QUESITO:
Ho una foto che ritrae un manipolo di Alpini. La foto è datata 1941. Ora vorrei scrivere, come didascalia, che questi soldati hanno combattuto l’anno successivo, nel 1942, sul fronte del Don.
Quale frase si fa preferire?
1) Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don.
2) Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don.
3) Combatterono nel ’42 sul fronte del Don.
Credo che siano tutte e tre accettabili.
Io preferisco la prima.
RISPOSTA:
Come giustamente dice lei, tutte e tre le frasi sono corrette. Si tratta qui di esprimere il futuro nel passato, cioè di parlare di un’azione passata che però non si era ancora verificata al momento dell’evento che si sta narrando (evento, per inciso, a me molto caro, visto che un prozio bersagliere umbro cui ero affezionato fu ferito alla gola nella battaglia del Don!). Quindi:
1) «Avrebbero combattuto nel ’42 sul fronte del Don»: si sottolinea il fatto che nel 1941, anno in cui è stata scattata la foto, la battaglia del Don non era ancora avvenuta. In questo caso si dà valore sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
2) «Combatteranno nel ’42 sul fronte del Don»: si focalizza la battaglia del Don e si lascia sullo sfondo l’anno della foto. Il 1941, peraltro, cioè l’anno in cui è stata scattata la foto, non scompare dall’attenzione dello spettatore, perché diventa l’hic et nunc da cui parte la narrazione.
3) «Combatterono nel ’42 sul fronte del Don»: sì focalizza soltanto la battaglia del Don e il 1941 scompare.
Tutte e tre le frasi sono corrette, ma esprimono punti di vista diversi, come in una scena cinematografica in cui il regista decide che cosa mettere più a fuoco rispetto al resto. Nel primo caso, sono a fuoco tanto la battaglia del Don quanto l’anno precedente, in cui è stata scattata la foto. Nel secondo caso, l’anno della foto è ancora più sfocato. Nel terzo caso, l’anno in cui è stata scattata la foto scompare del tutto. Se lei preferisce la prima (scelta legittima, come del resto anche le altre due) vuol dire che vuol dare il giusto rilievo sia all’anno della foto, sia alla battaglia del Don.
Il raffinato sistema della consecutio temporum in italiano consente di scegliere il punto di vista delle azioni narrate esattamente tanto quanto le lenti della macchina da presa consentono a un regista raffinato di far capire allo spettatore che cosa deve essere in primo piano e che cosa sullo sfondo. Un accorto uso della consecutio temporum, dunque, lungi dall’essere un mero esercizio retorico-grammaticale, consente dunque maggiori sfumature nello storytelling.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto la risposta di Fabio Rossi dell’8 gennaio 2024 su «anni fa» e «anni prima», ma non chiarisce esattamente un mio dubbio.
Trovo spesso frasi al discorso indiretto di questo genere: «Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Secondo voi, in questa frase si può dire «dieci anni fa»? A me sembra sbagliato, io direi «dieci anni prima» in una frase al discorso indiretto e «anni fa» al discorso diretto: «Mario, quando ti ho conosciuto, dieci anni fa, avevi dei capelli nerissimi».
RISPOSTA:
Come chiarito nella risposta da lei citata, «La locuzione temporale “X fa” (per es. “dieci anni fa”) può essere usata soltanto se il riferimento cronologico rispetto al quale si sta dicendo “X fa” è il momento stesso in cui si riporta l’affermazione». Quindi, non è il fatto che l’espressione si trovi nel discorso diretto oppure indiretto a far scattare la scelta tra «prima» e «fa», bensì il fatto che, quando si dice o scrive «prima» o «fa», sia in effetti dieci anni prima del momento in cui lo si scrive o dice. Nella frase da lei riportata («Nina pensò che quando, dieci anni fa, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi»), si comprende chiaramente che la frase è stata detta o scritta effettivamente dieci anni prima dell’evento riportato (cioè il fatto che lui avesse dei capelli nerissimi), quindi sono corretti tanto «dieci anni fa», quanto «dieci anni prima». Diverso sarebbe il caso in cui intervenisse un terzo termine temporale, passato rispetto al momento della narrazione e al momento dell’evento riportato (come già spiegato nella risposta citata). Per esempio (siamo nel 2024): «Nina stava pensando [nel 2024] al momento in cui reincontro Mario [nel 2014] e pensò che quando, dieci anni prima [cioè nel 2004], aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi». Ma se, come ripeto, Nina narra nel 2024 di come Mario avesse i capelli nel 2014, vanno vene sia «prima» sia «fa»: «Nina pensò che quando, dieci anni fa/prima, aveva conosciuto Mario, lui aveva dei capelli nerissimi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda l’ammissibilità del congiuntivo presente nella relativa esplicita dopo il passato prossimo nella reggente:
“Nel mio libro ho immaginato qualcosa che abbia anche un valore pedagogico”; che quindi abbia tale valore oggi e ogniqualvolta venga letto”.
Ora se, come da consecutio, mettessi qualcosa che avesse anche… farei riferimento al presente della scrittura, cioè a qualcosa di passato, concluso. Ma poiché il libro è di per sé rivolto a futuri lettori mi sembrerebbe più calzante il congiuntivo presente.
RISPOSTA:
La proposizione relativa è svincolata dalla consecutio temporum: al suo interno, il tempo verbale si riferisce non alla relazione con il tempo della reggente, ma al tempo in sé: passato, presente o futuro. Di conseguenza il congiuntivo presente è pienamente legittimo, per sottolineare che il possesso del valore pedagogico è pancronico, cioè valido sempre. Va comunque rilevato che è possibile usare il congiuntivo imperfetto avesse nella relativa, mantenendo la prospettiva fissata dal verbo della reggente, che parte dal passato. L’imperfetto, del resto, non esclude l’interpretazione pancronica del contenuto della relativa: non solo, infatti, il passato prossimo nella reggente descrive un evento agganciato al presente, ma la relativa al congiuntivo assume anche una sfumatura consecutivo-finale che ne proietta il contenuto nella posterità.
L’imperfetto non è escluso neanche nella relativa giustapposta e nella coordinata seguente, che sono inequivocabilmente collocate nel presente e nel futuro: che quindi avesse tale valore oggi e ogniqualvolta venisse letto; qui, però, il congiuntivo presente è preferibile, perché l’accostamento di avesse e oggi nella giustapposta crea un effetto di discorso indiretto libero che può risultare straniante (per quanto non possa dirsi scorretto).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Come si analizza il seguente periodo?
Il problema dell’inquinamento atmosferico è concentrato soprattutto nelle aree metropolitane, dove il riscaldamento degli edifici, il traffico e gli impianti industriali hanno effetti dannosi sulla qualità dell’aria e causano danni alla salute dei cittadini; ragione per cui spesso si ricorre a misure d’emergenza come il blocco del traffico dei mezzi più inquinanti.
RISPOSTA:
Il problema dell’inquinamento atmosferico è concentrato soprattutto nelle aree metropolitane = proposizione principale;
dove il riscaldamento degli edifici, il traffico e gli impianti industriali hanno effetti dannosi sulla qualità dell’aria = proposizione relativa subordinata di primo grado;
e causano danni alla salute dei cittadini = proposizione coordinata (copulativa) alla relativa di primo grado;
ragione per cui spesso si ricorre a misure d’emergenza come il blocco del traffico dei mezzi più inquinanti = proposizione giustapposta sullo stesso piano della principale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In una presentazione ho trovato questa frase:
“Sin da quando avevo 10 anni sognavo di studiare lingue straniere e viaggiare in giro per il mondo”.
Io credevo che dopo da quando si dovesse usare il presente, mentre l’imperfetto si usasse nel caso in cui l’azione fosse terminata. Questa frase è corretta?
RISPOSTA:
La frase è comprensibile e accettabile, ma migliorabile: avevo è giustificato dal fatto che effettivamente chi scrive non ha più 10 anni, quindi lo stato è concluso; meno giustificato è sognavo, visto che l’azione perdura nel momento dell’enunciazione. Ci si aspetterebbe, pertanto, Sin da quando avevo 10 anni sogno di…. L’imperfetto sognavo è motivato dall’attrazione operata da avevo: quando si parla, e spesso anche quando si scrive, si tende spesso a replicare la stessa forma usata in precedenza, soprattutto se a poca distanza, trascurando le regole astratte. A una prima considerazione, del resto, l’accostamento del tempo imperfetto con il presente, che in questo caso è corretto, può risultare sospetto. Una soluzione che consente di rimanere formalmente nel passato, pur rappresentando il sognare come attuale è ho sognato: il passato prossimo, infatti, descrive un evento iniziato nel passato ma ancora attivo, direttamente o attraverso una qualche conseguenza, al momento dell’enunciazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase «Tuo padre mi ha chiesto notizie di Luca», «tuo padre» nella divisione in sintagmi sta tutto insieme?
RISPOSTA:
Sì, in qualità di sintagma nominale complesso con ruolo di soggetto. Tuttavia, i sintagmi si analizzano a scatole cinesi, cioè con i sintagmi complessi che contengono al loro interno sintagmi semplici. Pertanto il sintagma nominale complesso «tuo padre» è a sua volta costituito da due sintagmi semplici, cioè il sintagma aggettivale «tuo» e il sintagma nominale «padre», esattamente come se fosse «il padre di Marco» = sintagma nominale complesso costituito da un sintagma nominale («il padre») + un sintagma preposizionale «ti Marco».
Fabio Rossi
QUESITO:
Se io dico «non penso che ricapiti a me» e mi rispondono con «speriamo» vuol dire che sperano che quell’azione accada o non accada?
RISPOSTA:
Se la lingua funzionasse soltanto grazie alle regole sintattiche e se gli elementi sottintesi fossero da recuperare rigidamente in quel che è stato detto o scritto subito prima, non c’è dubbio che la reazione «speriamo» alla frase «non penso che ricapiti a me» si possa interpretare soltanto come ‘speriamo che ricapiti a te’. Sempre secondo il rigido rispetto delle regole sintattiche, la reazione atta a esprimere l’auspicio che la cosa non ricapiti dovrebbe essere «speriamo di no». Tuttavia, dato che la lingua, o per meglio dire l’attività comunicativa, funziona anche in base alle inferenze e alla cooperazione tra gli interlocutori, ovvero grazie alla capacità di ricostruire la coerenza degli enunciati in base alla propria esperienza del mondo, oltreché in base a quanto detto negli enunciati precedenti, considerando anche la presenza della negazione all’inizio della prima frase («non penso che…»), la reazione «speriamo» può anche essere interpretata, con buona probabilità, nel senso di ‘speriamo che non ricapiti a te’. In casi come questi, in cui si pone il dubbio che qualcosa possa o non possa essere, possa o non possa accadere e simili, sarebbe meglio, a scanso di equivoci, precisare sempre «speriamo di sì» / «speriamo di no», e simili. Tuttavia, dato che il contesto aiuta quasi sempre a disambiguare gli enunciati, è probabile che gli interlocutori siano in grado di dare la giusta interpretazione del caso in questione. Se l’interlocutore che dice «speriamo» si mostra solidale con il primo interlocutore, se non gli dimostra astio o simili, perché mai dovrebbe augurarsi che all’altro capiti qualcosa che il primo spera che non accada? In conclusione, è sempre bene sforzarsi di essere chiari, senza però dimenticare che la comunicazione è un’attività da compiere in due (o più di due), cioè un mittente (o più d’uno) e un ricevente (o più d’uno), che si scambiano di ruolo e che debbono necessariamente cooperare alla codifica e alla decodifica degli atti comunicativi, se davvero vogliono comprendersi reciprocamente. L’inferenza, cioè la capacità di comprendere anche le informazioni non dette, è un’abilità cognitiva indispensabile alla comunicazione, poiché non è possibile rendere sempre tutto esplicito negli enunciati. In caso contrario, gli enunciati sarebbero sempre di una lunghezza snervante al punto da essere inservibili e da far fallire la comunicazione. Ogni comunicazione si regge dunque sul sottile equilibrio tra esplicito e implicito, tra detto e non detto, e soprattutto sulla volontà degli interlocutori di cooperare e di venirsi incontro reciprocamente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Preferire può essere considerato un verbo servile? Dalle principali grammatiche non mi risulta. Un periodo come: “Preferisco restare a casa” è da intendersi quindi come formato da due proposizioni (Preferisco = principale; restare a casa = subordinata oggettiva di 1º alla principale, implicita)?
RISPOSTA:
I verbi servili servono a modificare il significato di altri verbi aggiungendovi una sfumatura; devono, pertanto, essere semanticamente quasi vuoti. Il verbo volere, infatti, può anche essere non servile, se non accompagna un altro verbo, ma è usato da solo (“Voglio che tu mi chieda scusa”). Preferire significa grosso modo ‘volere maggiormente’, quindi è molto vicino al significato di volere; anche quando accompagna direttamente un infinito, però, veicola una piccola quantità di significato autonomo e tanto basta per non considerarlo servile. Inoltre, i verbi servili condividono la caratteristica sintattica di ammettere la risalita del clitico (evidentemente perché sono percepiti come strettamente solidali con il verbo retto): voglio farlo, ma anche lo voglio fare; lo stesso non vale per preferire: *lo preferisco fare risulta del tutto innaturale. L’analisi della periodo fatta da lei, in conclusione, è corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’analisi del periodo i verbi fraseologici delle proposizioni dipendenti devono essere considerati come forme implicite o esplicite, dato che includono sia elementi verbali di modo finito sia di modo indefinto?
Es. “Ho sentito che stanno per abbattere le case vicino al cavalcavia”.
RISPOSTA:
I verbi aspettuali, quelli servili e quelli causativi formano con il verbo che reggono un’espressione per molti versi unitaria. In tali espressioni, le informazioni grammaticali (tempo, modo, persona) sono veicolate proprio dal verbo aspettauale, servile o causativo, mentre il verbo semanticamente pieno assume una forma fissa (infinito o gerundio). Ne consegue che un’espressione come stanno per abbattere è finita (perché stanno è coniugato in una forma finita); la proposizione che contiene questa espressione è, pertanto, esplicita. Al contrario, in “Spera di finire di lavorare domani” di finire di lavorare domani è una proposizione implicita, perché finire è coniugato in una forma indefinita.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi contatto gentilmente a proposito del dialogo in L’eterno marito di Dostoevskij, in quanto non è chiaro quale dei due personaggi sia a interloquire. Ho provato a controllare diverse edizioni. Allego il dialogo:
“– Che cosa? — gridò Velticianinof, tutto tremante.
— È lui, il padre! Cercalo… per il funerale.
— Tu menti! — urlò Veltcianinof, con rabbia folle.
— Canaglia!… Sapevo bene che mi avresti servito questo!
Fuori di sé, alzò il pugno sulla testa di Pavel Pavlovitch.
Ancora un momento e l’avrebbe ucciso; le donne mandarono un grido acuto e si scansarono, ma Pavel Pavlovitch non fiatò; il suo viso si contrasse in un’espressione di cattiveria selvaggia e bassa.
— Sai, — disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato, – sai ciò che diciamo in russo? – e pronunciò una frase che non si può scrivere. – Ecco per te!… E ora, vattene, e in fretta!
Si liberò dalle mani di Veltcianinof così violentemente che per poco non cadde lungo disteso”.
Ciò che mi domando è se sia sempre Veltcianinof a dire “ – Canaglia! Sapevo che mi avresti detto così”, in quanto il trattino segna l’inizio di una nuova battuta, e chi pronunci “– Sai, – disse con voce ferma, come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato” (l’ubriaco è Pavel Pavlovitch).
RISPOSTA:
Per quanto riguarda la prima battuta, effettivamente la separazione dalla precedente induce a credere che ci sia anche un cambio di turno: la battuta, però, non può che essere pronunciata da Veltcianinof. Lo si deduce dal senso generale della conversazione (Veltcianinof insulta Pavlovitch per via della sua rivelazione) e dall’andamento del testo: il soggetto ellittico della frase che segue la battuta è certamente Veltcianinof, quindi quest’ultimo deve essere anche il responsabile della battuta (altrimenti il soggetto della frase sarebbe stato esplicitato). Il soggetto ellittico torna anche in disse con voce ferma; in questo caso, però, la frase precedente presenta come soggetto sia Veltcianinof (avrebbe ucciso) sia Pavlovitch (fiatò) e inoltre il contenuto della battuta potrebbe essere ricondotto a entrambi. Nella frase, però, la persona descritta con l’espressione come se l’ubriachezza l’avesse abbandonato (quindi la persona che era ubriaca, ovvero Pavlovitch) deve essere il soggetto; il dettaglio dell’ubriachezza apparentemente svanita, infatti, serve a giustificare la descrizione del modo di parlare del soggetto (disse con voce ferma), sorprendente per una persona ubriaca.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei sapere quale delle tre soluzioni proposte è la più corretta: “Se io pensassi che tu fossi (sia o sei) incompetente, non ti affiderei questo compito”.
RISPOSTA:
Nella frase, la proposizione reggente ha il congiuntivo imperfetto perché è vincolata dalla semantica del periodo ipotetico; il momento di riferimento, invece, deve essere considerato presente. La consecutio temporum richiede che la contemporaneità nel presente si esprima con il presente (indicativo o congiuntivo a seconda di ragioni stilistiche e sintattiche): nella subordinata oggettiva, quindi, si possono usare sia (più formale) e sei (meno formale). Il congiuntivo imperfetto fossi, per quanto grammaticalmente ingiustificato, può essere comunque considerato un errore veniale, vista la forte attrazione esercitata da pensasse della reggente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Lo avrei fatto ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno o ne avessi bisogno.
2) Lo avrei fatto prima che fosse entrato lui o entrasse lui.
3) Sarebbe stato preso in considerazione chi/chiunque ne fosse capace o fosse stato capace.
4) Avrei chiesto scusa a patto che lo avesse fatto anche lui o la facesse anche lui.
Dando per scontato che il trapassato è corretto, lo è anche l’imperfetto congiuntivo?
RISPOSTA:
Nelle subordinate delle frasi da lei proposte si possono usare sia l’imperfetto sia il trapassato. Con con il trapassato emerge il modello ipotetico latente in tutte le quattro frasi, che spinge a completare una proposizione al condizionale passato con una al congiuntivo trapassato. L’imperfetto, invece, rappresenta gli eventi delle subordinate come contemporanei nel passato rispetto a quelli delle reggenti, in linea con la consecutio temporum. Si noti che la contemporaneità è un concetto flessibile, proiettabile nella posteriorità, come nella frase 2, in cui l’evento dell’entrare è successivo a quello del fare, e nella anteriorità, come nella 4, in cui l’evento del fare è precedente a quello del chiedere.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
«La Consulta, infatti, ha reputato legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni», o «La Consulta, infatti, ha reputata legittima l’eccezione al divieto di utilizzo dei risultati delle intercettazioni»?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette, sebbene la prima, con il participio invariabile al maschile («ha reputato legittima l’eccezione»), sia più comune, mentre la seconda («ha reputata legittima l’eccezione») sia più letteraria. La regola dell’accordo del participio passato con l’oggetto si può leggere diffusamente in altre risposte di DICO come questa o questa o altre ancora.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio relativo alla frase: «Scrivo più poesie DI / CHE di te?». Dato che si sta parlando di quantità («scrivo una quantità maggiore di poesie»), dovremmo dire «che»? Tuttavia, dato che dopo abbiamo un pronome, dovremmo dire «di»?
RISPOSTA:
La risposta corretta è di: «Scrivo più poesie di te», cioè di quante non ne scriva tu. Che si userebbe per contrapporre qualche altra cosa a poesie: «Scrivo più poesie che romanzi».
Fabio Rossi
QUESITO:
1) «È stata un’esperienza». È possibile che il soggetto non sia “un’esperienza”, che invece risulterebbe essere il nome del predicato, ma bensì un soggetto sottinteso e ricavabile dal contesto (come ad esempio “la relazione”, “la situazione”, eccetera)? D’altronde è come se ci domandassero “Com’è stata la relazione/situazione, etc.?”, e noi rispondessimo “È stata un’esperienza”, facendo quindi riferimento ad un soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, “la situazione”, ecc.). In aggiunta, da quello che ho capito, quando il verbo “essere” è usato in funzione di copula, come nell’esempio iniziale, è possibile sia l’accordo con il soggetto esplicito (e cioè qualora non fosse sottointeso):”La relazione è stata un’esperienza”, sia l’accordo con il nome del predicato: “Il viaggio è stata un’esperienza”. Tuttavia, in conclusione, il participio passato di “essere”, ma come anche di “andare”, “finire”, eccetera, in particolari costruzioni impersonali, quindi con un soggetto implicito, e cioè non esplicitato, prende la terminazione femminile in -a, qualora e in concordanza con il generico soggetto femminile e sottinteso (“la relazione”, per esempio): “Com’è stata (la relazione)?” – “È stata un’esperienza (“la relazione”)”. Al contrario, prende la terminazione in -o, qualora e in concordanza con il generico soggetto maschile e sottointeso (“il viaggio”, per esempio): “Com’è stato (il viaggio)?” – “È stato un’esperienza (“il viaggio”)”; e non *”È stata un’esperienza (“il viaggio”)?
RISPOSTA:
Sì, tutto corretto. Come già detto qui, a scuola si tende a semplificare molto, troppo, sull’analisi logica e sull’analisi del periodo, per cui un caso come quello da lei segnalato («È stata un’esperienza») verrebbe analizzato probabilmente come «un’esperienza» soggetto e «è stata» predicato verbale. Mentre invece, per tutti i motivi da lei indicati, l’analisi corretta è: SOGG sottinteso, è stata copula, un’esperienza predicato nominale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto, in una vostra risposta, che nella frase “Chi siete?” il verbo “essere” può essere interpretato o come predicato verbale o come predicato nominale. Come predicato nominale, l’analisi sarebbe la seguente: “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” è la copula, che s’accorda al plurale perché il soggetto sottinteso “voi” è plurale, e “chi” è il nome del predicato. Al contrario, come predicato verbale: “Chi”, soggetto; “siete”, predicato verbale. Ecco, qui ho un dubbio: e cioè se “essere”, a seconda dell’interpretazione datagli, fosse predicato verbale, e “chi” quindi soggetto (con il quale, anche qui, il verbo troverebbe l’accordo al plurale perché “chi”, invariabile, e rispetto al contesto, avrebbe valore plurale), il “voi” che ruolo rivestirebbe? È chiaro, di logica, che il “chi” non potrebbe essere considerato né complemento oggetto (perché “essere” è solo intransitivo), né, immagino io, complemento predicativo del soggetto (altrimenti ci avvicineremmo al predicato nominale). Conseguentemente, ma magari sbaglio, penso, in frasi di questo tipo, che il verbo “essere”, per così dire, spingerebbe maggiormente il lettore a considerarlo predicato nominale, in quanto l’attrazione del soggetto sottinteso “voi” sarebbe maggiore rispetto a quella del “chi” nel predicato verbale. In aggiunta, e in chiusura, se considerassimo la frase come predicato nominale relativamente al ragionamento sovrascritto, il “voi” rivestirebbe, trovandosi così a suo agio, il ruolo di soggetto, mentre quello di nome del predicato spetterebbe al “chi” che, diversamente e per mia ignoranza, non saprei dove collocare in un predicato verbale.
RISPOSTA:
Come già detto nella risposta cui la domanda fa riferimento, l’analisi come predicato nominale di casi quali «chi siete» è decisamente quella più elegante e, dal punto di vista della grammatica generativa e in genere di un’analisi sintattica approfondita, l’unica corretta, proprio per le ragioni che lei ben ricostruisce nella sua domanda. Di solito, l’analisi logica condotta a scuola recalcitra a spiegazioni troppo profonde, forse per non confondere le idee agli studenti e non invocare troppo i concetti di sottinteso, traccia, spostamento di sintagmi ecc. Tuttavia sarebbe bene spiegare casi simili esattamente come li spiega lei nella sua domanda: il soggetto di siete, ricavabile dalla persona verbale, è “voi”, mentre il pronome chi, che come tutti i pronomi interrogativi risale in prima posizione, svolge la funzione di nome del predicato: voi siete chi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Invito un amico ad una festa per l’indomani. Mi risponde che non può partecipare. Al che gli dico:
1 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi venuto.
(Ma non è giusto, così sembra che la festa sia già passata, mentre avrà luogo in futuro).
2 – Mi sarebbe piaciuto se tu potessi venire.
(Neanche qui è giusto. L’amico ha già detto che non verrà).
3 – Mi sarebbe piaciuto se tu saresti venuto.
(Credo che sia totalmente sbagliata).
4 – Mi sarebbe piaciuto se tu fossi potuto venire.
(Qui ho dei dubbi: perchè in effetti la festa non ha avuto ancora luogo).
Naturalmente, nel linguaggio informale potremmo dire
5 – Mi sarebbe piaciuto se potevi venire.
(Ma mi sembra una forma un po’ sciatta).
RISPOSTA:
La variante 1 è legittima: che la festa non sia avvenuta è ininfluente; quello che conta è che l’amico ha già dichiarato che non parteciperà, quindi la sua mancanza deve essere rappresentata come avvenuta. Proprio per questa ragione è impossibile se tu potessi venire (come anche se tu venissi, non presente tra le alternative): c’è una incoerenza interna in questa frase tra mi sarebbe piaciuto, che presenta lo stato d’animo come condizionato da un evento irrealizzabile, e la protasi con il congiuntivo imperfetto, che presenta l’ipotesi come possibile. L’alternativa “Mi piacerebbe se tu venissi” (o potessi venire), del resto, risulterebbe incoerente con il contesto, visto che, come si è detto, la partecipazione è stata già esclusa. La 3 è impossibile, perché la proposizione ipotetica non ammette il modo condizionale. La 4 è equivalente alla 1, con la sola aggiunta del verbo servile, che non modifica la costruzione generale della frase. La 5 è la variante informale della 4.
Aggiungo anche un’ulteriore variante: “Mi sarebbe piaciuto che tu venissi (o potessi venire)”. Con la sostituzione di_se_ con che la proposizione subordinata diviene soggettiva; al suo interno il congiuntivo imperfetto non indica l’ipotesi possibile ma la contemporaneità nel passato con proiezione nella posteriorità rispetto alla reggente. In questo modo la reggente esprimerebbe ancora il dispiacere condizionato da un evento non realizzabile (la partecipazione dell’amico alla festa), ma tale evento sarebbe lasciato implicito, mentre la subordinata descriverebbe semplicemente l’argomento del dispiacere. Possibile sarebbe anche “Mi sarebbe piaciuto che tu fossi venuto (o fossi potuto venire)”, che rappresenterebbe il venire come precedente al dispiacere, sottolineando il rapporto di causa-effetto tra i due eventi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella biografia di Kim Jong-Un su Wikipedia ho trovato la seguente frase: “Nonostante i provvedimenti presi da Kim Jong-il, in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avesse davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”. Il mio dubbio è: non era chiaro se introduce oppure no un’interrogativa indiretta? E se sì, la frase avrebbe dovuto essere “Non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato”? Quindi al posto del congiuntivo trapassato andava messo il condizionale passato che svolge in questo caso la funzione di “futuro nel passato”? Oppure questa subordinata può essere interpretata sia come Interrogativa Indiretta che come subordinata condizionale? A me la frase imputata è come se suonasse simile a una così: “All’epoca dei fatti non si sapeva se il governo nordcoreano avrebbe voluto seguire il percorso che gli era stato tracciato”. Inoltre, se il mio ragionamento è giusto, la frase “… se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire ecc.” puo’ svolgere anche la funzione di apodosi di un periodo ipotetico?
RISPOSTA:
La subordinata è una interrogativa indiretta, costruita con il congiuntivo trapassato. La scelta di questa forma verbale è perfettamente in linea con la norma grammaticale, se si vuole intendere che l’evento descritto nella subordinata precede quello descritto nella reggente, che è già passato. In astratto, quindi, la frase è ben costruita e significa che in seguito alla morte di Kim Jong-il non era chiaro se mentre il dittatore era in vita il governo aveva effettivamente voluto seguire il percorso da lui tracciato. Se si legge il cotesto in cui la frase è inserita (cioè le frasi che la circondano) , però, diviene chiaro che il senso inteso non è questo: la domanda riguarda l’intenzione del governo di seguire il percorso del dittatore dopo la sua morte. Il congiuntivo trapassato è, quindi, sbagliato in relazione al cotesto: la forma richiesta è il condizionale passato (avrebbe voluto). L’interrogativa indiretta se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto… può reggere una proposizione ipotetica, divenendo l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio “… in seguito alla sua morte non era chiaro se il governo nordcoreano avrebbe davvero voluto seguire il percorso da lui tracciato, se avesse avuto la possibilità di fare altrimenti”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo gli schemi della consecutio temporum, l’anteriorità rispetto al condizionale presente si costruisce con l’indicativo o con il congiuntivo, in base al verbo (certezza o dubbio e simili) della reggente. Mi chiedo se, sempre nel rispetto di questo rapporto di subordinazione temporale, sia possibile adoperare, quale alternativa attenuata dell’indicativo, il condizionale passato, senza che questo sia interpretato come futuro nel passato.
“Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito.”
In questo caso, avrebbe mentito rappresenta un’azione analoga, dal punto di vista temporale, a quella costruita con ha mentito, accentuando rispetto a quest’ultima una sfumatura di incertezza, ma senza mutare il rapporto di anteriorità? Oppure il condizionale passato sarebbe interpretato (al di là della semantica della frase che ho scelto per esemplificare il quesito), come
“(…) Significherebbe che Y (in un momento successivo) avrebbe mentito”?
E infine, il condizionale passato implica sempre una protasi, anche implicita (“(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito (se lo avessero costretto a confessare)”) oppure, come ho ventilato poc’anzi, può imporsi in maniera autonoma come una mera attenuazione del modo indicativo, per ridurne l’impatto diretto, senza significative differenze a livello sintattico?
RISPOSTA:
Il condizionale passato può essere usato nel contesto da lei immaginato proprio come variante condizionata dell’indicativo, senza innescare il senso di posteriorità nel passato. In questo caso la forma verbale ha una funzione epistemica, e in particolare serve a limitare la responsabilità del parlante (o dello scrivente) sul contenuto della frase. Di norma si usa in proposizioni dipendenti da altre proposizioni all’indicativo, al congiuntivo o nominali, non al condizionale, perché se la reggente è al condizionale, questo è già sufficiente a svolgere la funzione di distanziamento epistemico; per esempio: “Misura cautelare per un uzbeko che risiede a Ravenna, che sarebbe la mente del sequestro” (da un titolo di repubblica.it del 16 novembre 2024). Se la reggente è al condizionale, quindi, l’indicativo o il congiuntivo (a seconda della frase) sono scelte più logiche. Non di sola logica vive la lingua, però, per cui il condizionale attratto da quello della reggente non può dirsi sbagliato. Si noti che anche quando ha questa funzione, il condizionale presuppone la presenza di una protasi. Nel suo caso, però, la protasi implicita praticamente ripete quella già collegata alla principale (a dimostrazione del fatto che si tratta di un uso pleonastico): “Se la versione di X fosse confermata, significherebbe che Y avrebbe mentito (se la versione di X fosse confermata)”.
L’interpretazione del condizionale passato come tempo della posteriorità nel passato non è, in astratto, esclusa neanche in questo caso: per farla emergere, però, bisognerebbe aggiungere qualche segnale, per esempio “(…) Significherebbe che Y avrebbe mentito, in seguito”. Si tratta, comunque, di un esempio “d’accademia”: difficilmente si può immaginare un contesto autentico in cui si possa usare una frase con questo significato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Si scrive “Non so chi tu sia”, “Non so tu chi sia” o “Non so chi sia tu”? la prima sembra l’opzione più comune.
RISPOSTA:
La forma più naturale della frase è la prima, con la proposizione principale, non so, che regge una subordinata interrogativa indiretta al congiuntivo introdotta da un pronome interrogativo, chi tu sia. La seconda versione si spiega con l’intento del parlante di tematizzare il soggetto, cioè sottolineare, anticipandolo, che esso rappresenta l’informazione sulla quale verte il contenuto del pezzo di frase seguente. Con questo movimento, si noti, si crea una forzatura sintattica, perché il soggetto della subordinata viene a trovarsi all’interno della reggente (non so tu | chi sia) oppure la subordinata è costruita in modo anomalo (tu chi sia). Per questa ragione questa versione è adatta al parlato ma non allo scritto.
Anche la terza versione è il risultato di un intento pragmatico, come la seconda: in questo caso il soggetto della proposizione subordinata è focalizzato attraverso lo spostamento a destra. Tale sfumatura pragmatica, che nel parlato è accompagnata da un innalzamento del tono della voce, lascia intendere che ci sia un confronto con un altro soggetto. Per la verità, questa formulazione sembra più teorica che concreta: non è facile immaginare un contesto in cui potrebbe essere effettivamente usata; se ne può immaginare una variante inserita in una conversazione del genere:
- Non so più chi sei.
- No, io non so chi sia tu.
Lo spostamento a destra del soggetto non produce forzature sintattiche: la frase così formata è, quindi, comunque più adatta al parlato che allo scritto (in quanto marcata), ma nello scritto non determina un abbassamento stilistico.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Dopo i quadri e le sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo”.
La proposizione è ben costruita, anche senza l’inserimento della preposizione da davanti a i quadri e le sculture?
Mi sono trovata a scriverla per ottimizzare le parti del discorso ed evitare costruzioni indubbiamente più prolisse ma più chiare, per esempio “L’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo, dopo che era stata attratta dai quadri e dalle sculture“.
RISPOSTA:
La riscrittura finale scambia di posizione le due informazioni contenute nella reggente e nella subordinata (corrispondente al complemento dopo i quadri e le sculture della prima versione). Questa inversione non è necessaria e, inoltre, potrebbe danneggiare la coesione del testo nel quale la frase è inserita, perché modifica il dinamismo informativo (la concatenazione di informazioni note e nuove). Se ripristiniamo l’ordine iniziale avremo “Dopo che era stata attratta dai quadri e dalle sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo“, o meglio ancora “Dopo essere stata attratta dai quadri e dalle sculture, l’attenzione di Alessia fu attratta dagli arredi del museo“. Questa costruzione è possibile e corretta, ma un po’ ridondante, per via della ripetizione del verbo attrarre a breve distanza. Impossibile sarebbe *dopo dai quadri e dalle sculture, come anche *dopo che dai quadri e dalle sculture: non rimane che la sua proposta iniziale, che, per quanto sintetica, non lascia spazio ad ambiguità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Le guance della ragazza avvamparono, ma nella voce e nello sguardo non c’era traccia della sua timidezza.”
Gradirei sapere se la formulazione è corretta così com’è, o se sarebbe preferibile ripetere l’aggettivo possessivo in riferimento sia a voce sia a sguardo.
Esiste in questi casi una regola da rispettare, o, alla fine, è sufficiente che la semantica del periodo non veicoli messaggi da disambiguare?
RISPOSTA:
In questo caso l’inserimento dell’aggettivo possessivo (nella sua voce e nel suo sguardo) sarebbe possibile, ma non è necessario, visto che nella frase non sono introdotti altri referenti animati. La scelta è prettamente stilistica: a favore dell’inserimento degli aggettivi c’è la ricerca della massima esplicitezza; a favore dell’omissione c’è la superfluità di tale esplicitezza e anche la presenza a breve distanza dell’aggettivo sua associato a timidezza.
Fabio Ruggiano
Vi chiedo un aiuto per costruire queste frasi nel modo migliore.
1. Nelle circostanze del caso di specie, ciò significa che il termine di prescrizione dell’azione della banca è iniziato a decorrere nel 2019 a seguito della proposizione, in quell’anno, dell’azione da parte dei mutuatari, e quindi l’azione di pagamento della banca si sarebbe prescritta il 31 dicembre 2022, tuttavia il termine di prescrizione del diritto della banca è stato interrotto dalla proposizione da parte della banca della domanda nella presente causa in data 18 novembre 2022. (quindi la banca ha già promosso l’azione, qui di seguito stanno soltanto facendo un’ipotesi…: Pertanto, se si attendesse dalla banca che quest’ultima OPPURE qualora ci si aspettasse che la banca promuova / promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia / fosse / sarebbe stato prescritto.
2. (…) la seguente questione pregiudiziale:
se, nel contesto dell’annullamento integrale di un contratto di credito o di prestito, concluso tra un ente creditizio e un consumatore, per il motivo che tale contratto conteneva una clausola abusiva senza la quale esso non poteva sussistere, l’articolo 6, paragrafo 1, e articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, nonché i principi di effettività, di equivalenza e di proporzionalità, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad un’interpretazione giurisprudenziale del diritto di uno Stato membro ai sensi della quale:
- l’ente creditizio ha il diritto di proporre un’azione nei confronti del consumatore, volta ad ottenere il rimborso dell’importo del capitale erogato per l’esecuzione del contratto, ancor prima che nella causa promossa dal consumatore venga / sia pronunciata la sentenza definitiva che dichiari / dichiara la nullità del contratto in questione;
- l’ente creditizio ha il diritto di esigere dal consumatore, oltre al rimborso del capitale erogato per l’esecuzione del contratto in questione, anche gli interessi legali di mora per il periodo compreso tra la data della richiesta di pagamento e la data del pagamento, in una situazione in cui, prima della suddetta richiesta, nella causa promossa dal consumatore non sia stata ancora pronunciata la sentenza definitiva che dichiara la nullità di tale contratto.
Nella prima frase innanzitutto bisogna modificare a decorrere nel 2019 con a decorrere dal 2019. Quindi modificherei anche l’azione di pagamento della banca, perché non si capisce se della banca si colleghi a l’azione (quindi la banca richiede il pagamento attraverso l’azione) o a di pagamento (quindi i mutuatari richiedono alla banca il pagamento attraverso l’azione). Una soluzione può essere l’azione di pagamento da parte della banca. Ancora, Bisogna interrompere la frase a 2022 con un punto e inserire una virgola dopo tuttavia; così: …dicembre 2022. Tuttavia, …
Per quanto riguarda la parte dell’ipotesi, bisogna fare una scelta: o ci si riferisce al caso specifico, nel quale la banca ha già promosso l’azione, quindi l’ipotesi è irreale, oppure ci si astrae dal caso in questione, quindi si può fare un’ipotesi possibile. Nel primo caso avremo:
“Pertanto, se ci si fosse aspettato che la banca promuovesse la presente azione di pagamento solo dopo che fosse stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiarasse la nullità del contratto di mutuo (la quale, nonostante siano decorsi cinque anni, non è stata ancora emessa), ciò avrebbe potuto generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto fosse prescritto [possibile anche sarebbe stato prescritto] prima di poter essere esercitato”.
Nel secondo caso avremo:
“Pertanto, se ci si aspettasse che la banca promuova l’azione di pagamento [bisogna eliminare presente, perché si sta facendo un’ipotesi astratta] solo dopo che sia stata pronunciata la sentenza definitiva che dichiara [possibile anche dichiari] la nullità del contratto di mutuo (la quale potrebbe essere emessa dopo molti anni) [bisogna modificare il contenuto della parentesi per renderlo astratto], ciò potrebbe generare nella banca la preoccupazione che il suo diritto sia prescritto prima di poter essere esercitato”.
Nella seconda frase innanzitutto vanno eliminate queste virgole: … prestito concluso tra un ente creditizio e un consumatore per… Bisogna, poi, inserire l’articolo determinativo qui: l’articolo 7. Per quanto riguarda i due punti dell’elenco, infine, nel primo le varianti proposte sono tutte possibili: venga è del tutto equivalente a sia, ma vista la complessità della frase si potrebbe propendere per il più semplice sia; per dichiari o dichiara si veda l’alternanza ammessa (con preferenza per dichiara) nella frase precedente. La stessa alternanza (e la stessa preferenza) è ammessa nel secondo punto; sia stata pronunciata è la forma corretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi potete aiutare gentilmente con queste due frasi (tradotte dal polacco)?
1) L’attrice ha affermato che, l’accoglimento dell’argomentazione dei convenuti implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONGA (sceglierei questo) / DISPONE / DISPORREBBE de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, la banca SAREBBE STATA (sceglierei questo) / SIA privata del suo diritto da un giudice.
2) Il giudice relatore ha espresso il parere che egli avrebbe emesso il decreto di fissazione dell’udienza per l’esame del quesito giuridico non appena per tale procedimento fosse stato designato un collegio la cui composizione non SAREBBE STATA (così io) / FOSSE contraria alle disposizioni di cui all’articolo 379, punto 4, del k.p.c.
RISPOSTA:
La prima frase va valutata con attenzione. Innanzitutto, bisogna eliminare la virgola tra che e l’accoglimento. Per quanto riguarda i verbi delle proposizioni dipendenti, le difficoltà cominciano con si sia verificata: il passato, infatti, rende incoerenti tutte le alternative successive proposte, che collocano gli eventi nel presente, con una proiezione nel futuro. Se oggi, cioè, si argomenta che la banca si è trovata in una certa situazione in passato, allora in quella situazione non disponeva della possibilità di esercitare. Se il senso della frase è questo, allora la frase sarà costruita così: “… implicherebbe che «si sia verificata una situazione bizzarra in cui la banca non DISPONEVA de facto della possibilità di esercitare un’azione di rimborso del capitale» e, quindi, CHE la banca SIA STATA privata del suo diritto da un giudice”. L’ultima parte, si noti, si innesta come dipendente da implicherebbe, quindi ricalca la costruzione di che si sia verificata…. In alternativa, quest’ultima parte si può costruire così: “. La banca SAREBBE STATA, quindi, privata del suo diritto da un giudice”. In questo modo, la proposizione diviene una frase indipendente, in cui l’evento condizionato assume come ipotesi la proposizione ricostruita implicitamente se l’argomentazione dei convenuti fosse accolta.
Se, al contrario, il senso della frase è che la banca si troverebbe in quella situazione se l’argomentazione fosse accolta, il passato si sia verificata deve essere sostituito da si verifichi. A questo punto, tutte le tre alternative proposte per la subordinata relativa sono possibili. Tra queste preferirei dispone, visto che la relativa preferisce l’indicativo; il congiuntivo sarebbe attratto da si verifichi, il condizionale da implicherebbe. Per le ragioni spiegate sopra, l’ultima parte può essere costruita con il congiuntivo presente (sia privata), oppure, come frase indipendente, così: “. La banca SAREBBE, quindi, privata del suo diritto da un giudice”.
Nella seconda frase sono possibili entrambe le forme verbali. In astratto, la proposizione relativa si costruisce con l’indicativo, quindi il condizionale passato con la funzione di futuro nel passato è corretto; d’altro canto, la dipendenza da una proposizione al congiuntivo trapassato rende il condizionale sgradito (per quanto, ribadisco, non scorretto) e attrae fortemente verso il congiuntivo. Il congiuntivo imperfetto, del resto, può veicolare lo stesso significato del condizionale passato di passato con proiezione nella posteriorità. Entrambe le forme proposte, quindi, collocano l’essere contraria sullo stesso piano di avrebbe emesso; sarebbe anche possibile, però, collocare questa qualità sul piano del designare, con il congiuntivo trapassato non fosse stata contraria.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
- È stato Carlo a colpirlo / Carlo è stato a colpirlo
…In questo genere di frasi il soggetto va prima o dopo il verbo? Di base andrebbe prima (come la seconda opzione); però ho letto che spesso viene posposto al verbo per dare più rilevanza al soggetto e per una maggiore espressività? Insomma, in questi casi, entrambe le soluzioni sono accettabili?
RISPOSTA:
Il caso da lei indicato è una frase scissa, che serve a focalizzare (cioè mettere in rilievo come informazione nuova o contrastata rispetto a un’altra) una parte dell’enunciato rispetto a un’altra. Come tale, l’ordine normale è «È stato Carlo a colpirlo»; sarebbe talmente innaturale da risultare al limite dell’inaccettabile «Carlo è stato a colpirlo», ancorché astrattamente possibile.
L’ordine dei sintagmi negli enunciati risponde a esigenze pragmatiche, cioè relative alla struttura delle informazioni (date e nuove). In alcuni casi, tuttavia (cioè con i verbi inaccusativi, vale a dire tutti quelli che hanno come ausiliare essere anziché avere), la posizione normale, non marcata, non focalizzata, del soggetto è quasi sempre postverbale, cioè rematica, mentre quella preverbale (tematica) è quasi sempre avvertita come marcata. Abbiamo già risposto su un quesito analogo a questo e dunque, per ulteriori dettagli sull’argomento, la invitiamo a leggere la nostra risposta di allora.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle costruzioni in cui il soggetto della sovraordinata coincide con quello dell’ordinata, l’infinito passato può fare ufficio del futuro anteriore?
- Andremo in banca dopo essere usciti dal lavoro.
- Ci confronteremo in privato dopo aver detto ognuno la propria versione.
Le rispettive varianti con il futuro anteriore (dopo che saremo usciti; dopo che avremo detto…) sono comunque possibili e corrette?
RISPOSTA:
Sì, l’infinito passato nei casi indicati equivale a quello che nella forma esplicita sarebbe il futuro anteriore, che dunque sarebbe altrettanto corretto. Va detto però che scelta del futuro anteriore è meno usuale, dal momento che l’italiano di norma, in caso di identità di soggetto tra reggente e subordinata, preferisce la forma implicita a quella esplicita.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento.
- Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non aver richiesto la prosecuzione a pagamento.
1=contemporaneità. 2=anteriorità.
Vorrei sapere se la mia osservazione è corretta.
RISPOSTA:
Sì, la sua osservazione è corretta. Va però detto che in questi e in altri casi di consecutio temporum i parlanti si muovono con maggiore elasticità rispetto alle norme astratte. Pertanto, pur trattandosi propriamente di anteriorità, nel caso in questione, entrambe le soluzioni sono accettabili. In altre parole, «Ci hanno spiegato che sarebbe cessata la convenzione gratuita a meno di non richiedere la prosecuzione a pagamento» può essere usato anche se la richiesta di prosecuzione è stata richiesta, o va richiesta, prima della cessazione. Del resto, per senso comune, sarebbe ben strano non formulare la richiesta prima della cessazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
1) Sai domani chi esce/escono?
2) Fatevi riconoscere, chi siete?
È esatto dire che in frasi interrogative, dirette o indirette, “chi”, come pronome, significa «quale persona, quali persone»; e per quanto riguarda l’accordo del verbo, come si legge sulla Treccani, anche quando ha valore di plurale, l’accordo del verbo si fa ugualmente al singolare: “Sai domani chi esce? (e non *”…chi escono”)”; infatti in questo esempio, rispetto a ciò che vogliamo riferire, “chi” può esprimere un’idea di collettività, di pluralità. In pratica è come se dicessimo “Sai domani quali persone (e cioè “chi”) escono?” Per converso, come si legge sempre sulla Treccani, va però al plurale il verbo, e qui il “chi” è da intendere come “nome del predicato”, in alcuni casi, e “soggetto”, in altri, quando il pronome “chi” è predicato (nominale) di un soggetto plurale: “Fatevi riconoscere, chi siete?, frase in cui “voi” è il soggetto sottinteso; “siete” (quindi verbo al plurale) è la copula e “chi”, con il significato di “quali persone”, è il nome del predicato: e cioè “…Voi siete quali persone? (chi?)” = predicato nominale?
RISPOSTA:
Chi come pronome interrogativo ammette l’accordo del verbo per numero e persona soltanto quando ha valore identificativo specifico e non quando ha il valore generico di ‘quale persona’: «Chi è entrato?» / «Mi chiedo chi sia entrato» (sarebbe agrammaticale *«chi sono entrati»); «chi sei/siete/sono?» / «Mi chiedo chi sia/siate/siano».
Possibile ed elegante, ma non necessaria, l’analisi di chi come nome del predicato in frasi come «chi siete?». Più semplicemente e banalmente, è possibile analizzare la frase come «chi» soggetto e «siete» predicato verbale.
Fabio Rossi
QUESITO:
È giusto dire che nei verbi composti con l’ausiliare “essere” (dunque verbi intransitivi, passivi, riflessivi e intransitivi pronominali ecc.), il participio concorda con il soggetto (quindi metteremo la desinenza -o per il maschile oppure -a per il femminile al singolare; e metteremo la desinenza -i per il maschile, o maschile e femminile insieme, oppure -e per il femminile al plurale): “Le bambine sono andate a letto presto”; “I bambini sono stati mangiati dalle zanzare”, “I bambini e le bambine sono stati punti dalle zanzare”, “Arianna si è guardata intorno”, “Francesco si è guardato intorno”. Mentre il participio rimane invariato in -o (e cioè alla forma maschile singolare “sovraestesa”, “omnicomprensiva”, “non marcata”, valida quindi per il maschile come per il femminile) quando l’ausiliare è “avere” (sia con i verbi transitivi sia con quelli intransitivi; al plurale cambia il numero dell’ausiliare): “La gatta ha mangiato il topo”, “I topi hanno spaventato l’elefante”, “Le iene hanno terrorizzato gli elefanti”; “I ragazzi e le ragazze hanno continuato a russare”. Per converso, la concordanza con il complemento oggetto, in un verbo transitivo e quindi con l’ausiliare “avere”, è più rara: “Maria ha scritta la lettera”. Se però il complemento oggetto è costruito con una particella pronominale (che precede il verbo), l’accordo con il participio passato diviene obbligatorio: “C’è Lucia, l’hai vista?” e “Se non li hai mai incontrati, ti presento i miei fratelli”?
RISPOSTA:
Decine di risposte di DICO rispondono ai suoi dubbi: basta cercare, nell’archivio, “accordo participio”. Sì, la sua ricostruzione è corretta, con una precisazione. Mentre con i pronomi di terza persona l’accordo con l’oggetto è obbligatorio, con quelli di prima e seconda è opzionale: «ci hai visto/i/e» ecc., come può utilmente leggere in questa nostra risposta.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione».
«Il signor Bianchi» è proprietario della casa o dei mobili?
Se non vi fosse stato il riferimento al precedente rapporto di locazione, sarebbe stata la stessa cosa per individuare la proprietà della casa?
RISPOSTA:
Casi del genere (in cui cioè un complemento è riferito a una sola parte di un sintagma complesso, oppure all’intero sintagma) sono spesso ambigui, né è facile risolvere l’ambiguità se non grazie al contesto e al senso comune. Talora si può intervenire, per disambiguarli, sull’ordine dei sintagmi, inserendo, per esempio, un inciso, a mo’ di glossa esplicativa, o altre informazioni chiarificatrici, a scapito, però, della sintesi. «Il figlio del tabaccaio che è stato ucciso è stato citato in un articolo». È il figlio del tabaccaio o il tabaccaio ad essere stato ucciso e citato? Se non si capisce dal contesto, si potrebbe disambiguare la frase riformulandola mediante una diversa disposizione delle informazioni: «L’articolo parla del figlio del tabaccaio, il ragazzo ucciso il mese scorso» (nel caso del figlio; difficile appellare come “ragazzo” un uomo con un figlio); «L’articolo parla del tabaccaio ucciso il mese scorso, il quale aveva un figlio di unici anni» (nel caso del padre). Nel caso da lei segnalato, l’ambiguità rimane sia con sia senza «e relativi al precedente rapporto di locazione». Infatti, «e relativi» ecc. può essere concordato a «depositati», senza escludere la doppia possibilità che «di proprietà» si riferisca agli stessi mobili o all’intera casa di via Mazzini. Certo, il contesto, se si parla di locazione, lascia intendere che il signor Rossi fosse in affitto, mentre il signor Bianchi fosse il proprietario dell’immobile, ma, in via del tutto teorica, non si può certo escludere che il contratto di locazione riguardasse i mobili, anziché la casa, o che il signor Rossi fosse il proprietario che ha dato in affitto il proprio appartamento (e che dunque solo i mobili, e non la casa, fossero del signor Bianchi). A scanso di ogni equivoco, si può intervenire sull’ordine delle informazioni e sugli incisi: «Il signor Rossi, che è il proprietario della casa [oppure dei mobili, ma non della casa], ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini di proprietà del signor Bianchi e relativi al precedente rapporto di locazione». Oppure: «Il signor Rossi ha proceduto al ritiro dei mobili usati depositati nella casa di via Mazzini, che è di proprietà del signor Bianchi, e relativi al precedente rapporto di locazione».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei capire il motivo per cui Umberto Eco sceglie di usare il congiuntivo trapassato nel seguente periodo, che scrivo in maiuscolo, estratto dal Nome della Rosa, al posto del condizionale passato.
Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk – fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore FOSSE STATO incoronato in Roma.
Poteva scrivere: SAREBBE STATO…
RISPOSTA:
Avrebbe senz’altro potuto usare il condizionale passato; con questa forma, la proposizione introdotta da quando sarebbe stata interpretata come temporale e l’incoronare sarebbe stato collocato in un momento posteriore all’essere presente. Con il congiuntivo trapassato, invece, la proposizione introdotta da quando viene interpretata come ipotetica (quando = qualora): la collocazione temporale passa, quindi, in secondo piano e si dà più peso alla potenzialità (o non fattualità) dell’evento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1)”Vorrei qualcuno che dica (e non “dicesse”) la verità”
2)”Avrei voluto (ma anche “Volevo”) qualcuno che dicesse la verità”
Sono giuste le scelte verbali nelle relative delle tre frasi? Nella frase 1 la scelta migliore è il congiuntivo presente “dica” perché lo stato dell’essere è presente, come indica il condizionale presente. Di conseguenza la frase col congiuntivo imperfetto “dicesse” è incoerente, perché il verbo della reggente “Vorrei” implica che l’evento della relativa sia presente o futuro, non passato (d’altra parte il congiuntivo imperfetto si usa principalmente per esprimere un’azione passata). Probabilmente nella costruzione della relativa “Vorrei qualcuno che dica la verità” agisce il modello della completiva “Vorrei che qualcuno dicesse la verità”, senza che ci sia, però, una ragione sintattica per questo. Si noti, quindi, che la preferenza per il congiuntivo imperfetto nella relativa “Vorrei qualcuno che dicesse la verità” è a sua volta dovuta al modello del periodo ipotetico del secondo tipo, in cui il condizionale presente è di norma associato proprio al congiuntivo imperfetto: “Vorrei qualcuno che dicesse la verità”<"Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento". Perciò l'uso del congiuntivo imperfetto in una relativa retta da un condizionale semplice dipende dal fatto che il congiuntivo imperfetto è una forma che "ricalca" il periodo ipotetico del secondo tipo: infatti è come se dicessimo "Se qualcuno dicesse la verità, vorrei averlo in questo momento", ma che, rimanendo nel costrutto della proposizione relativa, indicherebbe che la qualità di “qualcuno”, e cioè “Qualcuno che dica la verità ”, riguardi il passato, e ciò sarebbe un po’ bizzarro, rispetto alla reggente che invece è al condizionale presente. Viceversa, nella frase numero 2 c'è un tempo passato nella principale che si riferisce ad un momento trascorso (ieri, in passato), e perciò nella relativa troviamo il congiuntivo imperfetto "dicesse", quindi un tempo passato.
RISPOSTA:
Le soluzioni migliori nelle proposizioni relative sono quelle indicate da lei: il congiuntivo presente in dipendenza da una reggente con vorrei, l’imperfetto in dipendenza da una reggente con avrei voluto. Per maggiori dettagli si vedano questa risposta e quest’altra, collegata alla prima.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È meglio dire «nel mese di Giugno partiremo per le vacanze» o «il mese di Giugno partiremo per le vacanze»?
Secondo me non c’è nessuna differenza, inoltre sia il complemento di tempo determinato (in questo caso questo degli esempi riportati) che in quello continuato (per esempio “ho dormito 7 ore/ per 7 ore) è possibile anche omettere la preposizione.
Usando la preposizione si va sul sicuro, ma credo non sia sbagliato omettere.
RISPOSTA:
Ha ragione, la preposizione si può omettere. Un’altra alternativa è con la preposizione a (ma senza mese): «a giugno partiremo per le vacanze». L’unico errore, nelle sue frasi, è l’iniziale maiuscola del mese. I mesi, come i giorni della settimana, si scrivono sempre e soltanto con l’iniziale minuscola.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ci vuole o no l’accento sulla e nella frase “E / È certo che spengo le luci”?
Io credo che ci voglia, eppure, dopo essermi confrontato con dei conoscenti, loro hanno detto di no. Sinceramente non capisco perché non ci voglia. Mi è sempre stato insegnato che se si sostituisce la e con essere oppure con un tempo passato del verbo essere e la frase ha senso, allora ci vuole l’accento sulla e, e in questo caso a me sembra proprio che le sostituzioni possono essere fatte: “Essere certo che spengo le luci” oppure “Era certo che spegnevo le luci” o ancora “Era (un fatto) certo che spegnevo le luci”. Se non ci vuole l’accento, potete spiegarmi, cortesemente, il perché?
RISPOSTA:
In questo caso avete ragione sia lei sia i suoi conoscenti: la frase può cominciare sia con e sia con è. Nel primo caso la e serve come segnale discorsivo, cioè come elemento che segnala la presa di turno nel parlato, e nello stesso tempo rafforza l’assertività dell’affermazione, un po’ come se facesse intendere “Non potrei fare altrimenti”. Un uso simile lo vediamo in una frase come “E come no?”, in cui, appunto, la e iniziale conferisce maggiore enfasi all’affermazione nascosta sotto la domanda retorica (“E come no?” = “Certamente sì, non potrebbe essere altrimenti”). Nel secondo caso vale la sua spiegazione; con il verbo essere il parlante intende soltanto confermare che l’azione è certa. Nove volte su dieci il parlante intenderà “E certo che spengo la luce”, non “È certo che spengo la luce”: qust’ultima costruzione, infatti, per quanto corretta in astratto, sarebbe coerente in ben poche situazioni comunicative autentiche.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) Credo che tizio sappia che caio è un ragazzo simpatico.
2) Immagino che tizio pensi che caio sia intelligente.
3) Ritengo che tizio creda che caio sia bugiardo”
4) Ritenevo che tizio credesse che caio fosse bugiardo”
Vorrei sapere se l’analisi logica delle frasi seguenti è corretta. Nella prima credo è la principale; che tizio sappia è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio è (e non *sia) un ragazzo simpatico è una subordinata oggettiva di secondo grado all’indicativo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo dichiarativo, che ammette l’indicativo. Nella seconda immagino è la principale; che tizio pensi è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di opinione, giudizio, conoscenza, pensiero ed opinione; che caio sia (e non *è) intelligente è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Nella terza ritengo è la principale; che tizio creda è una subordinata oggettiva di primo grado al congiuntivo, perché nella reggente (che in questo caso è anche la principale) c’è un verbo di pensiero ed opinione; che caio sia bugiardo è una subordinata oggettiva di secondo grado al congiuntivo presente, perché nella reggente (in questo caso nella subordinata oggettiva di primo grado) c’è un verbo di opinione, che ammette il congiuntivo. Sempre nella terza frase stiamo esprimendo contemporaneità al presente. Nella quarta frase il discorso è il medesimo, ma al passato, con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto perché stiamo esprimendo contemporaneità al passato.
RISPOSTA:
L’analisi del periodo (non è analisi logica, che, invece, riguarda la sola frase semplice) da lei proposta è corretta. Si possono aggiungere due particolari: quando sono ammessi sia l’indicativo sia il congiuntivo, il secondo è l’opzione più formale; un tempo verbale instaura un certo rapporto temporale con il tempo del verbo della proposizione reggente. Nella terza frase, quindi, creda è contemporaneo rispetto a ritengo e sia lo è rispetto a creda; allo stesso modo, nella quarta credesse è contemporaneo nel passato rispetto a ritenevo e fosse è contemporaneo rispetto a credesse.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1) «Tu sei un problema»
2) «La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi»
3) «I figli sono una grande preoccupazione»
4) «I miei amici sono la mia famiglia»
5) «La mia famiglia sono i miei amici»
6) «La famiglia sono i suoi membri»
7) «La vita non sei tu»
Sono corretti gli accordi nelle frasi? D’altro canto con un soggetto al singolare (“La villeggiatura”, “La mia famiglia”, “La famiglia”) e una parte nominale al plurale (“quattrini”, “i miei amici”, “i suoi membri”) l’accordo della copula (“sono”) è con la parte nominale (frasi 2, 5 e 6); mentre, viceversa, con un soggetto al plurale (“I figli”, “i miei amici”) e una parte nominale al singolare (“una grande preoccupazione”, “la mia famiglia”) l’accordo della copula (“sono”) è con il soggetto (frasi 3 e 4). In pratica, ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale. In più, quando la parte nominale è formata da un nome di genere non variabile (è il caso di “un problema”, nella frase 1, e “la vita” nella frase 7), esso si accorda con il soggetto (“tu” in entrambe le frasi; l’unica differenza è che nella frase 1 il soggetto è posto all’inizio, nella frase 7 è posto alla fine per dare particolare rilievo) solo nel numero (a riprova di ciò “problema” e “vita”, come nomi del predicato, non variano nel genere infatti “problemo” e “vito”, a meno che non si intenda il nome proprio, non esistono nella lingua italiana ma variano soltanto nel numero -singolare o plurale: “problemi” e “vite”). Mentre, in generale, la copula si accorda regolarmente con il soggetto nella persona e nel numero: per esempio, nella frase “Le ragazze sono brave insegnanti” il verbo copulare “sono” si accorda con il soggetto “ragazze” in numero (plurale) e persona (terza).
Pensate sia corretto?
RISPOSTA:
Sì, tendenzialmente tutte corrette, le sue deduzioni sulla base degli esempi citati, a parte qualche inesattezza sul genere: nella frase «Le ragazze sono brave insegnanti» l’accordo è anche nel genere: «le ragazze sono brave maestre» / «i ragazzi sono bravi maestri». Laddove possibile, cioè (nel caso di nomi variabili per genere), l’accordo avviene anche in base al genere. Insegnante non è un nome non variabile per genere, bensì un nome epiceno (o ambigenere, o di genere comune) il cui genere si evince dall’articolo (l’insegnante, la insegnante, gli insegnanti, le insegnanti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho letto una frase di un famoso politico che mi non mi quadra, ma non so bene perché. La frase dice: «[…] Vorrebbe dire che chiunque potrebbe venire nel nostro Paese».
Non sarebbe meglio «Vorrebbe dire che chiunque può venire nel nostro Paese»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette. Il secondo condizionale, tuttavia, non è un inutile orpello retorico né un semplice riverbero del precedente condizionale (o almeno non necessariamente). «Chiunque potrebbe venire nel nostro paese» indica una forma di attenuazione, di possibilità, da parte del mittente, rispetto all’indicativo «può venire». È come se il mittente subordinasse il suo discorso a un’ipotesi, che può essere, nel contesto, sia «se volesse», sia «se venisse attuata la tal proposta di legge». Dopodiché, a suonarle “storto” forse è il razzismo serpeggiante sotto la frase, ma non la sua forma, che è corretta. Nel primo caso (il razzismo serpeggiante), la frase suona malissimo e quadra pochissimo anche a me… Ma attenzione a non trasferire alle forme (e alla grammatica) ciò che è solo dei contenuti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Si dice “Se si possiede dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro” o “Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli ecc.”? Se non erro, “dai 3 ai 10 titoli” dovrebbe essere complemento di misura e quantità, quindi il “si impersonale” non va accordato. Però mi viene il seguente dubbio: ma non è che l’espressione “dai 3 ai 10” è complemento di quantità/misura e “titoli” , invece, il complemento oggetto plurale e quindi in questo caso bisogna dire “Se si possiedono” visto che abbiamo un complemento oggetto plurale (“titoli”)???
RISPOSTA:
La frase è costruita col si passivante e dunque equivale a: «se dai 3 ai 10 titoli accademici sono posseduti…». «Dai 3 ai 10 titoli accademici» è un soggetto complesso (con attributi), esattamente come sarebbe un complemento oggetto (e non un complemento di quantità) se la frase fosse attiva: «Se qualcuno possiede dai 3 ai 10 titoli accademici…». Pertanto, visto che in caso di forma passiva il verbo va concordato col soggetto, l’accordo per numero non può che essere al plurale: «Se si possiedono dai 3 ai 10 titoli accademici, si deve cercare subito lavoro».
Numerosissime risposte di DICO vertono sulle differenze e sull’accordo nei casi di si passivante. La invitiamo pertanto a (ri)leggerle, a partire da questa: https://dico.unime.it/ufaq/si-vive-o-si-vivono/
Fabio Rossi
QUESITO:
“Se si desidera far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba”. Nella frase di prima è giusto usare “Se si desidera”, e quindi il verbo desiderare alla terza persona singolare, oppure bisogna usare il verbo desiderare alla terza persona plurale (desiderano)? Credo che si debba usare “desidera” perché penso che “far giocare” sia il complemento oggetto del verbo desiderare, però mi è venuto il seguente dubbio “E se invece sia ‘desiderare’ che ‘far giocare’ vanno considerati come un unico predicato verbale e quindi gli unici complementi oggetto della frase sono Claudio e Giulio?” A quel punto, se fosse così, allora dovremmo utilizzare “desiderano” e non “desidera”. Oppure “desiderare’ va considerato come un verbo servile che viene in ausilio di “far giocare” e quindi bisogna comportarsi come se avessimo avuto al posto di ‘desiderare’ i verbi “volere, potere, dovere”? D’altro canto in italiano si dice “Si possono prendere queste cose”, e quindi “possono” (verbo servile) va al plurale proprio perché il complemento oggetto è al plurale (queste cose). Qual è la soluzione corretta al quesito?
RISPOSTA:
La frase è da intendersi con si impersonale (e non passivante) e il verbo va coniugato pertanto alla terza persona singolare: «Se si desidera [= se qualcuno desidera] far giocare Claudio e Giulio in giardino, bisogna tagliare l’erba». La frase volta al passivo sarebbe agrammaticale: *«Claudio e Giulio sono desiderati essere fatti giocare [o fare giocare]…».
Negli esempi successivi, invece, la costruzione passivante funziona e il verbo va pertanto al plurale, accordato con il soggetto (plurale): «Si possono prendere queste cose» = «queste cose possono essere prese».
Il costrutto con verbo fattitivo o causativo (fare giocare, lasciare giocare ecc.) è diverso dal costrutto con verbo modale o servile (posso giocare, devo giocare ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Intanto “che” come pronome relativo può svolgere la funzione di soggetto o complemento oggetto: “La donna che vende i pomodori è mia amica” (soggetto) e “La donna che vedi è mia cugina” (oggetto). Al contrario “Il quale” è sempre un pronome relativo e può venir usato anch’esso come soggetto o come complemento oggetto: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, i quali si trovano in biblioteca” (soggetto) e “La torta, la quale ha preparato la nonna, è buonissima” (oggetto). Per quanto riguarda il quesito iniziale, per cui vorrei avere una conferma, penso che nel dubbio sulla scelta tra “che” o “quale” (il quale, la quale, i quali, le quali), visto che spesso si pone una scelta su quale dei due usare, scegliendo “che” non si sbaglia mai perché benché virtualmente intercambiabili, la frequenza d’utilizzo pone la “nostra” attenzione su “che”; infatti un più semplice e diretto “che” è spesso preferito alla forma composta il quale (e le altre forme); “il quale” (e le altre forme) che è più ricorrente invece in alcuni usi formali, può però tornare utile in certi casi per dissipare possibili equivoci: «Ho visto la sorella di Paolo, che ha una laurea in legge» [Serianni]. Chi? ha una laurea in legge: Paolo o la sorella? Impossibile il fraintendimento, invece, con la forma variabile: «Ho visto la sorella di Paolo, la quale ha una laurea in legge». Esempio inventato (ma il discorso come dicevo è valido in generale): “Ci sono persone che (il semplice “che”, con cui non si sbaglia mai, sostituisce il più formale “le quali”, qualora fossimo in dubbio sulla scelta appunto tra “che” o “quale”, ecc…) farebbero di tutto per avere questo lavoro”. E ancora: “Il maestro ci ha consigliato diversi libri da leggere, che (i quali) si trovano in biblioteca”. Quindi tutti gli esempi che ho scritto in questo intervento, nonostante l’intercambiabilità dei pronomi, possono essere semplicemente scritti anche con il semplice “che” per evitare appunto di cadere in errore e confusione.
RISPOSTA:
Che e il quale, come dice lei, sono intercambiabili solo virtualmente. Nella realtà degli usi linguistici, di fatto, che va sempre bene, mentre art. + quale ha forti restrizioni: non si usa tendenzialmente quando ha valore di oggetto («la maglia ??la quale mi hai regalato è perfetta per questo clima»), né quando ha valore restrittivo: «sei l’unico ??il quale ha risposto alla domanda».
Fabio Rossi
QUESITO:
Sebbene la scelta tra “cui” e “quale” sia libera, in alcuni contesti è possibile usare solo “quale” (il quale/ la quale/ i quali/ le quali): o dopo un verbo implicito: “C’è stata una battaglia violenta durante la quale (e non “durante cui”) sono morte molte persone”: infatti “durante”, che ha anche funzione di preposizione impropria, è però il participio presente del verbo “durare”, e la regola dice che è possibile usare solo “la quale” (il quale/ i quali/ le quali), e non “cui”, dopo un verbo implicito: infatti, come in questo caso, “durante” è il participio presente, quindi forma, verbo implicito, del verbo “durare”; oppure c’è anche un altro caso in cui, invece, non possiamo usare “cui” ma dobbiamo ricorrere al pronome relativo variabile “il quale, la quale, i quali, le quali”: e cioè quando il pronome relativo segue un numero o un pronome indefinito, come nelle frasi seguenti: “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, due delle quali invariabili” e non “In italiano ci sono diverse forme di pronome relativo, *due di cui invariabili” e “Sono emersi diversi problemi per ognuno dei quali si è cercata una soluzione” e non “Sono emersi diversi problemi, *per ognuno di cui si è cercata una soluzione”. Diversamente, “cui” e “quale” (nei vari complementi indiretti introdotti da preposizione) sono intercambiabili: “Il parco davanti al quale abito è verdissimo” ma anche “Il parco davanti (a) cui abito è verdissimo”. Tuttavia, e qui ho un dubbio, di fronte ad una locuzione prepositiva (es. “a causa di”, “grazie a”, ecc…), come ci dobbiamo comportare? es.: “Ho fatto molti errori a causa dei quali/di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta” e “Lui è il professore grazie al quale/a cui sono stato promosso”. In questi contesti c’è una regola? Immagino siano intercambiabili…
RISPOSTA:
In effetti, dalla casistica riportata dalle due maggiori grammatiche italiane (Serianni e Renzi-Salvi-Cardinaletti) non si evincono molte altre restrizioni sull’uso di cui (rispetto a ART o prepos. + quale) oltre a quelle da lei enunciate. È però indubbio che, con le locuzioni preposizionali a causa di, grazie a e simili, quale funzioni meglio di cui o talora cui sia proprio impossibile (agrammaticale): «ho un problema a causa del quale non posso uscire» (*a causa di cui); «questa è la ragazza grazie alla quale ho cambiato vita» (?? grazie a cui). Perché? Forse perché il costrutto è assimilabile a quello che Cinque (nella Grammatica di Renzi-Salvi-Cardinaletti, vol. I, pp. 448ss.) chiama «costruzione appositiva parentetica», ovvero una relativa non restrittiva (sebbene le relative degli esempi qui sopra siano restrittive) in cui tra l’antecedente e il relativo vi sia una sorta di frattura, non necessariamente per la distanza. Insomma, forzando un po’ la mano per semplificare, è come se la locuzione venisse ancora avvertita come non del tutto grammaticalizzata e quindi inibisse l’uso di cui, che invece funziona perfettamente con le preposizioni proprie: «ho un problema per cui non posso uscire»; «questa è la ragazza per cui ho cambiato vita». Anche nei suoi ultimi esempi, cui/quale non mi sembrano intercambiabili: «Ho fatto molti errori a causa dei quali/*di cui abbiamo riportato una sonora sconfitta»; «Lui è il professore grazie al quale/??a cui sono stato promosso».
Naturalmente, la mia è solo un’ipotesi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei gentilmente sapere se entrambe le costruzioni sotto indicate siano valide.
«Con quella lettera mi si è comunicato la convocazione».
«Con quella lettera mi si è comunicata la convocazione».
(Mi si è comunicato/a = mi è stata comunicata.)
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è la seconda: «mi si è comunicata la convocazione». Il si ha infatti qui valore passivante e dunque la frase equivale a: «mi è stata comunicata la convocazione». L’accordo al maschile sarebbe agrammaticale: *«Mi è stato comunicato la convocazione», in quanto violerebbe la regola dell’accordo tra verbo e soggetto.
Fabio Rossi
È preferibile dire: “Nel periodo ellenistico sorsero città importanti di cultura greca fuori dalla Grecia”, oppure “fuori della Grecia”?
Fuori è costruito preferenzialmente con da quando la preposizione è articolata (come nel suo caso); nei pochi casi in cui la preposizione non è articolata (quindi in espressioni cristallizzate), invece, è preferita di: fuori di casa, fuor( i ) di dubbio, fuori di testa, fuori di sé, fuori d’Italia. Fuori seguito da di articolata è possibile, ma si tratta di una variante ricercata da limitare a contesti molto formali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Avrei 3 domande da sottoporvi: 1) È corretto dire “Vorrei avere più amici possibili” o “Vorrei avere più amici possibile”? Oppure sono entrambe corrette? Solitamente in casi del genere preferisco usare possibili, però leggo su libri, quotidiani ecc. quasi sempre il secondo caso con possibile. È sbagliato usare possibili in questo contesto? Potrei avere una spiegazione in merito?
2) In un articolo di giornale (di cui ora non ricordo il titolo) c’era un periodo del genere: “Il signore non si è davvero comportato bene. E sì una brava persona, ma ieri sera non si è assolutamente comportato bene”. La mia domanda è: non ci vorrebbe l’accento sulla E nella frase “E sì una brava persona”? Alla fine quel sì credo che svolga soltanto la funzione di rafforzativo, quindi non capisco come mai manchi l’accento sulla E.
3) Secondo le regole grammaticali attuali se io uomo parlo con una donna posso dire sia ti ho visto che ti ho vista, poiché il ti è una particella pronominale che svolge la funzione di complemento oggetto. Ma se dicessi invece ti ho pensata, è sbagliato accordare il participio con ti, visto che quest’ultima svolge la funzione di complemento di termine e non di complemento oggetto?
RISPOSTA:
1. A rigore la forma corretta è possibile, perché (il) più possibile è un’abbreviazione di (il) più che sia possibile, quindi avere più amici possibile = avere più amici che sia possibile. A ben pensarci, in effetti, avere più amici possibili significa qualcosa come avere più amici avverabili, potenziali, che non è certo quello che si intende con questa espressione. Bisogna, comunque, rilevare che l’accordo di possibile con il nome rappresentato al massimo grado è molto comune (più amici possibili o anche gli amici più fedeli possibili); lo considererei, pertanto, una sbavatura che intacca lo stile del parlante, non un errore in assoluto.
2. L’espressione che lei ha letto è ovviamente sbagliata: l’unica forma possibile è È sì una brava persona.
3. Non è possibile una costruzione come *ti ho scritta; ti ho pensata, invece, è possibile, perché pensare ha una reggenza ambigua: ammette sia ho pensato te sia ho pensato a te.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Spesso faccio confusione nel distinguere i verbi andare e venire in determinati contesti.
“Lara è uscita di casa ed è venuta a prendere il figlio a scuola.”
Il parlante in questo esempio usa venire sottintendendo che nel momento in cui Lara si è presentata a scuola era in quel luogo. Se invece tale verbo fosse stato sostituito da andare, il parlante avrebbe evidenziato tutta la sua distanza dall’azione. La mia interpretazione è corretta?
RISPOSTA:
Sì, la sua interpretazione è corretta, perché i verbi andare e venire esprimono un movimento di allontanamento o di avvicinamento da chi parla. Nel caso di andare, il parlante si trova lontano dalla destinazione di spostamento; nel caso di venire, il parlante si trova vicino o è già nella destinazione di riferimento.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo alle seguenti frasi sia per la punteggiatura sia per la sintassi.
1. L’ultimo anno della scuola secondaria è già iniziato e ogni giorno che passa l’ansia sale, perché le scelte sono molte e anche i cambiamenti.
2. La paura non contrasta le emozioni negative, anche se la paura non la vedo come una cosa negativa.
3. Sono ancora indeciso su quale scuola superiore frequentare, visto che questa scelta condizionerà la mia vita futura. Però una scuola che mi interessa ce l’ho.
4. Sono cresciuto sia in altezza sia in senso di maturità.
5. A riguardo della possibile scuola che farò…
6. Adesso ti racconto della scuola che mi piace. Prima di tutto questa scuola è nell’ambito dell’ economia…
7. Da grande voglio/vorrei lavorare.
RISPOSTA:
La frase 1 non presenta difficoltà. La 2 è problematica innanzitutto per il contenuto, che non è chiaro. Forse il senso inteso è che la paura non è in contrasto (il verbo contrastare veicola un’idea di azione che in questo caso sembra fuori luogo) con le emozioni negative ma nemmeno è un’emozione negativa? Dal punto di vista formale spicca la dislocazione a sinistra la paura non la vedo, che è appropriata se la frase è inserita in un contesto informale, specie parlato, mentre dovrebbe essere trasformata in non la vedo (eliminando la ripetizione del sintagma la paura) in un contesto formale. Nella sequenza di frase 3 l’unico appunto è ancora la dislocazione a sinistra dell’ultima frase: in un contesto formale dovrebbe essere modificata, per esempio con però ho già in mente una scuola che mi interessa. La frase 4 presenta un parallelo male assortito: intanto il sintagma senso di maturità è poco perspicuo; l’idea di crescere in qualità psicologiche, inoltre, è bizzarra. Piuttosto, sono le qualità psicologiche che crescono nella persona. Si potrebbe correggere il costrutto così: “Sono sia cresciuto in altezza sia maturato”. Nella 5 la costruzione di riguardo è scorretta: la variante corretta è Riguardo alla possibile scuola… (oppure A proposito della possibile scuola…). L’espressione al riguardo (comunque non a riguardo, che è sempre scorretta), invece, equivale a in proposito e, come quest’ultima, ha un uso assoluto, cioè non regge alcun ulteriore complemento. La 6 non presenta difficoltà (sebbene la ripetizione questa scuola possa essere del tutto eliminata). La 7 va bene con l’una e l’altra forma verbale; la scelta dipenderà dal grado di assertività che si vuole rappresentare.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Dimmi quando sei nato che ti faccio l’oroscopo”.
Quel che è corretto? Sta per perché poi potrò farti l’oroscopo, quindi sarebbe un’abbreviazione di perché e penso che, per questo motivo, richiederebbe l’accento. Vi sarei grata se voleste chiarirmi questo dubbio.
RISPOSTA:
Non è un’abbreviazione, ma è proprio la congiunzione che, che, effettivamente, ha in questo caso una funzione consecutivo-finale. Questa funzione, come anche quella causale e altre meno comuni, è stata assunta dalla congiunzione che nell’italiano contemporaneo. In virtù di tale allargamento di funzionalità, la congiunzione è chiamata anche che polifunzionale. Per approfondire questo tratto dell’italiano contemporaneo è possibile consultare l’archivio delle risposte cercando la parola chiave polifunzionale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi sottopongo un dubbio sorto sull’uso del congiuntivo in una frase presa da un articolo di giornale:
“Non dobbiamo più dire che gli uomini debbano comportarsi come uomini”.
Chiedo se sia o no obbligatorio l’uso dell’indicativo (per la tipologia di verbi nella reggente) oppure se l’uso del congiuntivo sia giustificato da una scelta che vuole marcare una sorta di incertezza all’intera frase.
RISPOSTA:
L’indicativo è una scelta sistematica (sebbene non ci sia una regola che la renda obbligatoria) nelle oggettive dipendenti dal verbo dire quando quest’ultimo è affermativo (per esempio: “Dobbiamo dire che gli uomini devono comportarsi…”). Quando, invece, il verbo dire è negato, il congiuntivo nell’oggettiva diviene possibile, come nel suo esempio. Come sempre avviene quando è possibile l’alternanza tra indicativo e congiuntivo, quest’ultimo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi su queste frasi:
1) Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (o fosse calato), avresti potuto comprarla.
2) Non appena/Quando sarebbe arrivato (fosse arrivato) il tuo turno, avresti potuto alzare la mano.
3) Finché non sarebbe sorto il sole, non si sarebbe svegliato.
Mi viene spontaneo usare il condizionale passato dopo Quando/Non appena/Finché, eppure, dopo aver fatto una piccola ricerca su internet, ho potuto constatare che è molto più diffuso il congiuntivo trapassato (come se quando, non appena e finché eqivalessero a se). È corretto usare il condizionale passato nelle frasi che vi ho sottoposto?
RISPOSTA:
Il condizionale passato è corretto tanto quanto il congiuntivo trapassato. In particolare, nelle prime due frasi il condizionale rappresenta gli eventi come successivi ad altri eventi passati (e secondariamente condizionati dagli stessi eventi). Si noti che se trasportiamo la prima frase al presente avremo “Quando il prezzo calerà potrai comprarla”: tanto il calare quanto il poter comprare sono rappresentati come fatti che avverranno nel futuro. Ebbene, se l’evento futuro è collocato nel passato, esso si costruisce, per l’appunto, con il condizionale passato: questa forma corrisponde, quindi, al futuro nel passato. Gli eventi rispetto a cui il calare e l’arrivare sono sucessivi non sono esplicitati, ma il ricevente non può che presupporre la loro esistenza proprio per via dell’uso del condizionale passato. Il ricevente, cioè, rappresenta nella sua mente la prima frase come “Non appena/Quando il prezzo della borsa sarebbe calato (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…” e la seconda, ugualmente, come “Non appena/Quando sarebbe arrivato il tuo turno (rispetto a quel momento precedente non meglio specificato)…”.
Il congiuntivo trapassato rappresenta gli stessi eventi come non fattuali, e più precisamente come ipotetici; il suo uso è attratto dal condizionale passato della proposizione reggente, che viene identificato dal parlante come una conseguenza, rispetto alla quale è necessario individuare un’ipotesi. Le congiunzioni che introducono le proposizioni sono, quindi, equivalenti a se (come suggerito da lei) e tutta la frase diventa una sorta di periodo ipotetico del terzo tipo.
La terza frase è apparentemente diversa dalle prime due perché il sorgere del sole è per definizione non ipotetico. Immagino che per questo motivo lei proponga soltanto la variante con il condizionale passato. Il congiuntivo trapassato è, invece, corretto anche in questo caso: con finché non fosse sorto, infatti, l’emittente intenderebbe non se non fosse sorto, che sarebbe illogico, ma se non prima fosse sorto, che sottolinea la consecutività del rapporto tra il sorgere del sole e lo svegliarsi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio quesito riguarda il valore della locuzione avverbiale zitte zitte nella seguente frase: “Le poverine, dopo il severo rimprovero, se ne andarono zitte zitte”. Vorrei sapere se la suddetta locuzione ha valore predicativo o valore avverbiale.
RISPOSTA:
L’espressione è una locuzione avverbiale, equivalente a silenziosamente. Avrebbe valore predicativo l’aggettivo non ripetuto: se ne andarono zitte. La distinzione si basa sul principio che l’aggettivo è collegato al soggetto, quindi predica un suo stato, mentre la locuzione avverbiale è collegata al verbo, quindi descrive in che modo avviene il processo. In questo caso, per la verità, tale distinzione risulta un po’ capziosa, perché nella locuzione, formata con la ripetizione dell’aggettivo, si sente chiaramente la funzione dell’aggettivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un articolo online della Zanichelli dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro», ho notato che sono state riportate indifferentemente queste 2 frasi come corrette dall’autore dell’articolo: A) Mario e Luca si aiutano l’un l’altro; B) Mario e Luca si aiutano l’uno con l’altro.
Ora, la mia domanda è: qual è la regola grammaticale che stabilisce che tra “l’uno” e “l’altro” va bene il “con” quando c’è il verbo transitivo “aiutare” nella frase? È forse un’eccezione grammaticale? Oppure viene usato il “con” come rafforzativo?
Insomma, è la stessa cosa se dicessi “Marco e Luca si sopportano l’un l’altro” oppure “Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro”?
Devo ammettere che le due frasi della Zanichelli mi hanno mandato un po’ in confusione. Potete aiutarmi? Grazie.
P.S. Anche in un articolo dell’Accademia della Crusca dal titolo «Uso dei pronomi reciproci l’uno e l’altro» ho notato che viene usato il “con” tra “l’uno” e “l’altro” quando c’è il verbo transitivo “aiutare”. Infatti, più o meno, alla fine dell’articolo vi è la seguente frase: “Marco e Giuseppe si aiutano l’uno con l’altro”.
RISPOSTA:
Se andiamo a guardare la norma (intesa come convenzione sociale) della lingua e anche il funzionamento grammaticale dei costrutti, senza dubbio l’unica forma pienamente corretta è «Mario e Luca si aiutano l’un l’altro», poiché il verbo aiutare è transitivo. Tuttavia, dal momento che la lingua dell’uso non risponde soltanto a logiche grammaticali e a norme sociali, ma prende anche altre pieghe, sia nel parlato sia nello scritto, in effetti esempi come «aiutarsi gli uni con gli altri» e simili sono comunissime. E, dato che ogni uso (se non idiosincratico) ha sempre una sua spiegazione, cioè una sua regola, più che sanzionare siamo interessati a capire e a trovare queste regole. È probabile che nel caso specifico abbiamo agito due forze, a favore dell’uso di con. La prima è l’interferenza del verbo pronominale aiutarsi, che ha un significato e una costruzione differenti da aiutare: «aiutarsi con le mani», «aiutarsi con qualche farmaco» ecc. L’altra forza è data dal senso del verbo aiutare (e aiutarsi), che fa leva cioè sulla collaborazione, sullo stare insieme, cioè “con” qualcuno: ecco che scatta dunque la funzione del “con” in «aiutarsi gli uni con gli altri», che non è da considerarsi un rafforzativo, né un’eccezione, ma proprio un uso alternativo (senza dubbio ancora avvertito come meno formale, in quanto non tradizionale: esiste comunque fin dal ’300, se ne legge un esempio in Villani nel Battaglia) rispetto a «aiutarsi gli uni gli altri». Lo stesso vale per «Marco e Luca si sopportano l’un l’altro» oppure «Marco e Luca si sopportano l’uno con l’altro». Non c’è dubbio che la costruzione più formale (in linea con la tradizione) sia la prima; tuttavia la seconda, sebbene meno frequente (si ricerchino le occorrenze in Google), è comunque ben attestata in italiano e come tale non può essere respinta né come errata né come eccezionale. Anche qui, ha senza dubbio agito il senso del verbo sopportare: sopportare, così come aiutare, è un’azione che si fa in (almeno) due persone, addirittura reciproca, negli esempi citati, ovvero è qualcosa che si fa “con” qualcuno, nei confronti di qualcuno.
Fabio Rossi
QUESITO:
«La maggior parte del tempo la/lo passa in quel paese». Volevo chiedere se l’accordo del pronome si fa al maschile, e quindi “lo” accordato con “del tempo” o al femminile, e quindi “la” accordato con “La maggior parte”. Io penso, ditemi se sbaglio, che in questi casi si possa parlare di “concordanza grammaticale” (valida, in generale, immagino non solo per il singolare/plurale, ma anche per il maschile/femminile) se l’accordo di “la” fosse con “La maggior parte”; e di “concordanza a senso” se l’accordo di “lo” fosse con “del tempo”.
RISPOSTA:
Sì, la sua risposta è corretta. Aggiungerei che la concordanza a senso, pur comune nel parlato quanto al numero («la maggioranza delle persone pensano», comunque da evitare nello scritto), è da evitare sempre nel genere. E dunque un esempio come «La maggior parte del tempo lo passa in quel paese» susciterebbe una reazione negativa anche nella gran parte degli ascoltatori.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei esporvi questa frase, invitandovi a considerare che la struttura a cui mi riferisco era un tempo ed è tuttora nello stesso luogo: «Anni fa, prima di andare allo studio del dr X, avevo chiesto dove si trovava» oppure «dove si trova» (considerando che è ancora là). Penso sia corretto anche «dove si trovasse», ma gradirei una vostra conferma a riguardo.
RISPOSTA:
Le frasi corrette sono «avevo chiesto dove si trovava» (meno formale e più comune) oppure «dove si trovasse» (più formale e meno comune), dal momento che le interrogative indirette si possono costruire sia con l’indicativo sia con il congiuntivo. Quanto al tempo, l’unico tempo corretto, dato che dipende da un passato della reggente (avevo chiesto), è l’imperfetto (indicativo o congiuntivo: trovava o trovasse). Il presente sarebbe ammesso soltanto in dipendenza da un presente: «chiedo (ora) dove si trova» o «trovi». Il fatto che la struttura si trovi tuttora nel medesimo posto è ininfluente, ai fini della consecutio temporum (cioè l’accordo dei tempi tra reggente e subordinata), in quanto quello che conta non è l’hic et nunc sempre e comunque, bensì l’hic et nunc in riferimento alla reggente. Nella reggente «avevo chiesto», il centro deittico (cioè l’hic et nunc cui fanno capo tutti gli altri riferimenti spazio-temporali e personali) è costituito dalle seguenti coordinate spazio-temporali e personali: io – nel passato (cioè nell’epoca in cui chiedo) – nel luogo in cui mi trovavo al momento della richiesta. Sulla base di quel centro deittico si accordano tutti gli altri tempi (anteriori, contemporanei o posteriori alla mia richiesta), pronomi e avverbi del periodo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sulla Treccani c’è scritto che “Quando il “ne” partitivo ha la funzione di oggetto diretto, in presenza di un verbo al tempo composto, richiede l’accordo del participio passato: (35) ho comprato delle pere e ne ho mangiate due (ma ho mangiato due pere)”. Fino qui, ok; ma nell’esempio proposto, e cioè il 35, il “ne”, se non sbaglio, non ha funzione di complemento oggetto, ma di complemento di specificazione con il significato di “delle pere” (di quelle, di queste), mentre “due”, pronome numerale, dovrebbe essere il complemento oggetto. Di conseguenza, semmai, il participio passato troverà l’accordo con il “ne” con valore però di complemento di specificazione. Quindi nella nostra frase “…ne ho mangiate due…”, “due” è l’oggetto diretto, cioè il complemento oggetto, mentre appunto “ne”, complemento di specificazione, significa “Delle pere, di quelle”, e quindi è come se dicessimo “Ho mangiato due (oggetto diretto, e cioè complemento oggetto) di quelle, delle pere (complemento indiretto, e cioè complemento di specificazione)”. Di conseguenza in merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”, complemento di specificazione: quindi con “mangiate” concordato con “Delle arance”, complemento di specificazione (e non complemento oggetto), sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura”: “…ne ho mangiate due…”=”…ho mangiato due delle pere, di quelle”.
RISPOSTA:
Il complemento introdotto da di, in una frase come «Ho mangiato due delle pere», pronominalizzabile mediante ne («Ne ho mangiate due»; ne = delle pere), non è complemento di specificazione, bensì complemento partitivo, per quanto labile e inutile sia la tipologia dei complementi, come abbiamo argomentato più volte in DICO. Ciò detto, certamente la sua analisi è corretta: l’accordo del participio è con l’elemento pronominalizzato da ne. Tuttavia è chiaro che il complemento partitivo, o come lo chiama lei di specificazione (delle pere; ma poco cambia, come già detto, tra specificazione e partitivo, ai fini del nostro discorso), non è altro che un elemento accessorio (diremmo noi “circostante”) che serve a completare il valore del sintagma principale argomentale, cioè in questo caso il complemento oggetto. Quindi: «Ne ho mangiate due» = «Ho mangiato due delle pere» = «Ho mangiato due pere (di tutte quelle che c’erano)». Ovvero, «pere» o «delle pere» è direttamente connesso al quantificatore due col ruolo di oggetto. Quindi l’analisi della Treccani è sostanzialmente corretta né contraddice la sua. Sicuramente ne pronominalizza un complemento partitivo che ha valore di circostante (quasi fosse un attributo) rispetto al complemento oggetto e può perfettamente essere considerato come parte di un sintagma complesso col valore di oggetto. Per passare dalla teoria alla pratica, è bene ricordare, per citare le sue parole, che l’accordo del participio passato in frasi con il ne va fatto «in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “delle pere”».
Fabio Rossi
QUESITO:
Da professore riesco a capire che la lingua non è la matematica e che ci sono diversi fattori che influenzano l’uso di una lingua che non sono così semplice da spiegare. Ma per me buoni esempi sono fondamentali per la pedagogia e spero che ci sia qualche valore per Lei in questo scambio.
Comunque mi piacerebbe provare a estrarre i fattori communi in diversi gruppi di questi esempi col motivo di usare il condizionale in modo corretto. Spero di non farla annoiato.
Gruppo I
Gli esempi in cui il condizionale da solo secondo Lei esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità, ecc.:
Volevo capire se la ragione di base per cui va bene il condizionale da solo in questi esempi I.a – I.c fosse è perché in tutti e tre gli esempi LA PERSONA CHE RISPONDE ALLA RICHIESTA POTREBBE RIMANERE SUL VAGO INVECE DI RISPONDERE CON UN SECCO NO CHE SAREBBE TROPPO DIRETTO. Se quest’analisi è giusta, chiamerò Gruppo I
L’USO DEL CONDIZIONALE PER RIPONDERE IN MODO VAGO/ELEGANTE A UNA RICHIESTA.
(a) Tu: <<Andiamo a bere un ultimo bicchiere?
Io: <<Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello».
(b) Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato» dove l’uso del condizionale semplice ha valore dubitativo o potenziale.
(c) «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso».
GRUPPO II.
In questo gruppo non riesco a estrarre la ragione di base per cui II.a vada bene, ma II.b sia incompleta.
(a) «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» secondo lei e Prof Tartaglioine sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi.
(b) Sarebbe difficile studiare la lingua cinese. (Il mio esempio di partenza. È corretta anche da sola o soltanto come risposta alla domanda “vuoi studiare la lingua cinese?)
COME MAI II.B va bene ma II.A come scritta non è completa?
Se avessi cambiato II.a per creare II.a1 “Sarebbe un bel film AL MIO PARERE ” reggerebbe il condizionale da solo? (non sono un giornalista, ma ho messo in evidenza che è la mia opinione che è soggettiva).
La mia frase II.a1 mi sembra molto simile a una che ho trovato sul sito LEARNAMO:
(c) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. SAREBBE una cosa carina A MIO PARERE.
Secondo Lei la frase sopra (c) è corretta e chiara? Per me ha il significato sottinteso “se lei la facesse”.
Se togliamo A MIO PARERE per creare
(c1) Lucia vuole organizzare una festa a sorpresa per suo fratello. “Sarebbe una cosa carina”
il condizionale regge da solo? o no? Se regge, c’è una ragione per “Sarebbe una cosa carina” va bene, ma “Sarebbe un bel film” non è completa.
Gruppo III
Un altro esempio dal video da Prof Tartaglione.
(a) Marco avrebbe da fare (errata)
Marco dovrebbe avrebbe da fare (corretta – è un’ipotesi)
Come mai non va bene senza dovrebbe?
Due variazioni che faccio io con altro contesto:
(b) Non vedo Marco da tanto tempo. Lui avrebbe da fare.
(c) Non vedo Marco da tanto tempo. AL MIO PARERE lui avrebbe da fare.
Con l’aggiunto del contesto “ non vedo Marco da tanto tempo” o “con al mio parere” il condizionale da solo regge? (Sottointeso “se io non sbagliassi”).
RISPOSTA:
A profitto di chi legge, questa risposta fa riferimento ai temi trattati da ultimo qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/) e qui (https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-e-la-pragmatica/).
Gruppo I: va bene, niente da aggiungere.
Gruppo II: Sarebbe difficile il cinese (se lo studiassi): meno naturale di “è difficile” ma comunque possibile (non scorretto). Funziona solo in risposta alla domanda. Il motivo per cui questo è più naturale di IIa non è chiarissimo, secondo me: non sempre è semplice risalire induttivamente da una consuetudine dell’uso a una regola, perché talora è la sola frequenza, o le convenzioni culturali, a far scattare la preferenza per una versione piuttosto che un’altra. Credo però che il motivo della preferenza risieda nella protasi sottintesa (cioè nelle presupposizioni attivate negli interlocutori: ancora una volta conta la pragmatica): Se lo studiassi il cinese sarebbe difficile (presentata come giudizio oggettivo, in un certo senso: nessuno chiederebbe perché); Se lo vedessi, quel film, sarebbe bello (è ambiguo: perché non puoi vederlo? Oppure è questione di gusti, è bello o no?).
Stesso discorso sulla festa: l’aggiunta di “a mio parere” non rende meno ambiguo il caso del film: forse è bello, è bello a mio parere. Mentre, nel caso della festa, sia con sia senza “a mio parere”, il giudizio non desta ambiguità: senza dubbio organizzare una festa a qualcuno è un’idea carina. Anche se lo esprimo al condizionale o in forma (pseudo)dubitativa: può essere un’idea carica, potrebbe essere un’idea carina.
Marco avrebbe / dovrebbe avere da fare. In certi contesti, anche “Marco avrebbe da fare” può essere accettabile: “In teoria, Marco avrebbe da fare, ma forse se sa che viene anche Liz vedrai che viene di corsa!”.
Ancora una volta: questioni di pragmatica, direi, cioè di presupposizioni attivate dai diversi contesti (e dai presupposti attivati su certi argomenti: film, soggettivo; cinese, considerato da tutti difficile; festa, considerata da tutti una idea carina ecc.).
No, l’aggiunta di “a mio parere” non è dirimente, non è questo che rende migliore o peggiore una frase, ma, come ripeto, il contesto e l’attivazione di questa o quella presupposizione. Le frasi naturali sono: Ha da fare, Forse ha da fare, Dovrebbe avere da fare, ma non “Avrebbe da fare”, neppure se aggiunge “A mio parere”.
Lei ha messo il dito in una piaga molto interessante, cioè questa: una lingua non è fatta solo di morfosintassi ma anche di convenzioni (NON SCRITTE) che vanno di là dalla grammatica e che rientrano nelle presupposizioni, nell’enciclopedia dei parlanti, nelle convenzioni culturali, nella frequenza d’uso e in molto altro ancora.
L’uso del condizionale, inoltre, è in continuo e rapido movimento, nella lingua italiana. Costrutti vivi fino a venti-trenta anni fa oggi sono inaccettabili e viceversa. Proprio perché è legato alle sfumature modali (epistemico), il condizionale ha una quantità di oscillazioni non ancora tutte sondate dai linguisti. Lo stesso discorso vale per l’imperfetto indicativo. Per questo, a suo tempo, le suggerii il precoce Le facce del parlare della compianta Carla Bazzanella, studiosa di pragmatica.
Fabio Rossi
Mi aiuterebbe a capire, dettagliatamente, i vari accordi del participio passato in presenza del “ne” delle seguenti frasi?
1)”In frigo c’erano cinque arance e Franco ne ha usate tre per farsi una spremuta”
2)”Ieri sera a cena ho esagerato con il vino: ne ho bevuti tre bicchieri!”
3)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiata la metà”
4)”Ho comprato delle pere e ne ho mangiate molte”
5)”Hai mangiato dei biscotti?” “Sì, ne ho mangiati”.
Quella che segue è la mia analisi delle frasi.
Nella prima il complemento oggetto è rappresentato dal “tre” che è un pronome numerale, mentre il “ne” è complemento di specificazione e significa “Di arance, di quelle, di queste”. In merito all’accordo del participio passato, lo stesso si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle arance”/”arance”: quindi con “usate” concordato con “Delle arance/arance”, sottinteso accanto a “tre”, complemento oggetto e quantificatore, inteso come “unità di misura” (Ah, il “tre” penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio, ma con “una”). Nella seconda “tre bicchieri” (o comunque “bicchieri”) è il complemento oggetto e il “ne” è complemento di specificazione con il significato di “Di vino, di questo, di quello”. Per quanto riguarda l’accordo, il participio passato dei tempi composti, in questi casi, prende il genere dal contenitore o dell’unità di misura, se sono specificati (“bicchieri”, contenitore): quindi con “bevuti” concordato con “bicchieri”, maschile plurale. Nella terza il complemento oggetto è il pronome indefinito “molte” e “ne” è il complemento di specificazione con il significato di “Delle pere, di quelle, di queste”. Sul versante dell’accordo, stesso discorso della prima: e quindi il participio si accorda in genere e numero con il termine a cui il “ne” si riferisce, e cioè “Delle pere”/”pere”: quindi con “mangiate” concordato con “Delle pere/pere”, sottinteso accanto a “molte”, complemento oggetto e quantificatore, inteso anche qui come “unità di misura” (Ah, “molte”, anche qui, penso funga da quantificatore perché in “GGIC, vol. I, XV.1.3., p. 636” v’è un esempio proprio con “molte”, ma anche “metà”). Discorso diverso per la quarta nella quale “ne” sta per “Dei biscotti, alcuni biscotti, biscotti (e quindi “quelli”) ed è complemento oggetto partitivo che precede il verbo il cui participio “mangiati” si accorda obbligatoriamente con le categorie grammaticali di genere e numero assegnate al nome (“biscotti”) del referente del pronome (“ne”).
Mi auguro che le mie riflessioni, alle quali tengo fortemente, siano corrette.
RISPOSTA:
In sostanza la sua analisi è corretta. Tuttavia, negli usi reali, la situazione è molto più sfaccettata. Per questo motivo, sul tema dell’accordo del participio con ne, la invitiamo a leggere le seguenti due risposte di DICO qui e qui.
Fabio Rossi
QUESITO:
Non voglio fare polemica, soltanto vorrei avere il suo giudizio su una cosa detta da un “professore” Roberto Tartaglione che lavoro con l’editrice Alma. Lui dice in questo video del esprimere dubbio in italiano con diversi modi/tensi qui à https://www.almaedizioni.it/video-alma-tv/esprimere-un-dubbio/?srsltid=AfmBOorzT7QjoinvWZqfkLwx25Ng1uOqwFVyz8gV3brFIpy1xgcwXwDp
che per esprimere un dubbio su un film, non si può dire SAREBBE UN BEL FILM quando non si usa la voce giornalistico.
Secondo lei, seguendo gli esempi sotto, sarebbe sbagliato dire “sarebbe un bel film” (la mia opinione personale) non per esprimere un dubbio, ma una possibilità? È necessario dire “dovrebbe essere un bel film”? (So perfettamente che l’uso epistemologo del futuro per esprimere un dubbio è qualcosa diversa).
So che sono un po’ academico, ma è soltanto per approfondire.
RISPOSTA:
L’ottimo professor Tartaglione (tra i miei primi datori di lavoro) ha perfettamente ragione. Ma vi sono contesti in cui il condizionale da solo esprime un dubbio, un’esitazione, una cautela, una possibilità..: «A. Andiamo a bere un ultimo bicchiere? B. Sarebbe tardi». Oppure: «Sarebbe bello». Se mi chiedono: «Che ne pensi di quel film?», la risposta «Sarebbe un bel film» sarebbe incompleta, se non rendessi esplicita la protasi: (per esempio) «Se non fosse così lungo», oppure, giornalisticamente, «secondo la critica». Se mi chiedono: «Che fai stasera?» posso rispondere: «Sarei impegnato», e moltissimi altri esempi sarebbero (appunto!) ancora possibili, d’uso del condizionale semplice con valore ora dubitativo, ora potenziale. Tartaglione giustamente semplifica il discorso limitandolo a un solo esempio facile: «Andiamo a vedere quel film?», la cui risposta «Sarebbe bello» verrebbe interpretata come «Vorrei venire a vederlo ma non posso». E dunque sarebbe una risposta errata per esprimere invece: «Alcuni pensano che sia bello», «Dicono che è bello» ecc. Anche «Potrebbe essere bello», in questo caso, sarebbe ambiguo, perché chi ascolta capirebbe «Può essere bello andare al cinema» e non «può essere bello il film».
Ma la lingua è sempre più sfaccettata di quanto le sue schematizzazioni non riescano a rappresentare. Nel suo primo esempio sul cinese (b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile”, di cui alla domanda DICO https://dico.unime.it/ufaq/il-condizionale-presente-per-esprimere-possibilita/), il contesto e le presupposizioni dei parlanti (cioè la pragmatica) ammettono l’uso del condizionale, nell’esempio sul film no. Questo perché tutte le componenti della lingua (fonetica, morfologia, sintassi, lessico, semantica, pragmatica) cooperano tra loro simultaneamente nella realizzazione di atti linguistici. Se separiamo le componenti, come pure dobbiamo fare per semplificarne la spiegazione e la didattica, non riusciamo a dar conto del funzionamento complessivo degli enunciati. In certa misura potremmo dire che tanti sono i significati di una lingua quanti ne sono i contesti d’uso. Morale della favola, la contraddizione tra l’esempio del cinese e quello del film è solo apparente: i contesti, infatti, disambiguano l’uso. Come livello didattico basico per spiegare l’impiego del condizionale il modello di Tartaglione è più che sufficiente. Per un livello più avanzato si può aggiungere il modello della protasi sottintesa (se potessi, se lo studiassi ecc.), che aggiunge un ulteriore livello di spiegazione
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel libro «La piscina» scritto da Giacomo Papi, l’autore usa molto il condizionale. Mi ha fatto pensare a due esempi che mi pesano da un po’. Ho provato a trovare una spiegazione nel libro «Le facce del parlare» (che il prof. Rossi mi ha suggerito un paio di anni fa) senza successo.
a) Mia moglie non FAREBBE mai niente di male a nessuno della nostra famiglia.
b) A: “Vuoi studiare il cinese?”
B: “Potrebbe essere molto difficile.”
DOMANDA 1
Nei due esempi (a) e (b) mi sembra simile la ragione per cui viene usato il condizionale. Per me nella frase a) l’uso del condizionale FAREBBE attenua la frase che è un’opinione personale o un giudizio/supposizione sulla moglie. Nell’esempio b) volevo seguire il modello di a), ma quando dico sarebbe molto difficile invece di potrebbe essere molto difficile, i miei amici italiani mi correggono.
Potrebbe spiegarmi qual è la differenza nell’uso del condizionale tra l’esempio a) e l’esempio b)? Come mai è necessario impiegare il servile potere nell’esempio b?
DOMANDA 2
Nel libro referito ho trovato due esempi con lo stesso verbo:
a) «Delle tue responsabilità per le morti dello zio Klaus e di Magnoni possiamo discutere, questo invece SI QUALIFICHEREBBE come un furto bell’e buono».
b) «Invece per la morte di Mario Spini questo video SI QUALIFICHEREBBE come istigazione al suicidio per lapidazione».
Come mai potere non è necessario (rispetto a sarebbe difficile)?
Tutte e due le frasi esprimono opinioni personali/supposizioni?
RISPOSTA:
La risposta è semplice: tutte le frasi proposte (con uso del condizionale potenziale) sono corrette e d’uso normale, in tutte l’uso del verbo potere è soltanto opzionale ma mai necessario (dato che esprime esso stesso possibilità) e i suoi amici sono ingenuamente e inutilmente prescrittivi. In particolare:
-
«Mia moglie non farebbe / potrebbe fare mai niente di male a nessuno della nostra famiglia».
-
«Potrebbe essere / sarebbe molto difficile».
-
«questo invece si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come un furto bell’e buono».
-
«questo video si qualificherebbe / si potrebbe qualificare come istigazione al suicidio per lapidazione».
In tutti e quattro gli esempi, come al solito nell’uso del condizionale, la carica potenziale è analoga a quella dell’apodosi di un periodo ipotetico, per questo in tutte e quattro le frasi è come se ci fosse sottintesa una protasi:
-
Se se ne presentasse l’opportunità
-
Se lo studiassi
-
Se avvenisse
-
Se fosse girato il video.
Il motivo per cui la 2 sembra più naturale col verbo potere (ma ciò non giustifica l’inutile purismo dei suoi amici) è dovuto forse alla parziale complicazione posta dal verbo volere nella domanda, tanto che la protasi potrebbe mettere in dubbio la volontà piuttosto che la difficoltà del cinese.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il sintagma «animato da Spirito Santo» è possibile scriverlo anche «animato di Spirito Santo»?
RISPOSTA:
Entrambe le costruzioni sono corrette e attestate, sia in rete sia in letteratura. A giudicare dagli esempi riportati dai dizionari (soprattutto il GDLI della Utet), sembra più comune il costrutto con il complemento d’agente («animato da»), ma anche il costrutto con «di» figura in letteratura, per es. in Leopardi: «animata di sì vivo […] amor di patria». Del resto, l’italiano ammette il doppio costrutto con altri verbi simili: «fatto da» / «fatto di», «amareggiato da/di» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del padre» oppure «di suo padre». Vorrei sapere quale delle due opzioni è consigliata e se, tra esse, ve ne sia una errata.
RISPOSTA:
Le due opzioni sono entrambe corrette. Sebbene si debba spesso evitare l’uso pleonastico dei possessivi, talora indotto da calco dall’inglese per influenza del doppiaggio («devo lavare le mie mani» è decisamente da evitare rispetto a «devo lavarmi le mani»), in certi contesti può essere utile il possessivo per evitare ambiguità. Pertanto, se nel caso specifico può esservi il dubbio che «la stessa malinconia del padre» venga riferito a un altro padre, piuttosto che a quello della ragazza, è allora meglio essere precisi scrivendo: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia di suo padre». In realtà, anche in quest’ultimo caso potrebbe sussistere l’ambiguità sul padre di qualcun altro, ambiguità che soltanto l’uso di «proprio» (riferito alla ragazza) potrebbe evitare: «Negli occhi della ragazza c’era la stessa malinconia del proprio padre», che però sarebbe davvero pesante, e dunque da evitare, anche a costo di una piccola ambiguità sicuramente poi sanabile nel resto della narrazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
«Più parli a casaccio, più va a peggiorare la tua posizione»; «(Tanto) più riesci a stringere pubbliche relazioni, (quanto) più potrebbe aumentare la tua popolarità».
I correlativi (tanto) più/meno… (quanto) più/meno possono essere impiegati in caso di verbi che, per così dire, implicano per loro natura un’idea di progressione, sviluppo, ma anche involuzione, quali ad esempio aumentare, peggiorare e sim.?
RISPOSTA:
Sì, non c’è alcuna restrizione in tal senso nei verbi. Mentre con gli aggettivi migliore, peggiore sarebbe erronea la forma più migliore, più peggiore, giacché l’aggettivo è già nella forma comparativa (migliore comparativo di bello, buono; peggiore di brutto, cattivo), con i verbi non può esservi restrizione, visto che i nessi correlativi tanto/quanto più/meno non indicano, pleonasticamente, l’aumento di gradazione semantica del verbo, bensì la progressività (a mano mano che) e la correlazione tra le due azioni. Semmai, si può riflettere su come migliorare, stilisticamente, le frasi da lei proposte, rendendole il meno pesanti e il più ergonomiche possibile. Per esempio, la prima frase può essere trasformata in un più snello periodo ipotetico e l’espressione aspettuale (ma ridondante) «va a peggiorare» può essere ridotta al solo «peggiora»: «Se parli a casaccio peggiora la tua popolarità».
Nella seconda frase, si possono eliminare tanto il verbo fraseologico quanto quello modale, giacché tutta l’espressione già di per sé istituisce un rapporto epistemico-ipotetico: se fai X succede Y. Quindi una versione meno pesante dell’esempio può essere la seguente: «Più stringi pubbliche relazioni, più aumenta la tua popolarità».
Fabio Rossi
QUESITO:
«A quelli come me la pazienza sta finendo». Ho sentito e letto che in latino era comune il verbo in fondo alla frase, mentre in italiano non è raccomandabile se non sbagliato. Vorrei sapere, se possibile, perché. Secondo me, il verbo è posto in fondo alla frase per essere enfatizzato/focalizzato, quindi non intravedo errori.
RISPOSTA:
Ha ragione lei, non è un errore. Nella frase «A quelli come me la pazienza sta finendo» il soggetto «la pazienza» è topicalizzato, svolge cioè il ruolo di secondo topic (il primo è «A quelli come me»), mentre il verbo «sta finendo» in questo caso svolge il ruolo di comment ed è focalizzato. Quindi in questo caso non c’è alcuna influenza regionale (come nel caso di «Montalbano sono») nella posizione conclusiva del verbo, bensì è la struttura informativa che influenza quella sintattica, cioè il ruolo del topic e del comment condiziona l’ordine dei sintagmi nella frase.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio in merito all’analisi grammaticale del participio passato «preoccupato» nell’espressione «sembra preoccupato» in quanto non so se analizzarlo come participio passato del verbo «preoccupare» o/e evidenziare che è usato come aggettivo qualificativo.
RISPOSTA:
Meglio analizzarlo come aggettivo, perché non vi sono elementi di reggenza verbale che ne autorizzino l’interpretazione come participio passato, come sarebbe, per esempio, la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «sembri preoccupato da molte questioni».
Comunque la differenza tra valore verbale e valore aggettivale nel participio è quasi sempre sfumata e indecidibile. Si chiama non a caso participio, cioè che partecipa della doppia natura di verbo e di nome/aggettivo. Per saperne di più, può leggere anche la seguente risposta di DICO:
https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono sempre incerto sull’uso del ne (accento?) oppure del sia. Vedi esempio: «avviati a soluzione né la vecchia questione del garage e né l’altro argomento sull’uso, diciamo impropri».
RISPOSTA:
«Né… né» (con l’accento, altrimenti non è negazione, bensì il pronome ne) si può usare soltanto in contesti negativi: né, infatti, significa ‘e non’.
Quindi la versione corretta della sua frase è la seguente: «Non sono avviati a soluzione né la vecchia questione del garage, né l’altro argomento» ecc. «E né» è un errore, perché né, come già detto, significa già ‘e non’.
Se invece la frase non fosse negativa, cioè se gli argomenti fossero avviati a soluzione, allora bisognerebbe usare «sia… sia» o «sia… che» (sinonimi, ma con maggiore formalità del primo): «Sono avviati a soluzione sia la vecchia questione del garage sia [oppure: che] l’altro argomento» ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: «Si può mangiare questi frutti?» Dove «si può» sottintende: «Una persona può mangiarli se vuole o se gli è permesso?» Oppure l’unica espressione corretta è: «Si possono mangiare questi frutti?».
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è «Si possono mangiare questi frutti?», perché il soggetto della frase è plurale («questi frutti») e dunque il verbo deve essere al plurale, accordato con il soggetto. Il si, infatti, è un si passivante (anche se usato per rendere la frase impersonale) che viene così interpretato sintatticamente: «Possono essere mangiati questi frutti?». Altre informazioni sull’uso del si impersonale, del si passivante e sull’accordo verbale si trovano nella seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/si-impersonale-passivante-o-toscano/
Fabio Rossi
QUESITO:
Si tratta di una traduzione giuridica (dal polacco). Chiedo gentilmente l’aiuto con questa frase:
«Allo stesso tempo, NESSUN altro organo, COMPRESA la X o lo stesso Y, (così letteralmente in polacco) / NEMMENO la X o lo stesso Y, / NE’ la X, NE’ lo stesso Y,
ha/ hanno (se scrivo NEMMENO – singolare, mentre se scrivo Nè…Nè – plurale ?) partecipato, in ALCUN modo, a tale processo”.
RISPOSTA:
La versione corretta della frase in italiano è la seguente: «Allo stesso tempo, nessun altro organo, inclusi X e Y, ha partecipato in alcun modo a tale processo».
Va ricordato che l’italiano, a differenza di altre lingue, non ha la regola della doppia negazione, pertanto sarebbe possibile anche: «nessun altro organo… in nessun modo…». La ragione per cui è preferibile «in alcun modo» è soltanto per evitare la ripetizione di «nessuno».
Il verbo («ha partecipato») va comunque al singolare perché è accordato col soggetto «nessun altro organo», dal momento che «nemmeno / né…» ecc. è un inciso. Sarebbe invece al plurale («hanno partecipato») sé fosse accordato con «Nemmeno X o Y» o «Né X né Y». Quindi il numero del verbo non dipende dalla congiunzione («nemmeno… o» e «né… né» si comportano allo stesso modo in questo senso), bensì da quale sia il soggetto della frase e quale ne sia l’inciso.
Si può aggiungere che l’espressione generica «X o Y» in italiano non vuole l’articolo, quindi non si può dire «La X o La Y», a meno che non si vogliano indicare proprio i grafemi X e Y anziché due variabili per qualunque ipotetico oggetto. Infine, se si opta per la formula «inclusi X e Y», oppure «compresi X e Y», il participio passato deve essere maschile plurale, perché si riferisce agli eventuali organi X e Y, e non a uno solo di loro. E il discorso non cambia sé anziché «X e Y» si preferisce «X o Y», del tutto equivalenti in questo contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle due frasi è preferibile?
«Non credete a quello che raccontano».
«Non crediate a quello che raccontano».
RISPOSTA:
Le due frasi sono pressoché equivalenti (ma la seconda risulta quasi troppo letteraria, come vedremo), dal momento che sia il congiuntivo esortativo, sia l’imperativo servono per esprimere un ordine, un’esortazione e simili. Il congiuntivo esortativo supplisce l’imperativo nei casi di allocuzione di cortesia, cioè quando si dà del Lei a qualcuno che si vuole esortare, dal momento che l’imperativo ha due sole persone (la seconda singolare e la seconda plurale), mentre il congiuntivo ha anche la terza, necessaria per il Lei. Quanto appena detto vale anche per l’imperativo negativo, costruito con non + l’infinito per la seconda persona singolare, con non + l’imperativo affermativo per la seconda persona plurale. Dato che nella frase in questione, alla seconda persona singolare, non c’è alcun bisogno di sostituire l’imperativo con il congiuntivo esortativo, la scelta dell’imperativo («Non credete») è la più normale e consigliata in tutti i contesti, mentre quella al congiuntivo, comunque possibile e corretta, come già detto, risulta quasi ipercorretta, nella sua formalità (come se chi la usa temesse d’esser tacciato, ingiustamente, di non conoscere il congiuntivo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo un chiarimento sulla seguente espressione: «aver svolto una attività negli ultimi dieci anni».
Indica lo svolgimento dell’occupazione nella totalità dei precedenti 10 anni oppure, in modo meno definito, la preposizione “in” sta a significare un espletamento cronologico più “aleatorio” dell’azione nel lasso temporale decennale ma non nell’interezza dei 10 anni pregressi?
RISPOSTA:
Locuzioni come «negli ultimi dieci anni», «in due mesi» e simili hanno un significato generico e possono, eventualmente, essere disambiguate soltanto da altri elementi del contesto. Quindi, nel caso qui segnalato, entrambi i significati sono possibili: 1) l’attività ha occupato interamente i dieci anni; 2) l’attività è durata soltanto per un periodo limitato di tempo, compreso entro i dieci anni.
Se si vuole essere più previsi, si possono aggiungere alla frase altri sintagmi con valore temporale, quali per es.: 1) «negli ultimi dieci anni ha sempre (o continuativamente) lavorato come giardiniere; 2) «negli ultimi dieci anni ha lavorato come consulente editoriale per un totale di tre mesi».
Diverso sarebbe il caso della preposizione “per”, che invece indicherebbe il tempo continuato, ovvero lo svolgimento dell’azione per gli interi dieci anni: «Per dieci anni ha lavorato come chirurga».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei conoscere qual è la forma corretta: “Dite loro che volete loro bene” o “Dite loro che gli volete bene”?
RISPOSTA:
Entrambe le varianti sono corrette: gli è ormai pienamente accettato nella funzione di pronome complemento indiretto di terza persona plurale (quindi si potrebbe anche dire “Ditegli che gli volete bene”. Il pronome loro è ancora percepito come più formale, ma in questa frase conviene non ripeterlo a così breve distanza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Soffro a vederla indifesa” è corretto usare la preposizione a o andrebbe meglio nel o anche di?
RISPOSTA:
Il verbo soffrire può reggere un complemento di causa introdotto da per (soffro per la perdita dei valori) o, se la causa della sofferenza è permanente o ciclica, di (soffro di mal di testa). Il verbo può reggere anche varire proposizioni (causale, temporale, condizionale…), costruite regolarmente, ma non una completiva, quindi non ammette la preposizione di. La proposizione subordinata nella sua frase è a metà tra la causale e la temporale e può essere introdotta da a o nel (soffro a / nel vederla = soffro perché la vedo + soffro quando la vedo).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sull’utilizzo di queste forme:
1. Prova ne sia che la risposta non è arrivata. VS Prova ne è che la risposta non è arrivata.
2. Ecco per quale motivo le rispondo così. VS Ecco il motivo per il quale le rispondo così.
RISPOSTA:
Nella prima frase il congiuntivo è esortativo, quindi sia invita il ricevente a prendere atto del contenuto dell’affermazione, mentre l’indicativo presenta il contenuto come un fatto. Le due varianti della seconda frase sono intercambiabili: ecco può introdurre una proposizione, come nella prima variante, o un sintagma, come nella seconda.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo o del condizionale nella seguente frase:
“Non credevo che quei ragazzi avessero fatto del male a me e ai miei amici, anzi mi avevano salvata. Inoltre se avrebbero/se avessero voluto farmi del male avevano avuto la possibilità e il tempo di farlo e invece ero ancora
viva e vegeta”.
RISPOSTA:
La proposizione se avessero voluto farmi del male è una ipotetica (o condizionale): questo tipo di proposizione ammette soltanto il modo indicativo o il congiuntivo, non il condizionale. Se avrebbero voluto è, pertanto, un’opzione scorretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due seguenti frasi è preferibile:
1. “Vorrei sapere se sarebbe possibile ricevere quanto prima questo documento”.
2. “Vorrei sapere se fosse possibile ricevere quanto prima questo documento”.
Credo che la prima frase sia preferibile; ma la seconda è sbagliata ?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono possibili, anche se nessuna delle due è davvero preferibile. La proposizione interrogativa indiretta retta da vorrei sapere può essere costruita con il condizionale, il congiuntivo e l’indicativo (sarebbe possibile anche “Vorrei sapere se è possibile…”). Il condizionale non è davvero necessario, visto che la richiesta è resa già cortese dal condizionale nella reggente; il congiuntivo imperfetto, a sua volta, non è una scelta ideale, perché nella consecutio temporum l’essere possibile è contemporaneo nel presente rispetto al sapere, quindi il tempo davvero richiesto è il presente: “Vorrei sapere se sia possibile ricevere…”. Il congiuntivo imperfetto, in astratto scorretto, diviene accettabile (ma comunque non preferibile) perché è motivato dal modello soggiacente vorrei che fosse (sul quale può trovare un approfondimento qui).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Dato il seguente periodo: “Le chiederei, nel caso il divieto sia ancora attivo/fosse ancora attivo, se possa rilasciarci/potrebbe rilasciarci un permesso per l’accesso”, nella subordinata introdotta da nel caso entrambi i tempi del congiuntivo sono corretti, sulla scorta del grado di probabilità del verificarsi dell’evento?
RISPOSTA:
La proposizione introdotta da nel caso, nel caso in cui o nel caso che è formalmente una relativa, anche se viene considerata un’ipotetica, vista la sovrapponibilità tra la locuzione congiuntiva e la congiunzione qualora. Proprio come qualora, questa locuzione richiede il congiuntivo (mentre se ammette anche l’indicativo) e preferisce l’imperfetto al presente e il trapassato al passato. La proposizione nel caso il divieto sia…, quindi, è corretta, ma più comune sarebbe nel caso il divieto fosse…, con lo stesso significato. La proposizione introdotta da se è un’interrogativa indiretta, retta dal verbo chiederei. Questa proposizione ammette l’indicativo, il congiuntivo e il condizionale. Tra l’indicativo e il congiuntivo non c’è alcuna differenza semantica, ma l’indicativo è una scelta più trascurata. Il condizionale, invece, aggiunge qui una sfumatura pragmatica di cortesia, perché formula la richiesta come condizionata (alla disponibilità della persona che riceve la richiesta).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi propongo questa frase: “Da quel momento in poi sapeva che sarebbe andato incontro ad un percorso doloroso, a prescindere dal fatto che fosse destinato a concludersi con la morte o meno”. Il mio dubbio si riferisce all’uso del congiuntivo trapassato. È forse più opportuno il ricorso al condizionale (sarebbe stato destinato a concludersi)?
RISPOSTA:
La forma fosse destinato non è trapassato: può essere interpretata come congiuntivo imperfetto passivo del verbo destinare oppure (più plausibilmente) come congiuntivo imperfetto di essere seguito dall’aggettivo destinato. Il trapassato passivo di destinare sarebbe fosse stato destinato. L’imperfetto in una completiva dipendente da un tempo storico esprime la contemporaneità nel passato, con una proiezione nella posterità; viene, quindi, correttamente usato anche per esprimere il futuro nel passato, in alternativa al condizionale passato. Rispetto a quest’ultimo, rappresenta la variante più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il post sull’espressione del futuro nel passato” con il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato. Quando si usa il congiuntivo imperfetto, si accentua la sorpresa o il grado di ipoteticità non c’entra?
RISPOSTA:
In questo caso l’ipoteticità non c’entra. Il congiuntivo è soltanto più formale del condizionale, quindi più adatto ai contesti scritti (tranne quelli tra amici). Il condizionale, però, è una scelta adatta a quasi tutti i contesti; è, anzi, la più usata, soprattutto perché il congiuntivo imperfetto serve anche a esprimere la contemporaneità nel passato, quindi non indica chiaramente che l’evento è successivo a quello della reggente (anche se quasi sempre questo si capisce dal significato della frase).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A proposito di se con valore concessivo, vi chiedo se la seguente frase sia corretta utilizzando il condizionale nella protasi e se la stessa sia possibile omettendo la congiunzione anche: “Ho pochissimo denaro e non ho niente da comprare. Anche se mi piacerebbe avere una bicicletta nuova, non posso permettermela”.
RISPOSTA:
La frase è corretta; la proposizione anche se mi piacerebbe, però, non è la protasi di un periodo ipotetico, ma è una concessiva. La protasi del periodo ipotetico, ovvero la proposizione ipotetica, detta anche condizionale, non ammette il modo condizionale. Se si elimina anche dalla proposizione concessiva, chiunque continuerà a interpretare la proposizione come concessiva, sulla base del significato complessivo della frase, e della presenza del condizionale; la proposizione sarebbe, però, mal composta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il seguente periodo: “Sfido chiunque adesso mi sta leggendo e leggerà questi racconti, a non desiderare una simile avventura”. Non dovrebbe essere chiunque adesso mi stia leggendo…? Chiunque regge sia il congiuntivo che l’indicativo, ma in questo caso è pronome sia indefinito che relativo (= ‘qualunque persona che’).
RISPOSTA:
Il pronome relativo indefinito chiunque richiede effettivamente il congiuntivo; la scelta dell’indicativo è molto trascurata. Immagino che sia stata influenzata dall’indicativo futuro leggerà subito successivo, che è l’unica forma possibile per esprimere il futuro in questa frase, per cui è accettabile anche nello scritto di media formalità (l’alternativa con il congiuntivo non potrebbe assolutamente veicolare l’idea del futuro, a meno che non venga aggiunto un avverbio di tempo: chiunque adesso mi stia leggendo e legga in futuro questi racconti).
La frase presenta un’altra scelta infelice: la virgola tra la reggente (Sfido) e la completiva oggettiva (a non desiderare…). Le completive, escluse le dichiarative, non devono essere separate dalla reggente con alcun segno di punteggiatura (tranne che non ci sia in mezzo un’incidentale), allo stesso modo in cui, nella frase semplice, il verbo non deve essere separato dal complemento oggetto.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
1A) Questa è la città in cui serve un’ora per arrivare.
1B) Questa è la città per arrivare nella quale serve un’ora.
2A) La cosa che devo svegliarmi presto per fare è questa.
2B) La cosa per fare la quale devo svegliarmi presto è questa.
3A) Questo è un dolce che è necessaria tanta pratica per fare.
3B) Questo è un dolce per fare il quale è necessaria tanta pratica.
Entrambe le costruzioni delle tre coppie vanno bene?
RISPOSTA:
Le varianti A e B sono praticamente equivalenti: si distinguono soltanto per la posizione e la forma del pronome relativo, che non cambiano la struttura sintattica. In frasi come queste il pronome relativo sintetizza due funzioni apparentemente inconciliabili: collega la proposizione relativa alla reggente e proietta la sua funzione sintattica nella finale, dove è collocato il verbo che effettivamente lo regge. Paradossalmente, la finale è subordinata alla relativa, quindi il relativo si trova a essere contemporaneamente nella proposizione reggente e nella subordinata.
Nella frase 1A, per esempio, in cui introduce la relativa in cui serve un’ora, ma è retto da arrivare, che si trova nella finale subordinata alla relativa; lo stesso vale per che in che devo svegliarmi presto, retto da fare nella finale, e per che in che è necessaria tanta pratica, retto da fare nella finale. Si noti che nelle varianti B succede lo stesso: nella 1B nella quale introduce comunque la proposizione relativa nella quale serve un’ora ma è retto da arrivare, che si trova nella finale comunque subordinata alla relativa.
Come si può intuire, questa costruzione intricata non è standard, ma può tornare utile in alcune situazioni comunicative per sintetizzare un concetto che altrimenti richiederebbe una formulazione più lunga, o meno efficace, per essere detto. La frase A, per esempio, potrebbe essere formulata così: “Questa è la città in cui si arriva guidando per un’ora”, o “Per arrivare in questa città serve un’ora”, o simili. In conclusione, quindi, il costrutto può certamente essere sfruttato all’occorrenza nel parlato e nello scritto informale, ma va evitato nel parlato di alta formalità e nello scritto di media e alta formalità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
‘Lascio Stefano esprimere il suo parere’ o ‘Lascio a Stefano esprime il suo parere’
Quale delle due è corretta? La prima, vero?
RISPOSTA:
Nessuna delle due frasi è scorretta (immagino che nella seconda esprime stia per esprimere). Quando è seguito dall’infinito (come in questo caso), il verbo lasciare assume il significato di ‘permettere’ e può essere costruito in diversi modi: “Lascio Stefano esprimere il suo parere” (costruito come un accusativo con l’infinito, cioè senza la preposizione), o “Lascio esprimere a Stefano il suo parere”. C’è da dire che la frase contiene un verbo (lascio) che cambia significato grazie alla presenza di un altro verbo coniugato all’infinito (esprimere); per via di questa solidarietà semantica, sarebbe forse preferibile non interporre fra i due verbi un altro elemento.
Oltre che dall’infinito, il verbo lasciare può essere seguito da una proposizione introdotta da che: “Lascio che Stefano esprima il suo parere”, dove il verbo è coniugato obbligatoriamente al congiuntivo.
Raphael Merida
QUESITO:
La mia domanda riguarda i possibili modi di introdurre la categoria di riferimento nel superlativo assoluto. Tutte le grammatiche che ho consultato si limitano a citare le due classiche possibilità, ovvero la preposizione di con o senza articolo (senza, però, specificare in quali casi l’articolo viene omesso) e l’opzione tra / fra, nel caso in cui la categoria di riferimento sia un gruppo. I parlanti nativi sanno bene che esiste anche la possibilità di in o a; non so spiegare, però, quando si possono usare in / a al posto di di e in quest’ultimo caso quando si può omettere l’articolo.
RISPOSTA:
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono accettabili.
1 «La pizza ha cotto in cinque minuti».
2 «Ha pesato più di cento chili» (riferito al peso di una persona).
RISPOSTA:
No, non lo sono, o quanto meno risultano troppo informali e trascurate, per le seguenti ragioni. Cuocere, usato come verbo intransitivo, regge come ausiliare soltanto essere (è cioè un verbo inaccusativo). Pertanto, al passato, si può dire o «La pizza è cotta in cinque minuti», oppure, se si vuole sottolineare la durata dell’azione, «La pizza si è cotta in cinque minuti».
Pesare può reggere come ausiliare sia essere sia avere (cioè è un verbo sia inaccusativo, sia inergativo, a seconda dei contesti). Tuttavia nel senso di ‘avere un peso’ il verbo non può avere l’aspetto durativo (io posso dire che sto pensando un pesce, ma non posso dire che io sto pensando 85 chili) e quindi non tollera il passato. Se voglio esprimere questo concetto debbo usare altre espressioni, quali l’imperfetto («pesavo più di cento chili») oppure «sono arrivato a pensare più di cento chili» o simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se il periodo indicato più sotto sia sintatticamente corretto (sia con il congiuntivo trapassato sia con quello imperfetto) e se, eventualmente, esisterebbero delle alternative valide, senza che queste vadano ad alterarne il senso.
«Se avessi puntato su un terno che alla prima estrazione fosse uscito/uscisse, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
RISPOSTA:
Sembra migliore la prima soluzione, al trapassato congiuntivo («fosse uscito»), dal momento che l’intera azione è al passato e si riferisce a qualcosa che non è accaduto. La soluzione all’imperfetto congiuntivo («che uscisse») sarebbe un po’ strana, perché suggerirebbe l’idea che chi ha puntato già sapesse che il terno sarebbe uscito o comunque che poteva uscire (e quest’ultima ipotesi sarebbe ovvia: qualunque puntata ha la probabilità di andare a buon fine). La possibile soluzione al condizionale passato («che sarebbe uscito») sarebbe anch’essa strana, perché lascerebbe intendere, anch’essa, la certezza dell’uscita del terno, se uno l’avesse puntato. Infine, dato che uscire è un verbo inaccusativo, il soggetto posposto al verbo funziona meglio: «Se avessi puntato su un terno che fosse uscito alla prima estrazione, mi sarei potuto togliere qualche sfizio».
Una piccola aggiunta. Nel testo della sua domanda («Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esisterebbero delle alternative valide») si notano una assimmetria e un uso del condizionale non del tutto accettabili. Sarebbe stata migliore la forma seguente: «Gradirei sapere se […] fosse sintatticamente corretto […] e se […] esistessero delle alternative valide», oppure «Gradirei sapere se […] è sintatticamente corretto […] e se […] esistono delle alternative valide», oppure, ma peggiore: «Gradirei sapere se […] sia sintatticamente corretto […] e se […] esistano delle alternative valide». L’ultima alternativa è la peggiore perché da vorrei dipende preferibilmente il congiuntivo imperfetto piuttosto che il presente (come spiegato qui).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando i miei interlocutori italiani mi dicono “questo non è importante”, “è un’eccezione”, “non ti fissare”, mi fanno impazzire; sono troppo curioso per capirne di più. Sono molto fortunato di averla conosciuta.
Mi piace tanto la sfumatura della lingua italiana anche se mi fa impazzire a volte. Noi diciamo che “i step in it” spesso e credo che s’impari sbagliando. Ma con questo esempio (sulla differenza d’uso tra essere interessato e essere affezionato di cui a questa domanda/risposta) c’è un modo per evitare questi sbagli? Ad esempio AFFEZIONARE come INTERESSARE è un verbo transitivo e AFFEZIONARSI esiste. Sia INTERESSATO SIA AFFEZIONATO sembrano aggettivi. Essere interessato a qualcosa come dice lei è quasi: question: una forma passiva (ma non è scritto “da qualcosa” e quindi mi sembra più un aggettivo). Ma non riesco a capire come mai affezionato funzioni diversamente. C’è un modo per estrarre un indizio con questi aggettivi/participi passati con ESSERE per evitare l’uso incorretto dei pronomi indiretti per far riferimento a una cosa? Potresti fornirmi altri esempi? Forse è soltanto una cosa di apprendimento empirico?
RISPOSTA:
Lei ha messo ancora una volta il dito su un’altra bella piaga della linguistica, ovvero il comportamento di alcuni verbi inaccusativi (essere interessato, essere affezionato) e, prima ancora, il rapporto tra linguistica teorica, linguistica applicata, didattica e uso (o comportamento) linguistico. Non sempre le grammatiche danno (né servono a dare) risposte utili alla classificazione teorica e alla riflessione linguistica. Solitamente, la grammatica più utile per questo genere di riflessioni (cioè, per ricavare una regola dall’osservazione di molti esempi diversi) è la Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi, Cardinaletti, il Mulino. Ma procediamo con ordine. I participi passati di verbi transitivi sono sempre a metà strada tra valore aggettivale e valore verbale (può vedere su questo la seguente domanda/risposta). Interessare e affezionare sono due verbi molto diversi. Il secondo è solo transitivo, ma di fatto viene utilizzato soltanto nella forma pronominale (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa) o passiva/aggettivale (sono affezionato a qualcuno o qualcosa). Interessare è sia transitivo sia intransitivo e consente usi e costruzioni differenti: A interessa B, A si interessa a B, A è interessato da B, A è interessato a B, A si interessa di B ecc. Per questo ribadisco che «essere interessato all’italiano» e «essere interessato dall’italiano», sebbene il secondo sia meno comune del primo, sono molto simili. Mentre è possibile dire sia «l’italiano mi interessa», sia «mi interesso all’italiano», sia (meno comune) «mi interesso dell’italiano» (per es.: «di mestiere, mi interesso delle sorti dell’italiano nel mondo»), con affezionare le costruzioni sono meno numerose: «il gatto è affezionato / si affeziona alla casa» («le è affezionato», «le si affeziona»), mentre è impossibile (o possibile solo in teoria, ma di fatto innaturale) «la casa affeziona il gatto». Per questo motivo, cioè per l’unicità della reggenza preposizionale in a per esprimere il secondo argomento verbale di affezionarsi (affezionarsi a qualcuno o a qualcosa), il pronome gli/le funziona sempre bene con quel verbo. Mentre con interessare, che, come dimostrato, regge costrutti molto diversi, gli/le non funzionano sempre. A complicare l’intera questione c’è anche il fatto che interessare al passato può ammettere sia la costruzione transitiva sia quella inaccusativa: «una cosa mi ha interessato» / «una cosa mi è interessata». Insomma, come vede, le varianti da considerare sono molte, e riguardano in questo caso la natura e le reggenze del verbo in questione. La regola per non sbagliare in questo caso è la seguente: con il verbo interessare non si può pronominalizzare al dativo (gli/le) la cosa o la persona che interessano, perché esse debbono fungere da soggetto e non da complemento: «A mi interessa», oppure «Io mi interesso a A», ma non «Io gli/le interesso», perché in quest’ultimo caso si intenderebbe che io interesso A e non che A interessa me.
L’unica regola empirica per non sbagliare è quella di ascoltare e leggere il più possibile, per acquisire l’uso comune di forme e costrutti. La regola teorica, invece, è quella che Lei già applica molto bene: tenere sempre desto lo spirito critico e sforzarsi di cogliere un comportamento generale (= regola) che tenga insieme più esempi e che giustifichi, pertanto, analogie e differenze. Nel primo caso (empiria), la riflessione non giova («non ti fissare»), nel secondo (teoria) è invece fondamentale. Va detto però che si può leggere e scrivere bene anche senza conoscere a fondo le regole, come anche, viceversa, si possono conoscere a fondo le regole anche scrivendo e parlando molto male. In altre parole, tra linguistica teorica e comportamento linguistico c’è spesso un abisso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il dubbio sull’uso dei pronomi indiretti riferiti a cose (di cui a questa domanda/risposta) mi è venuto quando tre italiani mi hanno detto che non potevo rispondere a una domanda così:
A: Come mai sei interessato all’italiano?
Io: Gli sono interessati tutti (gli = ‘all’italiano’). Scherzavo mentre ho risposto.
Un professore di diritto, un insegnante alle medie, e la persona a cui ho risposto mi hanno detto che non andava bene. Mi sembrava strano dato che non volevo ripetere all’italiano, e quindi ho usato gli.
Mi domando ancora come mai tante persone istruite fanno questi errori. È una domanda a cui non mi aspetto una risposta.
RISPOSTA:
Per spezzare una lancia a favore delle risposte date da parlanti nativi, va detto che in effetti l’espressione «gli sono interessati» non è molto naturale ed è, anzi, al limite dell’inaccettabile, ma non a causa del riferimento del pronome a una cosa (infatti, «tutti lo conoscono» nel senso di «tutti conoscono l’italiano» o «tutti gli danno importanza» riferito «all’italiano» o «le danno importanza» riferito «alla lingua italiana» sarebbero perfettamente naturali e corretti), bensì per la costruzione «essere interessato a qualcosa». L’espressione è corretta, ma non tollera bene la pronominalizzazione al dativo (gli/le), dal momento che non rappresenta un vero dativo, bensì una sorta di complemento d’agente («sono interessato da qualcosa» come passivo di «qualcosa mi interessa»). Infatti, sarebbe problematico anche «gli sono interessato» nel senso di «sono interessato a Mario» (a differenza di «gli sono affezionato», che va benissimo sempre, per persone e cose). Si tratterebbe dunque, col pronome, di cambiare costrutto; per esempio: «non me ne interesso», «non ne sono interessato», o «non mi interessa». «Sei interessato a Mario/all’italiano?» «No, non mi interessa» oppure «Non, non me ne interesso», o «non ne sono interessato», ma non «non gli sono interessato».
Come ben sa, l’italiano è pieno di sfumature, sia nella sintassi sia nella semantica. E Lei ha messo il dito nella piaga proprio su una di queste, legata al complesso verbo interessare/interessarsi.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Non credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto.”
Il “non” che precede il verbo “credo” si può considerare una negazione pleonastica o espletiva che dir si voglia?
RISPOSTA:
La frase proposta è del tutto legittima, così come legittima sarebbe “Credo che nessuna donna si spingerebbe a tanto”, o “Non credo che alcuna donna si spingerebbe a tanto”; il non rappresenta, dunque, una negazione pleonastica ma non scorretta. In questa frase il tutto è complicato dalla struttura sintattica complessa, per cui c’è una reggente (credo) e una subordinata (che nessuna donna…), quindi il non nega la reggente. Questo potrebbe generare conflitti tra la prima (non) e la seconda negazione (nessuna). Tuttavia, in italiano, la presenza di un altro elemento negativo, oltre al non, come nessuno, niente, neppure ecc., non è interpretabile come una doppia negazione. C’è solo una regola da seguire in questi casi: se l’elemento negativo segue il verbo, il non è obbligatorio, come nella frase “Non mi ha sentito nessuno”; se l’elemento negativo precede il verbo, il non si omette, come nella frase: “Nessuno mi ha sentito”.
Raphael Merida
QUESITO:
Dopo la parola giardino, alla fine del terzo verso è opportuno l’uso del punto e virgola o sarebbe stato corretto l’utilizzo dei due punti?
È facile mimare le vocazioni dell’egoismo,
basta ammutolire la coscienza e la sete va libera
come una bimba nel primo giardino;
la mano si allunga, compulsiva nel prendere,
e senza uno specchio più largo della faccia,
restano dietro persino i fanghi del rimorso.
RISPOSTA:
Entrambe le proposte sono legittime. Con il punto e virgola si separano due unità informative logicamente e sintatticamente autonome; con i due punti, invece, si introduce una conseguenza di quanto detto prima.
Raphael Merida
QUESITO:
Dopo mare e prima di che (al primo verso) è opportuno inserire la virgola (come nel testo) o sarebbe stato meglio l’uso del punto?
“Sogno il mare, che ancora mi sveli
il petto incostante, le possibilità!”
RISPOSTA:
La proposizione in questione (“che ancora mi sveli) è senza dubbio un’oggettiva introdotta dal verbo sognare, quindi prima di che non va inserita la virgola. Si può, eventualmente, spezzare la frase, ma cambiandone il significato, aggiungendo i due punti (“Sogno il mare: che ancora mi sveli…); in questo modo, quella introdotta da che è una proposizione indipendente di tipo esclamativo (segnalata, appunto, dal segno interpuntivo finale). In ogni caso, in un testo poetico la punteggiatura raramente è vincolata dalla grammatica.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho potuto constatare che il clitico ne ha una posizione molto più libera rispetto ad altri clitici.
Con si impersonale:
1) Se ne deve raccogliere 10 di mele.
2) Si deve raccoglierne 10 di mele.
3) Di gesti simili se ne vede fare tanti.
4) Di gesti simili si vede farne tanti.
Con si passivante:
5) Se ne devono raccogliere 10 di mele
6) Si devono raccoglierne 10 di mele.
7) Di gesti simili se ne vedono fare tanti.
8) Di gesti simili si vedono farne tanti.
Per come la vedo io, le prime quattro costruzioni dove il si è impersonale (difatti quindi singolare) la posizione del ne è irrilevante ai fini della correttezza grammaticale. Col si passivante, mi suonano corrette solo quelle col ne in posizione proclitica, quindi 5 e 7, ma non saprei esprimermi sulle restanti due.
RISPOSTA:
Bisogna intanto precisare che ne ha lo stesso grado di libertà degli altri clitici, alcuni dei quali, però, hanno comportamenti particolari. Per esempio, se sostituiamo ne con lo nel primo gruppo di frasi (modificandole opportunamente) avremo soluzioni ugualmente grammaticali: lo si deve raccogliere, si deve raccoglierlo, un gesto simile lo si vede fare, un gesto simile si vede farlo. Come si sarà notato, lo (come anche ci, vi, la, li, le) precede il si impersonale, mentre ne lo segue; anche lo segue, invece, il si quando questo è passivante. Ovviamente, in questo caso il si non avrà funzione propriamente passivante (altrimenti il complemento oggetto coinciderebbe con il soggetto e non ci sarebbe posto per il pronome lo), ma sarà parte di verbi pronominali transitivi: se lo devono comprare, o sarà il complemento oggetto di un verbo transitivo retto da un verbo pronominale copulativo o causativo: se lo vedono sottrarre, se lo fanno consegnare. Così come sarebbero mal composte *si devono comprarlo e *si vedono sottrarlo, sono mal composte le varianti 6 e 8 (quelle che anche a lei “suonano male”). La ragione della restrizione ha a che fare con il forte legame tra i pronomi e il verbo semanticamente più saliente del costrutto, che comporta che la posizione più naturale dei pronomi sia quella enclitica. Ora, in italiano contemporaneo è divenuto comune anticipare i pronomi prima del verbo reggente (un fenomeno noto come risalita dei clitici), sia esso servile, aspettuale, causativo e persino nel caso complesso della sua frase 7, perché tali verbi sono sempre più percepiti come strettamente solidali con il verbo più saliente, cioè sono assimilati agli ausiliari. In altre parole, oggi si preferisce se ne devono fare a devono farsene, e ce ne faranno avere rispetto a faranno avercene (che è addirittura quasi impossibile), sul modello di se ne sono visti. Ovviamente, nel caso di gruppi di pronomi, la risalita deve riguardare entrambi; la separazione non è giustificabile.
Il si impersonale si comporta in modo diverso, perché il suo legame con il verbo è relativamente debole; deve, infatti, rimanere proclitico (deve raccogliersi è automaticamente interpretato come passivo rispetto a si deve raccogliere, che può essere passivo o impersonale) e può, quindi, essere separato dal pronome che lo accompagna. Da qui la grammaticalità di 2 e 4 (che è, anzi, più formale di 3).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se in questa frase il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato possono essere scambiati senza modificarne il significato:
“Non mi aspettavo che Luca si impegnasse/si sarebbe impegnato così tanto per la prova di oggi”.
In alcuni testi di grammatica, soprattutto rivolti a studenti stranieri, viene riportata la possibilità di utilizzare indifferentemente congiuntivo imperfetto e condizionale passato per esprimere posteriorità della subordinata rispetto alla principale (e dare l’idea, quindi, anche di futuro nel passato), con verbi nella principale che reggono al presente sia congiuntivo che indicativo futuro. Personalmente, percepisco una leggera posteriorità con l’utilizzo del congiuntivo imperfetto quando le due azioni sono temporalmente ravvicinate o non vi sono esplicite indicazioni temporali; in caso contrario opterei per il condizionale passato. Chiedo se questa mia considerazione possa ritenersi valida.
Ad un primo ascolto, con la frase che ho riportato all’inizio, percepisco lo stesso significato con l’utilizzo di entrambi i modi verbali; ma, analizzandola nel dettaglio, il congiuntivo imperfetto non mi dà pienamente l’idea di posteriorità che dà invece il condizionale passato. Chiedo quindi quali significati, se ci sono, danno entrambi i modi verbali alla frase, e in generale, se e quando congiuntivo imperfetto e condizionale passato possono essere effettivamente scambiati per indicare posteriorità.
RISPOSTA:
La sua impressione è corretta, ma non determinante. Entrambe le forme verbali possono essere usate con la stessa funzione; il congiuntivo imperfetto, però, serve anche a rappresentare la contemporeneità nel passato, per cui il senso della posteriorità è più sfumato. Bisogna dire, però, che difficilmente si possono immaginare esempi in cui il congiuntivo imperfetto risulta ambiguo rispetto al rapporto temporale dell’evento descritto con l’evento della principale. Ovviamente, comunque, la presenza di un avverbio di tempo (o di un’altra espressione contestualizzante) esplicita ulteriormente la collocazione temporale dell’evento. In definitiva, quindi, la scelta tra il congiuntivo imperfetto e il condizionale passato in questi casi dipende soltanto dal registro: il congiuntivo è la soluzione più formale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi piacerebbe sapere se queste frasi sono corrette e quale sia il rapporto temporale tra i verbi al loro interno.
La prima: “Ho promesso che nel momento in cui mi (fossi?) lasciato non mi sarei più fidanzato.” È corretto utilizzare il trapassato congiuntivo o può essere utilizzato anche il condizionale passato(sarei lasciato)? Se entrambe sono corrette, qual è la differenza?
La seconda domanda riguarda un dialogo fra due attori in cui uno dei due racconta all’altro una vicenda di rivalsa ed è così formulata: “E chiunque avrebbe potuto pensare che quella (fosse?) l’occasione giusta, in cui avresti potuto rinfacciargli tutto!” È giusto utilizzare l’imperfetto congiuntivo? O potrebbe esser corretto anche il condizionale passato (sarebbe stata)? Eventualmente qual è la differenza tra le due opzioni?
RISPOSTA:
Nella prima frase la proposizione introdotta da nel momento in cui è normalmente considerata una ipotetica (nel momento in cui = se), quindi il verbo al suo interno segue le regole previste per la rappresentazione dell’ipotesi (l’indicativo per un’ipotesi realistica, il congiuntivo imperfetto per una possibile, il congiuntivo trapassato per una irrealistica. In questa proposizione il condizionale è in ogni caso escluso. Non è escluso, invece, che la proposizione sia intesa come una relativa, semanticamente coincidente con una temporale (nel momento in cui = quando): in questo caso può essere usato il condizionale passato, con la funzione di futuro nel passato. Ovviamente, se sostituiamo mi fossi con mi sarei l’evento da ipotetico diviene certo.
Nella seconda frase la subordinata è una oggettiva, che ammette sia il congiuntivo imperfetto sia il condizionale passato per descrivere un evento successivo rispetto a un altro passato (avrebbe potuto pensare). Il congiuntivo imperfetto serve, però, anche a indicare la contemporaneità nel passato (per cui in genere è sfavorito quando si voglia sottolineare la posteriorità); nella frase in questione, quindi, assume automaticamente questa funzione, ovvero sottolinea che l’occasione è contemporanea rispetto al momento dell’evento, cioè quello in cui chiunque avrebbe pensato. Il condizionale passato, invece, non ha altra interpretazione possibile in questo caso, per cui qui sottolinea che l’occasione è posteriore rispetto al momento di riferimento, quello rispetto a cui chiunque avrebbe pensato (si ricordi, infatti, che avrebbe pensato è a sua volta posteriore rispetto a un momento che non è esplicitato nella frase). A bene vedere, comunque, la differenza tra le due varianti è irrilevante dal punto di vista semantico (in un caso l’occasione è rappresentata come contemporanea al pensiero di chiunque, nell’altro come successiva al momento rispetto a cui anche il pensiero è successivo, quindi di fatto ugualmente contemporanea al pensiero); la differenza percepita tra le due forme, pertanto, è soltanto di registro: il congiuntivo è l’opzione più formale.
Fabio Ruggiano
Nelle due frasi, come introduce proposizioni di natura diversa, che si costruiscono diversamente. Nella prima frase la proposizione è un’interrogativa indiretta, che preferisce sempre il congiuntivo, e in particolare lo richiede decisamente quando è introdotta da come; nella seconda è una comparativa, che, al contrario, richiede l’indicativo quando è introdotta da come. Si noti che nella prima subordinata l’uso dell’indicativo non è escluso: “Mi aveva colpito come era riuscito a raccontare la storia” è possibile, con uno slittamento della proposizione verso il valore di oggettiva, non più di interrogativa indiretta. Con l’indicativo, in altre parole, come diviene equivalente a che.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volendo scrivere la frase “Grazie per il supporto ricevuto….. ricerca di mio padre” si deve usare la preposizione articolata alla oppure nella?
RISPOSTA:
In questa frase, il sintagma la ricerca può svolgere la funzione semantico-sintattica dello scopo del supporto (o del sostegno, dell’aiuto, della collaborazione e simili), dell’ambito nel quale il soggetto riceve un vantaggio dal supporto, oppure dell’ambito all’interno del quale si realizza il supporto ricevuto. Se vogliamo rappresentare la ricerca come scopo (complemento di fine) o come ambito del vantaggio (complemento di vantaggio), possiamo costruire il sintagma con la preposizione per (la); l’ambito in cui il supporto si realizza, invece, inquadrato nel cosiddetto complemento di limitazione, può essere costruito con la preposizione in (quindi nella). Tanto per lo scopo quanto per il vantaggio si può usare la preposizione a; in questo caso, però, la a non può essere selezionata perché lo impedisce il verbo ricevere: non si può, infatti, ricevere qualcosa a…, ma si può ricevere qualcosa per… La preposizione a può essere usata anche per costruire il complemento di limitazione, ma soltanto in pochi casi specifici, per esempio con l’aggettivo bravo (“È bravo a calcio”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle due versioni è corretta: punto/paragrafo 42 e segg. oppure punti/paragrafi 42 e segg.?
RISPOSTA:
In questa frase, il participio presente segg., ovvero seguenti, si comporta sintatticamente come un aggettivo; deve, quindi, accompagnare un nome. La forma più corretta, pertanto, è punti/paragrafi 42 e segg., in cui punti/paragrafi governa l’accordo sia di 42 (che, ovviamente, rimane invariato) sia di seguenti. In alternativa, si può scrivere punto/paragrafo 42 e punti/paragrafi segg. (che, però, risulta inutilmente ridondante). La costruzione punto/paragrafo 42 e segg. costituisce un errore veniale; si può sempre ipotizzare, infatti, che ci sia un nome sottinteso: punto/paragrafo 42 e (punti/paragrafi) segg. In contesti formali, però (che sono gli unici in cui una formula del genere potrebbe apparire), è preferibile rispettare le regole rigorosamente ed essere massimamente chiari.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Comunico la mia assenza per domani 10 marzo. Ne allego di seguito il giustificativo”.
Vorrei sapere se questo uso pronominale sia corretto. Dal punto di vista formale, scomponendo i rapporti sintattici, mi pare che non ci sia niente di sbagliato. (Ne allego il giustificativo = allego il giustificativo dell’assenza.) Quando ho letto il messaggio la prima volta, però, ho avuto un principio di perplessità. Chiedo a voi, come al solito, per sciogliere il dubbio.
RISPOSTA:
La frase è perfettamente corretta. Le ragioni della sua perplessità sono dovute alla distanza tra il pronome ne e il nome cui si riferisce (assenza). Dato che però nessun altro dei costituenti prima di ne (domani, 10 marzo) si presta ad essere sostituito da ne, la coreferenza tra ne e assenza, sebbene svolta nell’arco di due diverse frasi, è perfettamente rispettata.
Fabio Rossi
QUESITO:
la frase “Viviamo in un paese (a) cui dobbiamo essere orgogliosi di appartenere”, che ho udito pronunciare a un giornalista per la ricorrenza del 25 aprile, è ben costruita?
Mi domando in particolare se rifletta correttamente la seguente perifrasi (visto che è tale il senso generale del messaggio): Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere al paese in cui viviamo.
RISPOSTA:
Sì, la frase è corretta: “appartenere a un paese” e dunque “paese cui (o a cui) apparteniamo”. Data la distanza tra il verbo (appartenere) e il pronome retto da quel verbo (cui/a cui), a causa della complessità sintattica della frase, a una prima lettura il cui spiazza, perché si deve arrivare alla fine della frase prima di trovarne l’aggancio morfosintattico.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo chiedere gentilmente quale delle versioni è corretta:
“Il giudice NON può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X,
– COMPRESA l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione” – (così in lingua originale del testo da tradurre – lingua polacca)
– “TRA CUI l’adozione dei decreti relativi alla composizione del collegio giudicante o la fissazione della data dell’udienza di discussione”
– “NEMMENO adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né/o fissare la data dell’udienza di discussione”.
RISPOSTA:
Dai punti di vista strettamente morfosintattico e lessicale vanno bene tutte e tre le frasi in questione. Tuttavia, dato che nei testi giuridici, amministrativi e burocratici è sempre bene essere chiari, per evitare equivoci, la terza soluzione, con le leggere modificazioni qui proposte, è la migliore: “Il giudice non può esercitare alcuna attività decisionale nella causa X, cioè non può nemmeno adottare i decreti relativi alla composizione del collegio giudicante, né fissare la data dell’udienza di discussione”.
Riguardo al contenuto, mi chiedo, però, da non esperto di procedure giuridiche, se “adottare” sia il termine corretto, o se invece nel testo non si voglia intendere “promulgare” o “emanare”. In effetti, dal contesto, il divieto sembra riguardare il ruolo attivo del giudice (cioè quello di “emanare decreti”) nella causa in questione.
Le prime due soluzioni proposte, ancorché corrette, possono ingenerare equivoci per via dell’assenza di un chiaro segnale di negazione in “compresa” e “tra cui”. La negatività del concetto è invece ben presente in “nemmeno” e ribadita, a ulteriore chiarezza, dal “cioè” e dalla ripetizione del verbo “cioè non può nemmeno”, che riconducono questa parte di testo a quella precedente. Inoltre, la terza soluzione è migliore anche perché contiene una più chiara espressione verbale (“adottare” e “fissare”) rispetto all’espressione nominale “adozione” e “fissazione”.
Infine, meglio “né” rispetto a “o”, dato che si tratta di una disgiuntiva negativa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tornando alla frase “Ieri è stata una bella giornata” (relativa alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/ieri-puo-essere-soggetto/), se consideriamo “ieri” come soggetto, “una giornata” come parte nominale e “bella” come attributo di quest’ultima, dobbiamo anche notare che la copula, ovvero “è stata”, concorda in genere femminile con la parte nominale e non con il soggetto. Questo tipo di concordanza è ammessa? Ci sono altri esempi?
RISPOSTA:
Nel predicato nominale, sono quasi sempre ammesse entrambe le concordanze (per genere) della copula, o con il soggetto o con la parte nominale. Esempi: “La bolletta della luce è stata/stato un vero salasso”; “Mio figlio è stato/stata la mia più grande soddisfazione”. Nell’accordo per numero, invece, le cose stanno diversamente: “La villeggiatura per me sono quattrini ben spesi”; quasi inaccettabile “la villeggiatura per me è quattrini ben spesi”. D’altro canto però “I figli sono una grande preoccupazione” non è sostituibile da “I figli è una grande preoccupazione”. Riassumendo (ma possono esservi sempre eccezioni nell’uso reale): il doppio accordo per genere funziona sempre (o quasi), mentre quello per numero è speculare: con soggetto singolare e parte nominale plurale l’accordo della copula è con la parte nominale, mentre, viceversa, con soggetto plurale e parte nominale singolare l’accordo della copula è con il soggetto. Cioè, la copula concorda sempre con l’elemento al plurale.
Fabio Rossi
QUESITO:
vi chiedo cortesemente di sciogliere un dubbio sull’analisi logica della seguente frase: “Ieri è stata una bella giornata”. Sulla copia docenti di un testo di grammatica è indicato “ieri” come soggetto; invece, sul sito della Treccani, di una frase simile, ovvero “Domani sarà una giornata emozionante”, si afferma che il soggetto non c’è, perché il verbo è impersonale.
Potreste cortesemente esprimervi in merito?
RISPOSTA:
La questione è complessa ed è da tempo all’attenzione dei linguisti, che dibattono sul ruolo del soggetto e sulla natura dei verbi impersonali. In realtà, entrambe le risposte sono giuste e ben argomentabili, secondo i diversi orientamenti della linguistica. La risposta della Treccani è la più tradizionale: “ieri” (o “domani” o “lunedì” o simili) verrebbe inteso come complemento di tempo, “una bella giornata” è parte nominale del predicato nominale, dunque manca il soggetto. Tuttavia si fa fatica a ritenere “essere una bella giornata” (o simili) alla stregua di una espressione impersonale, tanto più che se cambiassimo l’attacco, il verbo cambierebbe accordo di numero, per esempio: “Ieri e l’altro ieri sono state giornate emozionanti”. E già questo basterebbe a dar ragione a chi ritiene che “ieri”, nella frase in questione, sia soggetto. Tuttavia vi sono altri casi in cui il discorso non è così pacifico: “ieri (e l’altro ieri) è stato nuvoloso” (e non *“sono stati nuvolosi”). In casi simili, è legittimo considerare “è stato nuvoloso” alla stregua di verbi impersonali quali i meteorologici piove, nevica ecc. Ricordiamo, inoltre, che secondo la grammatica generativo-trasformazionale anche i verbi impersonali, in realtà, hanno un soggetto, ma non espresso. In casi simili, è come se il soggetto fosse un “esso” nascosto, che invece è palese in altre lingue quali l’inglese (“it’s raining”), il francese, il tedesco e moltissime altre. E come addirittura accade in certi dialetti, quali il fiorentino (più demotico): “e’ piove”.
Quindi, per concludere, nella frase iniziale (“Ieri è stata una bella giornata” e simili) è meglio ritenere “ieri” come soggetto, mentre in frasi analoghe è meglio considerare “ieri” come complemento di tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “esprimo la mia opinione in relazione alla mia esperienza con voi”, il sintagma introdotto da “in relazione alla” esprime un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Sì. Potrebbe peraltro anche essere considerato un complemento di argomento, dal momento che le aree semantiche di questi due complementi sono spesso limitrofe, se non addirittura in parte sovrapponibili. Dipende dal contesto: se l’opinione verte sulla relazione, allora si tratta di complemento di argomento, se l’opinione verte su altre cose, ma è data nell’ambito di una relazione, allora è complemento di argomento. Naturalmente, come ben si vede, queste considerazioni riguardano la sfera meramente semantico-contestuale e nulla hanno a che vedere con la sintassi. Il che ci fa ribadire, per l’ennesima volta, la suprema inutilità (a non dir di peggio) dell’analisi logica (che di logica non ha nulla) tradizionalmente intesa.
Fabio Rossi
QUESITO:
Presa la frase “quanto sempre più ci se ne nutre in grazia”, come verrebbe l’analisi grammaticale? In particolare ci, se e ne sono pronomi? Al posto di quale significato? Credo che si sia passivante di ‘nutre‘, ne indichi “di questo”, ci non so.
RISPOSTA:
L’analisi grammaticale della frase, che risulta però incompleta, è:
Quanto: congiunzione subordinante
sempre: avverbio di tempo
più_: avverbio di quantità
ci: pronome personale
se: pronome riflessivo
ne: pronome personale atono
nutre: voce del verbo nutrirsi, intransitivo pronominale.
in: preposizione semplice
grazia: nome comune, femminile, singolare.
Si, in questo caso rende il verbo riflessivo; ci ha la funzione di soggetto generico, che rende il verbo impersonale (la prima persona plurale ci è quella che più richiama l’idea di impersonalità). Il ne si riferisce a qualcosa riferito precedentemente, immagino; quindi ha il significato di “di questo”.
Per un approfondimento sulla posizione dei pronomi atoni le suggerisco di leggere questa risposta di DICO.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho letto la risposta su come accordare l’aggettivo con la parola notaio nel caso in cui il notaio è una donna. Tuttavia, non sono sicura come mi devo comportare (facendo una traduzione) nella stessa situazione (il notaio è una donna) con il pronome: “Il notaio ha informato che ….. Egli / Ella ha altresì comunicato che …. “.
RISPOSTA:
Il pronome si comporta come l’aggettivo e il participio passato di un verbo inaccusativo (ovvero il verbo essere e tutti quelli con essere come ausiliare): il nome maschile è ripreso da un pronome maschile e viceversa per il nome femminile, senza riguardo per il sesso del designato. Quindi “Il notaio è stato categorico… Egli ci ha convocato…”. Ribadisco, comunque, che designare una donna con il nome notaio è scorretto tanto quanto designare una donna con il nome infermiere e tanto quanto designare un uomo con il nome notaia o infermiera.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda la costruzione della seguente frase: “L’animale si chiamava Bubu e ovunque sarebbe andato avrebbe obbedito solo al suo padrone”.
È corretto il condizionale passato dopo “ovunque”, in quanto azione futura nel passato, o si deve usare il congiuntivo “ovunque fosse andato”?
RISPOSTA:
La soluzione col condizionale passato fa leva, come giustamente osserva lei, sul futuro nel passato; la proposizione è però, a sua volta, dipendente da una reggente che già esprime il futuro nel passato (“avrebbe obbedito”), pertanto è decisamente da preferire la seconda soluzione col congiuntivo trapassato (“ovunque fosse andato”), per via della carica eventuale (quasi protasi di periodo di ipotetico) della subordinata relativa introdotta da ovunque: “se fosse andato in un posto qualunque, avrebbe obbedito”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Sì può analizzare la seguente frase “L’uomo era impegnato per conto di una ditta in attività di manutenzione su un impianto di zuccherificio” in questo modo seguente?
Uomo = soggetto
Era impegnato = pred. verbale
Per conto di una ditta = complemento di sostituzione
In una attività = stato in luogo figurato
Di manutenzione = complem. di specificazione
Su un impianto = stato in luogo
Di zuccherificio = compl. specificazione
RISPOSTA:
L’analisi è sostanzialmente corretta, con qualche precisazione. Il soggetto è comprensivo dell’articolo: “L’uomo”. Nell’insensatezza della tipologia dei complementi (qui più volte rilevata), si può osservare che “per conto di una ditta”, meglio che come complemento di sostituzione, può essere considerato complemento di vantaggio, visto che l’uomo, più che lavorare al posto di una ditta, lavora a favore di essa. Inoltre “su un impianto di zuccherificio” non è un sintagma perfettamente formato in italiano. Sarebbe più corretto dire che lavora “in (e non su) uno zuccherificio”, oppure “in un impianto per la produzione dello zucchero”, visto che zuccherificio vuol dire ‘che produce lo zucchero”.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto dire “La Ficht conferma il rating BBB dell’Italia” oppure “per l’Italia”?
Inoltre:
1) dell’Italia = compl. specificazione?
2) per l’Italia= compl. di vantaggio?
RISPOSTA:
Le due varianti sono corrette ma cambiano il significato della frase: conferma il rating BBB dell’Italia indica che il rating era già stato assegnato (è, appunto, il rating dell’Italia) e ora l’agenzia lo conferma; conferma il rating BBB per l’Italia indica che il rating era stato annunciato, se ne era parlato, ma soltanto adesso è stato effettivamente assegnato (quindi la conferma riguarda non il rating già assegnato, ma l’anticipazione a proposito del rating che sarebbe stato assegnato). In analisi logica dell’Italia è complemento di specificazione, per l’Italia è complemento di vantaggio (o di svantaggio, se la frase lascia intendere che il rating è una brutta notizia) se si intende il rating come un servizio reso all’Italia; è, in alternativa, complemento di argomento se si intende il rating come un voto che riguarda l’Italia.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Venite a trovarci, più ne siamo e meglio è”, è corretta la presenza della particella ne e, nel caso, che funzione grammaticale svolgerebbe? Oppure non si dovrebbe utilizzare?
RISPOSTA:
L’inserimento del ne in costrutti del genere è diffuso dell’italiano regionale meridionale; nella varietà standard dell’italiano (quella descritta dalle grammatiche) il costrutto non richiede il pronome: la forma corretta è più siamo. Il ne, si noti, è richiesto quando il verbo è alla terza plurale (più ne vengono), ma non quando è alla prima e alla seconda; mentre il soggetto della prima e della seconda, infatti, è sempre noto (perché coincide con il gruppo a cui appartiene l’emittente o con il gruppo a cui appartiene il ricevente), il soggetto di terza persona dipende dalla frase, quindi deve essere richiamato con il pronome, che ha la funzione di complemento partitivo. L’inserimento di ne alla prima e alla seconda plurale può essere, pertanto, interpretato come un’estensione del costrutto della terza persona. A margine sottolineo che con il verbo essere alla terza persona il ne deve essere preceduto da ce: più ce ne sono (non *più ne sono).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Desidererei mi venisse chiarito un dubbio relativamente a questa frase: “Ritengo queste richieste inaccettabili, eccetto quella che si riferisce eccetera”. Quel “quella”, riferito a richieste, può essere considerato grammaticalmente corretto?
RISPOSTA:
Sì, certamente è corretto. Le richieste sono varie, dunque è chiaro che se se ne vuole isolare una soltanto sia rispettato l’accordo per genere ma quello non per numero. La coreferenza (parziale) tra “queste richieste” e “quella” è perfettamente intelligibile e grammaticalmente corretto, perché rispetta sia le regole della semantica, sia quelle della morfosintassi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Le frasi seguenti sono corrette?
Le pie donne, guidate dalla Perpetua, raccontavano con enfasi quanto avessero faticato per addobbare a festa la chiesa; attendendo, a volte inutilmente, la riconoscenza degli altri fedeli.
A dire il vero, per stimolare i bislacchi criticoni bastava davvero poco: un abito troppo corto, un’acconciatura particolare, l’ostentazione di qualche appariscente gioiello; e con l’aggiunta dell’invidia, la cattiveria diventava esplosiva.
In quei periodi, indipendentemente dalle zone geografiche, le famiglie di stampo patriarcale relegavano la donna al ruolo di casalinga, madre e moglie; qualche volta anche di amante, qualora i mariti lo avessero desiderato.
Il paese, pur essendo piccolo, aveva tutto ciò di cui gli abitanti potessero avere bisogno:
Lui accettò di buon grado e, pensando che avrebbe fatto cosa gradita alla madre, se ne avesse portate un po’ anche a lei, infilò la canottiera dentro i pantaloni,
La collina retrostante terminava a ridosso della casa e si aveva l’impressione che tenesse in piedi la costruzione, sostenendo il muro posteriore; e non è detto che non fosse proprio così.
E pensare che, quella sera, il Maresciallo non vedeva l’ora di tornare a casa: aveva bellissime novità da comunicare alla famiglia; invece si trovò a dover affrontare una bella grana.
Dovremmo permettergli anche di portare gli amici a casa, così avremmo modo di conoscerli.
Dopo la condanna della ragazza, tutto fu messo a tacere; d’altronde, la vittima sacrificale era stata immolata e si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa; ma rimane il dubbio che ciò sia veramente accaduto.
apparsi sui mezzi d’informazione di tutto il mondo ancora prima che le varie agenzie statali avessero inviato le relative informative a chi di competenza.
Nei giorni seguenti, fu messo a punto un piano; la resa dei conti sarebbe avvenuta su un terreno congeniale alla squadra. Era necessario invertire la situazione: fare uscire allo scoperto i trafficanti e permettere alla squadra di agire nell’ombra.
Andrea disse subito che avrebbe chiamato l’ambulanza, ma la madre trovò la forza per dirgli che non voleva andare all’ospedale: se proprio doveva accadere, avrebbe preferito morire a casa, nel suo letto.
Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà.
RISPOSTA:
Sì, le frasi sono tutte corrette. Segnaliamo poche minuzie. Perpetua, se usato come antonomasia, e dunque nome comune, va scritto con l’iniziale minuscola.
“Si presunse che gli altri panni sporchi fossero stati lavati in casa” implica che, all’epoca in cui lo si presumeva, i panni sporchi erano già stati lavati. Se invece si vuol dire che all’epoca della presunzione ancora non si sapeva, allora va usato il futuro nel passato mediante il condizionale passato: “si presunse che gli altri panni sporchi sarebbero stati lavati in casa”.
In “Mi dispiacerebbe se lei, da lassù, pensasse che io abbia voluto (volessi) più bene a papà” vanno bene sia “abbia voluto” sia “volessi” sia “avessi voluto”. A questo punto, meglio affidarsi al suono ed evitare troppe “ss”, quindi meglio “abbia voluto”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei una consulenza sul significato della frase complessa riportata di seguito: “La frase è una forma linguistica indipendente, non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore, escluso il testo”.
La frase è una forma linguistica indipendente = frase reggente principale;
Non compresa (che non è compresa = subordinata relativa) mediante alcuna costruzione grammaticale (attributo + complemento di esclusione) in una forma linguistica maggiore (complemento di stato in luogo figurato) escluso il testo (subord. di esclusione).
Come può essere parafrasata, ossia cosa significa in concreto, la frase in questione?
RISPOSTA:
Cominciamo dall’analisi del periodo.
“La frase è un forma linguistica indipendente”: proposizione principale;
“non compresa mediante nessuna costruzione grammaticale in una forma linguistica maggiore”: subordinata relativa implicita;
escluso il testo (subordinata esclusiva implicita).
Analisi logica della proposizione relativa:
la frase: soggetto sottinteso evincibile dal predicato verbale “non compresa”;
non compresa: predicato verbale;
mediante alcuna costruzione grammaticale: attributo + complemento di mezzo;
in una forma linguistica maggiore: complemento di stato in luogo figurato + attributo.
Il senso (e quindi la parafrasi) della frase in questione, che è una delle tante possibili definizioni di “frase”, è il seguente. La frase è, dal punto di vista sintattico, indipendente da altre frasi, cioè non fa parte di nessuna frase complessa (in quanto è essa stessa una frase, semplice o complessa, che si conclude con un punto, senza altri vincoli sintattici con strutture esterne alla frase stessa). Naturalmente, bisogna tener conto del contesto, o per meglio dire del cotesto, cioè dell’intero testo in cui la frase è inserita, per comprenderne a pieno il significato. Quindi, benché autonoma sul piano sintattico, sul piano semantico la frase non è del tutto autonoma, perché va inquadrata in un’unità di rango superiore detta testo.
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretta l’analisi della seguente frase? “Tiziano propone classi separate per studenti disabili, una mossa lesiva dei diritti di queste persone, in contrasto con i principi pedagogici”.
Tiziano = soggetto
Propone = predicato Verbale
Classi separate = compl. Oggetto + attributo
Per studenti disabili = complemento di destinazione + attributo
Una mossa lesiva = apposizione + attributo
Dei diritti = complemento di termine
Delle persone = compl. di specificazione
In contrasto con i principi pedagogici = complemento di paragone e attributo
RISPOSTA:
Secondo l’analisi logica tradizionale, vi sono alcune inesattezze o precisazioni da fare. Quello che lei chiama complemento di destinazione può essere classificato anche come complemento di vantaggio. “Dei diritti” è complemento di specificazione, anziché di termine. Come si vede e come chiarito più volte nelle risposte di DICO, però, una analisi siffatta non spiega nulla della struttura sintattica della frase, limitandosi ad apporre impressionistiche etichette semantiche ai vari sintagmi. Più utile sarebbe invece comprendere e distinguere, per esempio, il valore argomentale di “classi separate” e di “dei diritti” (che completa il sintagma “mossa lesiva”), rispetto al valore di circostante o di espansione degli altri sintagmi. In particolare, il circostante “una mossa lesiva dei diritti” (del tutto omologa a una relativa “che lede i diritti”) amplifica tutto ciò che precede (“propone classi separate per studenti disabili”); questa funzione di amplificazione (o circostante) si perde nella banale etichetta di apposizione, che sembra limitare (erroneamente) il riferimento di “una mossa lesiva dei diritti” al solo “classi separate”, quando invece è evidente che ad essere una mossa lesiva non siano soltanto le classi separate, bensì la proposta delle classi separate. Ancora una volta, dunque, più che la sciocca, inutile e dannosa analisi logica tradizionale sarebbe importante che la scuola insegnasse un’oculata e semplificata versione della grammatica valenziale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la costruzione “Sono affermazioni, queste, che non mi faccio scrupoli di diffondere” sia una valida alternativa di “Non mi faccio scrupoli di diffondere queste affermazioni”.
Il mio dubbio, nell’esempio originario, riguarda la porzione “mi faccio scrupoli di diffondere”: qui le parti del discorso hanno i giusti collegamenti sintattici?
RISPOSTA:
Certamente, la frase è del tutto corretta, perché il pronome relativo che svolge il ruolo di complemento oggetto, e dunque in “che non mi faccio scrupoli di diffondere”, che = queste affermazioni.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Si fa presto a dire amore” potrebbe essere analizzata nel seguente modo?
Si fa presto = reggente impersonale
A dire amore = subordinata limitazione
RISPOSTA:
Sì, la subordinata è una limitativa implicita. Tenga poi conto, però, che per le implicite il confine tra diversi tipi di subordinata è molto sfumato (limitativa, causale, finale, consecutiva, tra le altre, spesso possono legittimamente essere confuse), in virtù della estrema polisemia dei connettivi (per, di, a ecc.) e dei modi verbali. Dunque, vale per le subordinate quanto detto spesso per i complementi: più che accanirsi sul tipo (semantico), è meglio comprendere la funzione sintattica della subordinata. In questo caso, non v’è alcun dubbio sulla natura avverbiale della subordinata.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “I romani, sotto la guida di Cesare Giulio, conquistarono le Gallie”, sotto la guida può considerarsi complemento di mezzo?
“Voteremo sulla base/ in base a queste considerazione”….”Sulla base di” introduce un complem. di limitazione?
RISPOSTA:
Le due risposte sono entrambe corrette. Resta l’insensatezza della tipologia dei complementi secondo l’analisi logica tradizionale, che si limita a porre etichette semantiche (e impressionistiche) del tutto inutili a spiegare il funzionamento sintattico e logico della frase. Su questo aspetto, si rimanda alla seguente risposta di DICO: https://dico.unime.it/ufaq/il-complemento-di-quantita-e-il-complemento-di-specificazione-linutilita-dellanalisi-logica-tradizionale/
Fabio Rossi
QUESITO:
“I capelli sono pettinati in ciocche sottili e sono tinti di nero”
I due predicati sono nominali o verbali? Sono entrambi due participi passati che possono essere usati anche come aggettivi o no?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambi participi, e come tali possono avere valore sia verbale sia nominale. Dunque in entrambe le proposizioni il predicato può essere analizzato sia come verbale, sia come nominale. Abbiamo già discusso nel dettaglio questa dicotomia nel quesito https://dico.unime.it/ufaq/predicato-verbale-o-nominale/, cui rimandiamo per un approfondimento della complessa questione.
Fabio Rossi
QUESITO:
- A) Gli ho assicurato/accertato che non era così.
(complemento di termine + completiva oggettiva diretta esplicita)
- B) Gli ho assicurato/accertato la buona riuscita del progetto.
(Complemento di termine + complemento oggetto)
- C) Li ho assicurati/accertati che non era così.
(complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- D) Li ho assicurati/accertati della mia innocenza.
(complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Sul web mi sono imbattuto su discussioni che riguardavano i due verbi in questione.
Ho letto di gente che dava come corrette solo le costruzioni con complemento di termine, ritenendo scorrette frasi come C e D, visto che si andava in contro ad un paradosso, cioè due complementi oggetti connessi fra loro, paradosso che, a pensarci bene, potrebbe riguardare anche un verbo come “informare”, visto che quest’ultimo ammetterebbe costruzioni come in C e D, col quale però certe costruzioni sono del tutto normalizzate e idiomatiche.
Io penso che le costruzioni di C e D siano corrette, solo poco comuni, anche perché queste ultime sono altrettanto corrette nella loro forma riflessiva:
- E) Mi assicuro/accerto che tutto vada secondo i piani.
(Complemento oggetto + completiva oggettiva obliqua esplicita)
- F) Mi assicuro/accerto della tua innocenza.
(Complemento oggetto + complemento di specificazione oggettiva obliqua [???])
Detto questo, mi interessava sapere cosa ne pensasse un esperto in materia, un linguista, in modo che potessi avere le idee più chiare.
RISPOSTA:
Ha ragione lei: la presenza del complemento oggetto nella reggente non impedisce affatto la presenza di una completiva dipendente dal medesimo verbo che regge il complemento oggetto: “ho rassicurato i miei genitori che sarei tornato presto”. La subordinate completive, pur comportandosi similmente a un oggetto (o a un soggetto) non possono essere considerate del tutto equivalenti a un complemento oggetto, come dimostrano le completive indirette, le quali, se trasformate in sintagma, richiederebbero una preposizione anziché un complemento diretto: “li ho rassicurati che verrò” > “li ho rassicurati della (o sulla) mia venuta; “informo Luca che arriverai” > “informo Luca del tuo arrivo”.
Quello che non va, in alcune delle frasi da lei citate a esempio, è il complemento; infatti non tutti i verbi ammettono il complemento oggetto o il complemento di termine della persona nel modo da lei (o dalle sue fonti) espresso, e questo indipendentemente dal fatto che vi sia anche una completiva o no. In particolare: “accertare qualcuno” (e non “a qualcuno”); “assicurare qualcuno” (oppure “rassicurare qualcuno”), non “a qualcuno”. Assicurare e accertare, insomma, non possono reggere il complemento di termine della persona che si assicura/accerta, ma soltanto il complemento oggetto (nelle accezioni qui commentate). Inoltre, “accertare qualcuno” appartiene comunque a un registro elevato e raro (“di basso uso” lo definisce il Gradit di De Mauro) che sarebbe meglio evitare, tant’è vero che l’italiano comune usa accertare soltanto in riferimento a fatti, non a persone: “accertare la morte”, “una notizia” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
La frase “Il Giappone è un paese in via di sviluppo in termini economici e sociali” può essere analizzata nel seguente modo:.
Il Giappone= soggetto
E’= predicato nominale
Un paese= nome del predicato
In via di sviluppo= complemento di luogo figurato
In termini economici= complem di limitazione.
Nelle frase “Abbiamo deciso di pensarci in termini di costi”, il complemento “in termini di costi” è complemento di limitazione?
RISPOSTA:
È: copula, che insieme al nome del predicato “un paese” costituisce il predicato nominale.
In via di sviluppo: complemento di qualità; ma, nell’insensatezza dell’analisi logica tradizionale, essendo una locuzione aggettivale (pur costituita da un sintagma preposizionale), può essere tranquillamente analizzata anche come attributo del nome del predicato. Quel che conta è comprendere che “in via di sviluppo” svolge qui il ruolo di circostante (cioè, più o meno, attributo) rispetto a “un paese”.
Sì per tutto il resto: sono entrambi complementi di limitazione (ovvero, più utilmente, svolgono il ruolo di espansioni frasali).
Quanto al senso della prima frase, è certamente errato definire il Giappone un paese in via di sviluppo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Non mi è ben chiaro come distinguere se nelle seguenti frasi gli elementi in maiuscolo sono aggettivi o pronomi indefiniti. Inoltre possono essere considerati tutti quantificatori, o alcuni di essi (ad es. “altri”) non hanno la funzione di quantificare?
1) In un mondo multietnico, inevitabilmente siamo in TANTE, TUTTE diverse e OGNUNA con il suo fascino e la propria identità, ma è pur vero che tra queste ALCUNE hanno un carisma irresistibile.
[tante=aggettivo indefinito quantitativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo; ognuna= pronome indefinito collettivo; alcune=pronome indefinito singolativo]
2) Ne ho sentite dire di TUTTI i colori su di me.
[tutti=aggettivo indefinito collettivo]
3) TANTI mi confessano che trasmetto loro i piaceri della bellezza. ALTRI dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni.
[tanti=pronome indefinito quantitativo; altri= pronome indefinito singolativo]
4) Sono UNA che lascia il segno e con orgoglio vi comunico che nella competizione mondiale sono arrivata quarta. Conosco gente di TUTTE le età che si avvicina a me per i motivi più diversi.
[una=pronome indefinito singolativo; tutte=aggettivo indefinito collettivo]
RISPOSTA:
Sono tutti quantificatori e indefiniti e sono quasi tutti pronomi, tranne quelli accompagnati a un nome, cioè “tutti i colori” (aggettivo indefinito) e “tutte le età” (aggettivo indefinito). In “sono una”, una, a rigore, è pronome numerale, anche se, dato il significato di “una certa persona” o “quel tipo di persona”, può anche essere interpretato come pronome indefinito. L’importante è riconoscerne il valore pronominale (anziché aggettivale, visto che non si accompagna a un nome) e di quantificatore.
Fabio Rossi
QUESITO:
Frase “Egli ha il ruolo di un testimone che si limita a citare le parole della persona in questione, lasciando a lei la responsabilità di quanto dice”.
Quesiti:
- “Sì limita a citare” si può considerare un unico predicato verbale (Come se dicessi “cita soltanto…”)?
- “In questione” = complemento di argomento?
- “Lasciando” = introduce una subordinata modale, finale o consecutiva?
RISPOSTA:
- “Si limita a citare” non può essere considerato come un unico predicato, secondo la sintassi tradizionale, perché “si limita” non svolge né il ruolo di verbo modale, né il ruolo di verbo aspettuale o fraseologico. Pertanto “si limita” è il verbo della proposizione reggente, mentre “a citare” è il verbo della subordinata implicita infinitiva, che può essere analizzata sia come completiva sia come finale.
- La tradizionale tipologia dei complementi è del tutto inutile, in sintassi. Qui l’importante è capire che la locuzione aggettivale “in questione” svolge un ruolo analogo a quello di un aggettivo (come se fosse “la persona nota” o “già nominata”), ovvero di circostante frasale. In quanto tale, se proprio si vuol tornare all’inutile nomenclatura scolastica, potrebbe essere analizzato come complemento di qualità.
- La subordinata implicita gerundiva “Lasciando a lei la responsabilità”, stante la polifunzionalità del gerundio, può essere analizzata sia come modale (che è la scelta migliore), sia come consecutiva (è talmente asettico da lasciare a lei la responsabilità…), sia come finale (lo fa per lasciare a lei la responsabilità…).
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Ieri sono rientrato al lavoro con il turno pomeridiano”, il complemento “con il turno” si considera complem. di unione o mezzo?
RISPOSTA:
Come abbiamo più volte sottolineato nel nostro sito DICO, la tradizionale nomenclatura dei complementi è scarsamente o per nulla produttiva, perché cerca di sviscerare inutili minuzie semantiche, senza nulla dire della funzione sintattica dei sintagmi. In questo caso, quel che interessa è che “con il turno pomeridiano” non ha valore argomentale ma di espansione, cioè non contribuisce a completare il senso del verbo, ma soltanto dell’intera frase. Se proprio vuole poi ricondurre questo valore all’inutile nomenclatura scolastica, allora il complemento può essere, secondo il contesto, sia di unione (se si fa leva soltanto sul fatto che si è rientrati a lavoro e si è svolto il turno pomeridiano), sia di mezzo (se si dà più importanza al turno che al rientro), o addirittura di causa (se è proprio il turno pomeridiano che ha consentito il rientro, mentre quello mattutino lo avrebbe reso impossibile).
Fabio Rossi
QUESITO:
Non riesco a capire che funzione ha “questo” nella seguente frase (chi parla è la personificazione della lingua italiana): «Altri dicono che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni. Sarà forse per QUESTO che l’Opera è nata nel mio Paese»,
In questo caso, “questo” è un pronome dimostrativo che sostituisce un’intera frase (“il fatto che sono molto musicale e regalo benessere con le mie vibrazioni”)? O è una locuzione congiuntiva, sostituibile con “perciò”, “per tale motivo”? O è qualcosa d’altro?
RISPOSTA:
Questo è un pronome dimostrativo che funge da incapsulatore, in questo caso, cioè pronominalizza un’intera frase o porzione di testo, piuttosto che un singolo sintagma. Per questo, con parziale perdita semantica e grammaticalizzazione, può essere inteso anche come locuzione congiuntiva di valore analogo a perciò; tuttavia, nel caso specifico, la forte coesione della frase (con il complemento per questo retto dal verbo sarà) fa propendere per la prima interpretazione. Il valore di locuzione congiuntiva, o meglio ancora di segnale discorsivo, sarebbe più probabile in un caso del genere: «Per questo, l’opera è nata nel mio paese». Con perciò il confine tra i due tipi (molto sfumato) è più semplice, perché la grammaticalizzazione ha comportato l’univerbazione di per ciò in perciò (come per che in perché, poi che in poiché ecc.). Mentre per questo non ha (ancora) dato luogo a perquesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
In un recente intervento di una parlamentare ho sentito questa frase: “Non vorrei che nessuna donna che in questo momento VORREBBE abortire si sentisse attaccata da questo stato”. Si tratta di un intervento emotivamente concitato, però l’uso del condizionale non mi convince, per via della sfumatura ipotetica. Cosa ne pensate, è accettabile?
RISPOSTA:
Il condizionale nella relativa di questa frase non è accettabile, ma va sostituito con il congiuntivo imperfetto: la relativa, infatti, è fortemente attratta dal modello della proposizione ipotetica (che in questo momento volesse abortire = se in questo momento volesse abortire).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
L’analisi logica delle seguenti frasi è corretta?
“Sono stato sottoposto a visita medica”.
Sono stato sottoposto = predicato verbale;
a visita medica: complemento predicativo del soggetto (o di fine).
“La casa è in fiamme”.
La casa = soggetto;
è = pred. verbale;
in fiamme = complemento di stato in luogo figurato.
Nella frase “Ho dato una casa in affitto”, il complemento in affitto può considerarsi complemento di qualità?
RISPOSTA:
A visita medica può essere considerato soltanto complemento di termine, mentre in affitto potrebbe essere classificato come complemento di fine. Entrambe queste etichette, però, risultano forzate: l’analisi logica, infatti, non funziona bene con espressioni come sottoporre a visita, o dare in affitto (ma anche dare ascolto, fare il proprio ingresso, prendere una decisione, mettere in campo e tante altre). Queste espressioni, che sono dette costruzioni a verbo supporto, consentono di veicolare un significato verbale attraverso un sintagma nominale o preposizionale, grazie all’unione di questo sintagma con un sintagma verbale desemantizzato (cioè privato di un significato proprio). Il modo migliore di analizzare queste espressioni sarebbe, quindi, considerarle insieme, come predicati nominali, cioè predicati in cui la parte predicativa non è il verbo ma il nome. Tale opzione, però, non è prevista dall’analisi logica (ma è, invece, prevista nell’ambito della grammatica valenziale).
La prova che le costruzioni a verbo supporto siano espressioni unitarie è che molte di queste possono essere parafrasate con un verbo: sottoporre a visita = visitare (e, quindi, essere sottoposto a visita = essere visitato), dare in affitto = affittare (come anche prendere in affitto = affittare), prendere una decisione = decidere ecc. Per le costruzioni che non corrispondono a singoli verbi vale lo stesso principio, con la differenza che, banalmente, nella lingua non esiste (ancora) un verbo con quel significato.
Per essere in fiamme il discorso è diverso: in fiamme non è un luogo figurato né una situazione che racchiude la casa; è, piuttosto, un modo di essere temporaneo della casa (corrisponde più o meno all’aggettivo infuocata). Ne deriva che è è copula e in fiamme è parte nominale del predicato nominale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Guardando un video di una docente di inglese e di comunicazione aziendale mi sono sorti dei dubbi sull’uso del congiuntivo. Riporto tre frasi di cui non capisco la costruzione.
1. Avevo distribuito volantini a tutti i ristoranti che mi capitassero di trovare.
2. Vi do tre consigli per gestire le telefonate di un cliente che parli inglese.
3. Mi è capitato che di fronte alla telefonata di un cliente che parlasse inglese.
Io nel primo e terzo caso avrei usato l’imperfetto, nel secondo il presente. Non ho fatto il liceo, ma un istituto professionale e faccio sempre molta fatica a capire casi come questo, anche studiando la grammatica di riferimento.
RISPOSTA:
In effetti i tempi usati dalla docente nelle frasi sono quelli che avrebbe usato lei, che sono anche quelli corretti: l’imperfetto nella prima e nella terza, il presente nella seconda. Per quanto riguarda il modo congiuntivo, si tratta di una scelta meno comune dell’indicativo nelle proposizioni relative, ma non è, per questo, scorretto. Nelle frasi in questione nelle proposizioni relative si può usare sia l’indicativo sia il congiuntivo, senza che il significato cambi: il congiuntivo rende semplicemente la frase più formale, adatta a un registo più elevato. Si potrebbe pensare che il congiuntivo aggiunga una sfumatura di eventualità alla proposizione, ma non è così: la sfumatura di eventualità, se c’è, è veicolata dall’intera frase, non dal modo del verbo della subordinata. Si osservi, infatti, che il congiuntivo è usato sia nella frase 2, in cui si parla di un cliente che potrebbe parlare inglese, sia nella frase 3, in cui si parla di clienti veramente conosciuti, quindi dei quali è noto se parlassero inglese o no. Anche nella frase 1, del resto, i ristoranti nei quali sono stati distribuiti i volantini sono stati trovati o no: non c’è niente di ipotetico in questo processo. Sottolineo, a margine, che nella relativa della frase 1 c’è un errore sintattico indipendente dal modo verbale usato. La terza persona plurale di capitassero dipende dall’idea che il pronome che, riferito ai ristoranti, sia il soggetto della proposizione relativa; ovviamente, però, non è così: il verbo capitare è usato nella forma impersonale, senza soggetto, e che (riferito ai ristoranti) è il complemento oggetto di trovare. La forma di capitare da usare è, quindi, la terza persona singolare capitasse (o capitava, se si vuole usare l’indicativo), che è la forma richiesta quando il verbo è impersonale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Qual è l’analisi logica della frase “La mamma difende i cuccioli dalle iene”?
RISPOSTA:
La mamma = soggetto;
difende = predicato verbale;
i cuccioli = complemento oggetto;
dalle iene = complemento di svantaggio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale delle frasi è corretta? “Ad un tratto il capo mi dice che se fossi riuscita a svolgere il compito avrei ottenuto un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscirò a svolgere il compito otterrò un aumento” o “Ad un tratto il capo mi dice che se riuscissi a svolgere il compito otterrei un aumento”.
RISPOSTA:
Le frasi sono ugualmente corrette, ma rappresentano il riuscire come altamente improbabile (se fossi riuscita), fattuale (se riuscirò), possibile (se riuscissi).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Il periodo “Come si fa ad essere creativi?” può considerarsi formato da come si fa = prop. principale/reggente; ad essere creativi = prop. subordinata di fine?
RISPOSTA:
Sì.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho trovato queste frasi nel libro Di chi è la colpa di Alessandro Piperno:
(1) “Io c’avevo guadagnato una Sakura acustica con la paletta in finta madreperla su cui spaccarmi i polpastrelli; lui un partner affidabile e diligente che accompagnasse i suoi assolo” (p. 33).
Il che prima di accompagnasse è evidentemente un pronome relativo, che, a mio parere, introduce una proposizione dipendente impropria, cioè una proposizione consecutiva. Possiamo, quindi, sostituirlo con tale che? L’uso dell’imperfetto congiuntivo accompagnasse per me dà una sfumatura di un’eventualità, e quindi la sfumatura per me si avvinca a quella di una proposizione finale con il verbo all’imperfetto del congiuntivo.
Se sostituissimo accompagnasse con avrebbe accompagnato sembrerebbe che l’evento successivo sia certo, non più un’eventualità; in quel caso, quindi, la proposizione relativa impropria non avrebbe più la sfumatura finale, ma avrebbe soltanto quella consecutiva: giusto?
Secondo esempio:
(2) “E dato che non c’è limite all’imprudenza, gli avevo lanciato un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità avrebbe di certo interpretato nel peggiore dei modi” (p. 14).
A mio parere, anche in questa frase il che è un pronome relativo, ma curiosamente Piperno ha usato avrebbe interpretato invece dell’imperfetto del congiuntivo. A mio parere qui il pronome relativo introduce ancora una proposizione relativa impropria con valore consecutivo. A differenza dell’esempio (1), però, mi dicono che interpretasse non sia ammesso. Quindi se fosse così concluderei che la proposizione impropria non può essere una finale dato che le proposizioni finali reggono sempre un verbo al congiuntivo: è giusto?
Terzo esempio:
(3) “Gli avevo lanciato un’occhiata che aprisse svariati scenari possibili (che avrebbe aperto svariati scenari possibili)”.
Mi dicono che così sia aprisse sia avrebbe aperto siano accettabili. È giusto? Se tutti e due i verbi sono corretti nell’esempio significa che la proposizione relativa potrebbe essere interpretata sia come finale sia come consecutiva?
Mi domando se sia necessario in una proposizione relativa impropria che l’oggetto a cui fa riferimento il pronome relativo sia il soggetto della dipendente per interpretare la dipendente impropria come una finale.
RISPOSTA:
La proposizione relativa nell’esempio 1 riceve effettivamente dal congiuntivo una sfumatura eventuale, che le fa prendere un significato consecutivo-finale. Quando nella reggente è descritta un’azione volontaria non è facile distinguere tra i due valori, perché l’evento descritto nella proposizione relativa può essere interpretato come la conseguenza o anche come il fine dell’azione della reggente; nella frase in questione, però, nella reggente è descritta una condizione (lui (ci aveva guadagnato) un partner), per cui si può scartare il valore finale, visto che una condizione è uno stato di fatto privo di finalità. La sostituzione di che con tale che in questo caso è possibile (con l’effetto di trasformare il che a metà tra il relativo e la congiunzione consecutiva in una congiunzione consecutiva), anche se la sintassi in questo modo diventa poco naturale; con tale sarebbe preferibile la costruzione della consecutiva con l’infinito: , tale da accompagnare i suoi assolo.
Se sostituiamo il congiuntivo imperfetto con il condizionale passato la sfumatura eventuale viene meno e l’evento descritto nella relativa diviene fattuale: con che avrebbe accompagnato i suoi assolo, quindi, si intende descrivere quello che effettivamente sarebbe successo in seguito al verificarsi della condizione della reggente, non quello che sarebbe potuto succedere come conseguenza della condizione descritta nella reggente. Lo stesso avviene se sostituiamo che con tale che: , tale che avrebbe accompagnato i suoi assolo.
Nella frase 2 il condizionale passato indica, come indicherebbe nella 1, che l’evento descritto è un fatto, non una possibilità. Va sottolineato che, trattandosi di un evento successivo, la fattualità non può che essere immaginata dal parlante, infatti nella frase si legge avrebbe di certo interpretato, cioè ‘avrebbe – io credevo in quel momento – interpretato’. Il congiuntivo imperfetto non è affatto impossibile, ma è strano: un’occhiata che un ceffo di tale suscettibilità interpretasse nel peggiore dei modi è un’occhiata lanciata con lo scopo di suscitare nel ceffo la reazione peggiore; la relativa, cioè, prende, per via del congiuntivo, il tipico significato consecutivo-finale. La stranezza dipende dal fatto che il bersaglio dell’azione (un ceffo di tale suscettibilità) è rappresentato come indeterminato, quindi l’azione sarebbe rappresentata come finalizzata a suscitare una certa reazione su un bersaglio indeterminato. La costruzione con il congiuntivo diviene del tutto regolare se si rappresenta il bersaglio come determinato; per esempio: avevo lanciato a quei due un’occhiata che interpretassero nel peggiore dei modi. L’esempio 3 funziona esattamente come il 2. Per quanto riguarda l’ultima osservazione, non è così: il relativo può avere varie funzioni nella proposizione che introduce anche quando questa ha un significato consecutivo-finale.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Potreste correggere le seguenti frasi?
1) Cancellare alla lavagna o la lavagna.
2) Mettere sul piatto o nel piatto, la mozzarella è sul piatto o nel piatto.
3) Vado a nord o al nord.
4) Vado al sud Italia o a sud Italia.
RISPOSTA:
Cancellare alla lavagna e cancellare la lavagna sono alternative ugualmente corrette dal significato diverso: la prima significa ‘cancellare ciò che è scritto alla lavagna’, la seconda ‘cancellare la superficie della lavagna’. La scelta tra mettere sul piatto e mettere nel piatto è legata al gusto personale: le due varianti sono praticamente equivalenti. A Nord, a Sud ecc. indicano la direzione del moto, mentre al Nord, al Sud ecc. indicano ‘i luoghi che si trovano al Nord / al Sud’. Pertanto vado a Nord significa ‘mi sposto verso Nord’, vado al Nord significa ‘mi sposto nell’area geografica situata a Nord’. Ne consegue che vado a Sud Italia sia quasi inaccettabile, mentre vado al Sud Italia (o anche vado nell’Italia del Sud) va bene, perché il Sud Italia non può essere una direzione, ma è una regione geografica.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quale regola bisogna seguire per usare in modo corretto le preposizioni di e da?
1) Vestiti da sposa ma vestiti di scena
2) Errori di o da terza elementare
3) Buono di o da 10 euro
RISPOSTA:
Le preposizioni sono parole dal significato vago, per cui possono essere usate in contesti molto diversi, a volte anche apparentemente contraddittori. Può, inoltre, capitare che due o più preposizioni abbiano usi molto simili tra loro. Nei suoi esempi si vede che da indica prioritariamente una relazione di pertinenza, mentre di indica una relazione di appartenenza (anche figurata): un vestito da sposa, pertanto, è un vestito che si addice a una sposa, mentre un vestito di scena è un vestito che appartiene alla scena; un errore da terza elementare è un errore che si addice a un livello di istruzione corrispondente alla terza elementare, mentre un errore di terza elementare non esiste, perché non è possibile che un errore appartenza a un certo livello di istruzione. Nel terzo esempio la forma preferibile è da 10 euro, perché la relazione tra il buono e il valore economico è di pertinenza; buono di 10 euro, pur esistente, rappresenta una soluzione meno formale, derivante dalla possibilità di considerare la relazione tra il buono e il valore talmente stretta da essere assimilata all’appartenenza.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Il file è in fase di caricamento”, il complemento in fase di caricamento può considerarsi predicativo del soggetto o stato in luogo? L’espressione in sciopero della fame si può analizzare così?
In sciopero = c. di luogo figurato;
della fame = c. di fine
RISPOSTA:
La fase di caricamento non è una qualità del file, ma è un processo nel quale si trova il file; si può, quindi, interpretare il sintagma come luogo figurato. Volendo sottolineare che tale luogo si configura come un processo, si può anche sostenere che il complemento sia di moto per luogo.
In sciopero indica una situazione in cui si trova una persona, quindi può rientrare nell’idea di stato in luogo figurato; della fame, invece, specifica di che tipo è lo sciopero, cioè che cosa lo caratterizza, quindi è un complemento di specificazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In “Fattelo spiegare da Giulio”, il complemento da Giulio si può considerare un complemento di origine?
RISPOSTA:
Sì. In alternativa, considerando che la costruzione fattitiva (fare + infinito) è parafrasabile con quella passiva: io mi faccio spiegare un argomento da Giulio = io faccio in modo che l’argomento mi sia spiegato da Giulio, è giustificabile anche l’interpretazione del sintagma come complemento d’agente.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
A) Se ci fosse un libro che mi intrattenesse, lo comprerei.
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe, lo comprerei.
C) Se ci fossero delle persone che mi aiutassero, sarei loro riconoscente a vita.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero, sarei loro riconoscente a vita.
Le frasi col congiuntivo (A e C) mi sembrano senza dubbio corrette.
Il mio dubbio riguarda le frasi B e D, cioè quelle al condizionale.
Secondo me, però, potrebbero avere una loro correttezza grammaticale, immaginando che quel condizionale abbia una protasi implicita:
B) Se ci fosse un libro che mi intratterrebbe (se lo leggessi), lo comprerei.
D) Se ci fossero delle persone che mi aiuterebbero (se mi trovassi in difficoltà), sarei loro riconoscente a vita.
RISPOSTA:
Le frasi B e D sono effettivamente scorrette: il condizionale, infatti, non si giustifica in nessun modo, mentre il congiuntivo delle frasi A e C è attratto dal congiuntivo delle proposizioni reggenti. Anche in presenza di protasi al congiuntivo imperfetto, le proposizioni relative, che sarebbero le apodosi di questi (arzigogolati) periodi ipotetici, sarebbero costruite comunque al congiuntivo. Possibile, invece, l’indicativo, che abbassa leggermente la formalità delle frasi: Se ci fosse un libro che mi intrattiene; Se ci fossero delle persone che mi aiutano.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “in risposta alle sue richieste, Le daremo appuntamento per giovedì prossimo” è corretta la seguente analisi logica?
In risposta alle sue richieste = complem di fine+ attributo;
Le = c. di termine;
daremo = predicato verbale;
appuntamento = c. oggetto;
per giovedì prossimo = c. di tempo determinato + attributo.
RISPOSTA:
L’analisi ha un solo problema: il sintagma In risposta alle sue richieste non dovrebbe essere considerato insieme, ma dovrebbe essere diviso in In risposta e alle sue richieste. Di questi due, alle sue richieste è un complemento di termine, mentre In risposta può essere considerato un complemento di fine, se intendiamo il sintagma equivalente a al fine di rispondere, oppure – opzione per me più ragionevole – un complemento predicativo dell’oggetto (che è appuntamento) se lo consideriamo equivalente a in qualità di risposta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase “Dove è finito il nostro scrupolo e professionalità” è corretta? Ma se ci attenessimo alla regola che vuole il verbo ed eventuali parti variabili al plurale per il numero plurale (“Dove sono finiti i nostri scrupolo e professionalità”) sbaglieremmo?
RISPOSTA:
Per quanto affini l’uno all’altra, lo scrupolo e la professionalità non possono essere considerati un’unica entità, mentre gli esempi portati in questa risposta sì. A riprova di ciò, la frase formulata da lei (con l’accordo del verbo, dell’articolo e dell’aggettivo possessivo solamente con scrupolo) non è corretta, mentre lo sarebbero frasi come “Mezzogiorno e un quarto per me è tardi: vediamoci prima”, oppure “Questo pane e formaggio è buonissimo” (all’opposto, nessun parlante nativo direbbe *”Mezzogiorno e un quarto per me sono tardi: vediamoci prima”, oppure *”Questi pane e formaggio sono buonissimi”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Oltre 10.000 soldati avanzarono sul fronte”, oltre si può considerare complemento di quantità? Nella frase “Ti aspetto da meno di due ore”, da meno di è una locuzione prepositiva?
RISPOSTA:
In questa frase oltre si comporta come un avverbio che modifica l’aggettivo numerale 10.000; in analisi logica, pertanto, si analizza insieme all’aggettivo come attributo (in questo caso attributo del soggetto). Nella seconda frase la divisione in sintagmi non è corretta: ti aspetto regge il complemento di tempo continuato da meno, formato con l’aggettivo invariabile meno, che ha qui un valore neutro (significa, cioè, ‘una quantità minore’); tale aggettivo mette, quindi, la quantità indicata in relazione con un altro riferimento quantitativo, espresso dal complemento di paragone di due ore.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “un saluto da me”, da me è un complemento d’origine?
RISPOSTA:
Sì; indica che il saluto proviene da / si origina da qualcuno. A differenza del complemento di moto da luogo, esso non indica un movimento.
Raphael Merida
QUESITO:
A differenza di introduce un complemento di paragone?
RISPOSTA:
Sì, la locuzione preposizionale a differenza di risponde alla domanda “rispetto a chi o a che cosa?” e introduce un paragone fra due individui o due situazioni: “A differenza di Luca, io preferisco il mare”.
Raphael Merida
QUESITO:
Nella frase “Ho individuato la causa delle interruzioni nell’accesso a Internet”, il sintagma nell’accesso è un complemento di limitazione?
RISPOSTA:
La frase è ambigua: l’accesso potrebbe, infatti, essere la causa delle interruzioni (= ho scoperto che la causa delle interruzioni, per esempio del servizio, è un problema di accesso) oppure riferirsi alle interruzioni (= ho scoperto qual è la causa delle interruzioni nell’accesso). Nel primo caso nell’accesso sarebbe un complemento di stato in luogo figurato, perché la causa si trova nell’accesso; nel secondo potrebbe essere interpretato o, ancora, come complemento di stato in luogo, perché le interruzioni avvengono all’interno del processo di accesso, oppure come complemento di limitazione, perché le interruzioni sono relative all’accesso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In aperitivo per eccellenza il sintagma per eccellenza è un complemento di qualità?
RISPOSTA:
Sì; esso può, infatti, essere parafrasato con un aggettivo qualificativo, come straordinario, eccelso, impareggiabile o simili.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase “Mi servo di te”, di te a quale complemento appartiene?
RISPOSTA:
Nell’analisi logica è un complemento di specificazione; la funzione del sintagma, però, si coglie meglio con l’etichetta di oggetto obliquo, propria della grammatica valenziale. Dal momento che servirsi di si comporta come godere di, rimando a questa risposta per la spiegazione dell’etichetta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La domanda diretta nella frase «Renata domandò a Luca: “Vuoi venire a teatro con me sabato prossimo?”» può essere trasformata in indiretta in modi diversi:
«Renata domandò a Luca se voleva / avesse voluto / avrebbe voluto / volesse andare a teatro con lei il sabato seguente».
Qual è l’alternativa migliore?
RISPOSTA:
L’alternativa migliore è volesse: il congiuntivo imperfetto nella proposizione interrogativa indiretta (e nelle altre completive) descrive, infatti, un evento contemporaneo o successivo a quello della reggente quando quest’ultimo è passato. Del tutto adeguato anche il condizionale passato avrebbe voluto, che descrive un evento successivo a quello della reggente quando questo è passato, ed è preferito al congiuntivo imperfetto in contesti di media formalità. Possibile anche l’indicativo imperfetto voleva, equivalente in questo caso al congiuntivo imperfetto, ma decisamente meno formale. Il congiuntivo trapassato avesse voluto, a rigore, descrive l’evento come precedente a quello della reggente quando questo è passato; non è adatto, quindi, a descrivere il rapporto tra la domanda e il volere di Luca. In alternativa, il trapassato potrebbe descrivere il volere come precedente a un altro evento, qui non nominato (per esempio “Renata domandò a Luca se avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”); nella frase in questione, però, non sembra esserci questa intenzione. Alcuni parlanti userebbero, comunque, il congiuntivo trapassato in questa frase, probabilmente come conseguenza della confusione tra la proposizione interrogativa indiretta e la condizionale, nella quale il congiuntivo trapassato è associato all’irrealtà. Con questa forma, quindi, tali parlanti intenderebbero presentare la domanda come non tendenziosa, ovvero cortese, aperta a ogni risposta. Che il congiuntivo trapassato avrebbe qui la funzione impropria di rendere la domanda più cortese è provato dall’impossibilità di usarlo con la stessa funzione nelle altre completive. Si prenda, ad esempio, la frase “Renata immaginò che Luca _________________ andare a teatro con lei il sabato seguente”: le soluzioni possibili sono volesse, avrebbe voluto, voleva. Il congiuntivo trapassato avesse voluto è possibile soltanto con la funzione propria di collocare il volere in un momento precedente a un altro, qui non nominato (per esempio “Renata immaginò che Luca avesse voluto andare a teatro con lei il sabato seguente, prima di rompersi la gamba”).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulla concordanza dei seguenti verbi.
-
Se ciò non si verifica, i miei parenti sono tenuti a prendere provvedimenti / Se ciò non si dovesse verificare, i miei parenti saranno tenuti a prendere provvedimenti;
-
L’uso di questi dispositivi peggiorino (o peggiori) le capacità cognitive.
RISPOSTA:
Entrambe le versioni della prima frase sono corrette, ma occorrono alcune precisazioni. L’indicativo presente al posto del futuro (non si verifica e sono tenuti a prendere provvedimenti al posto di non si verificherà e saranno tenuti a prendere provvedimenti) abbassa il registro della frase, quindi si adatta a un contesto informale. La seconda opzione, cioè quella con il congiuntivo presente non si dovesse verificare, rappresenta la variante più formale.
Nella seconda frase la concordanza dev’essere al singolare, ma all’indicativo presente e non al congiuntivo, quindi: “L’uso di questi dispositivi peggiora le capacità cognitive”, dove peggiora si accorda con l’uso.
Raphael Merida
QUESITO:
Ho un dubbio sull’uso del congiuntivo e della parola come. Perché questa frase regge il congiuntivo?
“Mi aveva colpito come fosse riuscito a raccontare la storia”
mentre in questa non è necessario usarlo?
“Non si è preoccupato delle mie osservazioni quando gli ho detto che cosi, come mi aveva esposto la trama, temevo fosse poco spettacolare”?