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QUESITO:

Spesso nell’italiano colloquiale e, a volte, anche in occasioni meno informali, mi accade di sentire elementi forse classificabili come neostandard, come l’uso del pronome “gli” anche con il significato di “a lei”.
Sul versante dei regionalismi riscontro l’utilizzo di scatola al maschile, l’uso transitivo del verbo uscire (in Sicilia), le forma non apocopata di professore davanti a nome proprio.
Quanto ho elencato va considerato assolutamente errato? Come si dovrebbe comportare un insegnate con i propri alunni, correggendo questi e simili errori o spiegando le differenze diatopiche et similia?

 

RISPOSTA:

Gli errori assoluti propriamente detti sono molto pochi, in una lingua: si tratta di forme del tutto incomprensibili, oppure che violano regole di sistema, come per es. se in italiano qualcuno dicesse «mela la» anziché «la mela», oppure «il mio amico arrivano domani» anziché «il mio amico arriva domani». Si tratta, cioè, di errori che di fatto nessun madrelingua commetterebbe, perché violano regole del tutto introiettate dai parlanti. Il 90% di quelli che comunemente vengono classificati come errori è in realtà costituito da forme proprie di una varietà della lingua, ma non adatte alle altre varietà. Per es. un termine, una forma o una locuzione propri dell’italiano regionale, oppure dell’italiano informale, ma inadatti all’italiano standard formale. Compito della scuola è far capire come l’italiano, così come ogni altra lingua del mondo, è sfaccettato, cioè articolato in diverse varietà, e che pertanto una piena alfabetizzazione funzionale prevede che si sia in grado di riconoscere e usare le forme adatte a ciascuna varietà. L’insegnante deve quindi spiegare agli studenti che tutte le forme da lei segnalate (gli ‘le’, scatolo ‘scatola’, uscire la macchina dal parcheggio, professore Rossi anziché professor Rossi) sono forme corrette nelle varietà informali (la prima) e regionali meridionali (le altre tre), ma da evitare senza dubbio nell’italiano standard, soprattutto se di tipo formale e scritto. Vanno invece bene nell’italiano parlato informale e regionale, con l’avvertenza che le ultime tre potrebbero suscitare reazioni negative nei parlanti dell’Italia centro-settentrionale. Tutte e quattro le forme da lei citate (e altre consimili), inoltre, se utilizzate nell’italiano standard scritto, soprattutto di tipo formale, susciterebbero una reazione negativa in chiunque e potrebbero addirittura determinare sanzioni sociali, quali la bocciatura a un concorso, un brutto voto a scuola, l’accusa di essere ignoranti e simili. Dato che ogni lingua è prima d’ogni altra cosa uno strumento sociale, queste reazioni e queste sanzioni fanno parte a pieno titolo della lingua stessa e non possono, pertanto, essere ignorate né disattese dall’educazione linguistica propria dell’attività scolastica e della vita democratica.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Posso spezzare la parola «que-st’ultimo» così? «Que-», a capo «st’ultimo»?

 

RISPOSTA:

Meglio di no, perché rimarrebbe a capo non una sillaba (sto), bensì un mozzicone di sillaba: -st. Tuttavia, dato che di fatto la presenza dell’apostrofo (come contrassegno d’elisione) invita a considerare quest’ultimo alla stregua di una sola parola, di fatto la sillabazione que – st’ultimo non può dirsi del tutto errata (così come sarebbe accettabile nel – l’uso), anche se brutta a vedersi e al limite dell’accettabilità.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Vorrei porre un quesito relativamente alla costruzione di frasi contenenti verbi servili/fraseologici. Nei manuali di scuola ho l’impressione che i verbi servili e i verbi fraseologici siano liquidati in poche parole e restino confinati in gruppi piuttosto riduttivi rispetto alla realtà. Per farla breve, in genere questo si trova: verbi servili: dovere, potere, volere (poi si aggiunge, in modo discreto, ma non mi pare che ci sia intesa unanime, che anche altri verbi possono essere tali: solere, sapere, desiderare, osare, preferire).

Verbi fraseologici: esprimono tentativo, imminenza, inizio, continuazione, fine di un’azione.

Finché si resta nel seminato tutto bene; mi chiedo però come vadano interpretate espressioni come:

1) riuscire a + infinito?

Ad esempio la frase «Luca non riesce a capire il teorema di Pitagora» è, a mio avviso, molto simile a «Luca cerca di capire il teorema di Pitagora», e quindi vedrei una costruzione fraseologica in entrambe. In qualche grammatica però mi è capitato di leggere che «riuscire a» regge una subordinata oggettiva. Quindi la mia idea sembra non corretta.

2) Andare/venire + infinito?

Le frasi «vieni a vedere» o «vai a controllare» contengono un’espressione fraseologica o sono da dividere in reggente e sub. finale? A me sembra che il senso sia «controlla» e «guarda» e quindi semplificherei.

3) Pensare di + infinito

Di solito «pensare» vuole un’oggettiva, ma nella frase «penso di uscire» io vedo il significato «ho intenzione di uscire» e quindi direi fraseologia per azione imminente.

4) Così poi ce ne sarebbero tante altre poco chiare al momento di fare l’analisi del periodo, come «divertirsi a giocare, decidersi a parlare, dimenticarsi di cenare» e simili. Nelle grammatiche per stranieri mi pare che venga messo tutto nello stesso calderone dei verbi fraseologici.

Invecchiando vedo che i dubbi aumentano anziché diminuire.

 

RISPOSTA:

Partiamo dal presupposto che avere dubbi sulla lingua è indizio di una sana inclinazione alla riflessione metalinguistica e alla riflessione in generale: il dubbio è pertanto una pratica salutare (solo i cretini non hanno mai dubbi), critica e naturalmente propria dell’età adulta. Quindi vivano i suoi dubbi! Ha ragione anche quando dice che le grammatiche più che fare chiarezza fanno confusione, sulla questione dei verbi che creano un unico predicato insieme con gli infiniti che li accompagnano. Va però detto che simili ripartizioni della realtà (cioè le classificazioni presenti nei libri di grammatica) sono, per l’appunto, classificazioni, cioè frutto del punto di vista, del metodo, dell’idea e dell’ideologia di chi le pratica. Quindi raramente esistono classificazioni giuste e sbagliate, bensì classificazioni più o meno utili secondo lo scopo prefisso. Se lo scopo di classificare i verbi che costituiscono un unico aggregato con l’infinito è di natura prevalentemente semantica, allora possono andar bene (ma non del tutto, come spiegherò tra poco) sia le attuali classificazioni (in verbi servili e fraseologici ecc.) della grammatica tradizionale, sia quelle da lei proposte (di natura, però, esclusivamente semantica: desiderare è sinonimo di volere, quindi va classificato come volere, e simili considerazioni). Se invece, come preferisco io, l’obiettivo della classificazione è quello di spiegare la sintassi della frase, la funzione dei sintagmi e il funzionamento della lingua, allora debbo ammettere che tanto la classificazione tradizionale quanto quella da lei adombrata fanno acqua da tutte le parti, mentre la classificazione proposta dalla grammatica generativa (anche nella sua versione più semplificata) è decisamente più utile e convincente. E ora spiego perché, semplificando al massimo un discorso che è in realtà molto complesso e può essere studiato, tra le altre sedi, nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi e Cardinaletti, vol. 2, alle pp. 513-522.

Vi sono alcuni casi in cui il complesso verbo + infinito va analizzato come un unico predicato e altri casi in cui il suddetto complesso va analizzato come due frasi (o meglio proposizioni), cioè proposizione reggente + proposizione subordinata implicita. Che cosa consente di riconoscere le due categorie? Non certo motivi semantici, dato che vi sono verbi dal significato simile che appartengono a categorie diverse (come volere e desiderare, potere/provare a da un lato e osare dall’altro ecc.). Soltanto un elemento sintattico consente la distinzione, e precisamente la posizione del clitico, o particella pronominale atona. Tutte le volte che il clitico si trova davanti al verbo che regge l’infinito, allora siamo in presenza di un unico predicato (verbo + infinito). Viceversa, tutte le volte che il clitico (o l’oggetto in forma non pronominale) si trova dopo l’infinito, siamo in presenza della struttura bifrasale reggente + subordinata. Pertanto: «Riesco a incontrare Luca», «Riesco a incontrarlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo riesco a incontrare» è una struttura monofrasale. «Vado a vedere il film», «Vado a vederlo», «Posso vedere il film», «Posso vederlo» sono strutture bifrasali, mentre «Lo vado a vedere», «Lo posso vedere» sono monofrasali. «Penso di comprare il pane» può essere soltanto bifrasale, dato che è impossibile (o agrammaticale) dire «Lo penso di comprare». Tutti gli altri esempi da lei citati al punto 4 («divertirsi a giocare», «decidersi a parlare», «dimenticarsi di cenare») possono essere soltanto bifrasali, per i motivi già spiegati: naturalmente, lo si capisce con un verbo transitivo con oggetto espresso: «Dimentico di prendere la medicina» ma non «La dimentico di prendere». Tirando le somme, questa classificazione (bifrasale/monofrasale) serve, l’altra (verbi servili, fraeologici ecc.) non serve quasi a nulla e a nessuno. Se vogliamo conservarla, allora limitiamo l’etichetta di verbi servili a quei soli verbi che consentono la ristrutturazione, cioè la risalita del clitico che determina la trasformazione della struttura da bifrasale a monofrasale (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]). Chiamiamo fraseologici gli altri verbi, perlopiù a reggenza preposizionale, che consentono la stessa ristrutturazione, oltre ai cinque elencati: tentare di, riuscire a ecc. Oltre a quanto detto, dobbiamo ricordare che anche i verbi causativi e fattitivi (fare, lasciare + infinito) costituiscono strutture monofrasali: «Lo lascio fare», «Lo faccio fare» (sono impossibili «Lascio farlo» ecc.).

Se vogliamo invece fare una classificazione prevalentemente semantica, sarebbe meglio classificare i 5 verbi (potere, dovere, volere, solere e sapere [ma non nel senso di ‘conoscere’]) come modali, perché attribuiscono al verbo che reggono lo stesso valore di possibilità, volontà e simili espresso dal modo verbale: posso andare = andrei. Mentre chiamiamo alcuni degli altri aspettuali, perché indicano l’aspetto, cioè il modo in cui avviene l’azione: «Comincio a studiare» fotografa l’azione come incipiente, «Finisco di studiare» come terminale ecc.

Che cosa non funziona della corrente classificazione grammaticale, dell’analisi logica tradizionale e dell’analisi del periodo tradizionale? Il fatto che mette in un unico calderone oggetti diversi senza mai preoccuparsi di chiarire se li sta identificando per ragioni semantiche oppure per ragioni sintattiche. Col risultato che il parlante comune rimarrà per tutta la vita con i dubbi (più che legittimi) che ha lei. Quindi, da questo si deduce che lo studio della grammatica a scuola serve moltissimo e va rafforzato, ma anche rinnovato, alla luce delle acquisizioni della linguistica, tenendo conto di classificazioni utili, produttive e intelligenti come quelle che abbiamo qui sinteticamente cercato di illustrare. Mentre andrebbero via via abbandonate le altre classificazioni, che alla verifica dei fatti non servono a niente o sono addirittura dannose. Naturalmente la scuola evolve molto lentamente e dunque passerà ancora qualche decennio almeno, temo, prima che si verifichi un tale aggiornamento.

Sottolineo infine che tutto quello che ho appena detto a proposito della grammatica a scuola è stato detto, già decenni fa e molto più autorevolmente, da Tullio De Mauro, vale a dire uno dei più illustri linguisti del Novecento, il quale ha sempre invitato allo studio attivo della grammatica a scuola come strumento di linguistica democratica e di pensiero critico. È triste e gravissimo, invece, che proprio in questi giorni esponenti del mondo accademico e addirittura preposti all’aggiornamento dei programmai scolastici abbiamo attribuito proprio a Tullio De Mauro l’invito a liberarsi della grammatica. Un’accusa falsa e infamante, come può verificare facilmente chiunque abbia mai letto anche soltanto pochi righi dell’enorme e tuttora preziosissima produzione del compianto professor Tullio De Mauro.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Studiando con mia nipote l’argomento mi sono accorta che confonde CPS, CO, ATTRIBUTO. Poiché lei si chiede sempre “che cosa?” Es: «Luca è stato eletto sindaco». Dopo aver individuato predicato e soggetto, lei si chiede «che cosa?» Quindi sindaco diventa per lei il complemento oggetto e non il predicativo del soggetto. Inoltre nella frase «la vacanza è considerata finita» lei ha ragionato erroneamente che finita essendo un aggettivo e riferendosi alla vacanza, fosse un attributo. Magari esiste una regola, che io non conosco, per chiarire questi dubbi.

 

RISPOSTA:

Partiamo dal presupposto che i dubbi di sua nipote non soltanto sono pienamente legittimi, ma mettono il dito nella piaga della dannosità di insegnare l’analisi logica tradizionale anziché abituare al ragionamento e all’integrazione di metodi diversi, ivi compreso quella della grammatica valenziale. Vediamo di fare chiarezza e di dare consigli pratici, come tentiamo di vare anche nella nostra grammatica: F. Rossi, F. Ruggiano e R. Merida, La grammatica Treccani per la scuola secondaria di secondo grado, Firenze, Treccani Giunti T.V.P., 2024. La prima cosa da dire a sua nipote è: un verbo passivo non può mai avere un complemento oggetto, pertanto in è stato eletto non può esserci complemento oggetto e ciò che risponde alla domanda “che cosa?” può solo essere complemento predicativo del soggetto. L’attributo qualifica il nome cui si riferisce senza la mediazione di un verbo (copula o verbo copulativo). Se invece c’è la mediazione di un verbo allora non si tratta di un attributo bensì di parte nominale o complemento predicativo del soggetto. In «La vacanza è considerata finita», l’aggettivo finita qualifica la vacanza mediante il tramite di un verbo (è considerata), quindi è complemento predicativo del soggetto. In realtà le grammatiche più aggiornate considerano ogni predicato con verbo copulativo un predicato nominale e dunque l’analisi di «La vacanza è considerata finita» sarebbe: SOGG + Predicato nominale. Se però l’insegnante di sua figlia è, come probabile, più tradizionalista e considera i verbi copulativi come predicati verbali, allora l’analisi della frase è: SOGG + Predicato verbale + complemento predicativo del soggetto.

Se manca la mediazione del verbo, allora l’aggettivo è attributo: «La vacanza finita impaurisce»; in presenza del verbo essere, ovviamente, si tratta di parte nominale del predicato nominale: «Essendo noiosa la vacanza…»: Essendo copula, noiosa parte nominale (o nome del predicato), la vacanza SOGG.

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Avrei un dubbio relativo ad alcuni predicati composti da più verbi: nella frase «perché imparassimo a volergli bene» potete spiegarmi per quale ragione si tratti di un unico predicato? È un verbo fraseologico? E in tal caso, di quale tipo? Quale bibliografia consigliereste per sciogliere questo genere di dubbi?

 

RISPOSTA:

«Perché imparassimo a volergli bene» sono due proposizioni subordinate (con due diversi predicati): una finale + un’infinitiva (che potrebbe essere definita come finale o anche in altro modo). Imparare a non è un verbo fraseologico. Le grammatiche contengono di solito una lista dei verbi fraseologici, come per es. la nostra: F. Rossi, F. Ruggiano e R. Merida, La grammatica Treccani per la scuola secondaria di secondo grado, vol. A, Morfologia – Sintassi – Lessico – Fonologia – Ortografia, Firenze, Treccani Giunti T.V.P., 2024, p. 24. Non escludo che qualche grammatico possa estendere la lista dei verbi fraseologici o aspettuali fino a includervi anche imparare a fare qualcosa (come abbiamo detto più volte, la grammaticografia è varia e certe scelte sono soltanto punti di vista, peraltro legittimi, che nulla hanno a che vedere col funzionamento e gli usi di una lingua), però non mi pare una scelta corretta, perché l’aspetto verbale qualifica un’azione in base al momento e alle modalità in cui viene svolta (per es. tentativo, imminenza, momento iniziale o finale, continuità e simili). Non si vede come un verbo come imparare possa qualificare l’aspetto.

Fabio Rossi

Parole chiave: Italiano a scuola, Verbo
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QUESITO:

Perché da alcuni la parola «d’altronde» (e immagino anche i suoi sinonimi «d’altra parte» e «d’altro canto») viene considerata loc. avverbiale e da altri invece loc. congiuntiva? qual è la differenza?

 

RISPOSTA:

La definizione più corretta di d’altronde, d’altra parte, d’altro canto e simili è quella di segnale discorsivo, ovvero di parola, o locuzione, che serve a contrassegnare il passaggio da un punto all’altro del discorso o a indicare il punto di vista del locutore o dell’autore del discorso. Dal punto di vista formale, essendo d’altronde (d’altra parte, d’altro canto) formata da due parole (in questo caso preposizione più avverbio), è sicuramente una locuzione. Meglio annoverarla tra le locuzioni avverbiali, dal momento che svolge, negli enunciati, il ruolo di introdurre parti del discorso; ha dunque il ruolo di avverbio frasale o testuale (cioè segnale discorsivo). Dato però che può servire anche a passare da una parte all’altra di enunciato (ed essere dunque una congiunzione testuale, altra etichetta del tutto sinonima di segnale discorsivo), taluni dizionari e grammatiche preferiscono definirla come locuzione congiuntiva: «studia poco, d’altronde all’età sua fanno tutti così». Tuttavia, a ben guardare, d’altronde non funge mai da vero collegamento (come le altre congiunzioni e locuzioni congiuntive propriamente dette: anche se, non di meno, visto che, per la qual cosa ecc.), bensì da introduttore d’enunciato o, per l’appunto, da avverbio frasale. Per questo, riassumendo, l’etichetta migliore è quella di segnale discorsivo, volendo quella di locuzione avverbiale, meno bene di tutte quella di locuzione congiuntiva.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Nella frase «partecipare a una gara», «a una gara» che complemento è?

 

RISPOSTA:

Complemento di termine, rispondono tutte le grammatiche tradizionali che praticano l’analisi logica tradizionale. Oggetto obliquo, rispondono le grammatiche valenziali. Chi ha ragione? Da un punto di vista meramente nominalistico, descrittivo, hanno ragione entrambe. Dal punto di vista di un’analisi più profonda, e quindi più utile, del funzionamento della struttura e delle funzioni delle frasi, ha più ragione la grammatica valenziale. Infatti l’analisi logica tradizionale di logica ha in realtà assai poco ed è invece un inutile esercizio semantico-nomenclatorio, che rimane in superficie dei fatti linguistici senza preoccuparsi di spiegarli a fondo. L’analisi valenziale, invece, consente di capire come funziona la struttura delle frasi in base agli argomenti del verbo, ovvero a quei sintagmi necessari a completare la valenza (e dunque il significato) del verbo stesso. Da questo punto di vista, «partecipare a una gara» si comporta esattamente come «affrontare una gara», mentre è molto diverso da «portare mio figlio a una gara», oppure «dare i fiori all’atleta» ecc. Negli ultimi due esempi la preposizione a indica una relazione logica locativa (in un caso), oppure dativa (nell’altro; dativo o complemento di termine: «dare qualcosa a qualcuno»), cioè serve a esprimere il luogo o il destinatario di qualcosa. Nel primo caso, invece («partecipare a una gara»), la preposizione ha la mera funzione di collegare l’oggetto al verbo, proprio come nel caso del complemento oggetto. Quindi, analizzare «a una gara» (in «partecipare a una gara») come complemento di termine significa confondere le carte in tavola e fraintendere i significati, le funzioni e la struttura delle frasi. Sul concetto di oggetto obliquo (cioè introdotto da una preposizione, anziché privo di preposizione come il complemento oggetto canonico) può vedere anche qui.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nelle frasi «Luca ha dieci figurine, Anna ne ha il triplo» e «Nella prima scatola ci sono sei pennarelli, nella seconda il triplo» a quale parte del discorso corrisponde la parola triplo? Si tratta di pronome numerale oppure di un nome?

 

RISPOSTA:

È un nome, come dimostra la presenza dell’articolo. Come nome è infatti classificato dal Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro. Secondo alcune trattazioni grammaticali, il triplo in esempi come «Anna ne ha il triplo» può essere analizzabile come pronome. Proprio perché la distinzione tra nome e pronome, nel caso dei numerali, è assai sottile, quasi tutte le grammatiche italiane li classificano genericamente come «numerali», senza distinguere tra funzione nominale, aggettivale e pronominale. Triplo può fungere anche da aggettivo numerale moltiplicativo, quando si accompagna a un nome: «il triplo salto mortale». Potrebbe anche fungere da avverbio: «vedo triplo».

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

1) «È stata un’esperienza». È possibile che il soggetto non sia “un’esperienza”, che invece risulterebbe essere il nome del predicato, ma bensì un soggetto sottinteso e ricavabile dal contesto (come ad esempio “la relazione”, “la situazione”, eccetera)? D’altronde è come se ci domandassero “Com’è stata la relazione/situazione, etc.?”, e noi rispondessimo “È stata un’esperienza”, facendo quindi riferimento ad un soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, “la situazione”, ecc.). In aggiunta, da quello che ho capito, quando il verbo “essere” è usato in funzione di copula, come nell’esempio iniziale, è possibile sia l’accordo con il soggetto esplicito (e cioè qualora non fosse sottointeso):”La relazione è stata un’esperienza”, sia l’accordo con il nome del predicato: “Il viaggio è stata un’esperienza”. Tuttavia, in conclusione, il participio passato di “essere”, ma come anche di “andare”, “finire”, eccetera, in particolari costruzioni impersonali, quindi con un soggetto implicito, e cioè non esplicitato, prende la terminazione femminile in -a, qualora e in concordanza con il generico soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, per esempio): “Com’è stata (la relazione)?” – “È stata un’esperienza (“la relazione”)”. Al contrario, prende la terminazione in -o, qualora e in concordanza con il generico soggetto maschile e sottointeso (“il viaggio”, per esempio): “Com’è stato (il viaggio)?” – “È stato un’esperienza (“il viaggio”)”; e non *”È stata un’esperienza (“il viaggio”)?

 

RISPOSTA:

Sì, tutto corretto. Come già detto qui, a scuola si tende a semplificare molto, troppo, sull’analisi logica e sull’analisi del periodo, per cui un caso come quello da lei segnalato («È stata un’esperienza») verrebbe analizzato probabilmente come «un’esperienza» soggetto e «è stata» predicato verbale. Mentre invece, per tutti i motivi da lei indicati, l’analisi corretta è: SOGG sottinteso, è stata copula, un’esperienza predicato nominale.

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho letto, in una vostra risposta, che nella frase “Chi siete?” il verbo “essere” può essere interpretato o come predicato verbale o come predicato nominale. Come predicato nominale, l’analisi sarebbe la seguente: “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” è la copula, che s’accorda al plurale perché il soggetto sottinteso “voi” è plurale, e “chi” è il nome del predicato. Al contrario, come predicato verbale: “Chi”, soggetto; “siete”, predicato verbale. Ecco, qui ho un dubbio: e cioè se “essere”, a seconda dell’interpretazione datagli, fosse predicato verbale, e “chi” quindi soggetto (con il quale, anche qui, il verbo troverebbe l’accordo al plurale perché “chi”, invariabile, e rispetto al contesto, avrebbe valore plurale), il “voi” che ruolo rivestirebbe? È chiaro, di logica, che il “chi” non potrebbe essere considerato né complemento oggetto (perché “essere” è solo intransitivo), né, immagino io, complemento predicativo del soggetto (altrimenti ci avvicineremmo al predicato nominale). Conseguentemente, ma magari sbaglio, penso, in frasi di questo tipo, che il verbo “essere”, per così dire, spingerebbe maggiormente il lettore a considerarlo predicato nominale, in quanto l’attrazione del soggetto sottinteso “voi” sarebbe maggiore rispetto a quella del “chi” nel predicato verbale. In aggiunta, e in chiusura, se considerassimo la frase come predicato nominale relativamente al ragionamento sovrascritto, il “voi” rivestirebbe, trovandosi così a suo agio, il ruolo di soggetto, mentre quello di nome del predicato spetterebbe al “chi” che, diversamente e per mia ignoranza, non saprei dove collocare in un predicato verbale.

 

RISPOSTA:

Come già detto nella risposta cui la domanda fa riferimento, l’analisi come predicato nominale di casi quali «chi siete» è decisamente quella più elegante e, dal punto di vista della grammatica generativa e in genere di un’analisi sintattica approfondita, l’unica corretta, proprio per le ragioni che lei ben ricostruisce nella sua domanda. Di solito, l’analisi logica condotta a scuola recalcitra a spiegazioni troppo profonde, forse per non confondere le idee agli studenti e non invocare troppo i concetti di sottinteso, traccia, spostamento di sintagmi ecc. Tuttavia sarebbe bene spiegare casi simili esattamente come li spiega lei nella sua domanda: il soggetto di siete, ricavabile dalla persona verbale, è “voi”, mentre il pronome chi, che come tutti i pronomi interrogativi risale in prima posizione, svolge la funzione di nome del predicato: voi siete chi.

Fabio Rossi

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre  la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di ina; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.

 

RISPOSTA:

Il superlativo relativo si misura, appunto, in relazione a una categoria di cui fa parte l’individuo dotato della qualità. Per questo motivo il sintagma che segue questo superlativo è considerato un complemento partitivo. Ovviamente, un sintagma formato con in o a + nome di luogo non può essere un complemento partitivo. Vero è, però, che può svolgere quasi la stessa funzione si potrebbe dire per metonimia. Se dico, cioè, che qualcuno ha una qualità al massimo grado in un luogo, per metonimia sto dicendo che la qualità è al massimo grado in relazione a tutti gli individui della stessa categoria che si trovano in quel luogo. Ad esempio, “Luca è il più bravo della sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che fanno parte della sua squadra” / “Luca è il più brano nella sua squadra” = ‘Luca è il più bravo in relazione a tutti gli individui che si trovano nella sua squadra’, Lo stesso vale, ad esempio, per “L’Empire State Building è il grattacielo più alto di New York / a New York”. La differenza tra il complemento partitivo e quello di stato in luogo in questi casi è effettivamente minima, tanto che i nativi non riuscirebbero a individuarla facilmente. In ogni caso, l’uso del complemento di stato in luogo per esprimere (per metonimia) il partitivo è piuttosto raro (anche se il gusto personale può avere un certo ruolo nella preferenza): in generale è preferito soltanto in alcuni casi quasi idiomatici, come al mondo; per il resto è una possibilità poco sfruttata. Direi che le ragioni per cui le grammatiche non riportano questa possibilità sono proprio queste: si tratta di un uso estensivo ed è piuttosto raro.
Se poi ti interessa sapere perché a volte si usi in e a volte a, questo dipende dalla regola generale dell’alternanza tra queste preposizioni: in Italiain Sicilia, ma a New Yorka Roma… 
La questione dell’articolo è così schematizzabile: tra i nomi propri geografici non richiedono l’articolo i nomi di città e piccola isola, mentre lo richiedono i nomi di Stato, continente e simili (con pochissime eccezioni, come Israele). Neanche questi ultimi, però, vogliono l’articolo quando sono preceduti da in e a (in Italiain Asia). Soltanto i nomi di Stato o simili plurali richiedono l’articolo anche con in anegli Stati Uniti. Vogliono sempre l’articolo, infine, i nomi di luoghi fisici, come il Mediterraneogli Appenniniil Gardale Baleari ecc., perché sottintendono sempre un nome comune (il mar Mediterraneoi monti Appennini, il lago di Gardale isole Baleari). Lo stesso vale anche per quei pochi nomi di luoghi fisici che non sottintendono un nome, come le Alpi (nelle Alpi).  
Questa distribuzione dell’articolo è una di quelle regole che si formano per convenzione e non hanno alla base una motivazione razionale o funzionale. 
Fabio Ruggiano
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QUESITO:

Il mio quesito è duplice. Mi farebbe piacere sapere se nella frase “Non feci in tempo a scansarmi che l’uomo in bicicletta mi travolse” ci troviamo di fronte a un caso di che polivalente. Io lo percepisco come tale e mi sentirei di segnalarlo e correggerlo in un tema. Non trovo però una forma valida con cui sostituirlo senza intervenire su tutta la struttura della frase, ad esempio “L’uomo in bicicletta mi travolse senza che potessi fare in tempo a scansarmi”. Più in generale mi chiedo spesso se i tratti di italiano neo-standard vadano corretti o accettati in ambito scolastico.

 

RISPOSTA:

In frasi come la sua il connettivo che è usato con una funzione esplicativo-consecutiva, che rientra tra quelle raggruppate sotto l’etichetta di che polivalente. La stessa funzione può essere ravvisata in frasi come “Tu esercitati, che prima o poi avrai successo”, o “Vieni che ti spiego tutto”. Quest’uso è certamente tipico del parlato di formalità medio-bassa (come suggerisce il senso stesso delle frasi esempio); la sua accettabilità nello scritto di media formalità, invece, oscilla in relazione alla sensibilità dei parlanti e alla costruzione dell’intera frase. Nella sua frase, per esempio, l’uso ha un’accettabilità più alta che negli esempi fatti da me, perché non fare in tempo che è un costrutto quasi cristallizzato (un costrutto pienamente cristallizzato di questo tipo è fare in modo che). Per la verità, un’alternativa del tutto standard (e per questo meno espressiva) alla costruzione che non richieda lo stravolgimento della frase esiste: “Non feci in tempo a scansarmi: l’uomo in bicicletta mi travolse”. La variante sintattica, si noti, rivela che il che polivalente è spesso un “riempitivo” coesivo per un collegamento logico che altrimenti rimarrebbe implicito; anche nei miei esempi, infatti, il che si può semplicemente eliminare (con l’effetto secondario di elevare il registro).
Anche per altri tratti del neostandard l’accettabilità dipende oltre che, ovviamente, dal contesto, dalla sensibilità dei parlanti e dalla costruzione dell’intera frase. Per esempio, una dislocazione a sinistra come “Questo argomento lo tratteremo la prossima volta” è più accettabile di “Di questo argomento ne parleremo la prossima volta”, perché anche se in entrambe le frasi la tematizzazione del costituente rafforza il collegamento con la frase precedente, nella seconda la ripresa pronominale non è necessaria.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Vorrei porvi una domanda in merito (a mio parere) alla scarsa chiarezza riscontrabile nei testi di grammatica, in merito al rapporto fra la forma riflessiva e la forma passiva.
Nella forma riflessiva apparente (ad es., “Paolo si lava le mani”), il verbo sembra essere transitivo. Allora essendo transitivo dovrebbe essere possibile trasformare la frase riflessiva in passiva. Ad es., “Le mani di Paolo sono lavate da sé stesso”.
Ora, a prescindere dalla correttezza o meno dell’esempio, mi aspetterei che le grammatiche ne parlino. Oppure, se contraddice la regola, in quanto il verbo lavarsi non sarebbe transitivo, gli autori dei testi scolastici potrebbero spendere qualche parola in più e dire esplicitamente che la forma passiva non è possibile ottenerla dalle frasi riflessive. Punto.
Tenete conto che molto spesso gli allievi (specie quelli non madre lingua italiana, magari impegnati nell’apprendimento dell’italiano L2 ) necessitano di regole grammaticali – morfologiche e sintattiche – un po’ più agili, più lineari, meno deduttive.

 

RISPOSTA:

Il problema che lei solleva discende dall’idea che la forma passiva del verbo “si ottenga” da quella attiva. In realtà, la forma passiva del verbo ha le sue regole di formazione indipendenti dalla forma attiva; essa, inoltre, coinvolge la costruzione dell’intera frase e dipende dall’intento dell’emittente di rappresentare la realtà in un certo modo (mettendo in primo piano il processo e in secondo piano l’agente). La specularità tra la costruzione della frase attiva e passiva con i verbi transitivi è un fatto secondario, utile in chiave didattica, perché consente di instaurare un confronto tra le due, ma non essenziale per comprendere la funzione specifica della costruzione passiva. Anzi, tale confronto rischia di essere fuorviante, proprio perché concentra l’attenzione sulla corrispondenza formale tra attivo e passivo e oscura la funzione specifica della costruzione passiva. Venendo al suo caso, è vero che tra la costruzione attiva e quella passiva dei verbi transitivi pronominali c’è una corrispondenza imperfetta, perché nel passivo viene a mancare l’elemento pronominale che sottolinea il vantaggio che il soggetto trae dal processo o la particolare intensità con cui partecipa al processo. Tale imperfezione, però, non annulla la corrispondenza; non c’è qui, quindi, un’eccezione da rilevare, ma una minima deviazione dalla regolarità. Ora, soffermarsi a puntualizzare le innumerevoli deviazioni dalla regolarità non è possibile, né utile (si ricordi che la stessa regolarità delle costruzioni è una schematizzazione di comodo): se le grammatiche scolastiche lo facessero diventerebbero indigeribili e abdicherebbero alla loro funzione di inquadramenti sintetici per principianti.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

“Maria traduce il testo dall’italiano all’inglese”. Che complementi sono dall’italiano e all’inglese?

 

RISPOSTA:

Sono, rispettivamente, complemento di origine o provenienza e complemento di moto a luogo figurato. Quest’ultimo può anche essere definito in questo caso complemento di destinazione, ma questa etichetta non rientra tra quelle più comunemente usate nei manuali di grammatica italiana (è usata, invece, per descrivere la funzione del caso dativo delle lingue antiche).
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Ho un dubbio sull’analisi grammaticale di un nome. Nella frase “I gatti si riunirono e decisero quale nome dare alla gabbianella”, il sostantivo nome è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e nomi astratti è quasi sempre problematica e discutibile. In questo caso, poi, il problema è particolarmente complicato, perché il nome nome non solo è una parola, ma identifica metalinguisticamente una parola. Come ogni parola, quindi, ha una forma concreta, che viene pronunciata e sentita con l’udito, oltre che scritta e letta. D’altra parte, ha un significato, ovvero rimanda a un’idea mentale, a sua volta corrispondente alla persona nominata. Si può, quindi, concludere che il nome nome è insieme concreto e astratto. Soprattutto, però, si può concludere che la distinzione stessa tra nomi concreti e astratti è un esercizio logico un po’ ozioso, quando non arzigogolato, e di scarso effetto.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?

 

RISPOSTA:

La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Nella frase “È stato il sindaco a raccontare la storia più divertente della serata”, il nome storia è concreto o astratto?

 

RISPOSTA:

La distinzione tra nomi concreti e astratti è una ossessione della grammatica italiana non pienamente giustificata. I concetti di concreto e astratto, infatti, sono di per sé sfuggenti, ma soprattutto non riguardano la lingua, bensì la realtà; in altre parole, a essere concreto o astratto non è il nome storia (o qualsiasi altro nome), bensì il referente del nome stesso, la “cosa” che viene designata con il nome storia (o qualsiasi altra “cosa” designata da altro nome). Fatta questa premessa, comunque, nell’ottica usata dalle grammatiche scolastiche, storia è in questo caso un nome concreto, perché designa un racconto specifico che è stato pronunciato da un parlante e udito da un pubblico.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

Quale complemento rappresenta il sintagma introdotto da in base a nella seguente frase?
“È necessario agire in base alle esigenze del volgo”.

L’analisi logica non permette di classificare con la stessa precisione tutti i sintagmi possibili, nonostante la tipologia sia ricca (secondo alcuni persino troppo ricca). Nel caso in questione, il complemento più vicino alla funzione sintattico-semantica svolta dal sintagma in base alle esigenze è quello di causa, visto che si può parafrasare il sintagma con ‘in modo che il nostro agire sia l’effetto di’.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Su varie grammatiche, incluso Treccani, si legge che tra avverbi interrogativi (interrogativa diretta) e verbo è impossibile frapporre un elemento, che sia soggetto o qualsiasi altro elemento:

1)Quando marco arriverà a destinazione?*

2)Dove oggi andrai?*

Se si parla di congiunzione interrogativa, e di conseguenza di interrogative indirette

è possibile la frapposizione solo del soggetto:

3)Non so quando Marco arriverà.

4)Non so dove oggi andrà a fare shopping.*

Tutte queste regole e regolette, però, non valgono con “Perché”, usato sia come avverbio interrogativo che come congiunzione interrogativa; infatti con “perché” è possibile sia frapporre complementi (“Qui”, “con me” ecc…) sia soggetti (“Lui”, “Marco”), anche insieme, volendo, come nelle frasi 5 e 6.

Tutto questo sia nelle interrogative dirette o indirette che siano, per esempio:

5)Perché Marco all’estero si trova male?

6)Non so Marco all’estero si trovi così male.

Credo e spero che da 1 a 6 lei possa concordare con me.

Ci sono però dei casi, che non so per idiomaticità o meno, ma contravvengono a ciò che ho detto da 1 a 6, cioè:

a)Ricordo quando da bambino giocavo al parco con gli amichetti.

b)Non ho mai saputo quando da bambino hai avuto la prima fidanzatina.

c)Quanto la fortuna potrà incidere sul risultato?

Le frasi “a” e “b” sono dello stesso tipo della frase 4, mentre la frase “c” mi sembra dello stesso tipo della frase “1”.

Seguendo la (mia) logica, a meno che non abbia fatto un discorso errato dall’inizio alla fine, le tre frasi in questione sono scorrette, eppure le ho sentite spesso, anche con una certa frequenza; infatti anche a me è capitato di dirle in svariate occasioni, poiché al mio orecchio suonano particolarmente idiomatiche e non vi ravviso nessuna stonatura.

Qual è quindi la verità?

 

RISPOSTA:

Da assiduo navigatore di DICO, sa bene che la grammatica e la linguistica non si valutano in base alla verità (ammesso che si sappia cosa sia, la verità…), bensì ad altre categorie, quali la frequenza, l’accettabilità, la variabilità ecc. Ciò premesso, non è affatto vero che gli interrogativi non ammettano elementi tra sé e il verbo, e, tra i miliardi di frasi possibili, basterebbe questa: «Perché Marco non arriva?». Quindi, non soltanto concordo con lei, ma le confermo che nessuna delle frasi da lei citate (a, b, c) è sbagliata, e non perché siano idiomatiche (e infatti non lo sono), ma perché la mobilità dei costituenti consente queste e altre modificazioni dell’ordine cosiddetto diretto. Neppure le altre frasi da lei citate sono scorrette né agrammaticali, tranne la 2: «*Dove oggi andrai?», che però diventa quasi accettabile se al verbo si aggiunge un altro elemento: «Dove, oggi, andrai a fare la spesa?» (non naturalissima, ma possibile).

Fabio Rossi

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Nella frase «Luca faceva finta di niente», che complemento è «di niente»? Mi è venuto in mente argomento ma non credo sia corretto.

 

RISPOSTA:

È complemento di specificazione, secondo la nomenclatura tradizionale dell’analisi logica. Tuttavia, come abbiamo detto più volte nelle nostre risposte di DICO (cfr. per es. le risposte Analisi logica “per intenditori”; L’inutilità, e l’impossibilità d’analisi, di alcuni complementi; Il complemento di quantità e il complemento di specificazione: l’inutilità dell’analisi logica tradizionale), la tassonomia dei complementi non serve a molto, nella comprensione delle strutture sintattiche e lessicali di una lingua. Infatti, «fare finta di niente» è un’espressione cristallizzata, idiomatica, che va analizzata nel suo complesso, soprattutto nella sua seconda parte, che dunque andrebbe analizzata come segue: Luca = soggetto; faceva = predicato verbale; finta di niente = complemento oggetto. Oppure, ancora meglio secondo le tendenze più aggiornate della sintassi: faceva finta di niente = predicato verbale formato da verbo + argomento.

Fabio Rossi

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QUESITO:

All’epoca, dopo che era avvenuta quella disgrazia, eravamo come foglie che il vento…

  1. a) portasse via
  2. b) portava via.

Suppongo che entrambe le soluzioni siano valide.

Mi chiedo però se la differenza tra l’una e l’altra sia di tipo (come insegnate voi) diafasico, oppure se essa sia di tipo semantico.

 

RISPOSTA:

Come al solito, la differenza è essenzialmente di tipo diafasico (più formale il congiuntivo, meno formale l’indicativo), ma, come spesso avviene, le ragioni diafasiche non escludono quelle sintattiche e/o semantiche. In questo caso, in virtù della frequente associazione del congiuntivo (soprattutto imperfetto) a contesti ipotetici quali la protasi del periodo ipotetico, la versione al congiuntivo conferisce al periodo da lei segnalato una sfumatura epistemica (cioè di probabilità o possibilità), quasi a sottolineare che il vento può portare via (o anche non portarle) quelle foglie. Ricordo che le relative al congiuntivo possono assumere sfumature varie (finali, consecutive, epistemiche ecc.). Nel caso specifico, però, c’è davvero bisogno di indicare che il vento può portare o non portare via le voglie? Non è in certo qual modo ovvio dal contesto semantico complessivo? Occorre sempre chiedersi se il congiuntivo sia necessario o no, magari se sia un mero sfoggio di “bello stile” (in realtà retaggio di certe malintese pseudonorme scolastiche). Inoltre, sempre a proposito di stile, non sarebbe molto meno faticoso il periodo senza proposizione relativa? Cioè così: «…eravamo come foglie al vento».

Fabio Rossi

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Categorie: Morfologia

QUESITO:

Nell’analisi grammaticale dei nomi collettivi trovo difficile indicare se si tratti di nomi di persona, animale o cosa. In un esercizio scolastico, sarebbe opportuno tralasciare tale dicitura oppure è possibile far rientrare questi nomi in una categoria? Ed eventualmente quale? Ad esempio, gregge può essere definito un nome comune di animale? O un nome comune di cosa? Oppure semplicemente un nome comune, collettivo?

 

RISPOSTA:

Semplicemente nome comune, collettivo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem.

Fabio Rossi

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Categorie: Punteggiatura, Semantica

QUESITO:

Quando scrivo utilizzo molto spesso la virgola insieme alla congiunzione, sempre con una specifica motivazione determinata dal senso che desidero attribuire alla frase. Talvolta, nemmeno così raramente, mi capita di usare la virgola anche negli elenchi in cui è presente una “e”.

Mi sento spesso dire che non so scrivere, che non conosco l’uso della punteggiatura. Solitamente sorrido, ascolto, mi stanco. Mi piacerebbe capire se ho torto, ed ammettere i miei limiti.

Faccio degli esempi: “pane, pasta, e pomodoro” ha un significato diverso da “pane, pasta e pomodoro”. Lo stesso vale anche per “l’amava, e l’odiava”. Anche questa espressione è diversa e differente da “l’amava e l’odiava”. Così “Dio, patria e famiglia” non è esattamente lo stesso di “Dio, patria, e famiglia”. Giusto?

 

RISPOSTA:

Ha ragione lei su tutta la linea: questa del divieto della virgola prima della congiunzione è una delle tante regole di fantagrammatica (come la chiama Sgroi, o, per essere più generosi, di norma sommersa, come la chiama Serianni) inventate senza alcuna ragione dai maestri di scuola. A volte l’errore, come in molti dei suoi begli esempi, è proprio nel non metterla, la virgola prima della e.

Fabio Rossi

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QUESITO:

n

RISPOSTA:

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Categorie: Morfologia, Sintassi

QUESITO:

Ho ricevuto un messaggio che continua a non convincermi:
“Mi sono messo a farmi la barba”. Io credo che sia errato, in quanto c’è un doppio pronome (mi e farMi).
Pensando alla stessa frase con un diverso complemento però la frase tornerebbe:
“mi sono messo a fargli la barba”.
Quindi nel primo caso cosa potrebbe essere a non convincermi?? Oltre che suonare male sono convinta che ci sia qualcosa che non torni grammaticalmente.
 

 

RISPOSTA:

Si è già data da sé la risposta giusta: visto che non altro pronome l’espressione funzionerebbe perfettamente, vuol dire che non c’è nulla di sbagliato. Il fatto che vi siano due pronomi personali (e tutti e due di prima persona) deriva dal fatto che si stanno usando due verbi pronominali, entrambi alla prima persona: il primo è il verbo aspettuale mettersi, il secondo il verbo riflessivo apparente (o meglio transitivo pronominale) farsi la barba. Nulla di strano, dunque. Non si lasci trasportare dall’idiosincrasia dell’orecchio che rifiuta la ripetizione del mi: le lingue non funzionano a orecchio e l’insofferenza per la ripetizione è un insano portato di una didattica distorta.
Del resto, per avere prove ulteriori, che cosa ci sarebbe di strano nella frase “mi è capitato di perdermi”?

Fabio Rossi
 

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Su alcune schede allestiste per l’apprendimento dell’italiano come L2 tra i verbi fraseologici figura anche
decidere seguito dalla preposizione di. Nutro non poche riserve sulla correttezza di questa informazione, che peraltro non trova riscontro su altri testi di grammatica consultati.  Inoltre, considerando, a titolo di esempio, il seguente periodo: “Decise di comprare un libro”, Decise è la proposizione principale di comprare un libro è la proposizione subordinata oggettiva implicita.
Si dovrebbero dunque individuare due predicati distinti e altrettante proposizioni.

 

RISPOSTA:

Il verbo decidere non è un verbo fraseologico: funziona sintatticamente in modo autonomo, e anche dal punto di vista semantico non aggiunge una sfumatura aspettuale ma esprime un significato ben distinto da quello del verbo della subordinata che regge.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Sui testi di grammatica italiana rivolti a studenti sia del primo sia del secondo ciclo spesso si legge che la coordinazione è possibile tra due o più proposizioni principali (“Io piango e tu ridi”) oppure tra proposizioni subordinate dello stesso grado e dello stesso tipo (“Andò da Marco per restituirgli il libro e ringraziarlo”).
Non è dunque mai ammessa una proposizione coordinata a un’altra coordinata?
A titolo di esempio, nel periodo: “Si avviò verso casa, ma fu bloccato in ufficio e fece tardi”, la proposizione e fece tardi non potrebbe essere una coordinata copulativa alla precedente coordinata avversativa ma fu bloccato in ufficio?

 

RISPOSTA:

La sua osservazione è corretta: una proposizione può essere coordinata a un’altra coordinata. I manuali che non riportano questo dettaglio probabilmente lo fanno perché ritengono implicito che se una proposizione può essere coordinata a una principale o un’altra dello stesso grado di subordinazione, può esserlo anche a un’altra coordinata che si trova sullo stesso piano.
Aggiungo che la coordinazione tra subordinate è possibile anche se le proposizioni sono di tipo diverso:  (avversativa) “Andò da Luca per restituirgli il libro ma senza averlo avvertito”;
(copulativa) “Andò da Luca perché Luca lo aveva chiamato e nonostante Luca non gli stesse simpatico”;
(disgiuntiva) “Vado al bar per fare due chiacchiere o se non ho altro da fare”.
Fabio Ruggiano

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QUESITO:

Quanto è difficile per uno che non è un grammatico non fare errori grammaticali? O per uno che ha “solo” delle buone conoscenze di grammatica? Succede che degli scrittori, anche affermati, facciano degli errori?

 

RISPOSTA:

La risposta a questa domanda, solo apparentemente banale, richiede una precisazione preliminare sui concetti di grammatica e di errore. Va distinta la Grammatica (che per convenzione scrivo con l’iniziale maiuscola) dalla grammatica (minuscola). La Grammatica è l’insieme delle regole di funzionamento di una lingua che ogni parlante ha ormai introiettato più o meno pienamente all’età delle scuole elementari. Dopo si arricchiscono il lessico e la sintassi, e magari si evita la maggior parte degli errori di ortografia, ma il grosso della lingua a 10 anni è bell’e imparato. Esistono poi i libri di grammatica, tutti più o meno puristici, che prescrivono cioè una serie di regole. Non tutte queste regole sono sullo stesso piano e non tutti gli errori descritti come tali dalle grammatiche sono veri e propri errori di Grammatica, ma semplicemente opzioni meno formali della lingua, perfettamente corrette nello stile informale ma meno adatte in quello formale. Un tipico esempio è il congiuntivo nelle completive come “penso che è tardi”, forma del tutto corretta secondo la Grammatica ma tacciata d’errore dalle grammatiche solo perché meno formale di “penso che sia tardi”. Di errori veri e propri i parlanti e scriventi adulti ne commettono pochissimi. Per la maggior parte dei casi si tratta di forme meno formali e inadatte alla scrittura ufficiale e colta. Sicuramente, però, oggi sono in pochissimi gli scriventi che riescono a dominare perfettamente tutti i livelli della lingua, e specialmente quelli più formali. Neppure alcuni scrittori odierni, anche affermati, riescono a usare la lingua con consapevolezza in tutte le sue varietà. In questo senso, dunque, se vuole dare a “errore” il significato di “improprietà stilistica” o “povertà lessicale” o “scarsa coesione sintattica e testuale”, allora taluni scrittori commettono errori. Io però non li chiamerei errori ma improprietà. Non bisogna essere grammatici per usare la lingua in tutta la sua ricchezza. Direi che è utile essere lettori umili e curiosi. Essere bacchettoni non aiuta mai, in questi casi, perché ci si arrocca su posizioni indifendibili, sotto il profilo scientifico, come quella di tacciare d’errore l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo. Raramente una forma attestata in migliaia di scriventi può essere considerata errata. Anche molti errori, oltretutto, hanno una loro ragion d’essere, cioè una loro motivazione, sebbene non ritenuta valida dalla maggior parte degli scriventi colti. Ovvero quasi nessun errore è casuale o immotivato. Qual è la motivazione della forma “qual’è” con l’apostrofo, per fare un esempio? Il fatto che nell’italiano d’oggi qual non è quasi mai seguito da consonante (tranne che nell’espressione cristallizzata “qual buon vento ti porta?”). Nel momento in cui le grammatiche, i giornali cartacei e la gran parte degli scrittori colti considereranno normale “qual’è”, essa (che già oggi è maggioritaria online rispetto a “qual è” senza apostrofo) diventerà in tutto e per tutto una forma corretta dell’italiano standard. Morale della favola: gli errori non  sono ontologici e una volta per tutte ma storici e legati alle dinamiche sociali (come tutto nelle lingue, fenomeni storico-sociali per antonomasia). Molte delle forme un tempo normali in italiano oggi sarebbero scorrette, come “opra” per opera o “canoscere” per conoscere.
Per concludere, oggi più che errori veri e propri (cioè forme non previste dalla Grammatica, ovvero dal sistema di una lingua, come gli errori di ortografia o di desinenza: “la sedia si è rotto”) la gran parte degli scriventi mostra un notevole e pericoloso analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di capire e usare la lingua in tutto l’ampio spettro delle sue varietà. E dunque c’è chi non comprende, e quindi non è in grado di usare, parole dal significato anche molto comune come tuttaviabenché,  acconsentiretollerare ecc. Sembra molto più grave questo fenomeno che non il singolo erroretto d’ortografia, che può sfuggire a chiunque, o lo strafalcione di una parola usata al posto di un’altra, o una caduta nell’uso della consecutio temporum. Mediamente, dunque, una discreta conoscenza della grammatica italiana ci mette sicuramente al riparo da troppi errori di Grammatica, anche se soltanto una regolare esposizione alla lingua formale letta e scritta ci allontana dal rischio di diventare analfabeti funzionali.

Fabio Rossi

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QUESITO:

Nella correzione di un testo scritto va bene quanto segue?
– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo/abbastanza completo/essenziale, ecc.
– INDICATORE: Organizzazione nella successione logica e nell’ordine crono-spaziale.
L’esposizione risulta articolata/ lineare/frammentaria, ecc.
– INDICATORE: Correttezza ortografica, morfo-sintattica, punteggiatura, coesione.
La forma presenta lievi errori/pochi errori/ gravi errori.
– INDICATORE: Uso del lessico
Il lessico utilizzato è appropriato/ adeguato/semplice, ecc.

 

RISPOSTA:

La domanda esula dal nostro campo specifico, ma proverò comunque a fare qualche osservazione. Il primo indicatore è ben costruito, sia nella descrizione, sia nei livelli, tranne che per ecc., che in generale va evitato, proprio perché gli indicatori servono a dare chiarezza. Si può, semmai, aggiungere un quarto livello:

– INDICATORE: Completezza delle informazioni.
Il contenuto è completo / quasi completo / essenziale / quasi assente

Nel secondo indicatore non si capisce come si possano associare successione logica e ordine crono-spaziale. Ma soprattutto, non è chiaro che cosa si intenda con ordine crono-spaziale (o meglio spaziotemporale). Forse intendeva riferirsi alla successione degli eventi di una storia? In questo caso, si consideri che se per la successione logica si può individuare un modello migliore di un altro, per la successione degli eventi in una storia esistono tante possibilità (quelle che in narratologia sono definite intreccio) tra le quali è difficile stabilire la migliore.
I livelli, inoltre, non sembrano adatti a definire una gradualità di valore: perché, infatti, una organizzazione articolata sarebbe migliore di una lineare?
Ammesso che ordine crono-spaziale abbia il significato che io ho inteso, le propongo, per questo indicatore, questa scala di valore: articolata e lineare / lineare / a tratti imprecisa / fortemente imprecisa.
Il terzo indicatore raccoglie troppi aspetti. Si potrebbe dividere in almeno due indicatori, uno per l’ortografia e uno per la coesione (nel quale si può far rientrare anche la punteggiatura e la morfosintassi). Volendo, però, coesione e punteggiatura potrebbero essere separati da morfosintassi.
I livelli non vanno bene neanche in questo indicatore: lievi e gravi sono indicazioni di qualità, peraltro piuttosto arbitarie (quale errore ortografico è più grave o lieve di altri?), mentre pochi indica una quantità ed è, quindi, incongruente con gli altri. Ritengo che la strada migliore nel caso dell’ortografia sia proprio quella della quantità, quindi una scala come molti errori / pochi errori / quasi nessun errore / nessun errore.
Per quanto riguarda la coesione, invece, si può propendere per la qualità, quindi per una scala come pienamente adeguata (allo scopo) / parzialmente adeguata (allo scopo) / appena adeguata (allo scopo) / del tutto inadeguata (allo scopo).
Anche per l’uso del lessico i livelli sono incongruenti: intanto appropriato e adeguato sono quasi sinonimi, quindi non rappresentano una distinzione chiara. Semplice, inoltre, non individua per forza un difetto, quindi non è adatto a rappresentare il grado più basso del giudizio. Potrebbe usare per questo indicatore la stessa scala che ho proposto per la coesione.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Mi sono imbattuta nell’analisi dei complementi predicativi. Tra questi sono compresi oltre ai verbi sembrarediventare ecc., anche gli appellativi, estimativi, elettivi e effettivi, dunque:

Rossi: soggetto
è stato eletto: predicato con verbo copulativo (non predicato verbale)
preside: complemento predicativo del soggetto.

Vi chiedo, invece, perché nell’analisi di frase con il predicativo dell’oggetto il verbo viene analizzato in molte grammatiche come predicato verbale e non come verbo copulativo?

Gli alunni: soggetto
hanno giudicato: predicato verbale
difficile: complemento predicativo
il compito: complemento oggetto

 

RISPOSTA:

​La differenza potrebbe stare nello scarto tra i verbi che possono avere il complemento oggetto (gli appellativi, gli elettivi, gli estimativi) e quelli che non possono averlo (gli effettivi). Il verbo, cioè, viene interpretato come predicativo (quindi come predicato verbale) quando ha un complemento oggetto, come  in “Gli alunni hanno giudicato difficile il compito”.
In realtà, questa distinzione è ingiustificata: in presenza di un complemento predicativo, tutti i verbi copulativi vanno considerati alla stessa stregua. L’unico caso in cui questi verbi possono essere considerati predicati verbali è quello in cui non hanno bisogno del complemento predicativo, in frasi come “Luca è stato eletto alla fine”, oppure “L’ho già chiamato, ma ancora non si vede”, o ancora “Luca sostiene di aver visto un UFO”. Questa possibilità è esclusa per molti verbi effettivi: *”Luca sembra”, *”Maria è diventata” *”La verità rende” (ma non per “È nato Luca”, “Dopo la curva apparirà un cartello” e simili).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

Spesso i libri scolastici propongono esempi molto banali di analisi del periodo, senza presentare quelli più complessi. Esistono testi ben fatti, con esempi articolati di analisi del periodo?
Quale potrebbe essere, ad esempio, l’analisi del seguente periodo?
“Dice che bisognerebbe fare in modo che ci sia spazio da poter adibire per mangiare senza che gli altri ambienti vengano utilizzati”.
Quando ci si riferisce  a un periodo si può parlare di analisi logica oppure questa è una espressione da riferire solamente all’analisi delle proposizioni?

 

 

RISPOSTA:

​l’analisi del periodo proposta a scuola deve tenere conto della preparazione parziale degli studenti; gli autori di grammatiche scolastiche, pertanto, evitano di presentare i casi più controversi. Il problema è, però, che i casi controversi siano molto comuni; gli enunciati che i parlanti e gli scriventi producono per comunicare tra loro spesso non si lasciano incasellare nelle rigide categorie di questa forma di analisi. Le frasi semplificate proposte nelle grammatiche, quindi, finiscono per risultare un po’ innaturali, come esperimenti condotti in laboratorio. 
Un libro agile e serio, scritto da un linguista navigato, dedicato a questo argomento, è L’analisi del periodo, di Michele Prandi, Roma, Carocci, 2013.

La stessa frase da lei proposta, per la verità, risulta innaturale; sembrerebbe rappresentare un discorso parlato (dice che…), ma si fatica a immaginare una persona che possa effettivamente parlare così. Nel parlato, infatti, si cerca la semplicità, per aggirare gli ostacoli della memoria limitata, del rumore, della distrazione ecc. Nello scritto, al contrario, possiamo concedere maggiore spazio alla complessità, perché il mezzo che usiamo è stabile e duraturo.
In ogni caso, volendo analizzare la sua frase otteniamo questo schema:
dice: proposizione principale;
che bisognerebbe: proposizione subordinata di primo grado oggettiva;
fare in modo: proposizione subordinata di secondo grado soggettiva;
che ci sia spazio: proposizione subordinata di terzo grado oggettiva;
da poter adibire: proposizione subordinata di quarto grado relativa implicita (equivalente a che deve poter essere adibito);
per mangiare: proposizione subordinata di quinto grado finale implicita;
senza…: proposizione subordinata di sesto grado eccettuativa.
Si noti che l’eccessiva, chiaramente non necessaria, complessità della frase produce una sbavatura sintattica: il verbo adibire difficilmente regge una proposizione; richiede, invece, tipicamente un complemento introdotto dalla preposizione a. Normalmente si direbbe, quindi, “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area per la mensa”, o anche “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area nel quale si possa mangiare”.

Il termine analisi logica si riferisce solamente all’analisi delle funzioni sintattiche, anche dette complementi.
Fabio Ruggiano

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Categorie: Semantica, Sintassi

QUESITO:

Stavo consultando un vecchio libro di analisi logica del Tantucci.
Riguarda il complemento di quantità.
Scrive che è una forma particolare del complemento di specificazione.
Retto da sostantivi o da aggettivi e avverbi sostantivati o da pronomi di cosa, preceduti dalla preposizione “di”.
Si ha in dipendenza di sostantivi come turba, dove ad esempio nella frase:” turba di scalmanati”, il complemento di quantità è “di scalmanati”;
oppure nella frase: “fatti un pò di coraggio”, il complemento di quantità è “di coraggio”.
Quindi secondo il Tantucci, è un complemento di specificazione?
Vi sembra una interpretazione valida?

 

RISPOSTA:

La Sua domanda conferma in pieno la nostra piena convinzione della radicale inutilità dell’analisi logica tradizionale, se interpretata come sterile tassonomia dei complementi. Infatti, l’attuale, scolastica, tipologia dei complementi combina arbitrariamente elementi semantici e funzionalistici (a che serve e che cosa significa quel determinato costrutto?) con elementi sintattici (come si combinano insieme sostantivi e preposizioni e come dipendono dal verbo). Se tutto questo ha un senso in latino, laddove è necessario conoscere in quale caso vanno espressi determinati costrutti a seconda del loro valore, in italiano certe distinzioni appaiono del tutto inutili, se non dannose.
Pertanto, ha perfettamente ragione il Tantucci nell’osservare che, in latino, la reggenza al genitivo vale tanto per la nozione logico-semantica di specificazione quanto per quella di quantità, che è tutto sommato un sottotipo della prima; mentre in italiano la distinzione tra un complemento di specificazione e uno di quantità è del tutto inutile, inventata a tavolino, senza alcuna utilità pratica né teorica. E, ancora una volta, d’accordo con Luca Serianni, Francesco Sabatini e numerosi altri lingiuisti, viene da dar ragione a quel bambino che, di fronte alla domanda della maestra: “che complemento è a pallone nella frase io gioco a pallone? Rispose: “complemento di calcio”! Bambino geniale e linguista in pectore, che comprende, malgré lui, come attribuire valore sintattico a mere relazioni semantiche sia privo di fondamento. Molto meglio concentrarsi sulle relazioni di reggenza tra verbo e sostantivi, secondo quanto predicato dalla grammatica delle valenze, su cui Francesco Sabatini e Cristiana De Santis hanno scritto pagine interessantissime. Ma questa è un’altra storia.
 
Fabio Rossi

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QUESITO:

Mi piacerebbe sapere se, in un testo scolastico (es. la simulazione di una lettera o di un diario), si può accettare l’espressione “Siamo migliori amiche”.

 

RISPOSTA:

La lettera a un amico o a un’amica e il diario sono generi caratterizzati da un registro informale, nel quale figurano a loro agio, e sono pienamente giustificate, espressioni “brillanti”, non canoniche, vicine al parlato.
Ma vediamo perché migliore amico/a e migliori amici/amiche sono espressioni non canoniche. Molto diffuse oggi, presentano tre difficoltà se passate al vaglio della grammatica standard: non hanno l’articolo determinativo e non hanno il complemento partitivo, entrambi richiesti dal superlativo relativo migliore; mancano del complemento di specificazione (o dell’aggettivo possessivo), richiesto dal nome amico.
In una frase standard come “Il migliore amico dell’uomo è il cane” si nota che l’aggettivo al grado superlativo relativo sia preceduto dall’articolo determinativo; amico, inoltre, è correttamente specificato (molto strano sarebbe *”Il miglior amico è il cane”). Anche in questa frase, invece, manca il complemento partitivo, che, per la verità, può facilmente essere sottinteso nel caso in cui coincida con tra tutti gli altri o simili: “(Tra tutti gli altri amici,) il migliore amico dell’uomo è il cane”.
Delle tre difficoltà individuate nell’espressione qui analizzata, quindi, una è trascurabile: migliore amico presuppone tra tutti.
Più strana sembra la mancanza del complemento di specificazione per amico/a/i/e. A ben vedere, però, anche questa si spiega con il sottinteso: “Siamo migliori amiche” è implicitamente completata da l’una dell’altra. Come si vede, questo costrutto appesantisce l’espressione e la rende molto meno agevole e immediata: si capisce, quindi, perché i parlanti lo eludano. Rispetto allo standard, questa scelta rappresenta uno scarto, non grave ma sufficiente per abbassare di un gradino la formalità dell’espressione.
La terza mancanza, quella dell’articolo prima di migliore/i, è l’unica davvero grave, perché contrasta con una regola sintattica molto rigida (migliore è comparativo di maggioranza; il migliore è superlativo relativo), sebbene si giustifichi sul piano della convenienza. Se inseriamo l’articolo, infatti, otteniamo “Siamo le migliori amiche”, che renderebbe il sottintendimento del complemento di specificazione inaccettabile per la maggioranza dei parlanti.
Questa disamina dei “difetti” insiti nell’espressione ci consegna, per contrasto, la variante standard della stessa: “Siamo le migliori amiche l’una dell’altra”. Si noterà, nella formulazione, oltre alla minore efficacia espressiva, la “stranezza” del mancato accordo tra il nome del predicato le migliori amiche e il costrutto reciproco, che è grammaticalmente singolare. La variante “Siamo la migliore amica l’una dell’altra”, pure possibile, sana questa “stranezza”, ma provoca la sgrammaticatura (quindi è formalmente più trascurata) del mancato accordo tra la copula (a sua volta concordata con il soggetto), plurale, e il nome del predicato, singolare.
A margine rilevo che la lettera e la pagina di diario, generi testuali familiari ai ragazzi fino a qualche anno fa, oggi appaiono anacronistici e, per questo, poco motivanti. Si possono sostituire con l’articolo di un blog, l’e-mail, il post di un social network (purché siano rese chiare le finalità e le caratteristiche formali che questi prodotti devono avere).
Fabio Ruggiano

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Categorie: Sintassi

QUESITO:

La frase “Questo vino è per intenditori” origina un complemento di limitazione, oppure si tratta di un complemento di vantaggio? Forse le etichette dei complementi anche in questi casi non possono soddisfare del tutto.

 

RISPOSTA:

Più volte abbiamo lamentato l’inadeguatezza delle categorie dell’analisi logica per spiegare le relazioni sintagmatiche, e soprattutto per spiegare come usarle per comporre il testo in modo chiaro ed efficace. Detto questo, però, cerchiamo di usare al meglio questo quadro interpretativo, ancora dominante nella scuola.

Nessuno dei complementi da lei ipotizzati calza con questo caso. Se considerassimo per intenditori complemento di limitazione la frase significherebbe che il vino esiste solamente per quanto è a conoscenza degli intenditori, qualcosa come “Per gli intenditori, questo vino esiste” (e si noti che senza l’articolo gli davanti a intenditori non è proprio possibile formulare questa ipotesi. Se lo considerassimo complemento di vantaggio avremmo come conseguenza che il vino sarebbe a vantaggio degli intenditori; una bizzarria logica. L’assenza dell’articolo, inoltre, rende difficile anche questa interpretazione. Bisogna rilevare, invece, che per intenditori equivale a un aggettivo (raffinato, sofisticato, complesso o simili): il sintagma va, pertanto, equiparato a un nome del predicato, che, insieme al verbo essere in funzione di copula, forma un predicato nominale. L’assenza dell’articolo davanti a intenditori suggerisce proprio che l’espressione si sia cristallizzata, cioè sia diventata un tutt’uno, quasi una singola parola (i linguisti chiamano queste parole fatte di più parole unità polirematiche ).

Se invece di per intenditori avessimo per gli intenditori, il sintagma sarebbe meglio descritto come complemento di fine, come se la frase significasse ‘questo vino è fatto per essere apprezzato dagli intenditori (e probabilmente solo da loro)’.

Fabio Ruggiano

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