QUESITO:
Se io dico “Siamo in 4 con mamma”, quest’ultima è inclusa nel 4?
RISPOSTA:
Sì, il con in questo caso indica che il numero viene raggiunto considerando anche la persona nominata. Se si volesse aggiungere una persona al numero si direbbe più, o anche oltre a.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho dei dubbi sulle frasi seguenti.
1a. È la prima volta che vedo questo film.
1b. È la prima volta che ho visto questo film.
1c. È stata la prima volta che ho visto questo film.
2a. Visto/viste tutte le poesie, abbiamo deciso che…
2b. Dato/dati i risultati, abbiamo deciso che…
RISPOSTA:
Nel primo gruppo di frasi la proposizione subordinata è di fatto una relativa (il che che la introduce è detto polivalente, ma la proposizione si comporta comunque come una relativa), quindi ha ampia libertà nella scelta del tempo verbale. La logica esclude la 1b, perché se la prima volta è presente anche la visione del film deve essere presente. Le altre due sono corrette. Nel secondo gruppo i participi passati concordano con i soggetti delle subordinate implicite (le poesie e i risultati): le proposizioni, infatti, sono equivalenti a “Essendo state viste tutte le poesie” e “Essendo stati dati tutti i risultati”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In rete si trovano liste di alcuni verbi che reggono l´indicativo e liste di altri che vogliono il congiuntivo. Come ci si deve comportare qualora il verbo che si vuole adoperare non rientrasse in queste liste? Per quale modo dobbiamo propendere? I verbi che reggono l´indicativo vogliono il congiuntivo in domande e frasi negative? Ad es.
Non sapevo che tu sapessi che io sapessi.
Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore (è una domanda indiretta?)
Deve dirmi quale sia la versione migliore.
Deve decidere chi abbia ragione.
Mi pare di aver capito che voglia venire
Mi pare di aver capito che non voglia venire.
RISPOSTA:
Le risposte dell’archivio di DICO che contengono la parola congiuntivo sono più di 320: da questo numero si capisce che la scelta del modo verbale nelle proposizioni subordinate completive (come quelle dei suoi esempi) è un problema aperto per i parlanti, nativi e, ovviamente, non nativi. Per orientare questa scelta possiamo dire che:
1. l’alternanza è possibile per quasi tutti i verbi. In questo caso il congiuntivo è la scelta più formale; l’indicativo quella più informale;
2. alcuni verbi richiedono l’indicativo: dire, sapere, scrivere, leggere, vedere, sentire (ma non è possibile fare una lista completa);
3. i verbi di pensare (pensare, ritenere, immaginare) preferiscono il congiuntivo. Con questi verbi, l’indicativo nella subordinata risulta una scelta trascurata;
4. le soggettive rette da verbi di sembrare (sembrare, apparire + aggettivo, parere) preferiscono decisamente il congiuntivo. Con questi verbi l’indicativo nella subordinata risulta una scelta molto trascurata;
5. quando il verbo è negativo o inserito in una espressione impersonale (quindi la subordinata è soggettiva) il congiuntivo è quasi sempre preferibile;
5a. alcuni verbi che richiedono l’indicativo, come dire e sapere, ammettono, come scelta più formale, il congiuntivo nel caso descritto al punto 5: “Non dico che Luca sia un ritardatario”; “Si dice che Luca sia un ritardatario”, “Non so se Luca è / sia un ritardatario”, “Si sa che Luca è / sia un ritardatario”;
5c. in generale, le soggettive ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive;
6. le interrogative indirette ammettono (e talvolta preferiscono) il congiuntivo più delle oggettive: “So che Luca è un ritardatario” / “Sai se Luca è / sia un ritardatario?”, “Deve dirmi quale sia la versione migliore”, “Deve decidere chi abbia ragione”;
7. le completive subordinate di secondo grado preferiscono il congiuntivo: “Non sapevo che tu sapessi che io sapessi“, “Scrivi che cosa farai per garantire che la sicurezza rimanga un valore” (la proposizione sottolineata è una oggettiva), “Mi pare di aver capito che voglia venire“, “Mi pare di aver capito che non voglia venire“.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Leggo su un libro di Grammatica la suddivisione che riporto: è possibile che sia un errore di battitura o qualcosa de genere?
Frase: “Dice / che le sente frullare / come se fossero uccellini in gabbia.”
Mi aspettavo anche la suddivisione di “… le sente / frullare…”
RISPOSTA:
Ha ragione: bisogna distinguere tra reggente e subordinata anche nei casi di infinitiva retta da un verbo di percezione (vedere, sentire ecc.). Probabilmente le peculiarità del costrutto avranno indotto l’errore. In effetti i verbi di percezione reggono un’infinitiva peculiare, sia perché è molto prossima a una relativa («sente loro che frullano»), sia perché il soggetto dell’infinitiva diventa oggetto della reggente (le).
Fabio Rossi
QUESITO:
Bisogna attenersi a quanto affermato dal “Sabatini”: «Se l’elemento negato è anteposto al verbo, questo rifiuta il non: neanche io so come fare»?
«Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» sono le uniche possibilità corrette? Tuttavia mi è capitato di leggere esempi contradditori con quanto appena affermato anche in La luna e i falò.
E se l’elemento di negazione è posposto al verbo: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più»?
RISPOSTA:
Sebbene l’italiano richieda, o ammetta, la doppia negazione in alcuni casi («non voglio niente»), la rifiuta in altri, precisamente quando un elemento (avverbio, congiunzione, aggettivo o pronome, a seconda dei casi) di negazione come neanche, neppure, nemmeno, niente, nessuno è anteposto al verbo. Come giustamente osserva Serianni nel cap. VII, par. 193, della sua Grammatica, «questa norma va oggi osservata scrupolosamente, almeno nello scritto formale. Tuttavia, nell’italiano dei secoli scorsi e anche in quello contemporaneo non mancano le deflessioni in un senso o nell’altro», dovute per esempio a forme regionali, di italiano popolare, di trascuratezza, di espressività. Tra le deflessioni, troviamo addirittura Manzoni: «Una di quelle donnette alle quali nessuno, quasi per necessità, non manca mai di dare il buongiorno». Deflessioni, tra i moltissimi altri, in Pavese: «Neanche tra loro non si conoscevano», «neanche qui non mi credevano». Cionondimeno, ciò non altera la norma dell’italiano. Pertanto, «Anche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» e «Neanche se dovessimo aspettare sarebbe un problema» vanno bene, mentre «Neanche se dovessimo aspettare non sarebbe un problema» va evitato. Quando l’elemento di negazione è posposto al verbo, la doppia negazione è ammessa: «Non sarebbe un problema neanche se dovessimo aspettare di più» va altrettanto bene quanto «Non sarebbe un problema anche se dovessimo aspettare di più».
Fabio Rossi
QUESITO:
I verbi procomplementari, essendo formati da particelle pronominali di valore intensivo, andrebbero usati soltanto in contesti colloquiali, oppure possono essere utilizzati in qualsiasi registro? Quanto è corretto scrivere: «stava per andarsene»? Tra l’altro sono frasi che si possono trovare ad apertura di libro.
Inoltre io distinguo perlomeno quattro tipi di frasi riflessive:
«Mi mangio la mela»: uso intensivo.
«Mi lavo le mani»: riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico.
Tolto l’uso intensivo e il riflessivo vero e proprio, gli altri due usi (riflessivo apparente e dativo etico) quanto sono accettabili? È corretto scrivere: «Non mi si chiedano spiegazioni»?
RISPOSTA:
Nei verbi pronominali, e nel sottogruppo dei verbi procomplementari, la particella pronominale (o più d’una), detta anche pronome atono o clitico, non svolge necessariamente un valore intensivo, ma svolge spesso un ruolo sintattico pieno di completamento della valenza del verbo, modificandone il significato. Per es. un conto è il verbo fare, un altro conto il verbo farcela, altro è sentire, altro è sentirsela, finire e finirla ecc. A volte, tra un verbo pronominale (o procomplementare) e un verbo non pronominale c’è quasi perfetta sinonimia, come accade per andare e andarsene, scordare e scordarsi, ricordare e ricordarsi, dimenticare e dimenticarsi ecc. In casi del genere, il verbo pronominale è perlopiù meno formale rispetto al verbo privo di pronome. Se, nel caso di andarsene, possiamo dunque dire (ma solo impropriamente) che i clitici siano d’uso intensivo, in altri casi, come sentirsela, o saperla lunga, o finirla, la funzione del clitico non è intensiva ma proprio strutturale e il cambiamento di significato, rispetto al verbo non pronominale, è sostanziale. I verbi procomplementari, come già detto, sono spesso usati nei registri colloquiali, ma non possono certo dirsi scorretti; inoltre, alcuni di essi possono addirittura essere d’uso molto formale, come ad es. volerne a qualcuno: «non me ne voglia». Nella maggior parte dei casi, pertanto, i verbi procomplementari possono essere usati in tutti i registri; in alcuni casi, invece, sono limitati agli usi informali: fregarsene, farsela addosso, infischiarsene ecc. Ma non è certo la presenza dei clitici a renderli informali: anche fregare è più informale di rubare. «Stava per andarsene» va benissimo in tutti gli usi. Il fatto che «stava per andare» sia lievemente più formale non scoraggia certo l’uso della forma pronominale. Come ripeto, stiamo comunque parlando di usi sempre corretti e ammissibili quasi sempre in ogni registro.
Eviterei, a scanso di equivoci, la dizione «uso intensivo», limitandola, se proprio deve, al solo dativo etico (del tipo «che mi combini?»), nel quale il pronome in effetti non ha valore strutturale ma solo di sfumatura semantica. Il dativo etico è d’ambito colloquiale ma è comunque corretto (anche Cicerone, come ricorderà, lo utilizzava nelle sue lettere).
«Non mi si chiedano spiegazioni» non è né un verbo procomplementare, né pronominale, né il clitico ha valore intensivo o etico. È un normalissimo complemento di termine con un verbo passivo con si passivante: «Non vengano chieste spiegazioni a me».
Per quanto riguarda le altre sottocategorie della macrocategoria dei verbi pronominali, osservo quanto segue.
«Mi mangio la mela»: verbo transitivo pronominale, d’uso colloquiale ma sempre corretto.
«Mi lavo le mani»: come sopra, detto anche riflessivo apparente.
«Mi vesto»: riflessivo
«Quel ragazzo mi si mette sempre nei guai»: dativo etico, d’uso perlopiù colloquiale ma sempre corretto.
Esistono poi anche altre categorie di verbi pronominali, come, per l’appunto, i verbi procomplementari, i verbi reciproci (salutarsi, baciarsi ecc.) e i verbi intransitivi pronominali (esserci, trovarsi, rompersi ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Fossato è un derivato di fosso? Maggiordomo può essere considerato un nome composto? Nomi come Patty o Dany sono nomi alterati?
RISPOSTA:
Tra fossato e fosso c’è un rapporto non di derivazione del primo dal secondo, ma di comune provenienza quasi dallo stesso verbo: fossato è un nome primitivo, che continua direttamente il latino FOSSATUM, a sua volta participio perfetto del verbo FOSSARE ‘scavare’ (variante intensiva del verbo FODERE ‘scavare’); fosso è un’evoluzione di fossa, a sua volta participio perfetto (al neutro plurale) proprio del verbo FODERE.
Anche maggiordomo, adattamento del latino MAIOR DOMUS ‘capo della casa’, è una parola primitiva. In generale, le parole formate per derivazione o composizione in altre lingue (prime tra tutte il latino e il francese) e successivamente entrate in italiano sono, dal punto di vista dell’italiano, primitive.
Il processo di alterazione può riguardare anche i nomi propri (Sergione, Annuccia, Giorgino…); in particolare, i nomi propri modificati con suffissi diminutivi o vezzeggiativi sono definiti ipocoristici. Gli esempi da lei portati, però, sono formati con procedimenti diversi dall’alterazione: il primo è a tutti gli effetti un nome proprio non alterato (non è possibile, infatti, risalire a una base; se fosse Patrizia l’esito sarebbe Patri o Patry), di origine inglese; il secondo è l’esito di un accorciamento (lo stesso processo che, per esempio, forma auto da automobile) da Daniele o Daniela. Si noti che l’accorciamento darebbe come risultato Dani: la forma Dany è influenzata in generale dal modello dei nomi inglesi, in cui una -i finale è sempre -y (e forse anche dal nome Danny, inglese come Patty).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Chiedo gentilmente delucidazioni su un dubbio che mi è sorto. Scrivendo la frase “Gran parte del merito è …”, dove ci sono i puntini va messo “la sua” o “il suo”?
Es.: “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è la sua” o “Se sono riusciti a fare questa cosa gran parte del merito è il suo”?
In pratica: “Il suo/la sua” segue “gran parte” o “merito”?
Nello specifico la frase precisa sarebbe: “Il tempo per lui sembra non passare mai: ennesima prestazione sontuosa; puntuale nelle chiusure, preciso negli interventi e provvidenziale in più di un’occasione: se i biancoverdi sono riusciti a limitare il passivo nella prima frazione gran parte del merito è la sua/il suo”
RISPOSTA:
La concordanza a rigor di grammatica, e dunque consigliabile in uno stile sorvegliato, è al femminile, dal momento che la testa del sintagma è femminile («gran parte»). Il maschile si configura come una cosiddetta concordanza a senso, molto comune nell’italiano colloquiale ma da evitare in quello scritto formale.
C’è però un’alternativa per usare il maschile, ovvero quella di anticipare «il merito». Basterebbe scrivere così: «il merito è in gran parte suo».
Sarebbe inoltre preferibile, in una prosa più agile ed elegante, eliminare l’articolo, nella frase da lei segnalata: «gran parte del merito è sua», considerando dunque sua (o suo) come aggettivo piuttosto che some pronome.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel verso della canzone “Dammi solo un’ora baby / e un po’ di coca-cola che mi graffi la gola”, la relativa è consecutivo-finale, ma se al posto del congiuntivo graffi usassimo l’indicativo graffia la semantica della frase cambierebbe?
RISPOSTA:
Nel verso la relativa con che e il congiuntivo ha un valore a metà strada tra il consecutivo e il finale; il modo migliore per trasformarla è tale che + congiuntivo. La trasformazione con tale che + indicativo non sarebbe equivalente; tale costruzione sarebbe, anzi, molto strana, perché il graffiare è qui rappresentato non come una qualità della Coca-Cola (come sarebbe in una frase come “La Coca-Cola contiene una tale quantità di anidride carbonica che graffia la gola”), ma come lo scopo per cui il parlante chiede la Coca-Cola.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase «Era bagnato fradicio e tutto coperto di neve», i due predicati, in analisi logica, sono verbali o nominali?
RISPOSTA:
Possono essere analizzati sia come predicati verbali, sia come predicati nominali, a seconda che si dia ai participi passati il valore verbale o aggettivale. Come spesso accade, l’interpretazione cambia a seconda dell’ottica dell’analista: non si tratta, cioè, di un’opposizione di sistema (cioè della grammatica italiana), bensì del punto di vista del linguista. La differenza tra predicato verbale e predicato nominale è meno netta di quanto comunemente si creda e dipende essenzialmente dal grado di autonomia semantica attribuito al verbo (debole, nel caso della copula nel predicato nominale) e all’aggettivo o sostantivo che lo accompagna. Nel caso specifico, bagnato e coperto possono essere interpretati come parte di un imperfetto passivo, oppure come aggettivi. Dato che non vi sono elementi dirimenti per attribuire un ruolo verbale a bagnare e coprire (per esempio la presenza di un complemento d’agente o di causa efficiente: «bagnato dalla pioggia», «coperto dalla neve»), mi pare più prudente l’interpretazione di bagnato e coperto come aggettivi, e dunque l’interpretazione di «era bagnato» e «era coperto» come predicati nominali. Completiamo l’analisi logica della frase: tutto è complemento predicativo del soggetto, mentre di neve è comunque un complemento argomentale (non importa se di specificazione, qualità, mezzo o altro), cioè un complemento che serve a completare il significato del participio (coperto) che altrimenti resterebbe incompleto. Si potrebbe dunque dedurre da ciò che «coperto di neve» sia analogo a «coperto dalla neve» e che dunque il predicato sia verbale; tuttavia il valore argomentale di «di neve» non è dirimente, ai fini del valore verbale piuttosto che aggettivale, dal momento che anche gli aggettivi possono esigere un complemento argomentale per essere completati, come nel caso di «essere pieno di neve», «essere adatto alle strade bagnate», «essere tifosa di una squadra» e simili. Pertanto, esattamente come «era fradicio» e «era pieno (di neve)» sono predicati nominali, analogamente «era bagnato (fradicio) e «era coperto (di neve)» sono predicati nominali, mentre «era sferzato dal vento», per esempio, sarebbe un predicato verbale, dal momento che, proprio come in «bagnato dalla pioggia» e «coperto dalla neve», i complementi di causa efficiente consentono la trasformazione della frase da passiva in attiva («il vento lo sferzava», «la pioggia lo bagnava», «la neve lo copriva»), requisito di un predicato verbale (ma non di un predicato nominale: gli aggettivi e i nomi, non essendo temporalizzati, non hanno diatesi attiva o passiva). Tornando però, circolarmente, all’inizio del mio ragionamento, anche quest’ultima analisi potrebbe essere contestata, dal momento che non tutti i verbi passivi reggono un complemento d’agente o di causa efficiente, né soltanto i verbi ammettono la reggenza di un argomento oltre al soggetto. Come si vede, in casi siffatti, più che la distinzione tra predicato verbale e nominale sembra contare il riconoscimento della predicazione e la struttura sintattica della frase, cioè il riconoscimento di tutti gli argomenti del verbo, dei sostantivi e degli aggettivi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Tutte e tre le varianti sono ammissibili?
“Il fatto non è dovuto a negligenza / a una negligenza / a una qualche negligenza” (da parte dell’imputato, ad esempio).
Nello specifico _a qualche_ e _a un qualche_ sono intercambiabili?
“Chiedilo a qualche medico / a un qualche medico”.
RISPOSTA:
Per quanto riguarda a negligenza / a una negligenza, la variante senza l’articolo è generica e non specifica, ovvero si riferisce alla classe designata dal sintagma nominale, mentre la variante con l’articolo indeterminativo è individuale non specifica, ovvero si riferisce a un esempio non specifico della classe designata dal sintagma. In altre parole, a negligenza rappresenta il referente come astratto e non collegato direttamente alla situazione descritta, a una negligenza lo rappresenta come un elemento qualsiasi integrato nella situazione. Come conseguenza pragmatica, a una negligenza veicola un’intenzione comunicativa di accusa, perché identifica una responsabilità circostanziale, mentre a negligenza rileva soltanto la circostanza, senza evidenziare alcuna responsabilità. Il terzo caso possibile in italiano, quello del referente individuale specifico, è costruito con l’articolo determinativo o un aggettivo dimostrativo; ad esempio: “La negligenza che hai dimostrato è grave”, oppure “Quella negligenza mi è costata cara”. Si noti che il nome negligenza è astratto quando è generico, concreto quando è individuale, perché passa a identificare un atto e le sue conseguenze.
La variante un qualche è ridondante rispetto al solo un; l’aggettivo indefinito non aggiunge alcuna informazione al sintagma costruito con l’articolo indeterminativo, per quanto sia ipotizzabile che sia inserito per aumentarne la non specificità, ovvero l’indeterminatezza. Inoltre, qualche rende automaticamente il sintagma logicamente plurale, anche se grammaticalmente è singolare (qualche dottore = ‘alcuni dottori’), quindi non è compatibile con l’articolo indeterminativo. Per questi motivi la sequenza un qualche è da evitare in contesti di formalità media e alta, specie se scritti; la ridondanza, e persino la forzatura grammaticale, invece, sono tollerabili nel parlato informale.
Va sottolineato che un qualche dottore non è equivalente a un dottore qualsiasi / qualunque (possibili, ma meno formali, anche le varianti un qualsiasi / qualunque dottore), che indica l’assenza di qualità particolari (o il fatto che l’individuazione di qualità particolari sia trascurabile). Ad esempio: “Chiedilo a un qualche medico” = ‘chiedilo a un medico’ / “Chiedilo a un medico qualsiasi” = ‘chiedilo a un medico a prescindere da chi esso sia’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase (1) “Possono candidarsi al concorso solo persone che abbiano compiuto i 18 anni di età”, la relativa è definita da alcune fonti condizionale-restrittiva. L’uso del congiuntivo in questo tipo di proposizione relativa è diafasico?
Mi domando se sia anche possibile considerarla una proposizione relativa impropria consecutiva? Volevo provare a modellare altre frasi di questo genere:
(2) Gli anziani che abitino nella zona 5 possono vaccinarsi domani.
(3) Le persone che abbiano paura dei vaccini possono parlare con il rappresentante regionale della sanità.
(4) Gli anziani che abbiano paura del covid dovrebbero vaccinarsi.
Non sono sicuro se le frase 3 e 4 funzionino con il congiuntivo e sembrano un po’ diverse dalla prima, ma non riesco a descrivere come mai.
RISPOSTA:
La proposizione relativa in 1 non è di tipo consecutivo; il congiuntivo al suo interno ha un valore diafasico, ovvero innalza lo stile rispetto all’indicativo. Se sostituiamo abbiano con hanno il significato complessivo non cambia. Bisogna, ovviamente, considerare che i parlanti associano al congiuntivo una sfumatura di eventualità; a ben vedere, però, persone che abbiano compiuto e persone che hanno compiuto descrive esattamente la stessa circostanza. Lo stesso vale per le proposizioni relative nelle altre frasi; queste frasi, però, risultano più forzate perché l’antecedente del relativo è determinato, quindi in contrasto con la sfumatura eventuale associata al congiuntivo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le proposizioni completive introdotte dalla locuzione “il fatto che” (ma anche da “la notizia che”, “la circostanza che”, “la teoria che” e simili) possano essere costruite tanto con il congiuntivo quanto con l’indicativo, riconducendo la scelta alle preferenze del parlante o al livello di formalità che lo stesso voglia ascrivere all’espressione.
Domando questo perché, effettuando alcune ricerche su internet – anche all’interno di siti attendibili –, mi sono imbattuto in una “indicazione d’uso” secondo la quale tale scelta debba invece essere legata non già alle motivazioni sopra segnalate, bensì al predicato della reggente.
Nel tempo, lo ammetto, non mi sono mai posto questo problema, e il predicato della reggente non mi ha mai condizionato circa il modo da impiegare per costruire la subordinata: ho sempre, e sottolineo sempre, optato per il congiuntivo; ma a questo punto mi chiedo se, talvolta, con questa tendenza possa aver sbagliato.
Negli esempi che mi sono permesso di raccogliere più sotto entrambi i modi sono ammissibili?
1) Il fatto che in Italia si legga/legge poco, è un dato allarmante che si conferma da anni.
2) Non ho dubbi sul fatto che tu ti sia/ti sei impegnato.
3) Il fatto che la squadra sia riuscita/è riuscita a vincere la gara, ci dimostra che l’allenatore sa fare il proprio lavoro.
4) Non le sfuggì il fatto che anche questa volta fosse stata/era stata la sorella a ingannarla.
5) Ho compreso il fatto che lui voglia/vuole più tempo per sé.
6) Il fatto che tu ti sia/ti sei preparato per il colloquio, ti dà maggiori probabilità di ottenere il posto.
RISPOSTA:
In tutti gli esempi da lei riportati entrambi i modi sono ammissibili e la differenza tra il congiuntivo e l’indicativo è solo diafasica, ovvero il congiuntivo è più formale, senza alcuna influenza del verbo reggente. Il verbo reggente può spiegare la preferenza per l’indicativo o il congiuntivo, ma in altre completive, non in quelle (dichiarative) da lei segnalate, anche perché le dichiarative dipendono da un sostantivo (fatto, notizia ecc.) non da un verbo. In altre subordinate, come per es. le oggettive, le soggettive e le interrogative indirette, il verbo reggente può determinare la preferenza per il congiuntivo (per es. spero, temo, mi auguro) oppure per l’indicativo (so, si sa). Frasi come «spero che tu vieni» o «so che oggi tu vada al cinema» sono al limite dell’inaccettabile, proprio a causa della violazione del modo atteso dal verbo reggente. A volte addirittura basta una negazione a far scattare la scelta di un modo diverso: «sapevo che eri uscito» / «non sapevo che fossi uscito»; «si sa chi è stato» / «non si sa chi sia stato».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se le due frasi sono entrambe corrette
1) pensa i sacrifici che ha fatto tuo padre
2) pensa ai sacrifici che ha fatto tuo padre
RISPOSTA:
Sì, le due frasi sono entrambe corrette, lievemente più formale la seconda. Il verbo pensare può essere usato sia come transitivo sia come intransitivo. Inoltre, la sintassi dei due periodi è differente, tanto da rendere più efficace la prima, della seconda frase, in determinati contesti, poiché focalizza «i sacrifici». «Che ha fatto tuo padre» è una proposizione relativa nel secondo caso; mentre nel primo caso può essere interpretato sia come una relativa, sia come una completiva con sollevamento dell’oggetto: Pensa che tuo padre ha fatto dei sacrifici. Per questo, benché meno formale, è comunque più efficace a sottolineare il valore di quei sacrifici.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sono reso conto che a livello molto colloquiale molte persone (anch’io faccio parte di questa cerchia) fanno uso di una strana dislocazione a sinistra di vari elementi grammaticali: soggetto, periodo ipotetico e complementi di ogni tipo.
Le pongo qualche esempio:
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti = se a me piace qualcuno, mi faccio avanti.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto= non so ciò che lui ha fatto.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse? = non so chi pensavi che lui fosse/ non so chi pensavi che fosse, lui?
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo = non so cosa lui vorrebbe che noi dicessimo/ non so cosa lui vorrebbe che dicessimo.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo = non so cosa lui vorrebbe che noi pensassimo/ non so cosa vorrebbe che pensassimo, lui, noi.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa= non penso che se fosse rimasta sarebbe cambiato qualcosa.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato= non so cosa sarebbe cambiato se fosse rimasta.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava = quando io / nel momento in cui io entravo, la gente non mi salutava.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo = penso/ sembra che questo sia ottimo.
In tutte queste frasi c’è una dislocazione a sinistra di qualche elemento, ad esempio:
Nella prima abbiamo la dislocazione di un complemento dipendente dalla protasi.
Nella seconda la dislocazione del soggetto della relativa.
Nella terza la dislocazione del soggetto di una oggettiva esplicita la quale è dipendente da una proposizione interrogativa.
Nella quarta c’è la dislocazione del soggetto della proposizione interrogativa.
Nella quinta c’è una doppia dislocazione, cioè degli elementi dislocati rispettivamente nella terza e nella quarta.
Nella sesta, per esempio, la protasi è contenuta nell’oggettiva ed è dipendente dalla stessa oggettiva (“che sarebbe cambiato qualcosa”) non dalla proposizione principale (“non penso”) eppure nonostante la protasi faccia parte dell’oggettiva viene occasionalmente dislocata a sinistra.
Nella settima abbiamo qualcosa di simile, ovvero la dislocazione della protasi dipendente da una proposizione interrogativa.
Possiamo parlare di dislocazioni grammaticalmente corrette oppure di colloquialismi impropri?
RISPOSTA:
L’italiano ammette molto spesso lo spostamento di un sintagma, o di una proposizione, rispetto alla sua posizione canonica in un ordine non marcato. Lo spostamento (che è una potente risorsa sintattica) è dovuto a esigenze informativo-pragmatiche, cioè per portare in prima posizione il tema dell’enunciato, cioè la parte su cui verte l’informazione. Talora questi spostamenti non hanno alcuna ricaduta sul registro, talaltra invece rendono l’enunciato meno formale, ma comunque corretto. Nessuno degli esempi da lei addotti è scorretto e soltanto alcuni rendono l’enunciato meno formale. Nessuno, inoltre, è configurabile come dislocazione tecnicamente intesa, ma soltanto come spostamento. In taluni casi, si parla anche di anacoluto o tema sospeso, in altri di sollevamento, ma, in buona sostanza, sempre di spostamento si tratta, ma non di dislocazione. Perché vi sia una dislocazione, oltre allo spostamento deve esservi anche una ripresa pronominale dell’elemento spostato, come in «il panino lo mangio», «che cosa vuoi non lo so» (dislocazioni a sinistra), oppure «lo mangio il panino», «non lo so che cosa vuoi» (dislocazioni a destra). Vediamo ora caso per caso.
- a) A me se piace qualcuno, mi faccio avanti: non è meno formale della versione senza spostamento.
- b) Non so lui ciò che ha fatto/ lui non so ciò che ha fatto: meno formali.
- c) Lui non so chi pensavi che fosse/ non so lui chi pensavi che fosse?: meno formali.
- d) Lui non so cosa vorrebbe che noi dicessimo/ non so lui cosa vorrebbe che noi dicessimo: lievemente meno formali.
- e) Lui noi non so cosa vorrebbe che pensassimo/ non so lui noi cosa vorrebbe che pensassimo: lievemente meno formali. In tutti i casi b-e, come vede, non soltanto la frase è perfettamente corretta, ma, in certi contesti, è anche migliore della frase non marcata, dal momento che valorizza il ruolo tematico di lui, che dunque può agevolare la coesione con quanto precede.
- f) Se fosse rimasta non penso che sarebbe cambiato qualcosa: non è meno formale della versione senza spostamento.
- g) Se fosse rimasta non so cosa sarebbe cambiato/ non so se fosse rimasta cosa sarebbe cambiato: non è meno formale della versione senza spostamento.
- h) Io quando/nel momento in cui entravo, la gente non mi salutava: tema sospeso o anacoluto, meno formale della frase non marcata.
- i) Questo penso/ sembra che sia ottimo: normalissimo caso di sollevamento del soggetto, non meno formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo un altro quesito.
- Cercò di riattivare una memoria/quella memoria che non gli venne in soccorso.
Domando se sia normale (e anche corretto), in questo caso, sostituire l’articolo determinativo “la” o con l’indeterminativo o con l’aggettivo dimostrativo. È evidente che la “memoria” sia sempre e soltanto una, non necessitando dunque di essere distinta da altre; mi sembra tuttavia che, nell’esempio segnalato, l’articolo indeterminativo o l’aggettivo dimostrativo si prestassero bene al legame con la proposizione successiva.
Il concetto si sarebbe potuto formulare, a mio avviso, anche mantenendo l’articolo determinativo e lavorando con la punteggiatura:
- Cercò di riattivare la memoria, che (però) non gli venne in soccorso.
- Cercò di riattivare la memoria. Che (però) non gli venne in soccorso.
Ma mi sento più incline verso le prime due soluzioni.
Nella speranza di aver espresso chiaramente il fulcro della questione, nonché le ragioni che mi hanno spinta a operare le scelte sopraindicate, vi ringrazio di nuovo per la vostra preziosa attenzione.
RISPOSTA:
Sia l’articolo (determinativo o indeterminativo) sia l’aggettivo dimostrativo svolgono la funzione di determinante, cioè servono a meglio circoscrivere il senso e l’ambito dei nomi che precedono, per es. specificando se indicano elementi generici, categorie astratte, elementi di un insieme, elementi già nominati o mai nominati prima, noti o ignoti all’interlocutore ecc. Con termini come memoria, che indicano elementi non numerabili, non è frequente l’articolo indeterminativo, se non in casi particolari («ha una memoria eccezionale»). Nella sua frase 1 quindi opterei per l’articolo determinativo la, preferibile anche rispetto a quella, perché il valore forico (cioè la memoria ripresa subito dopo tramite il pronome relativo che) è già reso dall’articolo determinativo. Non a caso, infatti, l’articolo determinativo italiano deriva proprio da un dimostrativo (latino): ILLAM (o, al maschile, ILLUM). Le alternative interpuntive proposte sono altrettanto corrette, ma non indispensabili, a meno che non si voglia sottolineare il fatto che (la memoria) non venga in soccorso. Del resto, come giustamente osserva lei, la memoria è sempre una, e dunque qui non ha senso la distinzione tra relativa limitativa (senza virgola) o esplicativa (con la virgola). Pertanto la presenza o no di un segno interpuntivo che distacchi la subordinata relativa dalla reggente è dovuta soltanto all’esigenza di conferire maggiore autonomia (e dunque rilievo semantico) al mancato soccorso della memoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia capitata ad altre persone.
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa sia potuta capitare ad altre persone.
- Il fatto che a me non sia capitata un’esperienza del genere non esclude che essa possa essere capitata ad altre persone.
In una costruzione come questa il verbo servile “potere” serve per modificare leggermente il senso del messaggio (varianti 2 e 3), oppure la frase può essere privata di tale verbo (esempio 1) senza comportare sostanziali differenze semantiche?
- Non mi ricordo neppure quale fosse il suo nome, e questa la dice lunga su quanto (poco) mi importasse di lui.
L’avverbio “poco”, in questo caso, costituisce un elemento ridondante?
RISPOSTA:
In entrambi i casi gli elementi sono ridondanti, a rigore, in quanto ricavabili dal contesto. Non è però scorretto specificarli, se si vuole sottolineare un aspetto particolare. Dato che personalmente opto sempre per una sintassi e una semantica ergonomiche, suggerirei di eliminare entrambi gli elementi.
In tutte le prime tre frasi, la stessa reggente «non esclude che» implica che il capitare o no di una certa esperienza sia una possibilità, non una certezza, e questo rende pleonastico il servile potere. Suggerirei di evitarlo per non appesantire ulteriormente la sintassi frasale.
Nella quarta frase il disinteresse del soggetto è talmente evidente («Non mi ricordo» ecc.) da rendere inutile «poco». Anche in questo caso ne suggerirei l’eliminazione.
Fabio Rossi
QUESITO:
Salve quale affermazione è corretta?
Grazie per esserci stata vicinO
Grazie per esserci stata vicinA
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, perché vicino ha due diversi valori in italiano: come aggettivo o come avverbio. Come aggettivo richiede l’accordo di genere e di numero («stati vicini», «state vicine») con il nome o il pronome cui si riferisce, come avverbio è invece invariabile. Pertanto in «Grazie per esserci stata vicina», vicino è un aggettivo e come tale va accordato con il soggetto (sottinteso) cui si riferisce (cioè tu). In «Grazie per esserci stata vicino» invece vicino è un avverbio e come tale non cambia né nel genere né nel numero («stati vicino», «state vicino»). Come avverbio vicino è simile a «accanto».
Il significato delle due frasi non cambia nella sostanza, anche se il valore aggettivale è meno impersonale e dunque, in certo qual modo, più caloroso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre visto come corrette delle frasi come «sarebbe impossibile / difficile che tu ce la faresti» o «sarebbe stato impossibile / difficile che tu ce l’avresti fatta».
In particolare la prima venne posta come quesito sul Treccani e tale frase venne giudicata scorretta: https://eur01.safelinks.protection.outlook.com/?url=https%3A%2F%2Ft.ly%2FcAH1&data=05%7C01%7Cdico%40unimeit.onmicrosoft.com%7C6e16b9f793c349bff4b108db1c545e1f%7C84679d4583464e238c84a7304edba77f%7C0%7C0%7C638134920903056748%7CUnknown%7CTWFpbGZsb3d8eyJWIjoiMC4wLjAwMDAiLCJQIjoiV2luMzIiLCJBTiI6Ik1haWwiLCJXVCI6Mn0%3D%7C3000%7C%7C%7C&sdata=ksgYbWZ1G3CzalQb%2FG%2BomQ7%2Fa%2BcHdSo%2Fl88W%2F%2BRGhhU%3D&reserved=0.
Sinceramente, pensandoci e ripensandoci, non ne capisco il motivo, perché:
-Penso che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Penserei che lui non ce la farebbe (protasi implicita nell’oggettiva).
-Pensavo che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
-Avrei pensato che lui non ce l’avrebbe fatta (protasi implicita nell’oggettiva).
Per lo stesso motivo riterrei corrette anche:
-È impossibile / difficile che tu ce la faresti (protasi implicita nella soggettiva).
-Era impossibile / difficile che tu ce la avresti fatta (protasi implicita nella soggettiva).
Seguendo la stessa logica, anche le due frasi iniziali mi sembrano corrette.
Lei cosa ne pensa?
RISPOSTA:
Come giustamente spiegato nella risposta del sito Treccani, la protasi implicita («se ci provassi» o «se ci avessi provato») è dipendente dall’apodosi «sarebbe (stato) impossibile / difficile», non certo da «che tu ce la facessi», che dipende, come completiva soggettiva, dall’apodosi stessa. Quindi la frase da lei proposta, al condizionale, è sbagliata, poiché in dipendenza da «è difficile / impossibile» le uniche alternative possibili sono il congiuntivo o, informalmente, l’indicativo: «sarebbe (stato) impossibile / difficile che tu ce la facevi».
In tutti gli altri casi, in cui la completiva è oggettiva e non soggettiva, la protasi sottintesa («se ci provasse / avesse provato») dipende dall’oggettiva stessa, e non dalla proposizione da cui l’oggettiva dipende («penso» ecc.), ecco perché, in questi ultimi casi, il condizionale è ammesso, mentre nei casi da lei proposti no, perché, come ripeto, l’apodosi non è rappresentata dalla soggettiva bensì dal verbo da cui la soggettiva dipende, cioè «sarebbe impossibile / difficile», che infatti è regolarmente al condizionale. Il suo errore è pertanto duplice: 1) nel credere che l’apodosi sia costituita dalla soggettiva (anziché dalla proposizione che regge la soggettiva) e 2) nell’estendere indebitamente il condizionale (già esistente) nell’apodosi alla completiva che ne dipende.
Dunque il condizionale in dipendenza da una soggettiva è sempre impossibile? No, è raro, ma non impossibile. Per es. in dipendenza da verbi che indicano certezza o conoscenza: «È certo / noto che tu potresti farcela», perché in questo caso, effettivamente, la protasi sottintesa dipende dalla completiva: «se ci provassi [è certo che] ce la faresti / potresti farcela». Perché? La risposta, non semplicissima, risiede nel differente statuto semantico-strutturale di verbi impersonali come è noto, è sicuro ecc. rispetto a verbi (con un diverso grado di impersonalità) quali è difficile e simili. Infatti posso trasformare in personale «è noto» con «qualcuno sa» (trasformando dunque la soggettiva in oggettiva), mentre l’unico soggetto possibile di «è difficile» è la stessa cosa che è difficile. Tant’è vero che «è difficile» (e simili) ammette una dipendente implicita («È difficile riuscirci»), mentre «è noto» (e simili) no (*«È noto riuscirci» è inammissibile in italiano).
Fabio Rossi
QUESITO:
Trattandosi di una interrogativa indiretta, la correttezza circa gli usi del condizionale e dell’indicativo è fuori discussione: «Vorrei sapere se sarebbe […]».
Il congiuntivo imperfetto è possibile soltanto nel caso in cui si voglia riferirsi al passato, e non esprime quindi contemporaneità: «Vorrei sapere se fosse – tempo addietro, anni prima – […]». Mentre il congiuntivo presente attenua il tono diretto della richiesta espressa tramite l’indicativo.
Ma, se sapere non regge il congiuntivo, come fanno questi ultimi modi a essere leciti?
RISPOSTA:
L’interrogativa indiretta implica comunque una non certezza (cioè una modalità epistemica), che autorizza quindi sempre il congiuntivo. Anzi, le grammatiche più tradizionaliste suggeriscono di utilizzare sempre il congiuntivo in tutte le interrogative indirette. Ecco spiegato come mai sapere, che pure di solito regge l’indicativo, nelle interrogative indirette possa reggere (o regga preferibilmente) il congiuntivo. Come al solito, inoltre, il congiuntivo ha comunque un grado di formalità superiore rispetto all’indicativo. Inoltre, non è vero che il congiuntivo imperfetto si possa usare soltanto al passato (o meglio, per la contemporaneità nel passato), perché, nel caso del verbo volere, come spiegato più volte da Luca Serianni e anche nelle nostre risposte di DICO, l’imperfetto congiuntivo è preferibile per via del fatto che l’oggetto del volere subisce una sorta di proiezione al passato (tanto lo vorrei che lo considero già come avvenuto). Tant’è vero che si dice, come nella traduzione italiana del capolavoro dei Pink Floyd, «Vorrei che tu fossi qui» e non «Vorrei che tu sia qui». È vero che ciò accade perlopiù quando volere è usato come verbo autonomo, e non come servile. Tuttavia anche come servile il congiuntivo imperfetto è ammissibile, se non preferibile, con volere. Come opportunamente osserva lei, inoltre, il congiuntivo (e spesso ancor più il congiuntivo imperfetto, con una carica di potenzialità maggiore rispetto al presente, dovuta all’uso nel periodo ipotetico della possibilità) attenua il tono diretto della richiesta, rispetto all’indicativo. Quindi: «Vorrei sapere se fosse disposto ad aiutarmi» oppure «se sia disposto ad aiutarmi», oppure «se sarebbe disposto ad aiutarmi», oppure (più informalmente e un po’ troppo direttamente) «se è disposto ad aiutarmi» o «se era disposto ad aiutarmi». Come vede in quest’ultimo caso, informale, comunque l’imperfetto (sebbene stavolta all’indicativo) serve ad attenuare l’azione proiettandola nel passato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre due quesiti che mi attanagliano:
«È/è stata la cosa migliore che avremmo/avessimo potuto fare»?
«Mi sembra tutto/tutta una follia»
Credo siano tutte forme corrette, ma vorrei capire nello specifico che cosa cambi.
RISPOSTA:
Sì, in entrambi i casi entrambe le varianti sono corrette, senza alcun cambiamento semantico rilevante.
Nella prima variante della prima frase, la prospettiva è quella di considerare la cosa da fare come un futuro nel passato: io adesso racconto che nel passato avremmo potuto fare una cosa (cioè nel futuro rispetto al passato, ma comunque nel passato rispetto a ora) che effettivamente poi abbiamo fatto (nel passato). Nel secondo caso, invece, prevale il punto di vista di considerare la cosa come semplicemente passata. Esiste inoltre una terza possibilità, cioè quella dell’imperfetto congiuntivo: «È/è stata la cosa migliore che potessimo fare». Quest’ultima variante, che indica contemporaneità (e/o possibilità) nel passato, funziona meglio con la reggenza al passato («È stata la cosa»), tuttavia funziona anche in dipendenza dal presente («È la cosa»), in quanto rimane tuttora, a ripensarci, la cosa migliore (che potessimo/avremmo potuto/avessimo potuto fare). Tra tutte le soluzioni, quella che mi pare più naturale è «È [perché lo è tuttora] la cosa migliore che potessimo fare», oppure, in modo ancora più semplice e chiaro (e dunque sempre preferibile: perché complicare e complicarci la vita?), «Abbiamo fatto la cosa migliore».
Nella seconda frase, l’accordo può avere come testa sia il soggetto ([Ciò] mi sembra tutto una follia»), sia il predicativo del soggetto («una follia»). Nel primo caso, inoltre, si può anche sostenere che «tutto» sia un soggetto posposto e comunque il significato della frase non cambierebbe.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nell’espressione «di tanto in tanto lo sguardo dell’uno sfiora la mano dell’altra, e viceversa» è necessario aggiungere quel «viceversa» per indicare reciprocità dell’azione, o si può omettere?
RISPOSTA:
Si può omettere nella gran parte dei casi; in questo, in realtà, anche aggiungendo «e viceversa» permane qualche margine di ambiguità. Procediamo con ordine. In presenza di verbi reciproci (come incontrarsi, salutarsi, toccarsi, sfiorarsi ecc.) sono superflui «sia l’un l’altro/a» (locuzione che indica reciprocità) sia «e viceversa». Nel caso da lei segnalato, tuttavia, neppure la presenza di «e viceversa» consente di capire se l’altra ricambia guardando la mano dell’uno, oppure offrendo la mano allo sguardo dell’uno. Inoltre, l’espressione «lo sguardo sfiora la mano» è davvero molto insolita: lo sguardo di norma non sfiora, semmai si posa, scruta, passa ecc. Se tuttavia le piace questa metafora (che io personalmente trovo infelice, ma è questione di gusti) allora forse dovrebbe chiarire il senso della reciprocità: la donna, insomma, guarda a sua volta la mano dell’uomo (non vedo altro senso possibile nella metafora ‘sfiorare qualcosa con lo sguardo’), oppure «sfiora con la mano lo sguardo dell’uomo» (cioè, sempre metaforicamente, fa sì che la mano si offra allo sguardo sfiorante dell’uomo)?
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel caso seguente, cos’è più corretto?
«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante»
oppure
«La ZIPPO è un tipo di sedia completamente nuovo, nato da un esperimento interessante».
Ossia, la concordanza dell’aggettivo va fatta con “un tipo” o con “sedia”?
RISPOSTA:
La concordanza corretta è soltanto quella al maschile, con «un tipo», che è la testa del sintagma «un tipo di sedia». Se vuole la concordanza al femminile non deve usare «un tipo di sedia» ma «una sedia»: «La ZIPPO è una sedia completamente nuova, nata da un esperimento interessante».
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi hanno sempre insegnato che la congiunzione “semmai“, quando ha valore condizionale, regge il congiuntivo e, talvolta, l’indicativo futuro.
Mi sono recentemente trovato a scrivere, di getto, il periodo seguente:
“Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?“
Magari è un mio limite, ma incontrerei molta resistenza nel sostituire quel trapassato prossimo con il trapassato del congiuntivo (fosse stato).
La grammatica che cosa dice in proposito?
Vi domando inoltre se questa congiunzione ammette tutti i verbi del congiuntivo – quindi anche il presente e il passato –, se il futuro semplice possa essere considerato una variante meno formale – ma ugualmente corretta – del congiuntivo presente e se, infine, il futuro anteriore, al di là della “regola“ cui accennavo più sopra, possa essere incluso nei verbi compatibili, quale alternativa al congiuntivo passato.
Elenco alcuni esempi per illustrare la mia richiesta multipla:
1) Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità.
2) Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia.
3) Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno.
4) Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza.
RISPOSTA:
Semmai è un connettivo ipotetico o condizionale (usato anche, qualche volta, come avverbio o per meglio dire segnale discorsivo, col significato di ‘eventualmente’, ‘caso mai’: «Semmai non preoccuparti, ci vedremo un’altra volta») che regge perlopiù il congiuntivo e che si comporta sostanzialmente come la congiunzione ipotetica da cui deriva, cioè se. Come osservato da grammatiche (per es. quella di Serianni) e dizionari (per es. il Sabatini-Coletti nel sito del Corriere della sera), può reggere anche l’indicativo (soprattutto futuro), che rappresenta la scelta meno formale ma comunque sempre corretta.
La sua frase («Dove erano andati a finire il suo autocontrollo – semmai c’era stato – e la sua ironia?») va benissimo all’indicativo, e condivido la sua resistenza a volgerla al congiuntivo trapassato, decisamente troppo ricercato e anche meno adatto alla sintassi meno legata e più colloquiale dell’inciso nel quale semmai si trova.
L’uso dei tempi nei verbi retti da semmai dipende dalla consecutio temporum esattamente come se, pertanto sia il presente sia il passato congiuntivo, sia il futuro, vanno bene. Sicuramente l’imperfetto e il trapassato congiuntivo sono i più frequenti, in virtù della loro frequenza nei costrutti che esprimono eventualità: «Semmai avessi tempo potresti passare a trovarmi», «semmai ti fossi ricordato ti passare sarei stato molto contento» ecc. (ma si veda comunque sotto sulla preferibilità accordata a costrutti più semplici e retti da se piuttosto che da semmai).
Il futuro semplice è dunque corretto (ancorché meno formale del congiuntivo), e in determinati contesti anche il futuro anteriore (per indicare anteriorità nel futuro), che però risulta sempre un po’ innaturale, motivo per cui spesso si preferisce il presente (indicativo o congiuntivo) o addirittura il passato prossimo, con proiezione del punto di vista al passato: «Semmai avrai preso un bel voto, ti porterò a Londra», che nella lingua spontanea sarebbe «Semmai prendi un bel voto ti porto a Londra» o «Se/Semmai hai preso un bel voto ti porto/porterò a Londra».
Per quanto riguarda gli altri esempi da lei proposti:
1) «Chiamami, semmai ce ne sia/sarà la possibilità»: entrambi corretti, con una terza possibilità: «… semmai ce ne fosse…», o, ancor più naturale: «Chiamami, se possibile» o «Chiamami se puoi» (quest’ultima è la scelta migliore, più semplice e comune in un italiano sciolto, snello e comprensibile).
2) «Puoi ascoltare la musica, semmai tu ne abbia/avrai voglia». Come sopra. In italiano comune: «Puoi ascoltare la musica, se ti va».
3) «Verrò a prenderti, semmai ce ne sia/sarà bisogno». Come sopra. In italiano comune: «Ti vengo a prendere, se serve».
4) «Parteciperà alla festa, semmai abbia avuto/avrà avuto lo slancio giusto per uscire dalla sua stanza». In base a quanto già detto, vanno bene entrambe le forme, ma quella al futuro anteriore è abbastanza forzata. La scelta più naturale sarebbe al presente indicativo: «… se/semmai ha lo slancio…».
Tendenzialmente, se è quasi sempre preferibile a semmai, sempre nell’ottica di un italiano fluido e snello. Perché ricorrere a semmai se nella lingua comune (e anche in quella formale) se è molto più comune? Tutti gli esempi da lei fomiti funzionerebbero molto meglio con se. La semplicità nei costrutti è quasi sempre da preferirsi, e non soltanto nell’italiano parlato e familiare. A maggior ragione negli esempi da lei forniti, che si muovono tutti nell’ambito comunicativo della quotidianità: un conto è la (sublime) sintassi arrovellata di Marcel Proust per scandagliare i meandri interiori e sociali, un altro conto è l’inutile complicazione di situazioni normalissime come l’incontrarsi, l’ascoltare musica, il dare un passaggio a qualcuno e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando si dice “fammi sapere come è andata, come va, come andrà”, quel presente “fammi” è corretto? Tecnicamente l’unico modo corretto non dovrebbe essere “mi farai sapere come andrà”? Un po’ come dire: “Domani vado a correre”. “Andrò”, non “vado”.
RISPOSTA:
Fammi non è presente indicativo, bensì imperativo presente e come tale è la forma migliore per formulare una richiesta. Se si vuole rendere la richiesta meno perentoria e più mitigata si possono utilizzare molte forme alternative, una delle quali è il futuro, oppure una perifrasi di questo tipo: «Ti sarei grato se mi facessi sapere come va», «Ti dispiacerebbe farmi sapere come andrà?» e simili.
Tutt’altro discorso è quello del presente indicativo in luogo del futuro, anch’esso perfettamente corretto e da sempre previsto in italiano, in casi come «Domani vado a correre», in luogo di un più formale «Domani andrò a correre», nel quale peraltro il futuro è addirittura ridondante, dal momento che l’avverbio di tempo già colloca inequivocabilmente nel tempo l’evento. Tant’è vero che gran parte delle lingue del mondo non ha il futuro, o lo forma in modo perifrastico (come l’inglese). Anche in italiano, infatti, il futuro è in netto regresso, quasi sempre sostituito dal presente. Per inciso, anche l’origine del futuro in italiano è perifrastica: amare habeo (cioè ‘ho da amare’, ‘devo amare’) > amerò.
In «[Fammi sapere] come è andata / come va / come andrà» tutte e tre le alternative sono corrette, con un crescendo di formalità dal presente (che è la soluzione più informale) al futuro (più formale). Benché apparentemente controintuitivo e controfattuale, anche il passato va bene, perché il locutore, mettendosi nei panni di chi gli darà informazioni quando l’evento sarà già concluso (dicendogli: «è andata bene/male»), lo proietta direttamente nel passato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporre alla sua attenzione un quesito su quella che forse si potrebbe definire una sostantivizzazione del participio.
1) I morti per covid = la gente che è morta a causa del covid.
2) I Laureatisi in economia = le persone che si sono laureate in economia.
(Verbo intransitivo/participio passato verbale)
3)Gli Infettati da covid = la gente che è stata infettata dal covid.
4)I preoccupati da questa situazione = la gente che viene preoccupata dalla situazione
(Verbo passivo/participio passato verbale)
5)Gli amanti la musica = le persone amanti la musica.
6)I partecipanti al convegno = le persone partecipanti al convegno.
7)Gli aventi diritto = Le persone aventi diritto.
(Participio presente verbale)
8)I laureati in economia = Le persone che sono laureate in economia
9)I preoccupati per questa situazione = le persone che sono preoccupate per questa situazione
(Participio passato con funzione aggettivale)
10)I partecipanti al convegno = Le persone che sono partecipanti al convegno
(Participio presente con funzione aggettivale)
11)Gli infetti da covid = la gente che è infetta da covid.
12)Gli esperti di musica = Le persone che sono esperte di musica.
13) I pieni di rabbia = la gente che è piena di rabbia.
(Aggettivo)
Non penso che tutti i casi in questione siano sostantivi veri e propri, ma che il sostantivo sia racchiuso all’interno di participi passati verbali, participi presenti verbali, participi passati aggettivali, participi presenti aggettivali e aggettivi.
Penso si tratti di sostantivizzazione, altrimenti, basandoci sulla prima frase, avremmo, per esempio:
“Siete dei morti per il covid”, che sarebbe una frase con tutt’altro senso, in quanto il participio passato “morto” in questa specifica frase è un sostantivo “puro” , ma nell’uso che si fa nella frase “1” non corrisponde alle funzioni che ha come sostantivo puro, ma a quelle del verbo.
In poche parole, nella prima frase dell’elenco mantiene il proprio valore verbale (intransitivo) originario, cioè di di participio passato verbale di forma intransitiva.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda il participio presente “amante”.
Per esempio:
Può essere un sostantivo puro = “gli amanti della musica”.
Può essere un participio presente usato come aggettivo, cioè un participio presente con funzione aggettivale = “le persone che sono amanti della musica”.
Può essere, come nella frase in questione (5), usato come participio presente verbale, o meglio, ne ha tali funzioni nella quinta frase = “le persone amanti la musica”.
Lei cosa ne pensa? Ritiene la mia analisi giusta o sono letteralmente fuori strada?
RISPOSTA:
Il participio (presente e passato) si chiama così, fin dal latino, proprio perché ha una natura duplice, sia verbale, sia aggettivale-nominale, come dimostra tra l’altro la lessicalizzazione piena di alcune parole, divenute sostantivi a tutti gli effetti: amante, i morti ecc., oppure di partici latini divenuti sostantivi italiani: studente, docente, presidente ecc. Dunque «I morti per Covid» è un caso di participio sostantivato (ma comprendo la sua osservazione al riguardo, sulla quale tornerò alla fine della risposta). «I laureatisi in economia» non è corretto, perché l’uso sostantivato sarebbe «I laureati in economia», mentre laureatisi, con la particella pronominale del verbo laurearsi, rende il participio verbale: «le persone laureatesi in economia» va invece bene, ancorché pesante; anche in questo caso sarebbe meglio «le persone laureate in economia».
«Gli Infettati da Covid» può essere considerato sia d’uso nominale (perché ha l’articolo) sia verbale (perché ha il complemento di causa efficiente).
«I preoccupati da questa situazione»: come sopra, sebbene nessuno in un italiano comune e fluido userebbe mai un’espressione così innaturale. Sarebbe molto meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli amanti la musica»: come sopra, sia nominale (per l’articolo), sia verbale (per il complemento oggetto). Ma sarebbe preferibile l’uso pienamente nominale: «Gli amanti della musica».
«I partecipanti al convegno»: uso nominale.
«Gli aventi diritto»: sia nominale sia verbale.
«I laureati in economia»: nominale.
«I preoccupati per questa situazione»: nominale, ma, come detto sopra, meglio «le persone preoccupate per questa situazione».
«Gli infetti da Covid»: infetto in italiano non è participio passato, dunque l’uso è ovviamente nominale.
«Gli esperti di musica»: nominale, perché il participio passato di esperire è esperito, non esperto.
«I pieni di rabbia»: nominale, pieno non è participio. Ovviamente, se in tutti questi casi si premette «le persone», quanto segue passa dal valore nominale a quello aggettivale.
Il suo ragionamento, ancorché un po’ farraginoso, è in gran parte giusto. Per riassumere: dato che in molti casi il participio continua a reggere un complemento (ovvero un argomento, cioè un completamento) del verbo (come «I morti per Covid», «Gli infettati dal Covid» ecc.), allora, anche se è preceduto dall’articolo, esso non perde del tutto la sua componente verbale. Il ragionamento è sensato, però deve tener presente che in italiano anche aggettivi e nomi possono reggere argomenti, come per es. pieno, disponibile, voglia, paura ecc.: «la piena di grazia», «i disponibili all’incontro», «ho voglia di vacanza», «paura di morire» ecc. Come vede, il confine tra nome (o aggettivo) e verbo è, a ben guardare, meno rigido di quanto si creda, non soltanto nel caso del participio (presente e passato). Pertanto, in conclusione, la reggenza di complementi come «per Covid», «da Covid», «la musica» ecc. non giustifica il fatto che i participi reggenti quei complementi siano soltanto verbali, ma, quantomeno, che siano sia nominali (o aggettivali) sia verbali.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei proporvi queste tre parole: pleonastico, ridondante e tautologico. A mio parere si tratta di sinonimi che significano ‘eccessivo’, ‘superfluo’.
Questi termini hanno a che fare con un aspetto quantitativo, cioè con la ripetizione dello stesso concetto facendo ricorso a parole diverse (es. bella, attraente e fisicamente perfetta) e non qualitativo (es. uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate). Inoltre ritengo che i termini pleonastico e ridondante si riferiscano soltanto ad un discorso, mentre il vocabolo tautologico si possa attribuire tanto ad un discorso quanto ad un parlante. Ovviamente non sono sicuro di ciò ed è per questo motivo che mi sarebbe gradita la vostra opinione a riguardo.
RISPOSTA:
Tra le tre parole non vi è un rapporto di sinonimia assoluta (del resto rarissima), bensì di quasi sinonimia. Tautologico si riferisce perlopiù all’uso di termini che non aggiungono nulla in più rispetto a quanto già espresso dal significato di altri termini, per es. «il cantante canta». Tautologico non si riferisce, di norma, a una persona, ma soltanto a un uso linguistico, a un testo, e perlopiù a una definizione o simili (concetto, ragionamento ecc.).
Pleonastico si usa perlopiù in riferimento a pronomi o costrutti ridondanti, in quanto rimandano allo stesso referente già designato da un altro sintagma, per es. «il mare lo vedo» (dove lo si riferisce a il mare). In questo senso, pleonastico e ridondante, nella lingua comune, possono essere usati come sinonimi, sebbene ridondante abbia un campo semantico più ampio, mentre pleonastico sia più specifico. Ridondante, di tutti e tre gli aggettivi, è quello che più si presta a un uso più generale, e dunque si può riferire anche, genericamente, a un discorso eccessivamente carico e ampolloso: «testo ridondante di tecnicismi», «discorso ridondante di complimenti» (in nessuno dei due casi ridonante può essere sostituito da pleonastico o da tautologico), «stile o prosa ridondante» ecc. In questo senso, dunque, ridondante è l’unico dei tre aggettivi a potersi riferire anche, qualitativamente, all’uso di parole ampollose, eccessivamente ricercate.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la seguente costruzione possa essere giudicata corretta (in particolare l’attacco, per così dire, della coordinata, con il pronome relativo che si riallaccia alla proposizione precedente).
«Spero che la poesia sia icastica e che le cui metafore traggano origine dal mondo della natura».
RISPOSTA:
No, la frase non è corretta, in quanto il pronome relativo, che introduce una subordinata relativa, risulta qui privo di verbo; il verbo in questione, traggano, è infatti in questo caso il verbo della subordinata completiva (che traggano) e non della relativa, che rimane dunque appesa, cioè senza un verbo. Quindi la versione corretta della sua frase è «Spero che la poesia sia icastica e che le sue metafore traggano origine dal mondo della natura». L’unico modo per inserire una relativa in dipendenza da un’altra subordinata è quello di far sì che entrambe le subordinate abbiano un verbo. Per esempio: «Apprezzo che tu abbia scritto una poesia icastica, le cui metafore traggono origine dal mondo della natura».
Fabio Rossi
QUESITO:
Ci sono dei casi in cui è possibile usare sia l´imperfetto che il passato prossimo? Ad esempio, come si comportano questi tempi verbali nelle frasi sottostanti? Grazie.
Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte.
Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati.
Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato.
Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato.
Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva.
Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto.
Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici.
Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava.
Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore.
Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare.
Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica , da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola.
Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo.
RISPOSTA:
La differenza di massima tra imperfetto e passato prossimo è nell’aspetto, ovvero nel modo in cui l’azione e il tempo vengono espressi dal verbo. In questo senso, mentre il passato (prossimo o remoto) indica soltanto che l’evento si è concluso (sebbene le sue conseguenze possano essere ancora presenti e determinanti: ho capito, ho ricordato, ho imparato ecc.), l’imperfetto invece qualifica l’azione come in continuo svolgimento o abituale, sia pur sempre nel passato. L’imperfetto, inoltre, può assumere anche molte sfumature modali (indicando, dunque, l’atteggiamento del parlante/scrivente su quanto sta dicendo/scrivendo), che lo rendono una delle forme verbali più usate in italiano e tale da sostituirsi spesso anche ad altre, come per es. al congiuntivo: «Se mi aiutavi facevamo prima» (equivalente, ma più informale, a «Se mi avessi aiutato avremmo fatto prima»). Fin quei la regola e la giustificazione del fatto che l’imperfetto sia molto diffuso, anche al posto di altre forme verbali. Nell’uso, poi, le cose sono sempre più sfumate, rispetto alle regole rigide. Ecco perché, in molte delle sue frasi, la differenza tra i due tempi verbali (imperfetto o passato prossimo) è minima o quasi nulla, perché quello che cambia è una sfumatura aspettuale (cioè un modo di guardare all’evento) talmente piccola da annullarsi o quasi. Quindi la risposta alla sua domanda è sì, spesso si possono usare sia l’imperfetto sia il passato prossimo. Analizziamo ora caso per caso per vedere che cosa cambia nell’una e nell’altra opzione.
«Sono andato/andavo a trovare i nonni centinaia di volte»: meglio il passato prossimo, perché l’indicazione di tempo centinaia di volte comunque circoscrive l’evento. L’imperfetto è comunque possibile, perché sottolinea l’abitualità e la ripetitività dell’azione, sebbene il suo uso sia più naturale con un’espressione di tempo che ne indichi, per l’appunto, la ricorsività, per es. tutti i giorni, dieci volte al mese ecc.
«Faceva/ha fatto molto caldo e tutti si sono tuffati»: il significato è praticamente identico; il far caldo è un evento che si protrae nel tempo (mentre tuffarsi è puntuale), e dunque ben si presta all’uso anche all’imperfetto.
«Ieri ho fatto il bucato, ho pulito casa e ho cucinato uno stufato / Ieri facevo il bucato, pulivo casa e ho cucinato uno stufato». Meglio il passato prossimo (sono tutte azioni puntuali), a meno che non si trasformi all’imperfetto anche «cucinavo uno stufato» e si aggiunga però un’espressione al passato che rappresenti l’evento che si è verificato mentre lei faceva tutte quelle altre cose (espresse all’imperfetto, cioè con continuità mentre si è verificato l’evento); per es.: «Ieri facevo il bucato, pulivo casa e cucinavo uno stufato, quanto è arrivato Gianni e finalmente mi sono riposata».
«Ha saputo gestire la situazione come meglio poteva / Ha saputo gestire la situazione come meglio ha potuto»: pressoché identici: potere, avere le capacità di fare qualcosa ben si prestano ad un uso continuato nel tempo.
«Quando abitavo/ho abitato qui, andavo sempre a mangiare nei ristoranti piú economici»: decisamente meglio l’imperfetto, dato che l’azione di abitare è continuata e abituale, non certo puntuale.
«Oggi pomeriggio aspettavo/ho aspettato all’aeroporto. L’aereo era in ritardo e non arrivava»: meglio il passato prossimo, per via dell’espressione di tempo specifica oggi pomeriggio. Andrebbe bene l’imperfetto se seguisse un evento puntuale: «Oggi pomeriggio aspettavo all’aeroporto (cioè: stavo aspettando), quanto mi hanno rubato la borsa».
«Ieri pomeriggio l’aereo è arrivato/arrivava in ritardo. Ho aspettato quasi due ore»: l’imperfetto non si può usare, perché arrivare è un’azione momentanea: l’aereo è arrivato in un momento specifico. Sorvolo sulle eccezioni in cui anche arrivare potrebbe assumere una sfumatura continua (per es. «Quando ero piccolo la fine dell’inverno non arrivava mai»).
«Il supplemento di vacanza non era/è stato previsto ma dato che nella settimana di Ferragosto tutti i centri di fisioterapia erano/sono stati chiusi abbiamo deciso che per il mio piede la terapia migliore sarebbe stata camminare nell´acqua di mare»: meglio l’imperfetto (ma il passato è comunque possibile), perché l’essere previsto e l’essere chiuso sono eventi continuati nel tempo e non momentanei.
«Ciò che mi convinceva/ha convinto ancora di più era/è stato il fatto che la mia amica, da cui ero stata invitata, in quel periodo non lavorava e quindi non sarei stata sola»: è preferibile il passato prossimo perché, anche se il convincersi e l’essere (riferito al fatto) possono essere fotografati nel loro svolgersi continuo nel tempo, in questo caso c’è un singolo elemento (il fatto che l’amica non lavorasse in quel periodo) che ha convinto a prendere la decisione di andare.
«Siamo andate/andavamo in spiaggia dove abbiamo alternato/alternavamo letture e chiacchierate. Con lei è possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato/mancava molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo»: vanno bene entrambe le forme, ma il senso della frase cambia lievemente; all’imperfetto indica che queste azioni avvenivano abitualmente, mentre al passato prossimo si suggerisce l’idea di qualcosa di limitato in un tempo. Chiaramente si potrebbe anche aggiungere un elemento temporale al passato: «Per tutto il mese siamo andate in spiaggia dove abbiamo alternato letture e chiacchierate. Con lei è (o era) possibile parlare di tutto! Questo mi è mancato molto, perché negli ultimi tempi a causa dei miei e dei suoi impegni non avevamo avuto l´opportunità di farlo». E anche altre sfumature di differenza possono essere colte in un testo del genere, che conferma quanto detto all’inizio sulle numerose sfumature aspettuali (e modali) dell’imperfetto. Per es. questo mi mancava molto sottolinea che manchi ancora, mentre in questo mi è mancato molto potrebbe anche darsi che sia mancato fino a questo momento ma che ora non manchi più (dato che le due amiche si sono riviste o si stanno per rivedere). Ma, come ripeto, sono davvero dettagli minimi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei porre un quesito: in frasi come “non sentirsela di …”, qual è il tipo di subordinata così introdotta?
RISPOSTA:
È una subordinata completiva, per la precisione oggettiva; infatti il verbo pronominale (o più precisamente procomplementare) sentirsela per essere completato ha bisogno di un argomento (che funge da complemento oggetto) rappresentato dalla subordinata oggettiva implicita introdotta da di, come se fosse sento di…: «Non me la sento di uscire» = «Non mi sento di uscire» (analogamente a «Non sento la voglia di uscire»).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale delle seguenti affermazioni è corretta?
1) penso che loro stanno bene
2) penso che loro stiano bene
Sono più propenso nel linguaggio formale a ritenere corretta la seconda frase, tuttavia la prima può essere usata nel parlato informale confidenziale.
RISPOSTA:
È esattamente come osserva lei: nelle completive dipendenti da pensare il congiuntivo è la scelta preferenziale, in quanto più formale, ma l’indicativo non è scorretto, bensì più informale, pertanto possibile in situazioni, come il parlato o lo scritto che si avvicina al parlato, meno sorvegliate.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il quesito di cui vorrei parlare in questo filone è la questione della protasi e apodosi del periodo ipotetico dell’irrealtà all’interno di un’oggettiva / una soggettiva.
Ciò che penso per quanto riguarda le seguenti 3 frasi è che l’unica soluzione corretta è col condizionale, ma a me è capitato di sentire soluzioni differenti dal condizionale:
A-Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto.
B-Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto.
C-Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa.
Sono soluzioni con l’imperfetto indicativo, l’imperfetto congiuntivo e l’infinito.
Io, per logica, come già detto, direi che l’unica possibilità sia quella del condizionale, visto che si parla di una situazione non realizzata (periodo ipotetico dell’irrealtà), ma a pensarci bene, ragionando sui tempi presenti, le possibilità mi sembrano molte di più e tutte (più o meno) accettabili:
-Non penso di pentirmi se lo facessi.
-Non penso di pentirmi se lo faccio.
-Non penso che Mario si arrabbi se passassi.
-Non penso che Mario si arrabbi se passo.
-So che lui arriva se ci fosse pure gli altri.
-So che lui arriva se ci sono pure gli altri.
Che ne pensa delle tre frasi in questione?
Quella che mi lascia più perplesso è la B, che ho sentito in televisione, di sfuggita, in una serie americana doppiata in italiano.
La frase era “non pensavo ti desse fastidio se lo facevo”.
RISPOSTA:
Cercando di semplificare il più possibile la casistica da lei presentata, diciamo subito che anche nel periodo ipotetico dipendente vale il divieto di utilizzare il condizionale nella protasi, possibile (ma non obbligatorio) soltanto nell’apodosi. Vediamo ora di commentare alla svelta tutte le frasi.
- A) Non pensavo di pentirmi se tu lo facevi / se tu lo avessi fatto: come al solito, l’indicativo è possibile, ma più informale del congiuntivo.
- B) Non pensavo che ti desse fastidio se lo facevo / se lo avessi fatto: come sopra. Entrambe le completive di A e B sono possibili anche con il condizionale in quella che di fatto è l’apodosi del periodo ipotetico: «Non pensavo che mi sarei pentito…»; «Non pensavo che ti avrebbe dato fastidio…».
- C) Ti ho detto che non dovevi rimanere da sola se ti succedeva qualcosa / se ti fosse successo qualcosa: come sopra: indicativo possibile ma meno formale del congiuntivo. Anche qui è possibile il condizionale in apodosi: «… che non saresti dovuta rimanere da sola…».
– Non penso di pentirmi se lo facessi: va bene.
– Non penso di pentirmi se lo faccio: non solo è meno formale, ma implica anche una probabilità maggiore di farlo: se lo faccio non mi pento.
– Non penso che Mario si arrabbi se passassi: non funziona. O si mette il condizionale in apodosi («Non penso che Mario si arrabbierebbe se passassi») o il presente in protasi («se passo»), come nella frase successiva.
– Non penso che Mario si arrabbi se passo: va bene, come pure «…si arrabbierebbe…».
– So che lui arriva se ci fossero pure gli altri: non funziona. O si usa il condizionale in apodosi («…lui arriverebbe…») o si usa il presente in protasi come nella frase successiva.
-So che lui arriva se ci sono pure gli altri: va bene.
Fabio Rossi
QUESITO:
Esprimerò la mia richiesta in forma esemplificata in quanto una diversa strategia espressiva la renderebbe alquanto farraginosa. La TV riprende una partita di calcio e non la trasmette in diretta e il giorno dopo la manda in onda. Se io vedo la partita in questa seconda fase si può dire che la vedo in differita. Poniamo ora che la TV riprenda la partita e la mandi in diretta e poi, domani, la invii di nuovo in onda tutta o in parte. Io che la guardo in questa seconda fase, posso asserire di vederla in differita o in questo caso (visto che il giorno prima c’era stata la diretta) questo termine diventerebbe improprio?
RISPOSTA:
Con il sostantivo differita si intende una trasmissione radiofonica o televisiva registrata e mandata in onda in un momento successivo (Zingarelli 2023), perciò l’uso di questa parola va bene nel suo primo caso; un programma già andato in onda e nuovamente trasmesso in un momento successivo prende, invece, il nome di replica.
Raphael Merida
QUESITO:
So che il termine elezione viene usato spesso in campo medico con il significato di ‘migliore’, ‘più opportuno’. Per esempio: “In quella situazione l’intervento di elezione è l’asportazione della cistifellea”. Vorrei sapere se lo stesso termine può essere usato con lo stesso significato in altri contesti. Per esempio: “Se ci si trova nel raggio d’azione di un serpente, la strategia di elezione consiste nel rimanere immobili”.
RISPOSTA:
Il termine elezione ha come primo significato quello di ‘scelta volontaria’; dal significato primario, però, si è sviluppato quello di ‘preferenza’, che emerge chiaramente nell’espressione di elezione e nell’aggettivo semanticamente equivalente elettivo ‘frutto di scelta’ (come nel titolo del romanzo di Goethe Le affinità elettive), ma anche ‘preferibile’. Nell’uso comune, quindi, l’espressione significa ‘preferibile’ (quindi la strategia d’elezione = ‘la strategia preferibile’); nel linguaggio della medicina, invece, permane il significato primario, infatti un intervento di elezione non è quello preferibile, ma quello scelto volontariamente in presenza di altre possibilità, come la procrastinazione o un altro tipo di intervento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Un mio amico mi ha detto che non ci sarebbe stato al mio compleanno, ma che avrebbe voluto esserci. La risposta corretta è: «sarà come tu ci fossi» oppure «sarà come tu ci sia»?
RISPOSTA:
Si presume che la festa non ci sia ancora stata, pertanto la risposta, con il verbo reggente al futuro, richiederebbe, in teoria, il presente e non l’imperfetto, che invece implicherebbe un riferimento al passato. Del resto, il futuro è allineato al presente nella consecutio temporum, e se il verbo reggente fosse al presente avremmo il congiuntivo presente nella subordinata: «(adesso) è come se tu ci sia» (o, informalmente, «come se tu ci sei»). Tuttavia, le comparative ipotetiche (introdotte da come se, con possibile ellissi di se) hanno per l’appunto una forte componente ipotetica che rende pienamente giustificabile (e tutto sommato preferibile) anche l’alternativa al congiuntivo imperfetto, in analogia con quanto avviene nel periodo ipotetico della probabilità: «se tu ci fossi sarebbe bello». Proprio per la carica epistemica (comunque tu non ci sei), dunque, qui anche l’imperfetto congiuntivo è corretto, e anzi preferibile: «è come (se) tu ci fossi», «sarà come (se) tu ci fossi».
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggo su un giornale a diffusione nazionale quanto dichiara un noto giornalista: «Vi spiego come si diventa giornalista». Io avrei usato il plurale: «Vi spiego come si diventa giornalisti». Sono corrette entrambe le varianti? Se sì, quale si fa preferire?
RISPOSTA:
Le due forme sono del tutto equivalenti, sul piano strutturale e stilistico, e dunque entrambe perfettamente corrette in italiano. Il singolare si riferisce al ruolo, mentre il plurale dà più rilievo alle persone che ricoprono quel ruolo. Capisco la sua preferenza: parlando a un uditorio ampio, per esempio a studenti e studentesse, puntare alla concreta possibilità che ciascuna/o di loro diventi giornalista può sembrare più efficace. Però a favore del singolare rema l’essere adatto sia a un uomo sia a una donna, laddove il plurale al maschile indistinto, oggi più che mai, può essere comprensibilmente avvertito come discriminatorio. Allora al plurale sarebbe bene aggiungere “e giornaliste”. Il singolare è più economico e più inclusivo e quindi, in fin dei conti, preferibile: laddove la morfologia aiuta l’inclusività è sempre bene sfruttarne le risorse.
Fabio Rossi
QUESITO:
A me riesce difficile capire quando di è essenziale e quando soltanto ridondante.
«Con l’aereo ci metto molto di meno/meno»; «Pensa di valere di più/più di noi».
C’è qualche regola da seguire?
Invece credo che una costruzione simile sia sbagliata: «Non me ne intendo di matematica». O soltanto «Non me ne intendo», sottintendendo l’argomento, oppure «Non mi intendo di matematica» senza “ne”.
Anche con in ho questo problema: «In molti andarono/Molti andarono».
RISPOSTA:
In effetti non è semplice, perché, più che vere e proprie regole di grammatica stabili, si tratta in questi casi di consuetudini di occorrenza, cioè di espressioni più o meno cristallizzate con o senza di. Di meno può fungere da locuzione avverbiale, del tutto interscambiabile con meno («bisognerebbe parlare di meno e pensare di più»), oppure da locuzione aggettivale, spesso, ma non sempre, interscambiabile con meno («un tempo le macchine in strada erano di meno» o «erano meno»); ma per esempio in «ho una carda di meno» (o «in meno») mal si presta alla sostituzione con il solo meno, così come «ce n’è uno di meno» (ma non «uno meno»).
Nel suo primo esempio, di può anche mancare: «Con l’aereo ci metto molto di meno/meno». Quando invece meno è seguito dal secondo di termine di paragone, è bene omettere di: «Pensa di valere più/meno di noi», anche se la forma con di, in questo caso, è comunque possibile. Ma, per esempio, in «Vorrei più/meno pasta di te», il di non va usato.
«Non me ne intendo di matematica» è una costruzione pleonastica tipica del parlato e della lingua informale denominata tecnicamente dislocazione a destra. In quanto pleonastica (dal momento che ne sta per di matematica) sarebbe meglio evitarla nella lingua scritta e formale, a meno che non manchi il sintagma pieno: «Non me ne intendo».
«Molti andarono» va bene per tutti gli usi, mentre «In molti andarono», oltreché meno formale, è più adatto nell’ordine invertito dei costituenti, per esempio: «Se ne sono andati in molti». Inoltre, in molti, rispetto a molti, fa presupporre una quantità assoluta, priva di relazione con altre: «molti andarono al mare, ma altrettanti in montagna»; «in molti andarono al mare».
Fabio Rossi
QUESITO:
“A proposito” sappiamo che è una locuzione avverbiale, ma si può usare anche come avverbio. Ma in quale gruppo di avverbi può essere inserito?
RISPOSTA:
Locuzione significa ‘insieme di più parole che esprime il medesimo contenuto di una parola sola’, quindi locuzione avverbiale di fatto è sinonimo di avverbio, con l’unica differenza che l’avverbio è costituito da una parola sola (per es. limitatamente), mentre la locuzione è costituita da più parole (per es. a proposito). A proposito può essere sia una locuzione preposizionale, sia una locuzione avverbiale. Nel primo caso, accompagnata da di, ha il significato della preposizione su e può introdurre un complemento di argomento: «Non ho nulla da aggiungere a proposito della tua bocciatura». È sinonima di un’altra locuzione preposizionale: riguardo a. Quando funge da locuzione avverbiale, invece, ha un valore più o meno riconducibile a quello degli avverbi di modo (ma con sfumature anche di avverbio di giudizio o di limitazione): «Capita proprio a proposito», «Ha parlato proprio a proposito».
Fabio Rossi
QUESITO:
Sono corrette frasi come: «Penso che io sia sordo» oppure «penso che io sia chiaro»?
RISPOSTA:
Non sono scorrette ma sarebbe bene evitarle, dal momento che una completiva con lo stesso soggetto della reggente si esprime di norma in forma implicita, anziché esplicita: «Penso di essere sordo» e «penso di essere chiaro».
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle frasi sotto riportate, l’articolo e la proposizione, a seconda dei casi, posti tra parentesi, sono facoltativi (e quindi corretti) oppure errati?
La loro presenza nel testo, specie nel caso dell’articolo dei primi due esempi, modifica, anche lievemente, il senso generale del messaggio; oppure non c’è differenza tra le frasi complete e quelle ellittiche?
1) (Il) pensarti mi fa star bene.
2) (Il) leccarsi le ferite è un inutile atteggiamento di autocompatimento.
3) Mi spiace (di) non essere venuta alla festa.
4) Cerco (di) te.
RISPOSTA:
Le frasi sono tutte ben formate, sia con l’articolo (o la preposizione), sia senza. Nessuno dei quattro casi è però configurabile come ellissi, perché si tratta di costrutti alternativi e dotati di loro autonomia senza dover ipotizzare la caduta di un elemento. Nei primi due casi, addirittura, la trafila storica è esattamente al contrario: prima nasce la forma senza articolo, poi quella con articolo.
1) e 2) È sempre possibile trasformare un infinito in un infinito sostantivato, mediante l’aggiunta dell’articolo. Non c’è alcuna apprezzabile differenza semantica tra l’interpretazione come infinito sostantivato e l’interpretazione come completiva soggettiva; stilisticamente, la variante con l’infinito sostantivato è un po’ più pesante, dunque meno adatta a un contesto formale.
3) Le due frasi sono del tutto equivalenti. In molti casi l’italiano presenta alternative nella reggenza verbale, con o senza preposizione. La forma senza preposizione è la più antica (cioè come il latino, che non ammetteva la preposizione davanti all’infinito), mentre quella con la preposizione è più recente; quella con la preposizione è meno formale.
4) La forma con di è decisamente rara e ha anche una sfumatura semantica diversa: ‘chiedere di qualcuno’: «cercano dell’avvocato Rossi», cioè chiedono se c’è l’avvocato.
Fabio Rossi
QUESITO:
All’epoca, dopo che era avvenuta quella disgrazia, eravamo come foglie che il vento…
- a) portasse via
- b) portava via.
Suppongo che entrambe le soluzioni siano valide.
Mi chiedo però se la differenza tra l’una e l’altra sia di tipo (come insegnate voi) diafasico, oppure se essa sia di tipo semantico.
RISPOSTA:
Come al solito, la differenza è essenzialmente di tipo diafasico (più formale il congiuntivo, meno formale l’indicativo), ma, come spesso avviene, le ragioni diafasiche non escludono quelle sintattiche e/o semantiche. In questo caso, in virtù della frequente associazione del congiuntivo (soprattutto imperfetto) a contesti ipotetici quali la protasi del periodo ipotetico, la versione al congiuntivo conferisce al periodo da lei segnalato una sfumatura epistemica (cioè di probabilità o possibilità), quasi a sottolineare che il vento può portare via (o anche non portarle) quelle foglie. Ricordo che le relative al congiuntivo possono assumere sfumature varie (finali, consecutive, epistemiche ecc.). Nel caso specifico, però, c’è davvero bisogno di indicare che il vento può portare o non portare via le voglie? Non è in certo qual modo ovvio dal contesto semantico complessivo? Occorre sempre chiedersi se il congiuntivo sia necessario o no, magari se sia un mero sfoggio di “bello stile” (in realtà retaggio di certe malintese pseudonorme scolastiche). Inoltre, sempre a proposito di stile, non sarebbe molto meno faticoso il periodo senza proposizione relativa? Cioè così: «…eravamo come foglie al vento».
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretto l’utilizzo del verbo provvedere in questo modo? “Avresti dovuto PROVVEDERE IN QUELLA DIREZIONE per evitare problemi”.
RISPOSTA:
Sì; in una frase come la sua il verbo provvedere è usato assolutamente, ovvero come verbo intransitivo monovalente (o inergativo). Con questa costruzione, il verbo assume il significato di ‘cercare una soluzione’ e può certamente essere arricchito da sintagmi aggiunti (o espansioni) come in quella direzione, che restringe l’ambito dell’intervento a quello nominato precedentemente nel discorso.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vi chiedo di propormi la vostra analisi del periodo di questo breve testo.
“Carlo gli aveva detto che, nell’ora in cui la nave doveva salpare, sarebbe salito sull’abbaino della soffitta per guardare, nella sera che si spegneva, in direzione di Trieste, là dove lui, Enrico, partiva, quasi i suoi occhi potessero frugare nei buio e salvare le cose dall’oscurità, lui che aveva insegnato che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Claudio Magris, Un altro mare).
RISPOSTA:
Di seguito l’analisi del periodo; in coda si forniranno alcune note.
Carlo gli aveva detto, lui = principale
che, nell’ora sarebbe salito sull’abbaino della soffitta = sub. oggettiva di I grado;
in cui la nave doveva salpare, = sub. relativa di II grado;
per guardare, nella sera in direzione di Trieste, là = sub. finale di II grado;
che si spegneva, = sub. relativa di III grado;
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di III grado;
quasi i suoi occhi potessero frugare nel buio = sub. comparativa ipotetica di III grado;
e salvare le cose dall’oscurità = coord. alla sub. comparativa ipotetica di III grado;
che aveva insegnato = sub. relativa di I grado;
che filosofia, amore della sapienza indivisa, vuol dire = sub. oggettiva di II grado;
vedere le cose lontane = sub. oggettiva di III grado;
come fossero vicine, = sub. comparativa ipotetica di IV grado;
abolire la brama = coord. alla sub. oggettiva di III grado;
di afferrarle, = sub. dichiarativa di IV grado;
perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere = sub. causale di V grado.
La proposizione principale nel testo è divisa in due parti, che si trovano a grande distanza l’una dall’altra; la prima parte (Carlo gli aveva detto) è continuata da una serie di subordinate contenenti descrizioni di luoghi e azioni, la seconda (il pronome lui) prolunga a distanza la principale per aggiungere alla frase un’informazione astratta (nella quale, però, si rispecchia il soggetto). Il sintagma complesso in direzione di Trieste, là è quasi certamente aggiunto al verbo guardare, ma non è escluso che ruoti intorno al verbo spegnere. Se si segue questa seconda interpretazione l’analisi di quella parte diventa:
per guardare, nella sera = sub. finale di II grado;
che si spegneva, in direzione di Trieste, là = sub. relativa di III grado.
Ancora, la relativa dove lui, Enrico, partiva può essere interpretata come dipendente da quest’ultima proposizione, per cui avremmo:
dove lui, Enrico, partiva, = sub. relativa di IV grado.
In questo caso guardare cambia valenza e significato; non è più bivalente con il significato di ‘osservare un oggetto o un processo’, ma monovalente con il significato di ‘soffermarsi a contemplare’.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho diverse domande sull’uso dei modi nelle subordinate.
1. L’alternanza tra l’indicativo e il congiuntivo ha una valore diafasico nelle completive?
2. Per quanto riguarda la proposizione relativa, nelle frasi seguenti il congiuntivo può essere sostituito dall’indicativo senza cambiamento di significato?
a. E poiché il denaro, in America come altrove, si guadagna in mille modi ma difficilmente con lo studio delle lettere e delle arti e alle lettere si dedicano volentieri soprattutto i facoltosi che vi siano inclinati (Soldati, America primo amore).
b. La stazione della vecchia Delhi di notte è uno di quei posti dove un viaggiatore che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico (Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra).
c. Per un professionista sessantenne, che a suo tempo abbia fatto buoni studi superiori ma poi si sia occupato di altro – poniamo di import-export o di ortopedia –, la storia sarà probabilmente la disciplina che si interessa di guerre… (Serianni, Prima lezione di grammatica, p. 3).
d. Ho sentito storie da favola su tante notti passate all’aperto, non un problema che sia uno, tutto liscio come nei film (Daniele Mencarelli, Sempre tornare, p. 34).
e. Chi parla di un’intelligenza artificiale che possa prendere il potere o quantomeno surrogare l’intelligenza naturale non ha mai visto un bambino davanti a una pasticceria o un adulto o un’adulta disposti a giocarsi per amore, o per qualcosa che ne ha una vaga parvenza, la fama, la rispettabilità, la grandezza (Corriere della Sera, 31 gennaio 2023, A chi fa davvero paura l’intelligenza artificiale?).
f. Era l’unico che avesse la qualità per farlo.
3. Nella frase “Ho trovato qualcuno che potrebbe / può aiutarci” il congiuntivo possa non va bene. È vero?
4. Nei prossimi esempi la scelta tra il congiuntivo e l’indicativo è libera?
I ragazzi che non studino / studiano bene la lingua italiana non riusciranno a lavorare come giornalisti.
Un ragazzo che non studi bene….
5. Nella seguente frase è possibile sostituire pigliassero con pigliavano senza cambiare la semantica?
Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo (Pavese, La luna e il falò, p. 109).
6. In questi esempi la relativa è investita di un senso ipotetico di improbabilità?
Un viaggiatore armato di binocolo che si trovasse a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia. (Ammaniti, Ti prendo e ti porto via, p. 46).
Un viaggiatore armato di binocolo che si trova / si trovi a bordo di una mongolfiera potrebbe vedere meglio di chiunque altro lo scenario della nostra storia (frase da Ammaniti modificata).
RISPOSTA:
1. Nei casi in cui l’alternanza è possibile (quindi esclusi i casi in cui è obbligatorio usare o l’indicativo o il congiuntivo) essa ha valore diafasico: la variante con il congiuntivo è più formale di quella con l’indicativo.
2. Nelle proposizioni relative a-d il congiuntivo ha ancora valore diafasico. Nell’esempio e la relativa è consecutivo-finale (un’intelligenza artificiale che possa prendere = un’intelligenza artificiale tale da poter prendere); la variante all’indicativo presenterebbe il poter prendere come fattuale. L’esempio f presenta una relativa apparentemente consecutiva, ma in cui, invece, il congiuntivo ha valore diafasico (avesse = aveva). Consecutivo-finale sarebbe una frase come “Era l’unico che avesse la possibilità di farlo; mentre, infatti, la qualità è certamente posseduta dal soggetto, e non può essere rappresentata come un’acquisizione possibile, la possibilità è per definizione un’acquisizione possibile.
3. Nella frase l’uso del congiuntivo è impedito dal verbo trovare al passato, che presenta l’antecedente qualcuno come certamente reale. Si noti che la relativa consecutivo-finale al congiuntivo sarebbe possibile se al posto di trovare ci fosse, per esempio, pensare (“Ho pensato a qualcuno che possa aiutarci”) e anche se il verbo trovare fosse presente (“Trova qualcuno che possa aiutarci”), perché in quel caso qualcuno non sarebbe certamente reale, ma sarebbe ipotetico.
4. Nella frase con l’antecedente i ragazzi la relativa al congiuntivo è molto innaturale, perché l’antecedente è determinato e complessivamente la frase è di formalità media. In quella con l’antecedente singolare si possono usare entrambi i modi, perché l’antecedente è indeterminato; in questo caso non sarebbe facile stabilire se il congiuntivo avrebbe valore diafasico o la funzione di rendere la relativa consecutiva: le due funzioni si sovrapporrebbero.
5. L’indicativo si può sostituire al congiuntivo, ma cambia il significato della frase. Il congiuntivo, infatti, è attratto dalla proposizione finale reggente (per non avere i sergenti che mi pigliassero in giro = affinché i sergenti non mi pigliassero in giro); l’indicativo darebbe, invece, alla relativa la funzione di qualificare fattualmente l’antecedente.
6. Nella frase originale che si trovasse = se si trovasse; nella frase modificata l’alternanza ha un valore simile a quello della seconda frase dell’esempio 4.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sto occupando dello studio delle temporali. Vorrei cercare di capire quali tempi verbali possono essere usati in queste proposizioni al fine di poter esprimere sfumature di significato.
– Compro la pizza quando lui arriva / arrivi / arrivasse / arriverà / è arrivato / sia arrivato / fosse arrivato / sarà arrivato.
– Non compro la pizza finché lui non torna, torni, tornasse, tornerà (tempi composti?)
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe / sarebbe stato / fosse stato possibile
– Lavorerai non appena è / sarà / sia / fosse possibile.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse possibile, fosse stato possibile, sarebbe stato possibile.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse / avrebbe trovato / avesse trovato un nome per il suo personaggio.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / ci stancheremo / ci stancassimo / stancheremmo (tempi composti?).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto, avrebbe finito.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non aveva accettato / avesse accettato / avrebbe accettato / ebbe accettato di completare l´opera.
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / ne avessi bisogno / ne avrei avuto bisogno / ne avrei bisogno / ne avevo bisogno.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) / avessimo ritrovato la strada dei mattoni gialli.
RISPOSTA:
Sulla scelta della forma verbale nelle frasi dell’elenco agiscono diversi fattori che si influenzano a vicenda (tra cui la semantica della frase), producendo restrizioni non sempre riconducibili a una regola generale. Di seguito le varianti più accettabili, con qualche nota illustrativa:
– Compro la pizza quando lui arriva / arriverà / sarà arrivato.
Il futuro anteriore è un po’ spiazzante in relazione al presente usato come futuro (meglio sarebbe “Comprerò… quando sarà arrivato”); possibile – ma forzato – è arrivato, che, però, funziona meglio con congiunzioni come una volta che e appena. Sono esclusi i tempi passati del congiuntivo sia arrivato e fosse arrivato. Non è escluso il congiuntivo presente, se si attribuisce a quando il senso di qualora. Molto forzato è arrivasse, che mette l’evento fattuale al presente della reggente in relazione con un’ipotesi possibile.
– Non compro la pizza finché lui non torna / torni / tornerà (tempi composti?).
In questa frase la congiunzione finché non ammette l’indicativo e il congiuntivo come variante formale (non con slittamento di significato verso la non fattualità). Per questo è impossibile tornasse. Possibili sono, invece, l’indicativo futuro anteriore e il congiuntivo passato, perché finché non permette di considerare il processo del non comprare o come contemporaneo all’attesa, o come successivo, quindi con una prospettiva dal futuro al passato sull’evento del tornare.
– Gli ho promesso un lavoro non appena sarà / sia / fosse / sarebbe stato / fosse stato possibile.
L’unica forma esclusa è sarebbe, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente. Il condizionale passato, invece, può avere la funzione di futuro nel passato.
– Lavorerai non appena è / sarà / sia possibile.
Esclusa fosse.
– A lui non importava fintantoché c’era / ci sarebbe stata / ci fosse stata Dorothy insieme a lui.
Tutte le forme sono possibili.
– Il direttore gli aveva promesso un posto di lavoro non appena fosse / fosse stato / sarebbe stato possibile.
Tutte le forme sono possibili.
– Pare che facesse suonare la campana ogni volta che trovava / trovasse un nome per il suo personaggio.
Esclusa avrebbe trovato, perché l’evento del trovare non può essere successivo a quello del suonare; avesse trovato potrebbe essere usata come variante formale di aveva trovato (forma a sua volta del tutto possibile), ma risulterebbe forzata, perché suggerirebbe che l’evento è non fattuale, quando non può esserlo.
– Glielo dirò non appena tu lo vuoi / vorrai / voglia / volessi.
Tutte le forme sono possibili.
– Parliamo fino a quando non ci stanchiamo (indicativo e congiuntivo) / stancheremo / stancheremmo (tempi composti?).
Le forme escluse sono ci stancheremmo, perché l’evento della subordinata non può essere considerato condizionato da quello della reggente, e ci fossimo stancati; ci stancassimo è al limite dell’accettabilità (rispetto a finché non la presenza di quando la rende leggermente più accettabile, ma sarebbe difficilmente selezionata dai parlanti).
– Rifiutò di andarsene finché non avesse finito il pasto.
Impossibile avrebbe finito, perché l’evento del finire non può essere né condizionato né successivo a quello dell’andarsene.
– Lo temeva ma pensava di temerlo solo finché non avesse accettato / avrebbe accettato di completare l’opera.
In questa frase la reggente della temporale di temerlo è equivalente a che lo avrebbe temuto, quindi la temporale introdotta da finché non non ammette il congiuntivo ebbe accettato. Potrebbe ammettere aveva accettato, che, però, è sfavorito dalla sovrapposizione sulla frase dello schema del periodo ipotetico del terzo tipo (condizionale passato-congiuntivo trapassato).
– Stavo bene attento a muovermi ogniqualvolta ne avessi avuto bisogno / avessi bisogno / avevo bisogno.
La reggente della temporale qui equivale a mi muovevo: nella temporale sono impossibili avrei bisogno e avrei avuto bisogno, perché l’avere bisogno deve precedere e non può essere condizionato dal muoversi.
– Dobbiamo proseguire finché non avremo / abbiamo (indicativo e congiuntivo) la strada dei mattoni gialli.
Impossibile avessimo trovato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
In un discorso racconto o poesia, passare dalla forma impersonale alla seconda persona singolare è corretto?
RISPOSTA:
In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, sarebbe bene evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se si decide di rivolgersi sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, sarebbe bene continuare a evitare il Tu/Lei/Voi. Certo, quanto più il testo è lungo, tanto più è difficile mantenere il controllo della persona, cioè dei pronomi da usare per rivolgersi al lettore/destinatario/narratario. Anche in un discorso orale, tanto più se formale, sarebbe auspicabile la coerenza negli usi del Tu/Lei/Voi, oppure delle forme impersonali, usando o sempre gli uni (Tu, Lei o Voi) o sempre le altre (le forme impersonali). La scelta meno marcata, cioè buona un po’ per tutte le occasioni, è quella dell’impersonalità, mentre la scelta del Tu/Lei/Voi, pure praticata spesso nel parlato e in poesia (da cui però di solito il Lei è bandito), è decisamente più insolita nella narrativa e nella saggistica. Nei testi poetici, poi, la libertà (e quindi anche la possibile alternanza tra Tu/Voi e forme impersonali) è ancora maggiore, per cui è davvero complicato individuare delle norme o anche soltanto delle linee guida su questo argomento. Per fare un esempio pratico, tutta questa risposta è scritta in forma impersonale. Si sarebbe potuto scriverla anche tutta dando del Tu o del Lei al lettore (non del Voi perché qui sto rispondendo a un lettore o a una lettrice specifico/a, non a un gruppo indistinto di lettori/lettrici), ma sarebbe stato strano alternare le due forme, come per esempio così:
«In linea di principio sì, è possibile e non è scorretto. Se già nelle questioni grammaticali il più delle volte è bene evitare la rigida dicotomia corretto/scorretto, ciò è vero tanto più nel terreno della testualità e della pragmatica, vale a dire a proposito del modo di rivolgersi ai lettori (cioè agli interlocutori) di un testo o di un discorso. Sicuramente però, soprattutto nella scrittura formale ma anche in quella narrativa, faresti bene a evitare troppi salti di persona, anche perché ostacolano spesso la comprensione. Pertanto, se decidi di rivolgerti sempre con forme impersonali al destinatario (o narratario) del testo, continua a evitare il Tu/Lei/Voi» ecc. ecc.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale tra le due è la costruzione più appropriata a un uso formale?
«Perché non si è ricorso/i prima a questo stratagemma?»
O ancora:
«Perché non si è intervenuto/i prima?».
RISPOSTA:
Abbiamo fornito molte risposte analoghe a questa, sugli usi del si passivante e del si impersonale: le suggerisco pertanto di ricercare nell’archivio delle risposte di Dico, scrivendo “passivante” o “passivato” o “si impersonale” nel campo della ricerca libera. I due casi specifici da lei segnalati, comunque, non rientrano nella tipologia del si passivante, bensì del si impersonale, poiché entrambi i verbi (ricorrere e intervenire) sono intransitivi e come tali non possono ammettere la forma passiva, dunque neppure il si passivante. Tuttavia la sua domanda è molto interessante, perché consente di riflettere sull’uso dell’accordo del participio passato nel caso di si impersonale con verbi composti.
I verbi intransitivi che hanno come ausiliare avere non accordano il participio con il soggetto; il participio rimane pertanto invariato, cioè sempre al maschile singolare: «per oggi si è lavorato abbastanza», «si è giocato a pallone»; mentre i verbi che hanno come ausiliare essere, richiedono l’accordo del participio: «si è andati (o andate) al mare», «si è morte (o morti) di noia». Pertanto l’unica forma corretta della sua seconda frase è: «Perché non si è intervenuti prima?», dal momento che intervenire ha come ausiliare essere. A rigore, anche nella sua prima frase il participio passato dovrebbe essere accordato: «Perché non si è ricorsi/e prima a questo stratagemma?»; tuttavia non sono rari (benché minoritari rispetto a essere) i casi in cui ricorrere possa reggere l’ausiliare avere; pertanto è corretta (ma meno formale) anche la forma con il participio non accordato, cioè al maschile singolare: «Perché non si è ricorso prima a questo stratagemma?».
Fabio Rossi
QUESITO:
Il testo che segue è la parte di una favola. Vorrei sapere se la punteggiatura e i verbi sono corretti:
«In una grande prateria ci vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che così appena gli sarebbe venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e si sarebbe preso una botta/crapata e così andò».
RISPOSTA:
In brano presenta svariate inesattezze, che commenterò sotto.
«In una grande prateria ci vivevano [il ci è pleonastico: indica infatti il complemento di luogo già espresso da in una grande prateria; ci va dunque eliminato] bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo: forte, bello, veloce… [eviterei i due punti che spezzano inutilmente il discorso; li sostituirei con una virgola] Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi è [refuso per e congiunzione] proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male, [prima di infatti va un segno di punteggiatura forte, come un punto e virgola] infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero che [eliminare il che e aggiungere due punti] così [virgola] appena gli sarebbe [fosse: qui il condizionale è sbagliato perché è come se fosse un periodo ipotetico: se gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato…] venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e [manca il soggetto, altrimenti il lettore crede che si tratti sempre dell’insetto, mentre invece qui il soggetto cambia ed è il bufalo] si sarebbe preso una botta/crapata [crapata è troppo informale/regionale e stona in un racconto; anche il generico botta non è il massimo; meglio testata, o gran testata, seguito da un punto] e così andò».
Quindi il brano corretto sarebbe come segue:
«In una grande prateria vivevano bufali, cavalli e insetti. Tra questi un bellissimo bufalo, forte, bello, veloce… Però con tutte queste qualità era diventato superbo, si credeva chissà chi e proprio per questo non gli parlava più nessuno.
Un giorno un insetto decise di sfidare il bufalo e gli disse: “Sei così lento che non riesci a prendermi!”. Perciò il bufalo si arrabbiò, prese una rincorsa molto lunga e fece uno scatto che però finì male; infatti, il piccolo insetto si era messo davanti a un albero: così, appena gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e il bufalo si sarebbe preso una gran testata. E così andò». Oppure: «così, appena il bufalo gli fosse venuto incontro, sarebbe bastato spostarsi e quello si sarebbe preso una gran testata».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se i verbi sono usati correttamente negli esempi 1-4:
(1) Mi ha chiesto se io lo avrei chiamato quando sarei tornato in Italia
(2) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando sarei tornato in Italia.
(3) Mi ha chiesto se lo avrei chiamato quando io fossi tornato in Italia.
(4) Mi ha chiesto se io lo chiamassi quando io fossi tornato in Italia
Inoltre, so che posso dire “Lo chiamerò quando sarò tornato in Italia”, ma penso che la forma “Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarò tornato in Italia” venga considerata sbagliata dato che non rispetta la consecutio temporum. Giusto?
Altre variazioni della stessa frase con le stesse domande:
(5) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando sarei tornato in Italia.
(6) Mi ha chiesto se lo chiamerò quando fossi tornato in Italia.
RISPOSTA:
Le forme verbali nelle frasi 1-4 sono corrette (ma eviterei di esplicitare il soggetto pronominale io tanto nella proposizione interrogativa indiretta quanto nella temporale). Per descrivere un evento futuro rispetto a un momento di riferimento passato (mi ha chiesto) nelle proposizioni completive si può usare sia il condizionale passato sia il congiuntivo imperfetto. Quest’ultimo è più formale, ma anche più ambiguo, visto che la stessa forma si usa per esprimere la contemporaneità nel passato. Il congiuntivo imperfetto, insomma, esprime una contemporaneità nel passato proiettata nella posteriorità; il condizionale passato esprime soltanto la posteriorità rispetto al passato. La proposizione temporale descrive un evento da una parte posteriore rispetto al momento di riferimento (mi ha chiesto), dall’altra anteriore rispetto all’evento del chiamare, che diventa un secondo momento di riferimento. In questa situazione si può scegliere se collegare l’evento del tornare a quello del chiedere o a quello del chiamare. Nel primo caso avremo le frasi 3 e 4, con il congiuntivo trapassato che esprime anteriorità rispetto al passato (visto che la contemporaneità e la posteriorità nel passato si comportano come passati); nel secondo caso avremo le frasi 1 e 2, con il condizionale passato che esprime posteriorità rispetto al passato (mi ha chiesto), trascurando il rapporto temporale con il chiamare. Va detto, inoltre, che la proposizione temporale introdotta da quando con il congiuntivo viene a coincidere con la ipotetica (quando fossi tornato = qualora fossi tornato), quindi assume una sfumatura di incertezza.
Nella completiva può essere usato anche l’indicativo futuro, come nelle ultime due frasi, se si vuole sganciare l’evento dal rapporto con il momento di riferimento (mi ha chiesto) e si considera rilevante il momento dell’enunciazione (ora). In questo modo l’evento del chiamare è rappresentato come posteriore rispetto al presente, ovvero come futuro. Se si fa questa scelta (che sarebbe adatta al parlato e allo scritto poco sorvegliato), nella temporale bisogna usare o il futuro semplice tornerò o il futuro anteriore sarò tornato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nell’analisi grammaticale dei nomi collettivi trovo difficile indicare se si tratti di nomi di persona, animale o cosa. In un esercizio scolastico, sarebbe opportuno tralasciare tale dicitura oppure è possibile far rientrare questi nomi in una categoria? Ed eventualmente quale? Ad esempio, gregge può essere definito un nome comune di animale? O un nome comune di cosa? Oppure semplicemente un nome comune, collettivo?
RISPOSTA:
Semplicemente nome comune, collettivo: entia multiplicanda non sunt praeter necessitatem.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando scrivo utilizzo molto spesso la virgola insieme alla congiunzione, sempre con una specifica motivazione determinata dal senso che desidero attribuire alla frase. Talvolta, nemmeno così raramente, mi capita di usare la virgola anche negli elenchi in cui è presente una “e”.
Mi sento spesso dire che non so scrivere, che non conosco l’uso della punteggiatura. Solitamente sorrido, ascolto, mi stanco. Mi piacerebbe capire se ho torto, ed ammettere i miei limiti.
Faccio degli esempi: “pane, pasta, e pomodoro” ha un significato diverso da “pane, pasta e pomodoro”. Lo stesso vale anche per “l’amava, e l’odiava”. Anche questa espressione è diversa e differente da “l’amava e l’odiava”. Così “Dio, patria e famiglia” non è esattamente lo stesso di “Dio, patria, e famiglia”. Giusto?
RISPOSTA:
Ha ragione lei su tutta la linea: questa del divieto della virgola prima della congiunzione è una delle tante regole di fantagrammatica (come la chiama Sgroi, o, per essere più generosi, di norma sommersa, come la chiama Serianni) inventate senza alcuna ragione dai maestri di scuola. A volte l’errore, come in molti dei suoi begli esempi, è proprio nel non metterla, la virgola prima della e.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel mio lavoro da copywriter, creo spesso delle campagne pubblicitarie per i social, la carta stampata e le affissioni.
Nelle “headline” (i titoli delle campagne pubblicitarie) io non metto mai il punto, a meno che non sia un punto interrogativo o esclamativo.
Tantissimi altri miei colleghi invece lo fanno.
Ad esempio nella headline “La colazione dei campioni” secondo me il punto non ci va. Mentre altri lo mettono.
Ho ragione io, hanno ragione i miei colleghi, o è una scelta stilistica?
RISPOSTA:
Ha ragione lei: nei titoli di norma il punto non va. È pur vero che, soprattutto nella testualità online, lo stile la fa da padrone, come anche l’espressività, le consuetudini scrittorie (mutate) e le attese dei lettori. Motivo per cui taluni argomentano sostenendo che il punto può conferire maggiore perentorietà, sicurezza, affidabilità (come a dire: punto e basta, so quello che dico e che offro). Per queste ragioni, all’opposto, in altri tipi di testo il punto viene bandito anche fuor dai titoli: se ha esperienza di testualità nei social, sa come un punto alla fine di un post di fb o di un messaggio whatsapp può rompere amicizie e amori (è successo più volte veramente), perché viene interpretato come una chiusura all’altro, un atto di violenza, una rottura del rapporto.
Cionondimeno, da affezionato tradizionalista alla testualità analogica, mi sento di suggerirle di rimanere fedele alla nostra vecchia e amata norma di non mettere mai il punto fermo alla fine di un titolo. Punto (ma sia qui detto e scritto senza alcuna ostilità, anzi…)
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei dei dubbi in merito ai verbi piacere, sedere e all’espressione dare per scontato.
Quale ausiliare si usa in presenza di un modale (al participio passato) e del verbo piacere? Ad es. Gli è piaciuta la pizza. Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta piacergli la pizza?
Quanto al verbo sedere, io siedo è il presente ma sono seduto è anche presente? Qual è il passato prossimo di sedere? Mi sono seduto è il passato prossimo di sedersi.
Infine vorrei sapere se l´aggettivo scontato dell´espressione dare per scontato vada concordato col sostantivo a cui si riferisce.
RISPOSTA:
I verbi servili ammettono sia l’ausiliare proprio sia quello del verbo che dipende dal servile, pertanto entrambe le alternative sono corrette: Come ha potuto piacergli la pizza / Come è potuta piacergli la pizza.
In sono seduto di fatto il participio passato perde il valore verbale per assumere quello aggettivale che pure gli è proprio, dunque l’espressione è al presente, non certo al passato. Sedere (verbo decisamente raro, rispetto al pronominale sedersi, oggi più comune) è di fatto difettivo, mancando dei tempi composti, nei quali viene sostituito, per l’appunto, dal pronominale: mi sono seduto. Possibile, nella lingua comune, anche l’uso di sedere come ‘far sedere’, dunque causativo (e transitivo), che pertanto ammette in questo caso i tempi composti e l’ausiliare avere: «ha seduto il bambino sul seggiolone».
Scontato può essere sia invariabile: dare per scontato la vittoria; sia accordato: dare per scontata la vittoria. Nel primo caso, l’originale valore verbale (participio passato del verbo scontare) tende a desemantizzarsi e a grammaticalizzarsi verso l’uso fraseologico, ma il processo non è ancora del tutto compiuto, dal momento che le forme non accordate ancora vengono avvertite come meno formali di quelle accordate, che dunque sono da preferirsi. Adesso in Google dare per scontato la vittoria conta circa 1000 occorrenze, contro le circa 4000 di dare per scontata la vittoria.
Fabio Rossi
QUESITO:
Causa la mia ignoranza vorrei sapere con certezza se in questo slogan pubblicitario la mancanza del congiuntivo sia da considerarsi errore (da bocciatura) o se invece è corretto così com’è per quanto possa forse suonare male o poco abituale:
NON VOGLIAMO CHE TU INVESTI. VOGLIAMO CHE INVESTI MEGLIO.
Ora, INVESTA, suonerebbe meglio; ma non è forse anche artificioso, o comunque non obbligatorio, nel senso: questa frase, la cui reggente è all’indicativo, non richiederebbe, nella subordinata, sempre l’indicativo? In considerazione anche del fatto che la frase sì esprime una speranza, un desiderio, ma la sua forma però è assertiva, imperativa. La forma con cui non avrei dubbio alcuno se usare il congiunto sarebbe la seguente e la più corretta (ma per nulla adatta allo slogan): NON VORREMMO CHE INVESTISSI TANTO. VORREMMO CHE INVESTISSI MEGLIO.
RISPOSTA:
La frase è corretta, ma non per una questione di suono, bensì di sintassi e di stile. Senza dubbio la versione al congiuntivo è più formale, ma il significato di entrambe le frasi è identico. Nelle subordinate completive (come quelle dipendenti da voglio) sono ammessi tanto il congiuntivo (più formale) quanto l’indicativo (meno formale). Per il resto, la sua spiegazione non è corretta: non c’entra (quasi) nulla il modo verbale della reggente. Decisamente da preferire il congiuntivo nella seconda frase: «Vorremmo che investissi…». Altresì giusta la riflessione che l’indicativo nella prima frase renda forse meglio la decisa volontà che le persone investano. Però, ripeto, a governare l’uso del congiuntivo è più il registro di formalità che la semantica, per cui, per evitare di sentirsi dare dell’ignorante dai puristi, le suggerirei comunque la forma al congiuntivo «vogliamo che investa».
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se nel seguente testo è corretto l’uso dei verbi e della punteggiatura: 1) «Ci siamo incontrati al corso di musica quando avevano tre o quattro anni: al primo impatto volevo stargli alla larga, perché era scatenato quasi come le persone che entrano in campo da calcio durante una partita. Con il passare delle lezioni capii (ho capito) che era un bravo bambino ed è da lì che diventammo (siamo diventati) amici».
Inoltre è meglio scrivere: 2) «oltre ad essere/oltre a essere»; 3) «io sto/sono simpatico a lui e viceversa»?
RISPOSTA:
1) Tutto corretto, sia al passato remoto sia al prossimo, e con la giusta punteggiatura. In alternativa ai due punti si possono usare il punto e virgola o il punto. 2) Del tutto equivalenti. 3) Sono è la scelta più formale.
Fabio Rossi
QUESITO:
In un avviso qual è la forma corretta da scrivere?
1) Si avvisa ai signori condomini
2) Si avvisa i signori condomini.
RISPOSTA:
Nessuna delle due, bensì: «Si avvisano i signori condomini», con il si passivante con valore impersonale: ‘i signori condomini sono avvisati’. Avvisare è intransitivo e dunque regge il complemento oggetto, non il complemento di termine (ai). Un’alternativa possibile soltanto in Toscana sarebbe quella con il si con valore di prima persona plurale: «Si avvisa i signori condomini», cioè ‘noi avvisiamo i signori condomini’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Premetto che sono un cantautore e si tratta di una frase di un nuovo testo di una canzone. Non riesco a capire se è corretta o meno, ho chiesto anche a mia moglie diplomata al liceo classico e laureata in lingue…
La frase è la seguente: «Direi, anche una frase ti direi se la ricorderai».
Per questioni di metrica deve essere così, il dubbio è se grammaticalmente devo usare necessariamente «se la ricordassi». Il significato non vuole essere retorico, ovvero non voglio dire che non ti dico una frase perché poi non te la ricordi ma è quasi interrogativa, ovvero se tu mi prometti, o mi dici che la ricorderai allora quasi quasi ti direi anche una frase…
RISPOSTA:
Il verso va benissimo, è corretto e anche efficace: l’indicativo nel periodo ipotetico è sempre possibile, ancorché meno formale del congiuntivo. Inoltre, in questo caso, oltre ai motivi metrico-poetici (già validissimi di per sé, in una canzone), c’è anche una ragione semantico-pragmatica, cioè la (quasi) certezza, la garanzia, del ricordo: devi proprio promettermi «me la ricorderò».
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale frase è corretta? Li adoro / Gli adoro?
RISPOSTA:
Li adoro, perché adorare regge il complemento oggetto (li) e non il complemento di termine (gli, loro).
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho dei dubbi riguardo all’uso del termine quest’ultimo, per il fatto che ho paura che ci siano dei fraintendimenti nelle frasi e nei concetti espressi. L’esempio è questo:
«Carla l’ultima volta che l’ho vista indossava una giacca di lana, quest’ultima era molto bella e aveva un colore blu scuro”. In questa frase è possibile che ci sia l’ambiguità quando si usa quest’ultima insieme agli aggettivi bella e di colore blu scuro, che magari non si capisce se questi aggettivi sono riferiti alla giacca come capo d’abbigliamento nella sua interezza o specificamente e solamente alla stoffa di lana di cui è composta la giacca? Chiedo questo perché l’ultimo sostantivo in ordine di apparizione nella frase è la parola lana che viene dopo la parola giacca, quindi quest’ultima potrebbe sembrare si riferisca solo a lana anziché a giacca.
RISPOSTA:
In effetti è spesso problematico il recupero anaforico di quest’ultimo, motivo per cui, in casi dubbi, è meglio ripetere il sintagma piuttosto che pronominalizzarlo con quest’ultimo. Ora nel caso che pone lei il buon senso aiuta a non riferirsi alla lana, ma all’intero capo di abbigliamento, però ci sono casi davvero problematici, soprattutto nei giornali, e soprattutto, come dice lei, nel caso di sintagmi che dipendono da altri sintagmi. Per esempio: «Il figlio del tabaccaio è stato rapito. Quest’ultimo aveva trent’anni». Chi, il tabaccaio o suo figlio? Meglio ripetere: Il figlio aveva trent’anni.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette e ben scritte, e se non lo sono, perché. Tra parentesi inserisco i punti che mi interessano:
1) Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre, ecc. (necessaria)
2) Chi è senza, non usa le dovute maniere. (La virgola).
3) Piuttosto che: “Il lavoro nobilita l’uomo”, dovresti dire ecc. (Il “piuttosto che” con discorso diretto)
4) La scuola non solo ti insegna tante cose, ma ti dà la possibilità di conoscere tante persone. (Nessuna virgola dopo “scuola”).
5) Gli uomini hanno costruito le strade per spostarsi. (Hanno costruito).
6) Nel mondo di oggi la vita è pervasa da ecc. (L’assenza della virgola dopo “oggi).
RISPOSTA:
Su alcune si queste abbiamo già pubblicato una risposta, ma la ripetiamo in sintesi.
1) Necessario: qui l’accordo non è con amica, ma con avere un’amica.
2) La virgola può andare, per segnalare l’ellissi, che tuttavia è strana (per l’ellissi e per l’adiacenza senza non), quindi sarebbe bene evitarla (l’ellissi e conseguentemente anche la virgola) prima di aver nominato l’oggetto in forma piena. Per esempio: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarne uno», in questo caso senza virgola, per non separare il soggetto dal predicato.
3) Va bene ma elimini i due punti, perché non è né un vero e proprio discorso diretto (piuttosto la citazione di un proverbio) né un elenco, sibbene una frase linearizzata, senza bisogno di staccarne i costituenti.
4) Senza dubbio senza virgola: mai separare il soggetto dal predicato.
5) Corretta. Costruite sarebbe ridicolmente pomposo e arcaico.
6) Senza virgola, per carità: mai separare il soggetto…
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sorge un dubbio. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? Questi è mio cugino oppure questo è mio cugino?
Se dico: mio cugino fa il falegname. Questi è molto bravo nel suo lavoro.
Oppure si deve usare questo?
RISPOSTA:
Questo è più informale, questi è molto formale. Tuttavia nel suo esempio sono inappropriati entrambi, perché non c’è alcun bisogno di ribadire il soggetto nominato tre parole prima. Quindi l’unica frase adatta è la seguente: «Mio cugino fa il falegname. È molto bravo nel suo lavoro» (oppure «ed è molto bravo…»).
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidererei sapere se questa frase è corretta: «Non sono come te che ti (invece che «a cui») piacciono le auto di lusso».
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, anche se la prima è meno formale della seconda. Le due alternative non sono peraltro identiche: il che della prima frase infatti non è propriamente un pronome relativo, bensì un che polivalente, con valore, in questo caso, vicino a quello di una congiunzione consecutiva: ‘tale che ti piacciono’. Dunque, oltre a essere meno formale, la prima frase esprime qualcosa in più rispetto alla seconda, cioè un maggior distacco (o un giudizio più negativo) nei confronti di una persona tale (talmente superficiale, materialista, capitalista, o che so io) da dar valore alle auto di lusso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho sempre utilizzato la parola latina ius premettendo ad essa l’articolo lo, probabilmente influenzata da casi analoghi (lo Ione di Platone). Mi accade però di leggere il ius su un manuale. Quale dei due articoli (il/lo) costituisce la forma corretta?
RISPOSTA:
Senza dubbio alcuno lo ius. Infatti, anche volendo appigliarsi alla pronuncia (forse) non semiconsonantica, ma vocalica, della i prevocalica, l’articolo mai sarebbe il, ma semmai l’: l’imbuto. E infatti l’ius (così come l’iena, per la iena) è possibile, sebbene minoritario e arcaico.
Fabio Rossi
QUESITO:
vorrei sapere la differenza tra in frigorifero e nel frigorifero.
Inoltre, se nella frase «Chi è senza, dovrebbe indossare un cappello», la virgola sia errata.
RISPOSTA:
In è più adatto a espressioni generiche (come conservare in frigorifero, da tenere in frigorifero, mettere la spesa in frigorifero), mentre nel è più indicato per espressioni specifiche, in cui si sottolinei il luogo o l’azione di riporre qualcosa di specifico nel luogo: ho messo il latte nel frigorifero (ma anche in frigorifero); nel frigorifero non c’è niente (ma anche in frigorifero) ecc. Come vede dagli esempi, in (in quanto più generico) è molto più comune di nel, che invece è usato in un numero minore di frasi: nessuno direbbe mai (o quasi) il vino bianco va tenuto nel frigorifero. Una piccola prova di frequenza relativa: in Google adesso in frigorifero conta oltre 6 milioni di occorrenze, a fronte delle 277 mila di nel frigorifero.
La frase da lei segnalata si può scrivere con o senza la virgola; anche se sarebbe più elegante e più chiaro fare l’ellissi dopo (e non prima) che si è nominato l’elemento pieno: «Chi è senza cappello dovrebbe indossarlo» (oppure «indossarne uno»), che è meglio scrivere senza virgola. Nel primo caso la virgola può andare (pur contravvenendo alla regola di non separare mai il soggetto dal predicato) proprio per arginare la stranezza dell’adiacenza di senza con dovrebbe e segnalare dunque una forte ellissi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sull’analisi logica di questa frase, potreste aiutarmi?
«Il gatto è capace di scendere».
È corretto dire che di scendere è un complemento indiretto?
RISPOSTA:
Cominciamo dall’analisi del periodo: il gatto è capace: proposizione principale; di scendere: subordinata completiva (detta anche argomentale) indiretta (ovvero è come se fosse un’oggettiva, pur non dipendendo da un verbo transitivo). Dunque di scendere non è un complemento bensì una proposizione subordinata.
Analisi logica della principale: il gatto: soggetto; è capace: predicato nominale, analizzabile in è: copula + capace: parte nominale (o nome del predicato).
Fabio Rossi
QUESITO:
Cordiali linguisti,
«Indipendentemente dal fatto che io…
- Sia o non sia religiosa
- Sia religiosa o meno
- Sia religiosa
- Possa essere religiosa».
Quando mi sono imbattuta nella redazione di questa frase, ho incontrato non poche difficoltà nello scegliere quale soluzione adottare tra quelle prospettate.
Alla fine ho optato per la numero 3, giudicando le altre, in particolare la numero 1 e la numero 2, ridondanti.
La numero 4, invece, mi pare, per così dire, cauta, con una sfumatura attenuativa del messaggio.
Gradirei molto una vostra opinione in merito.
RISPOSTA:
Nulla da aggiungere alla sua interpretazione, che non fa una piega. Forse si potrebbe spezzare una lancia a favore della 1 dicendo che è di più immediata perspicuità per i lettori più pigri. La 3, in effetti, potrebbe indurre il lettore distratto a credere che, comunque, lei stia ammettendo (il fatto) di essere religiosa, senza alternative esplicite. Cionondimeno convengo con lei che la presenza del congiuntivo e l’intera costruzione della frase fanno optare per l’interpretazione dubitativa: potrei esserlo come non esserlo, e ciò è indipendente da quel che segue. A volte, peraltro, la ridondanza serve proprio a scongiurare ogni rischio di ambiguità nei lettori (sempre più distratti).
Fabio Rossi
QUESITO:
Potrebbe gentilmente chiarirmi un dubbio riguardo all’uso della vocale I nel digramma GN? I verbi impegniamo, bagniamo, insegniamo si scrivono con la I?
Potrebbe inoltre dirmi come fare la divisione in sillabe delle stesse parole?
RISPOSTA:
Le forme verbali da lei segnalate si scrivono con la i, alla prima persona del presente indicativo e congiuntivo, perché la i fa parte della desinenza verbale (-iamo), non della radice (e infatti i verbi sono impegnare, bagnare, insegnare ecc., senza i). Diciamo amiamo, non *amamo. Naturalmente la i si scrive ma non si pronuncia, perché viene assorbita dalla pronuncia palatale del nesso GN. La divisione in sillabe è la seguente: im-pe-gnia-mo; ba-gnia-mo; in-se-gnia-mo.
Fabio Rossi
QUESITO:
L’accrescitivo di scarpa è scarpona, scarpone o entrambe le forme sono corrette?
RISPOSTA:
Entrambe le forme sono corrette. A sfavore della prima forma sta che è meno formale e quindi raramente contemplata da dizionari e grammatiche, ma a sfavore della seconda forma sta il fatto che si è lessicalizzata con altro significato (scarponi da montagna, da scii ecc.), tanto da essere fraintendibile come accrescitivo di scarpa (che è, però, il suo significato originario). Quindi, tutto sommato, suggerirei scarpona, con buona pace dei vocabolari e delle grammatiche attardati che ancora non la registrano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio riguardo l’utilizzo del congiuntivo nella frase che riporto qui sotto:
«ci vediamo domenica per chi ci fosse».
In un gruppo di persone che si ritrovano ogni fine settimana per delle gare sportive c’è una di queste che, dando appuntamento per la domenica successiva, dice «ci vediamo domenica per chi ci fosse».
Non è più corretto «per chi ci sarà»?
RISPOSTA:
Entrambe le frasi sono corrette, quella al congiuntivo è più formale. Trattandosi di una relativa con sfumatura potenziale/ipotetica (alcune persone possono esserci oppure non esserci) il congiuntivo sottolinea proprio questa eventualità, che però è lievemente ridondante, visto che la semantica della frase esprime già di per sé (visto che nessuno può prevedere il futuro e che non ci si può vedere con chi non c’è) il fatto che le persone possono esserci o no. Alla base della scelta del congiuntivo imperfetto è il seguente periodo ipotetico soggiacente alla semantica dell’intera frase: se ci foste (domenica prossima), ci vedremmo, altrimenti non ci vedremmo. Che però, in uno stile lievemente meno formale, può essere espresso anche così: se ci siete (o sarete) ci vediamo (o vedremo).
Fabio Rossi
QUESITO:
Molti amici italiani mi dicono che non devo dire frase (1) quando fissiamo un appuntamento per fare un’altra chiacchierata nella settimana prossima.
(1) Se non riuscissi a parlare (nella data fissata) ti scriverei.
Volevo usare questo tipo di ipotesi per indicare che è improbabile che non ci sia. è sbagliato?
So che posso esprimere (1) come
(1a) Nel caso in cui non riuscissi a parlare ti scriverò.
Domanda 1: Quale potrebbe essere il problema con il mio uso della frase (1)?
Nel Corriere della Sera (29/10/22), ho trovato questo esempio che sembra non seguire le regole del periodo ipotetico:
(2) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……
Capisco che vuol dire
(2a) Nel caso in cui i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterà la liberta delle persone……
Domanda 2: l’uso del l’imperfetto del congiuntivo in (2) permette il futuro nella frase conseguenza? Non trovo nessun esempio nei miei libri.
Domanda 3 Se (2) viene scritta come (2b) cambia il significato?
(2b) Se anche i dati del COVID dovessero tornare a peggiorare il nuovo governo non limiterebbe la liberta delle persone……
RISPOSTA:
1) La frase va bene. Anche 1a va bene: la 1 è leggermente più formale ed entrambe lasciano aperta la possibilità che lei non possa riuscire a parlare nella data stabilita, oppure che possa.
2) Stessa cosa: le frasi vanno tutte bene sia col condizionale (che è la scelta più canonica per il periodo ipotetico della possibilità), sia col futuro, che contamina la possibilità con la realtà (è cioè un periodo ipotetico misto). Le sfumature sono molto sottili e non da tutti percepite allo stesso modo. Diciamo che, in linea di massima, in entrambi i casi del gruppo 1 e del gruppo 2, la scelta del futuro sembra rendere più probabile il verificarsi dell’ipotesi e quindi della conseguenza, mentre viceversa il condizionale sembra rendere molto più improbabile sia l’eventualità del non riuscire a parlare, sia quella del peggioramento dei dati del Covid. La presenza di anche (anche se), inoltre, esclude in ogni caso che il governo limiti la libertà, sia col futuro sia col condizionale.
Rilegga bene Serianni e gli altri libri di grammatica: casi di periodo ipotetico misti sono sempre ammessi, in italiano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase seguente «ll Dirigente scolastico e gli insegnanti hanno il piacere di incontrarvi per presentare la nostra scuola», non sarebbe meglio scrivere presentarvi?
RISPOSTA:
Non è indispensabile, il senso è chiarissimo ugualmente. Del resto il verbo presentare richiede il dativo soltanto se si presenta una persona a un’altra, ma per altri contesti si può presentare una relazione, un progetto, una scuola, senza specificare a chi.
Fabio Rossi
Quesito:
Vorrei sapere se, dopo i due punti, sono richieste le virgolette anche se non viene riportato il discorso di una persona diversa dallo scrivente. Per esempio: gli dissi: il tuo discorso non lo condivido.
Risposta:
No, non sono obbligatorie. Dipende se si vuole sottolineare il tono dialogico (quasi teatrale), oppure ci si concentra soltanto sul contenuto delle parole dette. In quest’ultimo caso, naturalmente, c’è sempre la possibilità di usare anche il discorso indiretto: gli dissi che non condividevo il suo discorso.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione esclusi eventi imprevedibili può essere definita corretta. Ho letto che, secondo alcuni studiosi, il termine escluso dovrebbe essere trattato come una sorta di avverbio quando significa ‘ad eccezione di’, per cui nella fattispecie sarebbe corretto usare l’espressione escluso eventi imprevedibili. Io penso che entrambe le soluzioni siano corrette, comunque vorrei il vostro piacere a riguardo.
RISPOSTA:
Il processo di grammaticalizzazione del participio passato (con valore aggettivale o nominale) di escluso, ancora in corso, non può certo dirsi concluso (come invece è accaduto per eccetto). Quindi oggi è decisamente minoritario l’uso di escluso (invariabile) come preposizione (e non avverbio), in casi come escluso la domenica. Decisamente maggioritario (43 mila contro 16 mila oggi in Google) l’uso aggettivale: esclusa la domenica (impossibile invece, oggi, eccetta la domenica). Quindi, oggi è decisamente più corretta (e accetta in tutte le varietà di lingua) la sua frase (esclusi eventi imprevedibili), piuttosto che l’altra (escluso eventi imprevedibili). Chissà, però, che tra cent’anni (più o meno, a grammaticalizzazione conclusa) le cose non si invertano.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se con piuttosto che si possano usare i due punti, come nel caso: «Piuttosto che: “L’occasione fa l’uomo ladro”, si dovrebbe dire…».
Inoltre, se nella frase “Avere un’amica, come riteneva necessaria la madre”, sia giusto mettere “necessaria” e non “necessario”.
RISPOSTA:
No, nel primo caso non si tratta di un elenco, ma di una frase legata, che come tale non richiede i due punti.
Nel secondo caso, l’accordo corretto è al maschile (necessario), perché l’aggettivo non si riferisce all’amica, bensì all’azione (e alla proposizione) avere un’amica.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sottoporvi un brano tratto da un dialogo cinematografico.
«Quando sarà svelato il contenuto delle carte, la verità verrà a galla una volta per tutte. Sarebbero i miei parenti, eventualmente, a correre i rischi maggiori. Alla fine, che cosa ne saprebbero? Io, nel frattempo, potrei essermi rivolta a un legale per tutelarmi».
La proposizione «potrei essermi rivolta…» è corretta?
Se, invece, fosse stato detto (o scritto) «sarei potuta rivolgermi…» il periodo complessivo sarebbe stato comunque corretto nonostante la modifica del suo senso generale?
RISPOSTA:
Sì, corrette entrambe (oppure «avrei potuto rivolgermi»). Con i verbi servili è ammesso sia l’ausiliare del servile, sia l’ausiliare dell’infinito che dipende dal servile. Inoltre, nel caso specifico, il passato (condizionale) può essere costruito sia per il servile (avrei potuto rivolgermi) sia per il verbo che da esso dipende (potrei essermi rivolta). Sorvolo sulle sfumature (opinabili e personali) associabili a ciascuna opzione. In questo caso la sintassi sembra comunque molto involuta, per rendere la forte carica epistemica (ipotetica e di proiezione degli eventi nel futuro: ancora non è accaduto nulla di quello che si sta preventivando) del testo. Il fatto che si usi il passato (nel futuro) indica una sorta di proiezione: se tutto ciò accadesse/accadrà, io da adesso a quando (non) accadrà (nel frattempo), potrei decidere di rivolgermi a un legale. Quindi, se io mi rivolgo al legale adesso, quando la cosa accadrà io mi ci sarò già rivolto. Proprio per questo la prima soluzione (che enfatizza per l’appunto il passato nel futuro del verbo rivolgersi) mi pare più felice rispetto a avrei potuto rivolgermi, che invece mi sembra schiacciare il senso sull’irrealtà, cioè sul fatto che avrei potuto ma non l’ho fatto. Ma, come ripeto, sono sfumature molto sottili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nel vostro archivio sono molteplici gli articoli inerenti all’alternanza, spesso ostica per i parlanti, tra il si passivante e il si impersonale. Alcuni di questi sono stati pubblicati di recente; approfitto pertanto dell’attualità dell’argomento per presentare una mia domanda.
Parto dall’esempio: Noi da giovani si mangiavano cibi genuini.
La costruzione è corretta? Quando il soggetto di prima persona plurale è, come nell’esempio, esplicito, ma anche quando è implicito purché facilmente ricavabile dal contesto, il parlante ha l’obbligo di scegliere il si impersonale, oppure anche il si passivante è possibile?
RISPOSTA:
L’esempio da lei proposto è il si di prima persona plurale tipico del toscano e non rientra dunque né nel si impersonale né nel si passivante. Tuttavia la sua frase presenta un errore: in (italiano regionale) toscano infatti il si ‘prima persona plurale’ si costruisce con la terza persona singolare (e non plurale) del verbo: «Noi si mangiava cibi genuini» = ‘noi mangiavamo cibi genuini’. A meno che la sua frase non costituisca un anacoluto (pure possibile nel parlato), con cambio di progetto da personale (noi) a passivante con valore di impersonale (si mangiavano).
Ecco poche regole per districarsi nell’uso del si impersonale/passivante. Se c’è un soggetto espresso, non si può utilizzare il si impersonale (altrimenti non sarebbe impersonale…). Se il verbo è intransitivo, e dunque non ammette la forma passiva, non si può utilizzare il si passivante (altrimenti non sarebbe passivante…). Nella pratica, il significato di entrambi i si è pressoché identico e l’incertezza di cui parla lei è dunque più teorica (e metalinguistica) che pratica.
Per esempio: in «si mangiavano cibi genuini» (senza soggetto espresso), il si è passivante (‘cibi genuini venivano mangiati’) ma il significato di fatto non cambia rispetto a un uso impersonale (o quasi): ‘qualcuno (o tutti, in generale) mangiava…’ .
Il si impersonale si costruisce soltanto con la terza persona singolare del verbo (si pensa, si dice, si teme, si arriva), mentre il si passivante ammette sia il singolare (si vede il mare, che può essere sia si passivante sia si impersonale), sia il plurale (non si mangiano cibi avariati). In caso di verbo intransitivo, come in si andava, è possibile soltanto la terza persona singolare. Nei verbi transitivi è ammessa sia la terza singolare sia la terza plurale (si mangia, si mangiano).
Insomma, nella produzione e nell’interpretazione degli enunciati grossi problemi, almeno per i madrelingua, non ve ne sono: il significato, infatti, sia per il si impersonale sia per il si passivante, di fatto è sempre impersonale (o quasi), come ripeto: qualcuno (o tutti in generale) va, mangia ecc. A essere ostico, quindi, non è l’uso, quanto l’analisi, che tutto sommato mi sembra un problema (molto) secondario.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se sia sempre errato inserire una virgola prima o dopo un complemento («Hai lasciato altre cose in macchina», «Qui, nevica», «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia», «Con il vocativo, ci va la virgola», «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania, ecc.), oppure prima del “che” («L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»).
Mentre sono certo che una frase del genere è agrammaticale: «Il gatto di Luca, è un persiano.», «È un persiano, il gatto di Luca.»
RISPOSTA:
L’uso della punteggiatura, poco sistematico nelle trattazioni grammaticali, risponde a una molteplicità di funzioni, almeno sintattiche, pragmatiche, testuali, espressive, stilistiche, mimetiche dell’intonazione.
Quindi in molti degli esempi da lei riportati la virgola può esserci, oppure no, a seconda del contesto e della sfumatura pragmatico-semantica da dare al testo. Vediamoli in dettaglio.
1) «Hai lasciato altre cose, in macchina»: la presenza della virgola prima di in macchina attribuisce a in macchina un particolare rilievo, per esempio chiarificatore: so che sai di aver lasciato molte cose, ma io ora mi sto riferendo in particolare a quelle che hai lasciato (o al fatto che le hai lasciate) proprio in macchina.
2) «Qui, nevica»: efficace nei casi di contrasto: qui, nevica, mentre da te in Sicilia immagino ci sia un sole che spacca, beato te!
3) «Parte anche lui dall’Australia, per poi arrivare in Cambogia»: la virgola prima di dall’Australia attribuisce particolare rilievo al luogo della partenza.
4) «Con il vocativo, ci va la virgola»… mentre col soggetto no.
5) «Andrò in Svizzera, partendo dalla Germania»: la virgola attribuisce pari importanza a entrambe le proposizioni.
6) «L’automobile di Luca è un vecchio catorcio, che quindi a volte può avere dei problemi»: con le relative la virgola ne segnala la natura esplicativa, anziché limitativa. Cioè, se c’è la virgola la relativa aggiunge un particolare accessorio, non determinante ai fini dell’identificazione di qualcosa, come in: «La macchina, che può avere dei problemi, è di Luca»: c’è solo una macchina, che è di Luca e che può avere dei problemi; «La macchina che può avere dei problemi è di Luca»: ci sono almeno due macchine, una con problemi (e di Luca) e l’altra no.
7) «Il gatto di Luca, è un persiano»: mai separare il soggetto dal predicato con una virgola, a meno che non si voglia mettere in evidenza il soggetto, come in «È un persiano, il gatto di Luca», che va benissimo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggo dal libro di una quotata scrittrice la seguente frase: «Mi ha raccontato che li abbracciava, a lui e a nonno, fra le lacrime e i singhiozzi…».
«Li abbracciava» è accusativo, ma subito dopo «a lui e a nonno» è dativo.
Chiedo: è da considerare un errore oppure quel dativo «a lui e a nonno» serve a rafforzare la frase ed è quindi accettabile?
RISPOSTA:
Il costrutto dell’oggetto preposizionale, come abbracciare a qualcuno, è diffuso negli italiani regionali, ma è senza dubbio da evitare in italiano standard, quindi in questo caso lo considererei, se non scorretto, quanto meno inappropriato, a meno che nel romanzo non si voglia riprodurre un parlato regionale. Non c’è dubbio che in molti casi i costrutti preposizionali servano a mettere in evidenza un sintagma, come nel caso di «a me non mi persuade» (comunque da evitare in un italiano non informale), ma in questo caso l’oggetto diretto è più che sufficiente a indicare la messa in rilievo, garantita dal pleonasmo pronominale della dislocazione a destra: «Li abbracciava, lui e nonno»:
Fabio Rossi
QUESITO:
Avrei bisogno di sciogliere questo dubbio:
1 Si sono cominciate a introdurre nuove regole.
2 Si è cominciato a introdurre nuove regole.
Sono entrambe frasi corrette?
RISPOSTA:
Sì, sono entrambe frasi corrette e significano la stessa cosa. La prima è costruita con il si passivante, e dunque letteralmente equivale a «Nuove regole hanno cominciato a essere introdotte». La seconda è costruita con il si impersonale: «Qualcuno ha cominciato a introdurre nuove regole». In Toscana quest’ultima frase avrebbe anche il significato di «Noi abbiamo cominciato a introdurre nuove regole».
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho un dubbio sulla coniugazione del verbo mangiare.
Se dico parlando di me stesso: se pensi che (io) non mangi il dolce ti sbagli…
È corretto riferendomi a me stesso dire “non mangi” o bisogna dire “non mangio”?
RISPOSTA:
Sono corrette entrambe le forme. Non mangi è congiuntivo e costituisce dunque l’opzione più formale, in una subordinata completiva; non mangio è indicativo e costituisce dunque l’opzione meno formale ma comunque corretta.
Fabio Rossi
QUESITO:
E’ giusto scrivere: “Quadri orario o quadri orari” , “Moduli orari o moduli orario”?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambe le soluzioni, in italiano. L’una, più tradizionale (quadri orari, moduli orari), tratta il secondo termine come aggettivale e dunque lo accorda col sostantivo precedente, mentre l’altra (più sul modello inglese, e dunque forse meno apprezzata in uno stile più tradizionale) tratta orario come sostantivo con ellissi della preposizione reggente: cioè quadro orario = quadro dell’orario. I sintagmi con omissione della preposizione (come anche, ad es., monte ore), ancorché ammissibili, hanno spesso un sapore tra il tecnologico e il burocratico sgradito ai palati più raffinati e pertanto, se possibile, potrebbero essere utilmente sostituiti dai costrutti più tradizionali (quadri orari, moduli orari, monte orario ecc.).
Fabio Rossi
QUESITO:
Quando il verbo essere viene usato in una costruzione tipo il fatto è che, dato che essere è un verbo copulativo, non è possibile che la proposizione introdotta dal pronome che sia un’oggettiva, è vero? Il fatto diventa il predicato nominale?
Prendiamo questo esempio: “Sono contento che sia andata così”. Qui abbiamo il verbo copulativo essere. Io è il soggetto, giusto? Contento sembra un predicato nominale, giusto? La proposizione dopo il che non può essere una soggettiva anche se il verbo nella prima frase è essere: come mai? È a causa del predicato nomiale contento o a causa del soggetto io? O è qualcos’altro?
Prendiamo questo esempio dal libro Il francese di Massimo Carlotto:
Si era convinto che quella bella ragazza non POSSEDESSE altro che il suo corpo (p. 9-10).
Sembra un’altra proposizione oggettiva (dopo che). Non riesco a capire come mai non è scritto “Si era convinto del fatto che quella bella ragazza non possedesse altro che il suo corpo”. Quale tipo di proposizione segue il che nella frase scritta da Carlotto?
RISPOSTA:
La copula non può reggere il complemento oggetto, quindi se la reggente è il fatto è o espressioni simili la subordinata è soggettiva. In effetti questa subordinata potrebbe rappresentare sia il soggetto del verbo essere (per esempio “Il fatto è che non voglio venire” = “Che non voglio venire è il fatto”), sia il completamento del predicato di cui fa parte il verbo essere (che non potremmo chiamare predicato nominale, visto che sarebbe formato dalla copula più un’intera proposizione); per semplicità, comunque, la consideriamo soggettiva (e in nessun caso oggettiva). Nella frase “Sono contento che sia andata così” la proposizione subordinata non può fare da soggetto del verbo essere: in questo caso il soggetto della reggente non può che essere io e il predicato nominale è sono contento. L’aggettivo contento può essere completato da un argomento preposizionale (che prende il nome di oggetto obliquo), per esempio sono contento del risultato, oppure da una proposizione argomentale (ovvero completiva) oggettiva. L’aggettivo convinto ha la stessa costruzione di contento: può reggere un argomento preposizionale (per esempio sono convinto della mia opinione) o una proposizione oggettiva, come nel suo esempio. Nella variante della frase sono convinto del fatto che… l’aggettivo convinto è completato dall’argomento preposizionale del fatto, il quale, a sua volta, regge una proposizione argomentale. Questa proposizione può essere classificata ancora come oggettiva, se consideriamo convinto che equivalente a convinto del fatto che, oppure (come farei io) dichiarativa, visto che è retta non da un verbo, ma dall’argomento di un verbo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se le seguenti frasi sono corrette per quanto riguarda la punteggiatura e la grammatica:
– Quest’estate mi sono svegliato alle tre di mattina per andare a Linate; qui ho preso l’aereo che mi ha portato a Roma.
– Arrivati, siamo saliti su un pullman per andare in centro, dove siamo arrivati alle ore 15:00.
– La casa era poco spaziosa, però ci siamo arrangiati, perché stavamo tutto il tempo in spiaggia.
– Siamo andati in spiaggia: era vuota e il mare era calmo.
– Purtroppo di pomeriggio non c’era il problema delle meduse, ma quello dei turisti, perché arrivavano in tanti.
– L’ottavo giorno, che era il più importante, perché saremmo saliti sul vulcano.
RISPOSTA:
Sì, tutte le frasi sono perfettamente corrette, sia nella punteggiatura sia nella grammatica e nel lessico.
Naturalmente, come quasi sempre accade soprattutto con la punteggiatura, sarebbero possibili anche alternative diverse:
– Quest’estate mi sono svegliato alle tre di mattina per andare a Linate. Qui ho
preso l’aereo che mi ha portato a Roma
– Per evitare la ripetizione di arrivati, si potrebbe eliminare il primo: Siamo poi saliti su un pullman per andare in centro, dove siamo arrivati alle ore 15:00. O, ancora più agilmente: Siamo poi andati in centro in pullman. Siamo arrivati alle 15:00.
– Purtroppo di pomeriggio non c’era il problema delle meduse ma quello dei
turisti, perché arrivavano in tanti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi una frase la cui correttezza mi è stata contestata a torto, secondo il mio parere: “Che sia la prima e l’ultima volta che vi permettete di agire in questo modo”. La frase corretta sarebbe: “Che
sia la prima e l’ultima volta che vi permettiate di agire in questo modo”.
Quest’ultima formulazione a me pare inaccettabile, comunque ci terrei molto a conoscere il vostro parere a riguardo.
RISPOSTA:
Come giustamente dice lei, la sua frase è corretta e non richiede affatto la sostituzione dell’indicativo col congiuntivo, che è tuttavia possibile. Essa, oltre, come la solito, a innalzare il livello diafasico della frase, le conferisce un valore potenziale: “che vi permettiate”, nel senso di ‘qualora pensaste di potervelo permettere un’altra volta’… Dato il senso della frase, tuttavia, questa sfumatura potenziale è del tutto superflua, perché di fatto “ve lo siete già permesso”.
Insomma: la sua è la versione migliore della frase e chi gliel’ha corretta mostra di non avere le idee chiarissime sul funzionamento dell’indicativo e del congiuntivo in italiano.
Fabio Rossi
QUESITO:
L’ambiguita’ fa parte della bellezza e della frustrazione della lingua italiana dato che la particella <> puo’ indicare diverse cose. Lo sapevo gia’.
Per evitare questi malintesi, che cosa puo’ consigliarmi? Devo evitare questo uso di ci nelle frasi che le ho girato o devo cambiare i miei interlocutori (scherzo).
Questo tipo di cosa mi succede abbastanza frequentemente anche se provo a fare pratica con gli italiani colti. A volte mi fa impazzire quando va cosi’. Vuol dire che la lingua italiana debba essere semplificata? Forse vuol dire che in questi giorni con la tecnologia, i bombardamenti delle informazioni, non c’e’ tempo per studiare bene la lingua italiana in Italia. Ne sono molto curioso.
Questo tipo di cosa succede anche tra le madrelingue? Immagino di si’ dato che la lingua e’ a volte ambigua. Potrebbe fare un’ipotesi per spiegarmi come mai due dei miei interlocutori non mi abbiano fatto una domanda per farmi chiarire quello che volevo dire con la particella ci???
RISPOSTA:
Come dice lei, l’ambiguità fa parte di tutte le lingue naturali del mondo. Se così non fosse, ci vorrebbe una quantità infinita di segni (parole, frasi ecc.) per esprimere un rapporto univoco segno / significato, ma la memoria umana non è fato per gestire l’infinito, pertanto ci si deve rassegnare alla polisemia (cioè al fatto che uno stesso segno, parola, frase, abbiano più significati) e all’ambiguità. Ambiguità che peraltro 99 volte su cento il contesto e la collaborazione tra gli interlocutori contribuiscono a limitare. Proprio per questo i suoi interlocutori, in quanto parlanti nativi e attivi, cioè collaborativi, non hanno avuto alcun problema a disambiguare, grazie al contesto, il suo enunciato.
Di casi come questi ne troverà a miliardi, in tutte le lingue del mondo, e non sono un male, bensì un bene delle lingue. Appunto perché consentono di risparmiare le risorse della nostra limitata memoria. La polisemia non ha nulla a che vedere né con lo studio, né con l’imperizia dei parlanti, né con la decadenza, o la semplificazione, delle lingue. Comunque, tutte le lingue tendono alla semplificazione delle risorse.
Quindi dorma pure sonni tranquilli e confidi nella forza del contesto e nello spirito collaborativo dei suoi interlocutori.
Per quanto riguarda (tra i miliardi) altri esempi possibili di polisemia di ci, nei vari contesti, pensi anche a un verbo pronominale come tenerci, che può indicare sia ‘avere interesse per qualcuno o qualcosa’, sia ‘tenere in un luogo’:
1) (riferito a una scatola): ci tengo (nel senso di ‘mi piace molto’)
2) ci tengo le sigarette.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho una domanda con l’uso della particella CI nelle frasi seguenti:
(1) Grazie per avermici portato. (ci = in questo posto, ci funziona come un avverbio di luogo)
(2) Una persona mi ha detto di essersi trasferita a Madrid senza aver trovato un lavoro.
Le ho risposto: Spero che tu CI abbia portato dei soldi.
Intendevo “a Madrid” per CI. E’ come dire” Spero che tu abbia portato li’ dei soldi.
Sto provando a pensare come un italiano. Quest’esempio e’ una sciocchezza ma provo a caprine di piu’ della ragione per cui suoni male. E’ una questione del verbo? E’ locuzione? Qualcos’altro?
So che non si dice “ci arrivo” per indicare a casa tua…(Ci arrivo ha il significato riuscire). Ma si dice semplicemente Arrivo, ma si puo’ dire “ci sono arrivato (ci = li’).”
Potrebbe farmi altri esempi (con altri verbi) in cui la particella CI non sembra corretta in una frase come un avverbio di luogo?
RISPOSTA:
Giusto l’esempio 1 e la sua interpretazione.
Anche l’esempio 2 va bene, però le sembra strano perché lì il ci tende a essere interpretato come ‘a noi’ (che peraltro ha la stessa etimologia dell’avverbio di luogo: lat. hicce ‘in questo luogo’, e poi per metonimia, ‘noi che siamo in questo luogo’). Dunque “suona male” non per via del verbo, né per via di “ci”, che è usato correttamente, ma per via del significato più comune di ci = a noi. Può comunque usare la frase esattamente come l’ha formulata lei, col significato di ‘lì’.
Può benissimo usare “ci arrivo” anche per indicare un luogo: “Come ci arrivi a casa mia?” “Ci arrivo con il treno”. Il significato di ‘riuscire’ è ancora una volta un significato traslato, metaforico, che non annulla assolutamente il significato locativo originario.
Come esempi, può immaginare tutti i casi in cui arrivarci indichi un luogo, come quello che le ho fatto poco fa. Per es. una frase come “Non è difficile arrivarci” è interpretabile soltanto in base al contesto. In un caso può significare ‘a lavoro, a casa tua ecc.’; in un altro caso può significare, nell’italiano informale, ‘non è difficile capire quello che ti sto dicendo’.
Fabio Rossi
QUESITO:
Se si dice: “L’esame è andato abbastanza bene” vuol dire che è andato meglio o un po’ meno bene di quando si dice: “L’esame è andato bene”?
È preferibile che il nostro esame vada bene o abbastanza bene?
RISPOSTA:
Il siciliano abbastanza non ha lo stesso significato dell’equivalente parola italiana. In italiano con abbastanza si indica di solito una quantità appena sufficiente, o di poco superiore alla sufficienza, cioè quanto basta, laddove il siciliano l’intende come quasi sinonimo di molto. Motivo per cui, se in Sicilia un esame passato abbastanza bene è lodevole, in italiano esso rappresenta un risultato mediocre. Insomma, in italiano è preferibile che l’esame vada bene, piuttosto che abbastanza bene.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se i verbi fraseologici e modali adottati negli esempi sotto indicati confliggano con le costruzioni nelle quali sono stati inseriti.
1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge.
RISPOSTA:
Non c’è un conflitto sintattico, bensì una ridondanza semantica, che invita a eliminare i modali e i fraseologici, in quanto il loro valore è già implicito nel sintagma reggente o nel contesto generale della frase:
1.L’idea di dover affrontare la platea mi spaventa: è chiaro che lo spavento sia legato a qualcosa che viene vissuto come un obbligo. Quindi meglio: L’idea di affrontare la platea mi spaventa.
2.Il dono di saper dipingere viene concesso a pochi eletti: è chiaro che il dono riguarda una abilità, una capacità, cioè il saper fare qualcosa. Quindi meglio: Il dono di dipingere [meglio ancora: il dono della pittura] viene concesso a pochi eletti.
3.La capacità di riuscire a trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara: se è una capacità, il senso del riuscire è implicito. Quindi meglio: La capacità di trasformare un’idea in un’opera compiuta è merce rara.
4.L’opportunità di poter parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me: opportunità è sinonimo di possibilità, quindi poter è del tutto pleonastico. Meglio: L’opportunità di parlare in pubblico costituisce una grande ricchezza per me.
5.Il pensiero di dover lasciar perdere mi affligge: il pensiero, cioè la preoccupazione, è legato proprio alla necessità, quindi dover è del tutto pleonastico. Meglio: Il pensiero di lasciar perdere mi affligge.
Fabio Rossi
QUESITO:
‘In questo letto si dormono sonni tranquilli’.
In questa frase è corretto dire che il “si” è passivante e non impersonale?
Il soggetto, infatti, è “sonni tranquilli” (= in questo letto vengono dormiti sonni tranquilli).
RISPOSTA:
Sì, il si in questo caso ha valore passivante. La forma attiva è il costrutto con oggetto interno: dormire sonno tranquilli, al passivo: sono dormiti sonno tranquilli, ovviamente del tutto innaturale e impossibile, in questa forma, in italiano. Come sempre, il confine tra il si passivante e il si impersonale è molto labile, dal momento che i costrutti passivi servono proprio, spesso, a mascherare il soggetto, cioè nel caso di espressioni impersonali, come in questo caso: chiunque (cioè un soggetto generico, impersonale) può dormire sogni tranquilli in questo letto.
In conclusione: è un si passivante con valore impersonale.
Fabio Rossi
QUESITO:
Leggendo una raccolta di indovinelli per adolescenti ho trovato questa frase:
Un re decide di offrire una grande somma di denaro al suddito che gli racconti una bugia “intelligente”.
Mi potreste spiegare il perché è stato usato il congiuntivo con il verbo raccontare?
RISPOSTA:
Il congiuntivo è qui necessario perché conferisce alla relativa una sfumatura ipotetica che altrimenti, con l’indicativo, si perderebbe. Il congiuntivo non ha a che vedere con il verbo raccontare, bensì, per l’appunto, con la relativa. Se il verbo fosse al modo indicativo (che gli racconta una
bugia “intelligente”), vorrebbe dire che il suddito effettivamente gli racconta una storia intelligente e il re lo paga. Invece il re ancora non ha pagato il suddito, perché ancora non sa se ne troverà uno in grado di raccontargli una storia da lui ritenuta “intelligente”. Ed è proprio questa incertezza (troverà un suddito? Saprà raccontargli una storia? Sarà la storia ritenuta intelligente dal re oppure no?) che viene espressa solo grazie al modo congiuntivo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo chiedervi alcuni consigli per riformulare una frase che vorrei usare in due testi diversi. Io ho provato a riformularla, però non so se possa risultare un tantino ripetitiva; perciò vi chiedo se posso riscriverla meglio. Inoltre volevo sapere se il termine suddetto e la locuzione [non so se sia giusto definirla così] di cui sopra possano essere utilizzati per far riferimento a quanto descritto in precedenza, o se fossero meglio altri termini, come sopra descritte o sopracitate.
1a) Svolgi tutte le azioni di cui sopra in modo disinvolto e deciso, mostrandoti disinteressata e noncurante a tutto ciò che ti sta intorno.
1b) Esegui tutte le suddette azioni con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a tutto ciò che ti sta attorno.
RISPOSTA:
Entrambe le frasi da lei proposte vanno bene, con preferenza per la seconda versione (con disinvoltura è sicuramente più agile, rispetto a in modo disinvolto). Sono però forse proprio quel suddetto e di cui sopra a renderle un po’ troppo burocratiche. Non si potrebbero eliminare? in fondo, se qualcosa è stato già detto non c’è bisogno di sottolinearlo: in quanto già detto, il lettore è in grado da sé di recuperarlo.
Propongo pertanto la seguente versione ulteriormente semplificata della frase:
Svolgi tutte le azioni [oppure: queste azioni] con disinvoltura e decisione, mostrandoti distaccata e indifferente a ciò che ti sta attorno.
Ripeto: suddetto e di cui sopra (sì, è una locuzione aggettivale) sono corretti e vanno bene per esprimere qualcosa che è stato già detto in precedenza, ma si confanno meglio a uno stile burocratico che a uno medio, piano e narrativo. In quest’ultimo caso, possono essere omessi oppure sostituiti con locuzioni più agili quali “di cui abbiamo già parlato”, “di cui s’è già detto”, “già nominate”, “già descritte” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Su un bando di un concorso artistico ho letto il seguente passaggio:
“Elaborati con cui si sia partecipato a precedenti competizioni non sono ammessi dal presente regolamento”.
Quel si sia dovrebbe ricondursi a un uso impersonale e, se non sbaglio, come tale dovrebbe ammettere l’ausiliare essere.
Per prima cosa: la frase letta sul bando è costruita bene?
Poi: l’uso, in un esempio del genere, dell’ausiliare avere sarebbe stato un errore grave? Nelle costruzioni impersonali l’ausiliare è sempre e comunque essere?
RISPOSTA:
La frase da lei riportata è costruita bene. La costruzione impersonale con il pronome si richiede sempre l’ausiliare essere. L’ausiliare avere può emergere in produzioni molto trascurate di parlanti il cui dialetto prevede tale costruzione; essa va considerata scorretta.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
La frase
a) “Si sarebbero voluti far guidare dal leader del partito”
è equivalente (e quindi corretta, anche se meno elegante) di
b) “Avrebbero voluto farsi guidare”
o
c) “Avrebbero voluto essere guidati”?
RISPOSTA:
La frase a) è semanticamente equivalente alla b), rispetto alla quale si distngue soltanto per l’anticipazione del pronome si, che provoca il cambiamento di ausiliare. L’anticipazione del pronome (o risalita del clitico) è effettivamente una scelta che abbassa leggermente la formalità della frase. La c) è anche molto simile alle altre due, ma la sostituzione di farsi guidare con essere guidati produce un cambiamento di significato: essere guidati è più neutrale di farsi guidare, che implica un maggiore grado di dipendenza del soggetto dalla guida.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se questa espressione è corretta: “È cominciata male ed è finita peggio”. È possibile anche dire: “Ha cominciato male ed ha finito peggio”? Istintivamente vedrei meglio la prima espressione se il soggetto sottinteso fosse una situazione, mentre vedrei meglio la seconda se il soggetto sottinteso fosse una persona.
RISPOSTA:
L’espressione cristallizzata è quella con l’ausiliare essere. L’altra variante non è scorretta, ma non ha il valore idiomatico proprio della prima e, inoltre, ha un significato leggermente diverso: è cominciata significa ‘ha avuto inizio’ e sottintende un soggetto come la cosa, la situazione; ha cominciato significa ‘ha dato inizio’ e sottintende un soggetto animato, oltre che un complemento oggetto come la cosa, la situazione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione salutamelo in sostituzione di salutalo a nome mio può essere considerata corretta anche in un linguaggio di registro alto o se va considerata come una espressione informale.
RISPOSTA:
Si suppone che in un contesto che richieda un registro alto gli interlocutori si diano del lei, quindi la variante più formale sarebbe lo saluti a nome mio, o persino la prego di porgergli i miei saluti, e così via. Salutalo a nome mio, quindi, si situa a metà strada tra soluzioni più articolate come queste e salutamelo, che è una scelta di media formalità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
vorrei proporvi queste tre parole: sollecito, solerte e alacre. Per quanto ne so io, sollecito e alacre sono sinonimi di veloce, pronto nell’agire, quindi i termini sopracitati si riferiscono alla prontezza nell’agire e nulla dicono circa la qualità dell’azione, mentre solerte non ha a che fare con la velocità della risposta bensì con la qualità, l’accuratezza dell’azione. Se ciò fosse vero io potrei tranquillamente dire: “Costui ha agito con sollecitudine (o alacremente)” ma “Il lavoro svolto è di scarsa qualità (cioè non è svolto con solerzia)”. Mi capita sempre più spesso però di sentire che il termine solerte è usato come sinonimo di alacre o sollecito.
RISPOSTA:
La semantica lessicale è l’ambito della lingua più difficile da fissare e più soggetto al cambiamento nel tempo. Un punto fermo nell’individuazione del significato di una parola è fornito dall’etimologia, che, però, deve essere valutata con cautela, proprio perché i significati cambiano nel tempo. Sollecito viene dal latino sollicitus, a sua volta composto di sollus ‘tutto’ e citus ‘agitato’. Questo aggettivo, in linea con la sua etimologia, indica una persona che agisce con velocità, ma anche con cura e diligenza, quindi che non sacrifica la qualità alla velocità. Può essere riferito anche a un’azione o un comportamento. Lo stesso costituente sollus è in solerte, unito ad ars ‘arte’: una persona solerte agisce a regola d’arte, rispettando tutte le regole previste, compresa la velocità di esecuzione; un’azione solerte, a sua volta, è compiuta velocemente e a regola d’arte. Come si può vedere, sollecito e solerte sono vicini nel significato; li distingue una sfumatura, che è quella individuata da lei: sollecito enfatizza l’aspetto della velocità (coerentemente con il costituente citus), mentre solerte quello della diligenza (coerentemente con ars). Alacre è dal latino alacer ‘allegro’, da cui proviene anche allegro, che ne è, quindi, l’allotropo popolare. Il dizionario GRADIT elenca, tra i sinonimi di questo aggettivo, sia solerte sia sollecito; anche questo, però, si distingue dagli altri per una sfumatura specifica: più che al modo di compiere un’azione, si riferisce all’atteggiamento, persino al carattere, di chi la compie. Alacre, insomma, è una persona dal carattere attivo, vivace, operativo, a prescindere dalla singola azione compiuta; non a caso, questo aggettivo, diversamente dagli altri due, non si può associare a un’azione, ma può solo riferirsi a una persona.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Gradirei sapere se è possibile usare i pronomi lui, lei, loro riferendoli a cose o ad animali. Mi suonerebbe piuttosto strano riferirmi ad un gatto usando il pronome esso (o essa se fosse una gatta) o essi se si tratta di più animali. Lo stesso vale per animali considerati, più o meno a torto inferiori come, per esempio, gli scarafaggi. Così pure mi suonerebbe male parlare di un mobile usando il pronome esso anzichè lui o di più mobili servendomi del pronome essi anzichè usare loro.
RISPOSTA:
I pronomi esso, essa, essi, esse sono usati preferibilmente in riferimento a oggetti inanimati (anche se non è escluso l’uso riferito a esseri animati). Il caso degli animali è problematico, perchè gli animali sono esseri animati, ma generalmente considerati non come individui, bensì come “copie” dello stesso prototipo (per quanto questa convinzione sia discutibile). La scelta del pronome per gli animali, pertanto, è delegata alla sensibilità del parlante, e non è soggetta a una regola precisa; spesso i parlanti sono indotti a usare lui, lei, loro in riferimento ad animali domestici, con i quali hanno un legame affettivo, e negli altri casi esso, essa, essi, esse, oppure questo ecc. o, quando possibile, nessun pronome o alternative al pronome, come la ripetizione del nome che definisce il genere dell’animale. Va anche detto che esso ;e varianti sono divenuti in generale rari in italiano, per cui in ogni caso i parlanti cercano modi per evitarli.
L’uso di esso e varianti in riferimento a mobili o altri oggetti inanimati non crea nessun problema, a parte, appunto, l’avversione per il pronome ormai raro, a cui vengono preferite sempre alternative come i pronomi dimostrativi, sintagmi nominali o l’omissione.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Di che tipo sono le seguenti proposizioni introdotte da che, e come mai la prima è costruita con l’indicativo e la seconda con il congiuntivo?
(1) Il lato positivo è che è andata bene.
(2) Ciò che conta è che io riesca a uscire di casa.
RISPOSTA:
Le due proposizioni sono soggettive; possono essere interpretate, infatti, come il soggetto del verbo essere della reggente. La scelta del modo verbale in queste proposizioni, come anche nelle altre completive, è legata a ragioni prima di tutto stilistiche: il congiuntivo è più formale dell’indicativo. Entrambe le proposizioni possono, infatti, essere costruite con l’indicativo e il congiuntivo: “Il lato positivo è che sia andata bene”; “Ciò che conta è che io riesco a uscire di casa”. Oltre alla ragione stilistica, altri fattori possono spingere a usare l’indicativo o il congiuntivo. Primo fra tutti è la cristallizzazione dell’uso, cioè l’abitudine dei parlanti di costruire una certa costruzione tipica sempre allo stesso modo: nella prima frase, per esempio, il lato positivo è che somiglia alla costruzione tipica è che o il fatto è che, che normalmente sono seguite dall’indicativo. Il congiuntivo, inoltre, può veicolare, in alcuni casi, una sfumatura di non fattualità, ovvero di eventualità, possibilità, incertezza: nella seconda frase, per esempio, che io riesco a uscire sarebbe facilmente interpretato come la constatazione del fatto che il parlante può effettivamente uscire; che io riesca a uscire, invece, sarebbe interpretato come la proiezione della possibilità nel futuro.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sono chiesta spesso se verbi come “aumentare“, “crescere“, “diminuire“ e simili si prestano alla formazioni delle costruzioni correlative.
Ecco due esempi:
“(Tanto) più la materia prima scarseggia, (quanto) più i prezzi al dettaglio crescono“.
“(Tanto) più l’inflazione aumenta, (quanto) più il potere d’acquisto diminuisce“.
RISPOSTA:
Sì, si prestano come tutti gli altri verbi, e le frasi da lei portate a esempio sono perfettamente costruite e adatte a tutti gli usi. Sicuramente le costruzioni correlative, specialmente se basate sulla contrapposizione (più A sale, più B scende) richiedono un certo sforzo cognitivo, per essere comprese. Sforzo cognitivo che oggi sembra creare problemi sempre maggiori nei lettori. Il problema, però, sta in quei lettori (o meglio, in un mondo che sembra relegare la lettura, lo studio e la riflessione agli ultimi posti e che pensa che ogni testo debba essere ipersemplificato, addomesticato, reso immediatamente digeribile senza alcuno sforzo, ovvero in una società che a forza di semplificare tutto quello che scrive giungerà presto a instupidire milioni, miliardi di lettori, scrittori, utenti delle lingue), non certo nella lingua italiana, né nei costrutti correlativi, né nel significato di certi verbi.
Mi scuso per la lunghezza della parentesi, volutamente lunga e complicata, per dimostrare come la semplicità non sia sempre un valore: la realtà, il mondo, le lingue sono fatti di pensieri complessi, che se troppo semplificati si svuotano di senso. Viva la complessità, in tutte le sue forme!
Fabio Rossi
QUESITO:
Porto alla vostra attenzione il seguente testo:
“Sarebbero scattate le sanzioni, se si fossero superate le cinque infrazioni annuali del regolamento interno“.
Il si passivante è corretto? “Se si fossero superate“ equivale cioè a “se fossero state superate“? Quest’ultima forma sarebbe stata sostituibile all’altra, senza differenze di rilievo, nell’esempio menzionato?
RISPOSTA:
Sì, il si passivante è perfettamente corretto ed equivalente alla forma passiva, che in questo caso andrebbe ugualmente bene nell’esempio da lei fornito, senza scarti stilistici rilevanti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale affermazione delle seguenti è corretta?
Piantare in asso.
Piantare in Nasso.
Io penso tutte e due.
La prima si riferisce al gioco della carte.
(l’asso come carta che in molti giochi ha valore “uno”)
La seconda alla mitologia greca
RISPOSTA:
L’unica forma corretta è “piantare in asso”, che ha però un’etimologia che non ha nulla a che vedere col gioco delle carte. Essa infatti deriva dal mito di Arianna piantata “in Nasso” da Bacco. L’espressione è state reinterpretata popolarmente, mediante erronea segmentazione di parole, in nasso > in asso. Oggi, tuttavia, la forma originaria ha del tutto perso il suo valore idiomatico, che è rimasto soltanto proprio della seconda (cioè quella originariamente sbagliata).
Quindi, concludendo, oggi NON si può dire “piantare in Nasso”, MA si può dire SOLO “piantare in asso”, sebbene l’origine della seconda espressione sia la prima. L’etimologia spiega l’origine delle parole MA NON ne giustifica l’uso odierno. Se così fosse, oggi il significato di casa sarebbe “baracca” e il significato di duomo sarebbe “casa”, perché questi ultimi, in effetti, erano i significati delle antiche parole latine casa e domum. Le parole e le frasi cambiano, come cambiano i loro significati.
Fabio Rossi
QUESITO:
E’ risaputo che l’imperativo di “dire” è di’( con l’apostrofo) in quanto ci troviamo di fronte al troncamento di “dici”. Questo “dici” da dove esce? È forse una espressione italiana arcaica?
RISPOSTA:
No, in italiano, di ieri e di oggi, l’imperativo del verbo dire, che deriva da dic (e non dice) latino, è sempre stato di’ (scritto con varie grafie, sebbene oggi l’unica standard sia quella apostrofata). Dunque dici NON è apocope dell’italiano dici, che non esiste (o quanto meno non è contemplato dal sistema verbale dell’italiano standard)! Dici, pure attestato in italiano (substandard) di ieri e di oggi può avere varie spiegazioni (ogni errore, o se preferisce ogni alternativa substandard, ha una sua spiegazione, cioè una sua regola, o più d’una):
- è un tratto dialettale: in Sicilia, molti, quasi tutti, dicono dici, come imperativo, perché c’è nel loro dialetto. Lo stesso dicasi per il napoletano. E’ insomma un tratto di italiano regionale.
- Può essere un’erronea ricostruzione della forma di’, avvertita come apocope da dici (che però, come già detto, non è apocope dall’italiano, bensì dal latino dic, che perde solo la c, non ce/ci, che non esistono).
- Erronea estensione analogica degli imperativi delle altre forme verbali: dunque dici come leggi, prendi ecc., uguali alle seconde persone dell’indicativo.
- Dici può anche essere, in certi contesti, un’estensione dell’indicativo usato come imperativo (cioè il cosiddetto indicativo iussivo): “Ora la finisci e mi porti i compiti” (anziché “Finiscila e portami i compiti”). Ovviamente, se fosse questo il caso (per es. “ora mi dici tutta la verità”), dici non sarebbe un errore.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’affermazione “è invalso l’uso di dire ecc.” è corretta o meno. Controllando il significato di “invalso” ho notato che vuol dire “entrato nell’uso”, quindi l’affermazione suddetta dovrebbe essere ridondante.
RISPOSTA:
Sebbene il solo invalso (cioè ‘diffuso’) sia la forma più usata un tempo, oggi la locuzione “invalso nell’uso” (oppure “è invalso l’uso”) è talmente comune da potersi considerare a tutti gli effetti corretta e identica al solo invalso, come dimostrano autorevoli esempi facilmente reperibili online: lo stesso sito Treccani alterna, nelle varie opere lessicografiche, tra un uso (il primo, maggioritario) e l’altro (minoritario ma pure attestato).
Fabio Rossi
QUESITO:
a) I negozi che sono vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.
Credo che entrambe le soluzioni siano corrette.
Vorrei sapere se rendendo la frase ellittica del primo predicato il parlante possa
comunque decidere quale soluzione adottare.
b) I negozi vicino/vicini a casa mia praticano dei prezzi competitivi.
RISPOSTA:
Entrambe le soluzioni vanno bene, e sono chiare, sia nella versione con verbo espresso, sia nella versione nominale, cioè priva di verbo.
Vicino a è locuzione preposizionale costruita con l’avverbio (come tale invariabile) vicino + la preposizione a.
Vicini è invece l’aggettivo (e come tale flesso) costruito con la preposizione a (ovvero un aggettivo che richiede un argomento preposizionale). Non c’è alcun motivo per preferire l’una costruzione all’altra.
Fabio Rossi
QUESITO:
Da giorni mi tormenta l’analisi di questo periodo:
“Quanto più egli ha fatto al di là del proprio merito, tanto più è ritenuto degno
di ammirazione”.
È corretto dire che si tratta di due principale legati dalla correlazione “quanto
più… tanto più “?
RISPOSTA:
Sì, sono due proposizioni coordinate dalla coppia di congiunzioni correlative quanto, tanto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se la seguente frase è corretta: “Io penso che, in quel caso, lui lo aspetterebbe fintantoché non fosse ritornato”. Mi riferisco in particolare a quel “fosse ritornato”.
RISPOSTA:
Sì, è corretta, ma sono possibili anche altre alternative, tutte parimenti corrette: “fintantochè non ritornasse”; “fintantochè non sarebbe ritornato”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se può essere corretta l’espressione “avrebbe voluto andare” al posto dell’usuale “sarebbe voluto andare”.
RISPOSTA:
Sì, è corretta, perché nei costrutti di infinito dipendente da verbo servile la grammatica italiana prevede la doppia possibilità: o si usa l’ausiliare del servile (avere voluto), oppure quello del verbo all’infinito (essere andato).
Fabio Rossi
QUESITO:
a) “Bisogna sempre impegnarsi, sia che si tratti di lavoro, sia che si tratti di
occupazioni extralavorative.“
Per snellire la parte correlativa della frase, mi sono venute in mente alcune
soluzioni, che vorrei proporvi per una valutazione.
b) “Bisogna sempre impegnarsi, che si tratti di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“
c) “Bisogna sempre impegnarsi, che si tratti (o) di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“
d) “Bisogna sempre impegnarsi, sia che si tratti di lavoro o di occupazioni
extralavorative.“
Le soluzioni sono tutte accettabili, considerando anche quella originaria? Quale
consigliereste per uno scritto formale? E infine, a proposito dell’esempio numero
due, la prima congiunzione è preferibile specificarla oppure ometterla?
RISPOSTA:
Le soluzioni vanno tutte bene, tranne la d): è sconsigliabile alterare la serie correlativa sia… sia… o sia… che… utilizzando un’atra congiunzione (o).
Per quanto riguarda la c), essa è preferibile nella versione senza la prima o, perché la o è in certo qual modo pleonastica, visto che il senso della correlazione è introdotto già da “che si tratti”.
In conclusione, in uno scritto formale vanno bene la a), la b), la c1, senza particolari predilezioni.
Fabio Rossi
QUESITO:
il mio dubbio riguarda una frase del tipo: “Tutti quelli che si fossero schierati
dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze”. Potrebbe
essere riscritta utilizzando il condizionale anche nel gruppo del soggetto?
(“Tutti quelli che si sarebbero schierati dalla sua parte, sarebbero andati
incontro a terribili conseguenze”)
Se sì, sarebbero entrambe valide e corrette? Una sarebbe preferibile all’altra?
RISPOSTA:
Il condizionale da lei proposto è al limite dell’inaccettabilità in quanto la frase è come se fosse un periodo ipotetico: Se si fossero (e non sarebbero!) schierati dalla sua parte, sarebbero andati incontro a terribili conseguenze. Diverso il caso di una frase costituita da un’unica proposizione: Si sarebbero schierati dalla sua parte. In quest’ultima caso, infatti, il condizionale passato indica il valore potenziale o di futuro nel passato (sappiamo che sarebbe successo questo). Questa carica potenziale, però, non può occultare la sintassi che, in caso di periodo ipotetico (o di strutture analoghe, come quella da lei proposta), impone il congiuntivo, e non il condizionale, in protasi.
Fabio Rossi
QUESITO:
vorrei riallacciarmi a una frase inviata qualche settimana fa ´´L’otto febbraio
era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Come mi avete spiegato, il contesto è passato.
Ma se invece le due riunioni non fossero ancora avvenute e se fossimo ad esempio
ai primi di gennaio, il pensiero generale sarebbe: ´´chiunque parteciperà
(partecipi/partecipasse) alla riunione del 23 gennaio, sa che ci sarà anche quella
dell´otto febbraio´´
Sarebbe allora possibile scrivere così:
La riunione dell’otto febbraio è(sará/sarebbe) prevedibile da chiunque
assisterà(assisti/assista/assistesse/assisterebbe) alla seduta del ventitré
gennaio.
Per esprimere, invece, il futuro nel passato andrebbe bene la seguente frase?
´´La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile da chiunque avrebbe
(avesse) assistito alla seduta del ventitré gennaio´´.
RISPOSTA:
Cominciamo dalle prime alternative proposte nella domanda. L’unica versione totalmente corretta, rispettosa cioè delle regole della consecutio temporum, è la seguente: La riunione … è prevedibile da chiunque assista (oppure assisterà) …
Sulle altre si può osservare: assisti non è italiano (è cioè un errore di italiano popolare). Sará prevedibile può andare ma è inutile (se è prevedibile è ovvio che è un evento non ancora avvenuto). Sarebbe prevedibile è inutile (sempre perché la carica eventuale è già inclusa nell’aggettivo prevedibile).
Assistesse non va bene perché non è un rapporto di contemporaneità nel passato. Assisterebbe è scorretto perché la frase dipendente qui richiede il congiuntivo, come se fosse un periodo ipotetico: se assistesse all’incontro…
Passiamo all’ultima frase. Visto che il 23 gennaio è prima dell’8 febbraio, in questo caso si tratta di anteriorità, non di posteriorità, quindi la scelta corretta è: La riunione dell’otto febbraio sarebbe stata prevedibile [solo questo è il futuro nel passato] da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Gli chiese di darle delle lezioni, ma lui preferì “dirottarla” verso un altro insegnante”. La mia domanda è: quel dirottarla, posto fra virgolette, è da considerarsi corretto oppure no?
RISPOSTA:
Dirottare ha, come accezione metaforica, proprio quella di “convogliare in altra direzione”, quindi va benissimo usarlo senza virgolette, dal momento che si tratta di un uso perfettamente italiano. L’uso delle virgolette, ancorché un po’ ingenuo, non è però da considerarsi scorretto, per segnalare ulteriormente questo scarto semantico rispetto al significato meno figurato.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei sapere se l’espressione “credo che Dio esiste” in sostituzione di “credo che Dio esista” (che ritengo esatta) è corretta o meno. Nel primo caso (“credo che Dio esiste”)quel “credo” non ha il significato di “suppongo”, ma quello di “sono fermamente convinto” e quindi mi sembrerebbe che anche questa via espressiva possa essere accettata.
RISPOSTA:
Su questo problema del congiuntivo/indicativo in dipendenza da credo, e anche sull’esempio specifico, può leggere un libro che dirime la questione in modo chiaro: S. C. Sgroi, Dove va il congiuntivo? Ovvero il congiuntivo da nove punti di vista, Torino, Utet, 2013. In breve: l’indicativo può sempre sostituirsi al congiuntivo, in italiano. La differenza non risiede nel valore di dubitatività del congiuntivo, rispetto a quello di certezza dell’indicativo, bensì nel maggior grado di formalità del congiuntivo rispetto all’indicativo.
Quindi credo che Dio esiste/a sono entrambe frasi corrette e non hanno nulla a che vedere con l’ipotesi o la certezza. Nel senso che il verbo credere può valere tanto ‘essere sicuri’, quanto ‘ipotizzare’ indipendentemente dal modo verbale che segue, ma solo in base al contesto.
Fabio Rossi
QUESITO:
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.
La lettura di questa frase all’interno di un romanzo, mi ha lasciato alquanto perplessa.
È corretta o l’autore/traduttore ha preso un abbaglio?
Mi è venuto spontaneo formulare due composizioni alternative, che vorrei sottoporre al vostro vaglio.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne avuto compiuti trenta da qualche giorno.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne compiuti trenta da qualche giorno.
Mi rendo conto che quest’ultima alternativa potrebbe risultare un po’ “pesante“, ma sarebbe grammaticalmente accettabile?
RISPOSTA:
Nessuno degli esempi riportati è corretto. Le uniche versioni corrette sono le seguenti:
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne compiuti trenta da qualche giorno.
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella poteva averne avuti trenta da qualche giorno.
In italiano infatti il passato di compiere è ho compiuto, non certo ho avuto compiuto/i.
Per lo stesso motivo, le alternative corrette delle frasi da lei proposte sono le seguenti:
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella potrebbe averne compiuti (o averne avuti) trenta da qualche giorno.
-
Io avevo vent’anni, mentre mia sorella avrebbe potuto averne (o compierne) trenta da qualche giorno.
Le ultime due frasi sono comunque troppo faticose (soprattutto la seconda, che, con quel condizionale passato riferito a potere sembra escludere, contraddittoriamente, l’ipotesi dei trent’anni): per esprimere l’eventualità del fatto (cioè l’ipotesi sull’età della sorella), basta o il verbo potere o il condizionale passato, non c’è bisogno di usarli entrambi (il troppo stroppia).
Il motivo dell’errore di avere avuto compiuti in luogo di avere compiuti (nessun errore è immotivato e ogni errore segue sue proprie regole) può essere duplice:
1) lo/la scrivente si confonde tra due possibili costrutti, che combina erroneamente: A) ho trent’anni / B) ho compiuto trent’anni. La confusione è incoraggiata dalla sintassi complessa data dalla formulazione di un’ipotesi fatta su un evento del passato.
2) lo/la scrivente è siciliano/a e dunque tende a preferire costrutti sintetici col participio passato che ritiene italiani mentre invece sono solo regionali. Per es. molti siciliani (quasi tutti) sono persuasi che “come vuoi cucinata la carne”, o “che cosa vuoi regalato per il compleanno” sia costrutti italiani, mentre invece sono validi soltanto in alcune aree regionali. In italiano si dice: “come vuoi che cucini la pasta” e “che cosa vuoi che ti regali (o per/come regalo) per il compleanno”.Fabio Rossi
QUESITO:
Le frasi introdotte da “non è un caso che“ si possono costruire anche con il modo indicativo? Personalmente, ho sempre e soltanto adoperato il congiuntivo, ma effettuando una consultazione in rete, ho riscontrato che l’indicativo spopola, anche in seno ad autori di indubbia fama.
Vorrei inoltre domandarvi se questo sintagma accetta tutti i tempi del congiuntivo, oppure se sussistano delle limitazioni d’uso.
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Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.
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Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.
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Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.
A proposito di quest’ultimo esempio, quale dei due tempi è da preferire? Potrebbero essere ammessi entrambi?
RISPOSTA:
Come quasi sempre accade in italiano, le ragioni per preferire il congiuntivo all’indicativo solo esclusivamente di tipo diafasico, non sintattico. Detto in parole più semplici: l’indicativo al posto del congiuntivo va quasi sempre bene, fin dalle origini dell’italiano, solo che conferisce al testo un livello di formalità più basso rispetto al congiuntivo. Pertanto, in tutti i suoi esempi retti da non è un caso che (o se) va bene anche l’indicativo, che è però più informale.
Le regole della consecutio temporum sono sempre le stesse: presente per contemporaneità nel presente tra le due proposizioni, imperfetto per contemporaneità nel passato, passato per anteriorità dipendente dal presente, trapassato per anteriorità dipendente dal passato. Questo a rigore, anche se poi in questo come in altri casi è ammessa una certa flessibilità, data anche dalla reggente che di fatto si comporta quasi come un avverbio o un complemento (si è cioè quasi grammaticalizzata: non è un caso che/se = non a caso).
Veniamo ora al commento dei suoi casi specifici uno per uno.
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Non è un caso che la maggioranza dei tifosi romanisti risieda nella capitale stessa.
Come già detto, risieda rappresenta la scelta più formale, risiede quella meno formale ma altrettanto corretta.
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Non è un caso che all’epoca il nostro insegnante di spagnolo parlasse correntemente anche il catalano.
parlasse formale, parlava informale. Per quanto riguarda il tempo verbale, l’imperfetto in questo caso non si motiva per la contemporaneità nel passato, visto che siamo qui in regime di anteriorità in dipendenza dal presente, bensì dalla natura continuativa, e non puntuale dell’azione: lo parlava abitualmente, non una volta soltanto. Infatti se usassimo il passato (abbia parlato / ha parlato) il senso della frase cambierebbe: lo ha parlato una sola volta, in un momento specifico.
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Non è un caso che nel lontano 1984 il presidente del consiglio avesse sconfessato/abbia sconfessato pubblicamente il suo partito.
Meglio abbia sconfessato (anteriorità, in dipendenza dal presente: non è un caso), ma avesse sconfessato non può dirsi scorretto. Il trapassato (sia indicativo sia congiuntivo) oggi sempre più spesso può sostituirsi al passato, per motivi non semplicissimi da individuare.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “Sei talmente ingenuo che non ti accorgeresti di essere in una dittatura, nemmeno quando, appeso a testa in giù, CREDERESTI di avere il cielo sotto i tuoi piedi” quando può reggere il condizionale o era indispensabile CREDESSI?
RISPOSTA:
Nella sua frase quando equivale a se, quindi introduce una proposizione ipotetica. Tale proposizione rifiuta il condizionale, in quanto esprime la condizione al cui avverarsi un altro evento avviene, mentre il condizionale esprime proprio l’evento condizionato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretto scrivere fuori dal o fuori del?
RISPOSTA:
La forma comune è fuori dal (e fuori dallo, dalla ecc.); fuori di si usa soltanto in alcune espressioni cristallizzate, nelle quali non si mette l’articolo, come fuori di casa e fuori di testa (ed equivalenti, come fuori di zucca, di melone ecc.). Con gli avverbi di luogo qui, qua, lì, là sono possibili sia fuori da sia fuori di.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei sapere quale fra queste due espressioni è quella corretta (oppure se lo sono entrambe): “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” oppure “Se io volessi che tu lo faccia”.
RISPOSTA:
Sono corrette entrambe. A rigore, secondo la consecutio temporum, sarebbe migliore “Se io volessi che tu lo faccia”, dal momento che si suppone che il rapporto tra l’azione del volere e quella del fare sia di contemporaneità nel presente. Il fatto che ci sia l’imperfetto congiuntivo in volessi non ha a che vedere col tempo dell’azione bensì con la sua eventualità.
Tuttavia anche “Se io volessi (adesso) che tu lo facessi (adesso)” non può dirsi scorretto. Infatti, benché l’imperfetto congiuntivo serva di norma a indicare la contemporaneità nel passato, in dipendenza dal verbo volere (se quest’ultimo è usato al condizionale) si preferisce di solito l’imperfetto, piuttosto che il presente, congiuntivo: “vorrei che tu lo facessi”, meglio di “vorrei che tu lo faccia”. Ne ha parlato Luca Serianni e più di un quesito di DICO è dedicato a questo fenomeno. Dato che nel suo caso l’eventualità del verbo volere non può essere resa dal condizionale (perché ci troviamo in protasi di periodo ipotetico), essa si esplica comunque col congiuntivo, dal quale dunque, trattandosi del verbo volere, può in questo caso dipendere l’imperfetto, anziché il presente, benché ci si stia riferendo al presente.
Fabio Rossi
QUESITO:
“Ha tanta generosità il padre, quanto attaccamento al denaro (hanno) i figli.”
La costruzione è ben impostata? Il secondo verbo (hanno) è facoltativo, quindi a discrezione dello scrivente, è suggerito specificarlo, o è addirittura preferibile ometterlo?
RISPOSTA:
L’ellissi verbale è sempre ammessa, in italiano, quando la costruzione non generi alcun equivoco, e in questo caso (reggente + subordinata comparativa di uguaglianza) non ne genera.
Non vi sono motivi evidenti, in questo caso, per preferire la forma con ellissi a quella con verbo espresso, o viceversa, se non il gusto personale.
Senza dubbio, però, la frase potrebbe essere espressa anche in molti altri modi, qualcuno dei quali anche più lineare, come per esempio: “La generosità del padre è pari all’attaccamento al denaro dei (o da parte dei) figli”. Oppure: “Il padre è tanto generoso quanto i figli sono attaccati al denaro”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo sapere quale delle seguenti frasi è scritta meglio dal punto di vista interpuntivo. So benissimo che non ci sono regole ferree nella punteggiatura, però volevo un vostro consiglio su quale delle due fosse migliore, come pure conoscere la differenza fra entrambe. Inoltre desideravo sapere se nei rispettivi casi fosse meglio usare il corsivo oppure le virgolette, nonché se fosse necessaria la maiuscola per il testo tra gli apici o quello scritto in corsivo. Se poi conoscete un modo migliore per formulare la frase, non esitate a suggerirmelo.
Ecco le seguenti frasi:
1) Quando hai effettuato la ricarica postepay inviami la foto della ricevuta, con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com“
2) Quando hai effettuato la ricarica postepay, inviami la foto della ricevuta con su scritto a penna la seguente causale: “acquisto bitcoin da xxxx@gmail.com“
RISPOSTA:
Entrambe le frasi da Lei proposte vanno bene.
Nello specifico: la virgola dopo una subordinata premessa alla reggente (Quando hai effettuato la ricarica postepay,) si può mettere, ma non è mai obbligatoria. Anche la virgola prima del complemento (, con su scritto…) si può mettere o no.
In generale, la presenza delle virgole (entrambe quelle segnalate) ha come risultato quello di dare maggiore rilievo semantico, in certo qual modo maggiore autonomia, alle due componenti separate dalla virgola stessa.
Quanto all’alternativa virgolette/corsivo, decisamente meglio le virgolette, dal momento che si tratta di una citazione diretta della frase scritta o da scrivere. Il corsivo, comunque, non sarebbe del tutto errato, dal momento che segnalerebbe, metalinguisticamente, l’oggetto della citazione.
Quanto all’iniziale maiuscola o minuscola all’interno della citazione, anche in questo caso entrambe le soluzioni sarebbero accettabili: di solito si preferisce la minuscola quando la citazione è integrata sintatticamente alla frase citante (per es.: la frase “scrivi il tuo nome” è corretta), la maiuscola quando la frase citata è sintatticamente autonoma dal contesto (come nel suo caso, dopo i due punti). Un’altra ratio è quella filologica: cioè si usa la minuscola o la maiuscola a seconda che nell’originale citato (o nell’esempio fornito) vi sia, o debba esservi, la minuscola o la maiuscola.
Fabio Rossi
QUESITO:
In quali casi è corretto il SE con il condizionale?
Es. ‘Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere’ è corretta?
Come si chiama, in questo periodo, la subordinata introdotta dal SE?
RISPOSTA:
Di norma, se + condizionale si usa nelle interrogative indirette per esprimere un rapporto di posteriorità, cioè quando l’oggetto della domanda è futuro rispetto alla richiesta. Per es.: “Mi chiedo se mi daresti una mano”; Mi chiedevo se mi avresti dato una mano”.
In rari casi il condizionale dopo se si può usare anche nelle ipotetiche, come quella da lei segnalata, che però, di fatto, sembra un’ipotetica ma in realtà è un avversativa:
“Se potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”, che in uno stile più formale sarebbe espressa con mentre: “Mentre potremmo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
In questo caso (cioè in una ipotetica con valore di avversativa), l’imperfetto congiuntivo (cioè il tempo e il modo corretti se fosse stata un’ipotetica pura) sarebbe scorretto:
*”Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, non potremmo fare lo stesso senza bere”.
Se fosse un’ipotetica pura sarebbe per es. così:
“Se potessimo resistere due giorni senza mangiare, probabilmente lo faremmo”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Quale forma è corretta?
Una volta sola
Una volta solo
Marco non era a casa
Marco non c’era a casa
Inoltre ad una donna non sposata anche se ha una età avanzata si può dire ancora signorina?
RISPOSTA:
“Una volta sola” (o “Una sola volta”) e “Una volta solo” (o “Solo una volta”) sono entrambe frasi corrette, sebbene la seconda sia meno adatta a un contesto formale. Nella prima, l’aggettivo solo è, come di consueto, accordato con il sostantivo femminile volta. Nella seconda, invece, solo non ha valore di aggettivo bensì di avverbio, ovvero sta per soltanto.
“Marco non era a casa” va bene sempre e in tutte le varietà di italiano, mentre “Marco non c’era a casa” va bene soltanto nel parlato informale o nello scritto che lo imita. Tra l’altro, l’enunciato sarebbe pronunciato con una leggera pausa prima di “a casa”. L’avverbio/pronome locativo ci in questo caso risulta pleonastico per via della presenza del sintagma locativo pieno “a casa”. L’intera frase, dunque, possibile ma informale, si configura come una dislocazione a destra. Può essere utile in un contesto in cui “a casa” sia considerato elemento dato, per es. nel dialogo seguente:
– Ho cercato Marco ma non si trova da nessuna parte.
– Hai cercato a casa?
– Non c’era, a casa!
Una donna non sposata anche se ha un’età avanzata si può dire ancora signorina, anche se l’uso di questa parola è giustamente sempre meno frequente, in quanto fortemente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché mai, infatti, di una donna si dovrebbe rilevare lo stato civile mentre di un uomo no? Lei chiamerebbe mai un uomo non sposato signorino?
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei sapere se l’espressione “vuoto a perdere” può essere usata come sinonimo di “cosa inutile”, “cosa che non serve più”. Io l’ho sempre usata in questo senso, ma ho letto recentemente che il significato corretto è “cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo”. Il significato che ho finora dato io al termine può essere accettato oppure no?
RISPOSTA:
Il significato con cui usa lei l’espressione è quello corrente e va benissimo. Per comprenderlo, bisogna pensare a una vecchia abitudine italiana (io me la ricordo ancora, e ho 55 anni). Essa prevedeva che, in casi di liquidi acquistati in bottiglie di vetro, si potesse optare per due soluzioni: 1) restituire la bottiglia al venditore, avendone indietro una piccola somma di denaro (soluzione detta “vuoto a rendere”); 2) non restituire la bottiglia e dunque non avere indietro alcuna somma di denaro (soluzione detta “vuoto a perdere”). Poteva capitare che i vuoti a perdere (donde il significato metaforico di ‘cosa che non serve a niente’, visto che il vuoto a perdere non comportava alcuna restituzione di denaro) si accumulassero e che ci si trovasse nella fastidiosa condizione di non riuscire a disfarsene, o comunque doversi scomodare per disfarsene, a differenza di quelli a rendere che venivano prontamente restituiti al venditore, col duplice vantaggio del denaro e dello smaltimento. In virtù di quest’ultima considerazione, è anche possibile usare l’espressione nella seconda accezione metaforica da lei segnalata, cioè ‘cosa di cui non ci si può disfare, mentre si vorrebbe farlo’, che però non scalza, semmai direi rafforza, la prima: una cosa talmente inutile da diventare un fastidioso accumulo, che alla fine risulta difficile anche da smaltire e che si finisce dunque per lasciare lì a far ingombro e sporco.
Insomma, la metafora è in ogni caso altamente spregiativa, come si può ben vedere nelle varie attestazioni presenti in Google libri e nella magnifica canzone di Noemi Vuoto a perdere (2011).
Fabio Rossi
QUESITO:
Propongo questa frase: “Qualora ciò dovesse accadere, per la presenza di un fanatico che agisce (o agisse?) in modo sconsiderato, sarebbero guai”. A me sembra più corretto dire agisse perché, nell’ambito dell’ipotesi (l’esistenza del fanatico), l’azione sconsiderata non è del tutto scontata. Comunque, non essendo certo di ciò, ci terrei a conoscere il suo parere al riguardo.
RISPOSTA:
Sono possibili sia agisce sia agisse. Il presente indica semplicemente che il fanatico agisce nel presente (con una proiezione nel futuro). Si può anche sostituire l’indicativo con il congiuntivo agisca, che eleva il registro. L’imperfetto agisse ha un significato ambiguo: può avere valore temporale o può dipendere dall’attrazione dell’imperfetto dovesse della proposizione reggente. Nel primo caso esso indica che il fanatico agiva nel passato; nel secondo caso si riferisce al presente e assume la stessa sfumatura ipotetica di dovesse. La prima interpretazione è un po’ forzata, considerando la costruzione di tutta la frase: se il fanatico agiva nel passato, è preferibile descrivere questa situazione con l’indicativo imperfetto (… per la presenza di un fanatico che agiva in modo sconsiderato…).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nelle seguenti frasi si accorda o no il participio passato con il pronome diretto?
Frase 1:
Il senso dell’umorismo lo ha aiutato (lui)
Frase 2:
L’ironia lo ha aiutato o
L’ironia lo ha aiutata? (lui)
RISPOSTA:
Il participio passato si accorda, in questo caso, con il pronome, che esprime il complemento oggetto: dunque, essendo maschile, l’unica forma corretta è al maschile. Se ci fosse “la” come pronome, allora il participio andrebbe al femminile: L’ironia la ha (o l’ha) aiutata (cioè lei, per es. Giulia).
Di norma, il participio passato nei verbi composti o non si accorda (è cioè al maschile indistinto): ti ho scritto una lettera. Oppure si accorda con l’oggetto se è transitivo attivo (l’ho salutata), con il soggetto se è intransitivo (Giulia è andata) oppure transitivo passivo (Giulia è stata promossa).
Fabio Rossi
QUESITO:
È corretta la frase “non so se sarei capace di farlo”?
RISPOSTA:
La frase è corretta: la proposizione se sarei capace di farlo è una interrogativa indiretta, che può essere costruita con l’indicativo, il congiuntivo o il condizionale, a seconda del significato e del registro richiesto dall’occasione comunicativa.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
È corretta la frase “Temo che per le 20 di oggi non abbiano ancora finito i lavori”, oppure dovrei dire “temo che per le 20 di oggi non FINIRANNO / FINISCANO i lavori”?
RISPOSTA:
Tutte le varianti vanno bene: finiscano è quella più formale. Il congiuntivo passato può essere usato per descrivere un evento futuro perché il momento evocato per il termine dei lavori (le 20 di oggi) viene considerato il punto rispetto al quale i lavori sono o non sono finiti come se il parlante immaginasse di osservare la fine dei lavori da quel momento. Con l’indicativo futuro anteriore, pure possibile (“Temo che per le 20 di oggi non avranno ancora finito i lavori”), il parlante osserverebbe la fine dei lavori dal momento in cui parla (quindi la considererebbe futura), ma rispetto al momento evocato (quindi anteriore).
Fabio Ruggiano
QUESITO:
“Avrei paura che tu lo liquidi con poche, asciutte parole”, “Non te lo confesserei, perché avrei paura che tu ne risentissi”.
In questi due passaggi narrativi, i relativi autori hanno compiuto scelte diverse. Muovendo dall’articolo 2800821 dell’archivio delle domande incluso nel vostro sito, deduco che entrambi i tempi siano ammessi.
Una volta mi pare di aver letto – non ricordo se in rete o in una pubblicazione cartacea – un passaggio costruito invece con il condizionale del verbo potere.
È possibile che per una frase iniziante per avrei paura che, o per predicati ascrivibili al medesimo concetto, la scelta sintattica abbracci in linea teorica tre soluzioni?
1. Avrei paura che tu possa fallire.
2. Avrei paura che tu potessi fallire.
3. Avrei paura che tu potresti fallire.
È inoltre possibile – domando ancora – che i servili, in particolare potere, facilitino l’introduzione del modo condizionale in una subordinata normalmente incline al congiuntivo?
Al mio orecchio, linguisticamente imperfetto, la frase numero 3 suona meglio rispetto a un’ipotetica
4. Avrei paura che tu falliresti.
RISPOSTA:
Le frasi con la completiva al condizionale sono ugualmente problematiche: non ci sono regole che vietino questa costruzione (e comunque la presenza del verbo servile non è rilevante), ma essa è comunque sfavorita, probabilmente perché la coppia formata dalla reggente al condizionale presente e dalla completiva al congiuntivo è assimilata al periodo ipotetico con apodosi al condizionale presente e protasi al congiuntivo quasi sempre imperfetto. Lo stesso motivo potrebbe essere alla base della preferenza del congiuntivo imperfetto nella completiva retta da una proposizione al condizionale presente, laddove la consecutio temporum richiede il congiuntivo presente. Eviterei la costruzione della completiva al condizionale, tranne nel caso in cui quest’ultima è a sua volta l’apodosi di un periodo ipotetico; per esempio: “Avrei paura che tu falliresti / potresti fallire se ci provassi”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
(1) C’è un modo per controllare se le informazioni scritte sul sito per i DVD sono / siano sbagliate?
Il congiuntivo presente viene anche accettato? Qual è la ragione grammaticale se siano viene accettato?
(2) E come spiegare che un Nero su cinque abbia votato Trump? (Rampini, Fermare Pechino, p. 269).
È una proposta soggettiva e questa è la ragione per cui il congiuntivo va bene nella proposizione principale? È uguale a E come si spiega che…
RISPOSTA:
Nella prima frase vanno bene sia l’indicativo sia il congiuntivo; il secondo è la soluzione più formale. Nella seconda frase nella principale non c’è un congiuntivo ma un infinito (spiegare). La presenza dell’infinito si spiega con l’omissione del verbo servile potere: E come si può spiegare…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho ascoltato in TV la seguente frase:
“Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che sarà stato comunicato l’esito del voto”.
La frase è corretta?
Il congiuntivo passato non sarebbe stato più indicato? E inoltre, il congiuntivo imperfetto avrebbe potuto essere parimenti ammesso?
RISPOSTA:
Nella frase si scontrano due prospettive diverse, quella ipotetica della vittoria e quella fattuale della comunicazione dell’esito; da qui la doppia costruzione, con il congiuntivo e l’indicativo, che non è sbagliata, per quanto risulti sgradevole. Addirittura, è possibile anche sostituire il futuro anteriore con il passato prossimo: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che è stato comunicato l’esito del voto”. Il passato prossimo, infatti, può indicare un momento precedente a un altro momento futuro. In alternativa, si può costruire anche la temporale con il congiuntivo imperfetto (non trapassato), attratto nella sfera della proposizione ipotetica: “Se il partito XXX vincesse le elezioni, si alleerebbe con il partito YYY, dieci minuti dopo che fosse comunicato l’esito del voto”.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Propongo questa frase: “Oggi sto bene, a differenza di ieri che avevo 38 di temperatura”. Quel che può essere accettato o è indispensabile sostituirlo con quando?
RISPOSTA:
Si tratta di un che polivalente (sul quale può leggere la risposta n. 2800522 dell’archivio di DICO), molto frequente nella varietà di lingua usata comunemente nel parlato e nello scritto informale. In una frase come questa, quindi, è accettabilissimo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto questa frase e vorrei approfondire l´uso dei verbi in presenza di un pronome indefinito.
“L’otto febbraio era prevedibile da chiunque avesse assistito alla seduta del ventitré gennaio”.
Mi stavo chiedendo quale sarebbe il significato assunto dal congiuntivo trapassato, forse di evento passato ipotetico ed eventuale?
Se invece dicessi da chiunque aveva assistito, l´evento é passato è avvenuto?
Potrei anche usare il condizionale passato (da chiunque avrebbe assistito) per esprimere il futuro nel passato? Sarebbero possibili altri tempi?
RISPOSTA:
Le proposizioni relative introdotte da pronomi indefiniti reggono preferibilmente il congiuntivo; l’indicativo, però, è corretto: “L’otto febbraio era prevedibile da chiunque aveva assistito alla seduta del ventitré gennaio”. La differenza tra le due forme è che l’indicativo è meno formale: il significato delle frasi rimane uguale. Il condizionale passato non può essere usato in questa relativa, perché il ventitré gennaio precede l’otto febbraio, quindi non si giustifica la posteriorità rispetto al passato. La struttura standard della proposizione non ammette altre forme verbali.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Non capisco in che senso l’aggettivo stesso indicherebbe identità tra due cose: “Io e mia fratello abbiamo lo stesso prof di matematica”… il prof è uno solo, quindi perché si parla di identità?
RISPOSTA:
L’identità si ricava per inferenza: il professore del primo fratello coincide con il professore del secondo fratello.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Nella frase seguente:
“A proposito di quello che si insegna nelle aule di medicina e CHE né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano esserne a conoscenza”
ovviamente sarebbe stato meglio scrivere di cui al posto di che: ma è proprio sbagliato?
RISPOSTA:
Nella frase il pronome relativo indiretto è sostituito dalla forma base che; la funzione sintattica persa a causa della sostituzione è recuperata inserendo il secondo pronome, ne, nel corpo della frase (esserne). La variante standard, quindi, richiede in cui al posto di che e essere al posto di esserne: …e di cui né Tizio, né Caio né Sempronio sembrano essere a conoscenza.
Costruzioni come questa sono sempre più comuni nell’italiano contemporaneo (la persona che te ne ho parlato = di cui ti ho parlato; la festa che non ci sono andato = alla quale non sono andato; il collega che ci ho pranzato insieme ieri = con cui / insieme a cui ho pranzato ieri ecc.), favorite dal vantaggio di usare i pronomi che e tutti quelli personali, ad alta funzionalità, quindi più facili da ricordare e scegliere correttamente per i parlanti, al posto delle forme indirette del pronome relativo, a bassa funzionalità, quindi più complicate. Non solo non sono previste dallo standard, ma comportano un uso dei pronomi contrario alle regole della sintassi; per questo sono da considerarsi trascurate e da evitare in contesti anche di media formalità.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Quali forme del pronome dovrei usare nelle frasi seguenti?
“I ragazzi di oggi sono quello/quelli che sono”.
“Tu, figlia mia, sei quello/quella che tutti vorrebbero”.
Il pronome quello tanto nel primo quanto nel secondo esempio potrebbe essere valutato quale sinonimo di ciò?
RISPOSTA:
Proprio così: quello può avere la funzione (più che il significato) di pronome neutro, equivalente a ciò o la cosa. Per questo motivo nelle prime due frasi vanno bene sia quello sia il pronome concordato con il sintagma di cui è anaforico. La scelta, però, modifica il significato della frase:
“I ragazzi di oggi sono quello che sono” = ‘sono la cosa che sono, non ci si può aspettare altro da loro’ (con una sfumatura negativa, di critica).
“I ragazzi di oggi sono quelli che sono” = ‘sono proprio così, non li si può cambiare’ (con una sfumatura positiva).
Nella seconda coppia di frasi è decisamente preferibile quello:
“Tu, figlia mia, sei quello che tutti vorrebbero” = ‘sei il sogno di chiunque’.
“Tu, figlia mia, sei quella che tutti vorrebbero” = ‘sei la ragazza che tutti sceglierebbero all’interno del gruppo’. Quest’ultima frase suona innaturale dal punto di vista testuale, perché quella evoca un gruppo, o una coppia, che è stato già introdotto nel discorso, per cui, visto che già è stato detto che c’è un gruppo tra cui scegliere, ci si aspetterebbe una forma come “Sei tu, figlia mia, quella che tutti vorrebbero”, con enfasi su sei tu, non su quella che tutti vorrebbero. Per un giudizio più preciso, però, bisognerebbe inserire la frase in un contesto più ampio.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Secondo gli schemi della consecutio, una proposizione (oggettiva) introdotta dal condizionale presente ammette, sulla scorta della sfera di certezza o di incertezza-soggettività del verbo introduttore, tanto l’indicativo quanto il congiuntivo quanto il condizionale: “Crederei che potrebbe farcela”.
Eccettuati tutti quei predicati indicanti volontà, desiderio e simili che, come tutti sappiamo, richiedono il congiuntivo imperfetto nella subordinata (“Vorrei che fosse già inverno”); negli altri casi, la scelta tra il congiuntivo e il condizionale è libera dal punto di vista sintattico, oppure il modo che introduce la subordinata alle volte “condiziona“ quello di quest’ultima?
Anche se lui provasse, penso che non ce la farebbe.
Anche se lui provasse, penserei che non ce la faccia.
Parto da tali esempi perché, per risalire una volta per tutte dal particolare al generale e cogliere la regola, se esistente, ero giunto alla conclusione che, al di là delle differenze semantiche, entrambi i modi fossero ammessi dalla sintassi. Ma poi mi sono imbattuto nella frase, contenuta nel vostro archivio, “Penso che
non ce la faccia, anche se provasse”, giudicata scorretta, e sono di nuovo sprofondato nel caos. La proposizione che non ce la faccia non dipende direttamente dalla principale penso, a prescindere dalla concessiva? Secondo la consecutio, una subordinata dipendente da un indicativo presente non può essere costruita con un congiuntivo presente, oltreché con un altro indicativo?
In presenza di una ipotetica e di una concessiva, anche sottintese, il condizionale è l’unico modo possibile, come spiegato a proposito dell’ultimo vostro esempio? Quando il verbo della reggente indica volontà o desiderio questo non avviene:
Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole.
Per concludere, al solo scopo di sgomberare il campo dai dubbi sopraccitati, apprezzerei se poteste cortesemente indicarmi, tra gli esempi riepilogati in elenco (in parte già segnalati), quelli scorretti.
1) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini possano protestare.
2) Se ballassimo di notte, avrei paura che i vicini potrebbero protestare.
3) Anche se provassi, penserei che non ce la faccia.
4) Anche se provassi, penserei che non ce la farebbe.
5) Anche se provassi, penso che non ce la faccia.
6) Anche se provassi, penso che non ce la farebbe.
RISPOSTA:
Tanto nella frase “Penso che non ce la faccia” quanto in “Penserei che non ce la faccia” la subordinata oggettiva che non ce la faccia è legittima, quindi il suo ragionamento tiene: in dipendenza da un indicativo e da un condizionale è ammesso il congiuntivo. Se, però, l’oggettiva diviene la reggente di una proposizione condizionale o concessiva costruita con il congiuntivo (come nel caso della frase “Penso che non ce la faccia anche se provasse”) la situazione cambia e ci aspettiamo che sia costruita al condizionale. In una frase con più subordinate, insomma, la costruzione delle singole proposizioni può dipendere dall’incrocio di più reggenze. Si noti che nella risposta “Penso che userei il condizionale se…” dell’archivio (a cui lei fa riferimento) la frase è etichettata come ingiustificata, non scorretta: in ragione della presenza della proposizione concessiva al congiuntivo imperfetto “ci si aspetta” il condizionale presente.
Tra tutte le frasi che porta come esempi e controesempi (sia “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole” sia quelle numerate da 1 a 6) non sono pertinenti, perché in esse la conseguenza della condizione concessiva è descritta nella proposizione che regge l’oggettiva, non dall’oggettiva. In “Anche se non potessimo andare in ferie, vorrei che la prossima settimana splendesse il sole”, per esempio, la conseguenza dell’eventualità che non andiamo in ferie è che vorrei (che succedesse qualcosa); allo stesso modo, se ballassimo tutta la notte avrei paura (l’oggetto della paura è indipendente dalla condizione) ecc. Nella frase “Penso che non ce la farebbe anche se provasse”, invece, la condizione eventuale anche se provasse origina la conseguenza non ce la farebbe, descritta nell’oggettiva.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Due amiche si incontrano di domenica. Una vuole organizzare una festa per il sabato seguente e l’altra le confermerà la sua partecipazione o meno il giorno dopo, dicendole: “Te lo dirò domani, se verrò o meno alla tua festa”. Purtroppo non dice nulla il lunedì. Si incontrano poi il martedì e viene pronunciata questa frase: “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere ieri se saresti venuta sabato alla festa”.
Potrebbe essere corretta? Oppure sarebbero preferibili altri tempi verbali? Per esempio “Mi hai detto che me lo avresti fatto sapere ieri se vieni / venivi / verrai / fossi venuta sabato alla festa”.
In aggiunta, sono corrette queste altre frasi?
Te lo avrei detto, se sarei venuta o meno.
Te lo avrei detto, se fossi venuta o meno
RISPOSTA:
La frase “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato saresti venuta alla festa” è corretta (anche se un po’ complicata). In questa frase la proposizione se sabato saresti venuta alla festa è una interrogativa indiretta; questo tipo di proposizione richiede il condizionale passato se descrive un evento successivo a un altro evento passato, proprio come in questa frase. Anche la proposizione che lunedì me lo avresti fatto sapere ha la stessa caratteristica, e infatti è correttamente costruita con il condizionale passato. Quindi: Domenica mi hai detto [= dire è un evento passato] che lunedì me lo avresti fatto sapere [= fare sapere è un evento successivo a dire, ma è comunque passato] se sabato saresti venuta alla festa [= venire è un evento successivo a fare sapere]. Il condizionale passato può essere sostituito dall’indicativo imperfetto (non dal futuro verrai né dal congiuntivo trapassato fossi venuta): “Domenica mi hai detto che lunedì me lo avresti fatto sapere, se sabato venivi alla festa”; e persino “Domenica mi hai detto che lunedì me lo facevi sapere, se sabato venivi alla festa”. Per scegliere se usare l’indicativo imperfetto o il condizionale passato bisogna considerare che il significato della frase rimane uguale con entrambe le forme verbali, ma l’indicativo imperfetto è più informale, cioè adatto a contesti privati. Aggiungo che la frase così costruita indica che se saresti venuta alla festa è un argomento già toccato in precedenza nella conversazione, perché è anticipato dal pronome lo. Se, invece, le due amiche si sono appena incontrate, quindi non hanno ancora parlato dell’argomento, la frase sarà costruita così: “Domenica mi hai detto che lunedì mi [non me lo] avresti fatto sapere se sabato saresti venuta alla festa”.
Per quanto riguarda le ultime due frasi, la prima è analoga a quella che abbiamo commentato adesso, quindi è corretta alle stesse condizioni. La seconda è anche corretta, ma ha un significato diverso: in questo caso la proposizione introdotta da se non è una interrogativa indiretta, ma una ipotetica e indica che la persona non è andata alla festa (che è già passata) e che, se fosse andata, avrebbe avvisato.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho letto il periodo sotto indicato e vorrei sapere se l’uso del trapassato nella frase introdotta da da quando è corretto.
“Da quando il quartiere era finito sotto il controllo della microcriminalità, i residenti si erano organizzati in un comitato a favore della legalità urbana”.
Non potendo, per ragioni pratiche, riportare altri elementi del contesto, segnalo, a margine, che ho estrapolato il passaggio da un testo scritto prevalentemente al passato remoto. L’autore, per indicare anteriorità, ha costruito vari periodi al trapassato.
Fino ad oggi mi sono sempre imbattuta nel passato prossimo dopo il sintagma da quando.
RISPOSTA:
La scelta del tempo verbale dipende in pochissimi casi dalla congiunzione che introduce la subordinata. Per esempio, una proposizione introdotta da da quando può difficilmente avere l’indicativo presente. Per il resto, la scelta del tempo dipende da due coordinate testuali: il collocamente dell’evento sull’asse del tempo (passato, presente, futuro) e il rapporto tra il tempo dell’evento descritto e quello dell’evento della proposizione reggente (precedenza, contemporaneità, posteriorità). Queste due coordinate si intrecciano in vario modo, producendo di volta in volta risultati diversi (per un approfondimento può fare una ricerca nell’archivio di DICO con le chiavi consecutio temporum e tempo verbale). Nel caso specifico, l’evento del finire non solo è passato, ma è anche precedente rispetto a un altro evento, quello dell’organizzarsi, a sua volta passato (più precisamente trapassato, ma ai fini di questa analisi questo dettaglio non importa). Per descrivere un evento precedente a un altro evento passato si usa (tranne che in casi speciali) proprio il trapassato. Per quanto riguarda la scelta tra il trapassato prossimo e il remoto va ricordato che quest’ultimo è divenuto raro nell’italiano contemporaneo e viene quasi sempre sostituito dal primo. Il trapassato remoto, inoltre, veicola una sfumatura di momentaneità, per via della costruzione con il passato remoto dell’ausiliare, non adatta a questa frase, nella quale l’evento del finire sotto il controllo è percepito come un processo svoltosi in un certo lasso di tempo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei chiedere una precisazione sull’analisi grammaticale dei nomi astratti. È corretto in analisi grammaticale scrivere… “nome astratto, individuale”? Esempio: tristezza = nome comune di cosa, astratto, individuale etc.
Individuale è solo per i nomi concreti, giusto?
RISPOSTA:
I nomi individuali sono tutti quelli che si riferiscono a un singolo individuo di qualsiasi categoria; sono, quindi, tutti i nomi che non sono collettivi. Stando alla definizione, quindi, anche i nomi astratti possono essere distinti in individuali e collettivi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Volevo sapere se nella seguente frase fosse corretto l’uso di esternarmi, o se è meglio usare esternare.
In sostanza: non ti fai problemi a esternarmi il tuo lato rustico e primitivo.
RISPOSTA:
Esternarmi, che si distingue da esternare perché ha il pronome mi integrato (esternarmi = esternare a me), è corretto. Alternative pure valide sono manifestarmi, mostrarmi, rivelarmi, svelarmi.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei proporvi questa frase: “Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità”. Le due virgole che delimitano l’inciso (oltre alla sua competenza professionale) è preferibile porle oppure no? Mi faccio questa domanda perché, tolto l’inciso, la frase dovrebbe mantenere una sua scorrevolezza, ma, in questo caso, ciò non accade (ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità). Quell’anche non ci sta, acquista un senso solo In dipendenza al contenuto dell’inciso. In definitiva, in questo caso, le virgole vanno poste oppure no?
RISPOSTA:
Il sintagma va messo tra virgole; è, infatti, un’espansione e può, pertanto, prendere molte posizioni (purché, appunto, racchiusa tra virgole):
Oltre alla sua competenza professionale, ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare, oltre alla sua competenza professionale, anche la sua sensibilità.
Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità, oltre alla sua competenza professionale.
Chiaramente, anche è inserito perché si suppone che l’espansione ci sia, qualsiasi posizione essa prenda: bisogna, quindi, distinguere il piano sintattico, sul quale la frase “Ho avuto modo di apprezzare anche la sua sensibilità” è corretta, da quello semantico, sul quale la stessa frase è leggermente strana proprio perché privata di un pezzo.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Mi sarebbe gradito sapere se questa frase può essere ritenuta corretta: “Il medico che lo seguiva da tanti anni improvvisamente lo depistò ad un collega”. È possibile usare, in un contesto di questo genere, il verbo depistare (anziché, per esempio, inviare) per marcare il fatto che il medico ha voluto liberarsi del suo paziente? È lecito inoltre usare l’espressione depistare a anziché depistare verso? Ciò può essere considerato un errore?
RISPOSTA:
Il verbo depistare è bivalente, quindi richiede il soggetto e l’oggetto diretto (o complemento oggetto); non ammette, invece, un terzo argomento introdotto da a (come nella sua frase depistare a un collega). Può accettare espansioni, come un sintagma introdotto da verso; per esempio depistare verso un percorso sbagliato. Bisogna, però, dire che una simile espansione è semanticamente superflua: depistare qualcuno significa, senza l’aggiunta di alcuna specificazione, ‘mandare su una falsa strada, fuorviare, far capire una cosa per un’altra’. Insomma, nella sua frase il verbo depistare non va bene. Potrebbe sostituirlo con sbolognare, che è piuttosto informale e ha una sfumatura negativa (implica, cioè, che il medico voleva liberarsi del paziente), oppure il più neutrale affidare; in alternativa, potrebbe usare una perifrasi come se ne liberò affidandolo…
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Ho ottenuto una coppia del libro consigliato per l’imperfetto e ho letto un po’. In particolare penso di aver trovato un altro esempio del imperfetto epistemico nel libro Fermare Pechino da Federico Rampini. Volevo
chiederle se ho capito bene:
P.104
<<A qualcuno è andata molto peggio. Fang Fang forse è stata protetta dalla sua
fama letteraria. Per aver scritto cose simili sconta quattro anni di carcere Zhang
Zhan, una reporter le cui cronache da Wuhan sono state accusate di <<seminare
zizania e disordini>>. Zhang Zan ha 37 anni. Di formazione avvocato, ERA una di
quelle figure sempre più rare in Cina…….>>
Dato che è ancora viva, anche se è adesso in carcere, era qui viene considerato
l’uso epistemico dell’imperfetto? Se fosse morta, verrebbe usato è stata una….
No?
Potrebbe farmi qualche altro esempio con il verbo essere con l’uso dell’imperfetto
epistemico senza un avverbio temporale come domani (che riferisce al futuro)?
RISPOSTA:
L’esempio da Lei riportato non è un uso epistemico, bensì un normale uso temporale-aspettuale dell’imperfetto per esprimere una condizione nel passato. D’accordo, è ancora viva, però si suppone che dal carcere non eserciti più, e dunque “era” ecc. va benissimo sia per persona morta, sia per persona viva, ma non più nelle condizioni di prima. Se fosse morta, si sarebbero potuti usare anche “è stata”, “fu”, meno bene anche “era stata”, che invece, nel caso specifico (di persona viva ma non più in determinate condizioni) non sarebbero molto appropriati. Come comprende, si tratta di sfumature sottilissime, e dunque non c’è un giusto/sbagliato, in questi casi, bensì un più o meno naturale, più o meno appropriato ecc. Come al solito al lingua procede per sfumature e per gradi piuttosto che per salti bruschi e rigide dicotomie.
L’uso epistemico di un verbo (non importa se essere o altro verbo), per essere tale, deve esprimere l’idea o della possibilità, dell’ipotesi, del dubbio, o comunque della non perfetta aderenza al tempo comunemente espresso. Quindi, nel caso dell’imperfetto, sono epistemici sia gli usi potenziali sia quelli controfattuali riferiti al futuro.
Un esempio del primo tipo: “se venivi con me era meglio”, che in uno stile più formale sarebbe: “se fossi venuto con me sarebbe stato meglio”.
Un esempio del secondo tipo: “Ma non era martedì?”, che può essere detto sia oggi, se non ricordo che giorno sia, sia in riferimento al futuro, per es. tra due giorni, se pensavo che avessimo un impegno martedì prossimo, ma non ne sono sicuro e sto chiedendo conferma. Oppure, analogamente, “Ma non era Ralph”? Oppure, per riprendere il suo esempio: “Ma Zhang Zhan non era ancora viva?”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi sarebbe gradito sapere se queste due frasi possono essere considerate corrette dal punto di vista sintattico:1)”Se io credessi che tu fossi pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu fossi pazzo”. Ovviamente il problema che mi interessa riguarda il “se io credessi che tu fossi” e “crederei che tu fossi”.
RISPOSTA:
Secondo la consecutio temporum, dal presente (indicativo o condizionale che sia) dipende un tempo presente e non l’imperfetto (che indica invece più spesso la contemporaneità nel passato, meno spesso l’anteriorità). Quindi: credo/crederei che sia; credevo che fosse. La deroga è con il verbo volere, che proietta l’aspettativa al passato e dunque richiede preferibilmente l’imperfetto congiuntivo piuttosto che il presente: “vorrei che fosse”, piuttosto che “vorrei che sia”. In base a questa regola, le sue frasi vanno riformulate col presente congiuntivo piuttosto che con l’imperfetto: 1)”Se io
credessi che tu sia pazzo,non ti assumerei”; 2)”Se tu facessi questo, crederei che
tu sia pazzo”. Infatti, lo crederei adesso, e non nel passato. Certamente, per il passato sarebbe più opportuno fossi stato o sia stato, ma anche fossi sarebbe possibile, pertanto, a scanso di equivoci, per fare capire che l’importante per me è che tu non sia pazzo adesso, e non che lo fossi, poniamo, anni fa, è meglio usare il congiuntivo presente.
Fabio Rossi
QUESITO:
Come già chiarito in passato, nonostante alle scuole mi abbiano insegnato che
quando si dal del Lei ad una persona si accorda al femminile (es. “Signor Verdi la
vedo stanca), Lei mi ha insegnato che al giorno d’oggi è consentito l’accordo al
maschile anche quando si da del Lei (es. “Signor Verdi La vedo stanco)…
Io sono d’accordo con Lei e la ringrazio per questo suo chiarimento, tuttavia
alcuni insegnanti di lettere miei amici dicono che accordare al maschile “la vedo
stanco” sia errato.
Ribadisco che invece io sono d’accordo con Lei.
Cosa ne pensa di questi insegnanti?
Volevo porLe una domanda ancora:
dando appunto del Lei ad una persona di sesso maschile, si dice “Signor Verdi
l’avrei chiamata o l’avrei chiamato?”
RISPOSTA:
Come giustamente ricorda Lei, sebbene l’accordo grammaticale richieda il femminile con l’allocutivo di cortesia Lei, l’italiano comune prevede che, per gli aggettivi connessi a un destinatario maschile, si violi l’accordo preferendo il maschile al femminile. Tuttavia questo non può accadere per l’accordo del participio passato, dal momento che l’accordo al maschile lascerebbe intendere, erroneamente, che ci si riferisse, non deitticamente, a qualcuno diverso dall’allocutario. Infatti, nell’esempio da Lei fornito, “Signor Verdi l’avrei chiamata” è l’unica forma corretta per rivolgersi all’uomo cui ci si sta rivolgendo, laddove, invece, “l’avrei chiamato” si riferirebbe ad altro uomo esterno alla conversazione. Naturalmente, in caso di allocutaria, il fraintendimento rimane, sebbene nel contesto dialogico l’interpretazione preferenziale sia sempre quella del riferimento alla persona cui si sta dando del Lei: “Signora l’avrei chiamata”. Ovviamente sarebbe la stessa forma anche se il “chiamata” si riferisse ad altra persona: “L’avrei chiamata, sua figlia”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho scritto un altro testo dei miei e desideravo ricevere consigli in
merito alla ripresa pronominale. In particolar modo, volevo sapere quale
pronome dimostrativo fosse corretto fra *questo* e *quell*o e *lo stesso. *Io
sarei più propenso per gli ultimi due, visto che l’ultimo sintagma non è
naso, bensì* l’interno.* In più, volevo sapere se fosse corretta la
perifrasi [non so se sia giusto definirla così]* fai finta per qualche
minuto di voler infilarmici dentro. *Per quanto riguarda la punteggiatura,
volevo sapere se fosse corretta la virgola prima di *dicendomi. *Se, poi,
avete ulteriori suggerimenti in merito all’interpunzione, sarò felice di
accettarli.
“Nonostante ciò non demordi, e finalmente, dopo diversi sforzi, riesci a
catturarmi: una volta che mi hai acciuffato mi porti un’altra volta a
pochissima distanza dal tuo viso, facendomi osservare bene il tuo naso
gigantesco e, in particolar modo, l’interno di quello. Oltre a ciò, fai
finta per qualche minuto di voler infilarmici dentro. Infine – dopo avermi
stuzzicato abbastanza – ti rivolgi a me in modo minaccioso, prepotente,
deciso e sprezzante, dicendomi che non ho alcuna via di scampo e che non
posso più fuggire dalle tue grinfie”.
RISPOSTA:
Tutte le scelte sono corrette, sia la perifrasi, sia la virgola (che separa la subordinata gerundiva dalla reggente) sia quello, meglio del pesante e burocratico stesso. In realtà, il testo potrebbe essere alleggerito, dal momento che certe precisazioni lo rendono un po’ prolisso: è ovvio che l’interno sia del naso, di che altro potrebbe essere? Anche i quattro aggettivi di seguito sono decisamente troppi e inutili: la prepotenza e la decisione sono inclusi nella minaccia e nell’atteggiamento sprezzante.
Eccone una possibile scrittura alleggerita e più adatta alla narrativa:
Nonostante ciò non demordi, e finalmente, con fatica, riesci a catturarmi: dopo avermi acciuffato mi porti un’altra volta a pochissima distanza dal tuo naso gigantesco, facendomene vedere bene l’interno. Poi fai finta per qualche minuto di voler infilarmici dentro. Infine – dopo avermi stuzzicato abbastanza – ti rivolgi a me con tono minaccioso e sprezzante, dicendomi che non ho alcuna via di scampo e che non posso più fuggire dalle tue grinfie.
Fabio Rossi
QUESITO:
Gradirei un chiarimento circa un tema che avete già discusso. Spero di non indurvi
a spiegazioni che io non abbia assimilato a dovere.
Si tratta di come esprimere l’anteriorità rispetto a un’azione costruita con il
condizionale presente.
Prendiamo ad esempio il periodo “Se l’interrogato confermasse questa versione,
vorrebbe dire che, nel marzo dell’anno scorso, quando ha parlato per la prima
volta, ti…“
Secondo me le scelte possibili sono tre (più una sulla quale si concentrano i
dubbi maggiori):
1. Ha mentito
2. Mentì
3. Aveva mentito
Suppongo che la numero tre sarebbe corretta se ci fosse un momento temporale
intermedio; il trapassato “aveva mentito“ sarebbe così anteriore non soltanto al
condizionale della principale, ma anche a tale riferimento.
L’ultima soluzione è quella costruita con il condizionale composto. Se non
sbaglio, in almeno uno dei vostri articoli si segnala che questo tempo può essere
considerato corretto, dal punto di vista sintattico.
Mi domando se la sua correttezza sia comunque connessa con la dipendenza da una
proposizione – ipotetica o concessiva – anche sottintesa.
4.1 (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
4.2 (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
Oppure il tempo resterebbe valido a prescindere, senza nessuna protasi di sorta,
indicando semplicemente un passato rispetto al condizionale presente?
RISPOSTA:
Si tratta di sfumature sottili, spesso tutte corrette, come le tre che elenca lei, tutte possibili, dal momento che esprimono l’anteriorità. Poco conta che vi sia il condizionale, e che sia una apodosi di periodo ipotetico. Quel che conta è il rapporto di anteriorità, qui reso più complicato dalla “proiezione” del verbo di dire (“vuol dire che”…) e dallo stesso periodo ipotetico.
Va meno bene il passato remoto (che poco si presta a contesti di dipendenza da altri verbi che non siano il presente o lo stesso passato remoto), mentre vanno molto bene sia il passato prossimo, sia il trapassato prossimo. Quest’ultimo, come lei intuisce, è reso possibile dalla presenza di un contesto all’imperfetto (“se confermasse”), che però è prodotto dal periodo ipotetico e non tanto dal riferimento al passato. Comunque, ripeto, sia il passato prossimo sia il trapassato vanno bene in questo caso.
Più complesso il suo secondo quesito, per mancanza di un contesto più ampio. In generale, si può quasi sempre, in contesti ipotetici con il condizionale passato (a meno che il condizionale passato non serva a esprimere un futuro nel passato: “mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato”), ricavare una protasi sottintesa, anche se non occorre farlo per forza:
– (anche se non avesse voluto/voleva), ti avrebbe mentito
– (se ne avesse avuto modo), ti avrebbe mentito.
La ricostruzione da lei proposta va bene, ma sono possibili anche altri contesti quali: “è stato sempre sincero con te ma poi, dopo due anni, ti avrebbe mentito”. Certo, volendo anche qui è possibile una protasi sottintesa (per esempio: “se non vi foste lasciati”), ma non necessariamente. Qui infatti il contesto è a metà strada tra l’ipotetico e il futuro nel passato: stiamo parlando di eventi accaduti nel passato, in cui sia l’essere stato sincero, sia l’aver poi mentito si sono verificati nel passato rispetto al momento in cui vengono riportati. E posso, per l’appunto, dire, in quel contesto. “Poi dopo due anni ti avrebbe comunque mentito”.
Però, se il contesto è quello di sopra, cioè delle prime tre frasi, allora sì, in quel caso (assai faticoso, e dubito che nessuno formulerebbe mai un periodo così artificioso), soltanto se fi fosse una protasi sarebbe ammissibile il condizionale passato, altrimenti impossibile.
In linea di massima, il giochino del “è possibile o no?” è poco produttivo, nelle lingue, perché la risposta è quasi sempre “certo che è possibile”, data l’infinita duttilità di lingue altamente strutturate come l’italiano. Più produttivo, piuttosto che questo ozioso gioco di ipotesi più o meno peregrine e innaturali, è invece commentare casi reali, effettivamente raccolti nell’uso vivo, meglio orale che scritto. Raramente ciò che si coglie nell’uso vivo dei parlanti nativi può dirsi “sbagliato”, nel senso di “non previsto dal sistema linguistico di riferimento”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Il mio dubbio riguarda il verbo riapparire alla terza persona singolare del passato remoto.
Infatti, in luogo dei correntemente usati riapparve/riapparse, vorrei poter usare anche riapparì, che in certi casi mi suona più gradevole. Sarebbe un errore oppure è ammissibile?
RISPOSTA:
Decisamente troppo desueto, letterario, al punto da risultare errato, se usato fuori contesto (cioè fuor di letteratura volutamente arcaizzante).
Delle tre forme di passato remoto di apparire l’unica comune, e dunque l’unica consigliabile, è apparve, come suggerisce lo Zingarelli, mentre apparì è marcato come letterario e apparse come raro.
Fabio Rossi
QUESITO:
Volevo avere una consulenza sui seguenti due termini : “pavido” e “affabile”.
Nello specifico volevo sapere se entrambi i termini possano essere usati nella stessa frase per esprimere un concetto di senso compiuto. Ad esempio, potrebbe essere corretto scrivere la frase: “Giorgio ha dimostrato,
col suo comportamento, tutta la sua natura pavida e affabile”.
RISPOSTA:
La risposta secca è “no, non possono stare insieme perché esprimono concetti quasi opposti, dunque possono semmai essere coordinati da una opposizione (è pavido e non affabile), ma non da una coordinazione affermativa”.
Però la lingua, si sa, è bella perché varia e riesce a esprimere quasi tutto e il contrario di tutto; dunque, per motivi espressivi, si potrebbe trovare anche il modo di giustificare un’accoppiata così insolita: io sono uno che si spaventa di tutto e di tutti (pavido), e dunque, pur di non mettermi nessuno contro, faccio sempre il simpatico e il disponibile con tutti (affabile).
In quest’ultimo caso, però, affabile non è il termine più appropriato: chi è pavido (che più o meno sta per vile, vigliacco, eccessivamente timoroso ecc.), infatti, è anche molto timido, introverso, e dunque ha la qualità opposta all’affabilità. Invece il termine che esprime il non volersi mettere contro nessuno non è tanto affabile, quanto accondiscendente, con i sinonimi compiacente e conciliante.
Fabio Rossi
QUESITO:
Una commentatrice mi ha contestato la costruzione di una frase tramite l’estensore del seguente articolo:
«“Ancora una volta XXX NON perde occasione per tacere e fare un uso sconsiderato e violento dei social network – afferma YYY –”… che dovrebbe, prima, imparare l’italiano (Non per difendere XXX, ma la nostra lingua)».
Faccio osservare alla commentatrice che:
«Non capisco se ti riferisci al NON, visto che l’hai evidenziato:
“La negazione espletiva (o fraseologica) è in linguistica la comparsa facoltativa di un elemento con valore di negazione (ad esempio, l’italiano non), senza che cambi il significato della frase. Si parla anche di negazione pleonastica, dato che la presenza della negazione è ritenuta superflua (pleonastica) o giustificata al più da considerazioni stilistiche.”. O trattasi di altro?».
Al che lei ribatte:
«Trattasi del fatto che, col non, il concetto assume proprio il significato opposto.
Avrebbero dovuto scrivere perde l’occasione di tacere o non perde l’occasione di fare un uso sconsiderato etc etc. I due concetti sono in antitesi. Il primo è considerato positivo e il secondo negativo, ma li hanno accorpati nella stessa frase usando lo stesso verbo. OK?».
Per me ci sono due questioni. La prima è che quel NON può essere considerato una negazione pleonastica o espletiva, per cui …NON perde occasione per tacere… ha lo stesso valore di … perde l’occasione di tacere…; la seconda è che le frasi non sono affatto in antitesi, in quanto nella seconda …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sottesa la stessa condizione che ha definito la prima, ovvero e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network.
Infatti, di nuovo faccio osservare che:
«E infatti avevo intuito giusto. Quel NON non è una negazione vera e propria, ma un accorgimento stilistico che non cambia il senso della frase, come ho evidenziato nella citazione riportata. Frase che resta sempre del valore di perde l’occasione di tacere. Inoltre, se nel primo concetto, cioè perde occasione per tacere è stato specificato il NON, nel secondo …e fare un uso sconsiderato e violento dei social network è sotteso, per cui diventa …e (NON perde occasione di) fare un uso sconsiderato e violento dei social network. Insomma, il comun denominatore è NON perde occasione…, i concetti a cui si riferisce sono per tacere… e … e (di) fare uso…».
A giustificazione, porto gli esempi della Treccani:
“Non sono propriamente negative le frasi comparative, esclamative e temporali, nelle quali il non (soggetto a frequenti oscillazioni nell’uso) è solo espletivo, cioè riempitivo e opzionale:
a. è più furbo di quanto non pensassi
b. quante sciocchezze non ha detto!
c. l’ho aspettato finché non è arrivato”.
Ora, anche se la frase imputata, a mio avviso, potrebbe rientrare benissimo nella categoria del caso “b.” riportato da Treccani, contrariamente a quanto sostenuto dall’interlocutrice, Le chiedo: abbiamo a che fare o no con una negazione espletiva?
RISPOSTA:
La commentatrice ha ragione: il non nella sua frase non è pleonastico, ma ha pieno valore sintattico. Lo dimostrano due rilievi: 1. se lo eliminiamo la frase passa a significare l’opposto (mentre se eliminiamo un non pleonastico la frase continua ad avere lo stesso significato); 2. come lei stesso argomenta, il non ha pieno valore in relazione al secondo verbo (non perde occasione per fare un uso sconsiderato…): ha, quindi, necessariamente lo stesso valore proprio nel primo caso (non perde occasione per tacere). Non è possibile, insomma, che il non abbia, all’interno della stessa costruzione duplicata (non perde occasione), prima un valore e poi un altro. La frase corretta potrebbe prendere due strade: negare due azioni valorialmente negative, per esempio così: “Ancora una volta XXX non perde l’occasione per parlare a sproposito e fare un uso sconsiderato e violento dei social network”; affermare due azioni valorialmente positive, per esempio così: “Ancora una volta XXX perde l’occasione per tacere e per fare un uso moderato e pacifico dei social network” (soluzione sicuramente meno incisiva).
Si noti che nella riscrittura ho sostituito l’espressione perdere occasione con perdere l’occasione, perché la variante senza articolo è adatta a descrivere comportamenti in modo generico (non perde mai occasione per fare una battuta), mentre qui si parla di un evento specifico, per quanto inserito nel quadro di un comportamento.
Fabio Ruggiano
QUESITO:
Vorrei esporvi queste frasi :1) Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi 2) Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi. Sono corrette queste frasi? È possibile anche dire: (nella prima) fintanto che non sarebbe stato già tardi e (nella seconda ) fintanto che non sarebbe già tardi?
RISPOSTA:
La 1 è corretta: “Secondo me avrebbe atteso fintanto che non fosse stato già tardi”. Funzionerebbe anche, sebbene meno, con “non fosse già tardi”. La 2 (“Secondo me attenderebbe fintanto che non fosse ( o sia? ) già tardi”) va abbastanza bene, ma pare funzionare meglio nella versione con “sia”, in quanto “fosse” potrebbe lasciar supporre che tutta l’azione fosse al passato (come la 1). “Fintanto che non sarebbe stato già tardi” funziona (visto che tutto è proiettato nel futuro), anche se il giro sintattico è talmente involuto da risultare al limite dell’accettabilità. Anche “fintanto che non sarebbe già tardi” non può dirsi scorretta, dal momento che è sempre in gioco l’elemento della probabilità (espresso dal condizionale), ma vale l’osservazione appena fatta: per quale gusto perverso bisognerebbe comporre un enunciato così involuto e innaturale? Soltanto per mettere alla prova i limiti della consecutio temporum et modorum? La quantità di sfumature possibili in questi esempi è dovuta al fatto che si incrociano due diverse sfumature sintattiche e semantiche: quella espressa dalla temporale (fintanto che) e quella del periodo ipotetico sotteso all’espressione: “può anche attendere ma se attendesse sarebbe già tardi” e simili.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nella frase “grazie all’eredità, mi sono comprata una casa”, è corretto dire che MI (anche se è un pronome personale ridondante, sconsigliato in contesti formali) è un complemento di vantaggio?
RISPOSTA:
Sì, se vogliamo rimanere a tutti i costi nei ranghi dell’analisi logica tradizionale, schiacciati dall’ottica un po’ asfittica della nomenclatura dei complementi.
Se invece vogliamo allargare il nostro sguardo all’analisi sintattica un po’ più profonda, in grado di spiegare il funzionamento dei verbi e dei loro argomenti nelle frasi e nei testi reali, possiamo dire che comprarsi è un verbo transitivo pronominale, nel quale la particella pronominale atona svolge il ruolo di argomento del verbo, cioè completa la valenza del verbo trivalente comprare usato nella versione pronominale comprarsi: soggetto + oggetto + argomento preposizionale (a me, a te, a sé ecc.).
Il tipo comprarsi una casa è adatto a tutti i tipi di contesto, non soltanto a quelli informali, e il pronome non è affatto pleonastico. Infatti ho comprato una casa e mi sono comprato (o comprata) una casa sono due costruzioni diverse, la prima col verbo comprare, la seconda col verbo pronominale comprarsi, quasi sinonime ma sintatticamente diverse, al punto tale da richiedere due diversi ausiliari: avere il primo, essere il secondo,.
Fabio Rossi
QUESITO:
Nelle due costruzioni riportate, è preferibile il congiuntivo o l’indicativo, oppure, anche in questi casi, la scelta è libera?
– Le confermo che le cose sono/siano andate così.
– Lei davvero mi conferma che le cose sono/siano andate così?
RISPOSTA:
Ancorché tendenzialmente più formale, come al solito, la scelta del congiuntivo, in questi casi, è al limite dell’inaccettabile, dal momento che un verbo come confermo, soprattutto nella prima frase, preferisce di gran lunga l’indicativo (la seconda, essendo interrogativa, mette in dubbio la certezza della conferma): “Ti confermo che hanno vinto la partita”. Sarebbe davvero strano “Ti confermo che abbiano vinto la partita”, anche se non scorretto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei inoltrarvi due quesiti.
Il primo di questi riguarda la negazione “né”.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato negli uffici, né (che) abbia subito modifiche.
– Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né (che) sia stata presentata ad altri uffici?
– Senza essere stato nominato né aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere?
Le tre costruzioni sono corrette dal punto di vista sintattico? I “che” indicati tra parentesi nelle prime due sono consigliati, errati o a discrezione dello scrivente?
RISPOSTA:
Né significa letteralmente ‘e non’, quindi si può usare soltanto in frasi che richiederebbero, se non coordinate, un non inziale. Senza non equivale a non, sebbene esprima, ovviamente, l’idea negativa della privazione. Dunque se a senso, e nell’italiano informale, le alternative da lei proposte sono accettabili, non lo sono a rigore secondo l’italiano atteso in un testo formale. Eccone le possibili riscritture, che tengono conto anche della richiesta sull’uso di che e di altri fattori.
– La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana, senza però che il suo contenuto sia circolato prima negli uffici e senza che abbia subito modifiche. In questo caso andrebbe aggiunto un prima, forse: se la notizia può essere diffusa, come potrebbe non circolare? Inoltre, l’intera frase è davvero molto faticosa (anche a causa di quel sia circolato, che tra l’altro andrebbe preferibilmente cambiato in abbia circolato). Eccone una possibile variante più elegante, più chiara e meno burocratica: La comunicazione potrà essere diffusa entro la fine della settimana; prima di allora, non potrà circolare negli uffici né essere modificata.
– Si può inviare una domanda che non contenga richieste specifiche, né [il che non si ripete quasi mai, in coordinazione a precedente proposizione con che] sia stata presentata ad altri uffici (oppure: e che non sia stata presentata ad altri uffici). Questa frase è davvero strana: perché mai una domanda non dovrebbe contenere richieste specifiche, dal momento che è, per l’appunto, una domanda, cioè una richiesta? Insomma, il primo requisito di un testo è che dica cosa sensate, non senza senso, di là dalla forma in cui è scritto.
– Senza essere stato nominato e senza aver ottenuto riconoscimenti in precedenti competizioni, l’autore è libero di presentare le sue opere? Anche qui si può esprimere lo stesso concetto in modo più chiaro, elegante e meno faticoso: Un autore che non abbia presentato domande ad altre competizioni può presentare le sue opere?
Fabio Rossi
QUESITO:
Desidero sottoporre alla vostra attenzione un altro testo dei miei. Volevo
sapere se questo testo fosse ben scritto (anche a livello della
punteggiatura) e se è necessario migliorare il riferimento
pronominale. Inoltre volevo sapere se nel testo si intuisce che la ragazza
si tiene il naso tappato dal momento in cui mi ci infila dentro fino a che
non raggiunge la sua abitazione. Per quanto riguarda l’ultima frase, volevo
sapere se questa fosse ben scritta, oppure se posso formularla ancora
meglio. In altre parole, ciò che voglio dire è che la ragazza fa le ultime
due azioni per tirarmi fuori dal suo naso.
*Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo
piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è
troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver
fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per
infilarmi nel tuo naso; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato
per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di
soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua:
che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua
e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per
tirarmi fuori dal tuo naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso
con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello, non fai
nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo letto.*
Vi ringrazio come sempre per i vostri preziosi suggerimenti. Ne sto facendo
tesoro, e posso dire che grazie ai vostri consigli sto evitando un sacco di
errori. Ancora grazie per il magnifico servizio che offrite.
RISPOSTA:
I riferimenti pronominali sono corretti e quanto vuole esprimere si capisce benissimo. Forse si potrebbero migliorare un paio di cose che segnalo sotto nel testo tra parentesi quadre. Ciò che contribuirebbe a rendere il testo un po’ meno faticoso, tra l’altro, è l’eliminazione dei continui aggettivi possessivi tuo: è ovvio che una parte del corpo (naso) sia della persona di cui si fa riferimento, non c’è alcun bisogno di sottolinearlo, di norma. Questa abitudine (sbagliata) di dire continuamente mio naso, tue mani ecc. è invalsa dall’inglese (per es. del doppiaggio), in cui invece i possessivi sono sempre obbligatori: my nose, my finger, my house ecc.
Ecco qui il brano con alcune proposte di correzione:
Successivamente provi ad acciuffarmi, però non ci riesci: sono troppo piccolo. Ritenti una seconda volta e anche una terza, ma non c’è verso: è troppo complicato per te. Tuttavia non ti arrendi, e alla fine, dopo aver fatto quasi l’impossibile, hai successo: a questo punto usi le dita per infilarmi nel tuo naso [qui tuo è corretto ed efficace, perché in effetti il contesto è davvero insolito: complimenti per la vivida fantasia!]; dopodiché continui a tenerti sempre il naso tappato per intrappolarmici dentro. Ormai non perdi più altro tempo ed esci di soppiatto dal mio appartamento, e cammini a passo spedito verso casa tua: [qui sarebbe meglio una virgola al posto dei due punti] che è lontanissima dalla mia. Non appena arrivi, entri subito in camera tua e chiudi la porta della stanza. Adesso usi sempre le tue stesse dita per tirarmi fuori dal tuo [eliminare tuo: ormai è chiaro di chi sia il naso] naso, così come provi a soffiarti, di nuovo, il naso con la mano: una volta che mi hai espulso fuori da quello [da quello è inutile e pesante: eliminarlo!], non fai nient’altro che posarmi con estrema delicatezza sul cuscino del tuo [sta a casa sua, è ovvio che il letto sia il suo: eliminare suo] letto.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ma è vero che i verbi come: benedivo e maledivo non sono corretti, anche se usati molto nel modo di parlare? La forma corretta sarebbe benedicevo, maledicevo … ecc..
RISPOSTA:
Sì, è vero, essendo composti del verbo dire vanno coniugati come quello.
Anche se vi sono esempi letterari (ma non più ammessi nell’italiano odierno) di quelle forme, il più illustre dei quali è il celeberrimo verso del Rigoletto verdiano “Quel vecchio maledivami”.
Naturalmente, essendo la forma semplificata e analogica (ferire, ferivo = maledire, maledivo) molto comune nel parlato (e nello scritto semicolto) oggi, non escludo che in un prossimo futuro esse possano essere accettate nell’italiano di tutti i registri, ma finché questo non accadrà, cioè finché i parlanti colti continueranno a considerarle scorrette, esse oggi sono parte dell’italiano popolare (o substandard), ma non dello standard.
Fabio Rossi
QUESITO:
Mi capita spesso di sentire espressioni tipo “Mi devo andare a preparare per l’esame” al posto di “Devo preparami/mi devo preparare per l’esame”. La prima forma è ugualmente accettabile?
RISPOSTA:
Colloquiale ma accettabile senza dubbio. Si tratta di verbi fraseologici, o aspettuali, che accompagnano il verbo principale per qualificare meglio il tipo di azione (tecnicamente, l’aspetto), e, come in questo caso, quasi per attenuarne un po’ il senso generale: sono in procinto di prepararmi, mi sto preparando, mi metto a preparare e simili.
In certi contesti, l’uso di andare può essere anche richiesto per esprimere un significato diverso: “ora torno a casa perché devo andare a prepararmi per l’esame”, che aggiunge l’idea di andarsene da un posto verso un altro al fine di prepararsi all’esame.
Altre volte ancora, ma non è questo il caso, il verbo andare ha altri usi fraseologici sempre colloquiali e attenuativi, quasi a prendere tempo mentre si pensa a che cosa dire: “Andiamo ora a spiegare il teorema di Pitagora”: che non aggiunge nulla rispetto a “Ora spiegheremo/spieghiamo il teorema di Pitagora”.
Quanto alla posizione del clitico o particella pronominale atona (mi), essa è libera, in casi simili, e dunque vanno bene sia “mi devo/debbo andare a preparare”, sia “devo/debbo andare a prepararmi”, sia “devo/debbo andarmi a preparare”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Grazie. Questo uso dell’imperfetto nella lingua parlata per attenuare una cosa –
in quale parte della grammatica viene specificata? Ho una ventina di libri i
grammatica e non l’avevo mai visto. C’e’ una citazione da Serianni o
qualcun’altro?
Dice che e’ simile a una cosa che ho trovato anni fa quando un amico mi ha
scritto.
“Avrei gia’ preso un appuntamento a quell’ora per attenuare l’atto di dirmi che
non e’ stato possibile parlarmi e soddisfare la mia richiesta?” L’esempio non e’
lo stesso, ma l’uso qui dell condizionale composto viene usato per attenuare una
cosa di questo tipo (l’ho trovato nella grammatica di Serianni).
RISPOSTA:
Si tratta di valore modale (o più specificamente epistemico, o attenuativo) dell’imperfetto, studiato da decenni da numerosissimi linguisti quali Carla Bazzanella, Le facce del parlare (La Nuova Italia), oppure alle pp. 82-83 della Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, Salvi e Cardinaletti, volume secondo (il Mulino), oppure anche nei nostri volumi Rossi-Ruggiano, Scrivere in italiano, oppure L’italiano scritto (Carocci). E moltissimi altri autori che non sto qui a elencarle. Per usi del genere, le consiglio di rivolgersi a studi più specialistici piuttosto che alla pur ottima (ma tradizionale, scolastica e generale) Grammatica del mio maestro Luca Serianni.
Sì, ha ragione, gli usi modali ed epistemici, o semplicemente attenuativi (come definiti a p. 82 del secondo volume del Renzi-Salvi-Cardinaletti) dell’imperfetto sono simili a quelli del condizionale, in certi contesti.
Fabio Rossi
QUESITO:
Chiedo, cortesemente, se il seguente testo va bene: “Gent.mo Dirigente F,
sono con la presente per comunicarLe che nel mese di giugno mi ha contattato/sono
stata contattata il Dirigente S. e mi ha comunicato/ che mi ha comunicato che il
prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato
anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga
conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “
RISPOSTA:
Diciamo che lo stile burocratico come al solito è sgradevolmente quanto inutilmente pomposo, e la sintassi delle alternative che propone non sempre è corretta. Ecco una possibile riscrittura, con le relative varianti.
“Gent.mo dirigente F.,
nel mese di giugno mi ha contattato il dirigente S. [oppure: sono stata contattata dal dirigente S.] e mi ha comunicato che [oppure: il quale mi ha comunicato che; oppure: comunicandomi che] il prossimo anno scolastico mi verranno assegnate due classi seconde. Ha individuato anche le docenti che mi dovrebbero sostituire in terza. Spero tanto che Lei tenga conto di questa disposizione, voluta per tutelare le classi, visto che… “
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho scritto un paio di frasi della cui correttezza non sono certa:
“La strada era bagnata: la pioggia ne ricopriva il fondo”
(=la pioggia ricopriva il fondo della strada)
“La cucina era sporca: polvere e residui di cibo ne rivestivano la sommità del piano cottura”
(=polvere e residui di cibo rivestivano la sommità del piano cottura della cucina).
Il pronome “ne” nei due esempi – di cui, per chiarezza, ho riportato tra parentesi una sorta di parafrasi – è ben impiegato?
RISPOSTA:
Sì, è ben impiegato in entrambi i casi.
Fabio Rossi
QUESITO:
Vi propongo questa costruzione:
“Il messaggio a cui hai allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Ho un dubbio su questa – passatemi l’espressione – “relativizzazione doppia”: si può inserire, all’interno del medesimo periodo, un rimando al soggetto (a cui) e uno al complemento (di cui)?
RISPOSTA:
Sì, si può, è un po’ pesante ma non c’è nessuna regola che lo vieti. Due pronomi relativi possono tranquillamente riferirsi a elementi diversi ed essere in casi diversi.
Per semplificare il testo si potrebbe scrivere così, trasformando una relativa in un complemento:
“Il messaggio con allegato il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Oppure ancora (con un che al posto di a cui):
“Il messaggio che allegava il documento di cui abbiamo già discusso è datato 4 giugno”.
Fabio Rossi
QUESITO:
Ho trovato quest’esempio nel libro <>, p271, casa di editrice La nave
di Teseo, scritto da Sandro Veronesi:
– Dov’eri?
– Da uno che abita qui di fronte.
– Hai un amico che abita proprio qua? Che culo.
– No, l’ho conosciuto solo oggi. Tu, piuttosto: che ci fai qui?
– Niente, passavo ……
– OK, sono venuta per via della telefonata di prima. Vorrei sapere perché mi hai
chiesto quelle cose.
– Quelle sul disco?
– Te l’ho detto: era una sciocchezza, una curiosità
La mia domanda è, come mai ha scelto l’imperfetto invece di “è stata una
sciocchezza”? Qual è la sfumatura qui? Come cambia la semantica tra il passato
prossimo e l’imperfetto? Il passato prossimo sarebbe sbagliato? Secondo me
riferisce a un’azione completa nel passato, cioè la telefonata, non una cosa che
durava.
E’ possibile che Veronesi ha scelto l’imperfetto per indicare che la sciocchezza
dura ancora nel presente? Pensavo che si può fare una cosa del genere soltanto
in una costruzione con una proposizione completiva, ad esempio <<Ho sentito che
eri a Roma>> (dove eri potrebbe indicare Ho sentito che sei (il presente) a Roma
in questo momento).
In Treccani e’ spiegato:
<<b. In senso concr., azione, parole da sciocco, cosa fatta o detta in modo
sciocco, senza adeguatamente riflettere: ho fatto la sc. di fidarmi di loro; è
stata una vera sc. aver rifiutato la sua offerta; non dire sciocchezze!
RISPOSTA:
Cominciamo dalla fine della sua richiesta. In questo caso sciocchezza non vale come “cosa da sciocchi”, bensì come “cosa da nulla”, cioè di nessuna importanza, uso comunissimo nell’italiano colloquiale.
Qui l’imperfetto non indica assolutamente l’aspetto dell’azione né tantomeno la sua durata, ma è uso modale tipico del parlato, con valore di attenuazione. E’ come se dicesse: “E’ solo una sciocchezza, è giusto una sciocchezza”. Quindi sarebbe andato bene anche il presente. Non va bene, invece, il passato prossimo, perché lascerebbe quasi intendere una collocazione al passato che invece non è appropriata al contesto, in cui non importa il quando (se una cosa è priva di importanza lo è sempre, non solo in relazione al tempo in cui è avvenuto l’evento che si definisce senza importanza).
Per capire bene la differenza, consideri questo esempio analogo:
Ti ho chiamato ieri ma tu non hai risposto. Comunque non preoccuparti, perché non è/era nulla di importante”. Sarebbe anomalo (e quindi sbagliato, nel senso di “non naturale in italiano”) dire “non è stato nulla di importante”, perché, come ripeto, l’essere poco importante è una constatazione generale svincolata dal tempo.
Fabio Rossi
QUESITO:
Dato che ci troviamo nel “periodo clou” dei matrimoni (e dato che non mi sembra il caso di correggere gli sposi nel momento più emozionante della loro vita), mi domandavo: è giusto rispondere “Sì, lo voglio” alla fatidica domanda posta dal prete (o da qualsiasi altra figura ufficiale che sta celebrando il matrimonio)?
Se non ricordo male, potrebbe trattarsi di un calco dall’inglese “I do”.
RISPOSTA:
Ha ragione, basterebbe il semplice (e fatidico) Sì, in teoria e secondo la lingua italiana. Questa è la formula da sempre tipica del matrimoni italiani, almeno in passato (fu proprio il sì a sancire il matrimonio dei miei genitori, per esempio). Oggi sono invalse altre formule di autodichiarazione (“Prendo te come mia/o legittima/o sposa/o” ecc. ecc.).
Credo che sul “lo voglio” abbiano influito non poco i doppiaggi di film e serie televisive angloamericani, nei quali andava colmato il movimento labiale dell’inglese I do. Questa è la spiegazione data da molti anglisti che si sono occupati di lingua del doppiaggio, o doppiaggese. Anche se forse questa sarà stata una concausa, piuttosto che l’unica causa. Andrebbe infatti vista a ritroso tutta la storia della formula matrimoniale, per vedere che cosa vi fosse in passato, in latino e poi in italiano, se il solo Sì, oppure il solo Lo voglio, oppure l’insieme di Sì, lo voglio, o magari altro ancora. Dico questo perché nell’italiano antico (sul retaggio del latino) sono frequenti risposte non secche (semplicemente sì o no, come oggi), bensì la ripetizione del verbo su cui è incardinata la domanda: Vuoi / Voglio, Lo voglio, non voglio, non lo voglio ecc.
Come che sia la questione, l’importante è usare una formula di risposta prevista dal diritto, altrimenti si rischia di invalidare il matrimonio (come pure è successo anche recentemente). La formula di domanda/risposta del rito matrimoniale, infatti (civile o religioso che sia) è un tipico caso di testo performativo, ovvero di testo vincolato alla forma al punto tale che proprio e soltanto la pronuncia di una determinata formula (e solo di quella!) produce un atto giuridico e un conseguente cambiamento di stato. Pertanto, attenzione: in questi casi non si scherza e non si va a gusto personale: si deve rispondere quello che prescrive la legge, altrimenti… addio matrimonio!
Fabio Rossi
QUESITO:
Vorrei esporvi queste frasi:
1)Roma, che è capitale d’Italia, è una città vicina al mare.
2)Le rendo noto che, se non salderà il suo debito, passerò a vie legali.
Sia il primo inciso (che è capitale d’Italia) che il secondo (se non salderà il suo debito), qualora vengano sottratti, permettono alla frase di avere un senso compiuto (Roma è una citta vicina al mare / le rendo noto che passerò a vie legali).
Nella prima frase, però, l’inciso dà informazioni irrilevanti rispetto al senso della frase, nella seconda, invece, l’inciso fornisce informazioni sostanziali (io passerò a vie legali solo se si realizzerà una ben precisa condizione: il suo mancato pagamento).
Mentre il primo inciso va posto sicuramente fra le virgole, il secondo non lo porrei fra di esse, perché le virgole farebbero risultare l’affermazione ” se non salderà il suo debito” come marginale, anziché di centrale importanza.
RISPOSTA:
Va distinta la funzione di inciso da quella di parentetica. Una parentetica contiene di solito, come dice lei, un’informazione marginale (“che è la capitale d’Italia”). Per inciso, invece, si intende semplicemente la collocazione dell’informazione tra due pause, o virgole, ma non la sua marginalità. Le virgole che isolano la protasi del periodo ipotetico nell’esempio “Le rendo noto che, se non salderà il suo debito, passerò a vie legali” sono necessarie (e dunque se le eliminasse commetterebbe un errore!), perché indicano la spezzatura del rapporto assai vincolante tra reggente e completiva (…rendo noto che passerò…) mediante l’intromissione della protasi del periodo ipotetico. La posizione di inciso, cioè la segnalazione di tale intromissione, non implica in alcun modo la minore importanza della protasi. Aggiungo che, qualora non vi fosse stata intromissione, e vi fosse dunque stato soltanto il periodo ipotetico, si sarebbe potuta usare la virgola oppure no (“se non salderà il suo debito[,] passerò a vie legali”) senza alcun cambiamento di significato. La virgola, infatti, in questo caso è un semplice retaggio del passato, quando si soleva separare quasi sistematicamente la premessa dalla conseguenza.
In generale, faccia attenzione a non caricare la punteggiatura di valori logicistici che le sono estranei: la virgola non indica quasi mai una riduzione di importanza (tranne, e non sempre, nel caso delle parentetiche di cui sopra), bensì denota una frattura sintattica (in molti casi), una transizione di piano testuale o informativo (cioè il passaggio da un’informazione all’altra, in molti altri casi), la riproduzione di una piccola pausa o curva intonativa (più raramente e soltanto nei testi mimetici del parlato), la messa in evidenza di un’informazione (e dunque l’esatto contrario di quel che dice lei, cioè conferisce maggiore importanza a qualcosa: “Mario, ho incontrato, non Luca”, con focalizzazione di Mario), oppure uno stilema (stile di un certo autore, consuetudine scrittoria ecc.).
Fabio Rossi