QUESITO:
La frase “Una scelta la cui logica gli sfuggiva” è equivalente alla costruzione “una scelta della quale gli sfuggiva la logica”? Inoltre, la frase “Nei suoi occhi vidi una certa paura: quella di cui non immaginavo che lui potesse essere preda” è ben costruita?
RISPOSTA:
Le due varianti della prima frase sono equivalenti, sebbene la prima, che contiene il relativo cui preceduto dall’articolo determinativo, sia più formale. La seconda frase presenta una relativa embricata o a incastro, in cui l’antecedente del pronome relativo (quella) è un argomento della proposizione completiva dipendente dalla proposizione relativa. Tale costruzione è ben attestata in italiano fin dall’antichità e non può dirsi scorretta; è, però, certamente intricata, per cui può essere utile evitarla in contesti che richiedono la massima chiarezza, sostituendola con soluzioni giustapposte, come “Nei suoi occhi vidi una certa paura: non immaginavo che lui potesse essere preda di una paura di quel tipo” (che, però, risulta meno efficace, per via della ripetizione).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase «Tuo padre mi ha chiesto notizie di Luca», «tuo padre» nella divisione in sintagmi sta tutto insieme?
RISPOSTA:
Sì, in qualità di sintagma nominale complesso con ruolo di soggetto. Tuttavia, i sintagmi si analizzano a scatole cinesi, cioè con i sintagmi complessi che contengono al loro interno sintagmi semplici. Pertanto il sintagma nominale complesso «tuo padre» è a sua volta costituito da due sintagmi semplici, cioè il sintagma aggettivale «tuo» e il sintagma nominale «padre», esattamente come se fosse «il padre di Marco» = sintagma nominale complesso costituito da un sintagma nominale («il padre») + un sintagma preposizionale «ti Marco».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vattene, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«La Consulta, infatti, ha reputato legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni», o «La Consulta, infatti, ha reputata legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni»?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette, sebbene la prima, con il participio invariabile al maschile («ha reputato legittima l’eccezione»), sia più comune, mentre la seconda («ha reputata legittima l’eccezione») sia più letteraria. La regola dell’accordo del participio passato con l’oggetto si può leggere diffusamente in altre risposte di DICO come questa o questa o altre ancora.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio relativo alla frase: «Scrivo più poesie DI / CHE di te?». Dato che si sta parlando di quantità («scrivo una quantità maggiore di poesie»), dovremmo dire «che»? Tuttavia, dato che dopo abbiamo un pronome, dovremmo dire «di»?
RISPOSTA:
La risposta corretta è di: «Scrivo più poesie di te», cioè di quante non ne scriva tu. Che si userebbe per contrapporre qualche altra cosa a poesie: «Scrivo più poesie che romanzi».
Fabio Rossi
QUESITO:
1) «È stata un’esperienza». È possibile che il soggetto non sia “un’esperienza”, che invece risulterebbe essere il nome del predicato, ma bensì un soggetto sottinteso e ricavabile dal contesto (come ad esempio “la relazione”, “la situazione”, eccetera)? D’altronde è come se ci domandassero “Com’è stata la relazione/situazione, etc.?”, e noi rispondessimo “È stata un’esperienza”, facendo quindi riferimento ad un soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, “la situazione”, ecc.). In aggiunta, da quello che ho capito, quando il verbo “essere” è usato in funzione di copula, come nell’esempio iniziale, è possibile sia l’accordo con il soggetto esplicito (e cioè qualora non fosse sottointeso):”La relazione è stata un’esperienza”, sia l’accordo con il nome del predicato: “Il viaggio è stata un’esperienza”. Tuttavia, in conclusione, il participio passato di “essere”, ma come anche di “andare”, “finire”, eccetera, in particolari costruzioni impersonali, quindi con un soggetto implicito, e cioè non esplicitato, prende la terminazione femminile in -a, qualora e in concordanza con il generico soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, per esempio): “Com’è stata (la relazione)?” – “È stata un’esperienza (“la relazione”)”. Al contrario, prende la terminazione in -o, qualora e in concordanza con il generico soggetto maschile e sottointeso (“il viaggio”, per esempio): “Com’è stato (il viaggio)?” – “È stato un’esperienza (“il viaggio”)”; e non *”È stata un’esperienza (“il viaggio”)?
RISPOSTA:
Sì, tutto corretto. Come già detto qui, a scuola si tende a semplificare molto, troppo, sull’analisi logica e sull’analisi del periodo, per cui un caso come quello da lei segnalato («È stata un’esperienza») verrebbe analizzato probabilmente come «un’esperienza» soggetto e «è stata» predicato verbale. Mentre invece, per tutti i motivi da lei indicati, l’analisi corretta è: SOGG sottinteso, è stata copula, un’esperienza predicato nominale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto, in una vostra risposta, che nella frase “Chi siete?” il verbo “essere” può essere interpretato o come predicato verbale o come predicato nominale. Come predicato nominale, l’analisi sarebbe la seguente: “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” è la copula, che s’accorda al plurale perché il soggetto sottinteso “voi” è plurale, e “chi” è il nome del predicato. Al contrario, come predicato verbale: “Chi”, soggetto; “siete”, predicato verbale. Ecco, qui ho un dubbio: e cioè se “essere”, a seconda dell’interpretazione datagli, fosse predicato verbale, e “chi” quindi soggetto (con il quale, anche qui, il verbo troverebbe l’accordo al plurale perché “chi”, invariabile, e rispetto al contesto, avrebbe valore plurale), il “voi” che ruolo rivestirebbe? È chiaro, di logica, che il “chi” non potrebbe essere considerato né complemento oggetto (perché “essere” è solo intransitivo), né, immagino io, complemento predicativo del soggetto (altrimenti ci avvicineremmo al predicato nominale). Conseguentemente, ma magari sbaglio, penso, in frasi di questo tipo, che il verbo “essere”, per così dire, spingerebbe maggiormente il lettore a considerarlo predicato nominale, in quanto l’attrazione del soggetto sottinteso “voi” sarebbe maggiore rispetto a quella del “chi” nel predicato verbale. In aggiunta, e in chiusura, se considerassimo la frase come predicato nominale relativamente al ragionamento sovrascritto, il “voi” rivestirebbe, trovandosi così a suo agio, il ruolo di soggetto, mentre quello di nome del predicato spetterebbe al “chi” che, diversamente e per mia ignoranza, non saprei dove collocare in un predicato verbale.
RISPOSTA:
Come già detto nella risposta cui la domanda fa riferimento, l’analisi come predicato nominale di casi quali «chi siete» è decisamente quella più elegante e, dal punto di vista della grammatica generativa e in genere di un’analisi sintattica approfondita, l’unica corretta, proprio per le ragioni che lei ben ricostruisce nella sua domanda. Di solito, l’analisi logica condotta a scuola recalcitra a spiegazioni troppo profonde, forse per non confondere le idee agli studenti e non invocare troppo i concetti di sottinteso, traccia, spostamento di sintagmi ecc. Tuttavia sarebbe bene spiegare casi simili esattamente come li spiega lei nella sua domanda: il soggetto di siete, ricavabile dalla persona verbale, è “voi”, mentre il pronome chi, che come tutti i pronomi interrogativi risale in prima posizione, svolge la funzione di nome del predicato: voi siete chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Dopo i quadri e le sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo”.
La proposizione è ben costruita, anche senza l’inserimento della preposizione da davanti a i quadri e le sculture?
Mi sono trovata a scriverla per ottimizzare le parti del discorso ed evitare costruzioni indubbiamente più prolisse ma più chiare, per esempio “L’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo, dopo che era stata attratta dai quadri e dalle sculture“.
RISPOSTA:
La riscrittura finale scambia di posizione le due informazioni contenute nella reggente e nella subordinata (corrispondente al complemento dopo i quadri e le sculture della prima versione). Questa inversione non è necessaria e, inoltre, potrebbe danneggiare la coesione del testo nel quale la frase è inserita, perché modifica il dinamismo informativo (la concatenazione di informazioni note e nuove). Se ripristiniamo l’ordine iniziale avremo “Dopo che era stata attratta dai quadri e dalle sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo“, o meglio ancora “Dopo essere stata attratta dai quadri e dalle sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo“. Questa costruzione è possibile e corretta, ma un po’ ridondante, per via della ripetizione del verbo attrarre a breve distanza. Impossibile sarebbe *dopo dai quadri e dalle sculture, come anche *dopo che dai quadri e dalle sculture: non rimane che la sua proposta iniziale, che, per quanto sintetica, non lascia spazio ad ambiguità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
- È stato Carlo a colpirlo / Carlo è stato a colpirlo
…In questo genere di frasi il soggetto va prima o dopo il verbo? Di base andrebbe prima (come la seconda opzione); però ho letto che spesso viene posposto al verbo per dare più rilevanza al soggetto e per una maggiore espressività? Insomma, in questi casi, entrambe le soluzioni sono accettabili?
RISPOSTA:
Il caso da lei indicato è una frase scissa, che serve a focalizzare (cioè mettere in rilievo come informazione nuova o contrastata rispetto a un’altra) una parte dell’enunciato rispetto a un’altra. Come tale, l’ordine normale è «È stato Carlo a colpirlo»; sarebbe talmente innaturale da risultare al limite dell’inaccettabile «Carlo è stato a colpirlo», ancorché astrattamente possibile.
L’ordine dei sintagmi negli enunciati risponde a esigenze pragmatiche, cioè relative alla struttura delle informazioni (date e nuove). In alcuni casi, tuttavia (cioè con i verbi inaccusativi, vale a dire tutti quelli che hanno come ausiliare essere anziché avere), la posizione normale, non marcata, non focalizzata, del soggetto è quasi sempre postverbale, cioè rematica, mentre quella preverbale (tematica) è quasi sempre avvertita come marcata. Abbiamo già risposto su un quesito analogo a questo e dunque, per ulteriori dettagli sull’argomento, la invitiamo a leggere la nostra risposta di allora.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sai domani chi esce/escono?
2) Fatevi riconoscere, chi siete?
È esatto dire che in frasi interrogative, dirette o indirette, “chi”, come pronome, significa «quale persona, quali persone»; e per quanto riguarda l’accordo del verbo, come si legge sulla Treccani, anche quando ha valore di plurale, l’accordo del verbo si fa ugualmente al singolare: “Sai domani chi esce? (e non *”…chi escono”)”; infatti in questo esempio, rispetto a ciò che vogliamo riferire, “chi” può esprimere un’idea di collettività, di pluralità. In pratica è come se dicessimo “Sai domani quali persone (e cioè “chi”) escono?” Per converso, come si legge sempre sulla Treccani, va però al plurale il verbo, e qui il “chi” è da intendere come “nome del predicato”, in alcuni casi, e “soggetto”, in altri, quando il pronome “chi” è predicato (nominale) di un soggetto plurale: “Fatevi riconoscere, chi siete?, frase in cui “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” (quindi verbo al plurale) è la copula e “chi”, con il significato di “quali persone”, è il nome del predicato: e cioè “…Voi siete quali persone? (chi?)” = predicato nominale?
RISPOSTA:
Chi come pronome interrogativo ammette l’accordo del verbo per numero e persona soltanto quando ha valore identificativo specifico e non quando ha il valore generico di ‘quale persona’: «Chi è entrato?» / «Mi chiedo chi sia entrato» (sarebbe agrammaticale *«chi sono entrati»); «chi sei/siete/sono?» / «Mi chiedo chi sia/siate/siano».
Possibile ed elegante, ma non necessaria, l’analisi di chi come nome del predicato in frasi come «chi siete?». Più semplicemente e banalmente, è possibile analizzare la frase come «chi» soggetto e «siete» predicato verbale.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».
«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?
Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?
RISPOSTA:
Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».
Fabio Rossi
QUESITO:
È meglio dire «nel mese di Giugno partiremo per le vacanze» o «il mese di Giugno partiremo per le vacanze»?
Secondo me non c’è nessuna differenza, inoltre sia il complemento di tempo determinato (in questo caso questo degli esempi riportati) che in quello continuato (per esempio “ho dormito 7 ore/ per 7 ore) è possibile anche omettere la preposizione.
Usando la preposizione si va sul sicuro, ma credo non sia sbagliato omettere.
RISPOSTA:
Ha ragione, la preposizione si può omettere. Un’altra alternativa è con la preposizione a (ma senza mese): «a giugno partiremo per le vacanze». L’unico errore, nelle sue frasi, è l’iniziale maiuscola del mese. I mesi, come i giorni della settimana, si scrivono sempre e soltanto con l’iniziale minuscola.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sara, tu sei vicina allo stadio
2) Sara, tu stai vicino allo stadio
3) Noi siamo lontani da te
4) Noi stiamo lontano da te
5) Ti sono vicina, credimi!
6) Ti sto vicino in teatro
…Pensate siano corrette le frasi? d’altronde “vicino”, come “lontano”, può essere sia aggettivo, e accordarsi in genere e numero al nome cui si riferisce, sia avverbio e rimanere, quindi, invariato in -o. In particolare nelle frasi con il verbo “essere”, e cioè la copula, ha, per così dire, più forza semantica, selezionando quindi preferibilmente l’aggettivo…
RISPOSTA:
Certamente tutte le frasi indicate sono corrette. Quasi nulla da aggiungere rispetto alla recente risposta https://dico.unime.it/ufaq/dritto-lontano-ecc-aggettivi-e-avverbi/. Quanto alla copula, il verbo essere e i verbi copulativi consentono (non saprei dire se incoraggino, ma è un’ipotesi interessante e degna d’essere approfondita e verificata sui testi) l’uso aggettivale. Sia stare sia essere, negli esempi indicati e in altri simili, ammettono sia la funzione aggettivale sia quella avverbiale (nel caso di stare + compl. predicativo). Tendenzialmente, gli usi avverbiali vengono avvertiti come più bassi sulla scala diafasica (cioè come più informali e adatti al parlato): «Mi è stata lontana per timore del contagio» è più formale rispetto «mi è stata lontano per timore del contagio».
Fabio Rossi
QUESITO:
Pensate che tutte le soluzioni siano corrette?
1) Voi potete andare dritto (avverbio)
2) Voi potete andare dritti/e (aggettivo)
3) Andiamo dritto, senza svoltare a destra (avverbio)
4) Andiamo dritti/e, senza svoltare a destra (aggettivo)
5) Mi stavano lontano (avverbio)
6) Loro mi stavano lontani/e (aggettivo)
7) La ragazza mi stava lontano (avverbio)
8) La ragazza mi stava lontana (aggettivo).
D’altra parte “dritto”, come “lontano”, può essere o avverbio, e rimanere invariato in -o, oppure aggettivo, e quindi accordarsi in genere e numero al nome, o pronome, cui si riferisce. Ovviamente, immagino, questi discorsi valgono anche qualora usassimo altri verbi, e non soltanto per i verbi “stare” o “andare”?
RISPOSTA:
Certamente, tutte le frasi sono corrette e aggettivi come lontano, vicino, dritto (o diritto) ecc. possono avere sia funzione avverbiale (invariabili), sia aggettivale (variabili). La possibilità di scegliere tra le due funzioni si ha anche con altri verbi: «correre diritto/diritti alla meta»; «sono vicino/vicina a te»; «la meta risultò più lontano/lontana del previsto» ecc. I verbi che non ammettono (o ammettono raramente) costruzioni copulative e con complementi predicativi inibiscono l’uso aggettivale: «abbiamo parcheggiato vicino», ma non *«abbiamo parcheggiato vicini», che, semmai (e con difficoltà), significherebbe altro (cioè non ‘in un luogo vicino’ ma ‘vicini io e te’).
Fabio Rossi
QUESITO:
1) «Tu sei un problema»
2) «La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi»
3) «I figli sono una grande preoccupazione»
4) «I miei amici sono la mia famiglia»
5) «La mia famiglia sono i miei amici»
6) «La famiglia sono i suoi membri»
7) «La vita non sei tu»
Sono corretti gli accordi nelle frasi? D’altro canto con un soggetto al singolare (“La villeggiatura”, “La mia famiglia”, “La famiglia”) e una parte nominale al plurale (“quattrini”, “i miei amici”, “i suoi membri”) l’accordo della copula (“sono”) è con la parte nominale (frasi 2, 5 e 6); mentre, viceversa, con un soggetto al plurale (“I figli”, “i miei amici”) e una parte nominale al singolare (“una grande preoccupazione”, “la mia famiglia”) l’accordo della copula (“sono”) è con il soggetto (frasi 3 e 4). In pratica, ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale. In più, quando la parte nominale è formata da un nome di genere non variabile (è il caso di “un problema”, nella frase 1, e “la vita” nella frase 7), esso si accorda con il soggetto (“tu” in entrambe le frasi; l’unica differenza è che nella frase 1 il soggetto è posto all’inizio, nella frase 7 è posto alla fine per dare particolare rilievo) solo nel numero (a riprova di ciò “problema” e “vita”, come nomi del predicato, non variano nel genere infatti “problemo” e “vito”, a meno che non si intenda il nome proprio, non esistono nella lingua italiana ma variano soltanto nel numero -singolare o plurale: “problemi” e “vite”). Mentre, in generale, la copula si accorda regolarmente con il soggetto nella persona e nel numero: per esempio, nella frase “Le ragazze sono brave insegnanti” il verbo copulare “sono” si accorda con il soggetto “ragazze” in numero (plurale) e persona (terza).
Pensate sia corretto?
RISPOSTA:
Sì, tendenzialmente tutte corrette, le sue deduzioni sulla base degli esempi citati, a parte qualche inesattezza sul genere: nella frase «Le ragazze sono brave insegnanti» l’accordo è anche nel genere: «le ragazze sono brave maestre» / «i ragazzi sono bravi maestri». Laddove possibile, cioè (nel caso di nomi variabili per genere), l’accordo avviene anche in base al genere. Insegnante non è un nome non variabile per genere, bensì un nome epiceno (o ambigenere, o di genere comune) il cui genere si evince dall’articolo (l’insegnante, la insegnante, gli insegnanti, le insegnanti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “Se si possiede dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro” o “Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli ecc.”? Se non erro, “dai 3 ai 10 titoli” dovrebbe essere complemento di misura e quantità, quindi il “si impersonale” non va accordato. Però mi viene il seguente dubbio: ma non è che l’espressione “dai 3 ai 10” è complemento di quantità/misura e “titoli” , invece, il complemento oggetto plurale e quindi in questo caso bisogna dire “Se si possiedono” visto che abbiamo un complemento oggetto plurale (“titoli”)???
RISPOSTA:
La frase è costruita col si passivante e dunque equivale a: «se dai 3 ai 10 titoli accademici sono posseduti…». «Dai 3 ai 10 titoli accademici» è un soggetto complesso (con attributi), esattamente come sarebbe un complemento oggetto (e non un complemento di quantità) se la frase fosse attiva: «Se qualcuno possiede dai 3 ai 10 titoli accademici…». Pertanto, visto che in caso di forma passiva il verbo va concordato col soggetto, l’accordo per numero non può che essere al plurale: «Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro».
Numerosissime risposte di DICO vertono sulle differenze e sull’accordo nei casi di si passivante. La invitiamo pertanto a (ri)leggerle, a partire da questa: https://dico.unime.it/ufaq/si-vive-o-si-vivono/
Fabio Rossi
QUESITO:
“Se si desidera far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba”. Nella frase di prima è giusto usare “Se si desidera”, e quindi il verbo desiderare alla terza persona singolare, oppure bisogna usare il verbo desiderare alla terza persona plurale (desiderano)? Credo che si debba usare “desidera” perché penso che “far giocare” sia il complemento oggetto del verbo desiderare, però mi è venuto il seguente dubbio “E se invece sia ‘desiderare’ che ‘far giocare’ vanno considerati come un unico predicato verbale e quindi gli unici complementi oggetto della frase sono Claudio e Giulio?” A quel punto, se fosse così, allora dovremmo utilizzare “desiderano” e non “desidera”. Oppure “desiderare’ va considerato come un verbo servile che viene in ausilio di “far giocare” e quindi bisogna comportarsi come se avessimo avuto al posto di ‘desiderare’ i verbi “volere, potere, dovere”? D’altro canto in italiano si dice “Si possono prendere queste cose”, e quindi “possono” (verbo servile) va al plurale proprio perché il complemento oggetto è al plurale (queste cose). Qual è la soluzione corretta al quesito?
RISPOSTA:
La frase è da intendersi con si impersonale (e non passivante) e il verbo va coniugato pertanto alla terza persona singolare: «Se si desidera [= se qualcuno desidera] far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba». La frase volta al passivo sarebbe agrammaticale: *«Claudio e Giulio sono desiderati essere fatti giocare [o fare giocare]…».
Negli esempi successivi, invece, la costruzione passivante funziona e il verbo va pertanto al plurale, accordato con il soggetto (plurale): «Si possono prendere queste cose» = «queste cose possono essere prese».
Il costrutto con verbo fattitivo o causativo (fare giocare, lasciare giocare ecc.) è diverso dal costrutto con verbo modale o servile (posso giocare, devo giocare ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Intanto “che” come pronome relativo può svolgere la funzione di soggetto o complemento oggetto: “La donna che vende i pomodori è mia amica” (soggetto) e “La donna che vedi è mia cugina” (oggetto). Al contrario “Il quale” è sempre un pronome relativo e può venir usato anch’esso come soggetto o come complemento oggetto: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, i quali si trovano in biblioteca” (soggetto) e “La torta, la quale ha preparato la nonna, è buonissima” (oggetto). Per quanto riguarda il quesito iniziale, per cui vorrei avere una conferma, penso che nel dubbio sulla scelta tra “che” o “quale” (il quale, la quale, i quali, le quali), visto che spesso si pone una scelta su quale dei due usare, scegliendo “che” non si sbaglia mai perché benché virtualmente intercambiabili, la frequenza d’utilizzo pone la “nostra” attenzione su “che”; infatti un più semplice e diretto “che” è spesso preferito alla forma composta il quale (e le altre forme); “il quale” (e le altre forme) che è più ricorrente invece in alcuni usi formali, può però tornare utile in certi casi per dissipare possibili equivoci: «Ho visto la sorella di Paolo, che ha una laurea in legge» [Serianni]. Chi? ha una laurea in legge: Paolo o la sorella? Impossibile il fraintendimento, invece, con la forma variabile: «Ho visto la sorella di Paolo, la quale ha una laurea in legge». Esempio inventato (ma il discorso come dicevo è valido in generale): “Ci sono persone che (il semplice “che”, con cui non si sbaglia mai, sostituisce il più formale “le quali”, qualora fossimo in dubbio sulla scelta appunto tra “che” o “quale”, ecc…) farebbero di tutto per avere questo lavoro”. E ancora: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, che (i quali) si trovano in biblioteca”. Quindi tutti gli esempi che ho scritto in questo intervento, nonostante l’intercambiabilità dei pronomi, possono essere semplicemente scritti anche con il semplice “che” per evitare appunto di cadere in errore e confusione.
RISPOSTA:
Che e il quale, come dice lei, sono intercambiabili solo virtualmente. Nella realtà degli usi linguistici, di fatto, che va sempre bene, mentre art. + quale ha forti restrizioni: non si usa tendenzialmente quando ha valore di oggetto («la maglia ??la quale mi hai regalato è perfetta per questo clima»), né quando ha valore restrittivo: «sei l’unico ??il quale ha risposto alla domanda».
Fabio Rossi
QUESITO:
Sebbene la scelta tra “cui” e “quale” sia libera, in alcuni contesti è possibile usare solo “quale” (il quale/ la quale/ i quali/ le quali): o dopo un verbo implicito: “C’è stata una battaglia violenta durante la quale (e non “durante cui”) sono morte molte persone”: infatti “durante”, che ha anche funzione di preposizione impropria, è però il participio presente del verbo “durare”, e la regola dice che è possibile usare solo “la quale” (il quale/ i quali/ le quali), e non “cui”, dopo un verbo implicito: infatti, come in questo caso, “durante” è il participio presente, quindi forma, verbo implicito, del verbo “durare”; oppure c’è anche un altro caso in cui, invece, non possiamo usare “cui” ma dobbiamo ricorrere al pronome relativo variabile “il quale, la quale, i quali, le quali”: e cioè quando il pronome relativo segue un numero o un pronome indefinito, come nelle frasi seguenti: “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, due delle quali invariabili” e non “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, *due di cui invariabili” e “Sono emersi diversi problemi per ognuno dei quali si è cercata una soluzione” e non “Sono emersi diversi problemi, *per ognuno di cui si è cercata una soluzione”. Diversamente, “cui” e “quale” (nei vari complementi indiretti introdotti da preposizione) sono intercambiabili: “Il parco davanti al quale abito è verdissimo” ma anche “Il parco davanti (a) cui abito è verdissimo”. Tuttavia, e qui ho un dubbio, di fronte ad una locuzione prepositiva (es. “a causa di”, “grazie a”, ecc…), come ci dobbiamo comportare? es.: “Ho fatto molti errori a causa dei quali/di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta” e “Lui è il professore grazie al quale/a cui sono stato promosso”. In questi contesti c’è una regola? Immagino siano intercambiabili…
RISPOSTA:
In effetti, dalla casistica riportata dalle due maggiori grammatiche italiane (Serianni e Renzi-Salvi-Cardinaletti) non si evincono molte altre restrizioni sull’uso di cui (rispetto a ART o prepos. + quale) oltre a quelle da lei enunciate. È però indubbio che, con le locuzioni preposizionali a causa di, grazie a e simili, quale funzioni meglio di cui o talora cui sia proprio impossibile (agrammaticale): «ho un problema a causa del quale non posso uscire» (*a causa di cui); «questa è la ragazza grazie alla quale ho cambiato vita» (?? grazie a cui). Perché? Forse perché il costrutto è assimilabile a quello che Cinque (nella Grammatica di Renzi-Salvi-Cardinaletti, vol. I, pp. 448ss.) chiama «costruzione appositiva parentetica», ovvero una relativa non restrittiva (sebbene le relative degli esempi qui sopra siano restrittive) in cui tra l’antecedente e il relativo vi sia una sorta di frattura, non necessariamente per la distanza. Insomma, forzando un po’ la mano per semplificare, è come se la locuzione venisse ancora avvertita come non del tutto grammaticalizzata e quindi inibisse l’uso di cui, che invece funziona perfettamente con le preposizioni proprie: «ho un problema per cui non posso uscire»; «questa è la ragazza per cui ho cambiato vita». Anche nei suoi ultimi esempi, cui/quale non mi sembrano intercambiabili: «Ho fatto molti errori a causa dei quali/*di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta»; «Lui è il professore grazie al quale/??a cui sono stato promosso».
Naturalmente, la mia è solo un’ipotesi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso faccio confusione nel distinguere i verbi andare e venire in determinati contesti.
“Lara è uscita di casa ed è venuta a prendere il figlio a scuola.”
Il parlante in questo esempio usa venire sottintendendo che nel momento in cui Lara si è presentata a scuola era in quel luogo. Se invece tale verbo fosse stato sostituito da andare, il parlante avrebbe evidenziato tutta la sua distanza dall’azione. La mia interpretazione è corretta?
RISPOSTA:
Sì, la sua interpretazione è corretta, perché i verbi andare e venire esprimono un movimento di allontanamento o di avvicinamento da chi parla. Nel caso di andare, il parlante si trova lontano dalla destinazione di spostamento; nel caso di venire, il parlante si trova vicino o è già nella destinazione di riferimento.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.
RISPOSTA:
La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.
RISPOSTA:
L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un articolo online della Zanichelli dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro», ho notato che sono state riportate indifferentemente queste 2 frasi come corrette dall’autore dell’articolo: A) Mario e Luca si aiutano l’un l’altro; B) Mario e Luca si aiutano l’uno con l’altro.
Ora, la mia domanda è: qual è la regola grammaticale che stabilisce che tra “l’uno” e “l’altro” va bene il “con” quando c’è il verbo transitivo “aiutare” nella frase? È forse un’eccezione grammaticale? Oppure viene usato il “con” come rafforzativo?
Insomma, è la stessa cosa se dicessi “Marco e Luca si sopportano l’un l’altro” oppure “Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro”?
Devo ammettere che le due frasi della Zanichelli mi hanno mandato un po’ in confusione. Potete aiutarmi? Grazie.
P.S. Anche in un articolo dell’Accademia della Crusca dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro» ho notato che viene usato il “con” tra “l’uno” e “l’altro” quando c’è il verbo transitivo “aiutare”. Infatti, più o meno, alla fine dell’articolo vi è la seguente frase: “Marco e Giuseppe si aiutano l’uno con l’altro”.
RISPOSTA:
Se andiamo a guardare la norma (intesa come convenzione sociale) della lingua e anche il funzionamento grammaticale dei costrutti, senza dubbio l’unica forma pienamente corretta è «Mario e Luca si aiutano l’un l’altro», poiché il verbo aiutare è transitivo. Tuttavia, dal momento che la lingua dell’uso non risponde soltanto a logiche grammaticali e a norme sociali, ma prende anche altre pieghe, sia nel parlato sia nello scritto, in effetti esempi come «aiutarsi gli uni con gli altri» e simili sono comunissime. E, dato che ogni uso (se non idiosincratico) ha sempre una sua spiegazione, cioè una sua regola, più che sanzionare siamo interessati a capire e a trovare queste regole. È probabile che nel caso specifico abbiamo agito due forze, a favore dell’uso di con. La prima è l’interferenza del verbo pronominale aiutarsi, che ha un significato e una costruzione differenti da aiutare: «aiutarsi con le mani», «aiutarsi con qualche farmaco» ecc. L’altra forza è data dal senso del verbo aiutare (e aiutarsi), che fa leva cioè sulla collaborazione, sullo stare insieme, cioè “con” qualcuno: ecco che scatta dunque la funzione del “con” in «aiutarsi gli uni con gli altri», che non è da considerarsi un rafforzativo, né un’eccezione, ma proprio un uso alternativo (senza dubbio ancora avvertito come meno formale, in quanto non tradizionale: esiste comunque fin dal ’300, se ne legge un esempio in Villani nel Battaglia) rispetto a «aiutarsi gli uni gli altri». Lo stesso vale per «Marco e Luca si sopportano l’un l’altro» oppure «Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro». Non c’è dubbio che la costruzione più formale (in linea con la tradizione) sia la prima; tuttavia la seconda, sebbene meno frequente (si ricerchino le occorrenze in Google), è comunque ben attestata in italiano e come tale non può essere respinta né come errata né come eccezionale. Anche qui, ha senza dubbio agito il senso del verbo sopportare: sopportare, così come aiutare, è un’azione che si fa in (almeno) due persone, addirittura reciproca, negli esempi citati, ovvero è qualcosa che si fa “con” qualcuno, nei confronti di qualcuno.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.
RISPOSTA:
Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il sintagma «animato da Spirito Santo» è possibile scriverlo anche «animato di Spirito Santo»?
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni sono corrette e attestate, sia in rete sia in letteratura. A giudicare dagli esempi riportati dai dizionari (soprattutto il GDLI della Utet), sembra più comune il costrutto con il complemento d’agente («animato da»), ma anche il costrutto con «di» figura in letteratura, per es. in Leopardi: «animata di sì vivo […] amor di patria». Del resto, l’italiano ammette il doppio costrutto con altri verbi simili: «fatto da» / «fatto di», «amareggiato da/di» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
«A quelli come me la pazienza sta finendo». Ho sentito e letto che in latino era comune il verbo in fondo alla frase, mentre in italiano non è raccomandabile se non sbagliato. Vorrei sapere, se possibile, perché. Secondo me, il verbo è posto in fondo alla frase per essere enfatizzato/focalizzato, quindi non intravedo errori.
RISPOSTA:
Ha ragione lei, non è un errore. Nella frase «A quelli come me la pazienza sta finendo» il soggetto «la pazienza» è topicalizzato, svolge cioè il ruolo di secondo topic (il primo è «A quelli come me»), mentre il verbo «sta finendo» in questo caso svolge il ruolo di comment ed è focalizzato. Quindi in questo caso non c’è alcuna influenza regionale (come nel caso di «Montalbano sono») nella posizione conclusiva del verbo, bensì è la struttura informativa che influenza quella sintattica, cioè il ruolo del topic e del comment condiziona l’ordine dei sintagmi nella frase.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio in merito all’analisi grammaticale del participio passato «preoccupato» nell’espressione «sembra preoccupato» in quanto non so se analizzarlo come participio passato del verbo «preoccupare» o/e evidenziare che è usato come aggettivo qualificativo.
RISPOSTA:
Meglio analizzarlo come aggettivo, perché non vi sono elementi di reggenza verbale che ne autorizzino l’interpretazione come participio passato, come sarebbe, per esempio, la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «sembri preoccupato da molte questioni».
Comunque la differenza tra valore verbale e valore aggettivale nel participio è quasi sempre sfumata e indecidibile. Si chiama non a caso participio, cioè che partecipa della doppia natura di verbo e di nome/aggettivo. Per saperne di più, può leggere anche la seguente risposta di DICO:
https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Si può mangiare questi frutti?» Dove «si può» sottintende: «Una persona può mangiarli se vuole o se gli è permesso?» Oppure l’unica espressione corretta è: «Si possono mangiare questi frutti?».
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è «Si possono mangiare questi frutti?», perché il soggetto della frase è plurale («questi frutti») e dunque il verbo deve essere al plurale, accordato con il soggetto. Il si, infatti, è un si passivante (anche se usato per rendere la frase impersonale) che viene così interpretato sintatticamente: «Possono essere mangiati questi frutti?». Altre informazioni sull’uso del si impersonale, del si passivante e sull’accordo verbale si trovano nella seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/si-impersonale-passivante-o-toscano/
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo un chiarimento sulla seguente espressione: «aver svolto una attività negli ultimi dieci anni».
Indica lo svolgimento dell’occupazione nella totalità dei precedenti 10 anni oppure, in modo meno definito, la preposizione “in” sta a significare un espletamento cronologico più “aleatorio” dell’azione nel lasso temporale decennale ma non nell’interezza dei 10 anni pregressi?
RISPOSTA:
Locuzioni come «negli ultimi dieci anni», «in due mesi» e simili hanno un significato generico e possono, eventualmente, essere disambiguate soltanto da altri elementi del contesto. Quindi, nel caso qui segnalato, entrambi i significati sono possibili: 1) l’attività ha occupato interamente i dieci anni; 2) l’attività è durata soltanto per un periodo limitato di tempo, compreso entro i dieci anni.
Se si vuole essere più previsi, si possono aggiungere alla frase altri sintagmi con valore temporale, quali per es.: 1) «negli ultimi dieci anni ha sempre (o continuativamente) lavorato come giardiniere; 2) «negli ultimi dieci anni ha lavorato come consulente editoriale per un totale di tre mesi».
Diverso sarebbe il caso della preposizione “per”, che invece indicherebbe il tempo continuato, ovvero lo svolgimento dell’azione per gli interi dieci anni: «Per dieci anni ha lavorato come chirurga».
Fabio Rossi
QUESITO:
1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.
Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?
RISPOSTA:
Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’
Quale delle due è corretta? La prima, vero?
RISPOSTA:
Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida
QUESITO:
La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di in o a; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.
RISPOSTA:
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.
1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».
2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).
RISPOSTA:
No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».
Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.
Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?
RISPOSTA:
Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.
L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:
A: Come mai sei interessato all’italiano?
Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.
Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.
Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.
RISPOSTA:
Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».
Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.
RISPOSTA:
Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccogliere, si deve raccoglierlo, un gesto simile lo si vede fare, un gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche ci, vi, la, li, le) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarre, se lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?
RISPOSTA:
In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Comunico la mia assenza per domani 10 marzo. Ne allego di seguito il giustificativo”.
Vorrei sapere se questo uso pronominale sia corretto. Dal punto di vista formale, scomponendo i rapporti sintattici, mi pare che non ci sia niente di sbagliato. (Ne allego il giustificativo = allego il giustificativo dell’assenza.) Quando ho letto il messaggio la prima volta, però, ho avuto un principio di perplessità. Chiedo a voi, come al solito, per sciogliere il dubbio.
RISPOSTA:
La frase è perfettamente corretta. Le ragioni della sua perplessità sono dovute alla distanza tra il pronome ne e il nome cui si riferisce (assenza). Dato che però nessun altro dei costituenti prima di ne (domani, 10 marzo) si presta ad essere sostituito da ne, la coreferenza tra ne e assenza, sebbene svolta nell’arco di due diverse frasi, è perfettamente rispettata.
Fabio Rossi
QUESITO:
la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?
Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.
RISPOSTA:
Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?
RISPOSTA:
Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.
Fabio Rossi
QUESITO:
vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.
Potreste cortesemente esprimervi in merito?
RISPOSTA:
La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.
Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di aiuto per sciogliere un dubbio sull’uso di proprio.
I RAGAZZI STUDIANO SPERANDO DI REALIZZARE UN GIORNO I ………… SOGNI.
Nello spazio va inserito proprio o loro?
RISPOSTA:
L’aggettivo proprio si preferisce a loro quando si riferisce al soggetto grammaticale della frase. Diviene obbligatorio per riferirsi al soggetto in una frase in cui ci sono più referenti possibili; in quel caso, infatti, loro rimanda sicuramente non al soggetto. Nella sua frase il riferimento non può che essere i ragazzi, quindi proprio (in questo caso nella forma propri) è preferibile, visto che i ragazzi è il soggetto della frase, ma non obbligatorio; in una frase come “I ragazzi hanno rivelato ai professori che studiano sperando di realizzare i _____________ sogni”, invece, propri è obbligatorio perché loro si riferirebbe ai professori (i loro sogni, cioè, sono i sogni dei professori).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “esprimo la mia opinione in relazione alla mia esperienza con voi”, il sintagma introdotto da “in relazione alla” esprime un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Sì. Potrebbe peraltro anche essere considerato un complemento di argomento, dal momento che le aree semantiche di questi due complementi sono spesso limitrofe, se non addirittura in parte sovrapponibili. Dipende dal contesto: se l’opinione verte sulla relazione, allora si tratta di complemento di argomento, se l’opinione verte su altre cose, ma è data nell’ambito di una relazione, allora è complemento di argomento. Naturalmente, come ben si vede, queste considerazioni riguardano la sfera meramente semantico-contestuale e nulla hanno a che vedere con la sintassi. Il che ci fa ribadire, per l’ennesima volta, la suprema inutilità (a non dir di peggio) dell’analisi logica (che di logica non ha nulla) tradizionalmente intesa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?
Uomo = soggetto
Era impegnato = pred. verbale
Per conto di una ditta = complemento di sostituzione
In una attività = stato in luogo figurato
Di manutenzione = complem. di specificazione
Su un impianto = stato in luogo
Di zuccherificio = compl. specificazione
RISPOSTA:
L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto dire “La Ficht conferma il rating BBB dell’Italia” oppure “per l’Italia”?
Inoltre:
1) dell’Italia = compl. specificazione?
2) per l’Italia= compl. di vantaggio?
RISPOSTA:
Le due varianti sono corrette ma cambiano il significato della frase: conferma il rating BBB dell’Italia indica che il rating era già stato assegnato (è, appunto, il rating dell’Italia) e ora l’agenzia lo conferma; conferma il rating BBB per l’Italia indica che il rating era stato annunciato, se ne era parlato, ma soltanto adesso è stato effettivamente assegnato (quindi la conferma riguarda non il rating già assegnato, ma l’anticipazione a proposito del rating che sarebbe stato assegnato). In analisi logica dell’Italia è complemento di specificazione, per l’Italia è complemento di vantaggio (o di svantaggio, se la frase lascia intendere che il rating è una brutta notizia) se si intende il rating come un servizio reso all’Italia; è, in alternativa, complemento di argomento se si intende il rating come un voto che riguarda l’Italia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Venite a trovarci, più ne siamo e meglio è”, è corretta la presenza della particella ne e, nel caso, che funzione grammaticale svolgerebbe? Oppure non si dovrebbe utilizzare?
RISPOSTA:
L’inserimento del ne in costrutti del genere è diffuso dell’italiano regionale meridionale; nella varietà standard dell’italiano (quella descritta dalle grammatiche) il costrutto non richiede il pronome: la forma corretta è più siamo. Il ne, si noti, è richiesto quando il verbo è alla terza plurale (più ne vengono), ma non quando è alla prima e alla seconda; mentre il soggetto della prima e della seconda, infatti, è sempre noto (perché coincide con il gruppo a cui appartiene l’emittente o con il gruppo a cui appartiene il ricevente), il soggetto di terza persona dipende dalla frase, quindi deve essere richiamato con il pronome, che ha la funzione di complemento partitivo. L’inserimento di ne alla prima e alla seconda plurale può essere, pertanto, interpretato come un’estensione del costrutto della terza persona. A margine sottolineo che con il verbo essere alla terza persona il ne deve essere preceduto da ce: più ce ne sono (non *più ne sono).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei una consulenza sul significato della frase complessa riportata di seguito: “La frase è una forma linguistica indipendente, non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore, escluso il testo”.
La frase è una forma linguistica indipendente = frase reggente principale;
Non compresa (che non è compresa = subordinata relativa) mediante alcuna costruzione grammaticale (attributo + complemento di esclusione) in una forma linguistica maggiore (complemento di stato in luogo figurato) escluso il testo (subord. di esclusione).
Come può essere parafrasata, ossia cosa significa in concreto, la frase in questione?
RISPOSTA:
Cominciamo dall’analisi del periodo.
“La frase è un forma linguistica indipendente”: proposizione principale;
“non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”: subordinata relativa implicita;
escluso il testo (subordinata esclusiva implicita).
Analisi logica della proposizione relativa:
la frase: soggetto sottinteso evincibile dal predicato verbale “non compresa”;
non compresa: predicato verbale;
mediante alcuna costruzione grammaticale: attributo + complemento di mezzo;
in una forma linguistica maggiore: complemento di stato in luogo figurato + attributo.
Il senso (e quindi la parafrasi) della frase in questione, che è una delle tante possibili definizioni di “frase”, è il seguente. La frase è, dal punto di vista sintattico, indipendente da altre frasi, cioè non fa parte di nessuna frase complessa (in quanto è essa stessa una frase, semplice o complessa, che si conclude con un punto, senza altri vincoli sintattici con strutture esterne alla frase stessa). Naturalmente, bisogna tener conto del contesto, o per meglio dire del cotesto, cioè dell’intero testo in cui la frase è inserita, per comprenderne a pieno il significato. Quindi, benché autonoma sul piano sintattico, sul piano semantico la frase non è del tutto autonoma, perché va inquadrata in un’unità di rango superiore detta testo.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretta l’analisi della seguente frase? “Tiziano propone classi separate per studenti disabili, una mossa lesiva dei diritti di queste persone, in contrasto con i principi pedagogici”.
Tiziano = soggetto
Propone = predicato Verbale
Classi separate = compl. Oggetto + attributo
Per studenti disabili = complemento di destinazione + attributo
Una mossa lesiva = apposizione + attributo
Dei diritti = complemento di termine
Delle persone = compl. di specificazione
In contrasto con i principi pedagogici = complemento di paragone e attributo
RISPOSTA:
Secondo l’analisi logica tradizionale, vi sono alcune inesattezze o precisazioni da fare. Quello che lei chiama complemento di destinazione può essere classificato anche come complemento di vantaggio. “Dei diritti” è complemento di specificazione, anziché di termine. Come si vede e come chiarito più volte nelle risposte di DICO, però, una analisi siffatta non spiega nulla della struttura sintattica della frase, limitandosi ad apporre impressionistiche etichette semantiche ai vari sintagmi. Più utile sarebbe invece comprendere e distinguere, per esempio, il valore argomentale di “classi separate” e di “dei diritti” (che completa il sintagma “mossa lesiva”), rispetto al valore di circostante o di espansione degli altri sintagmi. In particolare, il circostante “una mossa lesiva dei diritti” (del tutto omologa a una relativa “che lede i diritti”) amplifica tutto ciò che precede (“propone classi separate per studenti disabili”); questa funzione di amplificazione (o circostante) si perde nella banale etichetta di apposizione, che sembra limitare (erroneamente) il riferimento di “una mossa lesiva dei diritti” al solo “classi separate”, quando invece è evidente che ad essere una mossa lesiva non siano soltanto le classi separate, bensì la proposta delle classi separate. Ancora una volta, dunque, più che la sciocca, inutile e dannosa analisi logica tradizionale sarebbe importante che la scuola insegnasse un’oculata e semplificata versione della grammatica valenziale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.
Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?
RISPOSTA:
Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “I romani, sotto la guida di Cesare Giulio, conquistarono le Gallie”, sotto la guida può considerarsi complemento di mezzo?
“Voteremo sulla base/ in base a queste considerazione”….”Sulla base di” introduce un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Le due risposte sono entrambe corrette. Resta l’insensatezza della tipologia dei complementi secondo l’analisi logica tradizionale, che si limita a porre etichette semantiche (e impressionistiche) del tutto inutili a spiegare il funzionamento sintattico e logico della frase. Su questo aspetto, si rimanda alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/il-complemento-di-quantita-e-il-complemento-di-specificazione-linutilita-dellanalisi-logica-tradizionale/
Fabio Rossi
QUESITO:
“I capelli sono pettinati in ciocche sottili e sono tinti di nero”
I due predicati sono nominali o verbali? Sono entrambi due participi passati che possono essere usati anche come aggettivi o no?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambi participi, e come tali possono avere valore sia verbale sia nominale. Dunque in entrambe le proposizioni il predicato può essere analizzato sia come verbale, sia come nominale. Abbiamo già discusso nel dettaglio questa dicotomia nel quesito https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/, cui rimandiamo per un approfondimento della complessa questione.
Fabio Rossi
QUESITO:
- A) Gli ho assicurato/accertato che non era così.
(complemento di termine + completiva oggettiva diretta esplicita)
- B) Gli ho assicurato/accertato la buona riuscita del progetto.
(Complemento di termine + complemento oggetto)
- C) Li ho assicurati/accertati che non era così.
(complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- D) Li ho assicurati/accertati della mia innocenza.
(complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Sul web mi sono imbattuto su discussioni che riguardavano i due verbi in questione.
Ho letto di gente che dava come corrette solo le costruzioni con complemento di termine, ritenendo scorrette frasi come C e D, visto che si andava in contro ad un paradosso, cioè due complementi oggetti connessi fra loro, paradosso che, a pensarci bene, potrebbe riguardare anche un verbo come “informare”, visto che quest’ultimo ammetterebbe costruzioni come in C e D, col quale però certe costruzioni sono del tutto normalizzate e idiomatiche.
Io penso che le costruzioni di C e D siano corrette, solo poco comuni, anche perché queste ultime sono altrettanto corrette nella loro forma riflessiva:
- E) Mi assicuro/accerto che tutto vada secondo i piani.
(Complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- F) Mi assicuro/accerto della tua innocenza.
(Complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Detto questo, mi interessava sapere cosa ne pensasse un esperto in materia, un linguista, in modo che potessi avere le idee più chiare.
RISPOSTA:
Ha ragione lei: la presenza del complemento oggetto nella reggente non impedisce affatto la presenza di una completiva dipendente dal medesimo verbo che regge il complemento oggetto: “ho rassicurato i miei genitori che sarei tornato presto”. La subordinate completive, pur comportandosi similmente a un oggetto (o a un soggetto) non possono essere considerate del tutto equivalenti a un complemento oggetto, come dimostrano le completive indirette, le quali, se trasformate in sintagma, richiederebbero una preposizione anziché un complemento diretto: “li ho rassicurati che verrò” > “li ho rassicurati della (o sulla) mia venuta; “informo Luca che arriverai” > “informo Luca del tuo arrivo”.
Quello che non va, in alcune delle frasi da lei citate a esempio, è il complemento; infatti non tutti i verbi ammettono il complemento oggetto o il complemento di termine della persona nel modo da lei (o dalle sue fonti) espresso, e questo indipendentemente dal fatto che vi sia anche una completiva o no. In particolare: “accertare qualcuno” (e non “a qualcuno”); “assicurare qualcuno” (oppure “rassicurare qualcuno”), non “a qualcuno”. Assicurare e accertare, insomma, non possono reggere il complemento di termine della persona che si assicura/accerta, ma soltanto il complemento oggetto (nelle accezioni qui commentate). Inoltre, “accertare qualcuno” appartiene comunque a un registro elevato e raro (“di basso uso” lo definisce il Gradit di De Mauro) che sarebbe meglio evitare, tant’è vero che l’italiano comune usa accertare soltanto in riferimento a fatti, non a persone: “accertare la morte”, “una notizia” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Il Giappone è un paese in via di sviluppo in termini economici e sociali” può essere analizzata nel seguente modo:.
Il Giappone= soggetto
E’= predicato nominale
Un paese= nome del predicato
In via di sviluppo= complemento di luogo figurato
In termini economici= complem di limitazione.
Nelle frase “Abbiamo deciso di pensarci in termini di costi”, il complemento “in termini di costi” è complemento di limitazione?
RISPOSTA:
È: copula, che insieme al nome del predicato “un paese” costituisce il predicato nominale.
In via di sviluppo: complemento di qualità; ma, nell’insensatezza dell’analisi logica tradizionale, essendo una locuzione aggettivale (pur costituita da un sintagma preposizionale), può essere tranquillamente analizzata anche come attributo del nome del predicato. Quel che conta è comprendere che “in via di sviluppo” svolge qui il ruolo di circostante (cioè, più o meno, attributo) rispetto a “un paese”.
Sì per tutto il resto: sono entrambi complementi di limitazione (ovvero, più utilmente, svolgono il ruolo di espansioni frasali).
Quanto al senso della prima frase, è certamente errato definire il Giappone un paese in via di sviluppo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Frase “Egli ha il ruolo di un testimone che si limita a citare le parole della persona in questione, lasciando a lei la responsabilità di quanto dice”.
Quesiti:
- “Sì limita a citare” si può considerare un unico predicato verbale (Come se dicessi “cita soltanto…”)?
- “In questione” = complemento di argomento?
- “Lasciando” = introduce una subordinata modale, finale o consecutiva?
RISPOSTA:
- “Si limita a citare” non può essere considerato come un unico predicato, secondo la sintassi tradizionale, perché “si limita” non svolge né il ruolo di verbo modale, né il ruolo di verbo aspettuale o fraseologico. Pertanto “si limita” è il verbo della proposizione reggente, mentre “a citare” è il verbo della subordinata implicita infinitiva, che può essere analizzata sia come completiva sia come finale.
- La tradizionale tipologia dei complementi è del tutto inutile, in sintassi. Qui l’importante è capire che la locuzione aggettivale “in questione” svolge un ruolo analogo a quello di un aggettivo (come se fosse “la persona nota” o “già nominata”), ovvero di circostante frasale. In quanto tale, se proprio si vuol tornare all’inutile nomenclatura scolastica, potrebbe essere analizzato come complemento di qualità.
- La subordinata implicita gerundiva “Lasciando a lei la responsabilità”, stante la polifunzionalità del gerundio, può essere analizzata sia come modale (che è la scelta migliore), sia come consecutiva (è talmente asettico da lasciare a lei la responsabilità…), sia come finale (lo fa per lasciare a lei la responsabilità…).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Ieri sono rientrato al lavoro con il turno pomeridiano”, il complemento “con il turno” si considera complem. di unione o mezzo?
RISPOSTA:
Come abbiamo più volte sottolineato nel nostro sito DICO, la tradizionale nomenclatura dei complementi è scarsamente o per nulla produttiva, perché cerca di sviscerare inutili minuzie semantiche, senza nulla dire della funzione sintattica dei sintagmi. In questo caso, quel che interessa è che “con il turno pomeridiano” non ha valore argomentale ma di espansione, cioè non contribuisce a completare il senso del verbo, ma soltanto dell’intera frase. Se proprio vuole poi ricondurre questo valore all’inutile nomenclatura scolastica, allora il complemento può essere, secondo il contesto, sia di unione (se si fa leva soltanto sul fatto che si è rientrati a lavoro e si è svolto il turno pomeridiano), sia di mezzo (se si dà più importanza al turno che al rientro), o addirittura di causa (se è proprio il turno pomeridiano che ha consentito il rientro, mentre quello mattutino lo avrebbe reso impossibile).
Fabio Rossi
QUESITO:
L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).
“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.
Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?
RISPOSTA:
A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascolto, fare il proprio ingresso, prendere una decisione, mettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’analisi logica della frase “La mamma difende i cuccioli dalle iene”?
RISPOSTA:
La mamma = soggetto;
difende = predicato verbale;
i cuccioli = complemento oggetto;
dalle iene = complemento di svantaggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).
Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?
Secondo esempio:
(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).
A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?
Terzo esempio:
(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.
Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.
RISPOSTA:
La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che: , tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Il file è in fase di caricamento”, il complemento in fase di caricamento può considerarsi predicativo del soggetto o stato in luogo? L’espressione in sciopero della fame si può analizzare così?
In sciopero = c. di luogo figurato;
della fame = c. di fine
RISPOSTA:
La fase di caricamento non è una qualità del file, ma è un processo nel quale si trova il file; si può, quindi, interpretare il sintagma come luogo figurato. Volendo sottolineare che tale luogo si configura come un processo, si può anche sostenere che il complemento sia di moto per luogo.
In sciopero indica una situazione in cui si trova una persona, quindi può rientrare nell’idea di stato in luogo figurato; della fame, invece, specifica di che tipo è lo sciopero, cioè che cosa lo caratterizza, quindi è un complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In “Fattelo spiegare da Giulio”, il complemento da Giulio si può considerare un complemento di origine?
RISPOSTA:
Sì. In alternativa, considerando che la costruzione fattitiva (fare + infinito) è parafrasabile con quella passiva: io mi faccio spiegare un argomento da Giulio = io faccio in modo che l’argomento mi sia spiegato da Giulio, è giustificabile anche l’interpretazione del sintagma come complemento d’agente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “in risposta alle sue richieste, Le daremo appuntamento per giovedì prossimo” è corretta la seguente analisi logica?
In risposta alle sue richieste = complem di fine+ attributo;
Le = c. di termine;
daremo = predicato verbale;
appuntamento = c. oggetto;
per giovedì prossimo = c. di tempo determinato + attributo.
RISPOSTA:
L’analisi ha un solo problema: il sintagma In risposta alle sue richieste non dovrebbe essere considerato insieme, ma dovrebbe essere diviso in In risposta e alle sue richieste. Di questi due, alle sue richieste è un complemento di termine, mentre In risposta può essere considerato un complemento di fine, se intendiamo il sintagma equivalente a al fine di rispondere, oppure – opzione per me più ragionevole – un complemento predicativo dell’oggetto (che è appuntamento) se lo consideriamo equivalente a in qualità di risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?
RISPOSTA:
Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “un saluto da me”, da me è un complemento d’origine?
RISPOSTA:
Sì; indica che il saluto proviene da / si origina da qualcuno. A differenza del complemento di moto da luogo, esso non indica un movimento.
Raphael Merida
QUESITO:
A differenza di introduce un complemento di paragone?
RISPOSTA:
Sì, la locuzione preposizionale a differenza di risponde alla domanda “rispetto a chi o a che cosa?” e introduce un paragone fra due individui o due situazioni: “A differenza di Luca, io preferisco il mare”.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?
RISPOSTA:
La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In aperitivo per eccellenza il sintagma per eccellenza è un complemento di qualità?
RISPOSTA:
Sì; esso può, infatti, essere parafrasato con un aggettivo qualificativo, come straordinario, eccelso, impareggiabile o simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Mi servo di te”, di te a quale complemento appartiene?
RISPOSTA:
Nell’analisi logica è un complemento di specificazione; la funzione del sintagma, però, si coglie meglio con l’etichetta di oggetto obliquo, propria della grammatica valenziale. Dal momento che servirsi di si comporta come godere di, rimando a questa risposta per la spiegazione dell’etichetta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi chiedo come fare l’analisi logica di frasi come questa: “La lezione dovrà essere interessante”. Il verbo _essere_fa da copula anche se accompagnato dal servile? O va considerato predicato verbale? Ma in quest’ultimo caso, l’aggettivo finale cosa sarebbe? Predicativo del soggetto?
RISPOSTA:
In analisi logica il verbo viene considerato per la sua funzione di predicato, non per la sua forma: il sintagma dovrà essere, pertanto, viene analizzato tutto insieme, perché svolge una funzione unitaria. Tale funzione è quella di copula, cioè di collegamento tra il soggetto e un suo completamento, che qui è rappresentato dall’aggettivo interessante, definito nome del predicato o parte nominale. Il sintagma complesso dovrà essere interessante è, quindi, un predicato nominale.
Si noti, a margine, che la parte nominale del predicato nominale è di fatto un tipo di complemento predicativo del soggetto; ha, infatti, la stessa funzione del predicativo del soggetto retto da verbi copulativi. In “Luca è simpatico” e “Luca sembra simpatico”, cioè, simpatico ha la stessa funzione di completare il soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Maria traduce il testo dall’italiano all’inglese”. Che complementi sono dall’italiano e all’inglese?
RISPOSTA:
Sono, rispettivamente, complemento di origine o provenienza e complemento di moto a luogo figurato. Quest’ultimo può anche essere definito in questo caso complemento di destinazione, ma questa etichetta non rientra tra quelle più comunemente usate nei manuali di grammatica italiana (è usata, invece, per descrivere la funzione del caso dativo delle lingue antiche).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se la preposizione “a“ davanti a “cui“ può essere sempre omessa, o se, in determinati casi, l’ellissi possa determinare costruzioni errate.
1) La riflessione (a) cui vorrei portarti è questa…
2) La signora (a) cui ho chiesto un favore è tua sorella.
Sono molto curioso circa l’origine della regola, e soprattutto mi chiedo per quale ragione si applichi esclusivamente, se non vado errato, a questa preposizione semplice e non anche ad alcune delle altre.
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette (cui / a cui) perché nei due esempi cui assume la funzione di complemento di termine. L’oscillazione risale alla forma latina cui che significa ‘al quale’; a causa della possibile ambiguità generata dalla mancanza della preposizione, si è sentita l’esigenza di accostare al pronome cui la preposizione tipica del complemento di termine, cioè a. Per queste ragioni, la forma senza preposizione è considerata più formale di quella con la preposizione.
L’omissione riguarda anche la preposizione di in frasi come “Maria la cui bravura è proverbiale”, dove cui, posizionato fra l’articolo e il sostantivo, ha valore di complemento di specificazione (la frase, altrimenti, dovrebbe essere tradotta così: “Maria, la bravura della quale è proverbiale”). In casi come questo, fino all’Ottocento, la preposizione di era ammessa in una costruzione ormai uscita dall’uso, cioè il di cui.
Raphael Merida
QUESITO:
Si nota l’influenza dell’arte africana sulla sua opera.
Buonasera! In analisi logica, “l’influenza” è soggetto o oggetto? Ovvero “si nota” è passivante o impersonale? Inoltre mi permetto di chiedere che complemento sia “sulla sua opera”: luogo figurato?
RISPOSTA:
Nel suo esempio, il verbo è costruito con il si impersonale. Si nota assume la funzione di soggetto (è come se si intendesse “Qualcuno nota”), l’influenza è complemento oggetto, dell’arte africana complemento di specificazione, sulla sua opera complemento di stato in luogo figurato.
Per un approfondimento sul si impersonale / si passivante, la esorto a consultare l’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Non mi è chiaro perché, in una precedente risposta del 2020, nella frase sembrano guidare l’infinito corrisponde ad una soggettiva. Vi chiedo altresì indicazione di una grammatica che possa fugare dubbi del genere.
RISPOSTA:
La proposizione retta da sembrare non può che essere di tipo completivo, perché il verbo sembrare, come gli altri verbi copulativi, collega il soggetto con un suo completamento o sintagmatico (“I cavalli sembrano stanchi“) o, per l’appunto, proposizionale (“I cavalli sembrano essere stanchi“). Nel primo caso il sintagma che completa il predicato (detto nominale) è un complemento predicativo del soggetto, nel secondo caso la proposizione è una soggettiva.
Una grammatica che tratta casi di questo tipo è la Grande grammatica italiana di consultazione, in tre volumi, a cura di Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti, Bologna, il Mulino (ultima edizione 2001).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
PER, DA, DI introducono la causa, ma cosa cambia tra le tre preposizioni? Perché alcune volte si possono usare tutte e tre e altre volte no?
Es. grido dalla / per la / di gioia, ma “Matteo è a letto per l’influenza”, non dall’influenza o di influenza.
RISPOSTA:
Dal punto di vista della funzione generale di ciascuna preposizione, per indica l’attraversamento (passare per il bosco), quindi il mezzo (prendere per le corna), ma anche la causa (piangere per una perdita) e il fine (studiare per un esame); da indica la provenienza (venire dall’Italia), quindi, anche se per ragioni diverse rispetto a per, la causa (piangere dalla gioia); di indica la relazione, che può prendere moltissime forme (il fratello di Mario, la porta di casa, il tavolo di legno, mangiare di gusto), tra cui anche la causa (morire di noia). Nell’esempio gridare dalla / per la / di, quindi, il sintagma costruito con dalla esprime l’origine del processo del verbo, quello costruito con per la esprime il percorso attraverso cui si è prodotto il processo del verbo, quello costruito con di indica in relazione a che cosa si è prodotto il processo del verbo. Sono, come si vede, sfumature diverse dello stesso concetto di causa. La spiegazione semantica, però, è parziale, e non permette di decidere quale sia la preposizione corretta (e se siano possibili più soluzioni) nel caso di sintagmi mai sentiti prima. Accanto alla funzione delle preposizioni si possono ricordare, allora, alcune costanti d’uso: di causale si usa soltanto in pochi sintagmi cristallizzati e non richiede mai l’articolo (mentre per e da sì): di freddo, di caldo, di fame, di sete, di gioia ed altre emozioni (di paura, di dolore, di felicità); da si usa in tutti i sintagmi in cui si può usare anche di, ma richiede, come detto, l’articolo e ha maggiore libertà. Di, infatti, è legata non solo ad alcuni sintagmi, ma anche ad alcuni verbi: si può, per esempio morire di freddo e morire dal freddo, ma mentre si può svenire dal freddo non si può *svenire di freddo. Di là da questi sintagmi cristallizzati, comunque, non si usa neanche da; non si può, per esempio, *ammalarsi dall’aria fredda. Per ha, invece, una distribuzione del tutto libera: si può sia morire per il freddo, sia svenire per il freddo, sia ammalarsi per l’aria fredda.
Queste considerazioni lasciano sicuramente spazio a casi dubbi, e non sono di pratico impiego quando bisogna usare la lingua in presa diretta. Per essere immediatamente sicuri di usare la preposizione giusta non c’è altro metodo che esercitarsi molto e, in caso di dubbio, usare gli strumenti lessicografici in circolazione, come i dizionari e le banche dati (oltre che i servizi di consulenza come DICO).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Quando rientrerà la mamma, sarò libera dall’impegno di badare al mio fratellino” di badare al mio fratellino è da considerarsi una subordinata dichiarativa (in quanto specifica il significato di impegno nella principale) oppure una finale?
RISPOSTA:
L’aggettivo libero è uno di quelli che possono reggere un argomento (come adatto a, degno di, pronto a). Quando l’argomento prende la forma di una proposizione, questa non può che essere considerata argomentale, per l’appunto. Tra le argomentali, la dichiarativa è quella che corrisponde più da vicino alle caratteristiche della proposizione così formata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sulla corretta analisi del participio passato nella seguente frase: “Luigi è stato colpito da una tegola MOSSA dal vento”. il participio mossa lo considero come un predicato verbale che introduce un’altra proposizione di cui dal vento è una causa efficiente?
In altre parole, può un modo indefinito introdurre un predicato verbale? Ho consultato un paio di grammatiche ma ho sempre trovato esempi con modi finiti.
RISPOSTA:
Il participio passato e, in generale, una qualsiasi forma indefinita del verbo possono essere analizzati come predicato verbale (sebbene il participio possa fungere anche da sintagma nominale e aggettivale e l’infinito da sintagma nominale). Nel caso specifico, mossa equivale a che era (stata) mossa, quindi è il predicato verbale di una proposizione relativa implicita, completata dal complemento di causa efficiente dal vento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto l’uso della virgola in una frase di questo tipo (dopo il verbo, prima del complemento oggetto ma in presenza di da una parte… dall’altra)?
“Il documento mostra, da una parte il tuo elaborato, dall’altra il mio”.
RISPOSTA:
La virgola va evitata, proprio perché separa il complemento oggetto dal verbo. In alternativa si può inserire la locuzione tra due virgole; a quel punto, però, per simmetria si dovrà fare lo stesso con la locuzione correlativa:
“Il documento mostra, da una parte, il tuo elaborato, dall’altra, il mio”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In italiano, se scriviamo la data, per esempio:
Lunedì 18 maggio 2024
dopo lunedì si mette la virgola?
RISPOSTA:
Non c’è una regola codificata per questo caso. Procedendo per analogia, potremmo assimilare la data al nome proprio di una persona: 18 maggio 2024 equivarrebbe allora al nome e cognome della persona, mentre lunedì sarebbe un’apposizione, come signor, dottor, avvocata o simili. Come in, per esempio, dottor Mario Rossi, quindi, la virgola in lunedì 18 maggio 2024 non è richiesta. Seguendo la stessa analogia, se posponiamo lunedì la virgola è necessaria: 18 maggio 2024, lunedì (come Mario Rossi, dottore).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel Credo si dice: «Il quale fu concepito DI spirito santo nacque da Maria Vergine»; sono corrette o sbagliate e perché? «Fu concepito Di spirito santo», oppure «dello Spirito santo», «da spirito santo», o «dallo spirito santo»?. Inoltre, «da Maria Vergine» o «dalla Maria Vergine», «di Maria Vergine» o «Della Maria Vergine»? Se invece di «Maria Vergine» si usa «Vergine Maria» cambia la preposizione?
RISPOSTA:
La preghiera del Credo, nella sua versione ufficiale in italiano, recita: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». Circolano anche versioni più o meno scorrette di questa preghiera, quali ad esempio: «fu concepito di Spirito Santo», che è una cattiva traduzione dal latino «conceptus est de Spiritu Sancto», in cui de indica in questo caso un complemento di agente (e con moto dall’altro verso il basso), traducibile in italiano con la preposizione da e non con la preposizione di. Inoltre, la preposizione in questo caso deve essere articolata: «dallo Spirito santo» (e non «da Spirito santo»), in quanto si riferisce a un elemento noto e determinato. Per rispondere alle altre domande, ecco i corretti usi preposizionali in italiano: «fu concepito dallo spirito santo» (tutte le altre forme sono sbagliate); «dalla Vergine Maria» e «da Maria Vergine» sono entrambe corrette. In «Maria Vergine» la testa del sintagma è Maria, che è un nome proprio e come tale non richiede l’articolo, mentre in «la Vergine Maria» l’articolo è necessario in quanto richiesto dal sostantivo vergine. Quindi, analogamente, con le preposizioni: «della Vergine Maria» oppure «di Maria Vergine» (ma non «di Vergine Maria»). L’ordine delle parole non influisce sulla preposizione, ma sull’articolo, e dunque sull’uso della preposizione semplice oppure articolata: di o della, da o dalla ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Una frase come “Nessuna parola, fatto o azione mi hanno ferito” è corretta? Si può concordare l’aggettivo indefinito solo con il nome più vicino?
RISPOSTA:
L’accordo tra un aggettivo preposto e un soggetto composto di nomi di genere diverso è problematico, perché il nome più vicino all’aggettivo attrae la concordanza. Se, ad esempio, volessimo definire amatissimi il figlio e la figlia di qualcuno potremmo dire gli amatissimi figlio e figlia (con l’aggettivo al plurale maschile “onnicomprensivo”) o l’amatissimo figlio e l’amatissima figlia; il rischio, però, sarebbe di formare l’amatissimo figlio e figlia, per via dell’attrazione dell’accordo operata dal nome più vicino all’aggettivo, figlio. nel suo caso l’accordo al plurale non è possibile, visto che nessuno non ha la forma plurale, quindi non rimane che “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi hanno ferito”. La concordanza di nessuno con il solo primo nome, comunque, non può dirsi un errore grave: non pregiudica, infatti, affatto la comprensione della frase (gli aggettivi non ripetuti potrebbero essere considerati semplicemente sottintesi).
Aggiungo che anche il verbo avere può andare al singolare (“Nessuna parola, fatto o azione mi ha ferito” o “Nessuna parola, nessun fatto o nessuna azione mi ha ferito”); il singolare, si badi, è dovuto non all’accordo con il solo primo soggetto, bensì all’accordo con ciascun soggetto uno alla volta, visto che i tre nomi sono presentati come uno in alternativa all’altro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«Questa critica è rivolta a me, che non ho seguito i tuoi consigli».
Non so se la costruzione sia corretta. Non ravviso niente di illogico o di irregolare in essa; tuttavia non sono convinta che, dal punto di vista grammaticale, il riferimento del «che» sia valido.
La frase, parafrasata, sarebbe questa:
«Questa critica è rivolta a me. Io non ho seguito i tuoi consigli».
Ma nell’esempio, il «che», se non erro, si riferisce a un soggetto non espresso. Mi domando se la mia osservazione sia giusta.
RISPOSTA:
La frase è ben formata e il che non si riferisce a un soggetto non espresso, bensì a un complemento di termine (della reggente), svolgendo tuttavia la funzione di soggetto della subordinata relativa. Il fatto che l’antecedente del relativo (cioè il nome cui il relativo si riferisce) sia in un complemento indiretto non crea alcuna difficoltà; l’importante è che il pronome relativo, all’interno della proposizione relativa, svolga il ruolo o di soggetto o di oggetto, e nessun altro (salvo eccezioni d’ambito colloquiale e al limite dell’accettabilità). Dunque, sarebbe substandard un esempio del genere: «la critica è rivolta a me, che non me ne importa niente» (cioè «a cui non importa niente»). In questo caso, saremmo di fronte a una cosiddetta relativa debole, o che polivalente, da evitare nello stile formale o anche di media formalità.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel linguaggio, spesso frettoloso e trascurato, della messaggistica, ho ravvisato esempi del genere:
1) Visto due film, stasera: spettacolari.
2) Fatto. Comprato pane e marmellate.
Si tratta evidentemente di due casi in cui si è scelto di omettere l’ausiliare coniugato.
(Ho) visto due film. (Ho) comprato pane e marmellate.
Innanzitutto, vi domando se le costruzioni così presentate sono corrette.
Se si volesse unire l’economicità della comunicazione, che sembra essere fondamentale in questo contesto, con il rispetto della sintassi, si potrebbe optare, secondo voi, per il compromesso di flettere il participio passato secondo il genere e il numero?
Dal punto di vista della brevità (e dell’immediatezza) non ci sarebbero differenze.
3) Visti due film, stasera: spettacolari.
4) Fatto. Comprati pane e marmellate.
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni (visto/visti, fatto/fatti) sono corrette, ma non v’è dubbio sulla maggiore formalità della seconda, che dunque è da preferire. Infatti, mentre nel primo caso («visto due film», «comprato pane e marmellate») l’unico modo per giustificare la presenza del participio passato è quello di ricorrere all’ellissi dell’ausiliare, col risultato di ottenere una frase telegrafica e, in quanto tale, traballante, assolutamente da evitare nello stile anche di media formalità, nel secondo caso, invece, il participio passato al plurale, e cioè accordato col soggetto di una frase passiva («sono stati visti due film», «sono stati comprati pane e marmellate»), è perfettamente standard e adatto a qualunque contesto, interpretabile come costrutto implicito, senza bisogno di invocare l’ellissi dell’ausiliare. Tant’è vero che le stesse proposizioni potrebbero trovarsi come subordinate implicite: «visti due film, sono poi andato a letto»; «comprati pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione». La stessa possibilità è negata al participio singolare maschile, che in questo caso sarebbe agrammaticale: *«visto due film, sono poi andato a letto»; *«comprato pane e marmellate, sono pronto per una bella colazione»
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho una domanda riguardante la seguente frase, tratta da The Game di Alessandro Baricco:
L’istinto era quello di fermarli. Il pregiudizio, diffuso, quello che fossero dei distruttori punto e basta.
Nella frase, quello che fossero equivale a (l’istinto) era che fossero (l’uso del congiuntivo imperfetto è stilistico e non è semantico). La mia confusione riguarda il fatto che in quello che il che è un pronome relativo, mentre nella mia versione della frase il che è una congiunzione. Nella frase originale perché che è un pronome relativo? Non riesco a sostituirlo con il quale. A che cosa si referisce quello? Potrebbe farmi un altro esempio in cui quello che viene usato come nella frase di Baricco?
RISPOSTA:
Nella frase originale, quello serve a ripetere il sintagma l’istinto. Questa ripetizione è possibile (anche se appesantisce la sintassi) e può servire a far risaltare il sintagma ripreso. Essa, però, non è necessaria e non cambia la natura della proposizione introdotta da che; il che, infatti, non si riferisce a quello (infatti non può essere sostituito da il quale), ma è una congiunzione, proprio come nella versione modificata. La proposizione introdotta da che è una completiva: nella variante con quello è una dichiarativa; nella variante senza quello viene considerata soggettiva, anche se sostituisce una parte nominale (per un approfondimento si veda questa risposta). Frasi come quella da lei citata potrebbero essere “La paura era quella di non riuscire a vincere”; “La paura era quella che la mia squadra non avrebbe vinto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su due frasi:
1) per me hai ragione tu
2) si studia per sé e non per gli insegnanti
RISPOSTA:
L’analisi logica delle due frasi è la seguente: 1) hai ragione: predicato verbale; tu: soggetto; per me: complemento di limitazione. 2) Il periodo è composto da due proposizioni; una reggente e una coordinata. Analisi logica della reggente: si studia: predicato verbale; per sé: complemento di vantaggio; e non (si studia): predicato verbale sottinteso; per gli insegnanti: complemento di vantaggio.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ieri ho scritto la seguente frase in un mio elaborato: «Uscì di casa alle 10 per farne ritorno alle 12».
La particella ne equivale, in questo caso, a “in” o eventualmente ad “a”: “(…) per fare ritorno in casa/a casa”.
La costruzione è corretta?
RISPOSTA:
No, la forma corretta, semmai, sarebbe: «…per farvi ritorno…». La particella pronominale atona ne, infatti, può pronominalizzare un complemento di moto da luogo («andò a Roma e ne ripartì subito dopo», cioè ripartì da Roma), oppure un complemento partitivo: «Quanta ne vuoi? Ne vuoi una fetta?»; o qualche altro complemento (per es. di argomento). Ci e vi, invece, pronominalizzano i complementi di stato in luogo, moto a luogo e moto per luogo. Peraltro, nel suo esempio, neppure vi sarebbe il massimo, ma suonerebbe un po’ ridondante e burocratico: che bisogno c’è, infatti, di specificare il luogo? È ovvio che torni a casa. E inoltre, è proprio necessario quel brutto verbo supporto, da antilingua calviniana, fare ritorno? Senta com’è più naturale così: «Uscì di casa alle 10 per ritornare alle 12». Evviva la semplicità!
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo sapere quale delle due forme è corretta: «l’autobus/il treno viene» o «l’autobus/il treno arriva». E se solo una delle due forme è corretta vorrei capire perché l’altra non lo è.
RISPOSTA:
Le frasi sono entrambe corrette, dal momento che, tra le varie accezioni (cioè significati) di entrambi i verbi venire e arrivare ve n’è almeno una in comune (cioè quella di ‘giungere in un luogo’), in cui, dunque, i due verbi sono sinonimi. Tuttavia, dato che, com’è noto, la sinonimia perfetta non esiste, va tenuto conto dei contesti in cui entrambi i verbi sono usati normalmente dai parlanti. Se se ne tiene conto, la differenza tra i due è schiacciante: con i mezzi di trasporto, arrivare è di gran lunga più frequente di venire, con migliaia (in qualche caso decine di migliaia) di occorrenze di scarto (dati facilmente verificabili in Google ricercando viene/arriva l’autobus/il treno). Perché? È pressoché impossibile rispondere a questa domanda, visto che la lingua evolve con percorsi non sempre lineari né analizzabili logicamente. Probabilmente i parlanti associano a venire (sempre in base alla frequenza e ai contesti d’uso) un tratto di maggiore ‘umanità’, cioè preferiscono quel verbo con soggetti umani o animati e con un certo scopo del movimento, laddove arrivare, invece, implica la sola idea di spostamento da un punto a un altro, con particolare riferimento alla meta. Infatti, se in Google si fa la ricerca “il treno che arriva/viene da”, ecco che la frequenza si inverte: viene è più frequente di arriva, perché, evidentemente, sottolineando la provenienza, si dà un valore semantico maggiore allo scopo o quantomeno alla natura dello spostamento. Morale della favola: i verbi sono corretti entrambi, ma è meglio usare arrivare, con i mezzi di trasporto, a meno che non ne si specifichi la provenienza.
Un’altra piccola osservazione a margine riguarda l’ordine dei sintagmi della frase con questi due verbi, che è preferibilmente quella verbo-soggetto, piuttosto che quella, canonica, soggetto-verbo. Questo accade perché arrivare e venire sono verbi inaccusativi, cioè intransitivi con ausiliare essere, che, come tali, trattano il soggetto perlopiù come elemento nuovo, piuttosto che come dato, e dunque un po’ alla stregua di un oggetto (per semplificare al massimo un fenomeno sintattico e pragmatico in verità molto complesso). Quindi: «arriva il treno/l’autobus» è un enunciato molto più frequente e naturale di «il treno/l’autobus arriva», se non segue altro sintagma, come per esempio «l’autobus arriva tra cinque minuti/subito», in cui invece l’ordine preferito è quello soggetto-verbo.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Esiste una varietà di discipline, quali quelle umanistica, artistica e scientifica.
Vorrei sapere se la costruzione è corretta, o se sarebbe consigliato strutturarla in maniera leggermente diversa sul piano della flessione.
- Esiste una varietà di discipline, quale quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
- Esiste una varietà di discipline, quali quella umanistica, quella artistica e quella scientifica.
RISPOSTA:
La 1 e la 3 sono parimenti corrette, mentre la seconda presenta un errore di accordo in quale, che deve concordare con discipline, da cui dipende, e non con quella né con varietà. In verità, pur corrette, la prima e la terza frase sono entrambe un po’ faticose e ridondanti, soprattutto la terza, per via della ripetizione di quella. Forse si potrebbe snellire il tutto così: «ci sono diversi ambiti disciplinari: umanistico, artistico e scientifico». In effetti, più che di disciplina, si sta qui trattando di ambiti disciplinari (ciascuno strutturato, al suo interno, in diverse discipline: la letteratura, la filologia ecc.; la biologia, la fisica ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Pongo il seguente quesito. Nella frase “il gatto gli balzò addosso”, il termine “addosso” è da considerarsi avverbio o preposizione impropria riferita a “gli”? Io lo interpreto come avverbio e quindi penso a due complementi diversi in analisi logica, ma la presenza della particella pronominale prima del verbo mi pone qualche imbarazzo. Il problema si ripresenta in frasi come: “il bambino gli andò incontro; gli saltò sopra; gli rimase dietro; le mise sopra un cappello” e simili. Voi come lo interpretate?
RISPOSTA:
I casi portati a esempio rientrano nella tipologia dell’estrazione della preposizione nei casi di locuzione formata da preposizione polisillabica (o impropria, secondo la grammatica tradizionale) e preposizione semplice (cfr. L. Renzi, Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 1988, vol. I, pp. 524-528; si veda anche la voce Preposizione, curata da Hanne Jansen, nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2011, liberamente accessibile online nel sito treccani.it). L’estrazione consiste in questo: in determinate condizioni (per es. in presenza di clitico, o particella pronominale atona), viene eliminata (tecnicamente, estratta; o meglio: viene estratto il sintagma preposizionale, ovvero il complemento: gli = a lui ecc.) la preposizione semplice, mentre il clitico viene anticipato: «il gatto balzò addosso a lui» > «il gatto gli balzò addosso». Quindi addosso, in questo caso (oppure incontro, dietro, contro, accanto ecc.) è una preposizione e non un avverbio. Dunque vi è un solo complemento, non due.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “È meglio ridere che piangere” il soggetto è ridere, è meglio è predicato nominale e che piangere è proposizione comparativa?
RISPOSTA:
Nella frase, o consideriamo entrambi gli infiniti sostantivati, quindi ridere è soggetto e che piangere è complemento comparativo (o secondo termine di paragone), oppure consideriamo entrambi verbi, quindi ridere è una proposizione soggettiva e che piangere è una proposizione comparativa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
So perfettamente che nell’italiano standard l’avverbio sempre va messo sempre dopo il verbo. Vale la stessa cosa per quasi sempre? A me la frase “Quasi sempre mangio carne la domenica” suona naturale, ma non so bene se si rifaccia a un italiano regionale o a quello standard.
Mi autereste a chiarire questo mio dubbio?
RISPOSTA:
Più che in posizione postverbale, l’avverbio sempre si trova naturalmente accanto al sintagma che focalizza, che a sua volta si trova di solito dopo il verbo. Questo avverbio, infatti (come anche, soltanto, neanche e simili), ha il potere di far risaltare qualsiasi sintagma della frase che lo segua; prendendo la sua frase, per esempio, si noti come il picco informativo si sposti allo spostarsi dell’avverbio, anche se il sintagma si trova prima del verbo: “Mangio sempre carne la domenica”, “Mangio carne sempre la domenica” (ovvero ‘soltanto la domenica’), “Sempre carne mangio la domenica”, “Sempre la domenica mangio carne”. Gli avverbi focalizzanti non funzionano con i verbi, e per questo non si trovano davanti ai sintagmi verbali; possono, però, trovarsi tra l’ausiliare e il participio passato di un tempo composto, per focalizzare proprio il participio passato (“Ho sempre amato il calcio”). Quando è composto con quasi, sempre può mantenere la sua funzione di focalizzatore di un sintagma (“Mangio quasi sempre carne la domenica”), oppure può perderla, per divenire un’espansione, ovvero un’informazione aggiuntiva riferita all’intera frase, non a un singolo sintagma. Se serve a questo, l’avverbio può trovarsi all’inizio della frase, come nel suo esempio, o alla fine (“Mangio carne la domenica quasi sempre”), o anche in mezzo, purché sia pronunciato con una cadenza che ne chiarisce la natura di espansione (si noti la differenza tra “Mangio carne quasi sempre la domenica“, in cui quasi sempre focalizza la domenica, e “Mangio carne quasi sempre la domenica”, in cui quasi sempre si riferisce a tutta la frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere se l’espressione per via di può essere usata anche come sinonimo di per merito di, grazie a, oltre che con il significato di a causa di. Ad esempio: “Ha ottenuto un posto di prestigio per via delle sue benemerenze”. Il giudizio veicolato va valutato dal punto di vista del parlante o del soggetto della frase? Se io dico che una persona è stata promossa perché ha goduto di forti raccomandazioni, per me parlante il fatto va visto come negativo; è stato promosso un soggetto che non lo meritava, con danno per la società e forse anche per me personalmente; al contrario per il soggetto della frase è stato sicuramente un vantaggio. In questo caso devo usare per via di o a causa di oppure grazie a o per merito di?
RISPOSTA:
La locuzione preposizionale per via di indica letteralmente che quanto segue è la via, il percorso seguito per arrivare a un risultato; è, quindi, equivalente a per mezzo di. Non è facile, però, distinguere il percorso dalla spinta iniziale che porta a intraprendere il percorso, ovvero la causa; per questo motivo questa locuzione preposizionale ha finito per essere usata per indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno (quindi come sinonimo di a causa di), non il mezzo con il quale questo si è manifestato. Le locuzioni per merito di e grazie a rimangono ancora più ambigue tra la causa e il mezzo: non è possibile stabilirne nettamente il significato. Per quanto, però, queste locuzioni possano indicare che quanto segue è la causa di un fenomeno, al pari di per via di, la sostituzione di per via di con una di queste altererebbe l’interpretazione complessiva della frase, perché per merito di e grazie a veicolano una sfumatura connotativa positiva assente in per via di.
La responsabilità dell’enunciazione, quindi del modo di rappresentare la realtà al suo interno, è sempre dell’emittente (chi parla o scrive). La connotazione positiva o negativa di un fenomeno, quindi, deriva dal punto di vista dell’emittente e dipende da come quest’ultimo sceglie di costruirla (in base, per esempio, alle sue credenze e al contesto in cui si trova). L’emittente, però, può scegliere, con un artificio retorico, di rappresentare un punto di vista evidentemente opposto al proprio, per far risaltare quest’ultimo per contrasto.
Spieghiamo meglio. In ogni frase il senso complessivo è il risultato dell’intreccio dei significati e dei sensi evocati da ciascuna parola o espressione. Nel caso in questione, una frase come “La persona è stata promossa per via di / a causa di forti raccomandazioni” fa interagire l’implicita inevitabile condanna complessiva (in Italia la raccomandazione è ufficialmente considerata una pratica scorretta) con l’oggettività di per via di. Questa rappresentazione sarebbe adatta a una denuncia formale (ovvero che vuole essere rappresentata come formale), in cui possibilmente si portino le prove di tali raccomandazioni e si voglia dimostrare con queste che la promozione è stata un abuso. Se, invece, la denuncia è informale (uno sfogo emotivo o un’accusa di principio, per esempio), sarebbe più adatta la costruzione “La persona è stata promossa grazie a / per merito di forti raccomandazioni”, nella quale la locuzione preposizionale connotata positivamente colorisce l’affermazione di una sfumatura di soggettività. Ovviamente, in questo caso la connotazione positiva è in contrasto con il senso complessivamente negativo della frase, quindi non ci sono dubbi che l’emittente stia usando un artificio retorico per far risaltare, a contrario, la sua posizione. Sta, in altre parole, facendo dell’ironia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’Italiano parlato, verbi che normalmente non avrebbero bisogno di particelle pronominali tendono ad assumerle quando si vuole esprimere un’emozione, di solito positiva, legata all’azione, tipicamente di soddisfazione.
Mangio un panino -> Mi mangio un panino
Bevi un tè! -> Beviti un tè!
In questo caso il pronome indica un complemento di vantaggio (Io mangio un panino per me, bevi un tè per te) oppure un altro complemento?
RISPOSTA:
I verbi formati con la particella pronominale a cui lei si riferisce rientrano nella categoria dei transitivi pronominali (anche detti riflessivi apparenti). In essi la particella pronominale ha la funzione di indicare a volte che l’azione è svolta per il soggetto (mi lavo le mani = ‘lavo le mani a me’) oppure, come nei casi da lei portati, di indicare che l’azione è svolta con particolare partecipazione emotiva da parte del soggetto. Volendo far rientrare queste funzioni nella classificazione dell’analisi logica, nei verbi come lavarsi + complemento oggetto la particella è più facilmente interpretabile come complemento di termine; in quelli come mangiarsi come complemento di vantaggio (come da lei suggerito). Va, però, rilevato che non è affatto necessario fare questa operazione di classificazione, che non aggiunge niente alla comprensione della frase e risulta un po’ logicistica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’espressione godere di un diritto a quale complemento corrisponde di un diritto?
RISPOSTA:
In analisi logica è un complemento di specificazione. Più utile, però, è l’interpretazione data dalla grammatica valenziale, secondo cui si tratta di un complemento oggetto obliquo, ovvero di un sintagma che ha la stessa funzione del complemento oggetto, ma non è diretto, bensì preposizionale, semplicemente perché il verbo richiede tale preposizione (come in fidarsi di, servirsi di, contare su, obbedire a e tanti altri). Il sintagma di un diritto, infatti, è necessario per completare sintatticamente il verbo godere, quindi è un argomento di questo verbo, mentre il complemento di specificazione non è mai un argomento del verbo, perché indica un dettaglio relativo a un sintagma nominale (la casa di Mario, il cancello della scuola, l’introduzione del libro…). Se confrontiamo, inoltre, godere di un diritto con, per esempio, esercitare un diritto, vediamo che la struttura profonda del predicato è identica, perché la preposizione fa da collegamento formale tra il verbo e il sintagma, non contribuisce in alcun modo al significato del sintagma. Infine, un’ulteriore prova del fatto che questo sintagma ha la funzione di un complemento oggetto è che nel parlato e nello scritto trascurato si tende a dimenticare la preposizione, producendo espressioni come godere un diritto (ma anche abusare qualcuno al posto di abusare di qualcuno, obbedire un ordine, invece di obbedire a un ordine). Sebbene queste realizzazioni siano scorrette, bisogna notare che se in queste espressioni la preposizione avesse un significato preciso (e non fosse, invece, un collegamente soltanto formale), non sarebbe possibile escluderla; nessuno, infatti, direbbe o scriverebbe mai la casa Mario invece di la casa di Mario.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sono venuti tutti”, tutti potrebbe sostituire, per esempio, tutti gli invitati, che è soggetto del verbo. Mi chiedo se entrambe le posizioni, pre e postberbale, di tutti pronome siano del tutto valide e se c’è una prevalenza di una posizione rispetto all’altra. A me la posizione postverbale sembra più naturale, ma non so spiegarmi il motivo.
RISPOSTA:
Bisogna fare un ragionamento in due passaggi.
Consideriamo innanzitutto la frase in astratto. Il soggetto può essere collocato quasi sempre in posizione postverbale: con i verbi non inaccusativi (gli inergativi, cioè gli intransitivi con l’ausiliare avere, e i transitivi), però, tale posizione è tendenzialmente focalizzata (il soggetto ha un valore informativo di rilievo), mentre con i verbi inaccusativi (gli intransitivi con l’ausiliare essere) questa posizione è tendenzialmente non marcata. Al contrario, con i verbi non inaccusativi la posizione preverbale è non marcata (al netto di intonazioni speciali), quella postverbale è focalizzata. Si confrontino le seguenti frasi:
1. Al ricevimento tutti hanno mangiato [verbo inergativo] a sazietà;
2. Al ricevimento hanno mangiato tutti a sazietà.
Nella 1 il soggetto preverbale è non marcato; nella seconda è focalizzato, cioè rappresentato come l’informazione più rilevante nella frase. Come si è detto, un’intonazione speciale può marcare il soggetto rendendolo focalizzato anche se è collocato in posizione non marcata: in questo caso un’intonaziona enfatica su tutti nella frase 1 renderebbe il soggetto focalizzato.
Ora si osservino queste due frasi:
3. Dieci persone sono venute alla festa;
4. Sono venute dieci persone alla festa / Alla festa sono venute dieci persone.
In 3 il soggetto preverbale è automaticamente focalizzato; nella coppia 4 è non marcato, perché forma un’informazione unitarica con il verbo (sono venute dieci persone). Si potrebbe al limite focalizzare anche nelle due frasi della coppia 4, ma soltanto pronunciandolo con enfasi.
Nel suo caso, “Sono venuti tutti” ricalca, in astratto, la costruzione della coppia 4; una eventuale costruzione “Tutti sono venuti”, invece, ricalcherebbe la frase 3. Diversamente, “Hanno tutti voti alti” (verbo transitivo) e “Giocano tutti a calcio” (verbo inergativo) ricalcano la coppia 2.
Secondo passaggio. Il pronome tutti, se la frase è inserita in una sequenza, quindi in un testo, assume una funzione anaforica ineludibile, che è associata, al netto di costruzioni particolari della frase e di intonazioni speciali, al valore marcato tematico (il soggetto è rappresentato nettamente come argomento della frase al fine di collegare con chiarezza la frase al discorso sviluppato precedentemente). Tale funzione si manifesterà a prescindere dal verbo della frase, quindi si manterrà anche in posizione focalizzata, anche se il valore focalizzato è nettamente distinto da quello tematico:
5. Gli studenti della terza C sono bravissimi; hanno tutti voti alti!
6. I miei amici fanno sport; giocano tutti a calcio!
Nelle frasi, tutti è anaforico e focalizzato. La focalizzazione non è evidente proprio a causa della funzione anaforica di tutti, che sfuma la rilevanza dell’informazione; essa, però, emerge chiaramente se sostituiamo tutti con un sintagma nominale, privo di funzione anaforica: “Al ricevimento hanno mangiato a sazietà tutti gli ospiti”. Con il sintagma nominale, si noti, sarebbe molto innaturale inserire il soggetto tra il verbo e il sintagma preposizionale (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti a sazietà”), perché tale sintagma risulta fortemente legato al verbo (è un suo circostante). La stessa cosa avviene con i verbi transitivi, che richiedono il complemento oggetto come argomento (“Al ricevimento hanno mangiato tutti gli ospiti la torta”): con i verbi transitivi e i verbi inergativi accompagnati da un circostante, quindi, la posizione postverbale del soggetto è possibile soltanto se tra il verbo e il soggetto si inserisce il complemento oggetto o il circostante.
7. Ho invitato dieci persone alla festa; sono venute tutte.
8. Ho invitato dieci persone alla festa; tutte sono venute.
Nella frase 7 il pronome è anaforico e non marcato; nella 8 è anaforico e focalizzato. Anche in questo caso, sostituendo il pronome anaforico con un sintagma non anaforico si fa emergere il valore informativo del sintagma, come avviene nelle frasi 3 e 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le espressioni per la prima volta (es. “Lo vedo per la prima volta”) e prima del tempo (es. “Invecchiare prima del tempo”) possono essere considerate locuzioni avverbiali di tempo (nel secondo caso come equivalente di anzitempo) o vanno analizzate differentemente? In particolare, prima del + tempo deve altrimenti essere analizzata come locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
Si tratta di locuzioni avverbiali di tempo. Il termine locuzione riguarda esclusivamente il significato dell’espressione, a prescindere dalla forma; a esso si sovrappone in parte il termine, scientificamente più trasparente, sintagma, che riguarda sia la forma sia il significato (è l’unità formalmente più piccola della costruzione linguistica dotata di significato autonomo): molte locuzioni avverbiali e aggettivali hanno la forma di sintagmi preposizionali (tra quelle aggettivali si pensi, ad esempio, a quelle usate per descrivere le colorazioni dei tessuti: a quadretti, a losanghe, a pois…). Locuzioni prepositive (che, per la precisione, si chiamano locuzioni preposizionali) sono, invece, espressioni come davanti a, fuori da, invece di e anche prima di. Come si vede, quindi, nella locuzione avverbiale prima del tempo è contenuta la locuzione preposizionale prima di; mentre, però, la locuzione avverbiale prima del tempo è un sintagma preposizionale, la locuzione preposizionale prima di (così come tutte le altre locuzioni preposizionali) non è un sintagma, perché non è dotata di significato autonomo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Stringo la coppa tra le mani” che funzione logica ha il sintagma tra le mani? Indica uno stato in luogo o un complemento di mezzo?
RISPOSTA:
Indica uno stato in luogo, ma l’interpretazione come complemento di mezzo è legittima. Non è raro che un’indicazione di luogo sia ulteriormente interpretabile come informazione circa un mezzo. Succede, per esempio, in espressioni come in treno, in macchina, in bicicletta…: in una frase come “Vado a scuola in bicicletta”, infatti, il complemento introdotto da in indica il luogo in cui mi trovo mentre vado a scuola, ma quel luogo ha anche la funzione del mezzo con cui copro il tragitto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Può essere ritenuto corretto (o almeno non scorretto) un uso della virgola dopo espressioni come a seguire e al termine?
Ad esempio: “Al termine, consegna della medaglia al vincitore”, “A seguire, assegnazione di una borsa di studio al miglior studente”.
RISPOSTA:
La virgola non è affatto scorretta; al contrario, è preferibile inserirla. In generale, i sintagmi che hanno la funzione di espansioni (ovvero contengono informazioni che non sono collegate al verbo o a un singolo argomento del verbo, ma riguardano l’intera frase) e sono inseriti all’inizio della frase vanno separati con la virgola dal resto della frase. Se, invece, le espansioni si trovano in coda, la virgola è opzionale: “Consegna della medaglia al vincitore al termine” / “Consegna della medaglia al vincitore, al termine”. L’inserimento della virgola accentua la rilevanza informativa dell’espansione. Se, infine, la frase lo consente, l’inserimento dell’espansione al centro della frase richiede tipicamente la separazione dal resto della frase con le virgole di apertura e chiusura: “La medaglia sarà consegnata, al termine, al vincitore”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è capitato di scrivere la seguente frase in un messaggio: “Ti invio il documento di cui mio marito ha parlato alla tua collega”. Nel rileggerlo e analizzandone la sintassi, non riscontro errori; tuttavia, a orecchio, non mi convince.
Se non ci fosse il complemento di termine in coda alla costruzione, non avrei alcun dubbio.
RISPOSTA:
La sintassi della frase è corretta; il complemento di termine retto dal verbo parlare deve necessariamente essere inserito dopo il verbo stesso (l’inversione sarebbe molto innaturale), quindi la posizione in coda alla frase è quasi obbligata. Non è, del resto, possibile eliminarlo, visto che è il secondo argomento del verbo (il cui schema valenziale è, appunto, SOGG. + parlare + ARG. PREPOS.): parlare senza l’indicazione della persona a cui si parla, infatti, prende significati del tutto diversi da quello qui inteso, ovvero ‘avere la facoltà del linguaggio’ (“Mio figlio ancora non parla”), oppure ‘dialogare’ (“Di solito parliamo di calcio”) o anche ‘rivelare un segreto’ (“Il complice ha parlato”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su un esercizio che chiede se in una frase il verbo essere è utilizzato come ausiliare o con significato proprio, La frase è la seguente: “Oggi sono distrutto”.
Trovandomi in una quarta primaria che non conosce ancora le forme passive, e mancando nella frase un agente, ho interpretato la parola distrutto come un participio passato con funzione aggettivale e ho suggerito un significato proprio del verbo essere. Ma il libro, nelle soluzioni, lo interpreta come verbo essere con funzione di ausiliare.
Potete chiarire il mio dubbio?
RISPOSTA:
La soluzione sta nel mezzo: nella frase il verbo essere non è ausiliare, ma non ha neanche un significato proprio, visto che è copula (e la copula, per l’appunto, non ha un significato proprio, ma serve soltanto a collegare il soggetto con la parte nominale del predicato). Se il libro interpreta sono come ausiliare fa una scelta molto strana, per quanto non sbagliata in assoluto. Sono, infatti, potrebbe ben essere l’ausiliare di un verbo passivo, ma se così fosse la frase avrebbe un significato molto innaturale: “Oggi vengo distrutto” o “Oggi mi si distrugge”. Chiaramente, quindi, sono distrutto è predicato nominale e la frase significa “Oggi sono molto stanco”.
Fabio Ruggiano
Quale complemento rappresenta il sintagma introdotto da in base a nella seguente frase?
“È necessario agire in base alle esigenze del volgo”.
L’analisi logica non permette di classificare con la stessa precisione tutti i sintagmi possibili, nonostante la tipologia sia ricca (secondo alcuni persino troppo ricca). Nel caso in questione, il complemento più vicino alla funzione sintattico-semantica svolta dal sintagma in base alle esigenze è quello di causa, visto che si può parafrasare il sintagma con ‘in modo che il nostro agire sia l’effetto di’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio nato da questa conversazione:
Tizio: «Ho una brutta notizia da darti?»
Caio: «Perchè? Ne hai anche (di) belle?
In questo caso il di è di troppo e quindi impossibile?
RISPOSTA:
Innanzitutto non sempre un sintagma di troppo è impossibile. Nella lingua d’uso comune è frequente l’inserimento nelle frasi di sintagmi superflui dal punto di vista sintattico, ma utili sul piano testuale o comunicativo (per esempio perché enfatizzano la partecipazione emotiva del parlante). In altri casi ancora il sintagma superfluo deriva dall’attrazione di un altro elemento della frase, ma rimane giustificabile perché non rende la frase ambigua e, anzi, la sua sottrazione rende la frase meno naturale. In questo caso il di è superfluo per attrazione, perché serve a costruire un sintagma partitivo non necessario attratto dall’altro sintagma partitivo presente nella frase, costruito con ne. La domanda, in altre parole, si può parafrasare così: “Hai anche alcune tra le notizie tra quelle che sono belle?”, mentre è sufficiente “Hai anche alcune tra le notizie che sono belle?” (ovvero “Ne hai anche belle?”). La domanda, pertanto, può ben essere costruita come “Ne hai anche belle?”. L’inserimento di di, però, non danneggia in alcun modo la sintassi e, per la verità, si può anche giustificare sul piano sintattico: in teoria, infatti, le notizie belle sono un sottogruppo delle notizie, per cui è possibile indicare le notizie possedute dall’interlocutore come una parte delle notizie belle, che a loro volta sono una parte delle notizie.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali frasi sono corrette?
1a. Chissà se esistano i fantasmi
1b. Chissà se esistono i fantasmi
Oppure:
2a. Alcuni mi chiedono se esistano i fantasmi
2b. Alcuni mi chiedono se esistono i fantasmi
Inoltre:
3a. Mi piace un sacco le persone
3b. Mi piacciono un sacco le persone
RISPOSTA:
Le frasi 1a, 1b, 2a e 2b sono tutte varianti ben formate. Si tratta di interrogative indirette che ammettono sia il congiuntivo sia l’indicativo. La soluzione con il congiuntivo è più aderente alla grammatica standard ed è preferibile in contesti di alta formalità; quella con l’indicativo invece è meno formale, ma comunque corretta.
Fra 3a e 3b la variante corretta è soltanto 3b. Il verbo piacere è intransitivo e non può reggere un complemento oggetto; una delle particolarità di questo verbo (le cui sfumature si possono approfondire qui) è il soggetto, che solitamente si trova posposto al verbo e sembra comportarsi come un complemento oggetto. In questo caso, il soggetto è le persone, quindi l’accordo grammaticale andrà al plurale piacciono. La frase riscritta in altro modo sarebbe: “Le persone piacciono a me un sacco”. Aggiungo, come nota di chiusura, che un sacco, che qui equivale a ‘molto’, ha valore avverbiale ed è tipico del linguaggio colloquiale.
Raphael Merida
QUESITO:
A volte ho difficoltà nel riconoscere se uno e una sono articoli indeterminativi o aggettivi. Per esempio nella frase: “Sono andato a Pisa per una visita”, in analisi logica per una visita = complemento di fine più attributo, oppure una è semplicemente articolo?
RISPOSTA:
In italiano è possibile distinguere l’articolo indeterminativo dall’aggettivo numerale soltanto considerando il contesto della frase. Diversa la situazione di altre lingue, nelle quali le due parole hanno forme diverse; per esempio l’inglese, in cui un’espressione come a ticket for an hour suona molto bizzarra, perché significa ‘un biglietto per un’ora qualsiasi’, mentre del tutto normale è a ticket for one hour, cioè ‘un biglietto per un’ora, valido per un’ora’.
Un modo molto pratico per accertarsi se uno sia da considerarsi articolo o numerale è provare a parafrasarlo con uno indeterminato e con uno solo. Se la parafrasi più calzante è la prima saremo davanti a un articolo, se è la seconda avremo un numerale. Nella sua frase una visita è da intendersi probabilmente come ‘una visita indeterminata’, non come ‘una sola visita’, quindi una è articolo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Mi piacciono molto i romanzi, soprattutto quelli di avventura”, di avventura è un complemento di specificazione o di argomento?
RISPOSTA:
Entrambe le risposte sono giustificate. Volendo essere pignoli, possiamo osservare che un romanzo di avventura non ha come argomento l’avventura, ma racconta una storia avventurosa, ovvero caratterizzata da avventurosità. Propenderei, pertanto, per il complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi aiutereste nell’analisi logica della seguente frase?
Non credo che mangiare questa pizza possa farti bene, ma decidi tu.
RISPOSTA:
L’analisi logica considera soltanto la frase semplice; la sua frase, pertanto, deve essere divisa in quattro parti, corrispondenti a quattro frasi semplici, per poter essere analizzata con questa procedura: non credo | mangi questa pizza | ciò non può farti bene | decidi tu. Nella prima frase il soggetto è io e il predicato verbale è non credo; nella seconda frase il soggetto è tu, il predicato verbale è mangi, che regge il complemento oggetto con attributo questa pizza; nella terza frase il soggetto è ciò, il predicato verbale è non può fare bene (considerando fare bene alla stregua di un’unità lessicale, equivalente a giovare), che regge il complemento di termine (o di vantaggio) ti; nella quarta frase il soggetto è tu e il predicato verbale è decidi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo che “cui” si accorda sia con il singolare che con il plurale, quindi vorrei chiedere se c’è differenza tra le seguenti due frasi o se sono intercambiabili:
Vorrei persone con cui essere me stesso.
Vorrei persone con le quali essere me stesso.
RISPOSTA:
Le due forme sono sovrapponibili: cui, in questo caso, si riferisce solamente a persone, quindi non crea equivoci di numero o di genere grammaticale.
Raphael Merida
QUESITO:
Quale di queste due espressioni è corretta:
“Sconcerta il nostro (come esseri umani) dibattersi o dibatterci per cose banali”.
RISPOSTA:
Il verbo dibattersi, intransitivo pronominale, viene usato all’interno dell’esempio proposto con la funzione di sostantivo, preceduto da articolo. Entrambe le forme del verbo sono possibili, ma hanno significati diversi: il dibattersi è impersonale, ed equivale a ‘il fatto che ci si dibatta’; il dibatterci contiene il pronome di prima persona plurale, quindi potremmo parafrasarlo come ‘il fatto che noi ci dibattiamo’. L’aggettivo possessivo nostro produce, pertanto, una precisazione determinante quando si unisce a dibattersi, perché personalizza di fatto la forma impersonale (il nostro dibattersi = ‘il fatto che noi ci dibattiamo’); quando si unisce a dibatterci, invece, produce soltanto un rafforzamento del concetto già espresso dal pronome ci. Tale rafforzamento è a rigore superfluo, ma è del tutto ammissibile, specie all’interno di un contesto informale, perché conferisce alla proposizione una maggiore enfasi, e perché è giustificato proprio dalla presenza di nostro, che è percepito come semanticamente coerente con ci (laddove la combinazione di nostro e dibattersi è sentita come insufficiente per esprimere la personalità dell’azione, ovvero chi sia il soggetto logico del dibattersi).
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere quale sarebbe il verbo corretto da usare in questa frase:
“Il ricordo del tuo luminoso sorriso e del tuo buon cuore sarà/saranno per sempre la nostra forza”.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è il ricordo, quindi il verbo va concordato alla terza persona singolare: sarà. Il verbo sarebbe al plurale se il soggetto fosse il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore, per esempio se la frase fosse costruita così: “Il tuo luminoso sorriso e il tuo buon cuore saranno per sempre la nostra forza”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non riesco a capire bene quale ausiliare usare con il verbo volare se non si è in presenza di un moto a luogo e da luogo. Come posso comportarmi in queste frasi?
1. Questo è l´aereo su cui ho volato/sono volato.
2. Ho volato in Italia (qui inteso come stato in luogo).
3. Cosa ha volato/è volato in cielo?
4. Sono volato/ho volato (con il deltaplano).
5. L’uccellino ha volato/è volato (ma non via).
6. I partecipanti sono volati/hanno volato sulla pista (inteso come stato in luogo).
Quanto al verbo vincere, esso regge la preposizione contro?
RISPOSTA:
Il verbo volare può essere costruito con entrambi gli ausiliari quando si riferisce a persone (che possono volare grazie all’uso di mezzi di trasporto aerei o in significati figurati), di animali dotati di ali e di veicoli deputati al volo. In questi casi avere è il più utilizzato, mentre è preferibile utilizzare essere quando il verbo è accompagnato da complementi di moto da luogo o a luogo, in quasi tutti i significati figurati e per le azioni in corso di svolgimento. Di conseguenza, negli esempi 1, 2, 4 e 5 sarebbe preferibile selezionare l’ausiliare avere. Al contrario, richiedono l’ausiliare essere l’esempio 3, in quanto qui il soggetto potrebbe essere un oggetto che si libra in volo sospinto dal vento o altre forze, e l’esempio 6, perché qui volare è usato con il significato figurato di ‘muoversi velocemente’ (lo stesso che si userebbe in frasi come “Sono volato, ma sono arrivato comunque tardi”).
Nell’esempio 5 la scelta dell’ausiliare influisce sul significato della frase: ha volato significa ‘è riuscito a volare’; è volato, preferibilmente seguito da un sintagma che indica il luogo (via, lontano, fuori dalla finestra…), significa ‘si è spostato in volo’.
In quanto alla seconda domanda, il verbo vincere può essere transitivo (vincere la partita), ma è più spesso intransitivo (vincere a dadi, di due punti, con l’inganno). In entrambi i casi può essere accompagnato da complementi indiretti che indicano l’avversario sconfitto e sono costruiti con con o contro. Quando è transitivo, inoltre, l’avversario può essere costruito come complemento oggetto: vincere il nemico.
Francesca Rodolico
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato usare “proprio” al posto di “nostro” come nell’esempio che segue?
“E per colpa tua, mettiamo anche oggi in dubbio la propria conoscenza”.
RISPOSTA:
Proprio può sostituire soltanto i possessivi di terza persona suo e loro. La frase proposta quindi non è corretta perché propria non si riferisce a un soggetto di terza persona (“E per colpa tua, Mario anche oggi mette in dubbio le sue/proprie conoscenze”), ma a un soggetto di prima persona plurale: “E per colpa tua, (noi) mettiamo anche oggi in dubbio la nostra conoscenza”.
Raphael Merida
QUESITO:
Chiedo delucidazioni sull’uso dell’espressione proseguire gli studi.
Queste forme sono tutte corrette e alternative?
PROSEGUIRE GLI STUDI AL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI PRESSO IL CORSO DI STUDI…
PROSEGUIRE GLI STUDI NEL CORSO DI STUDI…
RISPOSTA:
La variante più naturale è nel corso di studi. Accanto a questa si può usare presso il; presso, infatti, è usato comunemente con il significato di ‘in, dentro’, sebbene significhi propriamente ‘vicino a’ e sebbene l’uso con il significato di ‘in’ sia più adatto all’ambito burocratico. La scelta più insolita sarebbe al, visto che la preposizione a _è preferita per introdurre ambienti associati fortemente a specifiche esperienze (_a casa, a scuola, all’università) oppure ambienti dai confini non facilmente determinabili (a Roma, a Venezia, ma in Italia). Possibile sarebbe anche riformulare la frase inserendo il verbo iscriversi, per esempio così: proseguire gli studi iscrivendosi al corso di (o anche nel corso). In questo caso la preposizione a _(o _in) sarebbe richiesta direttamente dal verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le città iniziano ad occuparsi da loro delle leggi”.
Mi chiedo se nella frase da loro sia corretto; a me verrebbe spontaneo utilizzare da sé, anche se si tratta di plurale.
Qual è la forma corretta?
RISPOSTA:
La forma corretta è da sé: questo pronome, infatti, sostituisce sia lui/lei, sia loro quando si riferisce al soggetto. Nella frase in questione, la sostituzione del pronome con loro è favorita da due fattori: sé è associato più facilmente al singolare che al plurale; non è presente un altro possibile referente del pronome. La sostituzione sarebbe, infatti, ben più grave in una frase come “Le città greche iniziano a fare alleanze con città asiatiche; iniziano anche ad approvvigionarsi di merci da loro”, in cui loro sarebbe certamente riferito dal lettore alle città asiatiche, non alle città greche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un quesito (sperando sia in linea con il tipo di argomenti da voi trattati).
In navigazione si usa il termine ‘doppiare’ quando si vuole esprimere l’azione di superare/passare un capo con un’imbarcazione; ad esempio “doppiare Capo Horn in barca a vela è pericoloso”.
Il mio dubbio riguarda l’origine della parola italiana: trovo anti-intuitiva la parola ‘doppiare’ che assomiglia (e derivare) da “doppio, due volte” in relazione all’azione che esprime (superare un capo), sopratutto se paragonata all’inglese dove si utilizza il verbo ‘round’ (round girare/passare attorno).
RISPOSTA:
Doppiare ‘oltrepassare, superare un ostacolo’ è un tecnicismo marinaresco entrato in italiano in epoca rinascimentale come ampliamento semantico (o prestito semantico) del verbo doppiare, già esistente con il significato di ‘rendere qualcosa due volte maggiore, raddoppiare’. L’origine del prestito è lo spagnolo doblar, che all’epoca aveva già il significato di ‘oltrepassare un ostacolo’. Spiegare perché doblar avesse sviluppato questo significato non è facile: probabilmente dal significato del latino volgare duplare ‘rendere doppio, raddoppiare’ si è sviluppato il significato ‘piegare’ (perché quando si piega una linea si ottengono due segmenti distinti, quindi si raddoppia la linea). Questo significato, però, può essere riferito alla rotta necessaria per superare un ostacolo, ma non all’ostacolo stesso: è la rotta, cioè, che viene doppiata ‘piegata’, non l’ostacolo. Per spiegare l’uso effettivo del verbo (doppiare un ostacolo, non doppiare una rotta), quindi, dobbiamo ipotizzare un ulteriore slittamento semantico, da ‘piegare’ a ‘girare, aggirare’. I verbi to round (inglese) e umschiffen ‘circumnavigare, navigare intorno’ (tedesco) conferma, del resto, che l’atto del superare un ostacolo piegando la rotta della nave è comunemente definito come ‘girare, aggirare’.
A margine va detto che negli sport su pista il verbo doppiare è usato come estensione del tecnicismo marinaresco, e infatti ha il significato di ‘superare, oltrepassare un concorrente’; non c’è in questo significato alcun riferimento al ‘raddoppiamento’ (quando si doppia un concorrente non si raddoppiano i giri conclusi, ma semplicemente se ne aggiunge uno).
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Perché nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio”, un genio è complemento predicativo dell’oggetto? Lo capirei se ci fosse scritto “Molti ritengono Steve Jobs un genio”.
Riesco a fare l’analisi del periodo ma quando provo a fare l’analisi logica non mi ritrovo più:
Molti: sogg.
trovano: p. verbale
Steve Jobs: c. ogg.
che (il quale): sogg.
sia stato: copula
un genio: c. pred. del soggetto
Evidentemente così non va.
RISPOSTA:
L’analisi logica si applica alle frasi semplici. Nella frase da lei proposta, invece, ci sono due proposizioni legate da un rapporto di subordinazione. A causa di questo rapporto specifico, di tipo completivo, il soggetto della proposizione subordinata (Steve Jobs) è nello stesso tempo il complemento oggetto “logico” del verbo della proposizione reggente, tanto che lei stesso ha riformulato la frase trasformando la subordinata oggettiva in un complemento oggetto seguito da un complemento predicativo dell’oggetto. La frase, insomma, non può essere analizzata con gli strumenti dell’analisi logica senza incappare in questo dilemma.
Va sottolineato, per chiarezza, che nella frase “Molti trovano che Steve Jobs sia stato un genio” che non è un pronome relativo (come è indicato nella sua analisi, effettivamente impossibile), ma è una congiunzione che introduce la proposizione oggettiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si svolge l’analisi logica di una frase come “Eccolo!”?
Da qui la mia domanda: si può svolgere l’analisi logica di una frase nominale, visto che manca il predicato? Nell’esempio citato, bisogna considerare sottinteso un predicato? Come si può analizzare (se si può)?
RISPOSTA:
L’analisi logica è una procedura con molti limiti. Già nelle frasi standard produce a volte risultati insoddisfacenti (per esempio nella classificazione degli oggetti obliqui, come in obbedire alle leggi); si rivela, inoltre, inadeguata, e persino inutilizzabile, per capire la struttura degli enunciati che infrangono le regole sintattiche standard, come le frasi marcate (per esempio quelle dislocate) o le frasi nominali. Bisogna ammettere, comunque, che anche gli altri tipi di analisi sintattica (la grammatica valenziale e quella trasformazionale, per esempio) non sono attrezzati per spiegare la struttura degli enunciati sintatticamente imperfetti. Gli enunciati, è bene ricordare, sono costruzioni linguistiche legittimate dalla situazione in cui vengono realizzate; a volte coincidono con frasi standard (e in questi casi possono essere analizzati con le categorie dell’analisi logica), altre volte sfuggono alle regole della sintassi standard. Eccolo è un esempio di enunciato sintatticamente imperfetto ma comunicativamente funzionale: potrebbe essere usato in risposta a una domanda banale come “Dov’è il telecomando?” eppure manca dell’elemento imprescindibile per la sintassi: il verbo. Né c’è modo di riconoscere accanto a Eccolo un verbo sottinteso, rispetto al quale individuare il soggetto. Costruzioni come questa, o Bravo!, Forza!, Su, coraggio e simili, sono opache agli occhi dell’analisi logica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidero porre una domanda in merito a un tema molto discusso: quale tipo di concordanza usare. Ad esempio:
Mi serve un mucchio di oggetti.
Mi servono un mucchio di oggetti.
La prima frase presenta una concordanza di tipo grammaticale. La seconda frase di una concordanza “a senso”.
Ora sono quasi sicuro che per l’italiano formale si dovrebbe usare la concordanza grammaticale; tuttavia suona meglio a mio avviso la concordanza a senso. La concordanza grammaticale sembra quasi stonare.
RISPOSTA:
La concordanza grammaticale in questi casi può sembrare “stonata” rispetto alla concordanza a senso perché si scontra con la rappresentazione logica soggiacente (un mucchio di oggetti = molti oggetti). Tale rappresentazione è talmente evidente che la concordanza a senso è percepita come più naturale rispetto a quella rispettosa della regola dell’accordo tra il soggetto e il verbo. Per questo motivo essa è considerata generalmente accettabile, tranne che in contesti scritti formali.
Per una spiegazione più dettagliata può leggere questa risposta già presente in archivio.
Fabio Ruggiano
Francesca Rodolico
QUESITO:
Nella frase “… a cui vorresti rivolgerti tu” il tu è pleonastico o si può considerare un rafforzativo?
RISPOSTA:
Non è pleonastico: il soggetto pronominale ribadito a destra della frase serve a sottolineare che la volontà di rivolgersi a quel qualcuno è proprio del soggetto, non di altri. Questa sottolineatura può essere utile per esempio se il parlante non condivide tale volontà, oppure se vuole elogiarla, perché altri avrebbero manifestato una volontà più comoda (ovviamente, dipende tutto dal contesto). L’esplicitazione del soggetto pronominale non sarebbe pleonastica neanche se questo fosse collocato prima del verbo: “… a cui tu vorresti rivolgerti”. In questo caso il pronome richiamerebbe al centro della discussione la responsabilità del soggetto nell’esprimere la volontà, senza, però, veicolare sfumature contrastive. Tali sfumature, però, sarebbero veicolate anche con il soggetto preverbale, se la frase fosse pronnciata con un’enfasi intonativa sul pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sottoporre un quesito in seguito a una breve discussione nata dalla diversa percezione dell’uso del passato remoto nella frase seguente:
«Io comprai gli armadi lunedì.»
Mi è stato chiesto per quale motivo la gente di origini meridionali è così incline all’utilizzo del passato remoto quando bisogna descrivere un’azione collocata in un passato non lontano.
Questa domanda mi ha stupito, non tanto perché inaspettata, ma perché non notavo nessuna forma colloquiale in quella frase così comune. Riflettendoci qualche istante, ho risposto dicendo che non c’era niente di sintatticamente errato nella frase, che l’uso del passato remoto dipende dalle sensazioni che il parlante vuole trasmettere.
Mi è stato risposto che si tratta pur sempre di un avvenimento distante temporalmente soltanto quattro giorni, e non quattro anni.
Tornandoci a riflettere mi ritrovo sommerso di dubbi. In effetti quella frase così “normale” mi sembra problematica e mi chiedo:
1. se c’è un passato più indicato per descrivere un fatto avvenuto pochi giorni prima.
2. Se è consigliabile, quando non esiste possibilità di fraintendimenti, non specificare il soggetto.
3. Dove è meglio collocare il complimento di tempo in una frase. E nel caso di giorni della settimana se è più opportuno affiancarli all’aggettivo scorso o aggiungere una preposizione:
«(Io) comprai gli armadi (di) lunedì»
«(Io) ho comprato gli armadi (di) lunedì»
«(Io) avevo comprato gli armadi (di) lunedì»
RISPOSTA:
L’italiano contemporaneo sta lentamente abbandonando il passato remoto in favore del passato prossimo. Questa semplificazione del sistema verbale dipende da ragioni morfologiche (il passato prossimo si forma in modo più regolare del passato remoto), ma soprattutto psicologiche. Il passato prossimo, infatti, è il tempo della vicinanza psicologica, mentre il passato remoto è quello della lontananza. Con psicologico si intende che, come dice lei, la distanza dell’evento dal presente dipende da come il parlante vuole rappresentare l’evento, ovvero dalla sua volontà di lasciare intendere che l’evento ha prodotto effetti sul presente (in questo caso userà il passato prossimo) o no (passato remoto). Come si può intuire, nella comunicazione quotidiana gli eventi di cui si parla hanno quasi sempre rilevanza attuale, e da qui deriva la propensione per il passato prossimo, a prescindere dalla distanza temporale oggettiva. Per esempio, è più comune una frase come “Ci siamo conosciuti 50 anni fa” piuttosto che “Ci conoscemmo 50 anni fa”. Si aggiunga che un evento avvenuto poco tempo prima ha un’alta probabilità di essere ancora attuale; nel suo caso, per esempio, lei avrà probabilmente informato il suo interlocutore di aver acquistato gli armadi per ragioni legate alla sua situazione presente. L’acquisto, in altre parole, non è stata un’azione senza conseguenze, ma ha provocato riflessi sul presente, che sono rilevanti nel discorso che il parlante sta facendo.
Quello che vale per l’italiano standard non sempre vale per l’italiano regionale, perché in questa varietà l’italiano entra in contatto con il dialetto, con effetti di adattamento reciproco. Molti dialetti meridionali non hanno una forma verbale comparabile con il passato prossimo (si ricordi che tale forma è un’innovazione del fiorentino, assente in latino), ma usano per descivere gli eventi passati eclusivamente il passato semplice (proprio come in latino), che è comparabile con il passato remoto. Avviene, allora, che un parlante meridionale che usa l’italiano, ma è influenzato dal modello soggiacente del proprio dialetto di provenienza, tenda a sovraestendere l’uso del passato remoto rispetto a quanto è tipico dell’italiano standard (nonché degli italiani regionali di tutte quelle regioni in cui si parlano dialetti dotati di tempi composti per il passato). Questa tendenza si indebolisce quanto più il parlante ha una forte competenza in italiano standard, e quanto più si trova in una situazione di formalità. Può capitare, quindi, che un parlante meridionale, anche colto, usi qualche passato remoto in più in contesti informali e, viceversa, che un parlante mediamente colto rifugga dal passato remoto, che percepisce come marcato regionalmente, in contesti formali.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda, la risposta è sì: il soggetto può essere omesso (e in alcuni casi è obbligatorio ometterlo) se è rappresentato da un pronome non focalizzato, cioè non necessario per conferire alla frase una certa sfumatura. Per esempio, se comunicare chi ha comprato l’armadio non è rilevante si potrà dire “Ho comprato l’armadio”; se, invece, è rilevante, per esempio per sottolineare che non è stato qualcun altro a farlo, si dirà “Io ho comprato l’armadio” (con enfasi intonativa su io).
Per la terza domanda, la posizione del complemento di tempo dipende dal rilievo che si vuole dare a questa informazione: più l’informazione si sposta a destra della frase, più diviene saliente. Per esempio, in “Lunedì ho comprato i divani” l’informazione di quando è avvenuto l’evento è poco rilevante; in “Ho comprato i divani lunedì”, al contrario, è molto rilevante. Sulla questione della preposizione la rimando a quest’altra risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale sarebbe la forma corretta?
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Un esempio sono Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Ne sono un esempio Milano e Roma”
“Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Esempi sono Milano e Roma”
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte corrette. I dubbi legati a questa frase riguardano da una parte la concordanza tra il soggetto e il verbo, dall’altra l’inserimento del pronome anaforico ne. Per quanto riguarda il primo dubbio, la regola richiede che il verbo di una frase concordi con il soggetto, ma nel caso in cui nella frase ci sia un predicato nominale con il nome del predicato rappresentato da un sintagma nominale o da un pronome di una persona diversa dal soggetto, la concordanza del verbo con il soggetto può risultare, per quanto in astratto corretta, innaturale. La soluzione spesso adottata, allora, è concordare il verbo essere con il nome del predicato, come nella prima variante della frase da lei proposta. La stessa cosa succederebbe, per esempio, in una frase come “Il problema siete voi” (non *”Il problema è voi”). Si noti che questa soluzione può essere considerata a tutti gli effetti regolare, visto che il ruolo della parte nominale e quello del soggetto sono intercambiabili (“Un esempio sono Milano e Roma” può essere riformulata come “Milano e Roma sono un esempio”). In alternativa, se la frase lo permette si può far coincidere il numero del soggetto e quello della parte nominale, come nella terza variante della sua frase.
Per quanto riguarda l’inserimento di ne, è una scelta possibile ma non necessaria: il pronome riprende come incapsulatore tutta la frase precedente, trasformando la frase in qualche modo in “Le città presenti nel grafico sono molto popolate. Del fatto che le città presenti nel grafico sono molto popolate sono un esempio Milano e Roma”. L’accostamento delle due frasi, però, è sufficiente a permettere al lettore di ricavare facilmente il collegamento logico; la coesione, pertanto, è garantita anche senza il pronome.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei capire se siano corrette queste sequenze di pronomi:
Io o tu (o te) o Tu o io (o me)?
Io e tu (o te) o Tu e io (o me)?
RISPOSTA:
Io o tu e Tu o io sono in astratto le uniche sequenze corrette quando i due pronomi fungono da soggetto. In realtà la variante io o te è ammissibile (sebbene meno formale), e persino preferita dai parlanti, perché la forma del pronome oggetto è sfruttata per segnalare che il secondo soggetto è focalizzato (io o TE). Più discutibile la variante tu o me, per la quale vale la stessa considerazione fatta per io o te, ma che risulta essere meno favorita dai parlanti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non ho ben capito se il verbo interessare regge il complemento oggetto o il complemento di termine. Ad esempio nella frase «Mi interessa questo libro», «mi» che complemento è?
Quanto all’uso di anch’io/neanch’io, vanno bene queste frasi?
«Non vado al cinema». «Anch´io non vado» / «Neanch´io».
RISPOSTA:
Interessare può essere usato sia transitivamente (cioè col complemento oggetto: interessare qualcuno), sia intransitivamente (cioè col complemento di termine: interessare a qualcuno). Nonostante le sottili differenze semantiche rilevate dai vocabolari (interessare + compl. oggetto ha un valore meno intenso, e può significare sia ‘incuriosire’ sia ‘riguardare’: «l’esenzione interessa soltanto i maggiori di 60 anni»; interessare + compl. di termine significa ‘avere a cuore’: «a Laura interessava molto Raphael»), i due usi sono spesso intercambiabili, anche se la costruzione con il complemento di termine (cioè di interessare come verbo intransitivo) è molto più frequente. Per cui una frase come «Mi interessa questo libro» può valere sia ‘interessa me’, sia, più probabilmente ‘interessa a me’, tanto più se il complemento è espresso dal pronome clitico mi, ti ecc., che ha la medesima forma all’accusativo e al dativo. La costruzione transitiva, a differenza di quella intransitiva, può essere usata anche in riferimento alle cose: «l’interruzione interessa la strada statale 113» (e non *alla strada).
Anche non non è corretto in italiano. Con la negazione anche si trasforma in neanche, neppure o nemmeno: «Neanch’io» / «Neanche io varo al cinema» / «Non vado al cinema neanche io».
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi chiedevo se tutte e 3 le espressioni possano essere considerate corrette:
Si accoglie il paziente X, SU SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
Si accoglie il paziente X, SOTTO LA SEGNALAZIONE del medico curante Y, per sintomatologia Z.
RISPOSTA:
Tutt’e tre le espressioni sono corrette, ma la prima (su segnalazione) è la variante più attestata. La preposizione su introduce una determinazione di modo; espressioni come su segnalazione, su indicazione, su richiesta ecc. possono essere parafrasate come attraverso la segnalazione, in seguito alla segnalazione, dopo la richiesta. La mancanza dell’articolo nella sequenza preposizione + nome indica quasi sempre la cristallizzazione di un’espressione (su segnalazione, prendere per buono ‘accettare come vero’, a scuola ecc.). Diversamente da su (in cui la presenza dell’articolo cambierebbe il senso della frase: sulla segnalazione di…), nella locuzione sotto (la) segnalazione è possibile aggiungere o no l’articolo senza che il significato cambi; in questa espressione, quindi, il processo di cristallizzazione è in corso. La preposizione impropria sotto si comporta allo stesso modo di su in altre espressioni, come sotto cauzione (“È stato liberato sotto cauzione”), sotto commissione (“Ha eseguito il lavoro sotto commissione”), o quando assume il significato di ‘condizione di debolezza dovuta a fattori esterni’, come nelle formule sotto accusa, sotto pressione ‘costretto a un’attività impegnativa e costante’ ecc.
Per completezza va ricordato che oltre a su e sotto anche la preposizione impropria dietro può essere usata per formare espressioni equivalenti (dietro richiesta, dietro segnalazione ecc.). Quest’ultima preposizione è marcata da alcuni vocabolari contemporanei come appartenente all’uso burocratico.
Raphael Merida
QUESITO:
“Le ricordo che, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”
Vorrei sapere se il periodo è sintatticamente corretto, oppure se sarebbe preferibile evitare di “spezzare” la proposizione principale con una subordinata (in questo caso, “qualora ci fosse…”).
RISPOSTA:
La frase è ben costruita e l’inciso, segnalato opportunamente dalle due virgole, non crea problemi alla comprensione del messaggio. Tuttavia, il testo, che sembra di natura amministrativa, può essere semplificato:
- spostando l’inciso all’inizio o alla fine del periodo, in modo tale da non spezzare la proposizione principale (“Qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.” / “Le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici, qualora ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale”);
- sostituendo la congiunzione composta qualora con quella semplice se (“Se ci fosse bisogno di contattarci in tempo reale, le ricordo che al momento della sottoscrizione del modulo le abbiamo indicato i nostri recapiti telefonici.”);
- riducendo le informazioni non necessarie o ridondanti (in tempo reale non si presta bene a designare un servizio telefonico; semmai, potrebbe essere attribuito a un servizio di messaggistica istantanea).
Raphael Merida
QUESITO:
È corretta questa frase?
“Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che coloro che anche ultimissimi saranno premiati”.
Il senso è che anche gli ultimi arrivati in una gara porteranno a casa qualcosa.
RISPOSTA:
La frase non è corretta dal punto di vista sintattico e necessita di essere riscritta. Suggerirei alcune riscritture semplificate:
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che anche gli ultimissimi saranno premiati”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu che saranno premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu coloro che saranno arrivati anche ultimissimi premiati”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati coloro che saranno arrivati anche ultimissimi”;
- “Sta’ tranquillo: vedrai anche tu premiati anche coloro che saranno arrivati ultimissimi”.
Raphael Merida
QUESITO:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
Vi chiedo se è corretto l’uso dell’aggettivo (in questo caso “incondizionati”) dopo il dimostrativo “quelli”, che, in tale costruzione, se non vado errata assume la funzione di pronome.
Vi chiedo infine se sia possibile, per ottenere particolari effetti retorici, isolare l’aggettivo tra due virgole, creando così un inciso:
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli, incondizionati, di quando era giovane.”
“Era uno slancio limitato, che non era collegato a quelli incondizionati di quando era giovane.”
RISPOSTA:
La frase è corretta. Il referente slancio è singolare ma può capitare che un elemento anaforico (in questo caso il pronome quelli) rimandi a un referente con il quale non è grammaticalmente in accordo, senza che questo si configuri come un errore. L’aggettivo incondizionati deve accordarsi, naturalmente, con il pronome cui si riferisce, cioè quelli. Inoltre, l’aggettivo isolato tra due virgole crea una doppia focalizzazione nella sequenza narrativa. Dei due fuochi (“quelli” e “incondizionati”) il più marcato è il secondo grazie all’effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (gli slanci di una volta non erano semplici slanci; erano incondizionati).
Raphael Merida
QUESITO:
In frasi come la seguente, il valore del costrutto mi sembra temporale o causale:
- Alla mia vista, è rimasto sorpreso = quando mi ha visto è rimasto sorpreso.
Nelle seguenti frasi mi sembra più vicino ad un complemento di luogo che temporale o causale:
- È davvero piacevole alla vista.
- Si trova tutto alla tua vista = si trova tutto davanti a te.
- È stato messo più alla vista di qualsiasi altra cosa.
Nella 4. si potrebbe utilizzare anche “in vista”, che infatti suona (quantomeno a me) più naturale.
In ogni caso, è un ragionamento corretto il mio o ci sono delle falle evidenti?
RISPOSTA:
- Alla vista assume un valore temporale-causale, perfettamente traducibile come ha fatto lei (“quando mi ha visto, è rimasto sorpreso”, oppure “a causa del fatto che mi ha visto, è rimasto sorpreso”).
- Si tratta di un complemento di vantaggio (“è piacevole [a vantaggio di che cosa?] alla vista”).
- Indica un complemento di stato in luogo (“si trova tutto [dove?] alla tua vista).
- Alla vista coincide con la locuzione in vista; tuttavia, riformulerei la frase 4 cambiando il verbo mettere, che richiama alla mente la locuzione cristallizzata mettere in (bella) vista ‘esporre qualcosa alla vista di tutti’. Sostituendo il verbo mettere con esporre possiamo scrivere la seguente frase senza alcuna ambiguità nell’uso delle locuzioni alla vista/in vista: “È stato esposto alla vista più di qualsiasi altra cosa”.
L’ultima frase, in cui alla vista o in vista rappresenterebbe comunque un complemento di stato in luogo, evidenzia bene un concetto già espresso più volte in molte risposte di DICO (può cercare le varie risposte scrivendo la parola chiave complementi): per comprendere le strutture sintattiche e lessicali di una lingua, alle volte, non è necessario applicare acriticamente la tassonomia dei complementi a tutti i sintagmi della frase, ma occorre proporre diversi tipi di analisi che tengano conto dei parametri sintattici e semantici della frase.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso della virgola. Sono abituata a scrivere frasi del tipo “vi comunico, con grande piacere, che oggi pomeriggio…”. È corretto mettere “con grande piacere” tra le virgole? Io lo considero un inciso.
RISPOSTA:
Nel suo esempio le virgole sono corrette, così come sarebbe corretta la variante senza virgole. La scelta di separare dal nucleo della frase un complemento con funzione di espansione (con grande piacere, in questo caso) è arbitraria. Sarebbe indispensabile, invece, se l’inciso fosse composto da una subordinata che precede la proposizione principale: «Manifestando il mio grande piacere, vi comunico che…».
Raphael Merida
QUESITO:
Potreste indicarmi quale delle due versioni che seguono sia più corretta?
- Mi ha chiamato o mi ha chiamata (se donna);
- Ci hai inibito o ci hai inibiti?
RISPOSTA:
Tutte le varianti sono corrette. In casi come questi, cioè quando le particelle pronominali ricoprono la funzione di complemento oggetto e si trovano prima del verbo, è possibile scegliere liberamente l’accordo sia per il genere (anche se il pronome indica una persona di sesso femminile), sia per il numero. Questa libertà non vale per i pronomi di terza persona singolare e plurale per i quali l’accordo di genere e numero del participio con l’oggetto è obbligatorio: «Li ho visti» (e non *li ho visto); «l(a) ho mangiata» (e non *l(a) ho mangiato).
Raphael Merida
QUESITO:
La frase di partenza viene da Moravia:
(1) “Gli avevano fatto credere ad una tresca di Lisa….”.
Volevo confermare che in questa frase non possiamo dire: “Gli ci avevano fatto credere” (ci = ad una tresca) perché gli ci non è permesso nella grammatica italiana, giusto? Ma si sente:
(1a) Gli ci vuole molto tempo (gli = ‘a lui’).
Gli ci vuole molto tempo è una forma colloquiale? Potrebbe darmi altri esempi in cui gli ci viene usato?
(2) Ammaniti nel libro Ti prendo e ti porto via scrive:
“Mi ci faceva credere”.
Per me, il pronome mi ha valore di “a me”. Di nuovo, volevo capire se questo uso della lingua è soltanto colloquiale dato che la grammatica non indica la combinazione di un pronome indiretto con ci.
RISPOSTA:
Nella frase di Moravia non avrebbe senso inserire ci. Esistono frasi come 1a che sono del tutto legittime e riconosciute dalla grammatica italiana. In questo caso, volerci, che significa ‘essere necessario’, rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso ci) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo aggiungendo una sfumatura di partecipazione emotiva. La presenza di gli ci fa capire, nel suo esempio, che ci si riferisce a una terza persona, ma nulla vieta che ci si riferisca ad altre: “Gli/Ti/Mi ci è voluta una settimana”.
L’esempio tratto da Ammaniti, pur un po’ forzato, è possibile; si tratta, in questo caso, di una struttura colloquiale, presente soprattutto nel parlato, dove ci si riferisce a ciò che è stata detto prima.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementare.
Raphael Merida
QUESITO:
Su varie grammatiche, incluso Treccani, si legge che tra avverbi interrogativi (interrogativa diretta) e verbo è impossibile frapporre un elemento, che sia soggetto o qualsiasi altro elemento:
1)Quando marco arriverà a destinazione?*
2)Dove oggi andrai?*
Se si parla di congiunzione interrogativa, e di conseguenza di interrogative indirette
è possibile la frapposizione solo del soggetto:
3)Non so quando Marco arriverà.
4)Non so dove oggi andrà a fare shopping.*
Tutte queste regole e regolette, però, non valgono con “Perché”, usato sia come avverbio interrogativo che come congiunzione interrogativa; infatti con “perché” è possibile sia frapporre complementi (“Qui”, “con me” ecc…) sia soggetti (“Lui”, “Marco”), anche insieme, volendo, come nelle frasi 5 e 6.
Tutto questo sia nelle interrogative dirette o indirette che siano, per esempio:
5)Perché Marco all’estero si trova male?
6)Non so Marco all’estero si trovi così male.
Credo e spero che da 1 a 6 lei possa concordare con me.
Ci sono però dei casi, che non so per idiomaticità o meno, ma contravvengono a ciò che ho detto da 1 a 6, cioè:
a)Ricordo quando da bambino giocavo al parco con gli amichetti.
b)Non ho mai saputo quando da bambino hai avuto la prima fidanzatina.
c)Quanto la fortuna potrà incidere sul risultato?
Le frasi “a” e “b” sono dello stesso tipo della frase 4, mentre la frase “c” mi sembra dello stesso tipo della frase “1”.
Seguendo la (mia) logica, a meno che non abbia fatto un discorso errato dall’inizio alla fine, le tre frasi in questione sono scorrette, eppure le ho sentite spesso, anche con una certa frequenza; infatti anche a me è capitato di dirle in svariate occasioni, poiché al mio orecchio suonano particolarmente idiomatiche e non vi ravviso nessuna stonatura.
Qual è quindi la verità?
RISPOSTA:
Da assiduo navigatore di DICO, sa bene che la grammatica e la linguistica non si valutano in base alla verità (ammesso che si sappia cosa sia, la verità…), bensì ad altre categorie, quali la frequenza, l’accettabilità, la variabilità ecc. Ciò premesso, non è affatto vero che gli interrogativi non ammettano elementi tra sé e il verbo, e, tra i miliardi di frasi possibili, basterebbe questa: «Perché Marco non arriva?». Quindi, non soltanto concordo con lei, ma le confermo che nessuna delle frasi da lei citate (a, b, c) è sbagliata, e non perché siano idiomatiche (e infatti non lo sono), ma perché la mobilità dei costituenti consente queste e altre modificazioni dell’ordine cosiddetto diretto. Neppure le altre frasi da lei citate sono scorrette né agrammaticali, tranne la 2: «*Dove oggi andrai?», che però diventa quasi accettabile se al verbo si aggiunge un altro elemento: «Dove, oggi, andrai a fare la spesa?» (non naturalissima, ma possibile).
Fabio Rossi
QUESITO:
“Tante di cose” o “tante di persone”, come dice Lei, sono agrammaticali, ma in caso di ripresa nominale, cioè col “ne” come ripresa pronominale in aggiunta al “di” partitivo (“Ne vede tante di cose/persone”), sarebbero legittime.
Se non si vuole utilizzare il pronome di ripresa “ne” allora bisognerebbe modificare il nome “cose”:
“Ogni giorno vede tante di queste cose/persone”.
Secondo lei, se cambiassimo ”vede tante di cose/persone” in “Vede tante di cose/persone interessanti” cambierebbe qualcosa o si resterebbe nell’agrammaticalità?
RISPOSTA:
Secondo me sì, sarebbe agrammaticale; accettabile, forse, soltanto in uno stile molto informale. L’indefinito tanto può reggere il partitivo, ma in contesti in cui sia chiara la ripartizione di un sottogruppo: «tanti dei miei amici non sono laureati», oppure: «vedo qui presenti tante delle persone che ho conosciuto al corso di francese» o simili. Invece, nel suo esempio («vede tante di persone interessanti») non c’è questa ripartizione, perché «tante persone» indica genericamente un numero elevato di persone e non un sottogruppo nell’ambito di un gruppo più ampio o di una totalità.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono molto comuni costruzione col “di” partitivo nelle quali manca un soggetto/oggetto perché sottinteso:
- a) Ce ne sono (tante) di cose!
- b) Ne ha fatte (tante) di cose!
Costruzioni analoghe sono quelle seguite da un modificatore nominale:
- c) Direi che (di persone) ce ne sono (tante) che non vanno mai al cinema.
- d) Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori.
- e) Nella vita di cose ne vedrai (tante) di belle e di brutte.
Nella frase “e” il modificatore del sintagma nominale sottinteso (“tante) è preceduto dalla preposizione “di”, ma a differenza della frase “d”, dove il modificatore nominale è un vero e proprio sintagma preposizionale, qui abbiamo un aggettivo che fa modificatore nominale, aggettivo che di norma non è preceduto da nessuna preposizione, tranne in questi specifici casi.
Quello che mi chiedo è:
Se rendessimo esplicito il sintagma nominale “tante”, l’aggettivo richiederebbe lo stesso quel “di” o perlomeno sarebbe facoltativa la scelta di inserirlo o meno?
- f) Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte. A me non convince proprio quel “di” in quest’ultima frase , anzi lo casserei proprio, poiché al mio orecchio suona malissimo, ma a rigor di logica forse è corretto?
RISPOSTA:
La ragione della presenza del sintagma preposizionale introdotto da di è dovuto al fatto che il clitico ne pronominalizza un sintagma preposizionale introdotto da di. Tant’è vero che senza ne il di cade: «ci sono tante cose/persone», «ha fatto tante cose», «ci sono tante persone che non vanno al cinema» ecc.
In «Di situazioni simili ne ho vissute (tante) di tutti i colori», «di tutti i colori» è un’espressione idiomatica ammissibile soltanto se introdotta da di, tant’è vero che il di rimane anche senza ne: «ho vissuto (tante) situazioni (simili) (che erano) di tutti i colori».
In «Nella vita di cose ne vedrai tante di belle e di brutte», come giustamente dice lei, il secondo (e il terzo) di è di troppo (e dunque da evitare), perché, per via del clitico ne, serve il sintagma preposizionale «di cose», mentre belle e brutte sono aggettivi che, come tali, si collegano al nome (cose) senza preposizione. Esattamente come «vedrai cose belle e brutte». A meno che non siano aggettivi sostantivati (cioè con cose sottinteso): «Nella vita ne vedrai (tante) di belle e di brutte». Meno bene «Nella vita ne vedrai (tante) belle e brutte». Del resto, l’espressione idiomatica è «vederne delle belle», non certo *«vederne belle».
Fabio Rossi
QUESITO:
In questi giorni mi sono imbattuto in questa frase: «Il suo passatempo consiste nel coltivare i fiori». Mi chiedo cosa sia «consiste nel coltivare i fiori» in analisi del periodo.
RISPOSTA:
Il suo passatempo consiste: principale
nel coltivare i fiori: subordinata completiva (soggettiva) implicita.
Sebbene l’infinito sia sostantivato (nel coltivare), esso viene comunque analizzato come proposizione.
Sebbene la proposizione si comporti non come soggetto, bensì come parte nominale di un predicato nominale (consiste nel = essere: il passatempo è coltivare…), essa è comunque analizzabile come completiva soggettiva.
Fabio Rossi
QUESITO:
“È arrivato il momento che il proprietario venga a ritirare la macchina”. La frase è corretta o si dovrebbe scrivere con in cui?
“È arrivato il momento in cui il proprietario venga a ritirare la macchina”.
Perché mi suona meglio la prima?
RISPOSTA:
Subordinate come quella da lei presentata si collocano a metà strada tra le relative, le temporali e le soggettive. Se la consideriamo una relativa dobbiamo costuirla con in cui, perché un evento succede in un momento; se la consideriamo temporale la costruiremo con quando; se la consideriamo soggettiva useremo la congiunzione che (in questo caso è il momento che viene assimilato a è il caso che o simili). I parlanti sfavoriscono decisamente l’opzione temporale e oscillano tra la relativa e la soggettiva, per via della somiglianza tra le due costruzioni (non a caso il che usato in casi come questi rientra nella casistica del cosiddetto che polivalente), preferendo, di solito, la seconda. Quest’ultima è da considerarsi del tutto regolare e utilizzabile in ogni contesto. A conferma della vicinanza di questa subordinata alle soggettive, se il soggetto della subordinata è impersonale essa si costruisce con di + infinito, proprio come le soggettive: “È arrivato il momento di andare”. Va detto, però, che la costruzione relativa diviene preferibile se il momento non è all’interno di un costrutto presentativo, per esempio “Nel momento stesso in cui l’ho visto ho provato una forte emozione”. In questo caso la costruzione con che è percepita come più trascurata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) Cosa è bastato a fargli cambiare idea?
1b) A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.
2a) Cosa è bastato per fargli cambiare idea?
2b) Per fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico.
Sono sicuro della correttezza grammaticale di 2a e 2b, mentre non saprei esprimermi sulla correttezza grammaticale di 1a e 1b?
Ho consultato vari dizionari, ma non ho trovato esempi di quello che intendo: Se all’interno della frase il complemento di fine (introdotto da “a”) è focalizzato/marcato(su cui cade la tonica), allora so per certo che tale preposizione si può utilizzare:
-Questo a cosa è bastato?
-Questo è bastato a chiarire.
Se invece è il soggetto quello ad essere focalizzato/marcato (ovvero sempre l’elemento su cui cade la tonica), allora su ciò non ho trovato esempi:
-Cosa è bastato a fargli cambiare idea?(???)
-A fargli cambiare idea è bastato qualche esempio pratico(???)
Lei cosa ne pensa?
RISPOSTA:
Tutte le frasi sono corrette. Non si tratta in nessuna di complemento di fine, né di soggetto, bensì di proposizioni subordinate finali. Inoltre, se la finale è anteposta alla reggente non è focalizzata, bensì topicalizzata, cioè in funzione di topic.
Diverso il caso di «Questo a cosa è bastato?», in cui il pronome interrogativo «a cosa» ha in effetti funzione di complemento di fine ed è sicuramente più comune di «per» (che comunque non sarebbe scorretto), in dipendenza da bastare. Tuttavia, nella frase successiva, in cui il complemento di fine diventa invece una subordinata finale, a e per sono intercambiabili: «Cosa è bastato a/per fagli cambiare idea?».
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Lo fai pentire delle sue azioni.
2) Lo fai pentirsi delle sue azioni
3) Lo lasci pentire delle sue azioni.
4) Lo lasci pentirsi delle sue azioni.
Per quanto mi riguarda, penso che con “fare” sia sbagliata l’inserzione del pronome riflessivo “si”, nonostante il verbo sia intransitivo pronominale e lo richiede.
Per quanto riguarda il verbo “lasciare” credo che si possa utilizzare il riflessivo, o almeno l’ho sempre fatto, ma non so se sia necessario al 100%.
Quindi significa che per me sono corrette la prima e la quarta, la terza potrebbe forse essere corretta, infine c’è la seconda che è errata.
Non ho i mezzi per stabilirlo, quindi chiedo a lei.
Magari saprebbe dirmi se ci sono delle regole e ragioni grammaticali ben precise in merito, con cui si può stabilire la correttezza o la non correttezza delle quattro frasi?
RISPOSTA:
Come si legge nella Grande grammatica italiana di consultazione, di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino, 1991, vol. 2, p. 509, «I verbi riflessivi appaiono nella costruzione fattitiva senza il clitico riflessivo», pertanto le sole frasi corrette sono la 1 e la 3. In altri termini, quanto il verbo fattitivo o causativo (fare, lasciare) determina lo spostamento del soggetto della subordinata infinitiva, ingloba in sé anche il clitico riflessivo, che invece deve essere espresso se lo spostamento del soggetto (e l’infinitiva) manca, cioè: «Fai (o lasci) che si penta delle sue azioni». Lo stesso vale per soggetto/oggetto espresso in forma piena: «Fai/lasci pentire (e non pentirsi) Marco delle sue azioni», ma «fai/lasci che Marco si penta (e non penta) delle sue azioni.
Fabio Rossi
Vi chiedo un consulto su questo esercizio: “Distingui gli aggettivi pronominali e i pronomi precisandone la funzione sintattica”.
“Te lo ricordo per l’ennesima volta, qui non c’è niente di utile al tuo obiettivo”.
Te = pron. personale tonico, compl. termine
Lo = pron. personale atono, compl. ogg.
C’è = questo non capisco cosa sia…
Niente = pron. indefinito, sogg.
Tuo = agg. possessivo, compl. fine.
L’analisi va bene, tranne che per due punti. 1. Il pronome te è atono, non tonico: non bisogna confondere te tonico (come nella frase “Dico a te”) da te atono, variante formale di ti, come in questa frase, o come in “Dovevi proprio portartelo?”. 2. Tuo è attributo, non complemento di fine (il complemento è al tuo obiettivo).
Per quanto riguarda c’è, si tratta di un’espressione formata da ci + è. Ci può essere un pronome personale atono di prima persona plurale (in frasi come “Ci fai un favore?”) e un pronome dimostrativo (in frasi come “Non ci pensare”); nell’espressione formata con il verbo essere, invece, equivale a lì oppure qui (a seconda dei contesti), quindi è considerato generalmente un avverbio di luogo (anche se ci sarebbero ragioni per considerarlo un pronome). Dal punto di vista sintattico può essere analizzato come complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La ringrazio per aver chiarito il mio dubbio sulla questione delle proposizioni causali/finali.
Lei ha però sollevato la questione del tema del controllo, su cui non avevo mai fatto più di tanto caso.
Nella frase “spero di redimermi” vi è una oggettiva implicita, che si lega al verbo sperare, il cui soggetto è “controllato” dal soggetto della reggente.
Ci sono casi in cui, però, la subordinata implicita più che essere legata direttamente al verbo, fa da modificatore di un sintagma nominale, quest’ultimo legato direttamente al verbo:
- a) Non dimenticherò mai il fatto di essere sempre stato leale con tutti voi.
- b) Pensavo che questa fosse l’occasione per potermi pentire.
Queste due frasi sono molto idiomatiche, ma da un punto di vista puramente grammaticale (sempre riallacciandoci alla questione che la subordinata implicita non ha un contatto diretto col soggetto della reggente, ma piuttosto tale subordinata è parte del sintagma nominale) possono essere viste come corrette?
In queste due frasi, può effettivamente il soggetto della reggente (io) essere il controllore della subordinata implicita?
C’è poi un ulteriore costrutto grammaticale, a mio modo di vedere molto idiomatico e utilizzato:
- c) Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore, molto spesso sottovalutate.
In questa frase, abbiamo nuovamente una subordinata implicita (introdotta da “per” o “di”) e che si lega al sintagma nominale, come nei due casi precedenti.
La vera differenza la fa lo stesso sintagma nominale, che è il soggetto grammaticale della reggente.
Quindi ci sarebbe da chiedersi: Perché si lega il soggetto della implicita alla seconda plurale “voi”?
Forse l’aggettivo “vostro” controlla il soggetto della subordinata implicita? Secondo lei, potremmo quindi vedere tale aggettivo come soggetto logico della reggente? Il soggetto logico, secondo le grammatiche, può controllare il soggetto della subordinata implicita, in quanto è colui che materialmente fa qualcosa:
“Mi sembra di aver capito”.
“Mi” equivale a “io”, che sarebbe riformulabile in tal modo:
“Io penso di aver capito”.
Cosa ne pensa lei di questi particolari casi?
RISPOSTA:
Certamente le frasi da lei riportate sono corrette (e non sono idiomatiche, né colloquiali, ma del tutto normali in qualunque registro dell’italiano standard). Anche quando le subordinate espandono un sintagma nominale, cioè dipendono da un nome, un aggettivo o un pronome anziché da un verbo (e troverà numerosi esempi di questo sempre nella solita Grande grammatica italiana di consultazione), il soggetto è controllato da un elemento della reggente. Nelle prime due frasi da lei citate, infatti, il soggetto della subordinata è controllato dal soggetto della reggente (io).
Molto giusta la sua intuizione sulle altre frasi: il soggetto della subordinata può essere controllato anche da altri elementi della reggente, ivi compreso un soggetto logico, a senso, generico ecc.:
- c) «Questa è la vostra occasione di/per accorgervi delle qualità di questo giocatore»: il controllore è sicuramente vostra.
- d) «Mi sembra di aver capito»: il controllore è mi (cioè il benefattivo o esperiente, chi prova una determinata esperienza, ovvero il soggetto logico, in questo caso).
Ma ci possono essere anche casi più complessi sintatticamente, per esempio:
«Ti ho dato la scusa per/di andartene»: il soggetto della subordinata (tu) è controllato dal complemento di termine della reggente (ti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Stavo pensando a qualche frase:
1) Lo ringrazio per avermi aiutato
2) Lo rispetto per avermi aiutato
3) Questo lo dico al di là del rispetto che io ho per lui per avermi aiutato.
Partiamo dalle prime 2:
Qui abbiamo una proposizione causale, il cui soggetto rimanda all’oggetto diretta della reggente.
Ora, esistono numerosi verbi che si comportano in questo modo, ma che solitamente reggono la preposizione di, (come anche lo stesso verbo “ringraziare”), per esempio:
– lo supplico di andarsene (finale).
– ti ringrazio di avermi dato ascolto (causale).
Quella di far concordare oggetto diretto della reggente e soggetto della finale o causale introdotta da “per” può ritenersi un grossolano errore, se non un colloquialismo, in quanto sarebbe meglio una proposizione esplicita come “perché, “poiché”, “affinché” ecc…?
La terza frase è quella che mi desta più dubbi, in quanto non c’è un oggetto diretto (lui) che possa concordare col soggetto della proposizione implicita causale, ma il soggetto della causale sembra comunque essere lo stesso del pronome del sintagma preposizionale “per lui”.
Forse, è proprio a causa di quel “per” che il tutto mi suona scorretto, forse cambierebbe qualcosa se in questa frase dicessimo “di lui” al posto di “per lui”.
Rimetto a lei l’ultima parola, quella che possa far luce sull’intrigo.
RISPOSTA:
Come già osservato in altre risposte, il tema del “controllo” (come si definisce in sintassi, o se preferisce dell’identità del soggetto con altro elemento della frase) del soggetto delle subordinate implicite, ora da parte del soggetto della reggente, ora da parte di altri complementi (non solo l’oggetto) è ricco e complesso. Non c’entra nulla la colloquialità, nei casi specifici da lei sottoposti. Può avere una prima panoramica della ricchissima casistica del controllo del soggetto delle subordinate all’infinito nella Grande grammatica di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 1991, vol. 2, pp. 483-569.
Come ripeto, la frase 3 va benissimo, il soggetto della subordinata implicita infinitiva causale («per avermi aiutato») è controllato da «per lui», non è colloquiale e non cambierebbe nulla rispetto a «di lui» (per es.: «…considerazione che ho di lui…»).
Fabio Rossi
QUESITO:
1.Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare:
Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.
Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.
2.Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare:
Interpretazione b): Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare.
3.Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare:
Interpretazione a): Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò.
Quello che penso è che nel caso della preposizione “per” sia necessario il complemento oggetto, a quel punto avremmo due interpretazioni differenti:
a = soggetto coreferente
b = soggetto generico introdotto nella subordinata.
Con la preposizione da è diverso, perché se si inserisce il complemento oggetto, l’interpretazione (a) diventa quella che vede due soggetti coreferenti, mentre se non si usa alcun complemento oggetto, parliamo di un interpretazione (b) che ha un valore passivo/impersonale.
Seguendo questa logica se io dicessi:
4.Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare”, potrei voler dire:
Interpretazione a = il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.
(Frase decisamente irrealistica, in quanto è impensabile come frase, ma è giusto per far capire la differenza)
Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.
- Il dolore era troppo grande da poter sopportare:
Interpretazione b) il dolore era troppo grande perché qualcuno lo potesse sopportare.
- Il dolore era troppo grande da poterlo sopportare:
Interpretazione a) il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno.
(Come la quarta nella interpretazione “a”)
Sono corretti il mio ragionamento e le mie interpretazioni?
Cioè che la preposizione “per” richiede il complemento oggetto e può avere doppia interpretazione, a e b, generando magari ambiguità.
Mentre la preposizione “da”, in dipendenza dalla presenza o assenza del complemento oggetto, può avere una sola delle due interpretazioni.
RISPOSTA:
No, la sua interpretazione non è corretta. È vero che da + infinito di un verbo transitivo indica un valore passivo, cioè qualcosa che deve essere fatto: da fare, da comprare, da vedere ecc. In quanto tale, il clitico è pleonastico e comunque, sia che ci sia, sia che manchi, non muta il significato della frase: «il dolore è troppo forte da sopportare/sopportarlo» può voler dire soltanto ‘…troppo forte per essere sopportato’. La versione col clitico è decisamente informale e da evitarsi in uno stile sorvegliato.
La finale implicita con per + infinito, così come da + infinito, impone l’obbligo dell’identità del soggetto della subordinata e di quello della reggente. Quindi:
- «Mario era abbastanza tranquillo per poterlo sopportare». L’unica interpretazione possibile è: ‘Mario era abbastanza tranquillo perché lui stesso potesse sopportare ciò’. Se invece si vuole esprimere che Mario viene sopportato allora bisogna rendere esplicita la subordinata ed esprimere il soggetto: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare».
- «Mario era abbastanza tranquillo da (poter) sopportare». Benché sia possibile l’interpretazione ‘da essere sopportato’, la frase suscita comunque ambiguità, pertanto sarebbe meglio renderla esplicita: «Mario era abbastanza tranquillo perché qualcuno lo potesse sopportare». Al limite, informalmente, si potrebbe usare il si passivante: «Mario era abbastanza tranquillo da sopportarsi/potersi sopportare», cioè «essere/poter essere sopportato».
- «Mario era abbastanza tranquillo da poterlo sopportare»: è possibile soltanto l’interpretazione ‘Mario era abbastanza tranquillo da poter sopportare qualcosa’.
Quindi: se non c’è identità di soggetto chiara tra reggente e subordinata implicita, è sempre meglio trasformare la subordinata in esplicita ed esprimere il nuovo soggetto.
- «Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare»: soltanto il senso consente di evitare l’interpretazione assurda ‘il dolore era troppo grande perché il dolore potesse sopportare qualcosa o qualcuno’. La frase è comunque imperfettamente formata e dunque sarebbe meglio cambiarla in: «il dolore era troppo grande per essere sopportato».
- «Il dolore era troppo grande da poter sopportare»: la frase è mal formata per le stesse ragioni della precedente e della n. 2; pertanto è meglio cambiarla in «il dolore era troppo grande per essere sopportato», oppure, informalmente, «da sopportarsi».
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia o che tu voglia?
2) Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire o che potrebbe sentire durante la notte?
3) Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno o di cui tu abbia bisogno?
4) Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia o in cui tu lo faccia?
5) Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene o in cui si mangia?
Vanno bene sempre bene entrambe le soluzioni?
La mia impressione è che quando la preposizione che si usa nella frase principale è la stessa della relativa, allora il pronome relativo + preposizione si può anche omettere.
Diverso, penso, sia il caso in cui non ci sia questo combaciamento, dove bisogna inserirlo:
6a) Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene
6b)Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene*
A pensarci bene, neanche nella frase 2 c’è una corrispondenza tra preposizioni, ma è anche vero che la relativa non ne ha nessuna.
È solo una mia impressione, sbagliata o giusta che sia, o c’è una spiegazione grammaticale dietro?
RISPOSTA:
La sua domanda contiene già la risposta (quasi del tutto) corretta e denota un’eccellente capacità di ragionamento induttivo sulla lingua: cioè, lei ha ricavato la regola sulla base di un’analisi attenta degli esempi. I pronomi relativi doppi (chi, chiunque: alcuni funzionano sia come indefiniti sia come relativi), cioè quelli che sottintendono, o per meglio dire inglobano, l’antecedente (chi/chiunque = la persona/qualunque persona la quale; con gli aggettivi qualunque e qualsiasi l’antecedente va invece espresso: cosa, persona ecc.) e alcuni aggettivi relativi indefiniti (qualunque, qualsiasi) possono omettere la preposizione nella proposizione relativa soltanto a condizione che l’elemento pronominalizzato della relativa sia un complemento diretto oppure un soggetto, con qualche eccezione se le due preposizioni, quella della reggente e quella della relativa, sono uguali. Se dunque il complemento pronominalizzato nella subordinata relativa richiede una preposizione, essa di norma non può essere omessa. Se il pronome è doppio, nel caso di reggenza preposizionale esso va sciolto in due elementi (cioè antecedente + pronome):
– «vai con chiunque ami» ma «vai con qualunque persona alla quale/a cui vuoi bene» e non «vai con chiunque vuoi bene». È possibile l’omissione della preposizione se è uguale alla preposizione della reggente: «vai con chi vuoi stare» = «vai con la persona con quale vuoi stare» (la prima frase è più informale).
Commentiamo di seguito uno a uno tutti i suoi esempi:
1) «Ti darò qualunque/qualsiasi cosa tu voglia» o «che tu voglia»? Il che è pleonastico, e dunque da eliminare, perché qualunque ha già valore di aggettivo relativo/indefinito e dunque non richiede un ulteriore pronome relativo: «qualunque cosa tu voglia».
2) «Si fa suggestionare da qualsiasi/qualunque rumore potrebbe sentire» o «che potrebbe sentire durante la notte»? Come sopra: il che va eliminato.
3) «Chiamami, di qualunque/qualsiasi cosa tu abbia bisogno» o «di cui tu abbia bisogno»? In teoria bisognerebbe dire e scrivere «di cui tu abbia bisogno», perché «avere bisogno di qualcosa» richiede la preposizione di; tuttavia nell’italiano comune è altrettanto corretta l’omissione del secondo di, attratto dal primo.
4) «Ci sarà sempre da ridire, in qualunque/qualsiasi modo tu lo faccia» o «in cui tu lo faccia»? Come sopra: vanno bene entrambi, e anzi il secondo (ancorché più corretto grammaticalmente) è decisamente innaturale.
5) «Mi troverai in qualsiasi/qualunque luogo si mangi bene» o «in cui si mangia»? La preposizione in è necessaria: «in qualunque luogo in cui si mangi», anche se nell’italiano comunque è possibile anche l’omissione del secondo in, attratto, per così dire, dal primo.
6a) «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene»: giusto, ci vogliono entrambe le preposizioni.
6b) «Parliamo di qualsiasi/qualunque si mangi bene»: è errata; la versione corretta è: «Parliamo di qualsiasi/qualunque luogo in cui si mangi bene».
Fabio Rossi
QUESITO:
“Le parole scritte restano”. In analisi grammaticale qual è la funzione di “scritte”?
RISPOSTA:
Aggettivo qualificativo, femminile, plurale. Naturalmente, trattasi di participio passato del verbo scrivere usato, nella frase in questione, con funzione aggettivale. Dato che le parole non funzionano in isolamento, in nessuna lingua, bensì inserite in un contesto (frase), è bene analizzarle nella funzione (non a caso, lei nella sua domanda utilizza la parola funzione) che svolgono all’interno della frase. In questo caso non v’è alcun dubbio che la funzione di scritte sia aggettivale (ovvero attributo in analisi logica). Vi sono peraltro dei casi limite: «Le parole scritte da te restano». In questo caso la presenza del complemento d’agente lascerebbe propendere per l’analisi come verbo, cioè participio passato. Tuttavia, dato che anche gli aggettivi (e i nomi) possono reggere argomenti («sensibile ai complimenti», «utile a/per scopi diversi» ecc.), non è questo un discrimine per stabilire se un participio sia verbale o aggettivale. Ancora una volta, come spesso accade nelle lingue, non si tratta di bianco o nero ma di come si decide di ritagliare la realtà linguistica: chi opta per valorizzare sempre la natura verbale del participio (che, per inciso, si chiama così proprio perché partecipa della doppia natura di verbo e di nome, ovvero aggettivo), chi invece (e io mi colloco tra questi ultimi) pensa che si debba valutare caso per caso a seconda del contesto sintattico. Non vi sarebbe alcun dubbio, per esempio, nel considerare verbale il participio della frase seguente: «Scritte, le parole restano», nella quale «scritte», isolato dal resto della frase, non può che assumere la funzione di subordinata (ipotetica implicita: «se scritte…»). Anche nella sua frase si potrebbe sostenere che «scritte» sia una relativa implicita: «Le parole che sono scritte restano», ma sarebbe una spiegazione antieconomica: perché mai scomodare una struttura sottintesa quando la linearità della frase è chiarissima? Come vede, la distinzione tra analisi grammaticale e analisi logica, necessaria in teoria per tener distinti i piani dell’analisi linguistica, è meno netta nella realtà dei fatti: per stabilire se analizzare «scritte» come aggettivo o come verbo è prima necessario comprendere la sintassi della frase. In conclusione, ribadisco la mia opinione: «scritte», nella frase in questione, va analizzato come aggettivo e non come participio passato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Ne ha preparate tre, poi gliele ha spedite per congratularsi del suo successo” quali sono le funzioni sintattiche dei pronomi? Ecco la mia proposta:
Ne = pronome personale atono, compl. specificazione o partitivo
Tre = pronome numerale, complemento di quantità? O forse più genericamente compl. specif.
Gliele = pronome personale. Gli: compl. termine. Le: compl. ogg.
Si (congratularsi) = pron. personale, intransitivo pronominale.
Suo = agg. possessivo, compl. specif.
RISPOSTA:
Le sue analisi sono sostanzialmente corrette, tranne i seguenti punti:
Tre = complemento oggetto. Il si contenuto nel verbo congratularsi, che è intransitivo pronominale, non ha una funzione sintattica precisa, ma contribuisce alla costituzione del significato del verbo (forse lei intendeva proprio questo nella sua analisi, ma non è chiaro). Suo è l’unica parola tra quelle analizzate che non è un pronome, ma un aggettivo; dal punto di vista sintattico gli aggettivi non svolgono la funzione di complementi ma sono analizzati come attributi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “porta il latte con te, ma che sia freddo”, il “che” si riferisce a latte?
RISPOSTA:
No, il che è un mero introduttore del congiuntivo desiderativo. Come se fosse: «[fa’ in modo] che sia freddo».
Fabio Rossi
QUESITO:
1a)Il segreto per il successo, te lo potranno svelare quanti sono arrivati al successo.
2a)Tendo ad apprezzare quanti hanno il coraggio di rischiare la vita.
1b)Questo lo sanno quanti ne sono arrivati l’anno scorso.
2b)Prendo quanti ne restano sul vassoio.
1c)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti sono sopravvissuti alla strage.
2c)Ho salutato (in?) quanti hanno partecipato alla riunione.
1d)Questo tragico evento te lo potranno raccontare (in?) quanti ne sono arrivati l’anno scorso.
2d)Ho salutato (in?) quanti ne sono arrivati oggi.
È giusto usare quanti / in quanti come soggetto nelle varianti 1 e come complemento oggetto nelle varianti 2?
In linea di massima, le frasi sono ben costruite?
Sui vari dizionari quanti viene classificato anche come pronome, quindi pensavo che potesse avere la funzione di soggetto o di oggetto in base al contesto.
RISPOSTA:
Alcuni pronomi indefiniti (molti, pochi, tanti) e il pronome quanti sia come relativo sia come interrogativo possono essere costruiti con la preposizione in quando hanno la funzione di soggetto e si riferiscono a un gruppo di persone. In particolare, il pronome quanti ammette la costruzione con in quando è soggetto o della reggente, o della subordinata o di entrambe le proposizioni. In tutte le frasi proposte è possibile sostituire quanti con in quanti tranne che nella 2b, in cui quanti non si riferisce a un gruppo di persone ma agli oggetti rimasti sul vassoio.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere la differenza tra : di questa e su questa.
Es: “non mi hanno detto nulla di questa cosa”;
“non mi hanno detto nulla su questa cosa”.
RISPOSTA:
Dire di o dire su si equivalgono perché sia la preposizione di sia la preposizione su introducono un complemento di argomento. L’oscillazione tra queste due preposizioni è da sempre presente in italiano, basti vedere alcuni titoli di opere del passato come “Sulle guerre di Fiandra” o “Dei sepolcri” (in quest’ultimo caso la preposizione di ricalca il complemento di argomento latino, costruito con la preposizione DE + ablativo come “De bello gallico”).
Raphael Merida
QUESITO:
A) Spererei che venisse.
B) Spererei che venga.
C) Spererei che verrebbe.
Sono tutte accettabili? Il mio dubbio riguarda l’ultima opzione.
Dopo i verbi di volontà e desiderio solitamente non si può utilizzare il condizionale, e il verbo sperare mi sembra che ne faccia parte, come volere, preferire e simili.
È anche vero che la frase C potrebbe sottintendere una protasi dipendente dall’oggettiva e una dipendente dal verbo principale:
“[Se fossi lì] spererei che [se ci fosse la possibilità] verrebbe”.
RISPOSTA:
La soluzione preferibile è la A; la B è accettabile, anche se il verbo sperare rientra tra quelli di desiderio, che preferiscono il congiuntivo imperfetto nell’oggettiva per esprimere contemporaneità (si veda questa risposta). La C è la più sospetta: per quanto non ci siano ostacoli grammaticali alla costruzione di questa oggettiva con il condizionale (un caso simile è la soggettiva sarebbe impensabile che rimarrei a casa commentata nella stessa risposta a cui si è rimandato sopra), tale costruzione è sicuramente sconsigliabile, perché la sfumatura semantica aggiunta dal condizionale è appena percepibile, vista la presenza del condizionale nella proposizione reggente, ed è ottenuta al costo di appesantire notevolmente la costruzione. Anche se l’oggettiva reggesse a sua volta una proposizione condizionale, come nella sua riformulazione della frase, il condizionale non sarebbe comunque necessario (anzi, risulterebbe ancora più innaturale), e il congiuntivo imperfetto rimarrebbe la soluzione migliore: “Spererei che se ci fosse la possibilità venisse”.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice: “questi discorsi non c’entrano nulla” oppure “questi discorsi non centrano nulla”?
RISPOSTA:
La forma corretta è c’entrano. Entrarci è un verbo procomplementare che, come ci ricorda il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT), può essere usato con valore intensivo nel significato di ‘trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa’ («In questa stanza c’entrano mille persone») o con il significato figurato di ‘avere attinenza con qualcosa’, come nel caso da lei presentato. In una frase come «questi discorsi non centrano l’argomento» il verbo in questione è, invece, centrare nel significato figurato di ‘cogliere con precisione il punto centrale di un tema’.
Per approfondire la morfologia del verbo entrarci la invito a leggere la risposta La posizione del pronome.
Raphael Merida
QUESITO:
1)Ripensandoci meglio, ho dovuto rettificare/emendare/correggere il mio precedente “sì” in un “no”.
2) ho dovuto specificare il mio “no, grazie, non posso venire” in “no, non verrò MAI”.
È legittimo questo uso di questi verbi con la preposizione “in”?
La sua funzione che sembra avere, ammesso che siano corrette le frasi, è la stessa che hanno verbi come “trasformare”, “cambiare” e simili:
– Lo ha trasformato in un brav’uomo.
– Ho cambiato una banconota da 20 euro in monete da 2 euro.
– Il malcontento si tradusse in rivolta.
Il complemento in questione non saprei descriverlo, in quanto in maniera generica parlerei di “complemento di moto a luogo figurato”, per via del passaggio/della transizione che sembra essere da una condizione all’altra, da uno stato all’altro.
Per quanto riguarda la prima frase sono sicuro di aver letto e sentito frasi simili.
Per quanto riguarda la seconda, col verbo “specificare”, invece no, in quanto ho pensato che potesse avere senso e rientrare in quel tipo di frase che riguarda appunto “trasformare” e affini.
RISPOSTA: solitamente
La preposizione in non è appropriata con nessuno dei quattro verbi. Semmai, potrebbe essere usata la preposizione con, con funzione di introduttore di complemento di mezzo: correggere/emendare/rettificare/specificare A con B. Inoltre, emendare solitamente è costruito soltanto con il complemento oggetto e non con altro complemento che indichi la versione sostituita a quella emendata. Più o meno lo stesso vale per rettificare. Se segue un altro complemento, oltre all’oggetto, con emendare, esso è introdotto o da da o da di, per intendere i difetti dai quali (o dei quali) il documento è stato emendato: «emendare qualcosa dai (o dei) vizi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il quesito a cui volevo sottoporre la sua attenzione è quello di frasi che apparentemente sembrano delle relative, o che forse lo sono in parte.
Questo tipo di frasi contiene spesso un che, che potrebbe forse trattarsi di un che polivalente.
Proporrei qualche frase che secondo me possono rientrare in questa definizione:
- Sono arrivato qui che ero piccolo.
- Ho iniziato che ero ricchissimo.
- Ho finito che sono diventato povero.
- L’ho conosciuto che non era ancora così famoso.
- L’ho trovato che dormiva beato.
- Sono qui che aspetto.
Le frasi in questione, per quanto contengano il pronome relativo che, mi sembrano abbiano tutt’altra funzione.
Per esempio, da 1 a 5 direi che quel che sia molto vicino ad un complemento di tempo.
Nella sesta il che mi sembra abbia valore finale: «Che aspetto» = per aspettare/ad aspettare.
RISPOSTA:
Sì, ha ragione, sono relative improprie, ovvero il che in esse usato può rientrare nell’ampia tipologia del che polivalente. Proviamo a spiegarne alla svelta l’uso caso per caso.
- Sono arrivato qui che ero piccolo: valore temporale, ma in uno stile meno informale può essere risolto anche con un complemento predicativo del soggetto: sono arrivato qui da piccolo.
- Ho iniziato che ero ricchissimo. Come sopra.
- Ho finito che sono diventato povero. Qui l’equivalente meno informale sarebbe più o meno un verbo aspettuale o fraseologico: ho finito per (o col) diventare povero.
- L’ho conosciuto che non era ancora così famoso. Questa e la frase successiva rientrano nella tipologia delle relative con verbi di percezione (o simili): l’ho visto che dormiva / l’ho visto dormire.
- L’ho trovato che dormiva beato. Come sopra.
- Sono qui che aspetto. Valore finale: sono qui ad aspettarti, ma anche: ti sto aspettando qui.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Gli studiosi si sono chiesti come sarebbe andata a finire». In questo caso «chiesti» mi pare decisamente corretto. Se dico però: «Gli studiosi se lo sono chiesti», quel «chiesti» è altrettanto corretto o è necessario dire «chiesto»? Oppure entrambe le soluzioni sono accettabili?
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni sono corrette e con frequenze analoghe, in italiano. Infatti, se ricerchiamo le frequenze odierne in Google, troviamo 55.200 risultati per «se lo sono chiesti», contro 58.400 per «se lo sono chiesto». Quindi con una lieve prevalenza per l’accordo con l’oggetto. Come si può facilmente verificare sia nella Grammatica di Serianni (per es. la Garzantina), sia nella Grande grammatica italiana di consultazione di L. Renzi, G. Salvi e A. Cardinaletti (il Mulino), cioè le due più accreditate grammatiche dell’italiano, opposte nella concezione tanto da essere complementari, l’accordo del participio passato presenta una tipologia variegatissima in italiano, secondo mille variabili: a volte si tratta di cambiamento nel tempo, altre volte di usi regionali, altre volte di registro, altre volte ancora dipende dal tipo di verbo e finanche dal suo significato; molto spesso, infine, l’accordo è del tutto libero, cioè sono ammesse tutte le forme (cioè l’accordo o col soggetto, o con l’oggetto, o, addirittura, nessun accordo, cioè il maschile indistinto non marcato). Data la ricchezza di usi e possibilità, è impossibile ripercorrere qui le coordinate dei vari costrutti. Pensi però a usi (tutti possibili) come i seguenti:
– me ne sono bevuta/o una (di birra) – ma: ho bevuto una birra
– se lo sono visti/o davanti (l’orso) – ma: hanno visto l’orso
– ne hanno prese/o/i due (di scatole) – hanno preso due scatole
– ne ho comprati/o/e due chili (di mele) – ma: ho comprato due chili di mele
– Paola non se ne è mangiati/a per niente (di biscotti) – ma: Paola non ha mangiato i biscotti.
Come linea di tendenza molto generale, l’accordo col soggetto e la forma senza accordo sono più rari, nei verbi pronominali con oggetto, laddove la forma preferita è quella dell’accordo con l’oggetto. Ma, come ha visto, le eccezioni sono numerose.
La lingua italiana, e qualunque altra lingua del mondo, è fatta di un’estesa «zona grigia», come la chiamava Serianni, cioè di usi plurimi tutti ammessi dalla norma. Il grigio (con tutte le sue sfumature), dunque, più del bianco o del nero, è il colore che si addice alla grammatica.
Fabio Rossi
QUESITO:
1a. C’è la possibilità che arrivi qualcuno.
2a. Ci sarebbe la possibilità che arrivasse qualcuno.
3a. C’è la possibilità che arriverebbe qualcuno.
4a. Ci sarebbe la possibilità che arriverebbe qualcuno.
2b È possibile che arrivi qualcuno.
2b. Sarebbe possibile che arrivasse qualcuno.
3b. È possibile che arriverebbe qualcuno
4b. Sarebbe possibile che arriverebbe qualcuno.
Avrebbe senso il condizionale delle frasi 3a, 3b, 4a e 4b, secondo lei, magari se la soggettiva esplicita introdotta da “possibile/ possibilità” racchiudesse al suo interno una protasi implicita / sottintesa?
Immagino uno schema di questo tipo:
Sarebbe possibile = complemento predicativo del soggetto.
Che arriverebbe qualcuno (se ci fossero i presupposti) = soggettiva implicita che introduce una apodosi e una protasi “nascosta”.
Cosa ne pensa lei? Boccerebbe le 4 frasi in questione o sono grammaticalmente corrette?
RISPOSTA:
Sì, le boccerei per evitare costrutti astratti e pesanti come quelli proposti. Perché mai ipotizzare una protasi sottintesa? Limitiamoci a ciò che è espresso negli enunciati, senza creare astrusi e farraginosi esempi inventati a tavolino e che nessuno direbbe o scriverebbe mai (senza commettere errori), e usiamo i modi e i tempi verbali nel modo più chiaro possibile. Quindi: «che arrivi», oppure «che arrivasse». Vi sono peraltro casi, per esempio in dipendenza da verba putandi, in cui è possibile il condizionale anche in assenza di protasi: «credo (che) faresti meglio ad andartene»; ma sono casi limite e comunque, anche in quel caso, la forma più attesa è «credo che tu faccia meglio ad andartene».
Concludo con due correzioni alla sua analisi del periodo indebitamente combinata con l’analisi logica:
Sarebbe possibile: proposizione principale (costituita da un predicato nominale con soggetto sottinteso). È meglio classificare, secondo l’analisi logica tradizionale, «possibile» come nome del predicato (nominale), piuttosto che come predicativo del soggetto, sebbene tra le due classificazioni di fatto non vi sia alcuna differenza.
Che arrivi (e non arriverebbe) ecc.: soggettiva esplicita (e non implicita).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase «sembrava loro che fosse il più adatto» ho individuato in «il più adatto» un complemento predicativo del soggetto, però mi è stato corretto…
RISPOSTA:
Le è stato giustamente corretto perché nel periodo in questione, che è costituito da due proposizioni, deve prima procedere all’analisi del periodo e poi all’analisi logica proposizione per proposizione.
Analisi del periodo: sembrava loro: proposizione principale; che fosse il più adatto: proposizione soggettiva esplicita di primo grado.
Analisi logica della principale: soggetto sottinteso; sembrava: predicato verbale; loro: complemento di termine. Analisi logica della subordinata: fosse il più adatto: predicato nominale (fosse: copula + il più adatto: parte nominale).
Se invece il periodo fosse stato costituito da un’unica proposizione, per esempio: «sembra il più adatto», l’analisi logica sarebbe stata la seguente: soggetto sottinteso; sembrava il più adatto: predicato nominale. Oppure (soluzione alternativa e altrettanto corretta) sembrava: predicato verbale con verbo copulativo; il più adatto: complemento predicativo del soggetto.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Me l’hai preso tu il libro che stavo leggendo?». La frase sopra riportata è corretta? La parola libro è una ripetizione?
RISPOSTA:
Sì, la frase è corretta, benché sia appropriata a un contesto informale e soprattutto parlato, meno appropriata (con qualche eccezione) nella lingua scritta e formale. Il costrutto si chiama dislocazione a destra (oppure a sinistra, se è rovesciato: «il libro me l’hai preso tu») e prevede la ripetizione, come dice lei, dell’oggetto, che, nel caso della sua frase, compare sia in forma piena (il libro), sia nella forma pronominale (l’). I motivi che inducono a scegliere un costrutto siffatto sono di solito legati all’esigenza di dare maggiore o minore rilievo a determinate informazioni della frase. Nel caso specifico, per esempio, si mette in rilievo l’azione e chi la compie (hai preso e tu) e si dà quasi per scontato il libro, come se fosse (come in effetti è) già ben presente nell’orizzonte comunicativo degli interlocutori; il libro, comunque, acquista esso stesso un suo particolare rilievo, perché diventa il tema su cui verte l’intero atto comunicativo. Delle dislocazioni abbiamo più volte discusso, nella banca dati di DICO. Può vedere, per esempio, la domanda/risposta “Dimmelo tu cosa sono le dislocazioni”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase «Sembra un vino di ottima qualità», «di ottima qualità» è un complemento di qualità, ma non potrebbe essere anche complemento predicativo del soggetto?
RISPOSTA:
Nell’ambito dell’analisi logica tradizionale (su cui abbiamo più volte, nelle risposte di DICO, espresso forti perplessità: cfr. da ultima la risposta Analisi logica: fare finta di niente) non è il solo sintagma preposizionale, con valore di locuzione aggettivale, «di qualità» (che da solo può essere analizzato come complemento di qualità, qui accompagnato dall’attributo ottima), bensì l’intero sintagma nominale complesso (composto da sintagma nominale + sintagma preposizionale + sintagma aggettivale) «un vino di ottima qualità» a dover essere analizzato come complemento predicativo del soggetto (che è sottinteso: esso) della frase.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase «Luca faceva finta di niente», che complemento è «di niente»? Mi è venuto in mente argomento ma non credo sia corretto.
RISPOSTA:
È complemento di specificazione, secondo la nomenclatura tradizionale dell’analisi logica. Tuttavia, come abbiamo detto più volte nelle nostre risposte di DICO (cfr. per es. le risposte Analisi logica “per intenditori”; L’inutilità, e l’impossibilità d’analisi, di alcuni complementi; Il complemento di quantità e il complemento di specificazione: l’inutilità dell’analisi logica tradizionale), la tassonomia dei complementi non serve a molto, nella comprensione delle strutture sintattiche e lessicali di una lingua. Infatti, «fare finta di niente» è un’espressione cristallizzata, idiomatica, che va analizzata nel suo complesso, soprattutto nella sua seconda parte, che dunque andrebbe analizzata come segue: Luca = soggetto; faceva = predicato verbale; finta di niente = complemento oggetto. Oppure, ancora meglio secondo le tendenze più aggiornate della sintassi: faceva finta di niente = predicato verbale formato da verbo + argomento.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedervi una consulenza sintattica sulla frase “questo quadro è stato comprato da qualcuno che se ne intende”. In particolare, mi interessava capire il valore sintattico della particella se. Ne è complemento di specificazione (o forse di argomento), m non riesco a comprendere la funzione di se.
RISPOSTA:
Se ne intende equivale a intendersene ‘essere competente in qualcosa’, che rientra nella categoria dei verbi procomplementari, cioè verbi in cui i pronomi (in questo caso si, nella forma se, e ne) non svolgono una funzione propria ma modificano il significato del verbo. L’appendice pronominale –sene, quindi, non ha un significato autonomo ma arricchisce il verbo base attraverso una sfumatura emotiva; nel caso da lei proposto, intendersene (o il corrispettivo intendersi), a differenza del transitivo intendere, richiede un complemento di specificazione: “se ne intende di arte” / “si intende di arte”.
Può approfondire questo argomento consultando l’archivio di DICO con la parola chiave procomplementar*.
Raphael Merida
QUESITO:
Quale fra queste due affermazioni è corretta dal punto di vista grammaticale?
1) L’ultima sua opera è stato un libro.
2) L’ultima sua opera è stata un libro.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette: il participio passato della copula può concordare con il soggetto o con il nome del predicato, se è un nome di genere diverso dal soggetto, come in questo caso. Si noti che il participio passato dei verbi copulativi preferisce di gran lunga l’accordo con il soggetto (“L’ultima sua opera è sembrata un capolavoro”; meno comune “… è sembrato un capolavoro”), mentre il participio passato dei verbi che richiedono il complemento predicativo del soggetto concorda soltanto con il soggetto (“L’ultima sua opera è stata ritenuta un capolavoro”; non *”… è stato ritenuto un capolavoro”).
Si noti che se il nome del predicato o il complemento predicativo è plurale mentre il soggetto è singolare, il verbo in qualsiasi sua forma preferisce di gran lunga la concordanza con il nome del predicato o il complemento predicativo, non con il soggetto (“Il suo miglior piatto sono / sono state / sembrano / sono sembrate / sono ritenute le lasagne”). Al contrario, nei pochi casi in cui il soggetto è plurale e il nome del predicato o il complemento predicativo è singolare, il verbo concorda con il soggetto (“I suoi amici sono la sua famiglia”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Un uomo attraversava i ghiacciai…: era equipaggiato, era armato ed era in viaggio verso chissà dove”. Il correttore del testo considera i verbi era equipaggiato ed era armato come forme passive. Avrei qualche perplessità in merito.
RISPOSTA:
Fa bene: in questo caso equipaggiato e armato sono usati come aggettivi e funzionano da parti nominali dei predicati nominali era equipaggiato e era armato. Può trovare maggiori spiegazioni sulla distinzione tra participio passato verbale e nominale in questa risposta dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il soggetto della proposizione implicita può avere due interpretazioni: impersonale oppure coreferente col soggetto della reggente, e spesso, ma non sempre, c’è la doppia possibilità. Avrei da proporre alcune frasi che secondo possono essere da esempio:
1) Mario era troppo grande per capirlo = doppia interpretazione: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò / Mario era troppo grande affinché si potesse capire Mario”.
2) Mario era troppo grande da capirlo = interpretazione che ha un soggetto coreferente con quello della reggente: “Mario era troppo grande affinché lui stesso potesse capire ciò”.
3) Mario era troppo grande da capire = interpretazione con soggetto impersonale/ generico: “Mario era troppo grande affinché soggetto generico potesse capire Mario”.
Le interpretazioni che ho dato alle precedenti frasi sono corrette o c’è qualcosa da rivedere?
RISPOSTA:
Le proposizioni implicite richiedono identità di soggetto con la reggente, tranne casi specifici (come quelle all’infinito rette da verbi di comando e il gerundio e il participio assoluti), che, però, sono a loro volta regolati. Nei suoi esempi l’interpretazione con il soggetto non coreferenziale è favorita dalla presenza del pronome atono diretto, che l’interlocutore è tentato di riferire al soggetto della reggente, escludendo di conseguenza quest’ultimo dal ruolo di soggetto della subordinata. Tale interpretazione “logica” è possibile in contesti parlati informali, ma sarebbe ovviamente sconveniente anche in questi contesti se facesse sorgere ambiguità. Nello scritto e anche nel parlato mediamente formale, le varianti con soggetto non coreferenziale vanno costruite con il verbo esplicito, per esempio “Mario era troppo grande perché lo si capisse”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
- “Stiamo parlando di voi stessi, ragazzi miei.”
- “Stavo parlando ai ragazzi di loro stessi.”
In questi due casi, stessi è corretto quale rafforzativo, oppure si tratta di un uso scorretto, in quanto il soggetto della proposizione non coincide con il pronome cui si riferisce l’aggettivo?
RISPOSTA:
L’uso è corretto in entrambi i casi; l’aggetto stesso può accompagnare i sintagmi nominali della frase (anche costruiti con un pronome) a prescindere dalla funzione sintattica da questi svolta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due soluzioni indicate più sotto sono, per motivi di registro, ammissibili.
1) Esserci impegnate / 2) Essersi impegnate.
Cerco di contestualizzare.
Un gruppo di studentesse contesta una valutazione da parte di un’insegnante. Una di esse, a nome del gruppo, si pronuncia in questi termini:
“Prendiamo atto che (l’)esserci/essersi impegnate al massimo e (l’)aver applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo, non è bastato per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (ho incluso l’articolo determinativo tra parentesi perché credo che il parlante possa liberamente decidere se esplicitarlo od ometterlo).
Vorrei inoltre domandarvi se, modificando dati elementi della costruzione ed esulando dal caso specifico, si possa “spersonalizzare” il concetto, creando così una sorta di “causa-effetto” generale:
“Prendiamo atto che (l’)essersi impegnati [non più femminile plurale, ma maschile] al massimo e (l’) aver applicato gli insegnamenti ricevuti negli anni, potrebbe non bastare per ottenere una valutazione sufficiente”.
RISPOSTA:
L’espressione da lei evidenziata si trova all’interno di una proposizione subordinata soggettiva retta dall’oggettiva non è bastato, che è impersonale; se la soggettiva condivide lo stesso soggetto della reggente essa deve essere ugualmente impersonale, quindi deve prendere la forma essersi impegnato, con il pronome si e il participio al singolare maschile. Tale soluzione risulta doppiamente controintuitiva, perché il soggetto logico è plurale e di sesso femminile (anche se il costrutto è grammaticalmente impersonale) e perché la proposizione che regge l’oggettiva è a sua volta dipendente dalla principale (per giunta collocata subito alla sinistra della soggettiva) costruita con il soggetto noi. Ne deriva un comprensibile rifiuto della forma che sarebbe corretta. Le alternative a questa soluzione sono: 1. la forma essersi impegnate, che a rigore è scorretta, perché è per metà impersonale (l’infinito essersi) e per metà personale (il participio concordato con il soggetto logico plurale femminile); 2. la forma esserci impegnate, che è internamente ben formata, ma sintatticamente scorretta perché costruisce la proposizione dipendente da una proposizione impersonale con un soggetto logico personale; 3. la costruzione personale, ma esplicita, della soggettiva: che ci siamo impegnate, corretta da tutti i punti di vista ma resa impossibile dalla coincidenza della presenza di un altro che subito prima (“Prendiamo atto che che ci siamo impegnate al massimo…”). Insomma, presupponendo di voler scartare la costruzione impersonale essersi impegnato e l’alternativa 3, bisogna ammettere che scegliere una delle altre due comporta una scorrettezza tutto sommato veniale; in particolare la soluzione 2 sarebbe la più facilmente giustificabile, vista la costruzione personale della proposizione principale. Una soluzione del tutto corretta e priva di controindicazioni è ovviamente possibile, ma comporta una riorganizzazione sintattica della frase; per esempio: “Prendiamo atto che non è bastato che ci siamo impegnate al massimo e abbiamo applicato, laddove possibile, gli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente”, oppure “Prendiamo atto che non è bastato il nostro massimo impegno e l’applicazione, laddove sia stata possibile, degli insegnamenti ricevuti nel corso del tempo per ottenere una valutazione almeno sufficiente” (che ha il vantaggio di evitare la sgradevole ripetizione di che a breve distanza).
A margine aggiungo che la virgola tra tempo e non non è richiesta, e anzi è al limite dell’errore, perché separa due parti non separabili della frase (prendiamo atto che… non è bastato) per il solo fatto che si trovano collocate a distanza.
In ultimo, la sua ipotesi di “spersonalizzazione” è valida, purché la forma sia quella corretta, ovvero essersi impegnato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La preposizione di può essere impiegata nella formazione di complementi di tempo.
Esempio:
“Il panettone si mangia di martedì” = ‘ogni martedì’.
Forse sarebbe utilizzabile anche davanti a mesi e periodi festivi dell’anno:
“il panettone si mangia sempre di dicembre / Natale” = ‘ogni dicembre / Natale’.
In generale, però, l’uso non “dovrebbe”, ma magari mi sbaglio, essere impiegabile nelle interrogative e nelle relative:
“Di quando / di che periodo/ di che mese / di che giorno si mangia il panettone?”
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui si mangia il panettone”.
Ripensando, però, a verbi come ricorrere o cadere, che fanno uso della preposizione di, mi sono sorti dei dubbi.
Ecco una frase tratta da un dizionario:
“Quest’anno Pasqua cade di marzo”.
Quello che mi chiedo è se l’uso e le regole cambino in presenza di simili verbi:
“Di quando / di che periodo / di che mese / di che giorno cade / ricorre Pasqua?” (???)
“Questo è il periodo / mese / giorno di cui cade / ricorre questa festa” (???).
RISPOSTA:
La preposizione di si può usare per formare un complemento di tempo determinato; quando si combina con i nomi della settimana conferisce al sintagma un significato accessorio specifico, riguardante la tendenziale iterazione del processo (“Ci vediamo di domenica = ‘… solitamente la domenica’ / “Ci vediamo domenica” = ‘… questa domenica’ ). Di là dalla combinazione con i nomi della settimana, la preposizione è poco usata per questo scopo; a essa vengono preferite in o a, ciascuna preferenzialmente o obbligatoriamente in combinazione con alcune serie di parole (per esempio (in / di / a maggio, ma a Natale, difficilmente di Natale, mai in Natale). Le interrogative che le sembrano innaturali, pertanto, sono semplicemente insolite; l’unica costruzione effettivamente scorretta è di quando, perché quando esprime già senza preposizione quel significato (di quando è usato, in uno stile trascurato, soltanto insieme al verbo essere con il significato di ‘a quando risale’; per esempio: “Di quando è il pollo che è in frigo?”). Le relative, invece, risultano estremamente innaturali, per quanto in linea di principio corrette. Diversamente dalle interrogative (escluse quelle introdotte da quando), che ripropongono il sintagma preposizionale con il nome (di che periodo, di che mese…), le relative spostano la preposizione sul pronome, producendo una combinazione molto complessa, vista la scarsa frequenza d’uso di di con questa funzione. Qualsiasi parlante preferirebbe, in questo caso, in cui.
I verbi cadere e ricorrere ‘capitare regolarmente’ sono, in forza del loro significato, completati da argomenti costruiti come sintagmi preposizionali introdotti proprio da di, ma anche da in e a, con le stesse precisazioni circa la combinabilità con diverse serie di nomi e all’interno di tipi di frasi fatte in precedenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alla possibile collocazione dei modificatori nominali in diversi contesti e situazioni.
Modificatori del nome preceduti da un modificatore verbale:
1a. Ho messo una cosa qui bellissima / di marmo / che potrebbe aiutarmi.
Modificatori del nome dopo il verbo dell’interrogativa:
2a. Quale cosa hai venduto di plastica / plasticosa / che non andava venduta?
3a. Quante ne hai dezuccherate / senza zucchero / che non fanno male alla salute?
4a. Cosa hai osato toccare di colore giallo / di legno / che non andava toccato?
5a. Di quale parte sei della Svezia?
Questione ancora più complicata:
Modificatori del nome, preceduti da un modificatore verbale, collocati dopo il verbo di un’interrogativa:
6a. Quale cosa hai messo qui di colore rosso / rossa / che non apprezzi più di tanto?
7a. Quale cosa hai comprato senza nemmeno avvisarmi di colore rosso / rossa / che ti piace?
Chiaramente tutte le frasi possono essere riformulate in questo modo:
1b. Ho messo qui una cosa bellissima / di vetro / che potrebbe aiutarmi.
2b. Quale cosa di plastica / plasticosa / che non andava venduta hai venduto?
3b. Quante dezuccherate / senza zucchero / che fanno male ne hai?
4b. Cosa di colore giallo / di legno / che non andava toccato hai osato toccare?
5b. Di quale parte della Svezia sei?
6b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che non apprezzi hai messo qui?
7b. Quale cosa di colore rosso / rossa / che ti piace hai comprato senza avvisarmi?
La questione potrebbe farsi più intricata se si pensa che in alcune di queste frasi il complemento preposizionale / aggettivo potrebbe essere interpretato come modificatore verbale, più precisamente come complemento predicativo del soggetto / oggetto, non come modificatore nominale, vista la sua posizione postverbale, per la precisione negli esempi da 2 e 4.
Inoltre, l’esempio 7 potrebbe essere ambiguo, in quanto che ti piace potrebbe essere anche inteso come subordinata esplicita del verbo avvisare, dando il senso che qualcuno compra un qualcosa che gli piace, senza però avvisare qualcun altro.
Chiaramente queste situazioni di ambiguità si possono creare, ma quello che mi chiedo è questo: sintatticamente e grammaticalmente parlando, possiamo parlare di frasi corrette in questi significati e nel senso che vorrei dare? Cioè, i vari modificatori nominali (di legno, che non andava toccato, della Svezia, bellissima ecc.) delle frasi b si possono considerare dei modificatori nominali tanto nelle varianti a quanto nelle varianti b?
RISPOSTA:
Qualunque sia la posizione del modificatore, esso sarà sempre ricondotto al sintagma modificato; anche se interpretiamo i modificatori come complementi predicativi (o predicazioni supplementari), dal punto di vista sintattico e semantico essi modificano ancora i sintagmi nominali a cui si riferiscono. Va, però, detto, che il modificatore è tipicamente adiacente al modificato, tranne che non ci siano ragioni per allontanarlo (per esempio l’inserimento di un altro modificatore più strettamente legato al modificatore o la funzione predicativa del modificatore): alcune frasi a, pertanto, risultano innaturali e al limite dell’accettabilità (per esempio “Ho messo una cosa qui bellissima”, perché difficilmente si può accettare che l’aggettivo qualificativo sia legato al sintagma nominale qualificato meno strettamente di un’indicazione di luogo). La proposizione esclusiva nella frase 7 non è in nessun caso un modificatore del nome (infatti non può essere in alcun modo trasformata in una relativa il cui pronome introduttore riprenda il sintagma nominale o in un aggettivo); modificatori di sintagmi nominali introdotti da senza sarebbero, ad esempio, borsa senza manici (ovvero che non ha i manici), oppure maglietta senza maniche (smanicata).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, leggere è un verbo o un sostantivo, e ha funzione di complemento oggetto?
“Amo tanto leggere, in particolare mi piacciono i libri fantasy”.
RISPOSTA:
Nella frase non è possibile decidere se l’infinito abbia valore di verbo o di nome: entrambe le analisi sono, pertanto, legittime. Il fatto che la parola non sia preceduta dall’articolo, comunque, fa propendere per l’analisi come verbo; diversamente, in una frase come “Amo tanto il leggere” la parola sarebbe certamente da analizzare come nome. Al contrario, se leggere fosse seguito da un complemento oggetto (per esempio “Amo tanto leggere romanzi d’avventura”) emergerebbe più chiaramente la funzione verbale.
Se leggere è un nome, esso rappresenta il complemento oggetto del verbo amo; se, invece, è un verbo, allora rappresenta una proposizione oggettiva subordinata alla reggente amo tanto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1a) Le parole che iniziano / terminano per a.
1b) La lettera per cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.
1c) Per quale lettera inizia / termina questa parola?
2a) Le parole che iniziano / terminano in a.
2b) La lettera in cui inizia / termina la parola mela è proprio questa.
2c) In quale lettera inizia / termina questa parola?
Sempre con per e in, a livello sportivo, ho sentito frasi come:
3a) La partita che è finita per 1-1.
4a) La partita che è finita in 1-1.
Azzarderei anche delle frasi (che ovviamente sono di mia invenzione e non ho ancora sentito, onestamente, ma che sono la versione in forma di frase interrogativa e relativa delle due frasi precedenti) come ad esempio:
3b) Questo è il risultato per cui è finita la partita.
4b) Questo è il risultato in cui è finita la partita.
3c) Per quale risultato è finita la partita?
4c) In quale risultato è finita la partita?
Quali sono rispettivamente i complementi introdotti da per e in nelle frasi?
Per quanto riguarda in azzarderei che si possa trattare di complemento di luogo figurato, mentre per quanto riguarda per non saprei che dire.
RISPOSTA:
Dobbiamo distinguere tra le frasi del gruppo 1, in cui il verbo iniziare significa ‘essere formato nella parte iniziale’ e terminare significa ‘essere formato nella parte finale’, e le altre, in cui finire significa ‘raggiungere un certo stato’, quindi ‘diventare alla fine’. Nelle frasi 1 i due verbi sono completati da un sintagma argomentale (cioè sintatticamente necessario alla costruzione della frase) che nell’analisi logica rientrerebbe nel complemento di mezzo e può essere formato con le preposizioni per, in o anche con. Si noti che termina in a va interpretato non come ‘nella a’ (complemento di stato in luogo), ma, appunto, come ‘per mezzo di a’ (complemento di mezzo). Nelle altre frasi, il verbo finire richiede un complemento predicativo (anch’esso argomentale), che di norma non è preceduto da alcuna preposizione; la forma più comune della frase 3a sarebbe, infatti, “La partita è finita 1 a 1”, ovvero ‘alla fine è diventata 1 a 1’. In questo stesso contesto il verbo finire può anche prendere il significato di ‘completarsi, essere chiuso’, avvicinandosi molto al terminare delle frasi del gruppo 1; quando è usato con questo significato esso può richiedere il completamento con il complemento di mezzo formato con le proposizioni per, in e con. Per la verità, in questo contesto quest’uso è limitato a pochi casi e a poche espressioni, spesso cristallizzate (quindi soltanto con un po’ di sforzo inquadrabili nello schema dei complementi): in particolare il complemento formato con per si usa soltanto nella forma semplice e affermativa della frase (le frasi 3b e 3c sono del tutto innaturali), in si usa soltanto nell’espressione in parità o in espressioni come in modo imprevedibile, che dal complemento di mezzo sfuma nel complemento di modo (tutte le frasi 4 sono, invece, impossibili), con si usa in espressioni come con un pareggio, con la vittoria di…, con la sconfitta di…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo su un libro di Grammatica la suddivisione che riporto: è possibile che sia un errore di battitura o qualcosa de genere?
Frase: “Dice / che le sente frullare / come se fossero uccellini in gabbia.”
Mi aspettavo anche la suddivisione di “… le sente / frullare…”
RISPOSTA:
Ha ragione: bisogna distinguere tra reggente e subordinata anche nei casi di infinitiva retta da un verbo di percezione (vedere, sentire ecc.). Probabilmente le peculiarità del costrutto avranno indotto l’errore. In effetti i verbi di percezione reggono un’infinitiva peculiare, sia perché è molto prossima a una relativa («sente loro che frullano»), sia perché il soggetto dell’infinitiva diventa oggetto della reggente (le).
Fabio Rossi
QUESITO:
I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.
Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:
«Mi mangio la mela»: uso intensivo.
«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.
Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?
RISPOSTA:
Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.
Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).
«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».
Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.
«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.
«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.
Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase «Era bagnato fradicio e tutto coperto di neve», i due predicati, in analisi logica, sono verbali o nominali?
RISPOSTA:
Possono essere analizzati sia come predicati verbali, sia come predicati nominali, a seconda che si dia ai participi passati il valore verbale o aggettivale. Come spesso accade, l’interpretazione cambia a seconda dell’ottica dell’analista: non si tratta, cioè, di un’opposizione di sistema (cioè della grammatica italiana), bensì del punto di vista del linguista. La differenza tra predicato verbale e predicato nominale è meno netta di quanto comunemente si creda e dipende essenzialmente dal grado di autonomia semantica attribuito al verbo (debole, nel caso della copula nel predicato nominale) e all’aggettivo o sostantivo che lo accompagna. Nel caso specifico, bagnato e coperto possono essere interpretati come parte di un imperfetto passivo, oppure come aggettivi. Dato che non vi sono elementi dirimenti per attribuire un ruolo verbale a bagnare e coprire (per esempio la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «bagnato dalla pioggia», «coperto dalla neve»), mi pare più prudente l’interpretazione di bagnato e coperto come aggettivi, e dunque l’interpretazione di «era bagnato» e «era coperto» come predicati nominali. Completiamo l’analisi logica della frase: tutto è complemento predicativo del soggetto, mentre di neve è comunque un complemento argomentale (non importa se di specificazione, qualità, mezzo o altro), cioè un complemento che serve a completare il significato del participio (coperto) che altrimenti resterebbe incompleto. Si potrebbe dunque dedurre da ciò che «coperto di neve» sia analogo a «coperto dalla neve» e che dunque il predicato sia verbale; tuttavia il valore argomentale di «di neve» non è dirimente, ai fini del valore verbale piuttosto che aggettivale, dal momento che anche gli aggettivi possono esigere un complemento argomentale per essere completati, come nel caso di «essere pieno di neve», «essere adatto alle strade bagnate», «essere tifosa di una squadra» e simili. Pertanto, esattamente come «era fradicio» e «era pieno (di neve)» sono predicati nominali, analogamente «era bagnato (fradicio) e «era coperto (di neve)» sono predicati nominali, mentre «era sferzato dal vento», per esempio, sarebbe un predicato verbale, dal momento che, proprio come in «bagnato dalla pioggia» e «coperto dalla neve», i complementi di causa efficiente consentono la trasformazione della frase da passiva in attiva («il vento lo sferzava», «la pioggia lo bagnava», «la neve lo copriva»), requisito di un predicato verbale (ma non di un predicato nominale: gli aggettivi e i nomi, non essendo temporalizzati, non hanno diatesi attiva o passiva). Tornando però, circolarmente, all’inizio del mio ragionamento, anche quest’ultima analisi potrebbe essere contestata, dal momento che non tutti i verbi passivi reggono un complemento d’agente o di causa efficiente, né soltanto i verbi ammettono la reggenza di un argomento oltre al soggetto. Come si vede, in casi siffatti, più che la distinzione tra predicato verbale e nominale sembra contare il riconoscimento della predicazione e la struttura sintattica della frase, cioè il riconoscimento di tutti gli argomenti del verbo, dei sostantivi e degli aggettivi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette
1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre
2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre
RISPOSTA:
Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.
Le pongo qualche esempio:
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.
In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:
Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.
Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.
Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.
Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.
Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.
Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.
Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.
Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?
RISPOSTA:
L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre visto come corrette delle frasi come «sarebbe impossibile / difficile che tu ce la faresti» o «sarebbe stato impossibile / difficile che tu ce l’avresti fatta».
In particolare la prima venne posta come quesito sul Treccani e tale frase venne giudicata scorretta: https://eur01.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Ft.ly%2FcAH1&data=05%7C01%7Cdico%40unimeit.onmicrosoft.com%7C6e16b9f793c349bff4b108db1c545e1f%7C84679d4583464e238c84a7304edba77f%7C0%7C0%7C638134920903056748%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C3000%7C%7C%7C&sdata=ksgYbWZ1G3CzalQb%2FG%2BomQ7%2Fa%2BcHdSo%2Fl88W%2F%2BRGhhU%3D&reserved=0.
Sinceramente, pensandoci e ripensandoci, non ne capisco il motivo, perché:
-Penso che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Penserei che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Pensavo che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
-Avrei pensato che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
Per lo stesso motivo riterrei corrette anche:
-È impossibile / difficile che tu ce la faresti (protasi implicita nella soggettiva).
-Era impossibile / difficile che tu ce la avresti fatta (protasi implicita nella soggettiva).
Seguendo la stessa logica, anche le due frasi iniziali mi sembrano corrette.
Lei cosa ne pensa?
RISPOSTA:
Come giustamente spiegato nella risposta del sito Treccani, la protasi implicita («se ci provassi» o «se ci avessi provato») è dipendente dall’apodosi «sarebbe (stato) impossibile / difficile», non certo da «che tu ce la facessi», che dipende, come completiva soggettiva, dall’apodosi stessa. Quindi la frase da lei proposta, al condizionale, è sbagliata, poiché in dipendenza da «è difficile / impossibile» le uniche alternative possibili sono il congiuntivo o, informalmente, l’indicativo: «sarebbe (stato) impossibile / difficile che tu ce la facevi».
In tutti gli altri casi, in cui la completiva è oggettiva e non soggettiva, la protasi sottintesa («se ci provasse / avesse provato») dipende dall’oggettiva stessa, e non dalla proposizione da cui l’oggettiva dipende («penso» ecc.), ecco perché, in questi ultimi casi, il condizionale è ammesso, mentre nei casi da lei proposti no, perché, come ripeto, l’apodosi non è rappresentata dalla soggettiva bensì dal verbo da cui la soggettiva dipende, cioè «sarebbe impossibile / difficile», che infatti è regolarmente al condizionale. Il suo errore è pertanto duplice: 1) nel credere che l’apodosi sia costituita dalla soggettiva (anziché dalla proposizione che regge la soggettiva) e 2) nell’estendere indebitamente il condizionale (già esistente) nell’apodosi alla completiva che ne dipende.
Dunque il condizionale in dipendenza da una soggettiva è sempre impossibile? No, è raro, ma non impossibile. Per es. in dipendenza da verbi che indicano certezza o conoscenza: «È certo / noto che tu potresti farcela», perché in questo caso, effettivamente, la protasi sottintesa dipende dalla completiva: «se ci provassi [è certo che] ce la faresti / potresti farcela». Perché? La risposta, non semplicissima, risiede nel differente statuto semantico-strutturale di verbi impersonali come è noto, è sicuro ecc. rispetto a verbi (con un diverso grado di impersonalità) quali è difficile e simili. Infatti posso trasformare in personale «è noto» con «qualcuno sa» (trasformando dunque la soggettiva in oggettiva), mentre l’unico soggetto possibile di «è difficile» è la stessa cosa che è difficile. Tant’è vero che «è difficile» (e simili) ammette una dipendente implicita («È difficile riuscirci»), mentre «è noto» (e simili) no (*«È noto riuscirci» è inammissibile in italiano).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre due quesiti che mi attanagliano:
«È/è stata la cosa migliore che avremmo/avessimo potuto fare»?
«Mi sembra tutto/tutta una follia»
Credo siano tutte forme corrette, ma vorrei capire nello specifico che cosa cambi.
RISPOSTA:
Sì, in entrambi i casi entrambe le varianti sono corrette, senza alcun cambiamento semantico rilevante.
Nella prima variante della prima frase, la prospettiva è quella di considerare la cosa da fare come un futuro nel passato: io adesso racconto che nel passato avremmo potuto fare una cosa (cioè nel futuro rispetto al passato, ma comunque nel passato rispetto a ora) che effettivamente poi abbiamo fatto (nel passato). Nel secondo caso, invece, prevale il punto di vista di considerare la cosa come semplicemente passata. Esiste inoltre una terza possibilità, cioè quella dell’imperfetto congiuntivo: «È/è stata la cosa migliore che potessimo fare». Quest’ultima variante, che indica contemporaneità (e/o possibilità) nel passato, funziona meglio con la reggenza al passato («È stata la cosa»), tuttavia funziona anche in dipendenza dal presente («È la cosa»), in quanto rimane tuttora, a ripensarci, la cosa migliore (che potessimo/avremmo potuto/avessimo potuto fare). Tra tutte le soluzioni, quella che mi pare più naturale è «È [perché lo è tuttora] la cosa migliore che potessimo fare», oppure, in modo ancora più semplice e chiaro (e dunque sempre preferibile: perché complicare e complicarci la vita?), «Abbiamo fatto la cosa migliore».
Nella seconda frase, l’accordo può avere come testa sia il soggetto ([Ciò] mi sembra tutto una follia»), sia il predicativo del soggetto («una follia»). Nel primo caso, inoltre, si può anche sostenere che «tutto» sia un soggetto posposto e comunque il significato della frase non cambierebbe.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.
1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.
2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.
(Verbo intransitivo/participio passato verbale)
3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.
4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione
(Verbo passivo/participio passato verbale)
5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.
6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.
7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.
(Participio presente verbale)
8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia
9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione
(Participio passato con funzione aggettivale)
10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno
(Participio presente con funzione aggettivale)
11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.
12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.
13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.
(Aggettivo)
Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.
Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:
“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.
In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.
Per esempio:
Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.
Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.
Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.
Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?
RISPOSTA:
Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».
«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).
«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».
«I partecipanti al convegno»: uso nominale.
«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.
«I laureati in economia»: nominale.
«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.
«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.
«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.
Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei porre un quesito: in frasi come “non sentirsela di …”, qual è il tipo di subordinata così introdotta?
RISPOSTA:
È una subordinata completiva, per la precisione oggettiva; infatti il verbo pronominale (o più precisamente procomplementare) sentirsela per essere completato ha bisogno di un argomento (che funge da complemento oggetto) rappresentato dalla subordinata oggettiva implicita introdotta da di, come se fosse sento di…: «Non me la sento di uscire» = «Non mi sento di uscire» (analogamente a «Non sento la voglia di uscire»).
Fabio Rossi
QUESITO:
So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.
RISPOSTA:
Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.
«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».
C’è qualche regola da seguire?
Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.
Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».
RISPOSTA:
In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).
Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.
«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».
«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».
Fabio Rossi
QUESITO:
“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?
RISPOSTA:
Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono corrette frasi come: «Penso che io sia sordo» oppure «penso che io sia chiaro»?
RISPOSTA:
Non sono scorrette ma sarebbe bene evitarle, dal momento che una completiva con lo stesso soggetto della reggente si esprime di norma in forma implicita, anziché esplicita: «Penso di essere sordo» e «penso di essere chiaro».
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto l’utilizzo del verbo provvedere in questo modo? “Avresti dovuto PROVVEDERE IN QUELLA DIREZIONE per evitare problemi”.
RISPOSTA:
Sì; in una frase come la sua il verbo provvedere è usato assolutamente, ovvero come verbo intransitivo monovalente (o inergativo). Con questa costruzione, il verbo assume il significato di ‘cercare una soluzione’ e può certamente essere arricchito da sintagmi aggiunti (o espansioni) come in quella direzione, che restringe l’ambito dell’intervento a quello nominato precedentemente nel discorso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo di propormi la vostra analisi del periodo di questo breve testo.
“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nei buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Claudio Magris, Un altro mare).
RISPOSTA:
Di seguito l’analisi del periodo; in coda si forniranno alcune note.
Carlo gli aveva detto, lui = principale
che, nell’ora sarebbe salito sull’abbaino della soffitta = sub. oggettiva di I grado;
in cui la nave doveva salpare, = sub. relativa di II grado;
per guardare, nella sera in direzione di Trieste, là = sub. finale di II grado;
che si spegneva, = sub. relativa di III grado;
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di III grado;
quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio = sub. comparativa ipotetica di III grado;
e salvare le cose dall’oscurità = coord. alla sub. comparativa ipotetica di III grado;
che aveva insegnato = sub. relativa di I grado;
che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire = sub. oggettiva di II grado;
vedere le cose lontane = sub. oggettiva di III grado;
come fossero vicine, = sub. comparativa ipotetica di IV grado;
abolire la brama = coord. alla sub. oggettiva di III grado;
di afferrarle, = sub. dichiarativa di IV grado;
perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere = sub. causale di V grado.
La proposizione principale nel testo è divisa in due parti, che si trovano a grande distanza l’una dall’altra; la prima parte (Carlo gli aveva detto) è continuata da una serie di subordinate contenenti descrizioni di luoghi e azioni, la seconda (il pronome lui) prolunga a distanza la principale per aggiungere alla frase un’informazione astratta (nella quale, però, si rispecchia il soggetto). Il sintagma complesso in direzione di Trieste, là è quasi certamente aggiunto al verbo guardare, ma non è escluso che ruoti intorno al verbo spegnere. Se si segue questa seconda interpretazione l’analisi di quella parte diventa:
per guardare, nella sera = sub. finale di II grado;
che si spegneva, in direzione di Trieste, là = sub. relativa di III grado.
Ancora, la relativa dove lui, Enrico, partiva può essere interpretata come dipendente da quest’ultima proposizione, per cui avremmo:
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di IV grado.
In questo caso guardare cambia valenza e significato; non è più bivalente con il significato di ‘osservare un oggetto o un processo’, ma monovalente con il significato di ‘soffermarsi a contemplare’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?
«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»
O ancora:
«Perché non si è intervenuto/i prima?».
RISPOSTA:
Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.
I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il testo che segue è la parte di una favola. Vorrei sapere se la punteggiatura e i verbi sono corretti:
«In una grande prateria ci vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che così appena gli sarebbe venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e si sarebbe preso una botta/crapata e così andò».
RISPOSTA:
In brano presenta svariate inesattezze, che commenterò sotto.
«In una grande prateria ci vivevano [il ci è pleonastico: indica infatti il complemento di luogo già espresso da in una grande prateria; ci va dunque eliminato] bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… [eviterei i due punti che spezzano inutilmente il discorso; li sostituirei con una virgola] Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è [refuso per e congiunzione] proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, [prima di infatti va un segno di punteggiatura forte, come un punto e virgola] infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che [eliminare il che e aggiungere due punti] così [virgola] appena gli sarebbe [fosse: qui il condizionale è sbagliato perché è come se fosse un periodo ipotetico: se gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato…] venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e [manca il soggetto, altrimenti il lettore crede che si tratti sempre dell’insetto, mentre invece qui il soggetto cambia ed è il bufalo] si sarebbe preso una botta/crapata [crapata è troppo informale/regionale e stona in un racconto; anche il generico botta non è il massimo; meglio testata, o gran testata, seguito da un punto] e così andò».
Quindi il brano corretto sarebbe come segue:
«In una grande prateria vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo, forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi e proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male; infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero: così, appena gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e il bufalo si sarebbe preso una gran testata. E così andò». Oppure: «così, appena il bufalo gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e quello si sarebbe preso una gran testata».
Fabio Rossi
QUESITO:
In un avviso qual è la forma corretta da scrivere?
1) Si avvisa ai signori condomini
2) Si avvisa i signori condomini.
RISPOSTA:
Nessuna delle due, bensì: «Si avvisano i signori condomini», con il si passivante con valore impersonale: ‘i signori condomini sono avvisati’. Avvisare è intransitivo e dunque regge il complemento oggetto, non il complemento di termine (ai). Un’alternativa possibile soltanto in Toscana sarebbe quella con il si con valore di prima persona plurale: «Si avvisa i signori condomini», cioè ‘noi avvisiamo i signori condomini’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale frase è corretta? Li adoro / Gli adoro?
RISPOSTA:
Li adoro, perché adorare regge il complemento oggetto (li) e non il complemento di termine (gli, loro).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette e ben scritte, e se non lo sono, perché. Tra parentesi inserisco i punti che mi interessano:
1) Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre, ecc. (necessaria)
2) Chi è senza, non usa le dovute maniere. (La virgola).
3) Piuttosto che: “Il lavoro nobilita l’uomo”, dovresti dire ecc. (Il “piuttosto che” con discorso diretto)
4) La scuola non solo ti insegna tante cose, ma ti dà la possibilità di conoscere tante persone. (Nessuna virgola dopo “scuola”).
5) Gli uomini hanno costruito le strade per spostarsi. (Hanno costruito).
6) Nel mondo di oggi la vita è pervasa da ecc. (L’assenza della virgola dopo “oggi).
RISPOSTA:
Su alcune si queste abbiamo già pubblicato una risposta, ma la ripetiamo in sintesi.
1) Necessario: qui l’accordo non è con amica, ma con avere un’amica.
2) La virgola può andare, per segnalare l’ellissi, che tuttavia è strana (per l’ellissi e per l’adiacenza senza non), quindi sarebbe bene evitarla (l’ellissi e conseguentemente anche la virgola) prima di aver nominato l’oggetto in forma piena. Per esempio: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarne uno», in questo caso senza virgola, per non separare il soggetto dal predicato.
3) Va bene ma elimini i due punti, perché non è né un vero e proprio discorso diretto (piuttosto la citazione di un proverbio) né un elenco, sibbene una frase linearizzata, senza bisogno di staccarne i costituenti.
4) Senza dubbio senza virgola: mai separare il soggetto dal predicato.
5) Corretta. Costruite sarebbe ridicolmente pomposo e arcaico.
6) Senza virgola, per carità: mai separare il soggetto…
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sorge un dubbio. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? Questi è mio cugino oppure questo è mio cugino?
Se dico: mio cugino fa il falegname. Questi è molto bravo nel suo lavoro.
Oppure si deve usare questo?
RISPOSTA:
Questo è più informale, questi è molto formale. Tuttavia nel suo esempio sono inappropriati entrambi, perché non c’è alcun bisogno di ribadire il soggetto nominato tre parole prima. Quindi l’unica frase adatta è la seguente: «Mio cugino fa il falegname. È molto bravo nel suo lavoro» (oppure «ed è molto bravo…»).
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sull’analisi logica di questa frase, potreste aiutarmi?
«Il gatto è capace di scendere».
È corretto dire che di scendere è un complemento indiretto?
RISPOSTA:
Cominciamo dall’analisi del periodo: il gatto è capace: proposizione principale; di scendere: subordinata completiva (detta anche argomentale) indiretta (ovvero è come se fosse un’oggettiva, pur non dipendendo da un verbo transitivo). Dunque di scendere non è un complemento bensì una proposizione subordinata.
Analisi logica della principale: il gatto: soggetto; è capace: predicato nominale, analizzabile in è: copula + capace: parte nominale (o nome del predicato).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase seguente «ll Dirigente scolastico e gli insegnanti hanno il piacere di incontrarvi per presentare la nostra scuola», non sarebbe meglio scrivere presentarvi?
RISPOSTA:
Non è indispensabile, il senso è chiarissimo ugualmente. Del resto il verbo presentare richiede il dativo soltanto se si presenta una persona a un’altra, ma per altri contesti si può presentare una relazione, un progetto, una scuola, senza specificare a chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se con piuttosto che si possano usare i due punti, come nel caso: «Piuttosto che: “L’occasione fa l’uomo ladro”, si dovrebbe dire…».
Inoltre, se nella frase “Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre”, sia giusto mettere “necessaria” e non “necessario”.
RISPOSTA:
No, nel primo caso non si tratta di un elenco, ma di una frase legata, che come tale non richiede i due punti.
Nel secondo caso, l’accordo corretto è al maschile (necessario), perché l’aggettivo non si riferisce all’amica, bensì all’azione (e alla proposizione) avere un’amica.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.
Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.
La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?
RISPOSTA:
L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).
Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.
Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .
Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava, è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).
Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se sia sempre errato inserire una virgola prima o dopo un complemento («Hai lasciato altre cose in macchina», «Qui, nevica», «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia», «Con il vocativo, ci va la virgola», «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania, ecc.), oppure prima del che («L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»).
Mentre sono certo che una frase del genere è agrammaticale: «Il gatto di Luca, è un persiano.», «È un persiano, il gatto di Luca.»
RISPOSTA:
L’uso della punteggiatura, poco sistematico nelle trattazioni grammaticali, risponde a una molteplicità di funzioni, almeno sintattiche, pragmatiche, testuali, espressive, stilistiche, mimetiche dell’intonazione.
Quindi in molti degli esempi da lei riportati la virgola può esserci, oppure no, a seconda del contesto e della sfumatura pragmatico-semantica da dare al testo. Vediamoli in dettaglio.
1) «Hai lasciato altre cose, in macchina»: la presenza della virgola prima di in macchina attribuisce al sintagma il valore di informazione condivisa, per esempio perché è stata già introdotta: so che sai di aver lasciato alcune cose in macchina, ma ti faccio notare che ne hai lasciato anche altre (in macchina).
2) «Qui, nevica»: efficace nei casi di contrasto: qui, nevica, mentre da te in Sicilia immagino ci sia un sole che spacca, beato te!
3) «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia»: la virgola prima di dall’Australia mette lui in relazione con qualcun altro che parte dall’Australia (per es. “Non saremo gli unici australiani alla riunione; domani parte anche lui, dall’Australia”).
4) «Con il vocativo, ci va la virgola»… mentre col soggetto no.
5) «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania»: la virgola attribuisce pari importanza a entrambe le proposizioni.
6) «L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»: con le relative la virgola ne segnala la natura esplicativa, anziché limitativa. Cioè, se c’è la virgola la relativa aggiunge un particolare accessorio, non determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa, come in: «La macchina, che può avere dei problemi, è di Luca»: c’è solo una macchina, che è di Luca e che può avere dei problemi; «La macchina che può avere dei problemi è di Luca»: ci sono almeno due macchine, una con problemi (e di Luca) e l’altra no.
7) «Il gatto di Luca, è un persiano»: mai separare il soggetto dal predicato con una virgola, a meno che non si voglia mettere in evidenza il soggetto, come in «È un persiano, il gatto di Luca», che va benissimo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».
«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.
Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?
RISPOSTA:
Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando il verbo essere viene usato in una costruzione tipo il fatto è che, dato che essere è un verbo copulativo, non è possibile che la proposizione introdotta dal pronome che sia un’oggettiva, è vero? Il fatto diventa il predicato nominale?
Prendiamo questo esempio: “Sono contento che sia andata così”. Qui abbiamo il verbo copulativo essere. Io è il soggetto, giusto? Contento sembra un predicato nominale, giusto? La proposizione dopo il che non può essere una soggettiva anche se il verbo nella prima frase è essere: come mai? È a causa del predicato nomiale contento o a causa del soggetto io? O è qualcos’altro?
Prendiamo questo esempio dal libro Il francese di Massimo Carlotto:
Si era convinto che quella bella ragazza non POSSEDESSE altro che il suo corpo (p. 9-10).
Sembra un’altra proposizione oggettiva (dopo che). Non riesco a capire come mai non è scritto “Si era convinto del fatto che quella bella ragazza non possedesse altro che il suo corpo”. Quale tipo di proposizione segue il che nella frase scritta da Carlotto?
RISPOSTA:
La copula non può reggere il complemento oggetto, quindi se la reggente è il fatto è o espressioni simili la subordinata è soggettiva. In effetti questa subordinata potrebbe rappresentare sia il soggetto del verbo essere (per esempio “Il fatto è che non voglio venire” = “Che non voglio venire è il fatto”), sia il completamento del predicato di cui fa parte il verbo essere (che non potremmo chiamare predicato nominale, visto che sarebbe formato dalla copula più un’intera proposizione); per semplicità, comunque, la consideriamo soggettiva (e in nessun caso oggettiva). Nella frase “Sono contento che sia andata così” la proposizione subordinata non può fare da soggetto del verbo essere: in questo caso il soggetto della reggente non può che essere io e il predicato nominale è sono contento. L’aggettivo contento può essere completato da un argomento preposizionale (che prende il nome di oggetto obliquo), per esempio sono contento del risultato, oppure da una proposizione argomentale (ovvero completiva) oggettiva. L’aggettivo convinto ha la stessa costruzione di contento: può reggere un argomento preposizionale (per esempio sono convinto della mia opinione) o una proposizione oggettiva, come nel suo esempio. Nella variante della frase sono convinto del fatto che… l’aggettivo convinto è completato dall’argomento preposizionale del fatto, il quale, a sua volta, regge una proposizione argomentale. Questa proposizione può essere classificata ancora come oggettiva, se consideriamo convinto che equivalente a convinto del fatto che, oppure (come farei io) dichiarativa, visto che è retta non da un verbo, ma dall’argomento di un verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato. (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
Le ho risposto: Spero che tu CI abbia portato dei soldi.
Intendevo “a Madrid” per CI. E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano. Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male. E’ una questione del verbo? E’ locuzione? Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire). Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?
RISPOSTA:
Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario.
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se questa espressione è corretta: “È cominciata male ed è finita peggio”. È possibile anche dire: “Ha cominciato male ed ha finito peggio”? Istintivamente vedrei meglio la prima espressione se il soggetto sottinteso fosse una situazione, mentre vedrei meglio la seconda se il soggetto sottinteso fosse una persona.
RISPOSTA:
L’espressione cristallizzata è quella con l’ausiliare essere. L’altra variante non è scorretta, ma non ha il valore idiomatico proprio della prima e, inoltre, ha un significato leggermente diverso: è cominciata significa ‘ha avuto inizio’ e sottintende un soggetto come la cosa, la situazione; ha cominciato significa ‘ha dato inizio’ e sottintende un soggetto animato, oltre che un complemento oggetto come la cosa, la situazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
a) I negozi che sono vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.
Credo che entrambe le soluzioni siano corrette.
Vorrei sapere se rendendo la frase ellittica del primo predicato il parlante possa
comunque decidere quale soluzione adottare.
b) I negozi vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni vanno bene, e sono chiare, sia nella versione con verbo espresso, sia nella versione nominale, cioè priva di verbo.
Vicino a è locuzione preposizionale costruita con l’avverbio (come tale invariabile) vicino + la preposizione a.
Vicini è invece l’aggettivo (e come tale flesso) costruito con la preposizione a (ovvero un aggettivo che richiede un argomento preposizionale). Non c’è alcun motivo per preferire l’una costruzione all’altra.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle seguenti frasi si accorda o no il participio passato con il pronome diretto?
Frase 1:
Il senso dell’umorismo lo ha aiutato (lui)
Frase 2:
L’ironia lo ha aiutato o
L’ironia lo ha aiutata? (lui)
RISPOSTA:
Il participio passato si accorda, in questo caso, con il pronome, che esprime il complemento oggetto: dunque, essendo maschile, l’unica forma corretta è al maschile. Se ci fosse “la” come pronome, allora il participio andrebbe al femminile: L’ironia la ha (o l’ha) aiutata (cioè lei, per es. Giulia).
Di norma, il participio passato nei verbi composti o non si accorda (è cioè al maschile indistinto): ti ho scritto una lettera. Oppure si accorda con l’oggetto se è transitivo attivo (l’ho salutata), con il soggetto se è intransitivo (Giulia è andata) oppure transitivo passivo (Giulia è stata promossa).
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?
RISPOSTA:
Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da a (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?
RISPOSTA:
Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o comprata) una casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi capita spesso di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?
RISPOSTA:
Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmi, mi sto preparando, mi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho scritto un paio di frasi della cui correttezza non sono certa:
“La strada era bagnata: la pioggia ne ricopriva il fondo”
(=la pioggia ricopriva il fondo della strada)
“La cucina era sporca: polvere e residui di cibo ne rivestivano la sommità del piano cottura”
(=polvere e residui di cibo rivestivano la sommità del piano cottura della cucina).
Il pronome “ne” nei due esempi – di cui, per chiarezza, ho riportato tra parentesi una sorta di parafrasi – è ben impiegato?
RISPOSTA:
Sì, è ben impiegato in entrambi i casi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le sarei molto grato se mi chiarisse un dubbio relativo a questa frase: “Era sempre solo. Amici non ne aveva”. Quel “ne”, che sento usare regolarmente in frasi di questo tipo, mi suona bene, però mi lascia
perplesso perché dovrebbe stare per “di amici”, ma allora la frase diventerebbe: “amici non di amici aveva”. Una affermazione insensata. Gradirei sapere se quel “ne” è da considerarsi corretto.
RISPOSTA:
Il costrutto, tipico dell’italiano informale e colloquiale e dunque non scorretto in assoluto ma sicuramente inadatto all’italiano formale, si chiama “tema sospeso” e consiste nel riportare il tema, o topic, dell’enunciato all’inizio per poi riprenderlo mediante un clitico, ovvero particella pronominale atona. Naturalmente il clitico è pleonastico e il tema qui non ha valore di soggetto bensì di complemento oggetto (duplicato da ne). Molto prossimo a questo costrutto è un altro, sempre di anticipazione del tema, o topicalizzazione, denominato “dislocazione a sinistra”: “di amici non ne aveva”.
Il corrispettivo formale, o quantomeno non informale, delle due espressioni è “non aveva amici”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho ricevuto un messaggio che continua a non convincermi:
“Mi sono messo a farmi la barba”. Io credo che sia errato, in quanto c’è un doppio pronome (mi e farMi).
Pensando alla stessa frase con un diverso complemento però la frase tornerebbe:
“mi sono messo a fargli la barba”.
Quindi nel primo caso cosa potrebbe essere a non convincermi?? Oltre che suonare male sono convinta che ci sia qualcosa che non torni grammaticalmente.
RISPOSTA:
Si è già data da sé la risposta giusta: visto che non altro pronome l’espressione funzionerebbe perfettamente, vuol dire che non c’è nulla di sbagliato. Il fatto che vi siano due pronomi personali (e tutti e due di prima persona) deriva dal fatto che si stanno usando due verbi pronominali, entrambi alla prima persona: il primo è il verbo aspettuale mettersi, il secondo il verbo riflessivo apparente (o meglio transitivo pronominale) farsi la barba. Nulla di strano, dunque. Non si lasci trasportare dall’idiosincrasia dell’orecchio che rifiuta la ripetizione del mi: le lingue non funzionano a orecchio e l’insofferenza per la ripetizione è un insano portato di una didattica distorta.
Del resto, per avere prove ulteriori, che cosa ci sarebbe di strano nella frase “mi è capitato di perdermi”?
Fabio Rossi
QUESITO:
l’aggettivo “patologico” può essere usato solo a livello scherzoso in questo caso:
“Mario è patologico”.
Bisognerebbe usare: Mario è affetto da patologia.
Quindi “è affetto da patologia” corrisponde ad un predicato nominale?
RISPOSTA:
Patologico di per sé non ha affatto un significato ironico: vuol dire semplicemente “che si manifesta in condizioni morbose o anomale” e può essere riferito sia a uno stato di salute, sia, per estensione, ad altri stati o condizioni, per es. una timidezza patologica. Non può essere riferito a una persona, in senso proprio, se non nell’espressione caso patologico: Mario è un caso patologico = Mario è affetto da patologia = “Mario ha una qualche forma di malattia” ecc. Il senso ironico di patologico riferito anche alle persone deriva per l’appunto dall’espressione caso patologico, che dal significato proprio passa a quello ironico di “essere senza speranza” ecc. Naturalmente, a seconda del contesto, dell’intenzione degli interlocutori, del loro mondo condiviso, dell’intonazione, dell’espressione facciale, dei gesti ecc. ecc. ogni parola e ogni espressione può essere intesa sempre anche in senso ironico. Per cui, ovviamente, anche patologico e anche essere affetto da patologia, sebbene quest’ultima espressione, più tecnica, si presti meno bene di patologico all’impiego ironico.
Quanto all’analisi logica, sia essere patologico, sia essere affetto (da patologia) sono predicati nominali, visto che sono costruiti da copula (essere) + aggettivo. Il secondo caso è più strano perché deriva da un verbo latino (afficere), ma che in italiano si conserva soltanto come aggettivo (affetto) e non come participio passato.
In conclusione: se vuole riferirsi a Mario in senso ironico può dire Mario è patologico; se invece vuol dire semplicemente che il povero Mario è ammalato può dire Mario è affetto da patologia, anche se l’espressione, fuori dal contesto medico, rischierebbe di suonare un po’ troppo pomposa, e quindi, suo malgrado, anche ironica. Meglio limitarsi a Mario è malato, Mario ha questa malattia ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quali delle seguenti varianti sono corrette?
“Grazie per averci supportato”.
“Grazie per averci supportati”.
“Il geometra Federica”.
“La geometra Federica”.
RISPOSTA:
Nella prima coppia entrambe le varianti sono corrette. L’accordo del participio passato di un verbo transitivo con il complemento oggetto è obbligatorio quando il complemento oggetto è rappresentato dai pronomi lo, la, li, le, che esprimono morfologicamente il genere (quindi grazie per averla supportata ma non *grazie per averla supportato); con mi, ti, ci, vi, ne, invece, si può scegliere se accordare il participio con il genere del referente del pronome o no (oltre al suo esempio, si veda un caso come questo: “Siamo le sorelle Rossi: ci ha accompagnato / accompagnate nostro padre”).
Nella seconda coppia la forma corretta è la geometra Federica; il nome geometra, infatti, è di genere comune, o epiceno (come atleta, artista, collega, nipote e tanti altri) e si accorda al genere del suo referente grazie alla modulazione dell’articolo o di un aggettivo che lo accompagna (atleta talentuosa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ciascuno bevve due litri d’acqua” che complementi ci sono?
RISPOSTA:
Ciascuno = soggetto
due litri = complemento oggetto + attributo
d’acqua = complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti costruzioni il termine altrettanto è ben impiegato? Nel primo esempio, in particolare, il verbo essere costituisce una variante valida?
– Sono stata onesta con te: tu vedi di essere / fare altrettanto con me.
– Io sono tranquilla, ma non so se potrei dire altrettanto di te.
RISPOSTA:
Le frasi, in cui altrettanto ha la funzione di pronome indefinito, sono ben costruite; per averne la prova si può sostituire altrettanto con la stessa cosa: tu vedi di fare la stessa cosa con me; non so se potrei dire la stessa cosa di te. Se sostituiamo fare con essere nella prima frase otteniamo la frase tu vedi di essere altrettanto con me, che è in astratto ben costruita (equivale a tu vedi di essere la stessa cosa con me), ma un po’ forzata e difficilmente accettabile, perché assimila un modo di essere a una cosa. La frase diventa accettabile aggiungendo un pronome di ripresa: tu vedi di esserlo altrettanto con me; in questo modo il pronome lo riprende onesta e altrettanto diviene un avverbio, equivalente a ‘nella stessa misura’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Alla domanda Che lavoro fai? è possibile rispondere in tre modi:
1) Sono (una) maestra
2) Faccio la maestra
3) Lavoro come maestra
In 1 maestra è predicato nominale, ma in 2 e in 3?
In 2 e 3 si può parlare di predicativo del soggetto?
Inoltre: perché in 1 (quindi con il verbo essere) si usa l’articolo indeterminativo
mentre con il verbo fare devo usare l’art. determinativo? (*Faccio una maestra)
RISPOSTA:
Sì, 2 e 3 sono predicativi del soggetto.
La differenza tra articolo determinativo e indeterminativo, in genere chiara (determinativo per un oggetto noto o per una categoria, indeterminativo per un elemento singolo di una categoria, che spesso coincide con un oggetto ignoto o non ancora nominato), non è sempre chiarissima, perché dipende dalla storia delle collocazioni, cioè da come un gruppo di parole si stabilizza nella lingua.
In questo caso, è possibile sia “Sono maestra” (cioè appartengo alla categoria professionale delle maestre), sia “Sono una maestra” (cioè, sono un elemento della categoria delle maestre). Il determinativo “Sono la maestra” farebbe scattare l’interpretazione ‘sono una maestra già nota o nominata prima’, per esempio “Sono la maestra di Luca”.
Con fare, non conta l’essere un elemento di una categoria ma la funzione, cioè, in un certo senso, il rappresentare la categoria stessa, per questo l’indeterminativo è impossibile e si impone il determinativo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se nella frase “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA desiderano…” è scorretto l’uso del verbo al plurale.
RISPOSTA:
Il soggetto della frase è L’istituto comprensivo, quindi il verbo va concordato al singolare. La concordanza al plurale è accettabile soltanto in un contesto informale (quale non sembra essere quello in questione). Attenzione: bisogna anche chiudere il complemento incidentale con una virgola, pertanto: “L’istituto comprensivo… nelle persone della Dirigente, i docenti, il personale ATA, desidera…”
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la forma corretta tra insegna all’Università e insegna nell’Università?
RISPOSTA:
L’espressione corretta è insegna all’università (l’iniziale maiuscola è opzionale). La preposizione a si usa in espressioni di questo tipo per indicare l’ambiente o l’esperienza tipica che un individuo sperimenta in un luogo; al contrario, la preposizione in indica il luogo, fisico o figurato. Per questo si direbbe, per esempio, “la presenza delle donne nell’università è in crescita”, ma “ho incontrato Luisa all’università”.
Lo stesso rapporto con le preposizioni è intrattenuto dal nome scuola (“sono a scuola”, ma “bisogna investire nella scuola”). Anche i nomi casa e mare ammettono la doppia costruzione, ma preferiscono in senza preposizione (ad esempio sono a casa, rimango in casa). Richiedono la preposizione articolata se sono accompagnati da un aggettivo o un complemento di specificazione: “il coniuge superstite ha diritto di abitare nella casa familiare”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo chiedervi se questo testo è ben scritto:
“La ladra conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto da diverso tempo. Ha pianificato tutto nei minimi dettagli, con tanto di lunghi sopralluoghi volti a individuare il momento giusto per entrare in azione. In breve, lei è già pronta per entrare in azione”.
Volevo sapere se la seconda frase è scritta in maniera comprensibile o se ci fosse un altro per formularla, magari anche con altri termini. Ho usato il tempo presente e anche il passato. Volevo sapere se è corretta l’espressione “sopralluoghi volti a individuare” oppure se era meglio un altra locuzione, come “sopralluoghi per individuare”. Io ho omesso quest’ultima per evitare di ripetere la parola “per”, perché da quanto so le ripetizioni possono stonare o risultare sgradevoli al lettore. Un’altra cosa che volevo domandarvi è se l’ultima frase ci sta e si collega bene al resto del discorso.
RISPOSTA:
Dal punto di vista grammaticale, il testo non contiene errori; anche se due punti sono migliorabili. Si tratta della finta elencazione della prima frase (conosce bene la vittima, le sue abitudini e progetta di fare il furto) e del soggetto dell’ultima frase (lei).
Per quanto riguarda l’elencazione, le sue abitudini è un secondo complemento oggetto retto da conosce, mentre progetta… è una seconda proposizione giustapposta alla prima. I tre elementi, quindi, devono essere sistemati in modo da distinguere il diverso rapporto reciproco; per esempio così: conosce bene la vittima e le sue abitudini, e progetta di fare il furto.
Il soggetto pronominale dell’ultima frase dovrebbe essere omesso, perché coincide con quello della frase precedente (quindi In breve, è già pronta…). Se lo si esprime, sembra che rimandi a qualcun altro.
Per il resto, i sui dubbi riguardano scelte stilistiche che dipendono dal gusto personale e dal registro scelto. Per esempio, volti a è più formale di per, mentre l’espressione entrare in azione è un po’ trita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice come tu o come te?
Esempio: “le persone che hanno fatto bene le attività, come tu / te, avranno un premio”.
RISPOSTA:
Si dice come te. Il pronome tu si usa solo quando funge da soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire PENSAVI CHE ME LO RUBASSI ? O la forma corretta é solo TE LO RUBASSI?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette, ma hanno un significato leggeremente diverso e sono adatte a contesti diversi. Nella prima il verbo usato è rubarsi, un verbo pronominale che ha quasi lo stesso significato di rubare, a cui aggiunge, però, una rappresentazione accentuata dell’interesse del soggetto, del vantaggio che gli deriva dall’azione. Si noti che in questa frase manca l’indicazione della persona potenzialmente derubata, che quindi potrebbe essere chiunque, non per forza la seconda persona della seconda frase. L’esplicitazione sintetica della persona potenzialmente derubata con questo verbo è, del resto, impossibile: non è possibile *rubarsi qualcosa a qualcuno.
Nella seconda frase il verbo usato è rubare e te indica, appunto, la persona potenzialmente derubata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Anton si fermò impietrito” impietrito è un aggettivo?
RISPOSTA:
Dal punto di vista morfologico è il participio passato del verbo impietrire. Nella frase ha più la funzione di aggettivo che quella di verbo, sebbene la funzione verbale rimanga sempre in parte operante. Riconosciamo che il participio ha la funzione di aggettivo perché esso descrive una condizione, una qualità temporanea del soggetto, non un processo subito dal soggetto. La funzione di verbo emergerebbe con chiarezza se, per esempio, aggiungessimo un complemento di causa efficiente: “Anton si fermò impietrito dalla paura”. In questo caso, il participio descriverebbe l’azione dell’agente inanimato sul soggetto, non una condizione in cui si viene a trovare il soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
sto rispondendo a delle domande che ammettono una sola risposta esatta e, avendo dei dubbi, vorrei chiedere il vostro parere. Vi elenco le domande.
1) In quale delle seguenti frasi è presente una forma verbale che indica un’azione iterativa?
a) Il bambino ha cominciato a piangere non appena non ha più visto la sua mamma.
b) Finalmente ha smesso di piovere e possiamo fare la nostra consueta passeggiata.
c) Proseguiremo a lavorare con lo stesso impegno, anche se siamo un po’ sfiduciati.
d) Se foste stati al nostro fianco fino alla fine vi avremmo ricompensato a dovere.
e) Ho riletto con lo stesso interesse di quando ero ragazza il capolavoro di Manzoni.
2) Che tipo di proposizione contiene la frase “Sembra importante che la valigia spedita ieri giunga a Mario in tempo perché possa partire”?
a) Oggettiva
b) Causale
c) Consecutiva
d) Temporale
e) Relativa
3) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Sei stato scelto perché parli in un modo che tutti comprendono.
b) Mi sembra che il tuo consiglio sia più che buono.
c) Questo film è amato dai giovani che prediligono la fantascienza.
d) L’orso partorisce due o tre cuccioli che allatta con cura.
e) Il sentiero che la pioggia ha allagato è impraticabile.
4) In quale delle seguenti frasi che ha funzione di soggetto?
a) Ringrazierò personalmente gli amici che mi hai presentato.
b) Questi sono i locali che frequento negli ultimi tempi.
c) Ti assicuro che non sono stato a pescare.
d) Non so dirti che bella sorpresa sia stata la tua venuta.
e) La cometa che è stata avvistata scomparirà in pochi giorni.
5) Che tipo di proposizione contiene la frase “Avendo vissuto tanti anni all’estero, ho capito che molte cose sono migliori in Italia, a patto che tu sappia apprezzarle”?
a) Soggettiva
b) Modale
c) Temporale
d) Concessiva
e) Relativa
6) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione oggettiva?
a) Sembra che oggi tutti parlino a sproposito.
b) Spero in una tua risposta affermativa.
c) Sapendo che sei affamato, ti ho preparato un panino.
d) Fu chiaro a tutti che la partenza era rimandata.
e) Conosco tutte le peripezie che hai affrontato per venire qui.
7) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione soggettiva?
a) Se nevicherà ancora resteremo bloccati per qualche giorno.
b) Pur essendo molto piacevole stare in compagnia, talvolta preferisco la solitudine.
c) Sono sicuro che il viaggio sarà breve e sicuro.
d) Andrea ha capito subito che il suo contributo era importante per la comunità.
e) Il problema che mi sottoponi è difficile, ma lo risolverò.
8) Quale delle seguenti frasi contiene una proposizione relativa?
a) La notte è così buia che non mi avventurerò fuori.
b) Mi chiedo che idea strana ti sia venuta in mente.
c) Essendo i vostri disegni così ben fatti, non so quale scegliere.
d) Ritengo che tu sia poco propenso ad uscire stasera.
e) L’abito acquistato ieri mi è costato davvero tanto.
9) Il periodo “Dice di non sapere chi verrà alla riunione”, include:
a) Una proposizione relativa.
b) Una proposizione interrogativa.
c) Una proposizione modale.
d) Una proposizione esclusiva.
e) Una proposizione temporale.
10) Quando il martello gli colpì erroneamente la mano, Luca emise un forte …”. Quale termine, tra quelli elencati, NON completa sensatamente la precedente frase?
a) urlo.
b) rantolo.
c) pianto.
d) grido.
e) strillo.
RISPOSTA:
1e (iterativo = che si ripete); 2c (la proposizione consecutiva è perché possa partire; 3c; 4e; 5d (a patto che tu sappia apprezzarle; possibile anche interpretare come temporale la gerundiva avendo vissuto tanti anni all’estero, che, però, è più decisamente causale); 6c (che sei affamato); 7b (stare in compagnia); 8e (acquistato ieri); 9b (interrogativa indiretta: chi verrà alla riunione); 10b (il rantolo è per sua natura sommesso, non forte; anche emise un forte pianto sembra un po’ forzato, visto che il pianto è un’azione durativa).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È un errore scrivere che qualcuno è incapace a invece di incapace di?
RISPOSTA:
Nella lingua comune incapace regge la preposizione di (incapace a è in astratto possibile, ma raro e da evitare). L’espressione incapace a è tipica del linguaggio giuridico, nel quale indica la condizione di chi non può ottemperare a un compito per un impedimento esterno, non perché privo dell’abilità: incapace a testimoniare, incapace a pagare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si può dire di dubitare su qualcosa (esempio: dubito sul mio coraggio) o bisogna scegliere la preposizione di?
RISPOSTA:
Il verbo dubitare regge la preposizione di (o la congiunzione che se l’elemento retto non è un sintagma ma una proposizione); ammissibili sono locuzioni preposizionali come riguardo a e in riferimento a. La preposizione su non è esclusa, ma è senz’altro una opzione rarissima, che va evitata in contesti sorvegliati.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “quel quartiere è pericoloso: restane lontano”, lontano è complemento
predicativo del soggetto o complemento di luogo?
RISPOSTA:
Lontano è predicativo del soggetto, mentre la particella pronominale atona (clitica) ne (= da quel luogo) è complemento di moto da luogo.
Che luogo abbia qui valore di aggettivo e non di avverbio è confermato dal fatto che deve accordarsi col soggetto: resta lontana, restate lontani/e ecc.
In una frase in cui lontano avesse valore di avverbio (es. andiamo lontano), esso sarebbe allora complemento di luogo (in questo caso moto a luogo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Se devo chiedere ad una persona quanto bene vuole a loro, quale delle seguenti due domande è corretta?
Quanto li vuoi bene?
Quanto gli vuoi bene ?
Se è riferito a lui sono quasi sicuro che che vada bene la seconda domanda, ma se è riferito a loro forse va bene la prima domanda
RISPOSTA:
Gli = a lui
le = a lei
loro o a loro = a più persone (plurale), nella lingua formale
gli = a più persone (plurale), nella lingua informale
li = solo per il complemento oggetto. Es.: “li vedo” (cioè vedo loro, quelle persone là), o, al femminile, “le vedo”.
Quindi, dato che volere bene (a qualcuno) regge il complemento di termine e non il complemento oggetto, si può usare soltanto “loro” o “a loro”, nello stile formale, oppure “gli” nello stile informale.
In conclusione, sia per il plurale sia per il singolare:
“li vuoi bene” è errato
“gli vuoi bene” è corretto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Oggi ho tradotto una frase dall’inglese all’italiano: “Compare It with what you are learning” > “Mettilo a confronto con quello che stai imparando”.
Mi è stata posta la domanda perché ho usato due parole per tradurne una: what, mi sono resa conto che non so dare una spiegazione grammaticale. Esattamente perché usiamo quello che?
RISPOSTA:
Ovviamente non c’è niente di insolito nel fatto che due lingue esprimano in modo diverso lo stesso concetto. In questo caso specifico, in italiano si preferisce esprimere analiticamente, cioè con più di una parola, una funzione sintattica che in inglese è preferenzialmente sintetica, cioè espressa con una sola parola. La funzione in questione, in effetti, è duplice, ovvero sono due funzioni: la prima è quella di completamento del sintagma preposizionale introdotto da con, la seconda è quella di introduttore della proposizione relativa. Ecco spiegato perché in italiano troviamo la sequenza di due pronomi (quello che, o ciò che), oppure di un sintagma nominale e un pronome (la cosa / le cose che).
Visto che le funzioni sono due, quindi, la sorpresa non è che in italiano ci siano due parole, ma che in inglese ce ne sia una sola. Per la verità, comunque, neanche questa è una sorpresa, perché la possibilità di raggruppare il pronome che fa da antecedente del relativo e il relativo stesso è comune, tanto che esiste anche in italiano (ma è meno frequente); la traduzione da lei proposta, infatti, avrebbe potuto essere “Mettilo a confronto con quanto (= quello che) stai imparando”. Il pronome quanto è uno dei relativi doppi, o misti, e funziona proprio come what; accanto a questo esiste chi, riferito a persone, equivalente a who: “I don’t know who you are” > “Non so chi (= la persona che) sei”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il comparativo di maggioranza o minoranza con il verbo piacere si forma usando di oppure che?
RISPOSTA:
Gli avverbi più e meno che accompagnano il verbo piacere non formano un comparativo, perché non sono uniti a un aggettivo, ma sono comunque seguiti da un secondo termine di paragone: “Il cinema mi piace più della televisione”. In questi casi, quindi, tali avverbi sono autonomi e possono richiedere sia la preposizione di sia la congiunzione che. Se il secondo termine di paragone è un nome o un pronome si possono usare entrambe: “Il cinema mi piace più della televisione” / “Il cinema mi piace più che la televisione”. Il che è più comune se il secondo termine di paragone è anticipato: “Più che la televisione mi piace il cinema”, oppure se il primo termine di paragone è posto dopo il verbo: “Mi piace il cinema più che la / della televisione”. La differenza tra le due forme è che la preposizione costruisce il secondo termine di paragone come un sintagma (complemento di paragone): il cinema mi piace / più della televisione; la congiunzione, invece, lo costruisce come una proposizione (proposizione comparativa): più che (mi piace) la televisione / mi piace il cinema, oppure mi piace il cinema / più che (mi piace) la televisione.
Per questo motivo, se il secondo termine di paragone è una proposizione, o anche soltanto un infinito verbale, il secondo termine di paragone è senz’altro introdotto da che: “Mi piace andare al cinema più che guardare la televisione”, “Mi piace sciare più che nuotare”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice non le riguarda o non la riguarda?
RISPOSTA:
Il verbo riguardare è oggi quasi esclusivamente transitivo, quindi una cosa riguarda qualcuno non a qualcuno. Per questa ragione si dice non la riguarda (ovvero non riguarda lei), non *non le riguarda (ovvero *non riguarda a lei).
Quando, però, la persona è anticipata rispetto al verbo, la costruzione diretta appare molto strana (perché la persona sembra essere il soggetto del verbo), tanto che può essere considerata addirittura scorretta; per esempio “Mia madre non riguarda quello che faccio”. In questi casi è giustificato usare il cosiddetto complemento oggetto preposizionale: “A mia madre non riguarda quello che faccio”. Se la persona è rappresentata da un pronome personale, si può anche legittimamente ricorrere alla ripresa pronominale: “A te non ti riguarda quello che faccio”, o soltanto “Non ti riguarda quello che faccio” (ma “Quello che faccio non ti riguarda / riguarda te”). Con il pronome relativo entrambe le costruzioni sembrano forzate (“La persona a cui / che riguarda quello che faccio non sei tu”), sebbene in astratto quella da usare è a cui riguarda. In questi casi questo verbo viene sempre sostituito con un sinonimo come interessare o importare, che richiedono il complemento indiretto introdotto da a: la persona a cui interessa / importa…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nonostante nel vostro archivio delle domande siano molteplici le occasioni di chiarimento riguardo al “si passivante” e al “si impersonale”, la recente lettura delle frasi seguenti ha risvegliato in me una certa esitazione.
a) Quando ti si elenca tutti i difetti che hai, ti irrigidisci.
b) Quando si vanno a toccare questi argomenti delicati, è normale che chi ne è chiamato in causa reagisca male.
Esempio “a”: avrei coniugato il verbo “elencare” alla terza persona plurale (elencano) in funzione del si passivante.
Avrei scelto la soluzione migliore, oppure anche la frase che mi è capitato di leggere è accettabile? Quale preferire tra le due?
Esempio “b”: a rigor di grammatica (se ho ben interpretato le vostre indicazioni), non si sarebbe dovuto coniugare il verbo alla terza persona singolare (quando si va a toccare questi argomenti delicati)? Il verbo “andare” mi pare che regga tutta la frase, a partire dal sintagma “a toccare”, e che non si leghi direttamente all’oggetto plurale (gli argomenti delicati); allora perché trasformare l’oggetto in soggetto?
RISPOSTA:
Sia in a) sia in b) vanno bene entrambi i costrutti, con verbo sia al singolare sia al plurale. Entrambi, cioè, son prodotti “a rigor di grammatica”.
In a), la forma plurale lascerebbe classificare senza dubbio il “si” come passivante, mentre con il verbo al plurale si tratta di un costrutto, tipico del fiorentino ma anche dell’italiano, pressoché identico al “si” impersonale, ma in Toscana possibile anche per la prima persona plurale: “noi si va al cinema stasera”.
Di fatto, entrambi i costrutti (“si elenca” e “si elencano”) producono il medesimo significato e il medesimo livello di media formalità.
Il secondo esempio è più interessante. Nel caso di verbo fraseologici come “si va a + infinito” è possibile il “sollevamento” dell’oggetto in soggetto. In questo caso è un po’ come se la frase fosse al passivo: “si vanno a toccare” = “vanno (o vengono) a essere toccati”. Donde il plurale del verbo e il passaggio dall’oggetto al soggetto. Peraltro, questo passaggio dall’oggetto al soggetto si verifica anche in altri casi di verbi fraseologici, come quelli di percezione: “ti vedo mangiare” = vedo te (oggetto) che (soggetto) mangi.
Anche in questi casi, come nel caso a), siamo di fronte a significato pressoché identico e a stesso livello di formalità.
Fabio Rossi
QUESITO:
Qual è l’analisi logica della frase “Compro acqua in confezioni da sei”?
RISPOSTA:
(Io) = soggetto sottinteso
compro = predicato verbale;
acqua = complemento oggetto;
in confezioni = complemento di qualità;
da sei = complemento di misura.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda sulla frase seguente:
“Lui crede che io e te siamo la stessa persona”.
Nel cercare di fare l’analisi logica sono incappato in una descrizione acconcia, nella quale si definiva il significato di COMPLEMENTO PREDICATIVO DELL’OGGETTO.
Alcuni esempi, simili alla frase iniziale, riportati nella descrizione:
“La maestra considerava Maria molto brava“.
“Gli studenti elessero Paolo rappresentante di classe“.
Nella descrizione così si analizzava tale complemento (il corsivo delle frasi):
“È il sostantivo o l’aggettivo che definisce una proprietà del complemento oggetto, quando il verbo sia appellativo (chiamare, soprannominare, apostrofare…), estimativo (credere, ritenere, considerare…), elettivo (nominare, eleggere, incoronare…).
Da tale spiegazione, dove molto brava e rappresentante di classe sono COMPLEMENTI PREDICATIVI DELL’OGGETTO, si è indotti a pensare che, rispettivamente Maria e Paolo siano i complementi oggetto delle frasi, nelle quali La maestra e Gli studenti sono il soggetto.
Allora, seguendo questo schema, nella frase iniziale (“Lui crede che io e te siamo la stessa persona”), LUI sarebbe il soggetto; IO E TE il complemento oggetto e LA STESSA PERSONA il complemento predicativo dell’oggetto.
È ovvio che nella frase “Io e te siamo la stessa persona” presa isolatamente io e te sarebbe il soggetto; siamo il predicato e la stessa persona il complemento oggetto, però la frase tutta intera risponde alla domanda “Lui crede che cosa?”, per cui sarebbe come scrivere, per ricalcare il primo esempio con la maestra e Maria: “Lui crede io e te la stessa persona”.
Cioè, sempre per restare al primo esempio, se io lo riscrivo così “La maestra considerava che Maria fosse molto brava”, cambia anche l’analisi logica e Maria diventa soggetto o rimane comunque complemento?
RISPOSTA:
Il verbo credere può reggere un complemento oggetto o una proposizione subordinata oggettiva. Nel primo caso abbiamo frasi come “Maria crede Luca un buon amico”, nella quale Luca è complemento oggetto e un buon amico complemento predicativo dell’oggetto. Nel secondo caso abbiamo frasi come “Maria crede che Luca sia un buon amico”, nella quale abbiamo due proposizioni, Maria crede (Maria = soggetto della proposizione) e che Luca sia un buon amico. Nella proposizione oggettiva Luca è il soggetto e un buon amico è nome del predicato (detto anche parte nominale).
Aggiungo che il verbo credere preferisce la costruzione con la proposizione oggettiva a quella con il complemento oggetto; per questo motivo “Lui crede che io e te siamo la stessa persona” è più comune di “Lui crede io e te la stessa persona”. Anzi, quest’ultima formulazione risulta del tutto artificiosa e difficilmente sarebbe mai costruita da un parlante nativo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se questa frase è corretta: “Non intendo insegnare a nessuno il suo mestiere”. Dal punto di vista grammaticale mi sembra una frase corretta perché uso l’aggettivo suo collegandolo a un complemento di termine. L’unico problema è che quel suo mi suona male: mi suonerebbe meglio proprio, che però credo sia errato.
RISPOSTA:
La scelta corretta è suo: come da lei suggerito, infatti, proprio si può riferire soltanto al soggetto, che deve, inoltre, essere di terza persona.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione fissare la data per (per esempio: “La data della partenza è stata fissata per il 10/5 del 22”) è corretta.
RISPOSTA:
L’espressione non è ben formata. Si consideri, infatti, che il 10/5 (o qualsiasi altra data) è, per l’appunto, una data, quindi, dal punto di vista sintattico, data è un complemento predicativo di 10/5. Sarà il complemento predicativo, non il complemento oggetto a cui questo si riferisce, a essere preceduto dalla preposizione per, quindi fissare per data il 10/5 (o fissare il 10/5 per data). La preposizione per può anche essere sostituita dalla congiunzione come: fissare come data il 10/5 (o fissare il 10/5 come data).
La situazione cambia diametralmente se al posto di data appare un evento che avviene in quella data, per esempio fissare un appuntamento per il 10/5. In questo caso, infatti, un appuntamento è il complemento oggetto del verbo, mentre per il 10/5 diviene un complemento interpretabile come di vantaggio (per il 10/5 = ‘in favore del 10/5’).
Il complemento predicativo rimane come data anche se si arricchisce la frase usando sia data sia, per esempio, partenza o appuntamento: “Come data per l’appuntamento è stato fissato il 10/5”. In questo caso per l’appuntamento è un’ulteriore espansione (complemento di fine), che non intacca gli altri ruoli sintattici.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Il gerundio presente può indicare azioni contemporanee a quelle delle reggenti quando queste siano al passato o al futuro?
1a) Domani, impegnandomi a correre per un’ora, proverò a buttare giù la massa grassa.
1b) Ieri, cercando di spiegarti la lezione di storia, mi sono stancata.
2) Se è vero che il soggetto del gerundio deve coincidere con quello della reggente e muovendo dall’assunto che con il si passivante il complemento oggetto tramuta in soggetto, una frase come “Cantando a squarciagola, si immaginavano nuove emozioni da vivere” non sarebbe valida, sbaglio?
Mentre + stare + gerundio equivale a mentre + indicativo presente / indicativo imperfetto?
“Mentre sto parlando, potresti usarmi la cortesia di non interrompermi?”
“Mentre stavo parlando, tu non hai usato la cortesia di non interrompermi”.
RISPOSTA:
Il gerundio, come tutti i modi indefiniti, non ha mai valore deittico, cioè non ha il potere di situare un evento in un momento del tempo; ha, invece, sempre valore anaforico, ovvero serve a situare l’evento in rapporto temporale (di contemporaneità, anteriorità o posteriorità) rispetto a un altro evento, a prescindere dal momento nel tempo in cui quest’ultimo si situa. La risposta alla sua prima domanda, pertanto, è sì. La risposa alla seconda domanda è più sfumata: in astratto è vero che il soggetto di cantando a squarciagola (= nessun soggetto) non coincide con quello di si immaginavano (= nuove emozioni), quindi il gerundio non dovrebbe essere usato e si dovrebbe, invece, usare la costruzione esplicita nella subordinata (quando si cantava / cantavamo a squarciagola…) oppure quella impersonale nella reggente (che, però, è sgradita ai parlanti con il complemento oggetto plurale: cantando a squarciagola si immaginava nuove emozioni). In pratica, però, la presenza del soggetto logico noi è talmente forte sia dietro cantando sia dietro si immaginavano che la deviazione dalla norma è appena percepibile e tutto sommato trascurabile.
La perifrasi stare + gerundio (la congiunzione mentre non è significativa), infine, ha la funzione di sottolineare che l’evento avviene lungo un lasso di tempo all’interno del quale avviene un altro evento. La stessa funzione, ma in modo meno esplicito, può essere assolta dal presente (nel presente), dall’imperfetto (nel passato) e dal futuro (nel futuro): sto parlando = ‘parlo’; stavo parlando = ‘parlavo’; starò parlando = ‘parlerò’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se, quando il noi non è un soggetto logico, bensì un soggetto e vero e proprio, anche se sottinteso, il si impersonale è sempre possibile.
Ad esempio:
a) (Le mie amiche ed io = noi) quando si era (= eravamo) giovani, si ballava (= ballavamo) tutte le canzoni dell’estate.
Suppongo che si potrebbe optare per il passivante, in quanto il verbo è transitivo e l’oggetto è espresso, ma
b) “Quando si era giovani si ballavano tutte le canzoni dell’estate” mi sembrerebbe una generalizzazione quasi spersonalizzante.
Oppure:
c) Chiamami al telefono, stasera, così si fa (noi due) due chiacchiere.
Sarebbe possibile, pure qui, se non vado errata, la costruzione passivante, ma non si verrebbe a creare la stessa situazione succitata?
d) Chiamami al telefono, stasera, così si fanno due chiacchiere.
e) (Noi ragazze) l’anno scorso si sarebbe potute andare (= saremmo potute andare) all’estero.
Benché presiedute da differenti contesti semantici, tutte le frasi sopra riportate sarebbero conformi alla grammatica?
RISPOSTA:
Tutte le costruzioni da lei proposte sono corrette (il tipo noi si è è oggi tipico del toscano, ma la sua presenza nella tradizione letteraria lo rende familiare a tutta l’Italia) e sintatticamente equivalenti. L’esplicitazione del soggetto mitiga l’effetto di spersonalizzazione della costruzione impersonale; ricordiamo, però, che la costruzione impersonale serve proprio a non esplicitare il soggetto: se, quindi, non è necessario nascondere il soggetto si può optare per la costruzione del tutto personale (ad esempio “Le mie amiche e io quando eravamo giovani ballavamo tutte le canzoni dell’estate”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Non si può allestire la mostra”: è corretto dire che il soggetto è la mostra?
RISPOSTA:
La frase può avere due interpretazioni, che comportano due ruoli sintattici diversi per la mostra. Se si può allestire è un’espressione impersonale la mostra ne è il complemento oggetto; se, invece, è una forma passivata di potere allestire, equivalente a può essere allestita, allora la mostra ne è il soggetto. Si noti che al plurale la frase verrebbe formata senz’altro come passivata: si possono allestire le mostre (ovvero le mostre possono essere allestite); la variante impersonale, pur possibile, è sgradita ai parlanti (perché sembra sbagliata): si può allestire le mostre.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “per la raucedine non è possibile parlare” è giusto dire che il soggetto è parlare, anche se è possibile è una forma impersonale?
RISPOSTA:
Parlare, essendo un verbo, costituisce di per sé una proposizione, quindi non può essere il soggetto di è possibile. Il soggetto deve, infatti, essere un sintagma nominale: Mario, il gatto, le mie compagne…
Non è un caso, però, che a lei questo verbo sembri il soggetto dell’espressione impersonale: esso, infatti, costituisce un tipo di proposizione subordinata detta soggettiva, perché di fatto funge da soggetto del verbo della proposizione reggente (ovvero di è).
Inoltre, è sempre possibile considerare parlare un verbo sostantivato, come se fosse il parlare. In questo modo ci troviamo con un sintagma nominale a tutti gli effetti, che è il soggetto di è. Si noti che è possibile è un’espressione impersonale proprio perché non ha il soggetto (ma regge una proposizione soggettiva); se, invece, consideriamo parlare un verbo sostantivato, quindi un sintagma nominale, l’espressione viene ad avere un soggetto, quindi non è più personale, ma è personale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate, che recitano…” si capisce che il recitare riguarda le convinzioni limitanti e non le memorie emozionali?
RISPOSTA:
Al contrario: nella frase così composta il pronome che rimanda alle memorie emozionali, che, tra i possibili referenti, è il più vicino e nello stesso tempo il più esplicito. Se, invece, il pronome deve rimandare alle convinzioni limitanti la frase deve essere riformulata con un riferimento più esplicito, per esempio: “ora chiedo la cancellazione delle seguenti convinzioni limitanti e delle memorie emozionali ad esse collegate; convinzioni limitanti che recitano…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei domandarvi se e quanto le proposizioni incidentali condizionano, a livello di accordo (e di scelta) dei modi verbali, le altre proposizioni alle quali si legano.
Presento alcuni esempi per chiarire:
1) Marco, credo, ha realizzato un buon lavoro.
2) Marco, e con lui tutti i tuoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
3) Marco, nonché i suoi amici, è (sono) andato (andati) al mare.
Per la frase 1 non riuscirei a immaginare un modo diverso; il congiuntivo mi parrebbe fuori luogo.
Per le frasi 2 e 3 l’accordo è al singolare, al plurale o sono permessi entrambi?
Limitatamente all’ultimo esempio, se eliminassimo le virgole e perdessimo dunque l’inciso (Marco nonché i suoi amici…) il plurale sarebbe d’obbligo (sono andati al mare)?
RISPOSTA:
Nelle sue frasi l’unica proposizione incidentale è quella inserita nella prima frase, perché contiene un verbo (anzi, in questo caso coincide con un verbo). Come detto da lei, l’unica forma possibile per il verbo della proposizione reggente è ha realizzato, perché è chiaro che la proposizione credo è sintatticamente autonoma (ha come soggetto io), sebbene si possa considerare subordinata a Marco ha realizzato…
Nella seconda e nella terza frase i sintagmi (non proposizioni) incidentali modificano il soggetto dell’unica proposizione presente nella frase, perché trasformano Marco in Marco e i suoi amici e in Marco nonché i suoi amici (assimilabile a Marco e i suoi amici). Con questi soggetti il verbo richiesto è alla terza plurale,
quindi Marco, e con lui tutti i suoi amici, sono andati… e Marco, nonché i suoi amici, sono andati…
Al contrario, l’accordo sarebbe al singolare in una frase come Marco, con i suoi amici, è andato…, perché con i suoi amici non rientrerebbe nel sintagma del soggetto.
La prova dell’accordo corretto si ottiene spostando l’inciso (anche costituito da una proposizione) dopo il verbo:
1) Marco ha realizzato un buon lavoro, credo.
2) Marco è andato al mare, e con lui tutti i tuoi amici.
3) Marco è andato al mare, nonché i suoi amici.
Come si può vedere, nella prima frase la sintassi non ha sbavature; nella seconda il sintagma finale si giustifica soltanto ipotizzando un verbo sottinteso, ovvero trasformando il sintagma in una proposizione, a dimostrazione che tutti i suoi amici è soggetto: “Marco è andato al mare, e con lui sono andati tutti i tuoi amici”.
Nella terza, infine, il sintagma finale non si può proprio giustificare, quindi si deve per forza associare al soggetto Marco.
L’eliminazione delle virgole nell’ultima frase non cambierebbe niente nell’accordo con il verbo. Va detto, però, che la congiunzione nonché richiede preferibilmente la virgola; ma se inseriamo la virgola prima di nonché siamo giocoforza indotti a inserire anche la seconda, per non trovarci con uno strano soggetto diviso in due dalla virgola e da una congiunzione. La stranezza salta meglio agli occhi se sostituiamo nonché con e: Marco, e tutti i suoi amici sono andati…
Ne consegue che o scriviamo Marco nonché tutti i suoi amici sono andati… (variante sconsigliata perché nonché preferisce la virgola), oppure Marco, nonché tutti i suoi amici, sono andati… Difficile da giustificare, invece, Marco, nonché i suoi amici sono andati al mare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei una delucidazione riguardo alla scelta tra costruzione implicita ed esplicita.
Nella frase “Ho bisogno che lei comunichi i dati per essere identificato” la logica porta chiaramente a ricollegare il sintagma per essere identificato al lei cui si rivolge il soggetto; ma questa valutazione è valida anche dal punto di vista sintattico, oppure sarebbe meglio una formula quale “Ho bisogno che lei
comunichi i suoi dati affinché possa essere identificato (in questo caso, però, mi pare che ci sarebbe ugualmente un’ambiguità, dato che il predicato possa potrebbe ricollegarsi anche a un’altra persona non menzionata nella frase)?
Nella frase “Non avrei mai immaginato che sarei stata sola” o “Non avrei mai immaginato che avrei potuto essere sola” i soggetti di subordinata e sovraordinata coincidono, ergo si dovrebbe preferire la costruzione implicita. Ma con “Non avrei mai immaginato di essere sola”, “Non avrei mai immaginato di poter essere sola” non si sfuma un po’ troppo l’enunciato sotto il profilo temporale, non distinguendo il passato dal presente o questo dal futuro?
E infine, la frase “Mi faccia sapere se le informazioni così inoltrate le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema” è corretta sintatticamente per “Mi faccia sapere (lei) se le informazioni così inoltrate consentono a lei di (le informazioni) essere elaborate e inserite nel sistema”? D’impulso, assocerei
quel di che apre la costruzione implicita al complemento di termine (= ‘consentono a lei’); ma il soggetto della frase non sono proprio le informazioni? Se è così, la costruzione implicita, che mi lascia un po’ titubante, non dovrebbe essere corretta?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima frase, la soluzione iniziale è quella migliore. Il problema della concordanza tra il pronome personale di cortesia lei e il participio passato maschile (qui identificato) è insolubile, ma fortunatamente non troppo dannoso per la comprensione (rimando su questo punto alla FAQ “… sentirla abbattuto” o “… sentirla abbattuta”? dell’archivio di DICO). La formulazione esplicita chiamerebbe in causa un terzo referente, come da lei immaginato, provocando confusione.
Anche per la seconda frase lei ha ragione: la versione implicita schiaccia tutto sul presente, perché i modi indefiniti non hanno il tempo futuro; per questo, proprio nel caso in cui la subordinata è al futuro la costruzione esplicita è legittima anche con identità di soggetti tra la stessa subordinata e la reggente.
Nella terza frase la sua ricostruzione non è corretta, perché il soggetto della proposizione oggettiva subordinata di secondo grado è lei, non le informazioni. Le completive dipendenti da verbi di comando, richiesta, consiglio, opportunità assumono come soggetto non il soggetto della reggente, ma il destinatario del comando, la richiesta, il consiglio, l’opportunità (è il caso di “Ti ordino di uscire” = ‘ordino a te che tu esca’). Nel suo caso, quindi, la costruzione della proposizione sarà (le consentono) di elaborarle e inserirle nel sistema, perché il destinatario dell’opportunità, lei, diviene il soggetto logico della proposizione oggettiva. Al contrario, le consentono di essere elaborate e inserite nel sistema non è ben costruita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“La strada è stata chiusa al traffico”. Al traffico è complemento di termine o di fine o scopo?
RISPOSTA:
Questo è un caso limite di complemento di termine, perché il traffico è il destinatario di un oggetto trasferito dal soggetto. Insomma, chiudere la strada al traffico funziona come dare la chiusura della strada al traffico, quindi, applicando la trasformazione alla sua frase, la chiusura della strada è stata data al traffico. Si noti che l’oggetto trasferito non è la strada, bensì la chiusura.
Questa analisi non è l’unica possibile: si potrebbe, infatti, arguire che al traffico sia complemento di svantaggio, visto che il traffico subisce un “danno” dalla chiusura. Escludo, invece, che sia complemento di fine, visto che il traffico rappresenta non il fine, bensì, come detto, il destinatario della chiusura.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Dieci anni fa io ero più giovane di quanto lo sia tu adesso”. In caso la frase sia corretta, quel lo dovrebbe stare per giovane?
RISPOSTA:
Certamente: i pronomi atoni possono riprendere parti nominali di predicati nominali al pari di complementi oggetto di predicati verbali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un caso come il seguente, si può considerare l’ultimo elemento (né alcun’altra creatura) come riassuntivo, perciò dominante per la concordanza del verbo al singolare (potrà)?
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Lettera ai Romani 8:38, 39, CEI).
RISPOSTA:
L’aggettivo altra contenuto nel sintagma né alcun’altra creatura esclude che questo sintagma riassuma in sé tutti gli elementi precedenti, ma configura le possibili creature evocate come aggiuntive rispetto agli elementi elencati precedentemente. Del resto, il nome creatura non può essere usato correttamente come iperonimo di morte, vita, presente, avvenire, altezza, profondità, che identificano stati dell’essere o qualità, non certo creature.
Non bisogna, comunque, ritenere il verbo singolare potrà un errore (sebbene sia, in effetti, una forzatura grammaticale): quando il soggetto è rappresentato da più elementi collegati tra loro mediante la congiunzione o o, come in questo caso, mediante né, la concordanza al singolare è comune e ci sono buone ragioni per ammetterla al pari di quella al plurale. Con la congiunzione o, infatti, gli elementi dell’elenco sono l’uno in alternativa all’altro, quindi soltanto uno di essi realizza l’azione; con né, invece, addirittura tutti gli elementi sono esclusi dall’azione: nessuno di essi, infatti, è il soggetto logico, Nella sua frase, per esempio, il soggetto logico, soggiacente a tutta la costruzione, è niente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non capisco se, in queste frasi, quello indicato in corsivo sia un complemento di modo o predicativo. C’è un “trucchetto” per imparare a distinguerlo senza avere dubbi?
1. “FRANCESCO CORRE VELOCE VERSO LA PALESTRA” (qui direi che si tratta di un COMPL. DI MODO perché posso trasformarlo nell’avverbio velocemente; ma sarebbe errato del tutto considerarlo compl. predicativo?).
2. SE NE ANDÒ ZITTO ZITTO A CASA.
RISPOSTA:
Per distinguere l’aggettivo con funzione predicativa da quello con funzione avverbiale bisogna considerare se esso descrive uno stato o una qualità del soggetto (predicativo) oppure un modo di realizzazione dell’azione (avverbiale). Spesso questa distinzione è abbastanza netta, ma ci possono essere casi dubbi. Nei suoi due esempi, veloce è decisamente un aggettivo avverbiale (quindi, dal punto di vista dell’analisi logica, un complemento di modo), perché la qualità della velocità si riferisce all’azione del correre, non al soggetto; zitto zitto è direttamente una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente, quindi è senz’altro un complemento di modo. Diversamente, in una frase come “Se ne andò zitto a casa” zitto sarebbe un aggettivo predicativo (quindi un complemento predicativo), perché descriverebbe non il modo di andare, ma una qualità temporanea del soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sul verbo da scegliere per la risposta n.14 del seguente esercizio. Nel modello di
risposta hanno scritto ho capito come l’unica risposta giusta, mentre per me potrebbe andare bene anche capisco‘. Secondo me cambia un po’ la sfumatura, ma non lo considererei un errore.
Ma adesso (14. capire)______________________: i nonni hanno sempre ragione.
RISPOSTA:
Il passato prossimo ho capito sottolinea che il processo mentale della comprensione è già avvenuto e adesso il soggetto si trova nella condizione di possedere la conoscenza risultante da quel processo. Il presente capisco, invece, rappresenta il processo come ancora in corso; indica, cioè, che il soggetto sta sviluppando la comprensione mentre ne parla. Entrambe le rappresentazioni sono possibili e adatte al contesto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere se è corretta l’ espressione lesinare sul denaro o sul centesimo. Alcuni sostengono che è corretto dire lesinare il denaro o il centesimo.
RISPOSTA:
Il verbo lesinare può essere transitivo o intransitivo. In questo secondo caso richiede la preposizione su. Quando è transitivo significa ‘spendere con estrema parsimonia’; quando è intransitivo significa ‘risparmiare’. Sebbene i due usi siano vicini, pertanto, con un oggetto come denaro il verbo si costruisce transitivamente: lesinare il denaro = ‘spendere con parsimonia il denaro’; con un oggetto come spese, invece, si costruisce intransitivamente: lesinare sulle spese = ‘risparmiare sulle spese’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Carlo è in pensione”, il verbo essere ha significato proprio (predicato verbale)? Se sì, la locuzione in pensione come va correttamente analizzata? Dopo un consulto tra colleghe non siamo arrivate a una soluzione univoca.
RISPOSTA:
L’espressione in pensione non indica un luogo nel quale si trova il soggetto, ma una situazione, una condizione, uno stato. Può, pertanto, essere considerata una parte nominale, che completa un predicato nominale. La parte nominale è comunemente rappresentata da un sintagma nominale o aggettivale, ma ci sono casi di parti nominali preposizionali, come in ritardo, a rischio, da intenditori. Tali sintagmi preposizionali, non a caso, a volte possono essere sostituiti da aggettivi, nomi, o locuzioni aggettivali, come in pensione = ‘pensionato’. A volte, inoltre, tali sintagmi fanno il paio con aggettivi, come in ritardo (e in anticipo), che fa il paio con puntuale. Si noti, infine, che in altre lingue ci possono essere soluzioni simili; si pensi agli aggettivi inglesi late, che significa ‘in ritardo’, e early ‘in anticipo’, che fanno il paio con on time ‘puntuale’.
Questo argomento è stato affrontato anche nelle FAQ parte nominale preposizionale e Analisi logica “per intenditori” dell’archivio di DICO, a cui la rimando per approfondimenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice lesionare una cosa o si dice ledere una cosa?
RISPOSTA:
Dipende dalla cosa e da quanto si vuole essere precisi. Lesionare significa ‘danneggiare procurando una lesione’ e può avere come complemento oggetto soltanto cose concrete che possono subire una lesione, ovvero una frattura, come muri, costruzioni, edifici, ma anche ossa e tessuti del corpo, se si intende sottolineare che si siano incrinati o fratturati. Anche ledere significa ‘danneggiare’, ma senza la specificazione della lesione; inoltre si usa raramente con complementi oggetto concreti, che sono perlopiù ossa o organi del corpo. Più frequentemente, invece, questo verbo si usa in riferimento a beni immateriali, come i diritti, la reputazione, la dignità, l’onore, l’interesse, il valore, il benessere, l’orgoglio…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
il punto e virgola è sempre stato il mio segno di punteggiatura preferito: tanto utile, a mio avviso, quanto marginalizzato negli ultimi anni.
Ho elencato una serie di esempi per sapere se il suo impiego sia corretto (tra parentesi, per chiarezza, ho aggiunto, talvolta, il motivo del relativo dubbio):
1) Disse: “Arrivo subito”; quindi, prese le sue cose, chiuse la porta e se ne andò.
(corretto dopo le virgolette di chiusura?)
2) Pensieroso per il suo futuro, che gli appariva fumoso; in ansia per il suo presente, privo di affetti sincero in cui rifugiarsi; il noto imprenditore ha preso la decisione di…
(Si può separare il soggetto dalle apposizioni che lo precedono?)
3) Parlerò ai ragazzi del doposcuola, alle loro mamme, ai loro insegnanti; a tutti coloro che hanno aderito, affinché nessuno ne resti escluso.
4) Mi guardava con occhi tristi, specie quando mi raccontava i miei trascorsi; o con occhi vitali, vispi, tutte le volte che…
5) La scena del martirio, perpetrato dai soldati inumani; la disperazione dei presenti, sconvolti dalla dignità dei martiri; il silenzio colpevole delle autorità colpirono l’opinione pubblica.
(Il predicato coinvolge tre soggetti “la scena”, “la disperazione” e “il silenzio”: è corretto che i primi due ne siano separati dal punto e virgola?)
6) Quando tua madre, sempre attenta all’educazione, avrà perso la pazienza; quando tuo padre, intento com’è a garantirti un futuro, avrà perso le speranze; tu sarai chiamato a misurarti con i tuoi errori.
7) Il suo gesto era freddo; anzi, era gelido.
Per quanto riguarda i casi numero 3, 4, 6 e 7, suppongo che il punto e virgola avrebbe potuto essere sostituito con una virgola; la mia scelta è legata all’intenzione di creare, per così dire, dei blocchi all’interno del periodo, per distinguere e separare sia a livello di ritmo sia a livello sintattico determinati sintagmi o proposizioni.
In conclusione, nei sette esempi portati alla vostra attenzione, ci sono impieghi errati del segno?
RISPOSTA:
Nelle frasi 2, 3, 4, 5, 6 il punto e virgola assolve una delle sue funzioni più tipiche: separare membri di elenchi complessi, ovvero a loro volta internamente divisi in parti, sintagmatiche o proposizionali. In particolare, nella frase 2, a parte il refuso affetti sincero per affetti sinceri, è indebito l’ultimo punto e virgola, perché il noto imprenditore non è un membro dell’elenco, ma è il sintagma che regge tutto l’elenco. Al posto del punto e virgola qui è richiesta la virgola, che chiude la parte incidentale privo di affetti sinceri in cui rifugiarsi. Se non ci fosse l’incidentale non sarebbe richiesto nessun segno; questo è il caso della frase 5, nella quale correttamente si legge il silenzio colpevole delle autorità colpirono…, ed è anche il caso della frase 6, nella quale, però, si fa la scelta sbagliata: avrà perso le speranze; tu sarai chiamato per avrà perso le speranze tu sarai chiamato.
Nella frase 3 evidentemente si separa il membro tutti coloro che hanno aderito dagli altri, ma non si chiarisce, né è autoevidente, perché si operi tale separazione. Qui è preferibile o continuare con la virgola o chiarire qual è la ragione della distinzione. Per esempio, se la ragione della distinzione è che il membro tutti coloro che hanno aderito raccoglie in sé tutti i membri precedenti si può scrivere … ai ragazzi del doposcuola, alle loro mamme, ai loro insegnanti; a tutti coloro che hanno aderito, insomma, affinché… In questo modo il punto e virgola assume un’altra delle sue tipiche funzioni, quella di precedere un cambiamento di direzione del discorso, per esempio il passaggio da un elenco alla sua sintesi rappresentata dal segnale discorsivo insomma. La stessa funzione riconosciamo nella frase 7, nella quale invece che insomma c’è anzi, che segnala comunque un cambio di direzione del discorso. In questa frase la sostituzione del punto e virgola con la virgola ridurrebbe la forza oppositiva di anzi, facendo apparire la precisazione come meno convinta, quindi suggerendo che freddo non sia da dimenticare completamente come opzione per descrivere lo sguardo. Inoltre, se si usasse la virgola la seconda virgola risulterebbe fuori luogo, perché renderebbe incidentale il solo segnale discorsivo: dovrebbe, pertanto, essere eliminata.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se molti di noi non sanno ancora con chi trascorreranno / trascorrerà le feste, altri cittadini, invece, sanno già molto bene con chi non le passeranno / passerà: sono i familiari delle persone decedute per Covid.
RISPOSTA:
Il soggetto di entrambe le proposizioni relative è loro, che rimanda nel primo caso a molti, nel secondo a altri cittadini. La persona del verbo all’interno delle proposizioni relative, pertanto, deve essere la terza plurale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sull’analisi delle seguenti frasi:
1. Il poeta nacque a Chiaravalle (compl. di origine o stato in luogo), una cittadina (apposizione) delle Marche (c. denominazione).
2. Venite a pranzo (stato in luogo) da me (moto a luogo).
3. Dove (c. avverbiale moto a luogo) andate (p. verbale) addobbati (attributo) in quel modo (c. di modo).
RISPOSTA:
1. A Chiaravalle = c. di stato in luogo (sarebbe origine se fosse è originario di Chiaravalle o viene da Chiaravalle); delle Marche = c. di specificazione, perché indica la relazione che intercorre tra la cittadina e le Marche. Il complemento di denominazione indica il nome di un luogo, ma è chiaro che la cittadina non si chiama le Marche. Sarebbe complemento di denominazione nacque nella cittadina di Chiaravalle.
2. A pranzo = c. di fine.
3. In quel luogo = complemento di modo più attributo.
Il resto va bene
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Ne ho sentito parlare” è giusto dire che parlare è complemento oggetto?
RISPOSTA:
Non esattamente, ma ci è andata molto vicino. Alcuni verbi, infatti, possono reggere un complemento oggetto oppure una intera proposizione che ha la stessa funzione, e che prende il nome di proposizione oggettiva. Sentire è uno di questi verbi (insieme a dire, pensare, sapere, vedere e molti altri): può reggere un complemento oggetto (ho sentito un rumore) o una proposizione oggettiva (ne ho sentito parlare; ho sentito che ti sei sposato). Come si può vedere, la differenza tra un complemento oggetto e una proposizione oggettiva sta nella composizione: il complemento oggetto è un sintagma nominale, cioè un nome o un gruppo di parole che ruota intorno a un nome (ad esempio un rumore); la proposizione oggettiva è un verbo o un gruppo di parole che ruota intorno a un verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase seguente è corretta?
“Essi vorrebbero sapere se avesse intenzione di…”
O la frase corretta è:
“Essi vorrebbero sapere se avrebbe intenzione di…”
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, ma hanno due significati diversi. Il congiuntivo imperfetto è uno dei tempi che esprimono l’anteriorità dell’evento rispetto a un altro evento presente; nella prima frase, quindi, i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno precedentemente avesse intenzione di… Il condizionale presente, invece, esprime contemporaneità rispetto al presente, quindi nella frase i parlanti vorrebbero sapere se qualcuno nel momento stesso ha intenzione di…
Un modo per far risaltare il diverso rapporto temporale tra la subordinata e la reggente nelle due frasi è sostituire il congiuntivo nella prima e il condizionale nella seconda con l’indicativo, che non modifica sostanzialmente il significato delle frasi e mantiene, appunto, lo stesso rapporto temporale:
“Essi vorrebbero sapere se aveva intenzione di…”
“Essi vorrebbero sapere se ha intenzione di…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Il gatto è spaventato” è spaventato è predicato verbale o nominale?
RISPOSTA:
In questa frase il predicato è nominale, perché esprime uno stato proprio del soggetto. Se aggiungessimo un complemento di agente o di causa efficiente (è spaventato da un rumore) il predicato diventerebbe verbale, perché la frase descriverebbe un evento subito dal soggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei gentilmente sapere come interpretare i seguenti predicati: se è corretto come sembrano a me.
– “Sara’ così…” (pv nel senso che significa esistere?)
– “Sono le venti ” (anche qui pv per lo stesso motivo di sopra)
– “è ora…” (nn saprei classificare…a metà tra pn e pv ma forse più pn..)
certe espressioni della lingua risultano molto ambigue….
-il negozio era aperto/chiuso (pv)
– erano bagnati (se è solo in quest’espressione, senza complementi credo pn….se ci sono altri complementi es. erano bagnati dalle onde è pv?)
questi dubbi mi tormentano….e vorrei riuscire a capire bene.
RISPOSTA:
– “Sara’ così…”: è predicato nominale, esattamente come è bello, è tardi, è giusto ecc.; in questo caso il valore non è ‘esistere’, bensì proprio il senso relazionale di essere come copula. Immagini una frase come: “Mario è sempre puntuale e sarà così anche stavolta”. Alcune grammaticale considererebbero “sarà così” predicato verbale perché ritengono che essere + avverbio non possa avere valore di copula, ma io personalmente non sono d’accordo, perché l’importante è stabilire se essere ha un valore relazionale oppure un valore autonomo (come ‘esistere, trovarsi’ ecc.). Comunque, come già detto in altre sedi, la differenza tra predicato verbale e predicato nominale è talora più sfumata di quanto le grammatiche vogliano far credere.
– “Sono le venti “: predicato verbale perché le venti è soggetto e non parte nominale. Sarebbe predicato nominale se fosse una frase del genere: “l’ora in cui verrò a prenderti sono le venti”.
– “è ora…”: ha ragione lei, è davvero in limine, ma opterei più per il predicato nominale, perché ora non può essere soggetto, bensì parte nominale di un verbo impersonale. Aggiungo però che in questo caso non ha molto senso considerare la locuzione è ora come costituita da verbo + parte nominale, bensì come locuzione verbale del tutto sinonimica di bisogna e dunque analizzabile come verbo modale nel suo complesso, in un caso come “è ora di andare”. Analogamente “è necessario andare”, analizzabile o come reggente (costituita da un predicato nominale) + subordinata completiva, oppure (come preferirei io) come una sola proposizione costituita dalla locuzione verbale modale è necessario + infinito (un po’ come se fosse “dobbiamo andare”).
– “Il negozio era aperto/chiuso”: questa è senza alcun dubbio predicato nominale a meno che non sia presente un complemento d’agente che indica la forma passiva del predicato verbale aprire o chiudere: “il negozio è aperto/chiuso da noi”.
– “Erano bagnati”: è giusto quello che dice lei, ovvero come sopra: predicato nominale se solo, predicato verbale passivo di bagnare solo se seguito da complemento d’agente o di causa efficiente: “erano bagnati dalle onde”.
Fabio Rossi
QUESITO:
‘In questo letto si dormono sonni tranquilli’.
In questa frase è corretto dire che il “si” è passivante e non impersonale?
Il soggetto, infatti, è “sonni tranquilli” (= in questo letto vengono dormiti sonni tranquilli).
RISPOSTA:
Sì, il si in questo caso ha valore passivante. La forma attiva è il costrutto con oggetto interno: dormire sonno tranquilli, al passivo: sono dormiti sonno tranquilli, ovviamente del tutto innaturale e impossibile, in questa forma, in italiano. Come sempre, il confine tra il si passivante e il si impersonale è molto labile, dal momento che i costrutti passivi servono proprio, spesso, a mascherare il soggetto, cioè nel caso di espressioni impersonali, come in questo caso: chiunque (cioè un soggetto generico, impersonale) può dormire sogni tranquilli in questo letto.
In conclusione: è un si passivante con valore impersonale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Non so se nella frase seguente il verbo va coniugato al singolare o plurale:
“La parte distale di tibia e fibula e di talo e calcagno devono / deve essere inclusi” oppure “Il condilo del femore e il condilo del ginocchio devono / deve essere inclusi”.
RISPOSTA:
Il verbo concorda con il soggetto della frase. Nella sua prima frase il soggetto è la parte distale, quindi il verbo sarà deve essere inclusa (a prescindere da quanti siano i complementi di specificazione legati al soggetto); nella seconda frase il soggetto è il condilo e il condilo, quindi il verbo sarà devono essere inclusi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggendo le risposte alle domande in archivio, ho letto questa vostra risposta:
“Nella frase (“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”), […] come studente è un complemento predicativo”. Perché la grammatica di R. Zordan analizza le espressioni introdotte da “come, in
qualità di…” apposizioni?
Ho poi un dubbio su questa espressione. Si deve dire “il mio percorso di studi universitariO” o “il mio percorso di studi universitarI”?
Infine, si deve dire (se parla un uomo) “Se fossi stato una persona…” o “Se fossi stata una persona…”?
RISPOSTA:
La classificazione delle espressioni nominali costruite con come è a metà strada tra l’apposizione e il complemento predicativo. Io preferisco distinguere tra casi come lo studente Giuseppe, in cui il sintagma lo studente è strettamente legato al nome che accompagna, al pari di un aggettivo, ed è apposizione, e Giuseppe, come studente, in cui il sintagma ha maggiore autonomia sintattica (potremmo spostarlo in molte posizioni: Giuseppe è bravo, come studente, diversamente dall’altro: *Giuseppe è bravo lo studente). Per comodità, molte grammatiche non fanno una simile distinzione e accomunano le due espressioni nella categoria delle apposizioni, associando il complemento predicativo esclusivamente alla presenza di un verbo copulativo (Giuseppe è diventato uno studente modello) o di un verbo predicativo con funzione copulativa: Giuseppe è stato premiato come studente.
La concordanza dell’aggettivo con espressioni internamente solidali ma non cristallizzate è libera: entrambe le soluzioni, percorso di studi universitario e percorso di studi universitari, sono accettabili e difendibili. Propenderei, comunque, per la concordanza con percorso, visto che è il costituente più simile alla testa di un composto. Nei composti e nelle unità polirematiche (per un approfondimento sul concetto di unità polirematica rimando all’archivio di DICO), infatti, è la testa, cioè il costituente dominante, che guida la concordanza: un capostazione rigoroso (non *un capostazione rigorosa) un treno merci lunghissimo (non *un treno merci lunghissime), occhiali da sole nuovi (non *occhiali da sole nuovo).
Anche quando la parte nominale o il complemento predicativo contiene un nome di genere e/o numero diversi da quelli del soggetto (il suo terzo dubbio) si crea un problema di accordo, questa volta del participio passato o della persona del verbo. A rigore, il verbo (quindi anche il participio passato che ne fa parte, concorda con il soggetto (quindi se fossi stato una persona); l’attrazione della parte nominale, però, è molto forte, perché la parte nominale è il sintagma adiacente al verbo e perché, tutto sommato, con il verbo essere o un verbo copulativo la parte nominale identifica il soggetto al pari del soggetto stesso. Ne consegue che entrambe le soluzioni sono accettabili, con una preferenza, anche in questo caso, per l’accordo con il soggetto.
Un esempio di dubbio sull’accordo della persona del verbo potrebbe essere il seguente: “I miei amici sono la mia famiglia” / “la mia famiglia è i miei amici”. Si noterà dall’esempio che quando il soggetto è plurale e il nome del predicato è singolare il verbo difficilmente va al singolare: i miei amici è la mia famiglia è possibile al pari di se fossi stata una persona, ma sfavorito; al contrario, quando il soggetto è singolare e il nome del predicato plurale è l’accordo con il nome del predicato a essere preferito: la mia famiglia sono i miei amici. Difficile spiegare la ragione di questa differenza di trattamento dell’accordo, ma probabilmente essa dipende dalla maggiore salienza semantica del plurale rispetto al singolare: il plurale, cioè, attrae l’accordo del verbo più fortemente del singolare, a prescindere dalla funzione sintattica dei sintagmi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Giuseppe, come studente, è molto superficiale”.
In analisi logica che cos’è l’avverbio molto? Come studente è un’apposizione oppure un complemento predicativo?
RISPOSTA:
In analisi logica gli avverbi che modificano gli aggettivi sono considerati parte dell’attributo, del complemento predicativo o della parte nominale rappresentati dall’aggettivo. Nella sua frase molto superficiale è parte nominale. Come studente è un complemento predicativo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Che ruolo sintattico assume da te nella frase “Da te voglio una risposta”?
RISPOSTA:
Il sintagma da te dipendente da voglio è un complemento di provenienza. La frase, infatti, può essere parafrasata come voglio una risposta proveniente da te o voglio ricevere una risposta da te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se scrivo “Penso che l’ossessione di Carla per Marco sia di gran lunga inferiore DELLA tua per lei (Carla)” è sbagliato?
RISPOSTA:
Il secondo termine di paragone è sempre introdotto da di (o che se è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione, oppure se è un verbo, un aggettivo o un avverbio), tranne che con gli aggettivi inferiore e superiore, che richiedono a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali forme sono corrette?
Me ne hanno parlato bene di lui / mi hanno parlato bene di lui.
Io penso che il meglio DEBBA ancora avvenire / venire?
Io penso che il meglio DEVE ancora avvenire / venire ?
RISPOSTA:
Tutte le varianti di tutte le frasi sono corrette. Ci sono, tra l’una e l’altra, delle differenze semantiche e diafasiche, cioè di registro. Nella prima frase, la seconda variante è del tutto normale; la prima variante, invece, presenta il tema, cioè l’argomento, ripetuto due volte: la prima volta con il pronome ne, la seconda con il sintagma preposizionale di lui. Per un verso, questa ripetizione è un difetto sintattico (per questo motivo questa costruzione è da evitare nello scritto e nel parlato formale); per un altro, in certi contesti può essere utile ripetere due volte il tema, per sottolinearlo. Nella seconda e nella terza frase l’alternanza tra deve e debba è totalmente diafasica; la scelta tra l’una e l’altra forma va fatta in base al registro che si vuole tenere nel discorso: il congiuntivo è più formale, l’indicativo è meno formale. Tra venire e avvenire, invece, c’è una differenza di significato: venire significa ‘arrivare’, avvenire significa ‘succedere’. Entrambi i significati sono perfettamente coerenti con la frase e cambiano di poco il senso generale della frase stessa, quindi entrambi i verbi si possono usare. La frase, comunque, è piuttosto convenzionale ed è costruita quasi sempre con venire.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un quesito di analisi logica. Nella frase successiva a quale complemento corrisponde nel pericolo?
“Nel pericolo chiediamo l’aiuto degli amici”.
RISPOSTA:
Il complemento può essere interpretato in modi diversi, a seconda della sfumatura semantica che si ritiene più forte. Potrebbe essere un complemento di stato in luogo figurato, di tempo determinato, di causa (= a causa del pericolo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le frasi “Io vengo a Milano” e “Io vado a Milano” hanno lo stesso significato e sono entrambe corrette?
RISPOSTA:
Sono entrambe corrette ma hanno un significato leggermente diverso. Il verbo andare significa ‘spostarsi verso un posto nel quale non sono presenti né il parlante né la persona con cui si sta parlando’; venire, invece, significa ‘spostarsi verso un posto dove sono presenti o il parlante, o la persona con cui si sta parlando, o entrambi’. Quindi vado a Milano implica che la persona con cui si sta parlando non sia a Milano (e ovviamente neanche il parlante, visto che è lui che si sposta); vengo a Milano implica che la persona con cui si sta parlando sia a Milano (ma, ancora, non il parlante, visto che è lui che si sposta).
Se la persona che si sposta è quella a cui ci si rivolge (tu o voi) o una terza persona, è il luogo in cui si trova il parlante a determinare la scelta: tu vai a Milano / Mario va a Milano (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano (se il parlante è a Milano).
Si noti che la terza persona non è influente nella scelta tra i due verbi: contano soltanto il parlante e la persona a cui il parlante si rivolge. Vengo a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo è a Milano; vado a Milano con Mario se la persona a cui mi rivolgo non è a Milano; tu vai a Milano / Mario va a Milano con Andrea (se il parlante non è a Milano); tu vieni a Milano / Mario viene a Milano con Andrea (se il parlante è a Milano).
Nel caso in cui nessuno degli interlocutori sia nel luogo verso dove il soggetto di prima o seconda persona (io / noi o tu / voi) si sposta, ma uno dei due accompagni l’altro, si sceglie ancora venire, anche se di norma sarebbe richiesto andare; per questo si dice vengo a Milano con te e vieni a Milano con me (anche se è chiaro che nessuno di noi due si trova a Milano) e non vado a Milano con te, né vai a Milano con me. Un confronto tra italiano e inglese a proposito di quest’uso si può leggere nella risposta “Andare e venire tra italiano e inglese” dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei avere alcune delucidazioni in merito al verbo entrarci: perché non si può scrivere “se l’avessi fatto, NON SAREBBE C’ENTRATO PER NULLA”? Cioè: come mai nella coniugazione del verbo entrarci in tutti i tempi che non comportano l’ausiliare (essere, in quanto il verbo è intransitivo) la particella ci può essere anteposta con elisione al verbo entrare (c’entrare), mentre in quelli che necessitano dell’ausiliare la particella deve essere messa per intero prima dello stesso?
RISPOSTA:
Entrarci si comporta esattamente come tutti gli altri verbi pronominali, cioè costruiti con un pronome (o particella pronominale): all’infinito, al gerundio, all’imperativo il pronome è enclitico, cioè si appoggia (e si scrive attaccato) all’infinito, al gerundio, all’imperativo (entrarci, entrandoci, entraci), nelle forme semplici il pronome si sposta prima del verbo (ci entrai). Al participio passato il pronome si comporta in due modi: quando il participio è una forma autonoma, senza ausiliare, il pronome è enclitico: entratoci, scoprì chi vi si nascondeva); quando il participio fa parte di una forma composta, dal momento che l’unione con l’ausiliare è molto stretta il pronome non va a inserirsi in mezzo, ma “risale” fino a prima dell’ausiliare. Abbiamo così ci sarebbe entrato e simili. Venendosi a trovare prima di essere, il pronome si pronuncia e si scrive per forza per intero davanti alle forme del verbo che cominciano per consonante (ci sono entrato, ci sei entrato…), si può pronunciare attaccato e scrivere con o senza elisione davanti alle forme che cominciano per vocale (c’è / ci è entrato, c’era / ci era entrato…).
Come dicevo, tutti i verbi pronominali si comportano allo stesso modo. Prendiamo andarsene: andarsene (infinito); me ne andai (forma semplice), andatosene (participio passato senza ausiliare), me ne sono andato (forma composta con ausiliare e participio passato).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se è errata la frase “Anche questo è un uomo e la sua vita”.
RISPOSTA:
La frase è del tutto corretta se si considera questo come pronome “neutro”, con il significato di ‘questa cosa’. In questo caso la frase diviene equivalente a “Anche questa cosa è un uomo e la sua vita’.
Se, invece, si attribuisce a questo la funzione di aggettivo dimostrativo la frase non è perfettamente corretta, perché il sintagma concordato con questo è un uomo e la sua vita, che contiene due nomi, uno maschile e uno femminile, quindi richiede un accordo plurale maschile. La frase corretta è, pertanto, “anche questi sono un uomo e la sua vita”. Una terza alternativa, che evita questo accordo, corretto ma poco trasparente, è modificare leggermente la sintassi della frase, per esempio così: “Anche questo è un uomo, e anche questa è la sua vita”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi è capitato di scrivere questo messaggio: “Lei è un amore”. Pensando al soggetto della frase, femminile, mi è sorto un dubbio sull’uso dell’apostrofo. Quindi chiedo: amore è sempre maschile e quindi accompagnato da un? O nel caso ci si riferisca a persone può variare in base al genere?
RISPOSTA:
I nomi che si riferiscono a cose inanimate in italiano hanno un genere dato, che non può variare, e un numero variabile, perché possono essere singolari e plurali. Ne consegue che *una amore non è possibile, perché il nome amore è maschile, mentre è possibile gli amori (o semplicemente amori), perché il nome amore può essere singolare e plurale. Anche se amore nella sua frase è usato per definire una persona, il significato del nome rimanda comunque a una cosa (in senso lato), quindi rimane unicamente maschile.
Diversamente dai nomi di cosa, i nomi che si riferiscono a esseri viventi possono cambiare di genere in base al sesso dei referenti. Nel cambiare di genere quasi tutti cambiano in parte la loro forma (l’amico / l’amica, l’imprenditore / l’imprenditrice), pochi rimangono uguali: l’artista (lo) / l’artista (la); pochi cambiano totalmente: l’uomo / la donna.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere gentilmente se la particella ci talvolta sia superflua e dunque trascurabile.
1) (Ci) tengo a precisare che…
2) La notizia (ci) ha commosso / commossi tutti.
3) Dentro la casa, (c’)è uno splendido affresco.
Infine, permettetemi una domanda collaterale: ci con valore pronominale, riferito a terza persona sia singolare che plurale, è corretto?
4) Sono diversi anni che non ci parlo (vale a dire che non parlo a lui / lei oppure a loro).
RISPOSTA:
Il pronome atono ci risulta a volte non chiaramente decifrabile, eppure necessario per completare il senso della frase. Sebbene tenere a possa significare ‘avere a cuore’, tenerci a veicola una maggiore partecipazione emotiva del soggetto (un po’ come mangiarsi un panino rispetto al neutrale mangiare un panino). Addirittura, nel verbo esserci ‘trovarsi, stare in un luogo’, la particella è del tutto desemantizzata, tanto che spesso ne ribadiamo il senso con un complemento di luogo. Succede nella sua terza frase, in cui troviamo sia dentro la casa sia ci. Sebbene la particella non abbia un significato specifico, però, non possiamo eliminarla, perché esserci è del tutto cristallizzato e i suoi componenti non possono essere più separati: la variante dentro la casa è un affresco è al limite dell’accettabilità (pochi parlanti nativi la considererebbero corretta).
Il suo secondo esempio si distingue dagli altri, perché in esso ci è un pronome personale, la cui presenza modifica chiaramente la frase:
ha commosso tutti = ‘ha commosso tutte le persone’;
ci ha commosso tutti = ‘ha commosso tutti noi’.
Ci in parlarci, infine, pronominalizza con lui / lei / loro, quindi “Non voglio parlarci” = ‘non voglio parlare con lui / lei / loro’. A lui / loro è pronominalizzato da parlargli; a lei da parlarle.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale delle tre costruzioni indicate di seguito è quella più rispondente alle regole grammaticali, e, inoltre, se la congiunzione o tra parentesi sia consigliata o sconsigliata e se sia preferibile far precedere la suddetta congiunzione, a prescindere dagli esempi, dalla virgola, dal punto e virgola oppure no.
1) È richiesta una quota d’adesione(,) o l’acquisto di un numero minimo di copie?
2) È richiesta una quota d’adesione(,) o è richiesto l’acquisto di un numero minimo di copie?
3) Sono richiesti (o) una quota d’adesione(,) o l’acquisto di un numero minimo di copie?
RISPOSTA:
Le tre varianti sono tutto sommato corrette; dovendo metterle in una scala di corrispondenza alle regole, però, direi che la 1 è al terzo posto, cioè è la meno corretta, la 2 è al secondo e la 3 è al primo.
La congiunzione o configura un’alternativa tra due elementi, che possono essere considerati autonomi oppure uniti. Nel primo caso, se i due elementi sono soggetti della frase richiedono ciascuno un verbo (è la costruzione della variante 2); nel secondo concordano con un unico verbo al plurale (è la costruzione della variante 3). Nel primo caso, inoltre, è possibile sottintendere il secondo verbo, se coincide con il primo (è la costruzione della variante 1). Il problema della variante 1 è che i due soggetti, una quota e l’acquisto, sono di genere diverso, quindi il primo e il secondo verbo non coincidono esattamente (lo si vede nella variante 2). Si tratta di un difetto veniale, che in un contesto di media formalità anche scritto passerebbe inosservato.
La 2 e la 3 non presentano problemi, ma la 3 è preferibile in astratto perché la ripetizione del verbo appesantisce la sintassi. La ripetizione della congiunzione nella 3 è una possibilità lasciata allo stile dello scrivente.
Per quanto riguarda la virgola, la variante 3 la esclude, perché i due soggetti sono considerati molto solidali, tanto da concordare con un unico verbo. Più plausibile, ma comunque non necessario, è il suo inserimento nella variante 2, che presenta un’alternativa più marcata.
Più marcata è l’alternativa, sintatticamente e semanticamente, più la virgola diviene necessaria: “Paga quello che devi, o sarò costretto a denunciarti”. Il punto e virgola diviene necessario quando i due elementi sono sintatticamente diversi e semanticamente opposti: “Ho visto Maria in quel negozio; o forse me lo sono sognato”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito delle preposizioni che servono a caratterizzare una persona, perché le seguenti espressioni si formano con preposizioni differenti? Mi sembrano avere la stessa struttura. O potrebbero essere intercambiabili?
con una grande umanità;
di bassa statura;
dal cuore d’oro;
dall’intelligenza non comune.
Inoltre, molte volte le preposizioni di / da + articolo segnano il motivo: piangere di gioia, dalla gioia. Ma posso usare anche per? piangere dalla / di / per la commozione.
E infine: andare da una stanza all’altra. Perché si dice cosi? Perché non si dice andare da una stanza nell’altra?
RISPOSTA:
Le qualità delle persone o delle cose possono essere espresse in modi diversi. Prima di tutto c’è la possibilità di usare un aggettivo qualificativo (una donna di bassa statura = una donna bassa). Se si vuole usare un sintagma preposizionale si può scegliere soprattutto tra di e da. La differenza tra le due preposizioni è vaga e la scelta tra l’una e l’altra dipende soprattutto dalla preferenza dei parlanti. Volendo essere precisi, di è piuttosto rara, è seguita preferibilmente da un aggettivo e non vuole l’articolo: di bassa statura (non *della bassa statura), di poco conto (non *del poco conto). Dal punto di vista del significato, di rappresenta la qualità come inseparabile dal possessore: questa preposizione, infatti, indica una relazione stretta tra due elementi (è usata, non a caso, nel complemento di specificazione); da, invece, rappresenta la qualità come caratterizzante, posseduta in modo parziale o temporaneo. Con, infine, introduce una qualità che accompagna una persona o una cosa rimanendo ben distinta dalla persona o la cosa. Introduce anche il modo in cui un’azione è compiuta. Si osservino i seguenti esempi:
Luca è una persona di grande umanità;
Luca è una persona dalla grande umanità;
Luca è una persona con una grande umanità.
Il primo indica che l’umanità è connaturata in Luca, tanto che l’uno e l’altra non sono separabili.
Il secondo indica che Luca è caratterizzato dall’umanità, ma quest’ultima non lo identifica.
Il terzo è un po’ forzato; nell’uso sarebbe costruito con una proposizione relativa (Luca è una persona che ha una grande umanità) oppure con dalla grande umanità. Rispetto a da, con indica che la qualità è associabile a Luca, ma in modo non stabile. Questa preposizione è più comunemente legata a un verbo, per introdurre il modo in cui l’evento descritto dal verbo avviene: “Luca si è comportato con grande umanità” (meno comune con una grande umanità).
Di, da + articolo e per + articolo possono esprimere anche la causa di un evento. Anche in questo caso di è raro e indica una relazione stretta tra i due elementi collegati (in questo caso il verbo e la causa). Piangere di gioia, quindi, è la descrizione di un tipo speciale di pianto, diverso da tutti gli altri. Piangere dalla gioia instaura una relazione meno stretta tra i due elementi, ma ancora speciale, tipica. Piangere per la gioia, infine, indica semplicemente la causa del pianto in una determinata situazione. Si noti che di e da non si possono usare sempre per esprimere la causa, ma descrivono soltato situazioni uniche o tipiche: si può, per esempio, piangere di dolore, ma piangere dal dolore è forzato; si può, invece, piangere dal gran dolore (e, al contrario, non è possibile *piangere di gran dolore). Non si può *piangere di fidanzato, né *piangere dal fidanzato, ma si può piangere per il fidanzato.
Infine, andare da un luogo a un altro è preferito ad andare da un luogo in un altro perché il verbo andare non esprime l’ingresso, ma soltanto l’avvicinamento a un luogo. Andare in una stanza, infatti, è un po’ forzato (molto meglio è entrare in una stanza), anche se in un contesto poco sorvegliato è accettabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La preposizione su che esprime quantità approssimativa è corretta in questa frase?
“Rimaniamo a Aosta su 10 giorni”.
Questa frase con quale preposizione è giusta?
“I turisti ritornano nei / con i primi giorni caldi”.
RISPOSTA:
Nella prima frase la preposizione è corretta, ma bisogna aggiungere l’articolo: sui 10 giorni = ‘all’incirca 10 giorni’.
Nella seconda frase la preposizione sicuramente corretta è con, che in questo caso indica la concomitanza, la coincidenza, tra il ritorno dei turisti e quello dei giorni caldi. La preposizione in non va bene perché indica il tempo determinato (“I turisti ritornano in aprile”), mentre i primi giorni caldi descrive una situazione più che un momento. In andrebbe bene in una frase come “I turisti ritornano nei primi giorni caldi di aprile”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Finalmente ci siamo liberati da tutti quei curiosi” l’espressione “da tutti quei curiosi” svolge la funzione logica di:
A) complemento di separazione
B) complemento di allontanamento
Mi è capitata questa domanda in un concorso ma ho il dubbio che sia errata. Ho sempre studiato il complemento di allontanamento o separazione come un unico complemento, è possibile invece farne una distinzione come indicato nella domanda?
RISPOSTA:
La risposta più corretta è complemento di separazione, visto che l’allontanamento in questo caso è figurato (è una liberazione, per l’appunto), anziché letterale. Ma Lei ha ragione da vendere quando osserva che i due complementi andrebbero studiati insieme, dal momento che la funzione sintattica e il connettivo (da) che ne sono alla base sono i medesimi (anche se nella frase in questione si potrebbe usare anche di, che anzi sarebbe preferibile: “liberarsi di qualcuno”) sia per esprimere l’allontanamento sia per esprimere la separazione. Allontanamento e separazione sono concetti meramente semantici che nulla hanno a che vedere né con la sintassi né con la analisi “logica” (in questo caso molto poco logica). Quindi chi ha costruito quel test mostra competenze linguistiche limitate o eccessivamente (quanto inutilmente) rigide.
Fabio Rossi
QUESITO:
Molto spesso nelle grammatiche si parla di condizionale o congiuntivo in maniera troppo semplicistica limitandosi ad indicarne la preferenza nel solo periodo ipotetico senza però specificare le casistiche particolari che si possono verificare per esempio dopo quando, finché, come se o anche se. Nella fattispecie qui sotto riportata, mi sapete gentilmente confermare quali siano le frasi corrette e quali no con relativa argomentazione?
1) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare.
2) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arriverebbero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.
3) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), fossero in grado di farci migliorare
4) Stanno decidendo se acquistare o meno nuovi giocatori ma i problemi sono ben altri: ragionano come se quelli che poi arrivassero (qualora lo decidessero), sarebbero in grado di farci migliorare.
RISPOSTA:
Nelle sue frasi ci sono due ordini di problemi: bisogna decidere da una parte il modo della proposizione relativa che poi arriverebbero / arrivassero; dall’altra il modo della proposizione comparativa ipotetica come se quelli sarebbero / fossero.
La soluzione al primo problema è che sono corretti tutti e due i modi: la proposizione relativa è la più svincolata da regole sulla scelta dei modi e dei tempi verbali, perché funziona da ampliamento di un nome o un pronome (in questo caso quelli). Può, quindi, esprimere la condizionalità con il condizionale, la non fattualità con il congiuntivo (e ricordiamo che la non fattualità espressa dal congiuntivo è molto vaga) e anche la fattualità con l’indicativo: quelli che poi arrivano / arriveranno.
Il modo della comparativa ipotetica è, di norma, il congiuntivo: il condizionale non è previsto. L’indicativo è accettabile come variante trascurata (si comporta come se non gliene frega niente). L’attrazione verso il condizionale nel suo esempio è dovuta al fatto che la comparativa, pur essendo un’ipotesi (per cui richiede il congiuntivo), esprime il risultato di una condizione (idea che si esprime con il condizionale o con l’indicativo). Sarebbero / fossero in grado, infatti, è, dal punto di vista logico, il risultato o della condizione espressa dalla relativa che poi arrivassero (interpretata come ‘se poi arrivassero’), o, se costruiamo la relativa con il condizionale, di una condizione implicita (per esempio come se quelli che poi arriverebbero, arrivando sarebbero in grado di farci migliorare).
Dal punto di vista grammaticale, in conclusione, la variante al condizionale è scorretta (anche se può essere difesa con ragioni logiche). Sebbene sia il congiuntivo il modo corretto, però, suggerisco di sostituire il tempo imperfetto con il presente del verbo modale potere: come se quelli che poi arrivassero / arriverebbero / arriveranno possano essere in grado… In questo modo si mantiene la sfumatura potenziale dell’imperfetto ma si guadagna una più marcata proiezione nel futuro che recupera in parte, in modo grammaticalmente ineccepibile, l’idea della conseguenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei porvi una serie di interrogativi circa il che relativo. Partiamo con il primo dei due esempi:
1. Parlai alla moglie di Marco che dormiva.
a) Suppongo che il pronome relativo si colleghi alla moglie di Marco anziché a quest’ultimo. L’inserimento di una virgola o di un altro segno di punteggiatura potrebbe invece produrre l’effetto opposto?
b) La grammatica è arbitraria nell’individuazione del referente, oppure il lettore può risalire a esso mediante gli elementi della frase (alludo in special mondo alle parti variabili). Mi spiego meglio: se l’esempio fosse più dettagliato: “Parlai alla moglie di Marco, che dormiva, beato, sul divano”, sarebbe lecito ricondurre il pronome a Marco, unico elemento maschile della frase.
Secondo esempio:
2. Fece una carezza al proprio figlio. Che si scansò bruscamente.
L’esempio è di mia creazione; costruzioni del genere, con il che a inizio frase, sono tuttavia abbastanza frequenti in letteratura.
c) Una sola domanda: questo genere di costruzione – se valido – deve collegarsi esclusivamente all’ultimo complemento della frase precedente? “Fece una carezza al proprio figlio. Che non fu gradita”. In questo caso il che “risale” fino al complemento oggetto, anziché “fermarsi” al complemento di termine.
RISPOSTA:
Riguardo alla prima frase, sottolineo che un nome proprio non può essere seguito da una relativa limitativa, perché è perfettamente identificativo di un individuo, senza che debba essere aggiunto altro. Se sostituiamo Marco con un sintagma nominale comune, però, la relativa limitativa diviene senz’altro riferita a quest’ultimo: “Parlai alla moglie del vicino di posto che dormiva”. Il pronome relativo, infatti, rimanda all’antecedente più vicino tra quelli possibili (Marco, pur essendo più vicino a che rispetto a la moglie, non è un antecedente possibile; il vicino di posto è un antecedente possibile).
La virgola rimette in gioco anche Marco come antecedente, perché la relativa esplicativa aggiunge informazioni sull’antecedente, non lo identifica. Per la regola della vicinanza dell’antecedente, anzi, dobbiamo propendere senz’altro per l’interpretazione che fosse Marco a dormire, non la moglie (per quanto un minimo di dubbio potrebbe permanere). Ovviamente l’ambiguità sarebbe risolta (come lei stesso suppone) dalla presenza nella proposizione relativa di un’informazione riferibile soltanto a uno dei due possibili antecedenti: “Parlai alla moglie di Marco, che è bionda”, o, al contrario, “Parlai alla moglie di Marco, che è un mio carissimo amico”.
Nella seconda frase il punto fermo è legittimo: un punto che interrompe una sequenza sintattica in modo insolito, separando, per esempio, una subordinata da una reggente, oppure un complemento dal verbo che lo richiede, o altri componenti sintattici in teoria non separabili, è detto punto anomalo ed è una caratteristica sfruttata da alcuni scrittori e giornalisti per focalizzare l’attenzione su singole parole o singoli sintagmi isolandoli. Dal punto di vista della coerenza, comunque, non c’è differenza tra “Fece una carezza al proprio figlio. Che non fu gradita” e “Fece una carezza al proprio figlio, che non fu gradita”. Il riferimento di che a una carezza è possibile non perché ci sia il punto fermo, ma perché una carezza è il più vicino degli antecedenti possibili di fu gradita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase il muro è dipinto c’è un predicato nominale; nella frase il muro è dipinto dal pittore c’è un predicato verbale. La differenza sta nel fatto che viene specificato da chi è compiuta l’azione?
RISPOSTA:
La presenza di un agente è chiaramente un segno che il predicato sia verbale, ovvero che il verbo esprima un’azione. Il muro è dipinto dal pittore, infatti, equivale a il pittore dipinge il muro.
Se l’agente non è esplicitato, è probabile che il predicato sia nominale, quindi indichi uno stato o una qualità, ma c’è ancora la possibilità che l’agente sia sottinteso e, pertanto, il predicato sia verbale. Nel nostro caso, per esempio, potremmo immaginare una frase del genere: “Oggi il muro è dipinto una seconda volta, dopo l’atto vandalico di ieri”, nella quale è dipinto è un predicato verbale anche se non c’è un agente espresso.
Per evitare questa ambiguità, i parlanti preferiscono costruire il passivo con l’ausiliare venire se non c’è l’agente espresso: il muro viene dipinto una seconda volta. Per questo motivo possiamo dire che è dipinto senza l’agente esplicitato è probabilmente un predicato nominale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto dire che nella frase “Quali caramelle vuoi?” quali caramelle è complemento oggetto?
Quale sarebbe, invece, l’analisi logica di una frase che inizia con un aggettivo esclamativo come “Che bella ragazza sei!” o come “Quante bugie hai raccontato!”?
RISPOSTA:
La sua analisi della prima frase è corretta, e si applica allo stesso modo alle altre frasi. Nella seconda che bella ragazza è il soggetto di sei, accompagnato da due attributi, che e bella; nella terza quante bugie è complemento oggetto con attributo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
se scrivo a proposito di Mario : “Quella persona (Mario) è un ipocrita”. Dovrei scrivere un’ ipocrita con l’apostrofo (persona è femminile) oppure, essendo Mario un uomo, senza l’apostrofo? Propendo per il femminile, quindi con l’apostrofo. Del resto, se dicessi, sempre a proposito di Mario, che un falso, dovrei dire “Quella persona è falsa” (al femminile) e non “Quella persona è falso”.
RISPOSTA:
I suoi due esempi (“Quella persona è un ipocrita” e “Quella persona è falsa”) non si equivalgono, perché nel primo la parte nominale è rappresentata da un nome (un ipocrita), nel secondo è rappresentata da un aggettivo (falsa). Questa differenza è determinante: l’aggettivo, infatti, concorda con il nome a cui si riferisce in numero e genere (quindi Mario è falso ma la persona è falsa); il nome concorda soltanto in numero.
In questo caso specifico c’è una difficoltà: ipocrita è un nome di genere comune, che può essere sia maschile che femminile, rimanendo invariabile. In teoria i nomi che hanno sia il maschile che il femminile possono essere concordati anche nel genere con l’altro nome a cui si riferiscono, come propone lei. In pratica, però, questo non avviene, perché il soggetto logico (nel suo caso Mario) è più strettamente collegato al nome che funge da parte nominale di quanto non sia collegato all’aggettivo. La frase, pertanto, viene di norma costruita con un ipocrita. Questo è un caso in cui la logica vince sulla grammatica.
Il caso di ipocrita le sembra particolarmente dubbio perché questo nome può essere usato come aggettivo; ma se proviamo a confrontarlo con ci sono altri nomi di genere mobile che non lasciano dubbi: “Quella persona (Mario) è un giornalista” (e non *”Quella persona (Mario) è una giornalista”).
Lo stesso dubbio relativo a ipocrita potrebbe valere per alcuni nomi mobili (quelli che cambiano la desinenza a seconda del genere): “Quella persona (Mario) è un amico” o “Quella persona (Mario) è un’amica”? Inevitabilmente, se si scegliesse la seconda soluzione si darebbe l’impressione che la persona sia una donna. Al contrario: “Mario è una persona amica”, perché qui amica è usato come aggettivo. Nessun dubbio con un nome mobile come maestro / maestra: “Quella persona (Mario) è un maestro”, e non *”Quella persona (Mario) è una maestra”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se nello scritto va bene utilizzare il presente al posto del futuro indicativo; es. “La classe viene / verrà divisa in sei gruppi, ognuno dei quali legge / leggerà un libro. I membri di ciascun gruppo condividono / condivideranno la lettura dello stesso libro e poi…”.
RISPOSTA:
Prima che la formalità bisogna valutare la chiarezza espressiva: nel suo esempio è impossibile attribuire al presente il valore di futuro, perché mancano avverbi o altre indicazioni temporali che surroghino appunto l’idea del futuro. Il lettore, pertanto, è indotto a interpretare il presente come atemporale, come se quella da lei presentata fosse la descrizione astratta, decontestualizzata, di un’attività. Diversamente, con un’indicazione temporale il presente può assumere la funzione di futuro: “Nella lezione di domani la classe viene divisa in sei gruppi…”.
Il presente si presta bene a sostituire il futuro nel parlato e anche nello scritto di media formalità; nel suo caso consiglierei di usare il futuro anche dopo aver inserito l’indicazione temporale, perché il contesto sembra richiedere un tasso di formalità superiore alla media (un docente sta descrivendo per iscritto un’attività ad alcuni studenti). La scelta del presente, comunque, è sempre possibile, se il docente vuole ridurre la distanza sociale tra sé e gli studenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Verrò a prenderti, quando (una volta che) fossi uscita dal lavoro”: la subordinata fossi uscita dal lavoro, sempre che sia valida, ha valore meramente ipotetico (irrealtà) oppure, rispetto a uscissi dal lavoro, indica che l’azione viene considerata, nella sua eventualità, già conclusa?
La frase “Verrò a prenderti, quando / una volta che uscissi dal lavoro” è ugualmente valida?
“Mi sarei arrabbiato più di quanto ti aspettassi / ti fossi aspettato / ti saresti aspettato”:
ti aspettassi = contemporaneità;
ti fossi aspettato = anteriorità;
ti saresti aspettato = posteriorità. La mia interpretazione è giusta?
RISPOSTA:
Le due sfumature convergono in una: il congiuntivo trapassato all’interno della proposizione temporale-ipotetica esprime sia un’ipotesi improbabile, sia un evento che avviene prima di un altro (verrò). La costruzione della frase è certamente insolita e un po’ forzata, ma possibile. La variante con il congiuntivo imperfetto (uscissi) è più facile da giustificare, perché l’imperfetto stride meno del trapassato in rapporto al futuro. Volendo rappresentare l’improbabilità dell’evento si potrebbe usare la strategia lessicale: “Verrò a prenderti nella remota eventualità che uscissi dal lavoro”. Si ricordi che uscissi e fossi uscita valgono per la prima persona; se il soggetto è tu bisogna esplicitarlo, per evitare ambiguità.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, l’analisi è giusta; si tratta, ovviamente, di rapporti temporali rispetto al passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso, anche nei vostri articoli, si parla dello stretto collegamento tra il passato prossimo e l’attualità dei fatti cui si riferisce.
Così da stabilire, nei limiti del possibile, una regola generale, vi pongo una domanda doppia: quando la principale è appunto al passato prossimo, nella secondaria (finale, interrogativa indiretta, in specie) si può optare per il tempo presente (indicativo, congiuntivo e talvolta condizionale)?
Scegliendo invece un tempo della sfera del passato (nel rispetto della consecutio), il fatto della proposizione secondaria perde attinenza con il momento dell’enunciazione?
RISPOSTA:
Partiamo da un esempio con una interrogativa indiretta: “Mi sono chiesto se tu fossi stato / fossi / sia stato / sia / sarai al corrente della situazione “. Come si vede, tutti i tempi sono possibili, ognuno esprimente un diverso rapporto con il verbo della principale. Ovviamente, sono anche possibili restrizioni su base semantica, con la interrogativa indiretta e con tutte le altre completive (oggettiva, soggettiva, dichiarativa); possiamo, per esempio, avere “Ho sognato che tu fossi morto”, ma non *Ho sognato che tu sia morto”, non per ragioni sintattiche, ma perché la frase non avrebbe senso.
La finale sfugge alla consecutio temporum perché la semantica implicita in questa proposizione impedisce che l’evento in essa espresso preceda quello della reggente. Non possiamo, pertanto, avere *”Ti ho chiamato perché tu fossi venuto”, né *”Ti ho chiamato perché tu sia venuto”. Possiamo, invece, avere “Ti ho chiamato perché tu venissi”, nella quale l’imperfetto (venissi) seleziona la funzione di passato del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel passato (il venire è contemporaneo al chiamare nella mente di chi chiama, ma è successivo nella realtà). Possiamo anche avere “Ti ho chiamato perché tu venga”, con il presente (venga) che enfatizza la sfumatura di quasi-presente del passato prossimo, con il quale instaura un rapporto di quasi-contemporaneità nel presente (anche in questo caso, il venire non può che essere successivo, nella realtà, al chiamare). Proprio la proiezione del congiuntivo presente nel futuro rende impropria *”Ti ho chiamato perché tu verrai”, anche perché la congiunzione perché seguita dall’indicativo viene interpretata come causale, non finale. Infatti la frase potrebbe anche essere possibile con una interpretazione causale: ‘ti ho chiamato a causa del fatto che so già che tu verrai (perché sei costretto o simili)”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è il preciso significato della locuzione in epoca storica, presente ad es. nella seguente frase: “Le lingue indoeuropee, diffuse in epoca storica in una vasta area geografica fra l’Irlanda e l’India, comprendono quasi tutte le lingue parlate oggi in Europa”?
Ho fatto varie ricerche sui dizionari, ma quest’espressione non è nemmeno citata. Ho fatto allora questo ragionamento: la Storia vera e propria inizia nel 3000 a.C. ca., quando termina la Preistoria; dunque, in epoca storica potrebbe significare ‘dal 3000 a.C. fino ad oggi’?
RISPOSTA:
Il suo ragionamento è corretto: in epoca storica si oppone a in epoca preistorica. Nella frase da lei portata ad esempio, si vuole sottolineare che la descrizione data della diffusione delle lingue indoeuropee vale per il periodo storico, mentre per il periodo preistorico la situazione potrebbe essere diversa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo stamane quanto scrive un quotato giornalista italiano in un articolo pubblicato su un giornale a diffusione nazionale: “La sinistra è insorta indignata e non so dargli torto”. Ora, sinistra è femminile, quindi il giornalista avrebbe dovuto scrivere non so darle torto. A meno che il giornalsta non intendesse non so dare torto a quelli di sinistra. Non saprei altrimenti come giustificare questo strafalcione di un giornalista da tutti considerato un vero intellettuale.
RISPOSTA:
La distinzione tra gli ‘a lui’ e le ‘a lei’ è un caposaldo della norma grammaticale italiana contemporanea, sebbene sia molto comune, in contesti informali, usare gli per entrambi i generi. Non c’è dubbio che, in astratto, la sinistra vada pronominalizzato con le, ma, a difesa del giornalista, faccio notare che i pronomi personali lui, lei, gli, le suonano un po’ male quando sono riferiti a entità non animate. Tra questi pronomi, poi, quelli più stridenti sono proprio quelli femminili, che ci si aspetta rimandino a referenti animati (ci si aspetta, cioè, che il genere coincida con il sesso). Pensi a quanto sia strana una frase come questa: “Non ho visto la porta e le ho dato una testata”. Di solito, il parlante tenta di evitare questa situazione, usando altri pronomi o modificando la frase. Nel mio esempio, potremmo risolvere il problema così: “Non ho visto la porta e ci ho dato una testata”, trattando la porta come un luogo. Con la sinistra non si può usare ci; si potrebbe usare non so dare torto a essa, che, però, suonerebbe artificioso. Ecco, allora, che il giornalista ha optato per quello che gli sembrava il male minore, ovvero gli, che è più accettabile (sebbene non ineccepibile) in riferimento a entità inanimate.
Così facendo, però, ha prodotto un errore per evitare una sbavatura. Per giunta, il referente la sinistra non è del tutto inanimato, quindi non so darle torto non stride troppo.
La sua interpretazione (gli = ‘a loro) è ingegnosa, ma, se anche il giornalista avesse inteso questo, la frase risulterebbe infelice, perché ambigua. Si potrebbe, però, cogliere il suo spunto e superare qualsiasi difficoltà così: “La sinistra è insorta indignata e non so dare torto ai suoi militanti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Lo guardai per svariati minuti e lo studiai attento”: l’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è adatto anche a un tono formale? In un esempio come quello indicato soluzioni quali attentamente o con attenzione sarebbero da favorire?
RISPOSTA:
L’uso dell’aggettivo con funzione avverbiale è attestato fin dal Trecento ed è codificato nell’italiano standard. Se osserviamo la distribuzione di questo fenomeno oggi, notiamo che esso è tipico di espressioni idiomatiche o comunque cristallizzate: andare piano (e andarci piano), parlare forte, tenere duro… Questo tipo di espressioni sposta di norma il registro verso il basso, al limite dell’informalità (e in casi come andarci piano supera questo limite).
A parte questi casi, però, l’aggettivo con funzione avverbiale è anche sfruttato in testi letterari o che hanno scopi estetici (ad esempio pubblicitari: vota comunista, mangia sano…). Anche questi usi, pur rimanendo standard, sono diafasicamente orientati verso l’alto, ovvero verso la varietà letteraria.
Il suo esempio fa parte di questa seconda fenomenologia, nella quale l’aggettivo è scelto come variante libera dell’avverbio, funzionale a un effetto estetico o poetico.
Si noti che tra attento e attentamente si coglie anche una differenza semantica: l’aggettivo è un complemento predicativo, che indica l’atteggiamento del soggetto (= ‘lo studiai rimanendo attento’); l’avverbio è un complemento di modo, che indica il modo in cui è svolta l’azione (= ‘lo studiai in modo attento’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Chiedo la cancellazione della seguente convinzione limitante che recita… e di tutte le memorie emozionali collegate”, e di tutte le memorie emozionali collegate è inserito dopo la recita della convinzione: la frase può essere comunque accettata?
RISPOSTA:
La costruzione è sintatticamente non ambigua: la proposizione relativa (che recita…) frapposta tra i due complementi di specificazione non impedisce di riconoscere che di tutte le memorie sia dipendente da la cancellazione.
Sebbene la sintassi sia chiara, però, va detto che non è facile per il lettore accettare il senso generale della frase; in assenza di contesto, direi che c’è qualcosa che non va nella sua stessa concezione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio in merito alla frase che segue: “A meno di necessità specifiche da parte tua che potrai fare presenti…”; è corretto declinare al plurale presenti?
RISPOSTA:
Certo: presenti concorda con necessità (come specifiche), che è femminile plurale. Essendo un aggettivo a due uscite, una (presente) per il singolare, una (presenti) per il plurale, il genere del nome con cui concorda non conta: necessità presenti / alunni presenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se una donna fa un regalo ad un uomo, si dice “lei le ha regalato” oppure “lei gli ha regalato”?
RISPOSTA:
La forma oggi corrente e considerata corretta è lei (soggetto) gli (‘a lui’) ha regalato qualcosa. Il pronome atono (o particella pronominale) le, invece, sta per ‘a lei’.
Fino a qualche decennio fa, inoltre, si sarebbe detto ella gli ha regalato qualcosa, ma il pronome soggetto di terza persona ella è ormai disusato e adatto soltanto a contesti estremamente formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è la forma giusta di queste frasi?
1. Necessita / necessiti cambiare il parabrezza della tua auto (forma impersonale).
2. La si è fatta / si è fatto la composizione (forma passiva al passato).
3. Lo si sono fatti…
Bisogna, insomma, concordare il participio con il soggetto?
4. Quando (non avere) ________________ la febbre alta e il mal di gola, è meglio non prendere antibiotici.
In questa frase bisogna usare non si ha o non si hanno?
RISPOSTA:
Nella prima frase si deve scegliere necessita, perché la forma impersonale è sempre la terza singolare. L’altra forma, necessiti, non sarebbe sbagliata, ma non è impersonale: assume come soggetto tu. Va detto che il verbo necessitare è raro e usato quasi esclusivamente con il complemento oggetto (“Quel palazzo necessita una ristrutturazione”, ma anche “Quel palazzo necessita di una ristrutturazione”); quando il complemento diretto è rappresentato da una proposizione (di tipo soggettivo) si preferisce c’è bisogno di o è necessario.
Nella seconda frase l’accordo del participio con il complemento oggetto, la composizione, è obbligatorio se interpretiamo il verbo come passivo. In questo caso, però, la composizione è il soggetto e non può essere ripreso con un pronome diretto. Il pronome si può usare se interpretiamo il verbo come impersonale, e quindi la composizione ne è il complemento oggetto. Si noti che, senza il pronome, il verbo impersonale diviene invariabile, quindi si è fatto la composizione.
In conclusione, la frase può prendere queste forme: 1. la si è fatta la composizione (il verbo non è passivo, bensì impersonale e la composizione è complemento oggetto); 2. si è fatto la composizione (il verbo è impersonale, senza pronome di anticipazione); 3. si è fatta la composizione (il verbo è passivo e la composizione ne è il soggetto).
Lo stesso vale per la terza frase. Lo si sono fatti è impossibile (come anche li si sono fatti); possibili forme sono li si è fatti e si è fatto (con il verbo impersonale) e si sono fatti (con il verbo passivo, equivalente a sono stati fatti).
Nella quarta frase, la forma verbale più comune è non si hanno, perché la febbre alta e il mal di gola sono il soggetto della frase equivalente (molto improbabile nell’uso): “Quando la febbre alta e il mal di gola non sono avuti”. Possibile, ma raro, anche non si ha, con il verbo impersonale, quindi invariabile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La forma nulla ha che vedere è scorretta giusto? Si dice nulla a che vedere?
RISPOSTA:
L’espressione comune è nulla a che vedere, che, tra l’altro, richiede il verbo avere, per esempio: non ha nulla a che vedere con me.
In caso di dubbi sulla distinzione tra la preposizione a e il verbo ha, un trucco risolutivo è cambiare il tempo del verbo, per esempio: nulla aveva che vedere. In questo modo si capisce se l’espressione ha senso con il verbo oppure no (come in questo caso) e quindi la parola da inserire è la preposizione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice la telefono o le telefono?
RISPOSTA:
Bisogna ricordare che il verbo telefonare è intransitivo: io telefono a qualcuno (non *io telefono qualcuno). Il pronome, pertanto, deve essere le ‘a lei’ (e, ugualmente, mi, ti, gli, ci, vi, gli o loro o a loro).
La confusione è dovuta senz’altro alla sovrapposizione di chiamare, che, invece, è transitivo e infatti regge la: io la chiamo, ma io le telefono.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«Non voglio tormentarti,» si scusò Marco, «però, mi sono chiesto spesso se fosse corretto sostenere, come qualcuno fa, che i figli dei genitori single, dei separati o divorziati crescono meglio e più responsabilmente di quelli che vivono in una famiglia tradizionale. Tu cosa pensi?»
RISPOSTA:
Sul versante della punteggiatura, la virgola dopo tormentarti vale sia per il discorso diretto (non voglio tormentarti, però…) sia per la cornice («Non voglio tormentarti», si scusò Marco, «però,…). Sarebbe antieconomico e razionalistico inserire una doppia virgola («Non voglio tormentarti,», si scusò Marco, «però,…), ma consiglio di far prevalere il segno relativo alla cornice, quindi: «Non voglio tormentarti», si scusò Marco, «però,…
Diverso il caso del punto interrogativo, che va per forza inserito dentro le virgolette e può essere seguito da altri segni relativi alla cornice. Alla fine, quindi, scriverei Tu cosa pensi?». (con il punto fermo fuori dalle virgolette).
La domanda finale, per la verità, sarebbe espressa meglio se fosse completata con un complemento di argomento: tu cosa ne pensi?, oppure tu cosa pensi di questo argomento / tema / del mio dubbio? o simili, per sottolineare che si sta chiedendo il parere su un argomento specifico, quello introdotto subito prima della domanda. Senza il pronome la domanda perde di coesione, perché non è collegata all’argomento introdotto. Ovviamente qualunque interlocutore sarebbe in grado di riferire la domanda a quanto detto prima, quindi la coerenza non è a rischio, ma la mancanza dell’elemento coesivo rende meno felice il passaggio.
Aggiusterei anche l’elenco dei genitori single, dei separati o divorziati inserendo la preposizione anche davanti all’ultimo membro, per simmetria: dei genitori single, dei separati o dei divorziati. Ancora meglio sarebbe togliere la preposizione articolata dal secondo membro: dei genitori single, separati o divorziati. In questo modo separati e divorziati non sono sostantivati e rimangono correlati con single, tutti concordati con il primo genitori.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente affermazione quale pronome si usa? “Ho visto Lisa a pranzo e gli / le ho detto di venire stasera”.
RISPOSTA:
Dal momento che il complemento di termine è femminile (= a Lisa), si usa le. Il pronome gli si riferisce, invece, a nomi maschili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È sbagliato dire una persona che vogliamo bene? Inoltre, si dice a cui vogliamo bene o cui vogliamo bene?
RISPOSTA:
Per essere sicuri di quale funzione sia svolta dal relativo basta fare la prova della reggenza sostituendolo con un pronome personale: nel nostro caso che vogliamo bene diventa le vogliamo bene (non la vogliamo bene), oppure vogliamo bene a lei (non vogliamo bene lei).
Nell’italiano contemporaneo si sta diffondendo il cosiddetto che relativo non flesso, che sostituisce tutte le altre forme del relativo (ovvero cui preceduto da preposizione). Si tratta di un uso trascurato, accettabile soltanto in contesti molto informali e parlati. Per un approfondimento sulla questione si può leggere anche la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO.
Intercambiabili, invece, sono cui e a cui; la variante senza preposizione risulta più ricercata e quindi più formale, quella con preposizione è più comune e comunque valida in tutti i contesti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Questa frase è giusta? “Delle ragazze ci sono in classe”.
RISPOSTA:
La frase delle ragazze ci sono in classe è costruita male: con c’è e ci sono il soggetto va messo dopo il verbo, quindi ci sono delle ragazze in classe (o anche in classe ci sono delle ragazze).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio su questa frase: “La mia mamma è la più bella del mondo”. La più bella è superlativo relativo o assoluto?
RISPOSTA:
Superlativo relativo: lo si riconosce dalla forma (articolo + più + grado positivo dell’aggettivo) e dalla presenza del complemento partitivo (del mondo = ‘tra tutte quelle del mondo’). Proprio il complemento partitivo, che può essere esplicito o implicito, rende relativa (rispetto a un insieme) la qualità superlativa. Il superlativo assoluto ha forma diversa (bellissima oppure molto bella) e non è seguito dal complemento partitivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È nata una diatriba in relazione alla seguente frase: “Abele fu vittima di una delle più comuni cause di odio: la gelosia”. Così com’è strutturata la frase, a quale conclusione si giunge, che l’odio è causato dalla gelosia, o la gelosia è causata dall’odio?
RISPOSTA:
Dalla frase si ricava che la gelosia causa l’odio.
Il termine causa rappresenta la ragione che produce una conseguenza, quindi il complemento di specificazione collegato a questo nome ne rappresenta la conseguenza. L’interpretazione di causa come conseguenza (la causa dell’odio = ‘la conseguenza prodotta dall’odio’) è piuttosto improbabile. La mancanza dell’articolo nel sintagma di odio non fa che rafforzare l’interpretazione più comune, perché costruisce l’espressione come cristallizzata (sulla relazione tra la perdita dell’articolo e la cristallizzazione di un’espressione si veda ad esempio la risposta 2800124 dell’archivio di DICO).
Potrebbe indurre in confusione l’esistenza della locuzione preposizionale a causa di, che, in effetti, apparentemente nega questa ricostruzione. Da una parte, infatti, abbiamo la causa dell’odio = ‘la ragione che produce l’odio’, dall’altro a causa dell’odio = ‘come conseguenza dell’odio’. La contraddizione, però, è apparente, perché anche all’interno della locuzione causa = ‘ragione che produce’: a causa dell’odio, infatti, significa ‘essendo l’odio la ragione scatenante’. Se volessimo adattare fedelmente la frase alla locuzione, quindi, dovremmo dire che a causa della gelosia nasce l’odio, non che a causa dell’odio nasce la gelosia.
L’ambiguita tra complemento di specificazione soggettivo e oggettivo si può manifestare in dipendenza da altri nomi, come paura (la paura dei soldati = ‘la paura provata dai soldati’, ma anche ‘la paura incussa dai soldati’); più spesso, però, essa è prevenuta dal significato del nome da cui dipende il complemento di specificazione (come nel caso di causa) o dal significato del nome all’interno del complemento di specificazione, come nel caso di preparazione di: la preparazione della torta = ‘la preparazione che ha come conseguenza la torta’; la preparazione di Maria = ‘la preparazione svolta da Maria’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sui tempi verbali da scegliere nelle seguenti frasi:
1. Verso mezzogiorno la mamma ha cominciato a cucinare e poi ci aspettava / ha aspettato per mangiare tutti insieme.
2. Il pomeriggio è stata / era libera anche lei per riposarsi.
3. Alle 11 sono usciti con la nonna per andare a messa, sono andati / andavano a piedi e la nonna li teneva / ha tenuti per mano.
4. Per pranzo sono tornati a casa per mangiare tutti insieme ma a loro i cannelloni non sono piaciuti / piacevano e hanno preferito / preferivano il secondo.
5. Hanno mangiato anche il mascarpone con il cacao che è stato / era davvero buono.
6. Nel pomeriggio mentre Eugenio giocava con i figli, Nicoletta preferiva / ha preferito restare a casa.
RISPOSTA:
Nelle frasi 1-4 e 6 è possibile usare entrambi i tempi, con la distinzione che è stata illustrata nella risposta 2800577.
In particolare, nella frase 1 la mamma ci aspettava non fa riferimento al momento finale dell’attesa, lasciando intendere che tale attesa non sia mai terminata (ovvero i figli non sono andati a mangiare con la madre); la mamma ci ha aspettato, al contrario, indica che a un certo punto l’attesa sia finita.
Nella 2 la soluzione più attesa è è stata libera; era libera andrebbe bene se si riferisse alla ripetizione dell’evento nel passato (per esempio: “Quando lavorarava come fioraia, il pomeriggio era libera anche lei…”).
Nella 3 sono andati e ha tenuti fa riferimento al fatto che alla fine tutti sono arrivati in chiesa; andavano e teneva, invece, fa pensare che sia successo qualcosa durante il processo, che potrebbe anche aver impedito la conclusione del processo (per esempio: “La nonna li teneva per mano, ma uno dei due è inciampato e si è sbucciato un ginocchio”).
Nella 4 ci sono due intrecci possibili: a loro i cannelloni non sono piaciuti e hanno preferito il secondo = ‘hanno provato sia i cannelloni sia il secondo, e tra i due piatti hanno preferito il secondo’; a loro i cannelloni non piacevano e hanno preferito il secondo = ‘normalmente a loro non piacevano i cannelloni, per cui non li hanno provati e hanno preferito provare soltanto il secondo’.
La frase 5 richiede l’imperfetto (e la virgola prima della proposizione relativa): il cacao, che era davvero buono. Un soggetto inanimato come il cacao non può essere costruito con il passato prossimo se il nome del predicato è un aggettivo come buono. Il cacao è stato buono significherebbe ‘si è comportato bene’. Al contrario, si può avere Luigi è stato buono = ‘Luigi si è comportato bene’.
Per la 6 vale la stessa spiegazione della 2.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella seguente frase, come faccio a riferire che lo hanno generato sia alle memorie sia alle convinzioni?
“Cancellazione di tutte le memorie e convinzioni che lo hanno generato”.
RISPOSTA:
Con questa costruzione, che rimanda a entrambi gli antecedenti, come da lei desiderato. Ciò è dovuto alla mancanza dell’articolo davanti a convinzioni, che induce a collegare senz’altro anche questo nome all’articolo le di memorie, creando un unico sintagma. Per la verità, anche se inserissimo l’articolo prima di convinzioni (cosa che sarebbe obbligatoria se al posto di convinzioni avessimo un nome di genere o numero diversi da memorie), il pronome relativo rimanderebbe comunque a entrambi gli antecedenti, per via del legame della congiunzione e, che mette i sintagmi sullo stesso piano.
Sarebbe, semmai, il contrario, la volontà di riferire che al solo convinzioni, a dover essere segnalato. Questa precisazione si potrebbe realizzare sfruttando la punteggiatura, per esempio così: le memorie, e le convinzioni che; oppure le memorie, nonché le convinzioni che; o anche: le memorie, ma anche le convinzioni che. Ancora più esplicita sarebbe la costruzione separata: le memorie. A cui si aggiungerebbero le convinzioni che (o simili).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi rivolgo a voi per un dubbio di analisi logica.
L’uomo = sogg.;
che = pronome relativo sogg. della subordinata;
è vissuto = pred. verb. della subordinata;
in modo onesto = compl. predicativo del sogg. della subordinata;
morì = pred. verb.;
sereno = compl. predicativo del sogg.
In modo onesto viene considerato da qualcuno complemento di modo, qual è la vostra opinione in merito?
RISPOSTA:
È senz’altro un complemento di modo, perché esprime in che modo si è svolta l’azione del vivere (tanto che si può anche sostituire con l’avverbio di modo onestamente). Sarebbe stato un complemento predicativo se avessimo avuto morì onesto, cioè ‘morì da uomo onesto’. Lo stesso, ma al contrario, vale per morì sereno, nella principale: sereno è un predicativo del soggetto, ma se al suo posto avessimo avuto morì serenamente (o morì in modo sereno) avremmo avuto un complemento di modo.
Aggiungo che il passaggio dal passato remoto (morì) della proposizione principale al passato prossimo (è vissuto) della relativa non è una buona scelta: è preferibile usare, nella subordinata, il passato remoto, l’imperfetto o anche il trapassato prossimo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei bisogno di capire se il soggetto è un argomento che fa parte del sintagma verbale o no.
RISPOSTA:
L’argomento del soggetto (insieme ai suoi circostanti, attributi, apposizioni e complementi direttamente collegati a esso) è l’unico sintagma che non fa parte del predicato. Quest’ultimo contiene il sintagma verbale del predicato in senso stretto più quelli di tutti gli altri argomenti che ruotano intorno al verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’analisi logica è corretta?
Gli antichi greci consideravano come dio supremo Giove.
Gli antichi greci = soggetto + attributo
consideravano = predicato verbale
come dio = complemento predicativo dell’oggetto
supremo = attributo
Giove = complemento oggetto.
RISPOSTA:
Sì. Aggiungerei soltanto che l’attributo del complemento predicativo dell’oggetto può essere integrato con il complemento stesso, facendone parte.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
C’è un libro di testo che propone di analizzare i complementi presenti all’interno di alcune frasi.
1. Avvisaci appena sarai arrivato a casa.
2. Tutti gli insegnanti erano entusiasti della scelta perché la trama era avvincente.
Può andar bene analizzare appena sarai arrivato e perché la trama era avvincente rispettivamente come complementi di tempo determinato e causa?
RISPOSTA:
Le parti da lei estratte dalle frasi non sono complementi, bensì proposizioni, perché contengono verbi. I complementi, invece, sono sintagmi nominali. Appena sarai arrivato a casa è una proposizione temporale; perché la trama era avvincente è una proposizione causale.
I complementi presenti nelle due frasi sono i seguenti:
ci: oggetto; a casa: moto a luogo; della scelta: causa. Oltre a questi abbiamo i soggetti, tu (sottinteso) nella prima frase; gli insegnanti nella seconda frase. Quest’ultimo soggetto è accompagnato dall’attributo tutti. Infine abbiamo entusiasti, che è la parte nominale legata alla copula erano.
Un approfondimento merita della scelta, che ho definito complemento di causa per comodità, ma che, in realtà, è un sintagma richiesto come completamento dall’aggettivo entusiasta; nell’ottica della grammatica valenziale, che in questo è più utile dell’analisi logica, va considerato complemento oggetto preposizionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei approfondire il capitolo della particella si, già analizzata di recente da voi linguisti in uno degli esempi contenuti nell’articolo numero 2800208. L’utente ha espresso dubbi molto simili ai miei, che non mi sono mai stancato di consultare le varie grammatiche disponibili sul mercato per provare a comporre un quadro organico di regole.
Ho letto che “con un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha valore passivante ma impersonale”; su un’altra grammatica, a proposito del passivante, si legge “la regola vale anche quando il verbo, all’infinito, è preceduto da verbi servili o fraseologici. Se però la frase si complica, è naturale considerare quel si come un soggetto impersonale, equivalente a noi”; infine “con il si passivo il
soggetto logico è sempre umano e plurale, mentre nella costruzione passiva non ci sono restrizioni sul tipo di soggetto logico”.
Sono un appassionato di lingua italiana ma non un professore di lettere; ho quindi raccolto le idee e sono arrivato a formulare questi costrutti, su cui vi sarei grato se interveniste:
“Non si mangiano le mele” (corretto, passivante)
“Non si mangia le mele” (corretto, impersonale)
“Sono soldi che non si riescono a spendere” (corretto, passivante)
“Sono soldi che non si riesce a spendere” (corretto, impersonale)
“Si devono a controllare i bambini” (corretto?)
“Non si potevano più guardare i film” (corretto?)
“Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte” (stando alle regole, il si impersonale è doveroso, perché gli effetti sono formalmente distanti dal verbo; ma adottare il passivante sarebbe comunque possibile?).
Mi aggancio in parte all’utente che mi ha preceduto nella presentazione del quesito e vi chiedo se l’uso impersonale è sempre attuabile oppure ci sono determinati casi che lo inibiscono. Non per scegliere la strada comoda, ma con l’uso impersonale saremmo certi di non sbagliare mai? Potrei ad esempio scegliere di scrivere o dire “Non si spende più soldi” anziché “Non si spendono più soldi”, “Sono libri che non si legge più” anziché “Sono libri che non si leggono più”?
Cosa significa, all’atto pratico, che il “soggetto logico è sempre umano e plurale”? Se fosse inanimato e singolare, la costruzione con il si passivante non potrebbe essere ottenuta?
RISPOSTA:
Come sintetizzato da una delle grammatiche da lei citata, il si ha funzione impersonale solamente con i verbi intransitivi e con i transitivi senza oggetto espresso (che, quindi, si comportano come gli intransitivi): “Di solito il giorno di Natale si va a pranzo dai parenti”; “Non si parcheggia in seconda fila” (si noti, a margine, che il costrutto impersonale assume quasi sempre una sfumatura di obbligo, o deontica). Negli altri casi, cioè con i verbi transitivi con l’oggetto espresso, il si assume funzione passivante, trasformando l’oggetto grammaticale in soggetto logico: “Si mangia la mela” = “La mela è mangiata”; “Si mangiano le mele” = “Le mele sono mangiate”.
Le frasi “Si mangia le mele” e “Sono libri che non si legge più” sono ammissibili soltanto se si sottintende il soggetto noi: “Noi si mangia le mele” e “Sono libri che noi non si legge più”. Questa costruzione è ben nota alla tradizione letteraria italiana e oggi è ancora vitale nel parlato toscano; fuori dalla Toscana, però, è poco comune. Inoltre, se non esplicitiamo il soggetto noi, frasi come “Si mangia le mele” e “Non si legge più libri” possono ingenerare confusione, perché coincidono con le forme colloquiali del verbo transitivo con il pronome che indica un particolare coinvolgimento del soggetto nell’azione, come in “Mi sono bevuto una bella birra” (= ‘Mi sono bevuto una bella birra con piena soddisfazione’).
Quando il verbo costruito con si è seguito da una intera proposizione, detta soggettiva, il si è considerato impersonale (come se il verbo fosse transitivo senza oggetto). In realtà, si noterà che il costrutto equivale a quello passivante: “Si mangia la mela” (ovvero “La mela è mangiata”) equivale a “Si dice che tu sia un ritardatario” (ovvero “Che tu sia un ritardatario è detto”). Classificazioni a parte, però, il dettaglio a cui prestare attenzione è che, in questo caso, il verbo reggente la soggettiva è sempre singolare, anche quando il soggetto della proposizione soggettiva è plurale: “Si spera che cadranno molte stelle a Ferragosto”, non *”Si sperano che cadranno molte stelle a Ferragosto”; “Si dice che ieri siano arrivati molti ospiti”, non *”Si dicono che ieri siano arrivati molti ospiti”. Questa regola equivale a quella correttamente intuita da lei a proposito della frase “Si riuscirebbe a vedere distintamente tutti i singoli effetti delle vostre scelte”; dal momento che gli effetti è il soggetto della proposizione soggettiva, non dovrebbe influire sulla concordanza del verbo reggente l’intera proposizione, si riuscirebbe, che rimane singolare: la costruzione *”Si riuscirebbero a vedere… gli effetti…” è, pertanto, scorretta.
Tale scorrettezza, però, è riscontrabile nel discorso poco sorvegliato e, in alcuni casi, passa decisamente inosservata. Tra le due frasi seguenti, ad esempio, si fa fatica a considerare scorretta la prima: “Sono soldi che non si riescono a spendere” / “Sono soldi che non si riesce a spendere”. Pur trovandoci nella medesima situazione della frase precedente (“Si riuscirebbe a vedere…gli effetti”), qui riuscire e spendere i soldi sono talmente solidali da poter quasi essere considerati un unico verbo e indurre a trascurare la regola grammaticale. Come se ciò non bastasse, la costruzione con la proposizione relativa complica ulteriormente la situazione. In questi casi, in astratto la scelta più formale rimane quella di considerare a spendere una proposizione soggettiva retta da si riesce, ma in pratica si può considerare valida anche l’eventuale infrazione (non si riescono a spendere). Allo stesso modo si comportano tutti i verbi detti modali, che aggiungono una sfumatura al verbo semanticamente più rilevante e sintatticamente lo reggono; in un caso come il seguente, qualunque parlante propenderebbe per la seconda soluzione, in astratto scorretta, e scarterebbe, al contrario, la prima, in astratto corretta: “I punti dell’ordine del giorno si comincia a trattare dopo le comunicazioni preliminari”; “I punti dell’ordine del giorno si cominciano a trattare dopo le comunicazioni preliminari”.
Ci sono casi, poi, in cui il verbo che tecnicamente regge il complemento oggetto ha un legame ancora più stretto con il verbo che lo regge: i costrutti con i verbi servili (dovere, potere, volere). Uno di questi esempi è “Si devono controllare i bambini” (non “a controllare”, come ha scritto lei, forse per distrazione). Come si nota, il verbo che regge il complemento oggetto è controllare, mentre è dovere che concorda con esso; un altro esempio è “Non si potevano più guardare i film”. È il caso limite di solidarietà tra verbo reggente e proposizione soggettiva, che impedisce di considerare corrette le costruzioni “Si deve controllare i bambini”, “Non si poteva più guardare i film”.
Queste ultime ridiventano accettabili se consideriamo sottinteso (ma è molto meglio esplicitarlo) il soggetto noi, secondo la costruzione tradizionalmente letteraria e oggi toscana: “Noi si deve controllare i bambini”, “Noi non si poteva più guardare i film”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Se Marco volesse inviarci una lettera, lo farebbe senza esitare”, inviarci è un verbo riflessivo?
RISPOSTA:
No: inviarci è composto da inviare + ci, quindi inviare a noi. Il soggetto del verbo e il complemento oggetto, quindi, corrispondono a due persone diverse; nei verbi riflessivi, invece, coincidono: io mi lavo ‘= ‘io lavo me stesso’.
Per un approfondimento sui verbi riflessivi potete consultare la risposta n. 2800558 dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei sapere se questo pensierino è scritto correttamente:
la vita è un viaggio (che originalità) alla fine del quale, invece di fare le valigie per tornare a casa, lasciamo tutto dov’è e ci spogliamo di ogni cosa: ricordi, desideri, averi. Ma va bene così. Se è questo il prezzo del biglietto, e anche se il viaggio non è in prima classe e non è emozionante e piacevole come
vorremmo che fosse, va bene così. Come potremmo rifiutare – un viaggio nel mondo?
In modo particolare vorrei sapere se è giusto l’uso della lineetta.
RISPOSTA:
La costruzione è corretta anche dal punto di vista della punteggiatura. Soltanto il trattino è fuori luogo, perché non se ne coglie la funzione. Il trattino dovrebbe servire a delimitare un inciso (va usato, quindi, in coppia, per precedere e concludere l’inciso) o a introdurre un discorso diretto al posto delle virgolette. Il trattino corto serve anche – ma non è il suo caso – a unire due parole per formarne una: franco-tedesco, fine-settimana, carro-armato ecc., o a indicare un intervallo: 9:00-13:00 ‘dalle 9:00 alle 13:00’.
Quello che lei cerca di fare con il trattino, probabilmente, è separare l’unità informativa come potremmo rifiutare da un viaggio nel mondo. Tale separazione non è prevista dal punto di vista della sintassi, perché un viaggio nel mondo è il complemento oggetto di rifiutare e non si può separare il complemento oggetto dal predicato con un segno di interpunzione.
Dal punto di vista testuale, però, la separazione può essere motivata, se si vogliono separare nettamente le due unità informative attribuendo a entrambe un uguale peso semantico. Nell’italiano contemporaneo, questo risultato si può ottenere legittimamente soltanto con il punto fermo, detto in questo caso punto anomalo: Come potremmo rifiutare. Un viaggio nel mondo? Il punto anomalo va usato con cautela, per non trasformarlo in un vezzo senza valore espressivo. Nel suo brano, per esempio, non sembrerebbe una scelta stilisticamente coerente. All’opposto, ci sono autori, come il politologo Ilvo Diamanti, che ne hanno fatto uno stilema distintivo, ben integrato in uno stile tendente alla lapidarietà.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Ogni giorno i corpi celesti si scontrano formando delle nuvole pronte a schiantarsi sulla terra. I meteoriti si incendiano”.
Le forme riflessive si scontrano, schiantarsi e si incendiano sono proprie, reciproche o pronominali? Perché?
RISPOSTA:
I verbi pronominali, cioè quelli che hanno un pronome integrato nella loro forma, comprendono i verbi riflessivi, i reciproci, i transitivi pronominali, gli intransitivi pronominali e i procomplementari. Non è possibile fare qui una disamina dei verbi procomplementari, ma le suggerisco di consultare l’archivio di DICO con le parole chiave procomplementare e procomplementari.
Per il resto, si noti che i verbi davvero riflessivi sono pochissimi: vestirsi, lavarsi, pettinarsi, schiaffeggiarsi e qualche altro. Per essere riflessivo, infatti, il verbo deve descrivere un’azione che parte del soggetto e arriva al soggetto stesso. I reciproci, o riflessivi reciproci, sono di più: salutarsi, abbracciarsi, baciarsi, affrontarsi, guardarsi… In pratica, qualsiasi verbo transitivo può diventare reciproco tramite l’aggiunta di un pronome atono, se descrive un’azione che parte da un soggetto A e arriva a un soggetto B e nello stesso tempo parte dal soggetto B e arriva al soggetto A.
Il grosso dei verbi comunemente costruiti con un pronome, però, rientra nelle categorie dei pronominali intransitivi. In questi verbi, il pronome non indica una particolare destinazione dell’azione, ma fa soltanto parte della forma della parola. Prendiamo il verbo scontrarsi: in una frase come “La macchina si è scontrata con l’autobus” l’azione non parte dal soggetto per arrivare allo stesso soggetto, né ha le caratteristiche della reciprocità. Schiantarsi è, pertanto, un verbo pronominale, né riflessivo, né reciproco (né procomplementare). Esso è, inoltre, intransitivo, come si vede dalla frase (con l’autobus). Si distingue, quindi, anche dai pronominali transitivi, come lavarsi seguito da un complemento oggetto (“Mi lavo le mani”). I pronominali transitivi sono chiamati da alcuni riflessivi apparenti o riflessivi indiretti, perché alcuni coincidono con i verbi riflessivi con in più il complemento oggetto. Altri, invece, non diventano riflessivi se sono privati del complemento oggetto, ma rimangono semplicemente incompleti; per esempio strapparsi i capelli non potrebbe mai essere riflessivo.
Si noti che neanche tagliarsi i capelli senza il complemento oggetto diviene riflessivo: mi sono tagliato, infatti, può essere riflessivo soltanto nel caso in cui io abbia inflitto il taglio a me stesso. Quasi sempre, invece, mi sono tagliato significa ‘qualcosa mi ha tagliato’ (“Mi sono tagliato con il coltello” = ‘il coltello mi ha tagliato’). Non a caso, in inglese mi sono tagliato non si dice I cut myself ma I got cut, cioè ‘ho ricevuto un taglio’.
Nella sua frase, il verbo schiantarsi potrebbe sembrare reciproco, ma a ben vedere descrive un evento che coinvolge due (o più) soggetti, non un’azione reciproca. Per capire meglio questa differenza sfumata si confronti “I corpi celesti si scontrano” con “Le squadre si affrontano”. Nel primo caso si scontrano descrive quello che succede quando si verificano certe condizioni; nel secondo caso si affrontano descrive il processo che parte da entrambi i soggetti coinvolti e arriva specularmente agli stessi soggetti. A conferma di questa differenza, nel primo esempio sarebbe necessario aggiungere la locuzione pronominale l’uno con l’altro, oppure l’avverbio reciprocamente, o simili (perché la reciprocità non è contenuta nel verbo): “I corpi celesti si scontrano l’uno con l’altro”; nel secondo esempio, al contrario, il pronome sarebbe superfluo e persino scorretto (perché il verbo è reciproco): *”Le squadre si affrontano l’una con l’altra”.
A maggior ragione, schiantarsi e incendiarsi non possono dirsi né riflessivi né reciproci (né procomplementari): l’azione dello schiantarsi, infatti, arriva a una persona o un oggetto diversi dal soggetto, mentre incendiarsi non parte dal soggetto.
Incendiarsi potrebbe essere riflessivo soltanto in una frase come “Lo sconosciuto si è cosparso di benzina e si è incendiato” (come si è visto per tagliarsi), ma in italiano quest’uso sarebbe molto strano, perché per un’azione come questa si usa il costrutto darsi fuoco.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Com’è noto, il codice di procedura penale stabilisce, che il perito solo dopo aver prestato giuramento può…” la virgola tra stabilisce e che a me suona male. Vorrei sapere se è un errore.
RISPOSTA:
Sì, è un errore. Così come non bisogna mai separare con una virgola il soggetto dal predicato, non bisogna separare con una virgola il predicato dal complemento oggetto, se non per inserire un sintagma o una proposizione incidentale (ma in quei casi le virgole devono essere due, una all’inizio, una alla fine dell’incidentale).
Nella sua frase il complemento oggetto è rappresentato non da un sintagma ma da una proposizione oggettiva (che il perito può…), ma la regola vale ugualmente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nel seguente brano vicino è un aggettivo o un avverbio?
Bello di persona, gentile di modi, venne chiamato a Roma, dove il Papa lo volle sempre vicino e gli affidò i lavori più delicati.
Forse si tratta di un predicativo dell’oggetto?
RISPOSTA:
Quando vicino (ma anche lontano) è singolare maschile non si distingue nella forma dall’avverbio, ed è, pertanto, difficile stabilire se abbia funzione di aggettivo o di avverbio. Ovviamente, se l’aggettivo si riferisce a un nome femminile e/o plurale il problema si risolve automaticamente: in il papa la volle vicina o il papa li volle vicini la parola è un aggettivo; in il papa la volle vicino o il papa li volle vicino è un avverbio di luogo. La coincidenza morfologica rende difficile stabilire la funzione della parola perché, a monte, è difficile stabilire la differenza di funzione, quindi di significato, tra vicino aggettivo e vicino avverbio di luogo. Un modo per rilevare questa differenza è considerare che l’aggettivo rappresenta una qualità del nome a cui si riferisce, mentre l’avverbio indica una posizione relativa nello spazio. Per questo quando vogliamo comunicare la nostra partecipazione al dolore di una persona diciamo ti siamo vicini, non ti siamo vicino, perché vogliamo esprimere un sentimento, una caratteristica che in quel momento ci qualifica, non una posizione nello spazio. Con il verbo essere costruiamo comunemente espressioni che contrastano con questo principio: “- Dove sono i cani? – Sono vicini” (più insolito, sebbene più logico, sono vicino). Questo, però, si spiega con l’ambiguità semantica propria del verbo essere, che è prima di tutto la copula, quindi seleziona preferibilmente l’aggettivo, e solo secondariamente è un verbo spaziale, equivalente a trovarsi. L’ambiguità tocca comunque quasi tutti i verbi, perché è insita nella parola stessa vicino (così come in lontano): la posizione nello spazio, infatti, è affine a una qualità. Per questo, anche se sostituiamo si trovano a sono nell’esempio precedente, la costruzione non cambia di molto: “- Dove si trovano i cani? – Si trovano vicini”. Va detto, però, che con trovarsi l’avverbio diviene molto più accettabile (si trovano vicino), perché il verbo seleziona più decisamente l’informazione relativa al luogo.
In definitiva, quindi, nel suo esempio vicino può essere tanto un aggettivo quanto un avverbio. Se è aggettivo, l’espressione è parafrasabile come il papa volle che lui gli fosse vicino; se è avverbio, propende per il papa volle che lui gli stesse vicino. Difficilmente, comunque, il parlante medio coglierebbe tale distinzione; sarebbe portato, invece, a considerare le due versioni della frase assolutamente equivalenti.
Dal punto di vista dell’analisi logica, l’aggettivo può essere considerato un attributo o un complemento predicativo dell’oggetto (a seconda dell’impostazione seguita); l’avverbio è, invece, un complemento di stato in luogo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “indagammo sul vicino”, sul vicino è complemento di argomento?
RISPOSTA:
Sì: equivale a “Indagammo riguardo al vicino”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dopo il termine compresenza si deve usare la preposizione con o di?
Per esempio, quale delle due alternative è corretta?
1. Lezioni svolte in compresenza con il docente di cattedra.
2. Lezioni svolte in compresenza del docente di cattedra.
RISPOSTA:
La locuzione in compresenza, che può essere tanto aggettivale (la lezione in compresenza è stata interessante) quanto avverbiale (la lezione si svolgerà in compresenza), preferisce non essere completata sintatticamente. Il completamento è, però, spesso necessario semanticamente, perché bisogna specificare quali soggetti o elementi siano compresenti.
Una soluzione possibile è realizzare il completamento testualmente, per esempio: la lezione si svolgerà in compresenza. Sarà guidata dai docenti di italiano e di storia; oppure la lezione si svolgerà in compresenza, con i docenti di italiano e di storia (la virgola separa le due unità informative).
Il completamento sintattico, comunque, è ben attestato, sia con di, sia con con; la distribuzione delle due preposizioni, inoltre, non sembra avere una regola precisa. Qualche esempio ricavato da Google Books:
diventa metafora del vivere e del produrre da parte di più persone in compresenza di interessi diversi.
Un lavoro interdisciplinare e multidisciplinare in compresenza di più docenti.
La varietà che si esprime in compresenza di generi e sottogeneri poetici diversi.
La maggiore diffusione dei VS rispetto ai VM sinonimi parrebbe dunque limitata […] al numero di occorrenze dei tipi di forme impiegati in alternativa e non in compresenza con i corrispondenti monorematici.
Non scompare, ma si mantiene vitale, seppure in compresenza con l’italiano e con le altre lingue.
Riferiscono di non insegnare mai in compresenza con altri colleghi.
La locuzione, del resto, è attratta tanto da in presenza di (e da la compresenza di) quanto da in concomitanza con: non è possibile, quindi, individuare una forma unica. Bisognerà aspettare che emerga con nettezza nell’uso vivo.
Una ulteriore possibiltà, limitata ai casi in cui la frase lo consenta, è sostituire in compresenza con con la compresenza, che è sicuramente seguita da di: la lezione sarà realizzata con la compresenza dei docenti di italiano e di storia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo due questioni riguardanti la scelta tra i modi indicativo e condizionale.
Prima questione.
1a. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non vengo / verrò alla festa.
1b. Spero che lei sia indisposta, altrimenti non verrei alla festa.
Le frasi sono entrambe ben costruite?
Ci sono casi in generale in cui sia debba usare obbligatoriamente soltanto uno dei due modi (indicativo o condizionale) in frasi introdotte dalla congiunzione altrimenti?
Seconda questione.
2. Non ho intenzione di vendere la mia casa al mare. Se lo facessi, l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrei ristrutturato da poco.
Il condizionale passato (avrei ristrutturato) potrebbe essere interpretato meramente come azione precedente a quella dell’entrare in possesso da parte dell’acquirente, oppure, sulla scorta del classico periodo ipotetico, porta con sé soltanto l’irrealizzabilità dell’evento?
Provo a snebbiare un po’ la domanda esplicando la base logica della frase: in questo contesto mi sentirei di adottare il condizionale passato per creare un rapporto temporale tra le due azioni (entrerebbe in possesso e avrei ristrutturato) distinguendole appunto sul piano della successione cronologica e non su quello semantico. L’azione eventuale del ristrutturare sarebbe difatti precedente a quella dell’entrare in possesso. Con un altro condizionale presente (ristrutturerei) tale stacco per me non sarebbe evidenziabile.
Avevo valutato anche due tempi dell’indicativo (passato prossimo e futuro anteriore), che però non mi sembrano adeguati al messaggio da trasferire all’interlocutore. Scegliendo tali forme verbali, a patto che siano valide, in che modo cambierebbe la semantica?
RISPOSTA:
Tutte le frasi sono legittime. Nella 1, la proposizione disgiuntiva introdotta da altrimenti può essere costruita con il presente indicativo (vengo), il futuro semplice (verrò) e il condizionale presente (verrei). La scelta fra le tre opzioni è determinata da fattori semantici e diafasici: l’indicativo presente e il futuro rappresentano l’alternativa come un fatto certo nel futuro immediato o lontano. Il presente è, a questo scopo, meno formale del futuro. Il condizionale rappresenta la stessa alternativa come una conseguenza condizionata da un altro evento. In assenza di altre indicazioni, tale evento sarebbe automaticamente fatto coincidere dal ricevente con l’indisposizione di lei: “Spero che lei sia indisposta, altrimenti (se lei non fosse indisposta) non verrei alla festa.
Nella frase 2, come ha giustamente notato lei, il valore del condizionale passato è relativo alla consecutio temporum, non al grado di possibilità della conseguenza di un evento. Il condizionale passato, cioè, indica che l’evento del ristrutturare è passato rispetto a quello di riferimento, cioè la vendita, ma futuro rispetto al momento dell’enunciazione, che è ora. Non va dimenticato, però, che il condizionale veicola sempre una sfumatura di potenzialità; dalla frase, infatti, traspare, per via del condizionale, che la ristrutturazione non sia stata ancora decisa.
Si noterà che il momento dell’enunciazione è considerato passato nella frase, perché è osservato dalla prospettiva futura del momento di riferimento; per questo si giustifica l’uso del condizionale passato, che, come è noto, esprime il futuro nel passato, cioè un evento futuro rispetto a un altro evento passato (qui coincidente, per l’appunto, con il presente). Non è necessario spostare il centro deittico, cioè il punto di vista, al futuro per costruire correttamente la frase: è possibile anche mantenere quello del momento dell’enunciazione. In questo modo, il momento in cui avviene la ristrutturazione è futuro rispetto al presente, ma passato rispetto alla vendita, ovvero è futuro anteriore: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che avrò ristrutturato da poco. Con l’indicativo, però, si perderebbe la sfumatura potenziale veicolata dal condizionale e la ristrutturazione apparirebbe concreta, già decisa.
Il condizionale presente (ristrutturerei) al posto del passato cambia il senso della frase perché la funzione temporale preminente nel condizionale passato sarebbe in questo caso esclusa ed emergerebbe soltanto quella potenziale: l’acquirente entrerebbe in possesso di un immobile che ristrutturerei (se potessi). Il condizionale presente, inoltre, impedisce l’uso della locuzione da poco, visto che indica un’azione ancora da venire (forse).
Con il passato prossimo (ho ristrutturato) la frase sarebbe ancora corretta, ma la ristrutturazione sarebbe rappresentata come già avvenuta al momento in cui l’emittente sta parlando.
Fabio Ruggiano
Raphael Merida
QUESITO:
Volevo sapere se è giusto dire “La vita non è qualcosa che merita di essere PRESO sul serio”.
Preso si riferisce a qualcosa e quindi va al maschile?
RISPOSTA:
Per essere precisi, il soggetto di essere preso è lo stesso della proposizione reggente, quindi che, a sua volta collegato all’antecedente qualcosa. Sebbene attraverso passaggi intermedi, quindi, preso va concordato con qualcosa, ovvero al maschile.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È vero che posso dire un pane da un chilo e un pane di un chilo?
E poi: Finora l’italiano non mi sembrava come lo spagnolo che ha l’uso pleonastico dei pronomi personali. Vorrei chiedere il significato o il motivo per cui in queste frasi dove c’è già un oggetto (nome o subordinata) si usa il pronome:
“Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?”
“Lo so che costa di meno”.
RISPOSTA:
Sì, sono corrette entrambe le espressioni: un pane (o forse meglio una pagnotta di pane, cioè un tipo specifico di pane, non il pane in astratto: visto che si specifica il peso, si tratta di un tipo concreto di pane) di un chilo o da un chilo.
Per quanto riguarda la seconda domanda, ha ragione, l’italiano non ha grammaticalizzato i pleonasmi pronominali come lo spagnolo: a mi me gusta. Tuttavia, in alcuni casi, nello stile informale, sono ammessi pleonasmi pronominali, in costrutti detti dislocazioni a destra (“lo mangio il panino”) o dislocazioni a destra (“il panino lo mangio”), per dare maggior valore o al soggetto, o all’oggetto, o al rapporto tra gli interlocutori ecc. Talora i costrutti dislocati (tra i quali rientrano anche a me mi e simili) sono talmente frequenti, in alcune espressioni italiane, da lasciar supporre una forma di grammaticalizzazione simile a quella dello spagnolo e di altre lingue. Per es.: “La sai l’ultima”, “Lo sai che ore sono”, “Me ne infischio di quello che dici” ecc., in cui le forme con pleonasmo sono molto più naturali di quelle senza pleonasmo.
Quindi, andando nello specifico ai suoi esempi:
– “Certo che lo tratti bene il tuo Sergio, eh?” rende molto più l’idea del trattare bene (cioè enfatizza il significato del verbo), quasi dando per scontato l’oggetto, che poi alla fine viene ripreso. Infatti, nell’equivalente senza ripresa pronominale, il concetto di trattare MOLTO bene qualcuno è molto indebolito: “Certo che tratti bene il tuo Sergio, eh?”
– “Lo so che costa di meno” rende molto meglio l’idea che io lo so già, rispetto al semplice “so che costa di meno”. Con sapere, poi, come detto poco sopra, questi usi pleonastici sono talmente comuni da lasciar supporre una prossima definitiva grammaticalizzazione alla spagnola, con saperlo, piuttosto che sapere, come unica forma possibile.
Fabio Rossi
QUESITO:
Hanno archiviato la pratica per coloro il cui adempimento era stato regolarmente soddisfatto.
La frase è corretta (coloro il cui adempimento…)?
Cerca di pensare a quanti spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha riservato.
La frase è corretta (quanti spasimanti… dai quali)?
RISPOSTA:
Le frasi non sono ben formate.
Nella prima, il cui adempimento (equivalente a l’adempimento dei quali) può significare sia l’adempimento fatto dai quali, sia l’adempimento fatto nei confronti dei quali. Già questa ambiguità è dannosa per la comprensione e dovrebbe essere evitata. A questa, inoltre, si aggiunge l’inconciliabilità tra il soggetto ademplimento e il predicato essere soddisfatto. Non sono molti i verbi che ammettono adempimento come argomento (che sia il soggetto o il complemento oggetto): mi viene in mente soltanto ottemperare. In alternativa, si può modificare la frase in modo da trasformare adempimento nel verbo adempiere a, inserendo un complemento oggetto generico. In conclusione propongo due versioni riformulate della frase:
1. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente ottemperato all’adempimento;
2. hanno archiviato la pratica per coloro che avevano regolarmente adempiuto all’indicazione / all’ordine / all’obbligo.
Nella seconda frase c’è un pleonasmo: la stessa funzione relativa, infatti, è svolta tanto dall’aggettivo quanti quanto dal pronome dai quali. Per evitare il pleonasmo, bisogna eliminare una delle due parole. Anche in questa frase, inoltre, il verbo della relativa non è ben scelto: riservare da spasimanti non è un’espressione felice. Propongo questa riformulazione:
1. cerca di pensare alla quantità di spasimanti molesti dai quali tuo padre ti ha protetto.
Altre variazioni sono possibili, per esempio:
2. cerca di pensare a quanti spasimanti molesti tuo padre abbia allontanato da te per proteggerti.
Possibile, ma problematica (quindi da riservare a contesti informali), anche la seguente:
3. cerca di pensare da quanti spasimanti molesti tuo padre ti abbia protetto.
Il problema di questa variante è la sostituzione sintetica della preposizione retta dal verbo pensare (a) con quella richiesta da quanti per svolgere la sua funzione di complemento di allontanamento (da) in relazione al verbo proteggere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come posso capire la regola nel caso della comparazione di due avverbi?
1. Elena ha studiato più oggi che ieri.
2. Mario è tornato più stanco di prima.
In queste due frasi si usano congiunzioni diverse, perché?
RISPOSTA:
Nelle sue frasi è presente una comparazione, che richiede il secondo termine di paragone, anche detto complemento di paragone. Questo complemento è introdotto dalla preposizione di o dalla congiunzione che secondo queste regole: di è preferito (ma la sostituzione con che è possibile) quando il complemento è costituito da un nome (più stanco di Luca) o un pronome (più stanco di te) non preceduti da altre preposizioni, oppure un avverbio. In quest’ultimo caso rientra la sua seconda frase.
Che è obbligatorio quando il complemento di paragone è costituito da un nome o un pronome preceduti da una preposizione: “Mi piace di più parlare con te / con Luca che con lui / con Marco”; quando è costituito da un aggettivo, se questo riguarda lo stesso oggetto del primo aggettivo: “Luca è più studioso che intelligente”, “Questa occasione è più unica che rara”, oppure da un avverbio se questo riguarda lo stesso evento (più oggi che ieri, come nella sua prima frase); quando è costituito da un verbo, ovvero da un’intera proposizione: “Mi piace di più sciare che pattinare”, “Correndo si arriva prima che camminando”, “Se ogni tanto ti limiti nel bere è meglio che se bevi sconsideratamente”.
Si noti che, nella sua prima frase, se cambiamo l’ordine delle parole di diventa preferibile a che: “Elena ha studiato più oggi che ieri”, ma “Oggi Elena ha studiato più di ieri”. In questa forma, infatti, il complemento di paragone diventa analogo a quello della seconda frase.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Facciamo la spesa agli anziani” equivale a facciamogli la spesa o a facciamoli la spesa?
RISPOSTA:
La variante corretta tra le due è facciamogli la spesa.
A differenza delle particelle pronominali (tecnicamente chiamate pronomi clitici) mi, ti, ci e vi, che possono fungere da oggetto diretto e indiretto (prendimi = ‘prendi me’ e ‘prendi a / per me’), i pronomi clitici di terza persona si distinguono per la varietà delle forme. In funzione di oggetto diretto avremo lo e la al singolare e li e le al plurale (prendili = ‘prendi loro’); in funzione di oggetto indiretto, invece, avremo gli e le al singolare (prendigli = ‘prendi a / per lui’), e il solo gli al plurale (prendigli = ‘prendi a / per loro). *”Facciamoli la spesa” è, pertanto, impossibile; “Facciamogli la spesa”, invece, significa ‘facciamo la spesa a / per lui’ e ‘facciamo la spesa a / per loro’ (la disambiguazione è affidata al co-testo). L’uso di gli per ‘a loro’ è ormai accettato a tutti i livelli di formalità; è possibile, però, ancora propendere per “Facciamo loro la spesa” in un contesto molto formale.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Posso dire che si studia molto alla scuola?
Si usa in italiano l’espressione il serial televisivo?
RISPOSTA:
Alla scuola non è corretto: questo sintagma è fortemente cristallizzato nella forma a scuola (come a casa). Si può usare la preposizione articolata se scuola è accompagnato da un aggettivo o un complemento di specificazione: alla scuola media; alla scuola di Giulia. Anche in questi casi, comunque, si può usare a scuola.
Serial televisivo si può usare, ma suona un po’ antiquato. Oggi si preferisce serie (televisiva).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Può capitare che il soggetto non concordi nel genere e nel numero con il sostantivo che funge da nome del predicato del predicato nominale?
RISPOSTA:
Il soggetto può non concordare con il nome del predicato rappresentato da un sostantivo quando siano coinvolti nomi collettivi; per esempio: “La famiglia è i suoi membri”. I parlanti di solito evitano tali costruzioni, che istintivamente ritengono scorrette, preferendo concordare la copula con il nome del predicato: “La famiglia sono i suoi membri”. Anche così, però, si crea una stranezza, perché il verbo non concorda con il soggetto. L’unico modo per aggirare il problema è formulare la frase diversamente, per esempio “La famiglia è rappresentata dai suoi membri”.
Il mancato accordo può avvenire anche quando il nome collettivo è nel predicato; per esempio: “I giocatori sono la squadra”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Sei elegante come una sposa”, utilizzando l’analisi logica classica, come una sposa potrebbe essere sia complemento di paragone che complemento di modo?
RISPOSTA:
Il complemento di modo indica in che modo un’azione è compiuta. Con il verbo essere il complemento di modo è di fatto escluso. Come una sposa esprime un paragone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il seguente periodo è ben costruito?
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
In specie, nella proposizione concessiva sarebbe meglio essere più chiari esplicitando il soggetto (lui)?
“Lei non si era opposta a lui quando questo / quest’ultimo / egli / lui, in primavera, benché già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Oppure:
“Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché già sconfitto, questo / quest’ultimo / lui / egli le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
E comunque, una subordinata può precedere la principale?
RISPOSTA:
Una subordinata implicita deve avere sempre lo stesso soggetto della reggente quando sia costruita con il gerundio o l’infinito. Questa regola serve a garantire la riconoscibilità del soggetto laddove il verbo della proposizione non ha tratti morfologici che rimandi a esso. L’eccezione, comunque codificata, delle proposizioni rette da verbi di comando o di percezione, nei quali il soggetto coincide non con il soggetto della reggente, ma con il complemento oggetto o indiretto (“Ti ordino di andare”; “L’ho visto cadere”) è possibile proprio perché mantiene la riconoscibilità del soggetto dell’infinito.
I participi presente e passato, che pure sono modi indefiniti, possiedono il tratto morfologico della desinenza, che consente di recuperare facilmente il soggetto nel caso in cui ci sia un solo possibile candidato a questo ruolo, come nella sua frase. Quando ci sia questa condizione, quindi, non è necessario esplicitare il soggetto della subordinata.
Diverso sarebbe il caso se i soggetti possibili fossero più di uno: “Lui non si era opposto all’altro quando, in primavera, benché già sconfitto, gli aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”. Come si può notare, in una frase siffatta non è possibile stabilire chi sia sconfitto ed è, quindi, necessario esplicitare il soggetto di sconfitto in qualche modo, per esempio con un pronome. Si noti che le sue soluzioni non risolvono il problema (ma vanno comunque bene perché nel suo caso il problema non c’è). L’esplicitazione del soggetto, se necessaria, va fatta all’interno della subordinata, che quindi deve essere trasformata in esplicita; per esempio così: “Lei non si era opposta a lui quando, in primavera, benché lui fosse già sconfitto, le aveva comunicato la sua intenzione di abbandonare il progetto”.
Tra i pronomi possibili, vanno considerati anche questi, che è la variante più formale di questo e va usato preferenzialmente come soggetto, e costui, molto formale, tanto da suonare affettato in un contesto medio. Ormai antiquato, ma ancora possibile, è egli.
Possibile, inoltre, anche sostituire sua con propria, per sottolineare che l’intenzione sia del soggetto.
La posizione delle subordinate, infine, è piuttosto libera per le proposizioni dette avverbiali, di cui fa parte la concessiva. Posposte alla reggente sono di norma le completive (*”Chi era ti ho chiesto”) e obbligatoriamente le relative (*”Ho quasi finito che mi hai prestato il libro”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le mie perplessità riguardano l’uso del si combinato con un’altra particella pronominale (mi si, ti si, ci si, vi si, gli si; lo si, le si, le si). Cioè, forme particolari (e forse un po’ anomale) di pronomi combinati in cui l’abbinamento col si presupporrebbe un significato (e un uso) di tipo riflessivo, impersonale o passivante.
Dunque, se diciamo: “da noi ci si diverte”, il pronome combinato ci si penso abbia valore impersonale (mi sembra che manchino sia il soggetto sia l’oggetto). Nel caso di: “mi si è rotta la bici”, il pron. comb. mi si pare abbia valore passivante (penso che il soggetto sia a me e l’oggetto la bici). Invece, per quanto riguarda l’uso riflessivo non riesco a trovare alcun esempio.
Per concludere, vi chiedo un quadro esplicativo il più completo possibile. Inoltre, vi chiedo anche alcuni riferimenti bibliografici.
Per cortesia, potreste fare una valutazione delle seguenti frasi e indicare a quale categoria appartengono (riflessiva, impersonale o passivante) i pronomi combinati?
1. Al lavoro ci si stanca;
2. Dopo cena, con gli amici ci si incontra al bar;
3. Qui ci si occupa di tasse;
4. ti si vede una ruga;
5. (a lui) gli si è intenerito il cuore;
6. (a loro) gli si sono spalancate le porte;
7. (a Gino) lo si è appreso solo ora;
8. la si contatta e sentiamo che dice;
9. li si raduna e facciamo il punto;
10. vi si invita un sabato sera.
RISPOSTA:
Non c’è niente di anomalo nelle combinazioni di pronomi: è una pratica soluzione che la lingua italiana offre per unire un verbo pronominale (ovvero un verbo che incorpora nella sua forma anche un pronome) a un ulteriore pronome, che può avere la funzione di riferirsi a un nome (ti si vede = ‘si vede te’) o a un luogo (ci si va= ‘si va lì’).
Le regole di combinazione dei pronomi (in termini di combinazioni possibili e impossibili, ordine reciproco dei pronomi, cambiamento della loro forma) sono complicate dall’intrecciarsi, in queste parole, di funzioni diverse, a volte coesistenti. I casi più semplici sono quelli legati a mi e ti (che diventano me e te), gli e le (che diventano glie unito graficamente al secondo pronome), ci (ce), vi (ve) con funzione di complemento di termine in combinazione con lo, la, li, le, che hanno la funzione di complementi oggetto: me lo dai = ‘dai questa cosa a me’; glieli dai = ‘dai queste cose a lui / a lei / a loro’; ve le do = ‘do queste cose a voi’.
Con i verbi riflessivi, le combinazioni non si possono avere, perché l’azione rimane nell’orbita della stessa persona, che è soggetto e oggetto, e non è previsto un complemento indiretto pronominalizzabile. Con questi verbi, infatti, mi, ti, ci, vi servono da complementi oggetti: mi lavo = ‘lavo me’ e gli e le, che possono essere soltanto complementi indiretti, non si possono usare, ma vengono sostituiti da si.
L’unica combinazione possibile con i verbi riflessivi è ci si (“Nel Medioevo ci si lavava di rado”), in cui si ha la funzione di rendere il verbo riflessivo e ci funge da soggetto generico, che rende il verbo impersonale: ci si lavava = ‘la gente si lavava’. Con i verbi non riflessivi, il soggetto generico è rappresentato proprio da si: “Gli si è aperta una nuova opportunità”; con i verbi riflessivi, questo comporterebbe una sequenza si (impersonale) + si (riflessivo), non ammessa: da qui la soluzione ci + si.
Come mai usiamo proprio ci per sostituire il si impersonale? Perché la prima persona plurale è quella che si avvicina di più all’idea dell’impersonalità. La usiamo anche in altri casi con questa funzione: “Dobbiamo smettere di inquinare” = ‘Si deve smettere di inquinare’.
Non basta: come spieghiamo casi come me li lavo? Semplice: in questo caso lavarsi non è riflessivo, ma transitivo: me li lavo = ‘mi lavo questi (i capelli, per esempio)’. Nei verbi transitivi pronominali, il pronome integrato non ha una funzione logica codificata, ma sottolinea la partecipazione del soggetto all’azione.
Un po’ diverso è un caso come me la sono mangiata tutta, in cui mi (me) non serve ad altro che a enfatizzare la soddisfazione derivante al soggetto dal completamento dell’azione. Si noti che con i verbi transitivi pronominali si usano non gli e le ma si (se): se li lava = ‘si lava questi’. Lo stesso vale per i verbi che aggiungono il pronome enfatico: se l’è mangiata tutta = ‘si è mangiata tutta questa’. Questo dimostra che, sebbene non siano riflessivi, questi verbi veicolano una sfumatura di riflessività, sotto forma di beneficio che deriva dall’azione stessa al soggetto che la compie. Ovviamente, se la persona del pronome indiretto non coincide con quella del soggetto torniamo al primo caso illustrato sopra: glieli lavo = ‘li lavo a lui / lei / loro’.
Esistono anche verbi intransitivi pronominali che hanno un si integrato nella loro forma. Se reggono un complemento di termine o simili ci sono le condizioni per avere una combinazione di tipo mi si: “I fedeli le si sono votati” = ‘i fedeli si sono votati a lei (alla Madonna, per esempio)’. Anche con questo tipo di verbi si crea la sequenza si + si quando vengono resi impersonali: *si si vota alla Madonna = ‘la gente si vota alla Madonna’. Come per i verbi passivi, anche in questo caso il primo si viene sostituito da ci: ci si vota alla Madonna. Si noterà che abbiamo evitato la sequenza le ci si (“Le ci si vota”); essa è, però, del tutto corretta, per quanto insolita.
Più raro il caso di verbi intransitivi pronominali che hanno integrato un ci e richiedono un complemento di termine: “ti ci vuole molto?” = ‘a te ci vuole molto?’. Con questi verbi si crea la sequenza ci + ci alla prima persona plurale: *”Ci ci vuole mezz’ora per arrivare” = ‘a noi ci vuole mezz’ora per arrivare’. In questo caso la sequenza viene evitata, non modificata; possiamo avere “A noi ci vuole mezz’ora per arrivare”, oppure una variante semplificata (pratica, ma poco corretta): “Ci vuole mezz’ora per arrivare”, in cui l’unico ci sta per entrambe le funzioni, o, come soluzione estrema, la riformulazione, per esempio “Abbiamo bisogno di mezz’ora per arrivare” o “Ci mettiamo mezz’ora per arrivare”. Si noti che anche metterci è un verbo pronominale con ci, ma è transitivo e soprattutto non richiede un complemento di termine; può, quindi, essere accompagnato da una combinazione di pronomi soltanto se lo facciamo impersonale: ci si mette. C’è una differenza, però, tra ci si mette, ci si lava e ci si vota: nel primo si è impersonale e ci è intergrato nel verbo, nel secondo si è riflessivo e ci è impersonale, nel terzo si è integrato nel verbo e ci è impersonale.
La sequenza ci + ci si crea a volte anche quando ci ha valore locativo, ad esempio in “- Come vi trovate nella nuova scuola? – *Ci ci troviamo bene”. Anche in questo caso non ci sono sostituzioni possibili; le soluzioni sono quelle viste per *ci ci vuole.
I verbi pronominali che reggono un complemento costruito con di possono essere accompagnati da ne; per esempio preoccuparsi: non me ne preoccupo = ‘non mi preoccupo di questa cosa / queste cose’. Si noti che nella forma impersonale preoccuparsi è analogo a votarsi: ci si preoccupa.
Anche ne può avere funzione locativa (= ‘da quel luogo’), ma è improbabile che si creino sequenze ne + ne (che sarebbero, comunque, evitate come quelle ci + ci). Possibile, invece, la sequenza di vi con funzione locativa e vi personale: *”Vi vi porto se fate i bravi” = ‘vi porto lì se fate i bravi’. La possibilità di sostituire sempre vi locativo con ci, però, rende questa evenienza facilmente risolvibile: “Vi ci porto se fate i bravi”. Si noti, per completezza, che la sequenza ci vi è impossibile, nonostante che il pronome personale sia più solidale con il verbo rispetto al pronome locativo. Esiste un ordine fissato per la collocazione dei pronomi, che è difficile da spiegare, ma che è applicato infallibilmente dai parlanti nativi; eccolo: 1. mi; 2. gli, le complementi indiretti; 3. vi; 4. ti; 5. ci; 6. si riflessivo; 7. lo, la, li, le complementi diretti; 8. si impersonale; 9. ne. L’elenco va letto nel senso della priorità: mi precede sempre tutti quelli che vengono dopo; gli segue mi ma precede tutti quelli che vengono dopo e così via.
Veniamo, infine, alle sue frasi: 1-3 sono casi di verbi pronominali impersonali, sul modello di ci si preoccupa (sostitutivo di *si si preoccupa); 4-6 sono casi di verbi pronominali che reggono complementi indiretti; 7-10 sono casi di verbi impersonali con complementi oggetto pronominalizzati.
Come sempre in casi così intricati, il riferimento migliore è la Grande grammatica italiana di consultazione (Bologna, Il Mulino), in particolare il volume I alle pagine 588-592.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto la frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, che mi lascia dubbiosa circa la sua validità. Dato che il pronome lui rimanda al soggetto, non sarebbe stato il caso di procedere con la scelta di sé?
“Matthew sentì crescere dentro di sé”.
Qual è la regola che stabilisce quando usare sé e quando, invece, lui / lei?
RISPOSTA:
La regola è proprio quella da lei individuata: sé si riferisce al soggetto, di terza persona singolare o plurale, della stessa proposizione, che può anche coincidere con quello della proposizione reggente (“Luca è una persona che vuole tutto per sé” = ‘Luca vuole tutto per Luca’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per sé” = ‘Luca e Mario vogliono tutto per Luca e Mario’); lui / lei, o, al plurale, loro, si riferiscono a una terza persona o a terze persone (“Luca è una persona che vuole tutto per lui” = ‘Luca vuole tutto per un’altra persona di sesso maschile’; “Luca e Mario sono persone che vogliono tutto per loro” = Luca e Mario voglio tutto per altre persone’). La frase “Matthew sentì crescere dentro di lui”, quindi, deve essere corretta come fatto da lei (oltre che, ovviamente, completata con il soggetto del verbo crescere).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il verbo pensare presenta delle difficoltà di non facile soluzione. In molti casi non ci sono dubbi: “io penso a lei”, “io penso bene di lei”. Quando, però, il verbo pensare è seguito da un verbo all’infinito, sorgono dubbi.
Faccio degli esempi: “Lui pensa a vendere la macchina” ben diverso da “Lui pensa di vendere la macchina”. Nel primo caso s’intende che lui si occupa della vendita della macchina, nel secondo caso lui è dell’idea di vendere la macchina. Altri esempi: “Lui pensa a lavorare bene” contrapposto a ” Lui pensa di lavorare bene”. Nel primo caso lui s’impegna a lavorare bene, nel secondo caso lui ritiene di lavorare bene. La differenza non è sottile. Altro esempio: “Lui pensa a trovar moglie” e “Lui pensa di trovare moglie”. Nel primo caso lui si dà da fare nella ricerca di una moglie, nel secondo caso lui pensa che troverà una moglie. Anche qui sono due concetti ben diversi. In altri casi la differenza è invece minima,
impercettibile: “Lui pensa a lasciare l’incarico”; ” Lui pensa di lasciare l’incarico”.
Ora le chiedo: le risulta che esista una regola nell’utilizzo del verbo pensare?
Quando pensare a e quando pensare di?
RISPOSTA:
Il verbo pensare seguito da una proposizione completiva all’infinito ammette una duplice reggenza preposizionale (sebbene in questo caso le preposizioni fungano da congiunzioni) in grazia del suo significato molto ampio; le due preposizioni, cioè, selezionano ciascuna una diversa parte del significato del verbo, coerente con la propria funzione. La a, che è la preposizione della direzione, seleziona il significato più fattivo del verbo, quello relativo al trovare, grazie al pensiero, il modo per raggiungere un obiettivo (quindi ‘progettare’, ma anche ‘adoperarsi per’). La preposizione di, invece, che instaura relazioni di pertinenza, anche riguardo all’argomento (discutere di politica), seleziona il significato più contemplativo: ‘ponderare, riflettere, valutare’. La reggenza di di, si noti, è limitata ai casi in cui pensare regga una proposizione completiva all’infinito; per il resto la preposizione selezionata è a.
Pensare può essere anche transitivo, e reggere un nome o un pronome: pensare una soluzione, che cosa ne pensi?, o una proposizione: pensa quanto ci divertiremo domani. In questi casi il verbo assume il suo significato più generico: ‘immaginare, formare un giudizio nella mente’. Si noti che l’ultima frase (pensa quanto ci divertiremo domani) può essere costruita anche con la preposizione / congiunzione a: pensa a quanto ci divertiremo domani, senza che questo faccia scattare il significato di ‘progettare’ o quello di ‘occuparsi di’. Questo avviene perché tale specializzazione si attiva quando sono possibili entrambe le costruzioni, con a e con di, ovvero quando la proposizione completiva è all’infinito. Negli altri casi, quando di è esclusa, la a non aggiunge una sfumatura particolare al significato generico del verbo.
Quando pensare è seguito da un nome, regge preferenzialmente a e a volte, come si è visto, è transitivo. Non regge mai di (ma è possibile, quando è transitivo, farlo seguire da un complemento di argomento: che ne pensi di Luca?). Seguito da un nome, pensare può oscillare tra un significato più fattivo e uno più contemplativo; la specializzazione semantica, in questi casi, si coglie dal senso della frase: penso io alla cena = mi occupo io della cena; penso ancora alla cena di ieri = rifletto ancora sulla cena di ieri.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le due varianti di ognuna delle coppie di frasi presentate si differenziano a livello di formalità:
1a. Non sono io a dover rispondere.
1b. Non sono io che devo rispondere.
2a. Lei mi prese la mano.
2b. Lei prese la mia mano.
RISPOSTA:
Nella prima coppia, la soluzione con la subordinata implicita è più formale. Essa ha il vantaggio di nascondere il problema dell’accordo del verbo con il soggetto della subordinata (detta pseudorelativa). Se si considera attentamente, infatti, il che che introduce la subordinata è a metà strada tra la prima e la terza persona, come se ci fosse un colui (o quello o simili) sottinteso: “Non sono io (colui) che deve rispondere”. A riprova di questo, se capovolgiamo le posizioni del soggetto e del verbo essere nella proposizione reggente colui diventa obbligatorio, e di conseguenza l’accordo del verbo della subordinata è alla terza persona: “Io non sono colui / quello / la persona che deve rispondere”. La concordanza alla terza persona, che in presenza di colui è obbligatoria, è, però, innaturale senza colui, quindi preferiamo concordare il verbo “logicamente” con io, oppure aggirare il problema con l’infinito.
Nella seconda coppia, la variante con l’aggettivo possessivo è decisamente poco comune e formale, tanto da essere adatta a uno scritto letterario ed essere, invece, da evitare in qualsiasi altra sede. Si pensi a quanto suonerebbe ironica tale costruzione associata a un evento quotidiano: “Il parrucchiere taglia i miei capelli”. Se, però, rendiamo la frase più aulica, ecco che la costruzione diviene accettabile: “Il parrucchiere acconciò la mia chioma con maestria”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Le seguenti costruzioni ellittiche (tra parentesi le parti omesse) sono accettabili?
1) Aveva preso l’autostrada, (aveva) pagato il pedaggio, (aveva) raggiunto il lavoro.
2) Le lampade erano state spente e la musica (era stata) abbassata.
3) Lunghi pomeriggi d’estate, (noi/essi) distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo.
4) Non era bello; ma, tuttavia, (era) affascinante.
RISPOSTA:
Le frasi 1) e 4) sono ben formate. In una sequenza di più participi costruiti con lo stesso ausiliare si esprime, generalmente, soltanto quello iniziale.
Se gli ausiliari sono diversi, anche nel caso in cui cambi soltanto la persona, come in 2), è preferibile esplicitarli tutti: “Le lampade erano state spente e la musica era stata abbassata”. L’ellissi dell’ausiliare nel caso in cui cambi solamente la persona è accettabile nel parlato o in uno scritto non sorvegliato.
In 3) l’ellissi del soggetto è da evitare, altrimenti distesi e sognanti viene concordato con lunghi pomeriggi e la frase cambia di senso. Quindi: “Lunghi pomeriggi d’estate, noi / loro distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo”. Sarebbe possibile non esprimere il soggetto se la frase continuasse con un verbo di modo finito; ad esempio: “Lunghi pomeriggi d’estate; distesi sulla spiaggia o sognanti sul molo rimanevamo / rimanevano ore ad aspettare il tramonto”. Come si vede, anche in questo caso è meglio separare i due blocchi della frase con un punto e virgola o un punto fermo, in modo da prevenire l’ambiguità del riferimento di distesi e sognanti.
Raphael Merida
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto su un libro di scrittura e comunicazione il seguente passo: “La lettura – e intendiamo riferirci alla lettura in quanto attività anche libera,disinteressata – è stato il vero serbatoio della scrittura”. Il passato prossimo non si dovrebbe concordare con lettura: “La lettura è stata il vero serbatoio della scrittura”?
RISPOSTA:
L’accordo del participio passato è un motivo ricorrente di dubbio. Nel suo caso, il participio di essere può accordarsi sia con il soggetto sia con il nome del predicato, quindi entrambe le forme (“La lettura è stato il vero serbatoio” / “la lettura è stata il vero serbatoio”) sono corrette.
Per un approfondimento sull’accordo del participio passato, la rimando alla risposta della FAQ Tutti gli accordi del participio passato dell’archivio di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Sono corrette queste frasi?
1. Se rappresentava il compenso per una settimana di lavoro, lo considerava inadeguato; se invece fosse stato un regalo per le sue prestazioni sullo yacht, significava che era stata considerata una puttana.
2. Se a te fa piacere, sarei felice di invitarti a prendere un gelato o se preferisci, potremmo andare al cinema.
3. Due giorni prima dell’esame, Marco ricordò alla sua ragazza l’impegno che si era preso/a? di accompagnarlo.
4. Inoltre, vista la mia situazione, un aumento di stipendio era proprio ciò che ci volesse / voleva?
5. Ci vorranno ancora secoli perché tutto questo cambi.
RISPOSTA:
1. Corretta; l’alternanza tra un periodo ipotetico con protasi all’indicativo imperfetto (rappresentava) e al congiuntivo trapassato (fosse stato) è ammissibile come scelta stilistica.
2. L’unica sbavatura è la mancanza delle virgole prima della coordinata disgiuntiva (non sempre richiesta, ma in questo caso preferibile perché la coordinata presenta un’alternativa netta rispetto alla prima proposizione), e in apertura dell’incidentale. Quindi, un gelato, o, se preferisci,.
3. l’impegno che si era presa. Il participio passato unito all’ausiliare essere concorda con il soggetto.
4. Corrette entrambe le varianti. Il congiuntivo è più formale.
5. Corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “la cosa che Michele sa fare di più è scrivere”, di più è un comparativo?
RISPOSTA:
Nella frase, di più (che equivale all’avverbio meglio) è senz’altro un’espressione superlativa, non comparativa: non c’è, infatti, un secondo termine di paragone.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una frase come “loro si vestono eleganti”, l’aggettivo, che mi pare un avverbio, si concorda con il soggetto o no?
RISPOSTA:
La frase “loro si vestono eleganti” è corretta, ma informale. Sarebbe più formale “loro si vestono elegantemente”, con l’avverbio al posto dell’aggettivo (che, infatti, ha funzione avverbiale). Possibile, ma molto informale, anche “loro si vestono elegante”, con l’aggettivo che rimane invariato proprio perché ha la funzione di avverbio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”.
La domanda è questa: l’aggettivo possessivo suoi potrebbe riferirsi allo studente o al maestro in questa frase? Quello che dovrebbe dirimere il dubbio è il verbo ripercorrere, che significa ‘percorrere di nuovo’?
RISPOSTA:
L’aggettivo possessivo suo rimanda al soggetto della proposizione, che nel caso di i suoi passi è un suo studente (così come, a sua volta, suo nella proposizione principale una volta constrinse un suo studente rimanda all’altro personaggio in questione). In teoria, quindi, i suoi passi sono quelli dello studente. Sempre in teoria, i passi dell’altro soggetto dovrebbero essere definiti i passi di lui: “Una volta costrinse un suo studente a ripercorrere i passi di lui attraverso l’immensa stazione”.
In realtà, la situazione è più complicata, perché suo è comunemente riferito anche a soggetti di proposizioni sovraordinate, non solamente completive, come è in questo caso. Ugualmente ambigua, per esempio, sarebbe la frase: “Lo chiamò per parlare dei suoi genitori” (i genitori del chiamante o del chiamato?). Il complemento di specificazione con il pronome personale in sostituzione dell’aggettivo possessivo, inoltre, è sentito come antiquato e burocratico (fa pensare a formule come la di lui consorte).
Responsabile, ma in minor misura, dell’ambiguità del riferimento è l’indecidibilità della responsabilità dell’azione (non è possibile, cioè, inferire dal cotesto se i suoi passi siano quelli dello studente o quelli dell’altro personaggio). Il verbo ripercorrere non è dirimente: anche se lo sostituissimo con percorrere l’ambiguità rimarrebbe, perché essa è provocata soprattutto dall’aggettivo possessivo. Non ambigua, per esempio, sarebbe la frase “Una volta costrinse alcuni suoi studenti a ripercorrere i suoi passi attraverso l’immensa stazione”, perché non potremmo riferire il secondo suoi agli studenti.
Per risolvere il problema si può soltanto formulare la frase diversamente, oppure fornire, prima o dopo, informazioni dirimenti.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “bisogna lavorare su questo fatto”, su questo fatto è un complemento di stato figurato?
RISPOSTA:
Immagino intenda stato in luogo figurato, ma comunque non credo che sia questo il complemento nel quale rientra questo sintagma. L’espressione lavorare su significa ‘impegnarsi per ottenere un risultato’, come in: “L’amministratore del Milan ha lavorato per mesi sull’acquisto del giocatore”. La possiamo avvicinare a lavorare a un progetto, quindi a un complemento di fine.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si può dire una frase così: “Essendoci piaciuto tanto il libro, abbiamo deciso di comprare tutti i libri di questo autore”?
RISPOSTA:
La frase è corretta. Il gerundio può avere un soggetto (nella sua frase il libro) diverso dal soggetto della proposizione reggente (noi) se è esplicitato. A volte non è necessario esplicitare il soggetto del gerundio, anche se è diverso da quello della proposizione reggente, se si capisce facilmente; ad esempio: “Essendoci piaciuto tanto (sottinteso l’autore), abbiamo deciso di comprare tutti i libri di questo autore”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È possibile che tra il complemento di qualità e il complemento predicativo dell’oggetto ci sia poca differenza? Cioè è solo questione di verbo copulativo?
Ad esempio, in “i miei amici mi chiamano ‘testa dura’”, testa dura viene considerato complemento predicativo dell’oggetto. Ma non potrebbe essere anche complemento di qualità?
RISPOSTA:
Effettivamente lo stesso sintagma che ha funzione di complemento di qualità può divenire complemento predicativo (o viceversa) a seconda della costruzione della frase.
Per esempio, in “Lucia sembra una ragazza di grande intelligenza”, di grande intelligenza è un complemento di qualità, ma in “quella ragazza sembra di grande intelligenza”, lo stesso sintagma ha la funzione di complemento predicativo.
Si noterà che lo stesso avviene per gli aggettivi, che assumono una funzione attributiva o predicativa a seconda del sintagma in cui sono inseriti, nominale o verbale: “Lucia sembra una ragazza intelligente” (intelligente = aggettivo attributivo, o attributo); “quella ragazza sembra intelligente” (intelligente = aggettivo predicativo, o complemento predicativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sono imbattuta nell’analisi dei complementi predicativi. Tra questi sono compresi oltre ai verbi sembrare, diventare ecc., anche gli appellativi, estimativi, elettivi e effettivi, dunque:
Rossi: soggetto
è stato eletto: predicato con verbo copulativo (non predicato verbale)
preside: complemento predicativo del soggetto.
Vi chiedo, invece, perché nell’analisi di frase con il predicativo dell’oggetto il verbo viene analizzato in molte grammatiche come predicato verbale e non come verbo copulativo?
Gli alunni: soggetto
hanno giudicato: predicato verbale
difficile: complemento predicativo
il compito: complemento oggetto
RISPOSTA:
La differenza potrebbe stare nello scarto tra i verbi che possono avere il complemento oggetto (gli appellativi, gli elettivi, gli estimativi) e quelli che non possono averlo (gli effettivi). Il verbo, cioè, viene interpretato come predicativo (quindi come predicato verbale) quando ha un complemento oggetto, come in “Gli alunni hanno giudicato difficile il compito”.
In realtà, questa distinzione è ingiustificata: in presenza di un complemento predicativo, tutti i verbi copulativi vanno considerati alla stessa stregua. L’unico caso in cui questi verbi possono essere considerati predicati verbali è quello in cui non hanno bisogno del complemento predicativo, in frasi come “Luca è stato eletto alla fine”, oppure “L’ho già chiamato, ma ancora non si vede”, o ancora “Luca sostiene di aver visto un UFO”. Questa possibilità è esclusa per molti verbi effettivi: *”Luca sembra”, *”Maria è diventata” *”La verità rende” (ma non per “È nato Luca”, “Dopo la curva apparirà un cartello” e simili).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi pongo alcuni dubbi e spero che possiate chiarirmeli.
1. Dire a loro oppure dire loro?
2. “Cara Lucia, come stai? E il piccolo Luca?”
Riguardo a questa frase chiedo se è corretta così com’è scritta.
3. “Scrivere a te che non conosco / ti conosco è bello”.
4. “Mi chiedo perché a ogni saggio qualcuno si rompe / rompa un braccio”.
5. “Una volta che i miei genitori si arrabbiano, solo dopo due giorni gli passa…”.
In questa frase è corretto l’uso di gli è corretto?
6. “A volte di domenica vado agli scout”.
Si può dire agli scout?
7 . “Oh cara / Oh, cara quando mi hai concesso quel ballo ero emozionato”.
RISPOSTA:
1. Vanno bene entrambe le soluzioni (la stessa possibilità si ha con cui / a cui).
2. La frase va benissimo in un contesto anche scritto di media formalità. Più formale, perché più precisa, è l’esplicitazione del secondo verbo, visto che cambia la persona.
3. La variante corretta è “Scrivere a te che non conosco è bello”. Il che, infatti, può riferirsi a tutte le persone, anche se è più comune che rimandi a un antecedente alla terza persona singolare o plurale. Da evitare la ripetizione del pronome, che non avrebbe alcuna funzione informativa, ma servirebbe solamente a esplicitare un riferimento già sufficientemente esplicito.
4. Vanno bene entrambe le varianti; quella con il congiuntivo è più formale.
5. Gli per (a) loro è ormai accettato in tutti i registri.
6. L’espressione sintetica è efficace e trasparente, ma adatta a un contesto colloquiale, perché non perfettamente formata secondo le regole standard. In italiano, la preposizione di moto a luogo quando il luogo è rappresentato da una persona è da, non a (per esempio: “Ogni domenica vado dai miei nonni”, non *”ai miei nonni”). Vado dagli scout, però, sarebbe inteso come ‘vado a trovare gli scout’, mentre qui si intende che si va a fare le attività degli scout. Da qui la soluzione abborracciata vado agli scout. Per risolvere la questione in linea con la lingua standard si dovrebbe sostituire scout con un luogo, per esempio: vado alla sede degli scout, oppure con un’azione: vado a partecipare alle attività degli scout, o simili. In questo modo, l’espressione si allunga e diviene faticosa, per cui è ovvio, e legittimo, che parlando tra amici si preferisca la variante sintetica.
7. Vanno bene entrambe le varianti. Obbligatoria, invece, la virgola dopo l’allocuzione (ovvero il complemento vocativo): “Oh cara, quando mi hai…”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Porto alla vostra attenzione alcune frasi negative, o che includono congiunzioni ad esse riconducibili, su cui vertono i miei dubbi.
La frase è corretta? Si possono collegare con il né elementi che al loro interno abbiano congiunzioni – come e, o – e che potrebbero essere intesi come unità inscindibili, oppure sarebbe meglio scegliere altre forme?
Meglio anche o neppure?
Meglio anche o neppure?
La frase è equivalente a “serve qualcosa”?
RISPOSTA:
La prima frase è ben costruita: le congiunzioni e e o operano in un àmbito ristretto rispetto ai membri dell’elenco, uniti da né. La seconda frase ammette entrambe le soluzioni: neppure (o neanche) rafforza la negazione, soluzione spesso preferita in italiano, anche se non obbligatoria. Lo stesso vale per la terza frase.
La quarta frase è molto interessante, perché rivela un comportamento specifico della proposizione interrogativa diretta. In questa proposizione, la negazione iniziale può avere valore retorico, interpretato convenzionalmente come richiesta di una risposta positiva: “Non vuoi venire alla festa?” (sottinteso: ‘certo che vuoi’). La frase “Non serve niente?”, pertanto, potrebbe essere interpretata come un invito a rispondere positivamente; l’eliminazione della negazione iniziale previene questa interpretazione. In questo modo, si noti, si viene a creare una frase agrammaticale; ciò si vede se la confrontiamo, per esempio, con la sua prima frase: “Non si vedeva niente intorno”. Se togliessimo la negazione del verbo (come avviene in “Serve niente?”), questa frase diventerebbe *”Si vedeva niente intorno”, che è inaccettabile. L’impossibilità di “Serve niente?” non preoccupa i parlanti, che interpretano correttamente la frase come ‘serve qualcosa?’, sebbene letteralmente significhi il contrario. È, infatti, come se interpretassimo la frase *”Si vedeva niente intorno” vista sopra come ‘si vedeva qualcosa intorno’.
Che questa costruzione, certamente propria di un registro colloquiale, valga solamente nelle domande è dimostrato, oltre che dal confronto fatto, anche dalla risposta negativa normale alla domanda “Serve niente?”, che non è *”No, serve niente” (a meno che non si voglia scherzare), bensì “No, non serve niente”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
I verbi aspettuali come stare per formano un’unica unità sintattica, quindi un unico predicato verbale?
RISPOSTA:
Sì: stare per fare va considerato un unico verbo dal punto di vista sintattico (o nell’analisi logica), perché stare per non è autonomo, ma serve a esprimere una sfumatura del verbo principale (qui fare). Nell’analisi grammaticale i componenti si possono analizzare separatamente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un’espressione come: “Tardelli per Rossi”, riferita ad un passaggio di palla, potrebbe rientrare sia tra i complementi di vantaggio che di limitazione?
RISPOSTA:
Il complemento può essere considerato di vantaggio, come se intendesse ‘Tardelli (fa il passaggio) a vantaggio di Rossi’); di fine, ovvero ‘Tardelli (fa il passaggio) allo scopo di raggiungere Rossi’; di moto a luogo, ovvero ‘Tardelli (fa il passaggio) verso Rossi’. Non può, invece, essere considerato di limitazione; se lo fosse l’espressione si potrebbe parafrasare così: ‘Tardelli (fa il passaggio) secondo il parere di Rossi’, che non è certo il significato inteso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se la frase “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2” è corretta perché viene considerata come presente storico oppure no e perché.
RISPOSTA:
Nella comunicazione quotidiana è consigliabile mantenere lo stesso piano temporale nell’ambito della stessa frase, per non generare confusione. Se, pertanto, si sceglie di usare il presente storico, si dovrebbe mantenere il presente storico per tutta la frase; quindi: “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma finisce 2 a 2”, oppure “Io ho giocato una scommessa per 1 a 1 ma è finita 2 a 2”. Inoltre, è preferibile non lasciare il soggetto sottinteso se questo non è stato mai introdotto, altrimenti l’interlocutore è indotto a pensare che il soggetto sottinteso coincida con quello precedente o, se non è possibile, come in questo caso, che coincida con l’ultimo referente possibile (“Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la scommessa finisce 2 a 2″); quindi sarebbe meglio “Io gioco una scommessa per 1 a 1 ma la partita finisce 2 a 2”. Questa raccomandazione di massima in questo caso è secondaria, perché si suppone che l’interlocutore sia in grado di recuperare dal contesto il soggetto la partita.
In teoria, è possibile affiancare un presente storico a un passato; ma si dovrebbe limitare questa scelta a contesti letterari, nei quali la scelta si spiegherebbe con l’intento di spiazzare l’interlocutore, presentandogli in rapida sequenza un primo evento come attuale e un secondo come passato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso i libri scolastici propongono esempi molto banali di analisi del periodo, senza presentare quelli più complessi. Esistono testi ben fatti, con esempi articolati di analisi del periodo?
Quale potrebbe essere, ad esempio, l’analisi del seguente periodo?
“Dice che bisognerebbe fare in modo che ci sia spazio da poter adibire per mangiare senza che gli altri ambienti vengano utilizzati”.
Quando ci si riferisce a un periodo si può parlare di analisi logica oppure questa è una espressione da riferire solamente all’analisi delle proposizioni?
RISPOSTA:
l’analisi del periodo proposta a scuola deve tenere conto della preparazione parziale degli studenti; gli autori di grammatiche scolastiche, pertanto, evitano di presentare i casi più controversi. Il problema è, però, che i casi controversi siano molto comuni; gli enunciati che i parlanti e gli scriventi producono per comunicare tra loro spesso non si lasciano incasellare nelle rigide categorie di questa forma di analisi. Le frasi semplificate proposte nelle grammatiche, quindi, finiscono per risultare un po’ innaturali, come esperimenti condotti in laboratorio.
Un libro agile e serio, scritto da un linguista navigato, dedicato a questo argomento, è L’analisi del periodo, di Michele Prandi, Roma, Carocci, 2013.
La stessa frase da lei proposta, per la verità, risulta innaturale; sembrerebbe rappresentare un discorso parlato (dice che…), ma si fatica a immaginare una persona che possa effettivamente parlare così. Nel parlato, infatti, si cerca la semplicità, per aggirare gli ostacoli della memoria limitata, del rumore, della distrazione ecc. Nello scritto, al contrario, possiamo concedere maggiore spazio alla complessità, perché il mezzo che usiamo è stabile e duraturo.
In ogni caso, volendo analizzare la sua frase otteniamo questo schema:
dice: proposizione principale;
che bisognerebbe: proposizione subordinata di primo grado oggettiva;
fare in modo: proposizione subordinata di secondo grado soggettiva;
che ci sia spazio: proposizione subordinata di terzo grado oggettiva;
da poter adibire: proposizione subordinata di quarto grado relativa implicita (equivalente a che deve poter essere adibito);
per mangiare: proposizione subordinata di quinto grado finale implicita;
senza…: proposizione subordinata di sesto grado eccettuativa.
Si noti che l’eccessiva, chiaramente non necessaria, complessità della frase produce una sbavatura sintattica: il verbo adibire difficilmente regge una proposizione; richiede, invece, tipicamente un complemento introdotto dalla preposizione a. Normalmente si direbbe, quindi, “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area per la mensa”, o anche “da poter adibire a locale / spazio / luogo / area nel quale si possa mangiare”.
Il termine analisi logica si riferisce solamente all’analisi delle funzioni sintattiche, anche dette complementi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho una domanda sulla possibilità di poter eseguire l’analisi logica nelle frasi interrogative.
Cioè se scrivo: “La politica a chi piace?” , “a chi” è un complemento di termine, oppure non è possibile l’analisi?
RISPOSTA:
Sì, l’analisi è possibile ed è complemento di termine. Nelle frasi interrogative dirette il complementatore, cioè l’elemento su cui verte la domanda, in questo caso, cioè il pronome interrogativo chi, va trattato alla stregua di un normale sintagma pieno, come se fosse, per esempio: “la politica piace ai giovani?” o, senza domanda, “la politica piace ai giovani”. Solo che, al posto di “ai giovani”, o simili, c’è chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedere il Suo aiuto a propositi dei pronomi riflessivi.
1. Quali sono le forme toniche: me, te, sé, noi, voi, sé?
2. È obbligatorio mettere la parola stesso? “Lavo me” o “Lavo me stessa”?
3. È riflessiva la forma “mi compro il vestito”? “Compro a me il vestito”?
RISPOSTA:
1. Le forme toniche del pronome personale complemento di prima e seconda persona singolare e plurale (me, te, noi, voi) coincidono con quelle dei pronomi riflessivi. In altre parole, i pronomi personali hanno funzione riflessiva quando il soggetto coincide con il complemento diretto: io lavo me (stesso) = io mi lavo. La sostituzione di io mi lavo con io lavo me (stesso) è, comunque, marcata: funziona solamente se il parlante vuole contrapporre me a qualcun altro (ad esempio: “Adesso lavo me, più tardi laverò te”).
Solamente la terza persona singolare e plurale hanno un pronome riflessivo proprio, che è, per entrambe le persone, sé nella forma tonica, si nella forma atona.
2. L’aggettivo stesso accompagna spesso il pronome riflessivo nella lingua comune, ma non è quasi mai obbligatorio. Il caso più comune in cui è fortemente richiesto (quasi obbligatorio) è quando il pronome ha la funzione di complemento predicativo: “Non sono più me stesso” (*”Non sono più me”).
3. “Mi compro un vestito” non è propriamente una frase riflessiva, perché l’azione del verbo non ricade sul soggetto, ma su un complemento oggetto diverso (il vestito). Il pronome, in questo caso, esprime il beneficiario dell’azione, ed è costui che coincide con il soggetto.
Sebbene questa sia la nostra posizione, va detto che secondo alcuni anche questa funzione rientra nell’ambito della riflessività (si veda, per esempio, http://www.treccani.it/enciclopedia/pronomi-riflessivi_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere che in queste frasi la particella ci ha valore avverbiale o idiomatico:
1. Per cuocere la pasta al dente CI vogliono 8-10 minuti.
2. Per arrivare in centro con l’autobus CI metto venti minuti.
3. Ieri abbiamo provato a connetterci con i nostri amici all’estero, ma non CI siamo riusciti.
4. Non parlare così forte. CI sento benissimo!
RISPOSTA:
La distinzione tra valore avverbiale e valore idiomatico non è chiara. Immagino che lei intenda accertare quando ci abbia la funzione propria di pronome e quando, invece, si unisca al verbo per fargli prendere un nuovo significato. In ogni caso, ci non ha mai la funzione di avverbio, anche se a volte è semanticamente equivalente a un avverbio di luogo: “Ci sono andato ieri” = “Sono andato lì / in quel posto ieri”.
Nelle frasi da lei proposte, ci è un pronome solamente nella 3, nella quale riuscirci significa ‘riuscire a fare questa cosa’. Nelle altre frasi, ci si fonde con i verbi e non è più semanticamente separabile da essi, producendo 1. volerci ‘richiedere’, 2. metterci ‘impiegare’, 4. sentirci ‘avere il senso dell’udito in una certa condizione’. Questi verbi formati con l’aggiunta di un pronome atono sono detti procomplementari: troverà ulteriori informazioni al riguardo nelle FAQ Ci penso e ci ripenso: le costruzioni del verbo “pensare”, “Ci si dimentica” come funziona la costruzione impersonale e Non è possibile “starsene” tranquilli con i verbi pronominali dell’archivio di DICO.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Facendo un piccolo ritorno all’uso di NE vorrei chiedere se queste forme sono giuste con l’accordo e se esso *è obbligatorio*:
Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno.
Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni. // *Ne ho letto due/molti/parecchi… ???*
Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno.
Non ne ho letto nessuna (delle poesie)
Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una. // *Ne ho preso una. ???*
Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune. // *Ne ho preso molte/tante…
???*
Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna. // *Non ne ho mangiato nessuna. ???*
*E in questo caso e obblagatorio la concordanza o possiamo prescinderne?*
Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato. /ne ho comprato
Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata. /ne ho comprato
Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati. /ne ho
Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili.
Alla domanda: Hai mangiato del pane? Hai preparato degni gnocchi?
qual e la risposta giusta?
Si, l’ho mangiato. o : Si, ne ho mangiato.
Si, li ho preparati. o Si, ne ho preparato. / ne ho preparati alcuni.
RISPOSTA:
Rispondo caso per caso:
“Come sono i libri di Moravia? Buonissimi! Ne ho letto uno”: va bene la forma al maschile singolare: uno si riferisce a libro. Buonissimi però non è adatto ai libri, ma a qualcosa che si mangia, o altro, ma non ai libri. Meglio Bellissimi, interessantissimi, ottimi o altro.
“Ne ho letti due/molti/tanti/parecchi/alcuni”: l’accordo al plurale è fortemente richiesto, anche se nell’uso informale esiste la variante senza accordo: “Ne ho letto due”.
“Non mi piacciono. Non ne ho letto nessuno”: va bene.
“Non ne ho letto nessuna (delle poesie)”: vale lo stesso che per “Ne ho letto / letti due”, l’accordo al femminile è corretto; la variante senza accordo è ammessa ma meno formale.
“Come sono le banane? Buonissime! Ne ho presa una”: va bene con accordo.
“Ne ho prese due/molte/tante/parecchie/alcune”: va bene accordato.
“Non mi piacciono. Non ne ho mangiata nessuna”: va bene con accordo.
“Hai comprato del vino? Sì, ne ho comprato”. “Ne ho comprato” va bene, ma andrebbe bene anche: “sì, l’ho comprato”, visto che il partitivo di qualcosa di cui non ci specifica la quantità si presta sempre ad essere interpretato come un intero, a meno che non si specifichi un peso preciso, o una misura ecc., per es.: “Sì, ne ho comprati due litri”, meglio di “ne ho comprato due litri”. Sarebbe scorretto, invece, in questo caso: “L’ho comprato due litri”, appunto perché in presenza di quantità va specificato il partitivo ne.
“Hai comprato della pasta? Sì, ne ho comprata”: identico al discorso fatto sopra per il vino: se non si specifica la quantità il partitivo è inutile, e dunque si può rispondere anche: “Sì, l’ho comprata”, ma: “Ne ho comprati due chili”, meglio di “ne ho comprato due chili”. Possibile in astratto, ma rarissima, anche la variante “Ne ho comprata due chili”, con il participio accordato con pasta.
“Hai comprato dei pomodori? Sì, ne ho comprati”: come sopra.
“Hai comprato le mele? Sì, ne ho comprato / i due chili”. La forma più corretta è “Ne ho comprati due chili”, ma andrebbe bene, in astratto, anche “Ne ho comprate due chili”, con l’accordo con mele. Più informale, ma possibile, “Ne ho comprato due chili”, senza accordo.
Quanto infine alle ultime due domande, entrambe le risposte alla prima sono giuste, per il discorso fatto sopra sulla quantità non specificata. Alla seconda domanda, sono corrette, per lo stesso motivo, tutte le varianti; tra “Ne ho preparati alcuni” e “Ne ho preparato alcuni” la prima è più formale.
Fabio Rossi
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Provo a riassumere le cose:
Con l’avverbio NE e obbligatorio la concordanza se c’e solo un pronome indefinito o un numerale:
Delle banane ho comprata una/ho comprate due/ ho comprate molte, parecchie.
Ma se c’e una quantità: pagina, chilo, pezzi, fette: come va l’accordo? Cioè non posso concordare con il soggetto se c’e la quantità come oggetto.
Delle arance ne ho presi due chili. va bene con la concordanza con la quantità.
Ne ho preso due chili. va bene-non è obbligatorio la concordanza, il participio rimane invariato
Ne ho prese due chili. non va bene, non posso concordare con le arance, o rimane invariato il participio o va concordato con la quantità.
Mi scusino per insistere su questo punto, insegno l’italiano e ho spiegato secondo le vecchie regole questo uso e adesso quando mi correggo non voglio sbagliare di nuovo.
Adesso sono nel giusto?
RISPOSTA:
I suoi dubbi sono più che legittimi, anche per un madrelingua, dal momento che l’accordo con il ne è uno dei punti d’ombra della nostra grammatica, ovvero uno di quelli poco normati e in cui gli usi valgono più delle regole. Le risposte presenti nell’archivio di DICO sull’argomento (si vedano almeno le domande “Ancora sull’accordo con “ne” e Ancora sull’uso del ne: con o senza accordo del participio passato con l’oggetto? ) riflettono le scelte più comuni e quelle che non destano alcuna reazione negativa nella gran parte dei parlanti. Tutti gli altri usi che cita Lei sono in realtà pure attestati, ma non da tutti condivisi. Pertanto, riassumendo a partire dalle sue parole: tutto vero quello che scrive nella prima parte del suo messaggio. Per quanto riguarda la seconda parte, ovvero in presenza di un quantificatore, la scelta più comune (e dunque da me suggerita) è quella dell’accordo con l’oggetto. Quindi:
“Delle arance ne ho presi due chili” va bene sempre. Le altre due possibilità suscitano qualche perplessità nei parlanti e nei grammatici: “Ne ho preso due chili” (più frequente, ma meno formale) e “Ne ho prese due chili” (più rara).
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei chiedere qualcosa sull’uso del pronome ne. Come si sa, si può concordarlo sia con il sostantivo sia con la quantità: “Delle caramelle ne ho comprate tre / ne ho comprati due chili”. Mi pare che anche le seguenti frasi abbiano due risposte giuste.
1. Ho tutti i libri di Harry Potter in fila in libreria e ne ho regalato / regalata qualche copia agli amici.
2. Mi sono addormentato guardando la tv e del film ne ho visto / vista solo una parte.
3. Ne ho bevuto / bevuti due bicchieri (di vino).
4. Ne ho bevuta / bevuto un bicchiere (della birra).
5. Ne ho mangiata / mangiate due fette (della torta).
RISPOSTA:
Come spiegato in questa risposta dell’archivio, il participio passato dei verbi transitivi preceduto dal pronome ne può concordare con il complemento oggetto oppure rimanere invariato (quest’ultima possibilità è meno formale) . Tutte le sue frasi, quindi, ammettono entrambe le soluzioni: “Delle caramelle ne ho comprate tre” (con comprate concordato con caramelle, sottinteso accanto a tre ) e “Delle caramelle ne ho comprato tre” (con comprato invariabile) . “Delle caramelle ne ho comprati due chili” e “Delle caramelle ne ho comprato due chili”. L’accordo con il referente di ne, pur attestato, è la soluzione più rara (e in alcuni casi risulta artificiosa) : “Ne ho bevuta un bicchiere (della birra) “; più comune: “Ne ho bevuto un bicchiere (della birra) “, perché la forma bevuto è sia quella invariabile, sia quella concordata con il complemento oggetto, un bicchiere. Lo stesso vale per la frase 5: le due forme ineccepibili sono mangiate (concordato con il complemento oggetto, due fette ) e mangiato (invariabile) ; mangiata suscita perplessità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Per la possibilità di essere analizzato, in una frase come: “per la verità partirò domani”, il sintagma “per la verità”, si può considerare complemento di causa oppure di fine?
RISPOSTA:
“Per la verità” è un segnale discorsivo che serve a conferire una modalità epistemica al verbo, dal quale dunque non dipende tramite una reggenza sintattica (il per non è come in “passo per la porta” , ovvero non è dipendente dal verbo ma parte integrante della locuzione avverbiale “per la verità”), bensì tramite un rapporto semantico-testuale. In altre parole, non è in gioco qui la sintassi, bensì la testualità. Motivo per cui NON si deve qui applicare l’analisi logica, bensì altri tipi di analisi, cioè quella pragmatico-testuale. Come detto più e più volte in molte risposte di DICO, la tassonomia dei complementi non va applicata acriticamente a tutti i sintagmi della frase. Questo ne è un caso tipico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Credo che in tutta Italia si dica: ” Anche te” invece di “Anche tu”. Esempi: ” Vai a Parigi? Anche te?” Verrai anche te stasera? ” Ora ti ci metti anche te”. Credo che sia sbagliato l’uso del pronome “te”. Ma a questo punto, in considerazione del fatto che viene utilizzato da tutti, anche in letteratura, che si fa? Cambiamo la grammatica?
RISPOSTA:
Ha ragione: esempi come quelli da lei citati, ancorché più comuni al Nord e a Roma che al Sud, sono comunque, almeno al livello informale, comuni in quasi tutta Italia. I motivi potrebbero essere vari e il più importante è forse il seguente: le forme pronominali di complemento oggetto (lui, lei, te) meglio si prestano a usi topicalizzati o focalizzati, in cui cioè l’attenzione si concentra sulla persona che prova una certa emozione, ha una certa idea ecc.: “te, ti piace di più carne o pesce?”, “Ti ci metti anche te!” ecc. Con lui e lei la tendenza, da secoli, si è talmente rafforzata da aver scalzato ormai quasi del tutto (già a partire da Manzoni) le relative forme di pronome soggetto: egli ed ella ormai sono, soprattutto il secondo, quasi solo retaggi letterari. Invece con tu (e ancor di più con io) il discorso è diverso, perché un buon numero di parlanti colti ha le sue stesse, giustificatissime, riserve, e magari utilizzano normalmente la formula ormai quasi cristallizzata “io e te”, ma sentono certo stridore da unghie sulla lavagna di fronte a “vieni pure te?”. Che fare, in questi casi? Cambiamo la grammatica? Ma se l’usano tutti? Si chiede assai saggiamente Lei. Come ben comprende, il rapporto tra norma e uso non può che essere fluido, in movimento e in rinegoziazione continua tra gli utenti della lingua, soprattutto negli ultimi decenni. E allora, al momento abbiamo cambiato la grammatica accogliendo lui e lei soggetto, ma forse non è ancora il momento di farlo per te soggetto, dato che un numero molto elevato di parlanti e scriventi, come Lei e come chi le scrive, ancora non sente naturale il te al posto di tu e gran parte degli italiani colti a Sud di Roma la pensa come noi due, credo. Pertanto, in barba allo strapotere romano-milanese, teniamoci ancora un po’ il nostro tu, senza crociate e pronti a cedere quando nessun altro, forse, ci farà più una domanda (bella) come la sua.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi vorrei chiedere un parere in riguardo all’analisi logica. Quindi anche l’analisi del periodo, in molti aspetti ha le sue limitazioni?
Cioè essendo analisi della frase complessa, ha in sé l’analisi dei complementi, quindi in alcune situazioni mostra i propri limiti?
La grammatica valenziale, riesce a superare le limitazioni dell’analisi del periodo?
RISPOSTA:
Anche l’analisi del periodo, se condotta come mera tassonomia di tipi e se si limita a considerare le subordinate come ampliamento di un complemento è inutile. E anche all’analisi del periodo la grammatica valenziale può apportare qualche aiuto, per esempio nella distinzione tra subordinate argomentali (le completive), cioè necessarie a completare il senso della reggente altrimenti incompleta, e quelle circostanziali, accessorie e non necessarie al completamento della reggente. Insomma, est modus in rebus, come sempre. Dipende da come la si fa, l’analisi del periodo. Distinguere i tipi di subordinata spiegando esattamente i diversi tipi di reggenza, di necessità e di rapporto col verbo reggente è utile e produttivo, mentre attribuire fantasiose etichette semantiche al tipo di subordinata non lo è affatto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Stavo consultando un vecchio libro di analisi logica del Tantucci.
Riguarda il complemento di quantità.
Scrive che è una forma particolare del complemento di specificazione.
Retto da sostantivi o da aggettivi e avverbi sostantivati o da pronomi di cosa, preceduti dalla preposizione “di”.
Si ha in dipendenza di sostantivi come turba, dove ad esempio nella frase:” turba di scalmanati”, il complemento di quantità è “di scalmanati”;
oppure nella frase: “fatti un pò di coraggio”, il complemento di quantità è “di coraggio”.
Quindi secondo il Tantucci, è un complemento di specificazione?
Vi sembra una interpretazione valida?
RISPOSTA:
La Sua domanda conferma in pieno la nostra piena convinzione della radicale inutilità dell’analisi logica tradizionale, se interpretata come sterile tassonomia dei complementi. Infatti, l’attuale, scolastica, tipologia dei complementi combina arbitrariamente elementi semantici e funzionalistici (a che serve e che cosa significa quel determinato costrutto?) con elementi sintattici (come si combinano insieme sostantivi e preposizioni e come dipendono dal verbo). Se tutto questo ha un senso in latino, laddove è necessario conoscere in quale caso vanno espressi determinati costrutti a seconda del loro valore, in italiano certe distinzioni appaiono del tutto inutili, se non dannose.
Pertanto, ha perfettamente ragione il Tantucci nell’osservare che, in latino, la reggenza al genitivo vale tanto per la nozione logico-semantica di specificazione quanto per quella di quantità, che è tutto sommato un sottotipo della prima; mentre in italiano la distinzione tra un complemento di specificazione e uno di quantità è del tutto inutile, inventata a tavolino, senza alcuna utilità pratica né teorica. E, ancora una volta, d’accordo con Luca Serianni, Francesco Sabatini e numerosi altri lingiuisti, viene da dar ragione a quel bambino che, di fronte alla domanda della maestra: “che complemento è a pallone nella frase io gioco a pallone? Rispose: “complemento di calcio”! Bambino geniale e linguista in pectore, che comprende, malgré lui, come attribuire valore sintattico a mere relazioni semantiche sia privo di fondamento. Molto meglio concentrarsi sulle relazioni di reggenza tra verbo e sostantivi, secondo quanto predicato dalla grammatica delle valenze, su cui Francesco Sabatini e Cristiana De Santis hanno scritto pagine interessantissime. Ma questa è un’altra storia.
Fabio Rossi
QUESITO:
Più che mai si può considerare un comparativo di maggioranza? Oppure è solo incremento valore aggettivo? Es: sono più che mai felice.
RISPOSTA:
Più che mai non è interpretabile come un comparativo, bensì come un modificatore dell’aggettivo cui si accompagna, per indicarne il grado di intensità: è dunque equivalente a un avverbio (tecnicamente, si tratta di una locuzione avverbiale) come moltissimo o simili. In questo caso, dunque, è un tutt’uno con felice, quale parte nominale del predicato nominale “sono più che mai felice”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei una curiosità: quindi utilizzando “di quanto sia bravo”, se inseriamo
anche (non) il significato non cambia? È solo un abbellimento stilistico o
una ridondanza?
RISPOSTA:
Sostanzialmente sì, non cambia nulla. Non sto qui a farle un intricato discorso sulle ragioni, ma è come se confliggessero due punti di vista:
Sei furbo, non sei bravo
Sei furbo ma sei anche bravo
Sei più furbo di quanto tu sia bravo
Sei più furbo di quanto tu non sia bravo
Il “non” è ininfluente ai fini del significato dell’enunciato. Per quanto possa sembrare controintuitivo, talora il “non” è usato, nella storia dell’italiano, in modo del tutto contrario alle attese. Per esempio, sulla stregua del latino TIMEO NE per indicare “temo che qualcosa accada”, nell’italiano antico era possibile dire e scrivere una frase come la seguente: “temo che non mi veda” per intendere, invece “temo che mi veda”. La spiegazione risiede nel fatto che è come se si costruisse un discorso diretto approssimativamente come il conseguente: “ho un timore ed è questo: (voglio) che NON mi veda!”, cioè “non voglio che mi veda”, e dunque: “ho paura che mi veda”. Qualcosa di analogo è successo con i secondi termini di paragone, in cui il “non” passa dal contrasto con il primo termine (A, NON B), alla sfumatura di gradazione (A, meglio di B).
Un altro esempio analogo è: “Meglio passare l’estate in Sicilia che in Piemonte”, del tutto identico a “che non in Piemonte”. In questi casi, la negazione è del tutto ininfluente.
Talora le lingue hanno loro percorsi di coerenza interna, anche semantica, diversi dall’usuale o dal senso comune.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase: “Mario è più furbo che bravo”, analizzando in analisi logica, “più furbo che bravo” è tutto insieme il nome del predicato?
RISPOSTA:
“Che bravo” (ovvero, di quanto [non] sia bravo) è complemento di paragone, ovvero secondo termine di paragone, mentre “è più furbo” è predicato nominale, costituito da “è” = copula + “più furbo” = nome del predicato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Marco pensò a cose che solo lui poteva sapere”, vuoi per l’assenza di altre persone, vuoi per il contesto testuale, è chiaro che il pronome lui si riferisca al soggetto, cioè Marco.
Ma in un esempio come “Marco aveva salutato Luigi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere” mi pare che il referente del pronome sia meno diretto.
Mi piacerebbe ricevere la vostra opinione; nonché, se possibile, qualche indicazione per destreggiarsi in situazioni semantiche simili.
Per inciso, mi torna in mente la differenza d’impiego tra proprio e suo, per distinguere l’attribuzione dell’aggettivo al soggetto o al complemento).
RISPOSTA:
Il pronome personale si riferisce al tema più vicino tra quelli possibili. Per esempio, se nella sua frase ci fosse Maria, oppure i coniugi Rossi, al posto di Luigi, il riferimento sarebbe ancora chiaro: “Marco aveva salutato Maria / i coniugi Rossi e si apprestava a rimuginare su fatti che solo lui avrebbe potuto conoscere”. Nella sua frase, invece, il tema Luigi è il più vicino tra quelli possibili e, pertanto, si sostituisce a Marco come bersaglio di lui.
Il lettore rimane comunque dubbioso sulla correttezza del riferimento, perché la proposizione coordinata mantiene Marco come soggetto e, in generale, per il senso della frase, che sembra ruotare tutto intorno a Marco. Per ovviare a questa ambiguità si possono usare forme referenziali (che possiamo chiamare proforme) più esplicite, per esempio quest’ultimo, oppure lo stesso Luigi, se vogliamo puntare a Luigi. Se vogliamo puntare a Marco, possiamo rafforzare lui con stesso, che rimanda al soggetto della frase. Altre proforme che rimandano inequivocabilmente al soggetto (ma che in questa frase non possono essere usate, a meno che non la si riformuli diversamente) sono il pronome riflessivo sé (stesso) e, come da lei ricordato, l’aggettivo possessivo proprio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se, in un testo scolastico (es. la simulazione di una lettera o di un diario), si può accettare l’espressione “Siamo migliori amiche”.
RISPOSTA:
La lettera a un amico o a un’amica e il diario sono generi caratterizzati da un registro informale, nel quale figurano a loro agio, e sono pienamente giustificate, espressioni “brillanti”, non canoniche, vicine al parlato.
Ma vediamo perché migliore amico/a e migliori amici/amiche sono espressioni non canoniche. Molto diffuse oggi, presentano tre difficoltà se passate al vaglio della grammatica standard: non hanno l’articolo determinativo e non hanno il complemento partitivo, entrambi richiesti dal superlativo relativo migliore; mancano del complemento di specificazione (o dell’aggettivo possessivo), richiesto dal nome amico.
In una frase standard come “Il migliore amico dell’uomo è il cane” si nota che l’aggettivo al grado superlativo relativo sia preceduto dall’articolo determinativo; amico, inoltre, è correttamente specificato (molto strano sarebbe *”Il miglior amico è il cane”). Anche in questa frase, invece, manca il complemento partitivo, che, per la verità, può facilmente essere sottinteso nel caso in cui coincida con tra tutti gli altri o simili: “(Tra tutti gli altri amici,) il migliore amico dell’uomo è il cane”.
Delle tre difficoltà individuate nell’espressione qui analizzata, quindi, una è trascurabile: migliore amico presuppone tra tutti.
Più strana sembra la mancanza del complemento di specificazione per amico/a/i/e. A ben vedere, però, anche questa si spiega con il sottinteso: “Siamo migliori amiche” è implicitamente completata da l’una dell’altra. Come si vede, questo costrutto appesantisce l’espressione e la rende molto meno agevole e immediata: si capisce, quindi, perché i parlanti lo eludano. Rispetto allo standard, questa scelta rappresenta uno scarto, non grave ma sufficiente per abbassare di un gradino la formalità dell’espressione.
La terza mancanza, quella dell’articolo prima di migliore/i, è l’unica davvero grave, perché contrasta con una regola sintattica molto rigida (migliore è comparativo di maggioranza; il migliore è superlativo relativo), sebbene si giustifichi sul piano della convenienza. Se inseriamo l’articolo, infatti, otteniamo “Siamo le migliori amiche”, che renderebbe il sottintendimento del complemento di specificazione inaccettabile per la maggioranza dei parlanti.
Questa disamina dei “difetti” insiti nell’espressione ci consegna, per contrasto, la variante standard della stessa: “Siamo le migliori amiche l’una dell’altra”. Si noterà, nella formulazione, oltre alla minore efficacia espressiva, la “stranezza” del mancato accordo tra il nome del predicato le migliori amiche e il costrutto reciproco, che è grammaticalmente singolare. La variante “Siamo la migliore amica l’una dell’altra”, pure possibile, sana questa “stranezza”, ma provoca la sgrammaticatura (quindi è formalmente più trascurata) del mancato accordo tra la copula (a sua volta concordata con il soggetto), plurale, e il nome del predicato, singolare.
A margine rilevo che la lettera e la pagina di diario, generi testuali familiari ai ragazzi fino a qualche anno fa, oggi appaiono anacronistici e, per questo, poco motivanti. Si possono sostituire con l’articolo di un blog, l’e-mail, il post di un social network (purché siano rese chiare le finalità e le caratteristiche formali che questi prodotti devono avere).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “C’è da dire che è stato importante”, il costrutto c’è da dire è un sintagma nominale?
RISPOSTA:
il sintagma nominale (per esempio il cane, Mario, molta strada ecc. ) non contiene verbi e non si può ulteriormente scomporre dal punto di vista sintattico. C’è da dire, al contrario, contiene due verbi e si può ulteriormente scomporre in parti sintattiche, il sintagma pronominale ci, il sintagma verbale è, il sintagma preposizionale da dire. I primi due, insieme, formano la proposizione principale del periodo; il terzo coincide con una proposizione relativa implicita (equivalente a “che deve essere detto”). Il periodo è completato dalla proposizione “che è stato importante”, sulla cui natura, a metà tra soggettiva e oggettiva, suggerisco di leggere questa risposta
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Per l’età che ha è giovane”, “Per l’età che ha” è una proposizione concessiva?
RISPOSTA:
”Per l’età che ha” non è una proposizione, ma un complemento, per l’età, a cui è collegata una proposizione relativa, “che ha”. La funzione che più immediatamente si riconosce in questo complemento è quella concessiva (esso equivale, cioè, a nonostante l’età); è possibile, però, interpretarlo anche come un complemento di paragone, equivalente a in confronto all’età, ovvero ‘in confronto all’immagine comunemente accettata di una persona di quella età’. In virtù di questa interpretazione, la frase intera sarebbe parafrasabile così: “In confronto all’età che ha è giovane”, quindi: “È più giovane dell’età che ha”.
“Per l’età che ha” può essere trasformato nella proposizione “Per avere questa / quella età” (“Per avere questa / quella età, è giovane”), che, però, non è totalmente equivalente al complemento per l’età: in virtù del verbo contenuto, infatti, accetta solamente l’interpretazione concessiva, non quella comparativa. Inaccettabile sarebbe *”Rispetto all’avere questa / quella età è giovane”, ovvero *”È più giovane dell’avere questa / quella età”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Questo è il problema”, il soggetto della frase è Questo oppure il problema?
RISPOSTA:
In questa frase abbiamo un soggetto e un predicato nominale. Per stabilire quale sia il soggetto e quale la parte nominale del predicato è utile ricordare la definizione astratta di queste funzioni logiche: il soggetto è l’elemento della frase a cui si riferisce il predicato; la parte nominale è il sintagma nominale o aggettivale che si unisce alla copula per formare il predicato nominale. La parte nominale serve a definire o qualificare il soggetto.
Seguendo queste informazioni astratte, nella sua frase abbiamo due possibilità: nel caso in cui la frase intenda definire l’elemento questo, come se rispondesse alla domanda “Che cos’è questo?”, il soggetto della frase è proprio questo, mentre il problema è la parte nominale, che definisce il soggetto. Se, invece, la frase intende indicare quale sia il problema, come se rispondesse alla domanda “Qual è il problema?” (in questo caso, nel parlato sarebbe pronunciata con intonazione ascendente su questo e con una breve pausa tra questo e è il problema), la situazione si capovolge: il soggetto è il problema e questo è è il predicato nominale, che definisce il problema. In questo secondo caso, quindi, “Questo è il problema” equivale dal punto di vista dell’analisi logica a “Il problema è questo”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In analisi logica e grammaticale, come si analizza ci nelle espressioni: “CI incontreremo alle 16?”, “CI vedremo alle 16”?
I verbi incontrarsi e vedersi vanno considerati transitivi o intransitivi?
RISPOSTA:
Si tratta di un pronome personale atono, anche detto particella pronominale. In analisi logica va considerato parte integrante dei verbi incontrarsi e vedersi. Volendolo analizzare, esso sembra avere la funzione di complemento oggetto, ma questa è in contraddizione con il genere intransitivo di questi verbi.
Ricordo che in questi verbi, detti riflessivi reciproci o solamente reciproci, il pronome ci non ha il valore propriamente riflessivo di noi stessi, ma uno leggermente diverso, difficile da esprimere in altro modo: “Io e Luca dobbiamo incontrarci” significa non *’Io devo incontrare me stesso e Luca deve incontrare sé stesso”, ma ‘io devo incontrare Luca e Luca deve incontrare me’ (mentre “Io e Luca dobbiamo vestirci” significa esattamente ‘Io devo vestire me stesso e Luca deve vestire sé stesso’).
Aggiungo che entrambi i verbi in questione possono essere costruiti anche come intransitivi pronominali, in casi come “Stasera mi incontrerò / mi vedrò con Luca”, nei quali il pronome non ha alcun valore proprio (la frase non significa *’incontrerò / vedrò me stesso con Luca’) e serve solamente a sottolineare il coinvolgimento del soggetto nell’azione espressa dal verbo. In questi casi, in analisi logica non si può che considerare il pronome come parte integrante del verbo.
Sia che siano costruiti come reciproci, sia che siano costruiti come intransitivi pronominali, i due verbi sono intransitivi (e richiedono l’ausiliare essere).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito dell’eterno dualismo si passivante / si impersonale, ampiamente discusso in precedenti occasioni, vi domando se, in presenza di una doppia particella pronominale all’interno di un periodo, si sceglie, di preferenza, l’una o l’altra costruzione: “Da anziani, ci si dimentica / dimenticano le cose”.
RISPOSTA:
Dimenticare è un verbo transitivo, che, nella sua frase, regge un complemento oggetto. In questo contesto, il si ha la funzione di rendere il costrutto passivo: “Da anziani si dimenticano le cose” (ovvero “Da anziani le cose sono dimenticate”). Non bisogna confondere questa costruzione con quella del verbo dimenticarsi, che vediamo in un esempio come: “Il mio vecchio zio si dimentica le cose”. In questo caso il si funge da pronome personale atono intensificatore (che, cioè, enfatizza la partecipazione del soggetto al processo designato dal verbo), quindi il verbo concorda con il soggetto (infatti, cambiando soggetto avremo, per esempio, “Io mi dimentico sempre le chiavi nelle tasche delle giacche”).
Se al si aggiungiamo il pronome ci il costrutto diviene impersonale (il soggetto è un noi generico), quindi il verbo rimane sempre alla terza persona singolare, a prescindere dalla presenza o assenza del complemento oggetto, e a prescindere dal numero del complemento oggetto. Nella sua frase, pertanto, l’unica costruzione corretta è “ci si dimentica le cose”. La costruzione, scorretta, *”ci si dimenticano le cose” è attratta dal già visto “si dimenticano le cose”, ma anche da espressioni del tutto diverse, ma apparentemente identiche, come “e poi ci si mettono anche gli imbecilli del caffè a ridere” (Alberto Arbasino, Anonimo lombardo, 1960), in cui gli imbecilli non è il complemento oggetto, ma il soggetto del verbo pronominale mettersi e ci è un pronome che possiamo parafrasare come ‘in questa situazione’ (sulla funzione avverbiale del pronome ci rimando a questo articolo di DICO, e soprattutto alla risposta del prof. Rossi al commento di un utente, che si trova in coda all’articolo). Per completezza, va detto che mettercisi può anche essere considerato un verbo procomplementare, ovvero un verbo nel quale l’appendice pronominale (qui -cisi) non ha un significato autonomo, ma conferisce al verbo un nuovo significato: mettere ‘introdurre un oggetto dentro un altro’ / mettercisi ‘darsi a una attività’. Maggiori informazioni sui verbi procomplementari sono fornite in altre risposte presenti nell’archivio di DICO (si trovano inserendo nella maschera di ricerca la parola chiave procomplementare).
La ricerca nel web attraverso Google rivela che le occorrenze di *”ci si dimenticano le cose” sono più numerose di quelle di *”ci si dimentica le cose”: questo fatto indica che i parlanti sono inclini ad accettare la forma scorretta e addirittura a preferirla. Aggiungo che, in letteratura, è attestato l’accordo del verbo impersonale con il complemento oggetto per la costruzione impersonale del tipo noi si va; Luca Serianni, nella sua grammatica (Italiano, Garzanti, 2000), riporta questo esempio dalla Ragazza di Bube di Carlo Cassola: “Ora queste ragazze andavano alla messa e noi si volevano accompagnare”. L’attrazione esercitata dai costrutti passivanti su quelli impersonali è, quindi, forte, tanto da far passare inosservata la scorrettezza di *”ci si dimenticano le cose”. Ritengo, comunque, che si possa ancora considerarla scorretta, e che si debba scoraggiarne l’uso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“La dichiarazione è sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica di un documento di identità in corso di validità del sottoscrittore ai sensi degli articoli 35 e 38 del D.P.R. n. 445/2000.
Esenta da imposta di bollo ai sensi dell’art. 37 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445″.
RISPOSTA:
La voce esenta in questione potrebbe anche rappresentare, come da lei suggerito, un caso di verbo con soggetto sottinteso (e anche con oggetto sottinteso: esenta il sottoscrittore), ma sarebbe assai strano, in un testo burocratico che tende, semmai, all’iperspecificazione piuttosto che all’omissione. Sarebbe corretto ma comunque non comune, anche in un testo non burocratico, dal momento che il verbo esentare richiede di norma tutti i suoi argomenti: chi esenta chi da che cosa. È dunque più plausibile pensare a un refuso per esente, in una frase nominale, tipica dello stile burocratico. Vale a dire che la dichiarazione non richiede l’imposta di bollo, ma può esser fatta in carta semplice.
Purtroppo, quello da lei sottopostoci è un ennesimo esempio delle falle dei testi burocratici, che riescono a rendere criptici anche i concetti più semplici. Fosse per me, lo riscriverei così:
Fabio Rossi
QUESITO:
In un contesto di discussione, con la frase “Se loro non trascendono da ciò che vogliono fare” volevo intendere la possibilità che su alcune cosa non si possa fare diversamente da quanto loro stessi vogliono. Mi è stato puntualizzato che il significato era sostanzialmente diverso. Chi è in errore?
RISPOSTA:
Stando al GRADIT, il dizionario dell’uso più esteso in circolazione, il verbo trascendere può essere transitivo e intransitivo. Tralasciando le accezioni tecnico-specialistiche e quelle letterarie, come intransitivo, il verbo ha il significato di ‘dare in escandescenze’ e può avere come ausiliare essere o avere : “Non capisco perché hai/sei trasceso in quella discussione”. Il verbo ha anche il significato di ‘oltrepassare, andare oltre’, che si avvicina (sebbene non coincida) a quello che lei intendeva. Sempre secondo il GRADIT, però, con questo significato il verbo deve essere costruito transitivamente, quindi non “se loro non trascendono da ciò che vogliono fare”, ma “se loro non trascendono ciò che vogliono fare”. Così costruita, la frase significa, grosso modo,’se loro non finiscono con il fare più di quanto era loro intenzione’.
A dispetto della regola, per la verità, è invalso l’uso intransitivo del verbo anche con il significato di ‘oltrepassare’. Una veloce ricerca in Internet mostra frasi come “qualità che trascendono da un mero discorso tecnico”, “i leader trascendono da un ruolo meramente manageriale”, “i tradizionali strumenti normativi trascendono da una dimensione territoriale ben definita”, “interessi che trascendono da quelli inerenti alla soluzione della controversia” ecc.
In conclusione, trascendere non può significare ‘fare diversamente’, ma può significare ‘oltrepassare, superare, andare oltre’. Con questo significato, secondo i dizionari andrebbe costruito transitivamente, quindi con il complemento oggetto, ma l’uso intransitivo, con la preposizione da, è comune nell’uso, anche in testi mediamente e altamente formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Perché in italiano esiste l’espressione “Mi sono tagliata i capelli”, quando in realtà l’azione è stata fatta da altri? In inglese esiste la costruzione “I had my hair cut”, cioè ho avuto qualcun altro che ha fatto l’azione per mio conto. In questo caso l’espressione mi farebbe pensare a un’azione subita, decisa dalla volontà di altri e dunque non piacevole. Perché?
RISPOSTA:
Nessuna lingua codifica tutte le relazioni e i concetti possibili, né tutte le lingue codificano le medesime relazioni allo stesso modo. Dunque, per es., per esprimere il forte coinvolgimento emotivo del parlante rispetto all’azione compiuta, riportata o subita, il greco antico (e molte altre lingue indoeuropee) aveva a disposizione la diatesi media dei verbi, che in latino, in italiano e nella gran parte delle lingue moderne si è persa.
Ciò premesso, in effetti l’italiano e l’inglese hanno due modi diversi di esprimere il concetto di “Mi sono tagliata i capelli” (e altri analoghi), che probabilmente il greco avrebbe espresso col medio e il latino col dativo etico (si veda la bella voce dativo etico nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, ormai gratuitamente online). L’inglese adotta qualcosa di molto simile al medio-passivo (tant’è vero che ricorre al participio passato con valore passivo).
In effetti quel mi è una sorta di dativo etico, o di benefattivo, che non indica certo né il complemento di termine né un pronome riflessivo (cioè non sono io che li ho tagliati a me stesso, ma me li ha tagliati il parrucchiere). In altre parole, quel mi sono ecc. indica un coinvolgimento particolare del soggetto dell’azione (anche in altri casi più o meno colloquiali si usa il mi: “Mi sono mangiato una pizza”, “Mi sono fatto due birre”, “Mi sono ricordato”, “Mi sono dimenticato” ecc.), o di chi riceve l’azione, ovvero, potremmo anche dire, del soggetto logico (“mi sono tagliato i capelli” = ‘mi hanno tagliato i capelli’), coinvolgimento che già nella tarda latinità poteva essere espresso dal caso dativo (da cui l’estensione del complemento di termine in italiano).
Come giustamente osserva lei, si può aggiungere che l’alternativa più formale non potrebbe essere “Mi hanno tagliato i capelli” (che implicherebbe un’azione contro la mia volontà, mentre, viceversa, la presenza del mi in questo caso indica proprio il mio coinvolgimento), ma, semmai, “Ho tagliato i capelli”. Anche in quest’ultimo caso, tuttavia, si perderebbe il coinvolgimento, per dir così, affettivo all’azione compiuta, o ricevuta.
Insomma, è questa una delle numerose situazioni nelle quali la lingua parlata, o quantomeno meno formale, sembra avere più risorse, rispetto allo scritto formale, per esprimere le più minute sfumature dell’animo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gli esempi sotto riportati sono intercambiabili, nonostante qualche sfumatura di significato tra l’uno e l’altro? E soprattutto sono validi?
Alle volte mi trovo alle prese con tali opzioni e sono indecisa su quale preferire per scrivere costruzioni sintatticamente inappuntabili.
Paolo era sostenuto dai punti di forza del suo lavoro, che…
1) esaltavano la sua indole
2) ne esaltavano l’indole
3) gli esaltavano l’indole.
Marco osservò attentamente Anna:
4) le vide i capelli arruffati
5) ne vide i capelli arruffati
6) vide i suoi capelli arruffati.
RISPOSTA:
Nella prima frase, la soluzione migliore è la 1, che evita qualunque ambiguità, perché l’aggettivo possessivo rimanda con sicurezza a Paolo.
La 2 non è scorretta grammaticalmente, né è da scartare, ma è meno chiara, perché, sebbene il nome indole si adatti soprattutto a un referente umano, quindi a Paolo, il suo lavoro non può essere escluso comereferente (la frase, cioè, potrebbe significare che i punti di forza del suo lavoro esaltavano l’indole del suo lavoro) . Il pronome gli della terza soluzione è da scartare:equivale, infatti, ad a lui, quinditrasforma la frase in “esaltavano l’indole a lui”, inaccettabile. C’è da dire cheesempi del genere sono rinvenibili (ma non per questo devono essere riprodotti) in produzioni poco sorvegliate; derivano probabilmente dall’analogia con espressioni completabili tanto con il complemento di termine quanto con quello di specificazione, come”Gli strinse la mano” / “Ne strinse la mano” (e quindi anche “Strinse la sua mano”) , “Gli toccò la spalla” / “Ne toccò la spalla” (quindi anche “Toccò la sua spalla”) , “Gli allaccia le scarpe” / “Ne allaccia le scarpe” (quindi anche “Allaccia le sue scarpe”) e simili.
Nella seconda frase le soluzioni 5 e 6 sono corrette e non ambigue, quindi la scelta tra l’una e l’altra è una questione di stile. Volendo essere molto precisi, in realtà, le due varianti hanno una sfumatura di differenza sul piano informativo: la prima mette in evidenza il sintagma i capelli arruffati, come se Marco si concentrasse sui capelli di Anna, che erano arruffati; la seconda, invece, pone l’attenzione solo su arruffati, come se Marco notasse non i capelli in generale, ma il particolare dell’aspetto dei capelli.
La soluzione 4 è simile alla 3, con la differenza che vedere, come tutti i verbi di percezione,tollerala doppia costruzione con il complemento di termine o quello di specificazione (succede lo stesso per sentire, come nella tipica frase”Il dottore sente il polso al / del paziente”, o per odorare: “Amo odorare i capelli alla / della mia fidanzata”) . Come si vede dagli esempi, comunque, il complemento di termine retto daiverbi di percezione è una soluzione di registro basso. L’unico verbo semanticamente affine a questo gruppo che ammette entrambe le costruzioni e per il quale il complemento di termine si può considerare d’uso medio è toccare (e sinonimi, sfiorare, colpire, premere…) .Non a caso,esempi di “Le vede i capelli” on line sono quasi assenti (nessuna attestazione, invece, risulta per “le vide i capelli”) , mentre “Le tocca i capelli” conta migliaia di attestazioni.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La proposizione “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza” (inteso pressappoco come “non si ha conoscenza delle cause del fenomeno”) è ben formata?
RISPOSTA:
Sì. Il pronome cui inserito tra l’articolo determinativo e il nome ad esso collegato equivale a di cui ; quindi le cui cause= le cause di cui, e delle cui cause= delle cause di cui. “Un fenomeno delle cui cause non si ha conoscenza”, in definitiva, equivale a “Un fenomeno delle cause di cui non si ha conoscenza”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei approfondire le applicazioni d’uso del pronome ne. Esso può riferirsi a soggetti o complementi collocati in un periodo precedente già concluso o, in generale, a soggetti e complementi, per così dire, distanti? Oppure, per evitare inconvenienti di interpretazione, sarebbe consigliato che tra soggetto / complemento e ne non ci fossero altri nomi compatibili con la funzione di tale pronome?
Ad esempio: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Ne lesse (riferimento a lettera) due righe…”.
Vi chiedo infine se, al livello di accordo del participio, vi sia libera scelta, seguendo le regole base in proposito, oppure con il ne partitivo si debbano seguire indicazioni diverse?
Ad esempio: “Ho comprato il libro e ne ho letto / lette tre pagine”.
RISPOSTA:
Il pronome ne può essere usato con funzione coreferenziale (cioè per riprendere un referente introdotto precedentemente, o per anticiparlo) al pari degli altri pronomi atoni e con gli stessi accorgimenti. Nel caso di referente molto lontano o confondibile, cioè, bisogna preferire coesivi più espliciti. Nella seguente frase, ad esempio, il pronome atono lo è ambiguo, perché può rimandare tanto a Mario quanto a il suo cane: “Ho incontrato Mario a spasso con il suo cane. L’ho trovato, come sempre, molto simpatico”.
Rispetto ai pronomi atoni diretti, inoltre, ne, non essendo marcato nel genere e nel numero, deve essere usato con particolare cautela, per evitare fraintendimenti. Nella sua frase, ad esempio, il rimando di ne a lettera è ricavabile solamente grazie al verbo lesse; se sostituissimo tale verbo con uno dal significato più generico, il rimando sarebbe ambiguo: “Tizio ricevette una lettera e strappò la busta mentre versava dita di cognac nel bicchiere che stringeva tra le mani. Non se ne sarebbe separato per ore” (dalla lettera, dal bicchiere o dal cognac?).
Per quanto riguarda l’accordo di ne con il participio passato dei verbi transitivi, bisogna ricordare che l’obbligo riguarda i pronomi lo, la, li, le, che rappresentano i complementi oggetti di verbi: “Hai visto Maria? No, non l’ho (= la ho) vista”. Il pronome ne, invece, presuppone un complemento oggetto esterno, ed è con questo che il participio passato può concordare o no. Nella sua frase, per esempio, il participio passato può rimanere invariabile (letto) oppure concordare con pagine (lette), non certo con ne. Lo stesso vale nel caso in cui il complemento oggetto sia rappresentato da un pronome indefinito o un numerale: “Ho comprato una scorta di riviste e ne ho già letto / lette molte“, “Ho comprato tre libri e ne ho letto / letti due“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Egregio professore, un mio conoscente tedesco mi ha chiesto perché si dice “Penso a Maria”, ma, sempre in riferimento a Maria, si dice “La penso”. Dativo o accusativo? Grazie.
DOMANDA:
Il verbo pensare è ricco di sfumature e di costruzioni: può essere usato assolutamente (“Le tue parole mi hanno fatto pensare”), può reggere la proposizione oggettiva (“Penso che tu sia una brava persona”), il complemento di vantaggio (“Al mondo ognuno pensa per sé”).
Le reggenze che qui interessano, però, sono quella del complemento oggetto e quella, molto più comune, del complemento introdotto dalla preposizione a. Il verbo pensare regge il complemento oggetto preferibilmente con il pronome atono preposto e specie quando segue un complemento predicativo: “Non lo pensavo capace di tanto”; con il complemento oggetto posposto, pronominale o nominale, si preferisce la proposizione oggettiva: “Non pensavo che lui / Carlo fosse capace di tanto” (rispetto a “Non pensavo lui / Carlo capace di tanto”).
Più comune è la reggenza del complemento indiretto, che, bisogna chiarire, non è un complemento di termine, bensì un complemento di difficile classificazione, di natura locativa, quasi un complemento di moto a luogo. Una prova di questa natura del complemento è che la trasformazione di penso a lei con lo spostamento preverbale del complemento è ci penso, non *le penso: il sintagma a lei, quindi, viene sostituito dal pronome atono ci. La penso è, piuttosto, equivalente a penso lei, e infatti è leggermente innaturale, perché non equivale esattamente a penso a lei e perché, come detto prima, questa costruzione è quasi sempre seguita da un complemento predicativo. In alcuni casi, però, i parlanti preferiscono la penso a ci penso (abbondano on line esempi di “la penso ancora”) perché ci non lascia trasparire il genere e il numero dell’oggetto del pensiero: può, infatti, stare per a lui, a lei, a questa / quella cosa, a loro, a queste / quelle cose. Un esempio di questa ambiguità del pronome ci è nel famoso verso verso della canzone del 1991 di Gianni Bella “Più ci penso e più mi viene voglia di lei”, nel quale rimaniamo incerti se ci penso significhi ‘penso a lei’ o ‘penso a questa/quella cosa’.
A margine, va detto che la penso può anche essere una voce del verbo (detto procomplementare) pensarla ‘avere una determinata opinione’ (usato nelle espressioni pensarla così, pensarla in un certo modo, pensarla come qualcun altro ecc.): in questo caso la è parte integrante del verbo e non ha un referente preciso (come in farcela, cavarsela, piantarla ecc.).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come spiegare il valore della particella pronominale (o avverbio di luogo?) ne nella seguente frase: “Starsene tranquilli su una poltrona”? Se dico “Me ne vado” è tutto chiaro: il ne significa ‘da qui’, ma nella succitata frase non ne colgo il senso.
RISPOSTA:
Starsene è un verbo procomplementare, ovvero un verbo dal significato non precisamente letterale formato con l’aggiunta di uno o più pronomi atoni a un comune verbo. La classe di questi verbi, rientrante nella più ampia categoria dei verbi pronominali, è popolosa: al suo interno troviamo farcela ‘riuscire’, piantarla ‘smettere di comportarsi in modo fastidioso’, volerci ‘richiedere, abbisognare’, spassarsela ‘divertirsi’, intendersela ‘avere un rapporto speciale con qualcuno, specialmente segreto’, intendersene ‘essere esperto’ e tanti altri.
Come si può vedere in questi esempi, il gruppo pronominale aggiunto al verbo base non prende un significato preciso né una funzione contemplata nella tradizionale analisi logica; bisogna considerarlo, piuttosto, come parte integrante della parola, alla stregua di un suffisso (per esempio come -zione in costruzione). Il significato complessivo del verbo procomplementare può essere vicino a quello del verbo base, a cui aggiunge una sfumatura di partecipazione emotiva (come starsene rispetto a stare), oppure molto distante (come piantarla rispetto a piantare). Va anche detto che spesso (ma non sempre) i verbi procomplementari si contruiscono diversamente dal verbo base: intendere è transitivo, intendersene richiede un complemento indiretto (riconoscibile come complemento di specificazione nell’ottica dell’analisi logica, o come oggetto indiretto nell’ottica della grammatica valenziale); stare e starsene, invece, hanno la stessa costruzione.
Anche andarsene rientra nella categoria dei verbi procomplementari: più che avere un significato autonomo, infatti, il gruppo pronominale finale –sene arricchisce il verbo base della stessa sfumatura di partecipazione emotiva del soggetto all’azione riconoscibile in starsene.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Facendo l’analisi logica della frase: “Ha lavorato piuttosto bene”, l’avverbio piuttosto come viene analizzato?
RISPOSTA:
Piuttosto bene è considerato, in analisi logica, un unico complemento, in questo caso di modo. Come piuttosto si comportano gli altri avverbi che modificano un aggettivo o un avverbio, abbastanza, molto, tanto, poco, alquanto, quasi ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Ho cambiato qualche foto, anche se avrei voluto mettere altre” è corretta?
RISPOSTA:
Nella sua frase c’è un unico problema, che riguarda il riferimento del pronome indefinito altre. Il significato generico di questo pronome richiede che si specifichi da quale insieme si estraggono gli elementi scelti. Ci vuole, insomma, un complemento partitivo. La soluzione più immediata è realizzarlo con il pronome ne, che rimanda, ovviamente, a foto: quindi “avrei voluto metterne altre”. Se altre non rimandasse a foto, altre sarebbe aggettivo, non pronome, e dovrebbe appoggiarsi a un nome, che diventerebbe il complemento oggetto di mettere: “avrei voluto mettere altre cose / immagini / pose” o simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta la frase “Incontro persone che so aver opinioni diverse dalle mie”, con l’infinito alla latina anziché la forma esplicita con l’indicativo?
Penso di no, ma non ne sono certissimo, perché il soggetto della completiva dovrebbe coincidere di norma con il soggetto della reggente. Forse i toscani usano questo costrutto arcaico.
RISPOSTA:
La costruzione della frase è corretta e ancora a suo agio nell’italiano contemporaneo, anche di media formalità, senza coloriture regionali; ho trovato, per esempio, un costrutto simile in un account Facebook: “Come faccio a segnalare una persona che so avere un profilo falso ma mi ha bloccato?”. A darle la sensazione di arcaicità è forse l’apocope di aver, che suona un po’ letteraria, sebbene sia anch’essa piuttosto comune.
Ha ragione a ricordare la norma della conservazione del soggetto per l’infinito. Questa, però, non è assoluta e, in questo caso, viene infranta con buone ragioni (nonché sulla base di un modello molto antico). La costruzione sintattica superficiale della frase nasconde una costruzione logica bimembre: da una parte “Incontro persone”, dall’altra “so che queste persone hanno opinioni diverse dalle mie”. Il pronome relativo consente di fondere le due costruzioni logicamente autonome in modi diversi, per esempio così: “So che le persone che incontro hanno opinioni diverse dalle mie”. Se, però, per ragioni informative, vogliamo isolare a sinistra della frase “Incontro persone”, si crea un corto circuito tra la sintassi e la logica, perché la proposizione dipendente dal verbo sapere è a metà strada tra una oggettiva e una relativa. Nella frase “Incontro persone che so che hanno opinioni diverse dalle mie”, cioè, il parlante rimane incerto se interpretare “che hanno opinioni diverse dalle mie” come una relativa dipendente da “Incontro persone” (come se “che so” fosse, in realtà, una incidentale tipo ” – e lo so -“) o come una oggettiva dipendente da “che so”. La costruzione con l’infinito elimina la difficoltà.
Si noti, a questo proposito, che il soggetto dell’infinito in quest’ultima costruzione non può che essere l’oggetto del verbo della reggente. Se il soggetto fosse lo stesso della reggente sarebbe richiesta la preposizione introduttiva di: “So di aver opinioni diverse”; nel caso specifico, però, il risultato sarebbe incoerente, visto che la frase completa diverrebbe *”Incontro persone che so di aver opinioni diverse dalle mie”.
Avvicinerei questo caso agli altri comunemente considerati le eccezioni più evidenti alla norma dell’identità del soggetto tra la reggente e la subordinata implicita, le frasi con un verbo di comando o licenza e quelle con un verbo di percezione nella reggente, nelle quali il soggetto della oggettiva è senz’altro l’oggetto (diretto o indiretto) del verbo della reggente, non il soggetto: “Ti ordino / permetto di fare ì compiti” = “Ordino / permetto che tu faccia i compiti”; “Ti ho visto uscire” = “Ho visto che tu uscivi / sei uscito”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “La partita è durata più del dovuto”, è durata è predicato verbale o nominale?
In “Gioiva con il canto”, con il canto è complemento di modo o di mezzo?
RISPOSTA:
È durata è predicato verbale. Con il canto non può essere complemento di modo, perché non indica in che modo l’azione era compiuta (un complemento di modo adatto a questo verbo potrebbe essere immensamente); potrebbe essere complemento di mezzo (“Gioiva per mezzo del canto”), ma anche di causa, se intendessimo la frase come “Gioiva per via del canto”. La frase è ambigua e non è possibile fare una scelta precisa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Riflettevo nei giorni scorsi circa l’esistenza in italiano del verbo riflessivo masterizzarsi per indicare il conseguimento del titolo di master universitario. Una frase esemplificativa a riguardo potrebbe essere la seguente: “Mi sono masterizzata l’anno scorso all’Università di Trento”.
RISPOSTA:
Il pronome di cortesia si distingue solamente al singolare, ed è sempre lei (terza persona). Ad esso corrispondono le particelle pronominali la per il complemento oggetto e le per il complemento di termine.
Esempi: “Sa che le [complemento di termine] dico? Lei [soggetto] è proprio una brava persona”; “Ho chiamato lei [complemento oggetto] per avere un aiuto”; “La ho (l’ho) [complemento oggetto] chiamata per avere un aiuto”; “Voglio regalare a lei [complemento di termine] questa penna”; “Le [complemento di termine] voglio regalare questa penna”.
Si noti che lei come pronome di cortesia si concorda al femminile se si riferisce a una donna, al maschile se si riferisce a un uomo: “Le dispiace essere più chiara, signora Bianchi?”; “Le dispiace essere più chiaro, signor Bianchi?”.
Al plurale, il pronome di cortesia coincide con il pronome voi. In alcune regioni d’Italia, soprattutto al Sud, voi si usa anche per il singolare: “Posso parlarvi, signor Bianchi?”.
Fino a qualche decennio fa, e ancora oggi in un registro estremamente formale, era ed è possibile usare, come pronome di cortesia per il plurale, il pronome loro: “(Loro) non abbiano timore: siano certi che fugherò i loro dubbi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’accordo corretto del participio passato?
RISPOSTA:
Il participio passato dei tempi composti dei verbi transitivi può essere invariabile (“Ho stretto la mano della regina”) oppure concordare con il complemento oggetto (“Ho stretta la mano della regina”). La variante concordata è oggi rara ed è percepita come arcaica o letteraria. Se, però, il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?”, “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli” e simili.
Con i verbi intransitivi la concordanza del participio passato con il complemento oggetto non è possibile, semplicemente perché questi verbi non reggono il complemento oggetto. Bisogna, però, distinguere tra i verbi intransitivi che hanno l’ausiliare essere e quelli che hanno l’ausiliare avere: i primi prevedono la concordanza del participio passato con il soggetto (“I miei fratelli sono arrivati ieri”); i secondi hanno sempre il participio passato invariabile, come nel suo esempio con credere (“Ho creduto alle tue parole“, ma anche, per aggiungere un ulteriore esempio, “I miei fratelli hanno lavorato tutta la vita”). Nel caso di un verbo che ammetta la doppia costruzione, transitiva e intransitiva, il participio sarà invariabile, o concordato con il soggetto, nella costruzione intransitiva, invariabile o concordato con il complemento oggetto nella costruzione transitiva. È il caso proprio di credere: “Non ho creduto alle sue parole“, ma “Ho creduto / credute fin da subito vere le sue parole“; e, sul versante dei verbi con ausiliare essere, di correre: “I miei fratelli sono corsi ad aiutarmi”, ma “I miei fratelli hanno corso / corsi molti rischi“. In questi casi, comunque, la forma concordata con il complemento oggetto (“Hanno corsi molti rischi”), possibile in astratto, è ancora meno comune e da considerare obsoleta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Entrò in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato”: tale frase è un esempio di scissa o pseudoscissa?
Vi domando, poi, se il congiuntivo trapassato o il passato prossimo sarebbero stati ugualmente validi:
“Entrò in camera, come uno che avesse corso a perdifiato”.
“Entrò in camera, come uno che ha corso a perdifiato”.
RISPOSTA:
La prima frase ricalca l’ordine sintattico naturale dell’italiano, Soggetto, Verbo, Oggetto (ovvero ampliamenti vari, visto che al posto dell’Oggetto qui troviamo un complemento di moto a luogo e poi un complemento predicativo del soggetto). La versione scissa della sua frase sarebbe: “Fu lui a entrare in camera trafelato…” (la seconda parte è implicita perché il suo soggetto coincide con quello della reggente); quella pseudoscissa “A entrare in camera trafelato, come uno che abbia corso a perdifiato, fu lui”.
Il congiuntivo passato della proposizione comparativa può essere sostituito con il trapassato, con la differenza che il rapporto temporale tra reggente e subordinata cambia. Il passato esprime anteriorità rispetto al presente, quindi rispetto al momento dell’enunciazione, ovvero ora: ne consegue che la descrizione della persona è riferita non alla situazione specifica narrata, ma ha valore generale (la persona somigliava a chiunque abbia corso a perdifiato). Il trapassato esprime anteriorità rispetto al passato, quindi viene riferito al momento dell’azione dell’entrare: ne consegue che la descrizione riguarda la situazione specifica narrata (la persona sembrava aver corso a perdifiato).
La sostituzione con l’indicativo passato prossimo è anche possibile: in questo caso non cambia la relazione temporale, ma il livello di formalità (più basso con l’indicativo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le varianti ellittiche contrassegnate di seguito dalla lettera b sono ben formate.
1a) Ho parlato con Anna e con Marco.
1b) Ho parlato con Anna e Marco.
2a) Nell’aria c’è un eccesso di microparticelle e di pollini.
2b) Nell’aria c’è un eccesso di microparticelle e pollini.
3a) A Luca e a Matteo vorrei dedicare più tempo.
3b) A Luca e Matteo vorrei dedicare più tempo.
4a) Negli ultimi anni o nelle ultime ore è successo qualcosa.
4b) Negli ultimi anni od ore è successo qualcosa.
5a) Le case erano ville, i palazzi erano regge, i giardini erano parchi.
5b) Le case erano ville; i palazzi, regge; i giardini, parchi.
RISPOSTA:
Tutte le varianti vanno bene. Ovviamente, le varianti ellittiche rappresentano i due elementi raggruppati come più solidali. “Ho parlato con Anna e Marco”, per esempio, è più adatto al caso in cui il soggetto abbia parlato con i due insieme; al contrario “Ho parlato con Anna e con Marco” allude al fatto che il soggetto abbia avuto due diversi colloqui.
Ho qualche riserva sulla 4b) perché l’articolo gli della preposizione negli stride un po’ nell’accordo con ore. È vero che vale la regola dell’accordo al plurale maschile con serie di nomi tra i quali almeno uno sia maschile, ma è comunque preferibile costruire la frase come la 4a) (a meno che non si voglia sottolineare, per qualche ragione, la solidarietà tra anni e ore). Inoltre, la d epitetica per la congiunzione o mi sembra eccessiva, anche davanti a un’altra o: si può tranquillamente eliminare.
La 5b), infine, può essere punteggiata diversamente, risultando più scorrevole: “Le case erano ville, i palazzi regge, i giardini parchi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella risposta a uno dei quesiti pubblicati, il 2800189 in specie, se ho ben compreso, consigliate l’uso del si quando la costruzione sia impersonale (“sarebbe bello incontrarsi”); vi domando se in tutti quei casi in cui il pronome noi (espresso o sottinteso) fa da soggetto è ammesso il ci dopo il verbo all’infinito:
1) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarci.
2) Ci siamo incontrati per chiarirci.
Se invece costruissimo tali forme:
3) (Noi) stasera guardiamo un film per rilassarsi.
4) Ci siamo incontrati per chiarirsi,
commetteremmo un errore o sarebbero varianti valide della 1 e della 2?
RISPOSTA:
Le frasi 3) e 4) sono mal costruite: il pronome ci non può essere sostituito da si, perché ha una funzione diversa. Quando il soggetto della frase è noi e il verbo prevede il pronome atono, questo pronome sarà per forza ci; questo vale quando il verbo ammette la particella rafforzativa, come in “Dobbiamo stare attenti a non dimenticarci la torta in forno”; quando il verbo è reciproco, come in “Ci siamo incontrati per chiarirci“; quando il verbo è riflessivo, come in “Stasera guardiamo un film per rilassarci“.
Il pronome si, invece, rende il verbo impersonale in frasi come “Si va al cinema”, oppure lo rende passivo, come in “Si mangiano le mele” (ovvero “Le mele sono mangiate”). In una frase come “Si va al cinema”, il soggetto logico, ma non grammaticale (visto che il verbo impersonale per definizione non ha soggetto), può essere noi, ma anche un generico la gente. Ad esempio, se dicessi “Si va al cinema; tu vieni?”, il soggetto logico di si va sarebbe noi; ma se dicessi “Oggi si va al cinema meno di cinquant’anni fa”, il soggetto logico sarebbe, piuttosto, la gente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un paragrafo incluso in una grammatica, leggo, a proposito dell’accordo del participio passato, il seguente esempio: “Non si è vinta la partita”.
Domanda: la costruzione “Non si è vinto la partita”, anche se non riconducibile alla regola cui si riferisce l’esempio precedente, sarebbe corretta quale forma impersonale, equivalente a “Noi non abbiamo vinto la partita”?
Accordo con negazione né.
Leggo la frase: “Né io né tu né lei né gli altri sanno…”.
Domanda: non sarebbe stato più giusto coniugare il verbo alla prima persona plurale: “Né io né tu né lei né gli altri sappiamo”? O esiste oppure una terza coniugazione più appropriata?
Ultimo caso: congiunzione disgiuntiva o. Leggo che quando si presenta una scelta netta, il verbo si accorda al singolare (se ovviamente lo sono anche i soggetti). Evinco che la regola decada se i soggetti siano di numero misto: “O io o loro andremo”.
Domanda: il verbo può essere accordato al plurale anche se i soggetti sono singolari e se il primo di essi non è preceduto dalla congiunzione: “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi”?
RISPOSTA:
Quando il verbo costruito con il si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione si considera non impersonale ma passiva; la forma corretta nel suo caso è, pertanto, “Non si è vinta la partita” (equivalente a “la partita non è stata vinta”). La variante “Non si è vinto la partita” non è impossibile, però: viene a coincidere con il tipo di costruzione impersonale tipica del toscano e della tradizione letteraria, quindi non proprio comune (ma comunque legittima), noi si fa qualcosa (e noi si fa alcune cose). Si considerino, per un confronto, questi due esempi giornalistici: “Non si diventa politici di successo perché si sono vinte le elezioni: si vincono le elezioni perché si è politici di successo” (la Repubblica, 27 gennaio 2018); “Dare la colpa a qualcuno che per una volta si è vinto le elezioni: non è ancora successo, ma dal PD possiamo aspettarci anche di peggio” (l’Espresso, 11 giugno 2013). Nel secondo esempio “si è vinto le elezioni” sottintende un soggetto noi, ovvero “noi si è vinto le elezioni”. Si consideri, comunque, che anche la forma impersonale del tipo noi si fa alcune cose si può costruire come se fosse passivante: noi si fanno cose (si veda l’esempio letterario riportato in questa risposta dell’archivio di DICO).
In una frase con soggetti multipli, se è presente io il verbo va alla prima persona plurale, come da lei suggerito (se ci fosse tu senza io, il verbo andrebbe alla seconda plurale). La versione da lei letta è scorretta; in essa il verbo è accordato “per prossimità” con l’ultimo soggetto introdotto, come si farebbe nel parlato poco sorvegliato.
“O io o loro andremo” è corretto (rappresenta un caso sovrapponibile a quello appena discusso). Il verbo va comunemente alla terza plurale anche con soggetti di terza persona singolare uniti da o. Può andare al singolare quando i soggetti stanno tra loro in un rapporto di alternativa: “Verrà a chiamarti un mio amico o mio fratello”. Niente vieta, però, di concordare il verbo alla terza plurale anche in questo caso: “Fu stabilito che, nei giorni seguenti, lui o la governante mi avrebbero portato da mangiare” (Guido Piovene, Le stelle fredde, 1970).
Infine, la presenza della seconda o correlativa non cambia niente ai fini dell’accordo; quindi “Riceveranno i genitori il prof. Rossi o il prof. Verdi” è ben formata, come anche “Il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì” o “O il prof. Rossi o il prof. Verdi riceveranno i genitori venerdì”. Possibili anche, ricollegandoci alla questione appena discussa, “(O) il prof. Rossi o il prof. Verdi riceverà i genitori venerdì” e “Riceverà i genitori (o) il prof. Rossi o il prof. Verdi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei bisogno dell’analisi di queste due frasi:
– il doppio di sei è dodici.
– tu vali il triplo.
RISPOSTA:
In entrambe le frasi ci sono verbi copulativi. Nella prima c’è proprio la copula è, seguita dalla parte nominale dodici, con la quale forma il predicato nominale. Nella stessa frase, di sei è complemento di specificazione. Nella seconda frase, vale è, come detto, un verbo copulativo (dello stesso tipo di risultare e sembrare), seguito dal complemento predicativo del soggetto il triplo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi avvalgo della vostra cordiale disponibilità per esplicare il seguente interrogativo:
le frasi
1. Anche Tizio non è stato promosso;
2. Non è stato promosso neppure / nemmeno Tizio;
3. Neppure / nemmeno Tizio è stato promosso
sono tutte ben formate?
È possibile che modificando la posizione del predicato (esempio 2 rispetto a 1 e 3) o il tipo di costruzione da negativa a positiva (esempio 3 rispetto a 2), anche e nemmeno o neppure svolgano la medesima funzione?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la funzione degli avverbi negativi nemmeno, neanche, neppure, essa cambia in relazione alla posizione degli avverbi nella frase; questi avverbi, cioè, negano il sintagma al quale sono adiacenti. Quindi “Neppure Tizio è stato promosso” vuol dire che neanche altri sono stati promossi, mentre “Tizio non è stato neppure promosso” vuol dire che Tizio non ha superato neanche altre prove.
Aggiungo che la frase 1. è al limite dell’accettabilità; la forma migliore sarebbe: “Neanche / neppure / nemmeno Tizio è stato promosso”.
La questione dello spostamento dell’elemento negato all’interno della frase è diversa, e chiama in causa la sintassi dell’informazione, ovvero il diverso peso che le informazioni acquisiscono a seconda della posizione in cui vengono inserite. Solitamente, le informazioni che inseriamo a destra sono quelle su cui vogliamo che il nostro interlocutore concentri la sua attenzione. Si pensi a un esempio come questo: “Ho preso la penna blu nel cassetto” / “Ho preso nel cassetto la penna blu”: l’informazione che si viene a trovare alla destra della frase (prima nel cassetto, poi la penna) riceve un peso maggiore; diviene, come si dice in linguistica testuale, il fuoco dell’enunciato. Alcune parole, come gli avverbi nemmeno e simili, sono dette focalizzatori, perché fanno risaltare l’informazione a cui si accompagnano qualsiasi sia la sua posizione. Nel nostro caso, infatti, nemmeno Tizio risulta il fuoco dell’enunciato anche se lo mettiamo a sinistra: “Neppure Tizio è stato promosso”. Rimane da capire che differenza ci sia tra quest’ultima formulazione e “Non è stato promosso neppure Tizio”. Dal punto di vista sintattico, notiamo che in questa formulazione diviene obbligatorio negare anche il verbo, mentre in quella con nemmeno Tizio a sinistra la negazione del verbo sarebbe, al contrario, inaccettabile. Questo avviene perché l’italiano preferisce inserire sempre la negazione all’inizio dell’enunciato e poi solitamente ammette, ma non richiede, la sua ripetizione. Notiamo anche che il soggetto grammaticale del verbo, Tizio, è posposto.
Dal punto di vista della sintassi dell’informazione, immaginiamo una situazione in cui il parlante (una persona diversa da Tizio) non abbia superato un esame, e qualcuno glielo faccia notare per mancanza di tatto, o per dargli fastidio: “Quindi non sei stato promosso, eh?”. Il parlante potrebbe rispondere con entrambe le formulazioni: “Non è stato promosso neppure Tizio” chiarirebbe i termini della questione in modo neutrale: ‘riguardo al tema che hai sollevato, ti faccio notare che…’; “Neppure Tizio è stato promosso”, invece, stabilirebbe fin da subito ciò che più preme al parlante comunicare, riducendo l’altra informazione a una appendice, richiesta per completare sintatticamente la frase (la sola enunciazione “Neppure Tizio” risulterebbe sospesa). Riguardo alla funzione informativa di questa appendice, emerge l’intento di rimarcarne il valore pragmatico, come se il parlante comunicasse tra le righe ‘visto che me lo chiedi / se proprio lo vuoi sapere’, con tutte le sfumature psicologiche che ne possono derivare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Sono un’insegnante. Recentemente è sorta una diatriba con una collega circa un complemento. Nella frase “Molti animali sono a rischio di estinzione”, a rischio è un complemento di modo (come sostiene la collega) o di stato in luogo figurato, al pari di “essere in pericolo” (come sostengo io)?
RISPOSTA:
A rischio è la parte nominale del predicato nominale, completato dalla copula sono. Lo dimostra il fatto che potremmo sostituire il sintagma preposizionale con un aggettivo o un participio passato con funzione di aggettivo, come minacciati, insidiati, compromessi e simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti costruzioni, ricavate da brani narrativi e di cui la letteratura abbonda, siano valide nelle loro ellissi verbali:
“Appoggiato a una delle cabine di ferro del portico era un uomo in attesa, le braccia incrociate”.
“Riposò lentamente il ricevitore, restando poi immobile, gli occhi sul telefono”.
“Era Annetta, la cuoca, gli occhi rossi, la testa imbacuccata nello scialle”.
“Donato, nude le braccia, in canottiera, i fianchi stretti da una sciarpa, se ne stava accovacciato in un angolo”.
“Federica ora parlava piano, la testa china, i capelli sul viso”.
In quest’ultimo esempio vi è inoltre un impiego particolare dell’avverbio ora: è legittimo in un enunciato al passato?
RISPOSTA:
Quelle da lei messe in evidenza sono apposizioni modali-associative, ovvero nomi seguiti da aggettivi o participi (ma ci potrebbero essere anche proposizioni relative), apposti a un nome introdotto subito prima, di cui rappresentano un dettaglio. Il costrutto è a suo agio in letteratura, ma alcuni di questi sintagmi, divenuti routinari, si sono diffusi anche nella lingua comune; ad esempio le braccia conserte o le gambe penzoloni. Nella lingua comune, per la verità, si trova più frequentemente la variante sintatticamente legata di queste strutture: con le braccia conserte, con le gambe penzoloni, con le dita incrociate ecc., che viene a coincidere con un complemento predicativo (“Si fermò con le braccia alzate”) o di unione (“Si presentò con le scarpe tutte infangate”).
Queste apposizioni rientrano nella categoria delle strutture assolute, ovvero quelle strutture legate logicamente ma non sintatticamente al resto della frase di cui fanno parte. Una disamina completa delle strutture assolute, compreso il cosiddetto accusativo alla greca, è qui: http://www.treccani.it/enciclopedia/strutture-assolute_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.
Per quanto riguarda ora usato all’interno di un discorso riportato al passato, si deve innanzitutto ricordare che questo avverbio è comunissimo, e accettabile nello scritto di media formalità, anche con il significato di ‘in quel momento’ (il dizionario GRADIT dà addirittura questo uso come FO, ovvero fondamentale: “per indicare contemporaneità nel passato, in quel momento: il pericolo era cessato, o. poteva fermarsi“). Lo scrivente, però, potrebbe averlo usato come tratto del discorso indiretto libero (il breve estratto non consente di decidere a quale significato sia riconducibile l’uso specifico). Se, infatti, attribuiamo a ora il significato tradizionale di ‘in questo momento’, questo avverbio sposta per un attimo il centro deittico dal piano diegetico al piano mimetico. In altre parole, ora interrompe la narrazione in terza persona, che è costruita dall’esterno e da una coordinata temporale diversa rispetto ai fatti (chi narra, cioè, è una persona diversa da chi agisce, e si trova in un tempo diverso, tanto che riporta le azioni al passato) per portare il discorso al piano della realtà, proiettandoci per un attimo nella linea temporale, quindi nel punto di vista, del protagonista della storia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sottopongono quattro frasi per sapere se siano ben formate. Alla luce delle vostre spiegazioni, presumo che le prime due lo siano, ma non sono certo che la terza e la quarta siano equivalenti alle precedenti in termini sintattici.
“L’unico che ha scritto la poesia sono stato io”.
“L’unico che ha scritto la poesia sono io”.
“L’unico ad aver scritto la poesia sono io”.
“L’unico ad aver scritto la poesia sono stato io”.
RISPOSTA:
Tutte le frasi sono ben formate. Le seconde due rappresentano varianti implicite (con l’infinito al posto dell’indicativo nella proposizione pseudorelativa) delle prime due; ai fini della scelta del tempo del verbo nella reggente si comportano allo stesso modo. Ciò che le distingue dalle varianti esplicite, invece, è che sono possibili solamente quando il soggetto della subordinata coincide con quello della reggente; impossibile è, infatti, trasformare in implicita una frase come questa: “È la libertà (quello) che voglio”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È possibile che nella frase “Nevicavano piume d’oca” il soggetto sia piume?
RISPOSTA:
il soggetto è senz’altro piume, come dimostra la concordanza con il verbo alla terza persona plurale. I verbi atmosferici sono per loro natura impersonali, ma un uso personale è ben presente nella storia della lingua italiana. Per piovere, tale uso è diffuso anche nella lingua comune, fin dal Trecento (un esempio moderno popolare è il titolo del film di animazione Piovono polpette, del 2009). Per nevicare gli esempi sono scarsi, più recenti, e propri della lingua letteraria, come il seguente: “Qual de’ sogni tuoi le porti, / che ti nevicano dal cuore?” (Gabriele D’Annunzio,Forse che sì, forse che no, 1910).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “quando le ha telefonato era allegro”, allegro può riferirsi sia alla persona che telefona, sia a quella a cui si telefona?
RISPOSTA:
Nella sua frase il pronome le, femminile, impedisce la concordanza con l’aggettivo maschile allegro. Se sostituiamo il pronome con un nome questa impossibilità risulta ancora più chiara: “Quando ha telefonato a Maria era allegro”. Evidentemente, non può essere Maria a essere allegro.
Se il pronome avesse come referente una seconda persona a cui si dà del lei, l’ambiguità dovrebbe essere comunque esclusa; se dicessimo, infatti, “Signor Rossi, quando le ha telefonato era allegro” potremmo intendere solamente che a essere allegro era l’autore della telefonata, perché l’ellissi del soggetto è ammessa solamente quando il soggetto è immediatamente adiacente o identificabile senza alcuno sforzo. Se volessimo dire che a essere allegro era il signor Rossi dovremmo riformulare la frase, ad esempio così: “Signor Rossi, quando le ha telefonato lei era allegro”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Esempio, se dico: “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché vengano vestiti da clown”, cosa si intende in italiano? Chi ha l’obbligo di venire vestito da clown?
RISPOSTA:
Si tratta di un caso di ambiguità, dovuto all’ellissi del soggetto della subordinata concessiva (“purché vengano”). Questa ambiguità non è risolvibile linguisticamente; il ricevente, cioè, non può ricavare (tecnicamente inferire) informazioni sufficienti a decodificare il senso della frase dalla forma linguistica della stessa. Il contesto può aiutare, ad esempio la condivisione di informazioni scambiate precedentemente tra l’emittente e il ricevente, o qualche altra fonte di informazioni circostanziale. Se il contesto non è sufficiente a completare il senso della frase, è probabile che il ricevente chieda all’emittente di spiegarsi meglio, oppure che rimanga con il dubbio.
Per evitare l’ambiguità è sufficiente esplicitare il soggetto di vengano; ad esempio: “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché tutti vengano vestiti da clown”, oppure “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché i gemelli vengano vestiti da clown”, o anche “Invito alla mia festa Gigi, Paolo, Francesco, Maria e i gemelli Rossi purché gli uomini vengano vestiti da clown” ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se, nei casi sotto elencati, la virgola è necessaria, come da esempi, facoltativa o da evitare:
a. Ho parlato per ore, dimenticandomi dell’impegno che avevo fissato.
b. Nel resto della giornata, ho concluso ben poco.
c. Ti ho cercato dappertutto, per informarti dell’accaduto.
d. Continuo ad ascoltarti, nonostante tu stia uscendo dal seminato.
e. Sei stato punito, perché avevi commesso una cattiva azione.
f. Domani mattina, mi recherò in banca.
g. Le regalai una rosa, i cui petali erano gialli.
h. A Schelling, Hegel contesta la staticità del pensiero.
RISPOSTA:
In nessuno dei casi elencati la virgola è indispensabile, talora è consigliabile, talaltra sconsigliabile, in un caso è sbagliata. Nello specifico:
A. Meglio la virgola, dal momento che la subordinata gerundiva successiva introduce un’informazione che appartiene a un piano diverso, rispetto alla semplice descrizione dell’evento («ho parlato per ore»). È come se aggiungesse le conseguenze dell’evento e funge dunque, in un certo senso, da coordinata dal valore esplicativo. Si potrebbe, infatti, parafrasare come segue, in forma esplicita: «Ho parlato per ore, e, così facendo, ho dimenticato l’impegno» ecc. Ogniqualvolta la subordinata si colloca su un piano diverso, quasi accessorio, rispetto alla reggente, la virgola, ancorché non obbligatoria, è altamente consigliabile, per una più agevole ripartizione dei piani gerarchici dell’informazione, cioè per distinguere meglio le informazioni di primo piano («Ho parlato per ore») da quelle sullo sfondo.
B. In questo caso il complemento di tempo fa da quadro di riferimento dell’azione che segue: in casi come questo la virgola è superflua, a meno che il quadro riferimento temporale non sia particolarmente complesso e articolato, come per esempio in: «Dopo aver camminato per ore ed essermi anche slogato una caviglia, ho deciso che fosse giunto il momento di fermarmi». Oppure se non si voglia sottolineare il tempo, proprio in contrasto ad un altro tempo: «Di mattina, lavoro; la sera, mi diverto» (ma anche in questo caso la virgola sarebbe facoltativa, non certa obbligatoria).
C. Qui la virgola è superflua, perché la reggente e la finale sono unite da un forte vincolo logico-semantico: Il campo d’azione della reggente («Ti ho cercato dappertutto») è proprio finalizzato a quanto segue, cioè «per informarti» ecc. A meno che lo scrivente non voglia conferire particolare evidenza, e un certo margine di autonomia, a entrambe le azioni, quasi riproducendo le inflessioni tonali del parlato, in cui la principale potrebbe essere focalizzata, vale a dire con un particolare rilievo informativo e tonale; insomma, un po’ come se dicessi (o scrivessi): «Ti ho cercato dappertutto» (e con una certa apprensione, o sfinitezza, sottolineando DAPPERTUTTO e il fatto che per un sacco di tempo non riuscivo a trovarti), «proprio perché desideravo informarti dell’accaduto».
D. Vale quanto detto per C: la concessiva è strettamente legata alla reggente, e dunque la virgola è superflua, a meno che non vi sia un contesto particolare che richieda la focalizzazione di «Continuo ad ascoltarti». La virgola, in questo caso, sottolinea tanto la mia pazienza quanto la tua incoerenza.
E. Come sopra: la causale è fortemente solidale con la reggente, che ne rappresenta l’effetto, dunque la virgola è superflua, a meno che non si voglia focalizzare la punizione.
F. Come B, a meno che non si voglia focalizzare il complemento di tempo, per esempio in contrasto con un altro momento della giornata (focalizzazione contrastiva): «Domattina, mi recherò in banca, e non oggi pomeriggio».
G. Qui la virgola è sbagliata, perché la relativa è limitativa: cioè non le ho regalato una rosa qualsiasi, ma una gialla, e dunque quel che segue la reggente non è un’informazione accessoria, bensì costitutiva per la designazione dell’oggetto di cui si sta parlando (cioè l’antecedente del pronome relativo: «una rosa»). Diverso sarebbe il caso di «Le regalai una rosa, che è il suo fiore preferito»: in questo caso la relativa è appositiva, o esplicativa, cioè non delimita una rosa particolare, perché tutte le rose sono, o meglio la rosa in genere è, il suo fiore preferito; in quanto tale, questo tipo di relativa non è necessaria ai fini dell’identificazione dell’antecedente, ma aggiunge una caratteristica accessoria, e come tale è di norma (con qualche eccezione) separata dall’antecedente con una virgola.
H. La virgola è facoltativa, soprattutto se si vuole disambiguare il nome, fugando il dubbio che si tratti di un certo signor Schelling (di nome) e Hegel (di cognome). Naturalmente in questo caso l’equivoco è altamente improbabile, ma un caso come: «A Gianni Rossi diede ragione» potrebbe lasciare il lettore spiazzato per qualche secondo, senza virgola tra Gianni e Rossi.
Fabio Rossi
QUESITO:
“L’artista non si aspettava che la mostra avesse un grande successo e rimase stupito nel vedere i visitatori”.
Qual è la corretta analisi logica e del periodo della seguente frase?
RISPOSTA:
L’analisi logica delle proposizioni contenute in questo periodo è molto semplice, tranne che per il sintagma avesse un grande successo, che merita un discorso a parte.
L’artista: soggetto.
Non si aspettava: predicato verbale.
La mostra: soggetto.
Avesse: predicato verbale.
Un grande successo: complemento oggetto con attributo.
Rimase: predicato verbale (verbo copulativo).
Stupito: complemento predicativo del soggetto.
Vedere: predicato verbale.
I visitatori: complemento oggetto.
In avesse un grande successo, a ben vedere, il verbo avere è un verbo supporto; serve, cioè, a comporre un unico significato insieme al sintagma nominale che lo accompagna. Analizzarlo separatamente da quest’ultimo, pertanto, è una forzatura. Alcuni costrutti a verbo supporto hanno un verbo equivalente, come, ad esempio, fare il proprio ingresso, che equivale a ‘entrare’, o dare ascolto, ovvero ‘ascoltare’. Altri non sono “traducibili” con un unico verbo, come avere paura, avere successo, farsi la doccia e tanti altri. Un modo meno superficiale per analizzare avesse un grande successo è, quindi: costrutto / espressione a verbo supporto con attributo.
Analisi del periodo:
L’artista non si aspettava: proposizione principale.
Che la mostra avesse un grande successo: proposizione subordinata di primo grado oggettiva esplicita.
E rimase stupito: proposizione coordinata alla principale.
Nel vedere i visitatori: proposizione subordinata (alla coordinata alla principale) di primo grado implicita. Il valore di questa proposizione è a metà tra causale (‘perché vide i visitatori’) e temporale (‘quando vide i visitatori’).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se scrivessi “Vengo con un obiettivo preciso”, si potrebbe considerare con un obiettivo, secondo la classificazione classica, un complemento di unione?
RISPOSTA:
Il complemento di unione indica un oggetto insieme al quale una persona svolge un’attività. Logicamente, è del tutto assimilabile al complemento di compagnia, dal quale si distingue solamente perché, diversamente da quest’ultimo, che si riferisce a persone, si riferisce a oggetti inanimati. Ad esempio, in “Gioco con un amico” con un amico è un complemento di compagnia; in “Cammino con l’ombrello” con l’ombrello è un complemento di unione.
Ciò detto, con un obiettivo può essere considerato un complemento di unione solo se immaginiamo il soggetto impegnato nell’azione del venire insieme all’obiettivo preciso. Questa ricostruzione mi sembra tradire il vero senso della frase, che indica, piuttosto il fine con cui il soggetto compie l’azione del venire. La frase, insomma, si può parafrasare così: ‘Vengo per realizzare un obiettivo preciso’; con un obiettivo, pertanto, è un complemento di fine.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Se è vero che le forme dei pronomi possessivi corrispondono a quelle degli aggettivi e sono SEMPRE precedute da articolo, nella frase “Queste penne sono mie” qual è l’analisi grammaticale di mie?
RISPOSTA:
Nella sua frase mie è un aggettivo con funzione predicativa (completa, insieme alla copula, il predicato nominale). Per coglierne più chiaramente la natura di aggettivo, e la differenza con il pronome corrispondente, si possono fare le seguenti sostituzioni:
a. “Queste penne sono mie” = “Queste penne sono di mia proprietà” = “Queste penne mi appartengono”;
b. “Queste penne sono le mie” = “Queste penne sono quelle di mia proprietà” = “Queste penne sono quelle che mi appartengono”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La concordanza al plurale maschile dell’aggettivo, in relazione a soggetti o complementi di genere e numero diversi, è applicabile a elementi collegati dalla negazione né o dalla congiunzione o?
“Nessuno dispone (né) di competenze né di tempo sufficienti per gestire l’attività”.
“Mi porteresti un quaderno o una penna gialli?”
RISPOSTA:
Certamente sì. Le congiunzioni coordinative si comportano, da questo punto di vista, tutte allo stesso modo: i sintagmi coordinati possono essere seguiti da un’attribuzione che li comprende. Lo stesso vale per la predicazione: “Né la pasta né il pane fanno ingrassare, se mangiati con moderazione”.
Ovviamente, è anche possibile qualificarli in modo distinto: “Preferiresti avere una casa spaziosa in campagna o un appartamento piccolo in città?”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Viveva in un palazzo splendente d’avorio e di porpora” i sintagmi “d’avorio” e “di porpora” a quali complementi corrispondono?
RISPOSTA:
Nella (abbastanza) inutile tipologia dei complementi, raramente è possibile dare una risposta univoca, dal momento che si incrociano il parametro sintattico con quello semantico. Se non ci fosse splendente, nell’esempio in questione, d’avorio e di porpora sarebbero senza dubbio complementi di materia. Essendoci splendente, da cui dipendono i due sintagmi successivi, propenderei per un complemento di limitazione (‘quanto ad avorio’), sebbene non manchi una sfumatura causale (‘per via dell’avorio’).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quali modi e tempi verbali si devono usare nelle proposizioni introdotte da senza che o dopo che nei periodi che sto per scrivervi?
1) Ho visto il documentario senza che io abbia avuto (avessi / avessi avuto) la possibilità di fare una pausa. (P. S. E se sostituissimo il passato prossimo della principale con il passato remoto, come si costruirebbe la subordinata?)
2) È andato in vacanza senza che io ne fossi stato informato.
3) Finiranno le ferie senza che avrò avuto (abbia avuto) la possibilità di riposare.
4) Gli esperimenti sarebbero eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / sarebbero state) completate.
5) Gli esperimenti saranno eseguiti dopo che le prove fossero (fossero state / siano state / saranno state) completate.
RISPOSTA:
La scelta del tempo del congiuntivo migliore per le subordinate nelle frasi da lei proposte dipende in parte dalla consecutio temporum, in parte dalla logica.
Nella frase 1) tutte le varianti sono da scartare, in favore della costruzione implicita: “Ho visto il documentario senza avere / avere avuto la possibilità di fare una pausa”. L’identità di soggetto tra la reggente e la subordinata consiglia, e a volte richiede, tale costruzione. Se, invece, modifichiamo la frase in modo che i soggetti delle due proposizioni siano diversi (ad esempio “Hai cambiato canale senza che io abbia potuto / potessi / avessi potuto chiederti di non farlo”), la situazione cambia completamente e tutte le varianti diventano possibili. La scelta tra l’una e l’altra dipende dal rapporto temporale che vogliamo stabilire tra i due eventi, il cambiamento di canale e la richiesta di non cambiare canale, nonché dall’aspetto che vogliamo attribuire al tempo della richiesta. Il congiuntivo passato stabilisce un rapporto di contemporaneità e attribuisce un aspetto momentaneo alla richiesta, mette, cioè, in evidenza che l’azione si è (o, in questo caso, non si è) verificata in quel preciso momento, contemporaneo rispetto all’azione del cambiare canale. L’imperfetto instaura lo stesso rapporto di contemporaneità nel passato con il verbo della reggente, ma ha un aspetto durativo, quindi comunica che l’azione non si è verificata in un lasso di tempo all’interno del quale è avvenuta l’azione del cambiamento di programma. Il trapassato, più semplicemente, implica che la richiesta non è stata fatta prima del cambiamento di canale (anteriorità nel passato).
Se al posto di hai cambiato mettessimo cambiasti non cambierebbe niente. Lo stesso discorso vale per la frase 2).
Nella frase 3) avrò avuto è da scartare non in quanto tempo, ma in quanto modo indicativo, rifiutato dalla congiunzione senza che. Il verbo reggente della frase è al futuro, che, nell’ambito della consecutio temporum al congiuntivo, si comporta come il presente. I tempi del congiuntivo ammissibili sono, pertanto, il passato per l’anteriorità e il presente per la contemporaneità e la posteriorità. A questo punto, entra in gioco la logica: è chiaro che la possibilità di riposare si sia manifestata prima della fine delle vacanze, non contemporaneamente a essa, né, a maggior ragione, dopo. L’unica possibilità, pertanto, è quella da lei stessa prospettata, con il congiuntivo passato: “Finiranno le ferie senza che abbia avuto la possibilità di riposare”. In una frase dal contenuto diverso, il presente sarebbe stato senz’altro possibile, o addirittura preferibile; ad esempio: “L’allarme suonerà senza che i ladri se ne accorgano”.
Nella frase 4) il verbo reggente è condizionale presente; in questo caso abbiamo due possibilità: se costruiamo il periodo come un periodo ipotetico (quindi assimiliamo dopo che a se), la forma del verbo corretta nella subordinata è il congiuntivo imperfetto fossero completate, proprio della protasi del periodo ipotetico della possibilità. Se, invece, consideriamo il condizionale sarebbero eseguiti come una variante di cortesia dell’indicativo presente, quindi diamo alla congiunzione dopo che pieno valore temporale, per cui sottolineiamo il rapporto temporale di anteriorità dell’evento della subordinata rispetto a quello della reggente, presente, sceglieremo il congiuntivo passato siano state completate, coerentemente con la consecutio temporum.
Per quanto riguarda saranno eseguiti nella frase 5), infine, ribadiamo che il futuro nella consecutio temporum si comporta come il presente, quindi la forma del verbo della subordinata sarà il congiuntivo passato siano state completate (anteriorità rispetto al presente o al futuro). In realtà, dopo che non seleziona obbligatoriamente il congiuntivo (diversamente da senza che, ma anche da prima che): non è da escludere, pertanto, il futuro semplice saranno completate, né quello composto saranno state completate, che instaurano con il futuro della reggente un rapporto di anteriorità o contemporaneità specificamente nel futuro, impossibile da rappresentare al congiuntivo, per la mancanza di un tempo futuro in quel modo. Come sempre, la variante con l’indicativo è più comune, ma meno formale; decisamente sciatta, ma pur sempre possibile, è anche quella con il corrispondente indicativo di siano state completate, il passato prossimo sono state completate (lo stesso vale per la frase 4). Le altre forme sono da scartare.
Fabio Ruggiano
DOMANDA
Gentilissimi professori, sottopongo alla vostra analisi le seguenti frasi lette di recente:
a. Proprio ieri mi hanno domandato se era vero che due mesi fa ho incontrato il mio socio.
b. L’alunno si è ammalato ieri e starà a casa fino alla prossima settimana. È un vero peccato: la prossima settimana sarebbe stato in gita per due giorni.
c. Tutte le donne presenti, a quelle parole, si toccarono la bocca.
d. Quando eravamo piccoli si cantava le canzoni. Oggi si hanno i minuti contati.
Esempio a: non pensate che il secondo passato prossimo ho incontrato debba essere sostituito dal trapassato prossimo? Forse sbaglio, ma mantenerlo, come nell’esempio, non significherebbe situare l’azione di due giorni fa sullo stesso piano temporale di ieri?
Esempio b: se avessimo sostituito sarebbe stato con avrebbe dovuto essere o doveva essere, avremmo ottenuto costruzioni equivalenti e ugualmente corrette oppure no? Qual è, secondo voi, quella preferibile?
Esempio c: una volta per tutte: la frase è corretta o sarebbe stato meglio declinare al plurale anche il sostantivo bocca? Aggiungo: si dice la cima dei monti o le cime dei monti? la punta delle dita o le punte delle dita? la grammatica ci viene in soccorso con un regola universale per gestire la concordanza oppure ogni caso va analizzato a sé?
Esempio d: se non sbaglio, la prima frase riporta un si riflessivo che sostituisce la prima persona plurale. È sempre tollerato o si tratta di un toscanismo da evitare? La seconda è, invece, sempre se non sbaglio, una costruzione con il si passivante. Come si fa (o fanno???) a conoscere i casi in cui il si riflessivo è da preferire al si passivante e viceversa?
RISPOSTA
a. Entrambe le varianti sono possibili; il passato prossimo indica semplicemente che l’incontro è avvenuto nel passato rispetto al momento dell’enunciazione (adesso), il trapassato (avevo incontrato) aggiunge il dettaglio che l’incontro è avvenuto prima rispetto a un momento diverso da quello dell’enunciazione, coincidente con quello in cui è stata fatta la domanda. Proprio per questo motivo, se usiamo il trapassato prossimo, dobbiamo cambiare anche il complemento di tempo relativo a quell’evento, da due mesi fa a due mesi prima: l’avverbio (originariamente una forma verbale) fa, infatti, può riferirsi solamente al momento dell’enunciazione.
Va detto che, sebbene il passato prossimo ho incontrato sia formalmente equivalente al passato prossimo hanno domandato, non bisogna pensare che i due eventi siano rappresentati come contemporanei: essi sono, piuttosto, rappresentati entrambi come passati, senza una relazione reciproca esplicita. Tale relazione, peraltro, si ricava chiaramente dai complementi di tempo, ieri e due mesi fa.
b. La variante con il verbo servile non cambia molto dal punto di vista sintattico, ma aggiunge, ovviamente, una sfumatura semantica potenziale. La costruzione con l’imperfetto del verbo dovere dal punto di vista semantico presenta l’evento della gita come già stabilito, dal punto di vista sintattico è meno formale, sebbene molto comune.
c. Il singolare è la forma più attesa, sebbene il plurale non sia scorretto. Il singolare suggerisce che ognuno dei soggetti toccò la sua bocca; il plurale specifica che le bocche sono più di una, come i soggetti che le toccano (una specificazione, ovviamente, superflua).
Una considerazione simile si può fare per la punta delle dita, con la differenza che le dita sono più di una per ogni persona (diversamente dalla bocca), quindi la specificazione del plurale è meno superflua: la frase idiomatica sarà sempre “si contano sulla punta delle dita”, ma è del tutto giustificata una frase come “Può capitare di sentire le punte delle dita addormentate” (come anche, del resto, “Può capitare di sentire la punta delle dita addormentata”). Il caso di la cima / le cime dei monti è diverso: le due varianti hanno due significati diversi. La cima dei monti indica il punto più alto di una catena montuosa; le cime dei monti indica la cima di ognuno dei monti considerati. Come si può vedere, più che una questione di grammatica, qui è in gioco la logica.
d. La costruzione noi si cantava non è passiva, bensì impersonale; indica, infatti, che l’azione è compiuta da un soggetto imprecisato, non che essa ricade sul soggetto stesso. L’esplicitazione del soggetto di prima persona plurale, tipica della Toscana, ma ben attestata nella tradizione letteraria in italiano, sembra confliggere con l’impersonalità del costrutto, ma in realtà bisogna ricordare che i costrutti sintatticamente impersonali sottintendono sempre un soggetto logico. Anche il secondo si è impersonale, e infatti sottintende il soggetto logico noi: “Oggi si hanno i minuti contati” equivale a “Oggi abbiamo i minuti contati”, oppure a “Oggi tutti hanno i minuti contati”. Anche in “Come si fa a conoscere i casi”, si fa è impersonale (equivalente a facciamo). La costruzione “Come si fanno a conoscere i casi”, pertanto, è scorretta, sebbene molto diffusa in contesti informali; è indotta dall’attrazione esercitata dal complemento oggetto plurale i casi sul verbo fare, come se proprio i casi fosse il soggetto di fare (infatti nessuno direbbe mai *”Come si fanno a conoscere il caso”).
La prego, per il futuro, di mandarci una domanda alla volta. Le domande complesse ci mettono in difficoltà perché non si possono classificare con precisione per l’archivio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho il seguente dubbio: è più corretto dire costruzioni in calcestruzzo o di calcestruzzo? Struttura in legno o di legno? Nella mia attività di ingegnere civile ho potuto notare che nei testi normativi (es. Norme Tecniche per le Costruzioni, 2018) prevale l’uso della preposizione di, mentre nei manuali e nel linguaggio parlato è molto più diffusa la preposizione in. La mia domanda è: sono corrette entrambe? Se sì, qual è la differenza?
RISPOSTA:
Nell’uso comune è difficile individuare una distinzione funzionale tra le preposizioni di e in nel complemento di materia. Una differenza di fondo, però, c’è e dipende dalla semantica delle due preposizioni. Il complemento di materia è costruito con di quando la materia è intesa come una delle qualità di un oggetto; diversamente, può essere costruito con in quando si vuole attirare l’attenzione sulla materia usata per costruire l’oggetto. Così, ad esempio, una statua di legno è una statua che, tra le altre qualità, possiede quella di essere fatta di legno; una statua in legno è una statua di cui si vuole sottolineare che è stata scolpita nel legno. Non a caso, la preposizione in è preferibilmente preceduta dall’azione che indica il processo usato per realizzare l’oggetto (statua scolpita in legno (ma non *statua scolpita di legno), e, anche quando non lo sia, lo sottintende.
La preposizione in, di conseguenza, è preferita nei cataloghi d’arte, nei registri, negli inventari, che hanno interesse a enfatizzare il materiale costitutivo degli oggetti, in quanto distintivo; è ovvio, inoltre, che è tipica degli oggetti realizzati con materiali preziosi. Quando si tratta di strutture edili, nelle quali i materiali sono standard e persino obbligati dalla normativa, l’uso di in non è quasi mai giustificato; lo diventa nel caso in cui si voglia enfatizzare il materiale con cui una struttura è stata costruita: costruzioni in calcestruzzo, ad esempio, equivale a costruzioni realizzate in calcestruzzo (e non in acciaio o altro).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Eventualmente ti avverto io”, l’avverbio eventualmente che valore ha sul piano dell’analisi logica? Qual è la funzione logica degli avverbi di valutazione (ovviamente, certamente ecc.)?
Nella frase “La data del mio esame coincide con quella del mio compleanno”, con quella che complemento è?
RISPOSTA:
L’avverbio eventualmente non è inquadrabile in una categoria di complementi, perché modifica non il predicato verbale o un predicato nominale contenuti nella proposizione, bensì l’intera proposizione. Gli avverbi che hanno questa funzione sono detti frasali, nel senso che appartengono al rango della frase, non a quello della proposizione. Non a caso, eventualmente può essere trasformato in una proposizione reggente: “È possibile che ti avverta io”. Lo stesso si può dire per gli altri avverbi che modificano il valore di verità dell’enunciato espresso dalla proposizione (ovviamente, certamente, forse ecc.).
Nel secondo esempio, con quella è assimilabile a un complemento di paragone; la frase, infatti, equivale a “La data del mio esame è la stessa di quella del mio compleanno”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Luca si distingue da Paolo” da Paolo che complemento sarebbe?
RISPOSTA:
Complemento di allontanamento o separazione.
QUESITO:
Dovendo scrivere una frase informale, tipo: “Di più di tutto ho l’orgoglio”, è scorretto inserire di prima di più? Cioè dovrei scrivere “Più di tutto ho l’orgoglio”, oppure si può accettare anche la frase: “Di più di tutto ho l’orgoglio”?
RISPOSTA:
La scelta tra più e di più può essere ricondotta a ragioni sintattiche e semantiche. Rispetto a più, di più si usa in modo assoluto (“Ne voglio di più”) o quasi assoluto (“Oggi i voli aerei sono di più di/rispetto a 10 anni fa”). Nel suo caso, la costruzione è una vera e propria comparazione, che non richiede di più, ma il semplice più. Per provarlo, proviamo a escludere dalla sua frase il secondo termine di paragone: “Di più ho l’orgoglio”; come si vede, viene meno il senso. Al contrario, se escludiamo il secondo termine di paragone dall’esempio precedente, “Oggi i voli aerei sono di più”, la frase rimane sensata. Ci sono casi in cui vanno bene entrambi gli avverbi, ma l’uso dell’uno o dell’altro modifica il senso della frase: “Oggi i voli aerei sono più di 10 anni fa”, ad esempio, è ben formata; rispetto alla costruzione con di più, più instaura nettamente il confronto con il secondo termine di paragone, che diviene un completamento necessario (così come di tutto è necessario per completare la costruzione nella sua frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si dice “Tanti auguri Rosalba!” o “Tanti auguri, Rosalba!”, “Tanti auguri, professoressa!” o “Tanti auguri professoressa!”?
RISPOSTA:
Il complemento di vocazione è, in questo caso come in tutti gli altri, tematicamente e prosodicamente separato dal predicato, quindi è bene farlo precedere, ma anche seguire, dalla virgola. Tematicamente è separato in quanto rappresenta un’informazione secondaria, un’aggiunta; prosodicamente perché nel parlato lo racchiudiamo tra due pause. Qualche esempio letterario (che rispecchia espressioni molto comuni): “Sicché tanti, tanti auguri, Gigi mio! Salutami la tua mammina e dalle un bacio per me!” (Carlo Emilio Gadda, Novelle dal ducato in fiamme, 1953); “Mo’ me ne devo andare, poi oggi vi faccio venire a spolverare da Assunta, eh? Tanti auguri, papà, e buon anno” (Giuseppe Montesano, Nel corpo di Napoli, 1999); “Auguri, Federì. Tornò a casa fuori di sé per la gioia” (Domenico Starnone, Via Gemito, 2001).
La mancanza della virgola prima e dopo il complemento di vocazione è una pecca che diminuisce la precisione dello scritto, a meno che non dipenda da una scelta espressiva, ad esempio la mimesi di un’enunciazione concitata in un contesto letterario.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “il libro è un regalo per la città” potrebbe contenere sia un complemento di vantaggio che uno di
limitazione?
Le espressioni come “per gentilezza”, “per piacere” sono complementi di esclamazione oppure complementi di fine?
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima frase, l’interpretazione più immediata, e probabilmente quella più aderente all’intento dell’emittente, è di complemento di vantaggio: ‘il libro è un regalo che avvantaggia la città’. Per la città potrebbe essere un complemento di limitazione in un contesto (o meglio co-testo, perché si tratta di un ampliamento della stessa frase) del genere: “Il libro è un regalo per la città, ma un danno per la nazione”; in questo caso, per la città prenderebbe, appunto, il significato di ‘limitatamente alla città’.
Anche per gentilezza o per piacere devono essere valutati in relazione al co-testo, considerando, in questo caso, la forte cristallizzazione delle espressioni: in una frase come “Te lo chiedo per piacere” è ancora attivo il valore di complemento del sintagma; tale complemento si può identificare come di fine (‘ti chiedo di fare ciò perché tu mi faccia un piacere’) o di predicativo dell’oggetto (‘ti chiedo di fare ciò come / in qualità di piacere’). Diversamente, in una frase come “Per piacere, smettila”, lo stesso sintagma ha una funzione quasi del tutto assimilabile a un’interiezione, quindi a un complemento esclamativo, nella quale si scorge una sottile sfumatura finale (‘smettila per farmi un piacere’). Infine, quando l’espressione è usata da sola (“Per piacere!”), per manifestare disappunto o fastidio, il valore di fine si perde del tutto, in favore della funzione esclamativa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Maria è più bella oggi di ieri” abbiamo ugualmente un comparativo di maggioranza? Cioè, in questo caso, quali sono i termini di paragone?
Anche la frase “Ha bisogno di più entusiasmo” si può considerare un comparativo?
RISPOSTA:
Nella frase “Maria è più bella oggi di ieri” la comparazione si instaura tra i due avverbi oggi e ieri. Si tratta, a ben vedere, di una costruzione sintetica, che consente di evitare una ripetizione: la frase completa (ma ridondante) sarebbe, infatti, “Maria è più bella oggi di quanto era bella ieri”. Questa espansione ci mostra che i due termini di paragone sono, in realtà, le due proposizioni che formano la frase: la principale “Maria è più bella oggi”, e la subordinata, detta comparativa di maggioranza, “di quanto era bella ieri”. Aggiungo che questa subordinata ammette anche il congiuntivo (“di quanto fosse bella ieri”), come soluzione più formale ed elegante.
La frase “Ha bisogno di più entusiasmo” presenta una situazione simile: il secondo termine di paragone, sottinteso, è riconoscibile in una proposizione come “di quanto ne abbia adesso”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
RISPOSTA:
Se la frase fosse “Questa giornata è da sogno”, da sogno sarebbe parte nominale. Coerentemente, nella sua frase, una giornata da sogno deve essere considerato tutto parte nominale (come se dicessimo una giornata meravigliosa, o splendida, o simili).
Non sono molti i complementi che si possono agganciare al nome del predicato; un complemento che si può trovare in questa posizione è quello di specificazione: “Luca è appassionato di corse”. Più comune è, invece, l’ampliamento del nome del predicato tramite una proposizione relativa, come quella da lei presentata nella sua seconda frase: da dimenticare, infatti, corrisponde a ‘che deve essere dimenticata’, una forma di proposizione relativa implicita con un senso di obbligo (tecnicamente deontico). Con questo costrutto, formato dalla preposizione da + l’infinito, l’italiano recupera una forma verbale-nominale latina scomparsa, il gerundivo, di cui abbiamo conservato solamente qualche relitto nominalizzato: laureando ‘che si deve laureare’, agenda ‘ cose che devono essere fatte, cose da farsi’, nubendo ‘che si deve sposare’, reprimenda ‘cose che devono essere represse, cose da reprimere’ ecc.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Questo vino è per intenditori” origina un complemento di limitazione, oppure si tratta di un complemento di vantaggio? Forse le etichette dei complementi anche in questi casi non possono soddisfare del tutto.
RISPOSTA:
Più volte abbiamo lamentato l’inadeguatezza delle categorie dell’analisi logica per spiegare le relazioni sintagmatiche, e soprattutto per spiegare come usarle per comporre il testo in modo chiaro ed efficace. Detto questo, però, cerchiamo di usare al meglio questo quadro interpretativo, ancora dominante nella scuola.
Nessuno dei complementi da lei ipotizzati calza con questo caso. Se considerassimo per intenditori complemento di limitazione la frase significherebbe che il vino esiste solamente per quanto è a conoscenza degli intenditori, qualcosa come “Per gli intenditori, questo vino esiste” (e si noti che senza l’articolo gli davanti a intenditori non è proprio possibile formulare questa ipotesi. Se lo considerassimo complemento di vantaggio avremmo come conseguenza che il vino sarebbe a vantaggio degli intenditori; una bizzarria logica. L’assenza dell’articolo, inoltre, rende difficile anche questa interpretazione. Bisogna rilevare, invece, che per intenditori equivale a un aggettivo (raffinato, sofisticato, complesso o simili): il sintagma va, pertanto, equiparato a un nome del predicato, che, insieme al verbo essere in funzione di copula, forma un predicato nominale. L’assenza dell’articolo davanti a intenditori suggerisce proprio che l’espressione si sia cristallizzata, cioè sia diventata un tutt’uno, quasi una singola parola (i linguisti chiamano queste parole fatte di più parole unità polirematiche ).
Se invece di per intenditori avessimo per gli intenditori, il sintagma sarebbe meglio descritto come complemento di fine, come se la frase significasse ‘questo vino è fatto per essere apprezzato dagli intenditori (e probabilmente solo da loro)’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Lascialo stare” si può analizzare nel seguente modo:
Tu: soggetto sottinteso;
lascia stare: predicato verbale;
lo: complemento di termine?
RISPOSTA:
La costruzione fare oppure lasciare + infinito è detta causativa (e i due verbi sono detti causativi o fattitivi). Tale costruzione comporta che ci siano due agenti coinvolti, uno (che possiamo chiamare iniziatore) che induce l’altro (che possiamo chiamare esecutore) a fare qualcosa. Sebbene la costruzione sia composta di due verbi, essa si comporta come un tutt’uno e va, pertanto, considerata come un’unica proposizione. La prova di questo è nella posizione presa dal pronome clitico che rappresenta l’oggetto del secondo verbo; in una frase come “Faglielo dire”, ad esempio, lo si riferisce all’oggetto del verbo dire, ma, come si vede, si unisce al verbo causativo.
Analizzare costrutti come questo con le categorie dell’analisi logica è difficile, perché il complemento oggetto del primo verbo è allo stesso tempo il soggetto del secondo. Nel suo esempio, ad esempio, lo è il complemento oggetto (non il complemento di termine) di lascia, ma anche il soggetto di stare. Se vogliamo rimanere entro i limiti dell’analisi logica, dobbiamo ignorare questo fatto e considerare lo semplicemente complemento oggetto.
La sua confusione tra complemento oggetto e complemento di termine non è casuale. Quando sia l’esecutore sia l’oggetto del secondo verbo sono espressi, infatti (nel suo caso non sarebbe comunque possibile perché stare non può reggere un complemento oggetto), il primo si costruisce con la preposizione a, come se fosse un complemento di termine (sebbene tecnicamente non lo sia), per distinguerlo dal secondo: si confronti, ad esempio “Lascia vincere Luca” con “Lascia vincere a Luca la partita”.
Per un approfondimento, rimando sia alle altre risposte sull’argomento presenti nell’archivio di DICO (basta inserire il termine causativ* nel campo search) sia all’ottimo articolo di Raffaele Simone nell’Enciclopedia dell’italiano Treccani, consultabile a questo indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/costruzione-causativa_(Enciclopedia-dell’Italiano)/.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “per essere grande di età, sembra più giovane”; ” per essere grande di età “, si può considerare complemento di limitazione?
RISPOSTA:
Dato che, nella frase in questione, per regge un verbo, di modo infinito, non si tratta di un complemento, bensì di una proposizione subordinata implicita, in questo caso una concessiva. Infatti, come corrispettivo esplicito, basterebbe pensare a un esempio del genere: “sebbene sia grande di età, sembra più giovane”. Un altro uso simile di per introduttore di concessiva, stavolta esplicita, è il seguente: “per grande che sia di età, sembra più giovane”. Per può introdurre anche le subordinate limitative implicite, ma con altro valore semantico. Per es.: “per essere grande, è grande”. La differenza semantica tra la limitativa e la concessiva è evidente dagli esempi citati: nella limitativa, la principale conferma l’ambito della subordinata (un equivalente, più o meno, con un complemento di limitazione sarebbe il seguente: “quanto all’età, è grande”), mentre, nella concessiva, la principale è in certo qual modo controfattuale rispetto alla subordinata, cioè la smentisce (un equivalente con un complemento sarebbe il seguente: “nonostante l’età elevata, sembra più giovane”).
Fabio Rossi
QUESITO:
Gent.mo DICO,
nella frase “Che vuoi?”, il pronome interrogativo che svolge la funzione di soggetto. Se dovessi scrivere “Tu che vuoi?” diventa ridondante tu? Oppure cambiano le funzioni nella frase di che?
Un cordiale saluto!
RISPOSTA:
Nella sua frase il pronome che funge da complemento oggetto, sia che il soggetto sia espresso, sia che sia implicito. Per interpretarlo correttamente, basterebbe immaginare la risposta alla domanda:
– Che vuoi (tu)?
– (Io) voglio un pallone nuovo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Salve, vorrei sapere se nell’espressione “La scuola è ricominciata” il verbo essere più il participio formano un predicato nominale. Inoltre chiedo: come faccio a capire in modo chiaro quando il participio ha funzione aggettivale o forma, insieme al verbo un predicato verbale?
RISPOSTA:
Nella sua frase il verbo è ricominciata è da interpretarsi come predicato verbale, perché esprime il risultato di un processo, come se dicesse ‘la scuola ha concluso il processo di riapertura’, ovvero ‘la scuola ha riaperto’. La funzione verbale del participio è predominante ma non netta in questo caso: è sempre possibile, infatti, ma un po’ forzato, interpretare la frase come ‘la scuola si trova nello stato di essere ricominciata’. Insomma, ricominciata sarebbe identificabile come aggettivo, quindi come parte nominale di un predicato (nominale, appunto), se esprimesse una caratteristica, anche circostanziale, della scuola.
È più facile distinguere tra la funzione nominale-aggettivale e quella verbale del participio con i verbi transitivi, perché ammettono il complemento di agente/causa efficiente. Per esempio, in “Lucia ha i capelli mossi” mossi è un aggettivo e ha la funzione di complemento predicativo, mentre in “Lucia ha i capelli mossi dal vento” si coglie distintamente, grazie al complemento di causa efficiente, la natura verbale del participio. In questo caso, infatti, “mossi dal vento” va interpretata come proposizione relativa implicita, come se fosse ‘che sono mossi dal vento’. Allo stesso modo, in “Il mare è mosso oggi” è mosso è predicato nominale; in “Il mare è mosso dalle onde” è mosso è predicato verbale. Attenzione: se dicessi “Il mare è mosso a causa delle onde”, mosso rimarrebbe comunque aggettivo.
Oltre alla presenza del complemento di agente/causa efficiente, si può stabilire se un participio è più nominale o più verbale provando a sostituire il verbo essere con venire: “Il mare è mosso dalle onde” può ben essere costruita come “Il mare viene mosso dalle onde”, mentre “Il mare è mosso oggi” non funziona bene come “Il mare viene mosso oggi”. Il verbo venire, cioè, rende obbligatoria l’interpretazione del participio come verbale, quindi se dicessi “Il mare viene mosso oggi” implicherei che c’è un agente che lo muove, anche se non lo sto esplicitando. Così “La casa viene abbandonata in questo momento” non lascia dubbi sul fatto che si tratti di un processo in corso (quindi viene abbandonata è un predicato verbale), mentre “La casa è abbandonata in questo momento” può essere interpretata esattamente come la versione con viene, ma anche come ‘La casa si trova in stato di abbandono in questo momento’ quindi è abbandonata può essere tanto predicato verbale quanto nominale.
Come detto, i verbi intransitivi sono più opachi da questo punto di vista: pur senza escludere la fumosità del limite tra verbale e nominale nella natura del participio, però, è sempre possibile, con un’attenta analisi, almeno propendere per l’una o per l’altra funzione. Per aggiungere un altro esempio al suo, si veda questo: “Luca è un creativo: è andato all’accademia d’arte” indica che il soggetto ha compiuto l’azione di andare (è parafrasabile con “Luca ha frequentato l’accademia d’arte”); “Luca è un creativo: è andato di testa” indica che il soggetto si trova in un certo stato (è parafrasabile con “Luca è matto”).
A margine, visto che domande su questo argomento sono già state poste a DICO, le consiglio di leggerle, con le relative risposte, nel nostro archivio, cercando “participio”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ciao DICO: “Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni?”
RISPOSTA:
Il pronome si può assumere diverse funzioni, a volte non facili da distinguere. Nel suo esempio (“Si vive i propri giorni” o “si vivono i propri giorni”), la funzione potrebbe sembrare quella di rendere il verbo impersonale (sarebbe, quindi, un si impersonale). Si deve rilevare, però, che il verbo vivere è usato qui come transitivo, con il complemento oggetto espresso: per semplicità, potremmo assimilare la frase a “Tutti vivono i propri giorni”. In questi casi (con un verbo transitivo e il suo complemento oggetto espresso), il si impersonale è interpretato in italiano moderno come si passivante, cioè come particella che rende il verbo passivo. A causa di questa interpretazione, il complemento oggetto diviene il soggetto del verbo; la sua frase, pertanto, è assimilata di fatto, più che a “Tutti vivono i propri giorni” a “I propri giorni sono vissuti da tutti”. Ne consegue che, se il complemento oggetto (divenuto il soggetto) è plurale, il verbo deve essere plurale. Per inciso, se il complemento oggetto fosse singolare, la funzione del si rimarrebbe ambigua tra impersonale e passivante: “Si vive una vita sola” potrebbe essere assimilata tanto a “Tutti vivono una vita sola” quanto a “Una vita sola è vissuta”. Ovviamente, però, proprio il fatto che con il complemento oggetto plurale il verbo è interpretato come passivo fa propendere per una interpretazione passiva anche con il singolare.
Si noti anche che se il complemento oggetto non è espresso (quindi anche con i verbi intransitivi) il si è sempre impersonale (e il verbo, di conseguenza, sempre alla terza persona singolare): “Oggi si muore di caldo”, ma anche “Si vive una volta sola”, in cui una volta sola è un complemento di tempo determinato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Stamattina ho consigliato per iscritto ad un collega di non sovrappore le immagini che mostra agli allievi. Ho scritto: “Non si deve sovrapporre le immagini…”. Poi ho avuto un dubbio: forse era meglio scrivere “Non si devono sovrappore le immagini…”.
Ora, vorrei chiedere al linguista: sono corrette entrambe le frasi? Oppure la prima è sbagliata?
DOMANDA:
Un quesito del tutto sovrapponibile a questo è stato già posto: può leggere qui.
In breve, quando il verbo preceduto da si è transitivo e ha il complemento oggetto espresso, la costruzione è assimilata a una frase passiva, nel suo caso “le immagini non devono essere sovrapposte”. Il verbo, pertanto, deve essere plurale.
Questo vale per l’italiano moderno, mentre in passato potevano esistere frasi come “Qui si serve bevande”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Buongiorno, mi è sorto un dubbio sulla concordanza tra soggetto e verbo, la frase: “la sua opera più importante, I Promessi sposi, è/sono il tentativo riuscito di realizzare una letteratura nazionale popolare”.
RISPOSTA:
Decisamente meglio il verbo al singolare (è), che si accorda con il soggetto “la sua opera”, mentre “I promessi sposi” è apposizione: “La sua opera più importante, I promessi sposi, è il tentativo” ecc.. Esistono, in italiano, numerosi casi di concordanza a senso, ma sarebbe meglio ridurli al minimo e soprattutto ad ambiti informali. L’ambito d’uso e il registro stilistico di un compito scolastico sono formali, pertanto eviterei esempi come: “la maggior parte delle persone pensano”, “l’opera I promessi sposi sono” ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Buonasera, vorrei un chiarimento. Nella seguente frase: “L’albero è fiorito”, “è fiorito” è predicato verbale (passato prossimo di fiorire) o è predicato nominale (fiorito participio con valore di aggettivo)? Nelle frasi: “La finestra è chiusa”, “Il quadro è appeso”, “Il vetro è rotto”, il verbo essere
+ i participi passati, intesi come aggettivi, formano un predicato nominale o altro?
RISPOSTA:
La sua domanda riguarda un dubbio fondamentale dell’italiano. Tendenzialmente, il participio (che, come ben mostra la sua etimologia, è una forma ibrida, che “partecipa” della natura del verbo e di quella aggettivale-nominale) ha uno scarsissimo peso verbale, a meno che non sia accompagnato da un ausiliare o da un complemento d’agente. In tutti gli altri casi, soprattutto laddove gli usi aggettivali corrispondenti siano frequenti (fiorito, truccato, acceso, spento, rotto ecc.), non avrei grossi dubbi nel rispondere che si tratta di predicati nominali e non verbali.
La questione però, come ripeto, è talmente importante e di difficile risoluzione, in italiano, da essere stata già trattato in DICO, per es. in questa domanda, che per comodità qui sotto le incollo:
Dato che manca il complemento d’agente, la risposta più economica e prudente alla sua domanda [“il formo è acceso” è predicato verbale o nominale?] è la seguente: è + aggettivo. In realtà, in casi del genere, ovvero laddove vi è una perfetta identità tra il participio passato e l’aggettivo, non v’è alcuna differenza, dal punto di vista morfologico e sintattico, tra è + aggettivo e forma passiva del verbo. Tuttavia, dato che nella frase da lei citata, se davvero nel contesto non c’era nient’altro (per es.: “il forno era acceso da ore”, “il forno è acceso dal cuoco”, ecc.), nulla sembrerebbe ricondurre l’azione a una componente di agentività, cioè a un qualche tipo di azione compiuta o subita, sembra più prudente interpretarla come copula (verbo essere) più parte nominale (vale a dire l’aggettivo acceso). Si tratta, cioè, di un predicato nominale, anziché di un predicato verbale (come invece sarebbe se la considerassimo forma passiva del verbo accendere).
Sappia, comunque, che il suo dubbio è molto interessante e per niente banale. Anzi, la natura verbale o aggettivale dei participi è un problema ancora non risolto (e forse irresolubile) dai linguisti. La natura del participio è ibrida, tra verbo e aggettivo, e proprio da qui deriva l’etimologia di participio, cioè; ‘che partecipa della natura del verbo e dell’aggettivo’. Quindi, forse, una risposta univoca alla sua domanda non c’è e non può esserci, in assenza di un complemento d’agente o di causa efficiente o di qualche altra specificazione verbale.
Un mio collega, una volta, disse, secondo me a ragione, che chi avesse risolto la questione se il participio fosse più un nome o più un verbo avrebbe vinto il Nobel della linguistica!
Fabio Rossi
QUESITO:
Salve, nella frase il forno è acceso, è acceso è un verbo nella forma passiva oppure acceso è un aggettivo? grazie
RISPOSTA:
Dato che manca il complemento d’agente, la risposta più economica e prudente alla sua domanda è la seguente: è + aggettivo. In realtà, in casi del genere, ovvero laddove vi è una perfetta identità tra il participio passato e l’aggettivo, non v’è alcuna differenza, dal punto di vista morfologico e sintattico, tra è + aggettivo e forma passiva del verbo. Tuttavia, dato che nella frase da lei citata, se davvero nel contesto non c’era nient’altro (per es.: “il forno era acceso da ore”, “il forno è acceso dal cuoco”, ecc.), nulla sembrerebbe ricondurre l’azione a una componente di agentività, cioè a un qualche tipo di azione compiuta o subita, sembra più prudente interpretarla come copula (verbo essere) più parte nominale (vale a dire l’aggettivo acceso). Si tratta, cioè, di un predicato nominale, anziché di un predicato verbale (come invece sarebbe se la considerassimo forma passiva del verbo accendere).
Sappia, comunque, che il suo dubbio è molto interessante e per niente banale. Anzi, la natura verbale o aggettivale dei participi è un problema ancora non risolto (e forse irresolubile) dai linguisti. La natura del participio è ibrida, tra verbo e aggettivo, e proprio da qui deriva l’etimologia di participio, cioè; ‘che partecipa della natura del verbo e dell’aggettivo’. Quindi, forse, una risposta univoca alla sua domanda non c’è e non può esserci, in assenza di un complemento d’agente o di causa efficiente o di qualche altra specificazione verbale.
Un mio collega, una volta, disse, secondo me a ragione, che chi avesse risolto la questione se il participio fosse più un nome o più un verbo avrebbe vinto il Nobel della linguistica!
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase: ” ti fa piacere un caffè”; il verbo fare ha funzione di verbo causativo? Cioè “fa piacere” è un unico predicato?
RISPOSTA:
Sì, indubbiamente fa piacere è un unico predicato, del resto facilmente parafrasabile con un unico verbo: ti va… ?
I linguisti chiamano i costrutti di questo tipo “a verbo supporto”, ovvero con un verbo generico che regge un sostantivo più specifico, che dà il significato proprio del sintagma. A volte, sono più informali dell’equivalente costrutto con il semplice verbo (fare una fotografia o dare un’occhiata o uno sguardo sono più informali, e nel secondo caso con una sfumatura semantica in più, rispetto al semplice fotografare o guardare/badare a), altre volte più formali (dare aiuto, rispetto ad aiutare).
Non lo definirei, però, un uso causativo, dal momento che, di norma, si parla di verbi causativi o fattitivi per quei verbi che indicano un’azione fatta compiere da/ad altri; per es. “mi hai fatto aspettare per ore”; “ti lascio studiare in pace”.
Naturalmente, anche fare piacere, ma in un contesto e in una struttura del tutto diversi, potrebbe avere valore causativo: “se non ti piace la minestra, tua madre te la fa piacere per forza”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Riguardo al sintagma “non è da me”, ho trovato nella grammatica di Serianni la seguente spiegazione: costrutto con valore destinativo-vincolativo, in cui “da” significa ‘che si addice a’.
La mia domanda è questa: non esiste un complemento tipico dell’analisi logica che potrebbe identificarlo?
Mi sembra di capire che per Serianni è solo un costrutto senza etichette di complemento.
Aggiungo una richiesta simile: nella frase “Un comportamento simile non è da lui” il costrutto potrebbe avere un valore di complemento predicativo? Ma come sarebbe l’analisi logica di una frase del genere?
RISPOSTA:
Il valore destinativo-vincolativo attribuito alla preposizione da è un modo per spiegare la semantica di questo connettivo usato in costrutti che indicano una qualità che si addice a qualcuno o a qualcosa. Dal punto di vista dell’analisi logica, questi costrutti vanno ascritti al complemento predicativo del soggetto, che completa il significato del verbo essere nella sua funzione di copula, oppure di qualunque altro verbo copulativo (ad esempio nella frase “Questo comportamento non sembra da lui”). Molte grammatiche distinguono il particolare complemento predicativo retto dal verbo essere, chiamandolo parte nominale, con riferimento al predicato nominale formato con la copula. Si tratta di una distinzione non del tutto giustificata dal punto di vista semantico, o, se vogliamo, logico (nonostante il nome diverso, infatti, il complemento è lo stesso), che serve a distinguere il verbo essere, la copula per eccellenza, dai verbi copulativi, che si comportano come il verbo essere. È, questo, uno dei tanti punti discutibili dell’analisi logica, che rendono questa attività cavillosa e spesso ingannevole.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase: “Nessuna minaccia rilevata”, dal punto di vista dell’analisi logica è corretto dire che minaccia è il soggetto, rilevata il predicato verbale e l’ausiliare è sottinteso?
RISPOSTA:
Nella frase così composta il participio rilevata esprime un valore più nominale che verbale; è, in altre parole, più aggettivo che verbo. In assenza dell’ausiliare (“Nessuna minaccia è stata rilevata”), la struttura della frase sembra assimilabile non a un processo, ma alla presentazione di un fatto: “Non c’è nessuna minaccia rilevata”, o anche: “Nessuna minaccia risulta rilevata”. L’analisi, pertanto, è:
nessuna minaccia = soggetto con attributo; rilevata = complemento predicativo del soggetto.
Per un piccolo approfondimento sulla questione della natura del participio, rimando alla risposta data per DICO dal prof. Rossi ad una domanda analoga.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Salve gentili linguisti, mi sono capitate sotto al naso queste due frasi:
a. *Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene!*
* b. **Se trovi delle paste come quelle che piacciono a me,
compramene alcune!*
Nella frase (b) è esplicito la parola *“alcune*” che è un quantificatore
indefinito. Ma nella frase (a) non c’è alcun quantificatore esplicito.
Volevo domandare:
1. La frase (a) risulta in pratica più generica rispetto alla frase (b)?
2. C’è differenza di significato tra queste due frasi così come sono?
Nel senso che: in questo caso, nella frase (a), la quantità di paste è
ancora più indeterminata e indefinita rispetto alla quantità di paste
menzionata nella frase (b)?
3. Oppure queste due frasi hanno lo stesso significato?
Perché nella frase (a) il quantificatore indeterminato pur non essendo
presente è sotto inteso?
RISPOSTA:
Come abbiamo già più volte risposto (e sviscerato anche in altre sezioni del sito), il ne ha il valore di pronominalizzare sia il partitivo (una parte scelta tra un tutto), sia altri complementi quali argomento (ne parliamo), moto da luogo (ne torno) ecc. Se è chiaro questo concetto, non sarà difficile far rientrare tutti gli altri casi nei casi prototipici già illustrati.
Ma, volendo scendere ancor più nello specifico delle sue ultime domande, possiamo dire che:
1) certamente, anche se manca alcune (come nel primo esempio), il valore partitivo è identico: è come se fosse compramene alcune, e dunque tra le due frasi non c’è alcuna differenza.
2) Compramene, assoluto (cioè senza alcune) è un modo più sorvegliato, in luogo di compramele (dal momento che, in effetti, non si chiede di comprare tutte le paste, ma solo una modica e ragionevole quantità).
Riassumendo: sì, le due frasi sono identiche; no, non c’è alcuna differenza semantica tra le due; sì, nella prima è come se alcune fosse sottinteso. O meglio, dato che nel partitivo ne è già compresa l’idea del partitivo, per l’appunto, non c’è alcun bisogno di alcune, che dunque può esserci come anche mancare.
Fabio Rossi
QUESITO:
Da un libro di grammatica ciò che è tra virgolette. “…Il pronome clitico ne non può rappresentare inoltre una categoria incassata in un sintagma nominale in posizione di soggetto preposto; non possono esserci (204 a-c), se “ne” rappresenta una categoria incassata nel soggetto: (204) a. *La figlia ne ha parlato. b. *Tre ne sono usciti da casa. c. *Una grande ne è bruciata.” Vorrei domandare: cosa significa tutto ciò? Perché le tre frasi sono agrammaticali?Come renderle…
RISPOSTA:
Il comportamento del pronome ne è abbastanza complesso, in italiano. Provo a semplificare il più possibile la spiegazione di quanto detto nella sua grammatica in modo un po’ fumoso.
Il ne può sostituire (incassare, incapsulare) di norma o un complemento oggetto, oppure un soggetto, spesso posposto, di verbi, detti inaccusativi (quali andare, venire, arrivare ecc.: intransitivi con ausiliare essere), nei quali il soggetto tende a comportarsi come un complemento oggetto. E dunque, per esempio: “io mangio due mele”: “io ne mangio tre” (ne pronominalizza il compl. oggetto mele); “arrivano tre miei cugini”: “ne arrivano tre” (il “ne” pronominalizza il soggetto miei cugini); ma in un esempio come: “due persone mangiano”, io non posso pronominalizzare il soggetto con ne (“ne mangiano due”), perché in questo caso ne lascerebbe supporre la presenza di un oggetto (“ne mangio due, di ciambelle”). Pertanto, negli esempi riportati dalla sua grammatica, il ne non può riferirsi al soggetto, ma soltanto, semmai, ad altre parti della frase. Per es., in “la figlia ne ha parlato”, ne non può pronominalizzare figlia, bensì un complemento di argomento (“La figlia ne ha parlato col padre, di questo problema”). Nel secondo esempio (“tre ne sono usciti da casa”), il ne con difficoltà può essere riferito al soggetto, mentre del tutto normale sarebbe il riferimento al complemento di moto da luogo: “ne sono usciti tre” (da casa). In realtà, quest’ultimo caso è dubbio, poiché, con i verbi inaccusativi, il soggetto potrebbe essere pronominalizzato da ne sia che sia posposto, sia che sia preposto al verbo: sia in “due treni arrivano” , sia in “arrivano due treni”, il soggetto treni può essere pronominalizzato da ne: “ne arrivano due”.
Per ulteriori chiarimenti sull’uso di ne, veda anche le risposte delle FAQ il verbo piacere e “Ne voglio” o “la voglio”? di DICO.
Fabio Rossi
QUESITO:
I miei vicini di casa sono sconvolti per un furto”. Sono sconvolti è predicato nominale o verbale?
RISPOSTA:
La costruzione della frase suggerisce di interpretare il sintagma sono sconvolti come l’unione di copula e aggettivo, quindi come un predicato nominale. Diversamente, se il complemento di causa fosse un complemento di causa efficiente (“I vicini sono sconvolti da un furto”, e ancora meglio: “I vicini sono stati sconvolti da un furto”), il sintagma sarebbe un predicato verbale. Per maggiori dettagli sulla natura del participio, nominale e verbale allo stesso tempo, la rimando a questo quesito dell’archivio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase:Dove sei?; il sintagma “dove”, si può considerare un complemento
di stato in luogo? Grazie
RISPOSTA:
Sì. Però la forzatura di ricondurre un avverbio interrogativo (dove) a un’espressione lessicalmente più piena ed esplicita del tipo “in quale luogo” giustifica la perplessità che l’ha indotta, immagino, a rivolgerci questa più che legittima domanda. In realtà spesso l’analisi logica è abbastanza… illogica, nel senso che sembra troppo affezionata a una sterile e fantasiosa nomenclatura a metà strada tra il valore semantico (luogo) e quello funzionale (che funzione sintattica e testuale ha dove in una frase?) e troppo poco attenta al reale funzionamento delle parole nella frase. In altri termini, l’analisi logica tradizionale sembra funzionare bene soltanto nelle frasi assertive canoniche (es.: “Adamo mangia la mela”). Già nelle domande vacilla. Figuriamoci in altre centinaia di esempi reali. Sarebbe più produttivo concentrarsi su altri quesiti sintattici quali: qual è il tema e qual è il rema della frase “dove sei”? (dove in questo caso funge da tema); come si può trasformare in interrogativa indiretta la frase in oggetto (“dimmi dove sei”)?; quali altri valori semantici e sintattici può avere dove in italiano? ecc. ecc. In realtà, la minuziosa casistica dei complementi dell’analisi logica tradizionale serve davvero a poco (spesso è del tutto idiosincratica: fine o scopo? agente o causa efficiente? e simili amenità). Basterebbe concentrarsi sugli argomenti del verbo (o valenze), sulla differenza tra soggetto e oggetto, sulla differenza tra oggetto diretto ed elementi avverbiali ecc. E bisognerebbe inoltre dare molta più importanza all’analisi del periodo. E forse così riusciremmo a migliorare la coscienza metalinguistica dei nostri studenti (anche universitari) e anche le loro competenze, stavolta sì, logiche. Ma logiche sul serio!
Fabio Rossi
QUESITO:
analisi logica
nelle frasi..quale è il mio ultimo giorno di palestra? e quale colore le sta
bene?quale è il soggetto grazie per il tempo e l’attenzione
Sì, il soggetto della prima frase è le chiavi. Il soggetto della seconda è quale, e della terza è quale colore, o meglio: quale è attributo (perché in questo caso funge da aggettivo interrogativo, e non da pronome, come nella frase precedente) e colore è soggetto. Sono risposte rigide, che tengono conto della definizione di soggetto come “elemento in base al quale si accorda il verbo”. Il caso più complicato è il secondo, perché, a senso, verrebbe da dire che il soggetto è “giorno”. A rigore, tuttavia, “è il mio ultimo giorno di palestra” è predicato nominale, con è copula e il mio ultimo giorno di palestra parte nominale. Il soggetto di è, per l’appunto, è quale.
In appendice, anche nel suo congedo (“quale è il soggetto?”), quale è soggetto, è copula, il soggetto parte nominale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Hello Dico, my neighbour in Toscana, an old lady, taught me the following proverb:
Per santo me cresce giorni quant’ il gallo alza il pied
Per Natale quant’ il gallo alza l’ali
I have tried to write what she said, she doesn’t write herself, but I am sure I have mistakes.
I understand that ‘per santo me’ refers to the saints day, 21 December when daylight begins to increase, but I do not understand the reference to ‘il gallo’.
Another version I found is as follows:
S’allunga di quanto gallo lia lunghe l’ali.
What does ‘lia’ mean?
I would be most grateful if you would help me to understand this country proverb.
RISPOSTA:
I don’t know the proverb, but I am sure that, in your second version, “lia” is a mistake for “lla” or “li ha”, that means: “he has”.
Toscan dialect must express the subject, in pronominal form, even when it appears as a noun. Very similar to English language. So the translation is something like: “the cock it has long wings. “Li” or “ll” stands for “egli” that means “he”; “a” stands for “ha” has. Lia > lla or li a = li ha, egli ha ‘he has’.
From a quick check in the web, I found different proverbs in many Italian dialects, that mean: “from the 21 December (or about) the daylight start to get longer and longer”. The most similar to your proverb is “Per San Tommé il giorno allunga quanto il gallo alza il pié”: for Saint Thomas the day becomes longer as much as the cock rises its feet”.
Fabio Rossi
QUESITO:
salve..nella frase -mi piace la pasta-mi piace è un verbo intransitivo ma la
pasta è un complemento oggetto..cosa sbaglio? grazie per l’ attenzione
RISPOSTA:
La pasta è soggetto, mi è benefattivo (più banalmente, complemento di termine), piace è verbo intransitivo e, in quanto tale, non può reggere un complemento oggetto. Volendo essere un po’ più complicati e analitici, si può dire che il verbo piacere è un verbo inaccusativo, vale a dire un tipo di verbo che non può avere un complemento oggetto, ma il cui soggetto si comporta in modo molto simile a un complemento oggetto. Per questa ragione, la Sua perplessità (nel considerare la pasta come oggetto) è legittima. Una delle peculiarità di questi verbi (tutti quelli con ausiliare essere), tra le altre, è quella di avere, solitamente, il soggetto posposto e che può essere pronominalizzato con ne. Per es.: “mi piacciono le granite: me ne piacciono in particolare due, fragola e caffè”. Solitamente, è l’oggetto ad essere pronominalizzato con ne: “mangio le granite, ne mangio due” e simili. Dunque, già soltanto da queste due caratteristiche (1. soggetto posposto al verbo, 2. soggetto pronominalizzabile con ne), capisce bene come in verbi come piacere il soggetto si comporti in modo molto simile al complemento oggetto. Ma, attenzione: rimane pur sempre un soggetto e non un oggetto!
Fabio Rossi