto. Dal punto di vista temporale, il congiuntivo imperfetto (quindi anche il condizionale passato che corrisponde al congiuntivo imperfetto) indica in questo caso che l’evento del trattare è anteriore rispetto all’evento reggente, ovvero rispetto a credo. Il congiuntivo trapassato indica, invece, che l’evento è anteriore rispetto a un altro evento lasciato sottinteso, per esempio: “credo che avesse dovuto valorizzarti di più prima che fosse troppo tardi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto scrivere “Mi hanno chiesto se avessi voluto partecipare questa sera al loro show”?
RISPOSTA:
La forma più attesa di questa frase è quella con il condizionale passato: mi hanno chiesto se avrei voluto partecipare. Possibile, e più formale, anche il congiuntivo imperfetto: mi hanno chiesto se volessi partecipare. In un contesto informale, al contrario, sarebbe accettato anche l’indicativo imperfetto: mi hanno chiesto se volevo partecipare.
In accordo con la consecutio temporum, il condizionale passato e l’indicativo imperfetto sottolineano la posteriorità dell’evento rispetto all’evento della reggente (hanno chiesto); il congiuntivo imperfetto, invece, indica la contemporaneità nel passato.
Il congiuntivo trapassato (avessi voluto), invece, esprime l’anteriorità rispetto a un evento passato, rappresentato nella frase ancora da hanno chiesto. Con il congiuntivo trapassato, quindi, la frase non è scorretta, ma indica che la domanda riguardava la volontà manifestata prima della domanda stessa, come se fosse ieri mi hanno chiesto se il giorno prima avessi voluto partecipare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se devo chiedere ad una persona se lei, la citata persona, è in possesso di una determinata cosa, un oggetto ad esempio, è corretto dire: “Le chiedo di comunicare il possesso, da parte sua, della documentazione ecc.” oppure basta dire: “Le chiedo di comunicare il possesso della documentazione ecc.”
Si può omettere da parte sua?
Tale omissione potrebbe non chiarire a quale soggetto debba riferirsi il possesso di quella cosa?
RISPOSTA:
L’espressione da parte sua può essere omessa senza che si crei ambiguità su questo aspetto della frase: è logico supporre, infatti, che si chieda alla persona di comunicare informazioni che la riguardano, non che riguardano altri. Se fosse quest’ultimo il caso, piuttosto, sarebbe necessario specificare chi sarebbe l’eventuale possessore.
Il problema maggiore della frase, comunque, non è quello da lei prospettato, bensì la soppressione della sfumatura potenziale causata dalla nominalizzazione. Il possesso, infatti, è soltanto possibile, ma questo non si evince dalla frase, che sembra riferirsi al possesso come a un fatto.
In altre parole, comunicare il possesso potrebbe significare tanto comunicare di essere in possesso (fatto), quanto comunicare se lei sia in possesso (possibilità), ed è proprio il primo significato, quello fattuale, a essere preminente. Questo problema si può superare o optando per la forma verbale della frase: le chiedo di comunicare se lei sia in possesso, oppure inserendo un avverbio che esprima la potenzialità: le chiedo di comunicare l’eventuale possesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se io dico “Arrendersi al lavoro o arrendersi alla felicità” si intende una resa positiva o un abbandono? L’arrendersi viene visto come una sconfitta o come una accettazione? Arrendersi al lavoro significa accettarlo o rifiutarlo? La frase potrebbe avere significato ambiguo?
RISPOSTA:
Il significato del verbo arrendersi implica l’accettazione di una condizione, ma in seguito a una forzatura della volontà del soggetto; non ci si arrende se non spinti da un’esigenza o da una pressione esterna, quindi senza piena convinzione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto in un testo due periodi che a mio parere non sono propriamente corretti. Riporto il primo: “C’erano diverse persone, uno solo era uomo”. Non mi convincono né la sintassi né la punteggiatura. Avrei scritto: “C’erano diverse persone: tra queste c’era solo un uomo”, oppure “C’erano diverse persone: tra di esse c’era solo un uomo”.
RISPOSTA:
La sua critica è fondata: la coesione della frase che ha letto è imprecisa, visto che uno solo rimanda a persona, quindi dovrebbe essere femminile. Dobbiamo sottolineare che si tratta di una imprecisione non grave, perché non intacca la coerenza (non si crea ambiguità ed è facile capire il senso della frase). L’imprecisione, inoltre, non è immotivata, ma è indotta dall’accordo “logico” di uno solo con uomo, referente profondo del pronome.
Neanche la scelta della virgola al posto di un segno di interpunzione più forte, che sarebbe più adatto, impedisce la comprensione della frase.
In conclusione, la frase che lei ha letto è costruita in modo trascurato e sarebbe adatta a un contesto informale, specie se parlato.
Le sue due riscritture sanano l’imprecisione e rendono la frase più formale.
A margine faccio notare che sarebbe possibile anche sostituire i due punti con un punto e virgola, per sottolineare il passaggio a una nuova unità informativa senza implicare che essa sia da considerarsi la conseguenza logica della prima. La separazione tra le due unità potrebbe essere anche più netta, con un punto fermo, che creerebbe due enunciati distinti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo me il seguente periodo non è ben scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle prossime ore”.
Verbo al passato e aggettivo prossime? Sinceramente, non mi convince. Avrei scritto: “Stabilì di ricontrollare lo stato della domanda nelle ore successive / nelle ore a venire / nelle ore che sarebbero seguite”.
RISPOSTA:
Ha ragione: il centro deittico (cioè il punto di vista della rappresentazione verbalizzata nella frase) implicato dal verbo stabilì è diverso da quello del qui e ora del parlante. Per questo motivo non è possibile usare l’aggettivo prossimo, che rimanda proprio al qui e ora del parlante, ma bisogna sostituirlo con forme che rimandino a lì e allora. Le sue soluzioni sono tutte valide in tal senso.
Va detto che l’imprecisione non è grave, perché la coerenza è salva, visto che non abbiamo difficoltà a capire il senso della frase. Simili difetti vanno evitati nello scritto di media e alta formalità, ma sono perdonabili nel parlato e nello scritto trascurato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Lo studente che ha la febbre e non sa di averla oppure e che non sa di averla: qual è corretta? Si può omettere il doppio che?
RISPOSTA:
Le due costruzioni sono corrette e quasi del tutto equivalenti. La prima riunisce le due caratteristiche (il fatto che abbia la febbre e il fatto che non lo sappia) in un’unica proposizione relativa, rappresentandole come strettamente collegate l’una all’altra (perché ai fini della comunicazione non importa tenerle separate). La seconda le divide in due proposizioni coordinate, sottolineando che possono essere considerate indipendenti l’una dall’altra.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Che cosa significano e quando si usano le seguenti espressioni?
1. Dammi un numero, presto!
2. Hai una domanda di riserva?
3. Non ti passa un giorno.
4. Sono aperti i negozi oggi?
5. Quando la bagniamo?
6. Ben gli sta.
7. Che taglio, complimenti.
8. Bentrovato!
RISPOSTA:
Le espressioni 1, 3 e 4 non hanno un significato figurato codificato.
La 2 è un modo ironico per ammettere di non conoscere la risposta a una domanda, oppure di preferire non rispondere a una domanda.
Nella 5 il verbo bagnare è usato probabilmente nel senso di ‘inaugurare’ oppure ‘festeggiare un successo’ (dipende dal referente di la). Il verbo bagnare assume questo significato perché un elemento tipico dei festeggiamenti e delle inaugurazioni è il bere convivialmente.
La 6 si dice per criticare qualcuno che ha fatto un danno a sé stesso per non aver prestato ascolto a un consiglio o per aver fatto un’azione irresponsabile o cattiva. Per esempio quando uno scherzo di cattivo gusto si ritorce contro la persona che lo ha tentato.
La 7 è probabilmente un complimento per una persona che si è appena tagliata i capelli. Ricordo anche che a Roma si dice “Che taglio!” con il significato di ‘che bello!, fantastico!’. Questo, però, è un uso gergale.
Infine, bentrovato è del tutto analogo a bentornato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “L’azienda imboccò quasi subito un declino irreversibile, dovuto alle scarse capacità della nonna e alle sue manie di grandezza: aveva buttato alle ortiche un sacco di denaro nel tentativo di comprarsi un titolo nobiliare. Fallito questo obiettivo, (ometto il soggetto?) convinse il figlio a intraprendere la carriera militare, pensando che un ufficiale in famiglia avrebbe dato / potesse dare prestigio al nome”.
2) “La nonna, distante dall’arrendersi, iniziò a organizzare festicciole ogniqualvolta mio padre tornava a casa in licenza: invitava quella che lei considerava la nobiltà contadina, ossia i proprietari terrieri delle tenute confinanti; non per generosità, ma con il recondito desiderio di trovare una fidanzata per mio padre che fosse anche un buon partito”.
3) “«Ti credo sulla parola, ma questo genere di opere non fanno per me» commento, «vedo l’ospedale come metafora della precarietà della vita e mi trasmette sensazioni negative”.
4) “«Vedremo, proseguendo nella lettura, se questi miei timori saranno confermati o se, in caso di bisogno, abbia trovato comunque la forza e il coraggio di rivolgersi a qualcuno in grado di aiutarlo»”.
RISPOSTA:
Nella frase 1) il soggetto va senz’altro omesso, visto che coincide con quello della proposizione precedente.
Nella frase 2) vanno bene entrambe le forme verbali. Il condizionale passato (avrebbe dato) rappresenta l’evento come futuro rispetto al passato, cioè rispetto a pensando, a sua volta contemporaneo rispetto a convinse; il congiuntivo passato (desse) lo rappresenta, invece, come contemporaneo nel passato. Aggiungendo il servile potere si accentua la sfumatura potenziale. Tale sfumatura può accompagnare sia il condizionale passato (avrebbe potuto dare) sia il congiuntivo imperfetto (potesse dare).
La frase 3) non presenta grandi difficoltà. L’unico problema è la mancata esplicitazione del soggetto nella coordinata il cui soggetto (l’ospedale) cambia rispetto alla proposizione precedente (io). In questo caso, però, è talmente facile risalire al nuovo soggetto per logica e per via della costruzione sintattica della frase che questa sbavatura può essere trascurata, in quanto non provoca alcuna ambiguità.
Nella frase 4) la proposizione interrogativa indiretta (se, in caso di bisogno, abbia trovato comunque la forza e il coraggio) è retta dal verbo vedere. Questo verbo non richiede il congiuntivo nella completiva (si pensi a un’oggettiva come vedo che sei arrivato presto, che nessuno costruirebbe come vedo che tu sia arrivato presto), quindi è meglio sostituire abbia trovato con avrà trovato, simmetrico rispetto a saranno confermati, con il quale è coordinato. Per quanto riguarda la necessità di esplicitare il soggetto diverso rispetto a quello della reggente, qui non si applica, perché il sottinteso non provoca ambiguità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) “Quando fosse stato interpellato, avrebbe dovuto dire quanta voglia a) ha / abbia b) avesse di visitare di nuovo la sua città”.
2) “Mi sono domandato spesso per quale ragione io a) scrivo / scriva b) scrivessi” (La selezione del presente, indicativo o congiuntivo, può essere giustificata dall’attualità del fatto, a prescindere dal passato prossimo della reggente? Scegliere, per contro, l’imperfetto, fa decadere il collegamento con l’attualità del fatto: scrivessi = ‘ma adesso non scrivo più’).
3) “Aveva lasciato detto di essere chiamato nel caso a) pervenissero b) fossero pervenuti i documenti che stava cercando da tempo”.
4) “Vorrei che tu partissi all’alba, mentre (usato con valore temporale) il sole a) sorge / sorgerà b) sorga”.
RISPOSTA:
Nella frase 1) il presente non è possibile, visto che la proposizione interrogativa indiretta (quanta voglia avesse) descrive un evento contemporaneo nel passato rispetto a quello descritto nella reggente (avrebbe dovuto dire).
Nella frase 2) sono possibili sia il presente sia l’imperfetto. La distinzione tra indicativo e congiuntivo (presente, ma anche imperfetto) è di tipo diafasico, cioè relativa alla formalità: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. La scelta dei tempi, invece, influenza il rapporto temporale con la reggente. Il presente instaura un rapporto di contemporaneità nel presente con l’evento descritto dalla reggente. Questo è possibile quando la reggente ha il passato prossimo perché questo tempo, pur essendo passato, proietta l’evento nel presente.
L’imperfetto, rispetto al presente, veicola un senso vicino a quello da lei stessa inteso. Come nella prima frase, infatti, l’imperfetto instaura un rapporto di contemporaneità nel passato con la reggente, quindi descrive l’atto di scrivere come avvenuto nel passato, ma non per forza concluso nel presente.
Nella frase 3) sono possibili entrambi i tempi del congiuntivo. La scelta dipenderà dal grado di probabilità che il parlante attribuisce all’evento del pervenire: l’imperfetto rappresenta l’evento come possibile; il trapassato come improbabile.
Nella 4) deve essere usato l’indicativo, presente o futuro. Il congiuntivo, infatti, non è di norma usato nella temporale introdotta da mentre. La scelta tra indicativo presente e futuro dipenderà da quanto il parlante vuole essere preciso sulla collocazione temporale dell’evento del sorgere (che, comunque, è facilmente collocabile nel futuro per logica, anche senza usare il futuro).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
PRIMA CHE NEL DISCORSO INDIRETTO
Nella trasformazione sintattica da discorso diretto a indiretto, il congiuntivo presente diventa imperfetto e il congiuntivo passato diventa trapassato?
1) Giovanni ha detto a Lara: “Dovrai rincasare prima che vada a letto” diventa “Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”
e
2) Giovanni disse a Lara: “Dovrai rincasare prima che sia andato a letto” diventa “Giovanni disse a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”?
Vi domando inoltre se il congiuntivo presente vada può restare invariato nel discorso indiretto – quale alternativa all’imperfetto. Sono possibili entrambi?
Relativamente alla seconda frase, penso che fosse andato possa essere anche sostituito da andasse. Nel caso fosse così, quale tempo consigliate, al di là della trasformazione del discorso diretto, tra i due?
RISPOSTA:
Nell’analizzare i suoi esempi bisogna considerare innanzitutto il tempo del verbo della reggente della proposizione oggettiva che rappresenta il discorso indiretto. Se il tempo è passato allora il presente del discorso diretto diviene, nella oggettiva, imperfetto (salve sfumature semantiche particolari che richiedano altri tempi).
Il suo dubbio circa la possibilità di lasciare invariato vada nella prima frase dipende dal fatto che in essa il verbo della reggente sia al passato prossimo. Il passato prossimo (nel nostro caso ha detto) si può comportare come il presente o come il passato, perché, pur essendo passato, proietta gli eventi nel presente. La sua trasformazione, con vada che diventa andasse, funziona se la situazione è collocata nel passato, per esempio: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui andasse a letto”; se, invece, è collocata nel presente, vada rimane uguale: “Giovanni ha appena detto a Lara di rincasare prima che lui vada a letto”. Per la verità, anche in questo secondo caso si potrebbe usare l’imperfetto (andasse), valorizzando il fatto che l’atto del dire sia comunque avvenuto nel passato; sarebbe, però, una scelta marcata, insolita.
Con il passato remoto non ci sono dubbi sulla collocazione della situazione, quindi il presente diviene imperfetto e il passato (sia andato) diviene trapassato (fosse andato).
Anche il suo ultimo dubbio sulla possibilità di sostituire fosse andato con andasse è legittimo e anche per esso la risposta è affermativa. Il dubbio, però, dipende dalla costruzione della temporale introdotta da prima che, e non ha a che fare con la struttura del discorso indiretto. Lo dimostra il fatto che anche nella prima frase andasse si può sostituire con fosse andato: “Ieri Giovanni ha detto a Lara di rincasare prima che lui fosse andato a letto”. La possibilità di usare il passato nella proposizione introdotta da prima che in relazione al presente nella reggente (quindi di usare il trapassato in relazione al passato nella reggente) è discussa nella FAQ “Prima che” e “prima di” dell’archivio di DICO. Altre risposte sull’argomento si possono trovare usando il motore di ricerca interno.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale soluzione consigliate tra le due segnalate:
“Può darsi che il medico, quando ti sottopose all’ecografia, non abbia visto / avesse visto la ciste”.
RISPOSTA:
Dipende dal significato ricercato: non abbia visto… quando ti sottopose mette i due eventi sullo stesso piano; non avesse visto… quando ti sottopose antepone l’evento del vedere a quello del sottoporre. Nel primo caso, quindi, si suppone, dal punto di vista semantico, che il non vedere sia stato il risultato (involontario) del sottoporre; nel secondo caso, al contrario, il non vedere deve essere non collegato al sottoporre (si dà, cioè, l’idea che il medico abbia sottoposto la persona all’ecografia senza aver prima visto la ciste, quindi per altre ragioni).
Si badi che in questo caso il tempo della proposizione temporale è dettato non dalla consecutio temporum, ma dal senso espresso autonomamente dai tempi verbali coinvolti: un passato in dipendenza da un passato = contemporaneità del passato; un passato in dipendenza da un trapassato = un evento successivo a un altro nel passato (ovvero uno precedente a un altro nel passato). Il tempo verbale nella proposizione temporale, infatti, risponde a ragioni semantiche, non sintattiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso, anche nei vostri articoli, si parla dello stretto collegamento tra il passato prossimo e l’attualità dei fatti cui si riferisce.
Così da stabilire, nei limiti del possibile, una regola generale, vi pongo una domanda doppia: quando la principale è appunto al passato prossimo, nella secondaria (finale, interrogativa indiretta, in specie) si può optare per il tempo presente (indicativo, congiuntivo e talvolta condizionale)?
Scegliendo invece un tempo della sfera del passato (nel rispetto della consecutio), il fatto della proposizione secondaria perde attinenza con il momento dell’enunciazione?
RISPOSTA:
Partiamo da un esempio con una interrogativa indiretta: “Mi sono chiesto se tu fossi stato / fossi / sia stato / sia / sarai al corrente della situazione “. Come si vede, tutti i tempi sono possibili, ognuno esprimente un diverso rapporto con il verbo della principale. Ovviamente, sono anche possibili restrizioni su base semantica, con la interrogativa indiretta e con tutte le altre completive (oggettiva, soggettiva, dichiarativa); possiamo, per esempio, avere “Ho sognato che tu fossi morto”, ma non *Ho sognato che tu sia morto”, non per ragioni sintattiche, ma perché la frase non avrebbe senso.
La finale sfugge alla consecutio temporum perché la semantica implicita in questa proposizione impedisce che l’evento in essa espresso preceda quello della reggente. Non possiamo, pertanto, avere *”Ti ho chiamato perché tu fossi venuto”, né *”Ti ho chiamato perché tu sia venuto”. Possiamo, invece, avere “Ti ho chiamato perché tu venissi”, nella quale l’imperfetto (venissi) seleziona la funzione di passato del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel passato (il venire è contemporaneo al chiamare nella mente di chi chiama, ma è successivo nella realtà). Possiamo anche avere “Ti ho chiamato perché tu venga”, con il presente (venga) che enfatizza la sfumatura di quasi-presente del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel presente (anche in questo caso, il venire non può che essere successivo, nella realtà, al chiamare). Proprio la proiezione del congiuntivo presente nel futuro rende impropria *”Ti ho chiamato perché tu verrai”, anche perché la congiunzione perché seguita dall’indicativo viene interpretata come causale, non finale. Infatti la frase potrebbe anche essere possibile con una interpretazione causale: ‘ti ho chiamato a causa del fatto che so già che tu verrai (perché sei costretto o simili)”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La costruzione “non mi esprimerei in termini (tanto) emotivi quanto professionali” equivale a “non mi esprimerei tanto in termini emotivi quanto in termini professionali”?
È una soluzione ragionevole per evitare la ripetizione della locuzione in termini?
Sia nel primo sia nel secondo esempio – dunque, in generale – la congiunzione tanto è omissibile?
RISPOSTA:
La costruzione tanto in termini… quanto in termini non è equivalente a in termini tanto… quanto.
Nel primo caso abbiamo una correlazione negativa, che contrappone due possibilità contrastanti: ‘non mi esprimerei in termini emotivi; mi esprimerei, piuttosto, in termini professionali’. Nel secondo caso, invece, abbiamo una correlazione positiva, che mette le due possibilità dalla stessa parte: ‘non mi esprimerei in termini né emotivi né professionali’.
L’omissione di tanto in entrambi i casi rende improbabile l’interpretazione positiva. Sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto professionali”, sia “non mi esprimerei in termini emotivi quanto in termini professionali” rappresentano la contrapposizione tra due possibilità contrastanti.
Di conseguenza, se, invece, si vuole presentare una correlazione positiva, è necessario mantenere tanto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un libro sulla tecnica di meditazione ho letto: “Non appena vi accorgete che state pensando, dovete dire tra voi pensiero“.
La domanda è questa: in questo contesto dire tra voi significa ‘nella vostra mente’ o ‘in silenzio’? Cioè per dire a sé stessi una parola, non è necessario dirlo esternamente quindi facendo sentire la parola ad altri?
RISPOSTA:
Il verbo dire può ben indicare l’atto del pensiero esplicito, nel quale la persona formula pensieri ben definiti, ma senza esternarli né vocalmente né per iscritto. Questo atto avviene sia nella propria mente, sia in silenzio.
Nell’espressione dite tra voi c’è un’altra possibile ambiguità. I pronomi personali sono tutti anche riflessivi, tranne lui / lei e loro, che diventano sé nella forma riflessiva. Per questa ragione, i sintagmi tra noi e tra voi possono essere interpretati come reciproci o come riflessivi. Nel primo caso, una frase come dite tra voi “pensiero” significa ‘dite pensiero l’uno all’altro’ (evidentemente ad alta voce); nel secondo caso, la stessa frase significa ‘dite pensiero ognuno nella propria mente’ (evidentemente in silenzio).
In presenza di più di una persona, tra voi risulterebbe ambiguo tra queste due interpretazioni, ma nel caso specifico, relativo alla meditazione, l’interpretazione riflessiva è senz’altro quella corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato questi suggerimenti in Internet; sono corretti?
Se devi scrivere un periodo composto dal solo discorso diretto, la punteggiatura va all’interno del dialogo.
«Vado a fare la spesa.»
«Vado a fare la spesa?»
«Vado a fare la spesa!»
Vado a fare la spesa…»
Se il dialogo è introdotto da una frase, la punteggiatura a quel punto riguarderà la frase e non dovrà essere inserita all’interno del dialogo.
Mi disse: «Vado a fare la spesa».
In presenza di punto esclamativo, interrogativo o puntini di sospensione, all’interno del dialogo non bisogna mai aggiungere il punto esterno.
Mi disse: «Vado a fare la spesa…»
Mi disse: «Vado a fare la spesa!»
Mi disse: «Vado a fare la spesa?»
Se il dialogo è inserito in un periodo più complesso, devi valutare se usare la virgola o no.
Mi disse: «Vado a fare la spesa», e prese la borsa.
In questo caso, visto che all’interno delle caporali non c’è nessun segno di punteggiatura è necessario inserire una virgola prima della fine del periodo. In questi altri casi, invece, poiché all’interno del dialogo c’è un segno di punteggiatura non bisogna inserire una virgola all’esterno della caporale di chiusura.
Mi disse: «Vado a fare la spesa?» e prese la borsa.
Mi disse: «Vado a fare la spesa!» e prese la borsa.
Mi disse: «Vado a fare la spesa…» e prese la borsa.
Se il dialogo è spezzato da un inciso bisogna seguire altre regole.
«Vado», disse, «a fare la spesa.»
In questo caso ciò che riguarda il dialogo vero e proprio, il punto, va messo all’interno delle caporali. Le virgole dell’inciso, poiché riguardano l’inciso stesso, restano fuori.
Se la virgola riguarda il dialogo vero e proprio rimane dentro alle caporali:
«Vado,» disse, «a fare la spesa.»
Nello stesso preciso modo si ragiona per quanto riguarda gli altri segni di punteggiatura:
«Vado?» disse. «A fare la spesa?»
«Vado!» disse. «A fare la spesa.»
«Vado…» disse. «A fare la spesa…»
In questi tre casi l’unica cosa che devi cambiare è la punteggiatura dell’inciso. Al posto della virgola va messo il punto.
RISPOSTA:
I suggerimenti sono ragionevoli, ma più rigidi del dovuto. In questo campo diverse scelte sono ugualmente giustificabili e non si può separare nettamente il corretto dallo scorretto.
Una questione discutibile è l’interazione tra i segni interni alle virgolette e quelli esterni. Da una parte è legittimo evitare la ripetizione, ma dall’altra la ripetizione può essere utile. Un caso in cui la ripetizione è giustificata è il seguente: “Mi disse: «Vado a fare la spesa!», e prese la borsa”. La virgola fuori dalle virgolette segnala che e prese la borsa è un’unità informativa diversa rispetto a quella che contiene il discorso diretto. In particolare, le interazioni più utili sono quelle tra ?, !, … (che chiamo punti intonativi) all’interno delle virgolette e qualsiasi altro segno fuori dalle virgolette: i punti emotivi, infatti, servono a veicolare una particolare modulazione del discorso diretto, mentre gli altri segni servono a segmentare il testo nel quale è inserito anche il discorso diretto, quindi riguardano un piano diverso. Se, invece, il discorso diretto termina con una virgola o un punto fermo, questi si possono tranquillamente inserire all’esterno delle virgolette e quindi riferire a tutto il testo, evitando la ripetizione.
Un caso possibile, ma raro, è il seguente: “«Vado a fare la spesa.», e prese la borsa”, nel quale il punto fermo serve a segnalare la perentorietà dell’affermazione, non a chiudere l’enunciato; in questo caso, quindi, il punto fermo è usato come se fosse un punto intonativo, quindi vige la riflessione fatta sopra su questo tipo di punteggiatura.
Un’altra questione discutibile è quella degli incisi, che possono essere separati dal discorso diretto in molti modi diversi ma ugualmente validi. Faccio notare che nei suoi esempi non ci sono incisi, perché la frase termina con il punto fermo. Si parla di inciso quando la proposizione o il sintagma divide in due una proposizione o un sintagma, ovviamente all’interno di un sola frase; per questo motivo l’inciso non può essere preceduto o seguito dal punto fermo, ma viene, invece, racchiuso tra due virgole, due trattini lunghi, due parentesi (raramente due punti e virgola).
Nei seguenti esempi osserviamo alcune delle possibilità per segnalare l’inciso che fa da cornice di un discorso diretto:
«Vado» disse «a fare la spesa?».
«Vado», disse, «a fare la spesa».
«Vado… – disse – a fare la spesa…».
– Vado – disse – a fare la spesa.
Possibili anche:
«Vado,» – disse – «perché sono stanco».
«Vado, – disse – perché sono stanco».
«Vado,» disse «perché sono stanco».
In questi casi la virgola va riferita al solo discorso diretto e non al testo in generale. Questi sono gli unici casi in cui può essere utile inserire un segno di punteggiatura intermedio (il trattino) fuori dalle virgolette dopo un segno di punteggiatura non intonativo all’interno delle virgolette. In ogni caso, comunque. eviterei una sequenza del genere, pure in astratto lecita: «Vado,», disse, «perché sono stanco».
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo il vostro contributo per definire i criteri da adottare per creare il giusto rapporto tra i termini quest’ultimo, stesso (e relative declinazioni in genere e numero) e i rispettivi antecedenti.
Nel brano “Valentina aveva guardato la TV, Sara aveva studiato e Martina aveva deciso di riposarsi, dato che si sentiva stanca. Io, durante il turno di lavoro, avevo dovuto affrontare diversi problemi e, tra l’uno e l’altro, avevo chiamato quest’ultima”, il termine quest’ultima può essere fatto risalire a Martina, nonostante il soggetto in questione sia, per così dire, lontano nel testo?
Secondo esempio: “L’impaginazione consiste nella definizione di due margini laterali, uno superiore e uno inferiore, nell’impostazione di un’interlinea di 1.5 pt e di una finestra centrale recante la denominazione. Il salvataggio della stessa dovrà essere eseguita nel rispetto delle suddette disposizioni”. Qui stessa si riferisce a finestra, impaginazione o denominazione? Il termine stessa, affinché ne sia comprensibile l’antecedente, ha l’obbligo di riferirsi all’ultimo soggetto o complemento?
In generale, quali sono le regole da seguire – se esistono – per non incorrere nel rischio di essere fraintesi da eventuali lettori?
RISPOSTA:
Nel primo caso, la distanza dell’antecedente dal punto in cui deve essere inserita la forma anaforica rende consigliabile la ripresa piena; bisogna, quindi, riprendere il sintagma nominale pieno Martina. Eventualmente, se Martina fosse identificabile in altri modi, specificati altrove nel co-testo, potrebbe essere usata la perifrasi corrispondente. Ad esempio, se Valentina e Sara fossero adolescenti e Martina una bambina, al posto di Martina potrebbe essere usato il sintagma la piccola (non la bambina, che potrebbe far pensare a un ulteriore referente, diverso da quelli nominati prima).
A sconsigliare quest’ultima non è l’ambiguità di questa forma pronominale, che è, invece, molto precisa, anche perché mancano altri potenziali referenti, essendo Martina effettivamente l’ultimo oggetto femminile singolare nominato prima dell’anafora. Quest’ultima è straniante perché questa rimanda a un referente molto vicino, mentre Martina si trova ben distante. Potremmo eliminare questa, lasciando soltanto l’ultima, ottenendo una coesione soddisfacente; l’aggettivo ultimo, però, raramente è usato con funzione referenziale senza il pronome questo e il lettore rischia di credere che chiamare l’ultima possa essere un qualche genere di espressione idiomatica.
Il secondo caso è un po’ diverso: di certo non si può usare la stessa, che è adatto a riprendere l’ultimo referente nominato (quindi, qui, denominazione). Per riprendere l’impaginazione in questo contesto, però, la forma migliore è non la ripetizione del sintagma, ma l’espressione il suo salvataggio; l’aggettivo possessivo, infatti, è perfetto per riprendere un soggetto divenuto, nella proposizione o nel periodo successivi, un complemento di specificazione. Lo stesso si potrebbe fare, per la verità, anche cataforicamente: “Il suo profumo era già percepibile; la primavera stava per arrivare”.
Si noti, a margine, che eseguita deve diventare eseguito, perché concorda con il salvataggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto e leggibile questo brano?
Già! Il famoso sesto senso delle madri. Carmela a volte vi faceva ricorso, in altre circostanze ne era vittima e questo la rendeva un’anima sempre in pena, tormentata dalla sua stessa sensibilità; frutto anche del forte vincolo naturale che la univa ai suoi grandi amori, che nemmeno il taglio del cordone ombelicale era riuscito a spezzare. Acuta osservatrice di ogni variazione nell’umore, nello sguardo, nell’espressione del volto e nel linguaggio del corpo delle figlie, Carmela viveva con ansia anche il più piccolo segnale d’allarme. Quando le attività extrasensoriali e il dialogo non le bastavano a calmare ansia, sensazioni negative e stato di massima allerta, si lasciava tentare da metodi che, in altro contesto, sarebbero stati giudicati deprecabili: come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio. Metodi da considerare pericolosi se scoperti; non certo ortodossi e consigliabili ma classificabili fra le cose sbagliate messe in atto a fin di bene. Così Carmela viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni e ne aveva ben donde; a breve avrebbe capito il perché.
RISPOSTA:
Il brano è certamente leggibile e corretto. Un punto debole potrebbe essere il contrasto tra il condizionale passato sarebbero stati giudicati e la scelta del presente nella porzione successiva: “come origliare quando i figli parlano con gli amici di persona o al telefono, oppure cercare affannosamente un diario dove trovare risposte che potrebbero dissipare ogni dubbio”. Il condizionale passato lascia credere che i metodi siano stati effettivamente messi in pratica dal personaggio, quindi ci si aspetta che costei origliasse quando i figli parlavano e cercasse risposte che avrebbero potuto dissipare i dubbi. Il passaggio al presente, invece, descrive i metodi in generale. Consiglio di sostituire sarebbero stati giudicati con sarebbero giudicati se il personaggio non mette in pratica i metodi, oppure i presenti evidenziati con i passati indicati sopra se, invece, i metodi sono stati messi in pratica.
Un’altra sbavatura riguarda alcune scelte lessicali: l’aggettivo pericoloso non va bene se collegato alla condizionale se scoperti. Il pericolo, infatti, coincide con la possibilità di essere scoperti e cessa di esistere se si viene scoperti. I metodi potrebbero essere dannosi, dalle conseguenze terribili, controproducenti (o simili) se scoperti. Eviterei anche l’uso della parola generica cose in un contesto linguisticamente formale come questo.
Nell’ultima frase, infine, bisogna inserire una virgola prima di e ne aveva ben donde, che introduce una informazione sullo stesso piano di viveva i suoi giorni, scossa da strane sensazioni. Senza la virgola, invece, sembra che e ne aveva ben donde si unisca al sintagma strane sensazioni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta questa frase: “Non penso che Marco lo abbia fatto per farti del male, e mi pare evidente che non ti stia facendo nessun dispetto; ma ancora più assurda mi sembra l’idea che lui ti odi”?
Che ne dice riguardo all’uso del punto e virgola?
RISPOSTA:
La frase è ben formata da tutti i punti di vista. In particolare, il punto e virgola segmenta opportunamente il testo separando la prima parte, fortemente solidale al suo interno per il contenuto, dalla seconda parte, che aggiunge una considerazione riguardante tutta la prima parte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo lumi riguardo alle seguenti frasi:
1. In questi giorni mi sto dedicando di più alla cucina preparando dolci, gnocchi e anche semplici pasti quotidiani, ma le mie preferite sono le torte…
In questo periodo è giusto l’uso della congiunzione ma?
2. È più corretto dire la mia mamma o mia mamma?
3. Dato che non si può uscire, il mio corpo vuole anche muoversi, devo smaltire il cibo che cuciniamo, insieme a mia sorella, sto facendo un po’ di ginnastica quotidiana. Ho provato a fare attività fisica anche con i miei genitori, ma non ha avuto molto successo questo allenamento. Almeno mia mamma è un po’ agile, ma mio papà ha avuto molte difficoltà, infatti ha svolto solo 2/3 degli esercizi; è stato comunque molto divertente e pieno di risate.
In questo periodo ho i seguenti dubbi: l’uso del verbo sto facendo e della congiunzione ma. Inoltre vorrei sapere se è costruito bene.
RISPOSTA:
1. L’uso di ma è corretto. In questo caso la congiunzione ha una funzione testuale, non sintattica: serve, cioè, a collegare concettualmente due unità informative chiarendo che la seconda è in contrapposizione con la prima. Per questo motivo, sarebbe meglio farla precedere da un punto e virgola. Sarebbe anche possibile interrompere il periodo prima di ma; in questo modo, il nuovo periodo iniziante con ma rappresenterebbe una affermazione autonoma contrapposta all’affermazione precedente.
Più discutibile, nella frase, è la concordanza tra le mie preferite e le torte, perché con questa costruzione le torte diviene contemporaneamente soggetto e parte nominale del predicato (come se la frase dicesse le mie torte preferite sono le torte). Quello che lei voleva dire, invece, è che le torte sono i suoi piatti (non direi pasti, perché un pasto contiene diversi piatti) preferiti, quindi avrebbe dovuto scrivere ma i miei piatti preferiti sono le torte, oppure ma le mie ricette preferite sono quelle delle torte.
2. Mamma e papà sono parole che appartengono alla famiglia dei nomi di parentela, ma hanno anche una sfumatura affettiva che le rende speciali, come se fossero dei diminutivi. Per questo motivo possono comportarsi sia come gli altri nomi di parentela, che non vogliono l’articolo quando sono accompagnati dall’aggettivo possessivo, sia come gli stessi nomi di parentela alterati, che vogliono l’articolo anche con l’aggettivo possessivo. Mia mamma, quindi, si comporta come mia sorella (impossibile *la mia sorella); la mia mamma si comporta come la mia sorellina (impossibile *mia sorellina). Va da sé che con l’articolo insieme all’aggettivo possessivo si mette in evidenza la sfumatura affettiva; questa scelta, quindi, è adatta a contesti familiari e informali.
3. Il presente continuato è adatto alla frase in cui è usato, nella quale viene descritta una situazione attualmente in corso. Nel brano ci sono 3 periodi, e la congiunzione ma è usata in 2 di questi. In entrambi i casi, comunque, è usata correttamente. Nel primo caso ha una funzione testuale (e sarebbe preferibile farla precedere da un punto e virgola); nel secondo ha funzione sintattica.
Ci sono diversi punti problematici nel brano, relativi al piano sintattico e a quello testuale. Gliene faccio notare soltanto alcuni. Dato che non si può uscire, il mio corpo vuole anche muoversi instaura un rapporto di causa-effetto in realtà inesistente, perché il corpo vuole muoversi non perché non si può uscire: più corrispondente alla realtà sarebbe una costruzione concessiva come anche se non si può uscire, il mio corpo vuole muoversi lo stesso. Questa costruzione avrebbe anche il vantaggio di collegarsi logicamente meglio con l’unità informativa successiva, che sarebbe bene introdurre con un connettivo esplicito: anche se non si può uscire, il mio corpo vuole muoversi lo stesso, perché devo smaltire il cibo che cuciniamo. A questo punto sarebbe richiesto un punto fermo, seguito dal periodo successivo.
Nel periodo ancora successivo, la sistemazione della seconda parte è infelice, perché mette in posizione saliente un’informazione (questo allenamento) già nota; preferibile è questa sistemazione: ho provato a fare attività fisica anche con i miei genitori, ma questo allenamento non ha avuto molto successo.
Infine, non è chiaro chi sia il soggetto di è stato comunque molto divertente e pieno di risate. Immagino che sia l’allenamento, ma siccome questo tema è stato nominato molto prima, è bene ripeterlo, quindi l’allenamento è stato comunque molto divertente e pieno di risate.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella correzione di un testo scritto va bene quanto segue?
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo/abbastanza completo/essenziale, ecc.
– INDICATORE: Organizzazione nella successione logica e nell’ordine crono-spaziale.
L’esposizione risulta articolata/ lineare/frammentaria, ecc.
– INDICATORE: Correttezza ortografica, morfo-sintattica, punteggiatura, coesione.
La forma presenta lievi errori/pochi errori/ gravi errori.
– INDICATORE: Uso del lessico
Il lessico utilizzato è appropriato/ adeguato/semplice, ecc.
RISPOSTA:
La domanda esula dal nostro campo specifico, ma proverò comunque a fare qualche osservazione. Il primo indicatore è ben costruito, sia nella descrizione, sia nei livelli, tranne che per ecc., che in generale va evitato, proprio perché gli indicatori servono a dare chiarezza. Si può, semmai, aggiungere un quarto livello:
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo / quasi completo / essenziale / quasi assente
Nel secondo indicatore non si capisce come si possano associare successione logica e ordine crono-spaziale. Ma soprattutto, non è chiaro che cosa si intenda con ordine crono-spaziale (o meglio spaziotemporale). Forse intendeva riferirsi alla successione degli eventi di una storia? In questo caso, si consideri che se per la successione logica si può individuare un modello migliore di un altro, per la successione degli eventi in una storia esistono tante possibilità (quelle che in narratologia sono definite intreccio) tra le quali è difficile stabilire la migliore.
I livelli, inoltre, non sembrano adatti a definire una gradualità di valore: perché, infatti, una organizzazione articolata sarebbe migliore di una lineare?
Ammesso che ordine crono-spaziale abbia il significato che io ho inteso, le propongo, per questo indicatore, questa scala di valore: articolata e lineare / lineare / a tratti imprecisa / fortemente imprecisa.
Il terzo indicatore raccoglie troppi aspetti. Si potrebbe dividere in almeno due indicatori, uno per l’ortografia e uno per la coesione (nel quale si può far rientrare anche la punteggiatura e la morfosintassi). Volendo, però, coesione e punteggiatura potrebbero essere separati da morfosintassi.
I livelli non vanno bene neanche in questo indicatore: lievi e gravi sono indicazioni di qualità, peraltro piuttosto arbitarie (quale errore ortografico è più grave o lieve di altri?), mentre pochi indica una quantità ed è, quindi, incongruente con gli altri. Ritengo che la strada migliore nel caso dell’ortografia sia proprio quella della quantità, quindi una scala come molti errori / pochi errori / quasi nessun errore / nessun errore.
Per quanto riguarda la coesione, invece, si può propendere per la qualità, quindi per una scala come pienamente adeguata (allo scopo) / parzialmente adeguata (allo scopo) / appena adeguata (allo scopo) / del tutto inadeguata (allo scopo).
Anche per l’uso del lessico i livelli sono incongruenti: intanto appropriato e adeguato sono quasi sinonimi, quindi non rappresentano una distinzione chiara. Semplice, inoltre, non individua per forza un difetto, quindi non è adatto a rappresentare il grado più basso del giudizio. Potrebbe usare per questo indicatore la stessa scala che ho proposto per la coesione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se nei testi scritti la forma comprende solo gli aspetti grammaticali (punteggiatura, ortografia, morfosintassi) oppure anche il lessico.
Inoltre vorrei sapere se la coerenza riguarda il modo di esporre l’argomento, mentre la coesione ha la funzione di collegare bene le parti.
RISPOSTA:
Il lessico fa certamente parte della forma di un testo nella sua parte significante, fatta di suoni, grafemi e morfemi. Nella parte del significato, invece, fa parte del contenuto del testo stesso.
In linguistica testuale, la coerenza è la qualità imprescindibile dei testi. Rappresenta la capacità del testo di comunicare qualcosa, che dipende dalla sua non contraddittorietà rispetto al co-testo, al contesto, all’enciclopedia del ricevente. Per esempio, il testo che ho scritto finora è coerente rispetto a sé stesso (ovvero rispetto al co-testo), perché non contiene informazioni che contraddicono altre informazioni fornite in precedenza, ma è anche coerente rispetto al contesto, cioè alla sede che lo ospita e alla domanda a cui cerca di rispondere. Potrebbe, però, essere incoerente rispetto all’enciclopedia del ricevente, ovvero rispetto alle sue conoscenze, se lei non conosce i fondamenti della linguistica testuale. In questo caso, questo testo sarebbe incoerente e non potrebbe comunicare niente. Se lei, invece, conosce i fondamenti della linguistica testuale, questo testo le sembrerà sensato e quindi potrà considerarsi coerente. Questo esempio mostra che la coerenza di un testo non è assoluta, ma è relativa al contesto e agli attori coinvolti nella comunicazione.
La coesione non è imprescindibile per un testo, e riguarda il corretto uso dei legami logici (i connettivi) e referenziali (i coesivi) previsti dalla lingua, ma anche dei segnali discorsivi, della punteggiatura, della consecutio temporum, della concordanza, della deissi (diversi accenni a queste categorie di parole e forme sono contenuti nell’archivio di DICO, a cui la rimando per approfondimenti).
Sebbene un testo possa essere coeso senza essere coerente (pensi al caso fatto sopra), e possa essere coerente senza essere coeso (si pensi a una richiesta di informazioni da parte di uno straniero con una conoscenza limitata della lingua), è vero anche che la coesione possa incidere sulla coerenza. Un connettivo, o un segnale discorsivo al posto sbagliato, per esempio, può rendere incomprensibile un testo o cambiarne il senso. Ad esempio, una frase come “Mi piace il vino rosso, quindi questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco” potrebbe risultare incoerente a causa della scelta sbagliata del segnale discorsivo; mentre più prevedibile sarebbe “Mi piace il vino rosso, ma questa sera ordinerò un bicchiere di vino bianco”. Attenzione, la prima frase non è per forza incoerente; potrebbe, infatti, essere coerente nel contesto giusto (come si è detto prima, infatti, la coerenza testuale è una qualità relativa). In un ristorante in cui servono del vino rosso di pessima qualità, per esempio, la persona a cui piace il vino rosso potrebbe decidere, proprio perché le piace il vino rosso, di non ordinarne.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi sotto indicate sono tutte corrette?
1. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorino.
2. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici siano migliorati.
3. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici miglioreranno.
4. Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici saranno migliorati.
RISPOSTA:
Le proposizioni oggettive esplicite, nelle frasi introdotte da che, ammettono sia l’indicativo sia il congiuntivo. La costruzione della frase, però, ammette soltanto le frasi 1. e 3. La scelta tra le due va fatta in base al contesto comunicativo: l’indicativo (miglioreranno) è la variante meno formale, il congiuntivo (migliorino) quella più formale. Si può anche immaginare una variante ancora meno formale, se non proprio trascurata: “Spero che da ora alla fine del 2021 i dati economici migliorano”.
Le frasi 2. e 4. risultano incoerenti. Il congiuntivo passato (siano migliorati) indica anteriorità rispetto al verbo della reggente; ciò vuol dire che al momento dell’enunciazione il fatto è già accaduto. Potremmo avere la soluzione con il congiuntivo passato in una situazione rivolta al presente (“Spero che i dati economici siano migliorati”), in cui si spera che i dati economici siano migliorati in un momento del passato.
Il futuro anteriore indica anteriorità rispetto al futuro, mentre nella frase il punto di riferimento del cambiamento è attuale, sebbene proiettato al futuro (da ora alla fine del 2021).
Le frasi 2. e 4. divengono coerenti se posizioniamo il riferimento al futuro, invece che da ora al futuro: “Spero che alla fine del 2021 i dati economici siano / saranno migliorati”. In questo modo, il futuro anteriore assume la sua funzione propria di descrivere un evento precedente rispetto al futuro (la fine del 2021); il congiuntivo passato, a sua volta, diviene possibile perché l’emittente può spostare mentalmente il suo punto di vista alla fine del 2021 e osservare il cambiamento come passato rispetto a quel momento.
Anche con il cambiamento del riferimento temporale le frasi 1. e 3. rimangono valide (“Spero che alla fine del 2021 i dati economici migliorino / miglioreranno”), ma cambiano di significato: passano, infatti, a indicare che il cambiamento è ipotizzato a partire dalla fine del 2021.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?
1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro.
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata.
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo.
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.
RISPOSTA:
Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale.
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato.
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi e sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi e sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho scritto la seguente frase umoristica su Facebook: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, al cui confronto Frankestein sembra un ginnasta dell’antica Atene”.
Dopo qualche ora mi è sorto il dubbio che quella virgola, l’unica presente nel testo, non dovesse essere posta. Solo che ormai tutti hanno letto e perciò temo di aver rovinato la reputazione di discreto scrittore che ho costruito con fatica.
RISPOSTA:
Nella frase la virgola non è richiesta perché la proposizione relativa introdotta da al cui confronto è di tipo limitativo, non esplicativo. Questa relativa è parte integrante dell’antecedente (un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’), che non ne può fare a meno; se, infatti, proviamo a eliminarla, il risultato risulta incompleto: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre'”. Si veda, invece, come cambia il rapporto tra reggente e relativa se rendiamo l’antecedente autonomo: “Certi individui attraversano la strada con un certo dinamismo vitale e una certa ‘joie de vivre'”; in questo caso la relativa, che pure può seguire, andrà preceduta da virgola, perché è esplicativa, aggiuntiva, non limitativa, ovvero identificativa dell’antecedente.
Per approfondire questo argomento può consultare diverse risposte nell’archivio di DICO (per esempio la FAQ Usi testuali della virgola).
Va detto che la sua frase presenta un problema di coesione tipico del parlato, da evitare nello scritto: il riferimento di al cui confronto sarebbe un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’, non certi individui. Nella frase, quindi, si confronta Frankenstein al modo di camminare di certi individui, mentre il confronto può essere fatto o tra il modo di camminare di Frankenstein e il modo di camminare di certi individui, o tra Frankenstein e certi individui che camminano in un certo modo. Il senso della frase è comunque chiaro, ma il testo risulta sconnesso.
Un modo semplice per riconnettere i due termini del confronto è questo: “Certi individui attraversano la strada con un dinamismo vitale e una ‘joie de vivre’ al cui confronto il modo di camminare di Frankestein sembra quello di un ginnasta dell’antica Atene”. Chiaramente, in questo modo la frase è meno diretta e probabilmente fa meno ridere, ma la coesione è migliore. In ogni caso, la relativa rimane limitativa, quindi senza virgola.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Il periodo successivo può dirsi lineare?
Certo, i ricordi brutti sono molti come lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle, partecipare a una missione del genere, ma i ricordi belli sono indelebili, come sentirsi dire “Congratulazioni lei è ufficialmente laureata”. Ma tu sei giovane e questa è solo una piccola parte della tua vita.
In particolare, la congiunzione ma dopo il punto fermo non mi sembra adatta.
RISPOSTA:
La seconda parte va bene, compreso il ma all’inizio del periodo, con funzione avversativa rispetto a tutto il periodo precedente, non solamente rispetto a un elemento. Nella prima parte l’elenco è incongruente (al netto di effetti retorici ricercati), perché una missione dovrebbe contenere, quindi precedere, lanciare una bomba e sentirsi un amico morire, non essere messo sullo stesso piano. Propongo la seguente riformulazione, con la rivisitazione anche della punteggiatura:
Certo, i ricordi brutti sono molti, come partecipare a una missione del genere, lanciare una bomba, sentirsi un amico che muore alle tue spalle; ma…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?
RISPOSTA:
Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista:
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Marco pensò a cose che solo lui poteva sapere”, vuoi per l’assenza di altre persone, vuoi per il contesto testuale, è chiaro che il pronome lui si riferisca al soggetto, cioè Marco.
Ma in un esempio come “Marco aveva salutato Luigi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere” mi pare che il referente del pronome sia meno diretto.
Mi piacerebbe ricevere la vostra opinione; nonché, se possibile, qualche indicazione per destreggiarsi in situazioni semantiche simili.
Per inciso, mi torna in mente la differenza d’impiego tra proprio e suo, per distinguere l’attribuzione dell’aggettivo al soggetto o al complemento).
RISPOSTA:
Il pronome personale si riferisce al tema più vicino tra quelli possibili. Per esempio, se nella sua frase ci fosse Maria, oppure i coniugi Rossi, al posto di Luigi, il riferimento sarebbe ancora chiaro: “Marco aveva salutato Maria / i coniugi Rossi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere”. Nella sua frase, invece, il tema Luigi è il più vicino tra quelli possibili e, pertanto, si sostituisce a Marco come bersaglio di lui.
Il lettore rimane comunque dubbioso sulla correttezza del riferimento, perché la proposizione coordinata mantiene Marco come soggetto e, in generale, per il senso della frase, che sembra ruotare tutto intorno a Marco. Per ovviare a questa ambiguità si possono usare forme referenziali (che possiamo chiamare proforme) più esplicite, per esempio quest’ultimo, oppure lo stesso Luigi, se vogliamo puntare a Luigi. Se vogliamo puntare a Marco, possiamo rafforzare lui con stesso, che rimanda al soggetto della frase. Altre proforme che rimandano inequivocabilmente al soggetto (ma che in questa frase non possono essere usate, a meno che non la si riformuli diversamente) sono il pronome riflessivo sé (stesso) e, come da lei ricordato, l’aggettivo possessivo proprio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) Non è chiaro se sia stato effettuato l’intervento; in tal caso procederemo con una diffida.
1b) Non è chiaro se sia stato effettuato l’intervento; in tal caso procederemmo con una diffida.
2a) Se tornerai, mi trovi qui.
Se fossi stata al posto dello scrivente, avrei di preferenza omologato i predicati a un unico tempo, ottenendo tali risultati: 2b) Se torni, mi trovi qui (oppure: “Se tornerai, mi troverai qui”).
RISPOSTA:
Vista la quantità di esempi, rimandiamo all’archivio di DICO per ulteriori approfondimenti sulla consecutio temporum.
1) Entrambe le opzioni vanno bene: il condizionale nella proposizione oggettiva subordinata (“che altri si sarebbero posti / si porrebbero tutti questi problemi” configura la proposizione stessa come l’apodosi di un periodo ipotetico, con la protasi implicita. In altre parole, la frase si lascia interpretare così: “anche se dubito che altri si sarebbero posti tutti questi problemi (se si fossero trovati in questa stessa situazione)”, oppure “anche se dubito che altri si porrebbero tutti questi problemi (se si trovassero in questa stessa situazione). La scelta tra il condizionale presente e il passato dipende dal grado di possibilità che il parlante attribuisce all’evento del porsi problemi (collegato alla relazione temporale con il verbo della reggente): se questo evento è percepito come possibile, quindi attuale rispetto all’evento del dubitare, si usa il presente si porrebbero; se, invece, è percepito come improbabile, quindi lontano dal presente dubito, si usa il passato si sarebbero posti.
La subordinata oggettiva può anche essere costruita con il congiuntivo, perdendo il valore di apodosi di periodo ipotetico. Riscrivendo la frase con il congiuntivo, si ottiene: “anche se dubito che altri si pongano / siano posti tutti questi problemi”. Anche in questo caso, è possibile scegliere tra il presente e il passato, secondo il solo criterio del rapporto temporale tra l’evento del porsi problemi e il l’evento del dubitare.
2) Sia l’indicativo, sia il congiuntivo vanno bene: la scelta dipende dal grado di formalità che si vuole ottenere (indicativo meno formale; congiuntivo più formale).
3) L’evento dell’invitare è antecedente rispetto ad ancora oggi insiste, cioè al presente. In questo contesto, il tempo del congiuntivo nella subordinata è il passato: abbia invitata. Il congiuntivo trapassato andrebbe bene in una frase in cui si evidenzia l’anteriorità dell’evento rispetto al passato: “Insisteva nel volermi fare il bagno nella vasca, nonostante l’avessi invitata più volte a non considerarmi più un bambino”. Inoltre, la punteggiatura della frase così com’è non va bene, sarebbe opportuno non separare verbo e oggetto: “Ancora oggi, insiste nel volermi fare lei il bagno nella vasca…”.
4) Entrambe le forme vanno bene. L’indicativo futuro nell’apodosi del periodo ipotetico sottolinea la fattualità dell’evento, esprimendo maggiore certezza (nella percezione dell’emittente) sulla sua realizzabilità; il condizionale esprime l’evento come possibile.
5) La subordinata in questione è una comparativa ipotetica, che serve, come suggerisce il nome, a fare un confronto tra la realtà (descritta nella reggente) e un’ipotesi. Il verbo della reggente (ha mostrato) è passato, quindi la subordinata, che richiede il congiuntivo, può prendere l’imperfetto se l’evento del voler partecipare è percepito come possibile (quindi contemporaneo all’evento del mostrare), trapassato se l’evento è percepito come improbabile (quindi distante nel tempo dal mostrare). Si noti che con il trapassato si accentua il valore retorico dell’immagine: il parlante costruisce il confronto con una ipotesi che lui stesso esprime come improbabile.
6)-8) Come la 4).
9) Entrambe le forme sono corrette, anche se il futuro (potrò entrare) è preferibile. Il futuro, infatti, pone l’evento dell’entrare in relazione al momento dell’enunciazione, che è adesso; il passato prossimo ha informato, a sua volta, colloca l’evento dell’informare in relazione con il momento dell’enunciazione, lasciando intendere che l’evento sia ancora da consumarsi, cioè, per l’appunto, futuro rispetto ad adesso.
Diversamente, il condizionale passato (sarei potuto entrare) esprime l’idea del futuro nel passato, quindi si pone in relazione non con il momento dell’enunciazione, bensì con quello di riferimento, che è rappresentato da ha informato. Come detto sopra, ha informato è in stretto rapporto con il presente, il che non giustifica pienamente la costruzione del futuro nel passato. Se sostituiamo il passato prossimo con il passato remoto, il condizionale passato diviene legittimo: “Inoltre mi informò che sarei potuto entrare nella struttura la sera…” (sempre possibile, comunque, rimane “Inoltre mi informò che potrò entrare nella struttura la sera…”, nel caso in cui l’evento dell’entrare sia futuro rispetto ad adesso).
A margine, si noti che il sintagma la sera si lascia interpretare (preferibilmente, non obbligatoriamente) in due modi diversi nelle due costruzioni: “Inoltre mi ha informato che potrò entrare nella struttura la sera…” suggerisce che potrò entrare di sera (possibilmente ogni sera); “Inoltre mi informò che sarei potuto entrare nella struttura la sera…” suggerisce che sarei potuto entrare quella sera.
10. Simile all’esempio precedente. Il sintagma “da questa sera” accentua la separazione tra il passato prossimo ha raccontato e il momento dell’enunciazione, rendendo più accettabile il condizionale passato.
11. La proposizione relativa può essere costruita con l’indicativo (“che vogliono partecipare”), il congiuntivo presente (“che vogliano partecipare”), il congiuntivo imperfetto (“che volessero partecipare”). La scelta dipende dal grado di probabilità dell’evento del voler partecipare (nella percezione dell’emittente). Esattamente lo stesso vale se sostituiamo volere con desiderare (quindi desiderano / desiderino / desiderassero); cambia, ovviamente, il significato del verbo: desiderare ‘avere un desiderio’; volere ‘avere la volontà’.
12) Possibili entrambe le varianti, con la solita sfumatura funzionale tra l’indicativo fattuale e il condizionale che presuppone un’ipotesi. Il condizionale, infatti, configura la proposizione come l’apodosi di un periodo ipotetico, come se fosse: “anche se (se non l’avessi trovata) quella vecchia andrebbe bene”.
13) Siano state esplose si pone in relazione al momento dell’enunciazione, rispetto a cui è antecedente; fossero state esplose, invece, si pone in relazione a hanno disposto, che è già passato, rispetto a cui è, a sua volta, antecedente. Come nella frase 9), il passato prossimo è fortemente proiettato sul presente, tanto da non giustificare pienamente la costruzione con il trapassato; questo vale anche per la relativa “che avevano colpito il senzatetto”, che funziona meglio con il passato prossimo: “le autorità hanno subito disposto l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole che hanno colpito il senzatetto siano state esplose”. Anche qui, se usassimo il passato remoto la situazione si capovolgerebbe a favore del trapassato: “le autorità disposero subito l’esame autoptico, necessario per accertare ufficialmente le cause del decesso, e stabilire se le pallottole che avevano colpito il senzatetto fossero state esplose”.
Si noti anche la punteggiatura: le virgole prima e dopo la relativa non sono richieste, perché la relativa è limitativa (su questa rimandiamo all’archivio di DICO).
14) Corrette entrambe le forme. Anche per questo rimandiamo all’archivio di DICO, consultabile con la parola chiava ausiliare.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo sottoporvi un mio dubbio: nell’ultima strofa della poesia che riporto sotto, ho usato il passato remoto “poté” anziché il congiuntivo imperfetto “potesse”. Lo ritenete corretto o comunque preferibile?
“…Forse tutti quanti, però,
abbiamo escluso o non abbiamo mai desiderato
che Gesù, violento nel riempire di se stesso
ma delicato nel doversi vergognare del seme di Giuseppe,
a braccia aperte sulla croce,
non poté piangere il dolore per quelli che restavano”.
RISPOSTA:
In dipendenza da “escludere che” e “desiderare che” l’italiano standard prescrive il congiuntivo: dunque la scelta sarebbe dovuta essere “potesse”, e non “poté”, che è decisamente più informale. Inoltre, se mi posso permettere, l’intero periodo sembra intricato al limite dell’incoerenza (forse voluta, me ne rendo conto, più che per licenza poetica, per i noti paradossi teologici connessi con la figura cristologica). Capisce bene, tuttavia, che l’italiano ha le sue ragioni, non necessariamente coincidenti con quelle della poesia, del cuore, della fede…
A rendere intricata la sintassi è la doppia negazione: “non abbiamo mai desiderato che non potesse piangere”. Quindi: abbiamo desiderato che potesse piangere, giusto? E non sarebbe stato più chiaro?
Inoltre, mettere sullo stesso piano, come coordinate, “abbiamo escluso” e “non abbiamo mai desiderato” rende difficile al lettore il compito della decodificazione. Lei mi dirà che compito della poesia non è quello di essere chiara. Ha ragione, ma forse a volte un po’ di chiarezza e di logica in più non guasterebbero. Si incontrerebbe (e convincerebbe, forse) un numero superiore di persone.
Fabio Rossi