Una parola fantastica e dove trovarla (e come perderla)

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La saga di Animali fantastici, nata da una costola di quella di Harry Potter, si basa su un volume della stessa autrice delle avventure del maghetto inglese, J. K. Rowling, Fantastic Beasts and Where to Find Them. Il libro è uscito nel 2001 (in Italia nel 2002 per Salani, con il titolo Gli animali fantastici: dove trovarli) ed è stato edito in varie forme da allora. Il grande pubblico, comunque, è stato raggiunto grazie al primo film ispirato al libro, che porta lo stesso titolo ed è uscito nel 2016. Il film non si basa sulla prima edizione del libro, ma su una del tutto diversa, pubblicata come libro autonomo nello stesso 2016 con il titolo di Fantastic Beasts and Where to Find Them: The Original Screenplay. In Italia questa edizione è uscita nel 2018, sempre per Salani, con il titolo Animali fantastici e dove trovarli. Screenplay originale. Questa edizione del libro è stata tradotta da Silvia Piraccini, traduttrice anche di autori come Nick Hornby e Torey Hayden. La prima versione del libro di Rowling, invece, era stata tradotta da Beatrice Masini.

Un libro di zoologia fantastica (che nell’universo di Rowling diventa magizoology, cioè ‘magizoologia’) è anche un’occasione per mettere alla prova la lingua, tanto quella originale, l’inglese, quanto quelle delle traduzioni, tra cui anche l’italiano. Gli animali fantastici non sono un’invenzione moderna; popolano l’immaginario fin dall’età antica, con esemplari come l’ippogrifo, la fenice, la chimera, e poi il catoblepa, il basilisco, l’unicorno, il grifone e tutti i loro meravigliosi compagni. La fantasia di Rowling, già messa alla prova con la creazione di un intero mondo parallelo, quello di Harry Potter, è in grado di aggiungere molti altri esemplari a questa compagine già ricca, dotati di qualità bizzarre e di nomi coerentemente inediti.

Tra questi spicca, per le sue doti straordinarie, e per le parole che le definiscono, l’occamy, il cui nome è già solenne, perché rimanda al filosofo tedesco medievale Guglielmo di Occam, famoso per il principio logico del rasoio di Occam. Attraverso il “rasoio”, Occam predicava che le risposte migliori ai quesiti sono quelle che escludono il maggior numero di elementi, quelle più semplici. Il rasoio, quindi, è un metodo per semplificare la propria visione del mondo, per ridurre i problemi complessi a risposte non complesse, per vedere il piccolo in quello che sembra grande. Ecco il collegamento con l’occamy, serpente dalle dimensioni imprecisate, perché è capace di ingrandirsi o ridursi (entro certi limiti, però) a seconda dello spazio che gli sta attorno.

Ma Rowling non si accontenta di dare un nome tanto filosofico al serpente; si ingegna anche per trovare un aggettivo che definisca la sua qualità di cambiare forma. E anche questa è una parola impegnativa, cavata addirittura dal greco antico: choranaptyxic. Questa parola così insolita e misteriosa non è destinata soltanto al libro, ma è mantenuta tale e quale nel film, sceneggiato dalla stessa Rowling.

Come in altre occasioni, l’autrice sfrutta per choranaptyxic il processo di formazione noto come composizione, che crea nuove parole mettendone insieme due. Tipici composti dell’italiano sono pescecane, camposanto, lavastoviglie. Altrettanto tipico dell’italiano e delle altre lingue romanze (ma molto meno dell’inglese e delle lingue germaniche) è che a mettersi insieme non siano esattamente due parole preesistenti nella lingua, ma una parola greca antica e una di quella lingua, oppure due parole greche. È così, ad esempio, che è stato formato l’aggettivo (oggi usato quasi esclusivamente come nome) automobile, unendo auto- e -mobile. La parola è francese, ma l’italiano l’ha presa così com’era, grazie al fatto che se l’avessimo creata in italiano l’avremmo fatta esattamente allo stesso modo. In italiano, infatti, abbiamo fatto autoarticolato, autodiretto, autopalpazione e molte altre. Che cos’è auto-: è ciò che resta se togliamo la desinenza all’aggettivo greco antico αὐτός ‘da sé’. In pratica, quindi, le lingue romanze sfruttano molte parole del greco antico private della desinenza per formare nuove parole. Giusto qualche esempio italiano: demoscopia (demo- ‘popolo’ + -scopia ‘ osservazione’), psicologia (psico- ‘anima’ + -logia ‘studio, discorso’), filoabortista (filo- ‘amore, amicizia’ + abortista), antropocentrico (antropo- ‘essere umano’ + centrico) ecc. I pezzi di parole greche (e anche latine) oggi usati come mattoncini per formare nuove parole prendono il nome di affissoidi, semiparole o anche confissi.

Nell’aggettivo inglese choranaptyxic si incontrano gli affissoidi chor(o)- (dal greco χώρος ‘spazio, luogo’) e -anaptix (dall greco ἀνάπτυξις ‘dispiegamento, svolgimento’). A questi si aggiunge infine il suffisso -ic, che in inglese serve per fare molti aggettivi (optimistic, realistic, frantic). Non sono, come si può immaginare, elementi molto produttivi, cioè capaci di creare molte parole: questo aggettivo, pertanto, unisce due parole sconosciute in un modo che per la lingua inglese è molto raro. L’affissoide chor(o) all’italiano è minimamente noto: si ritrova in corografia ‘descrizione di una regione dal punto di vista fisico, storico e antropico’, anche se questa parola è stata presa così com’è direttamente dal greco, non formata in italiano unendo due affissoidi. Il secondo è un vero e proprio preziosismo che Rowling si è concessa.

La traduttrice italiana ha deciso di non adattare fonomorfologicamente la parola, per esempio in coranattissico, o coranaptissico, ma di tradurla. Per farlo l’ha scomposta nei suoi tre elementi (compresa la desinenza), traducendoli separatamente e ricomponendoli per formare un neologismo per molti versi lontano dall’originale: aggiustospazioso, una parola non più composta di affissoidi, ma composta con parole comuni.

Per quanto il risultato sia grazioso e arguto, vorrei argomentare contro la scelta di tradurre la parola, innanzitutto perché anche in inglese è chiaro che il lettore medio non riconosca l’etimologia di un composto tanto raro e si debba accontentare del suo suono immaginifico. Lo stesso gioco a più livelli di comprensione, del resto, è proposto ai lettori con il nome dell’animale, occamy, che probabilmente pochi riescono a ricondurre al filosofo medievale. La traduzione priva il lettore italiano dell’alone di mistero che la parola originale infonde e gli consegna, in cambio, una parola di tutt’altra pasta, nel significato, nella formazione, nel suono.

Analizzerò la parola aggiustospazioso, per rilevare come essa sia non soltanto diastraticamente bassa, esattamente all’opposto dell’originale, ma anche non perfettamente formata.

Comincerò dal significato, che apparentemente è fornito nel libro originale subito dopo la prima volta che viene usata la parola: «Occamies are choranaptyxic. So they – grow – to – fill – available – space». Si noterà che non si tratta di una descrizione della qualità, che avrebbe prodotto una traduzione della parola, ma della spiegazione delle conseguenze di questa qualità. Essa è, infatti, introdotta dalla congiunzione so ‘quindi’, e contiene i verbi grow ‘crescere’ e fill ‘riempire’, che non traducono l’originale. Quindi l’autrice si ostina a non tradurre la parola anche quando la spiega per esigenze narrative. Nella seconda occorrenza della parola, alla fine della rocambolesca scena conclusa con la chiusura dell’occamy nella teiera, la parola viene nuovamente spiegata, ma ancora senza tradurla: «Choranaptyxic. They also shrink to fit the available space». Qui i verbi usati sono shrink ‘restringersi, rimpicciolirsi’ e fit ‘coincidere, combaciare’, ma anche ‘adeguarsi’. Proprio da questo verbo deriva il primo elemento della parola italiana che traduce choranaptyxic: aggiusto-. Ribadisco, però, che fit, come il precedente speculare fill, non traduce la parola greca, ma spiega la conseguenza della qualità da essa descritta.

Il nome greco ἀνάπτυξις è legato al verbo ἀναπτύσσω ‘dispiegare, svelare’, chiaramente distante da aggiustare, a cui rimanda aggiusto-. Altri equivalenti possibili del verbo greco sarebbero svolgere, srotolare, spiegare, da considerare, in questo caso, medi, cioè ricondotti al soggetto (in italiano corrispondenti a svolgersi, srotolarsi, spiegarsi ecc.). Questi sarebbero non solo più vicini semanticamente all’originale, ma anche, almeno dispiegare e svelare (ma anche svolgere con questo significato, e non con quello di ‘risolvere’), meno comuni di aggiustare, quindi anche diastraticamente più vicini all’originale. Dal punto di vista semantico, è chiaro il legame tra i verbi che hanno a che fare con il dispiegamento e la natura dell’animale, che è un serpente, quindi ha un corpo spiraliforme. Con l’aumentare dello spazio intorno a sé, l’animale si allunga e si ingrossa, quindi il numero delle sue spire aumenta, ovvero esso si dispiega, si srotola o simili.

Certo, tutti gli equivalenti di ἀναπτύσσω sopra elencati hanno in comune il destino di essere usati come metafore dell’atto della semplificazione di concetti complessi; non a caso, spiegare e svolgere si usano spesso in contesti scolastici e svelare si usa in collocazione con mistero. L’unico verbo, tra quelli che traducono fedelmente ἀναπτύσσω, che non ha mai a che fare con processi cognitivi, è srotolare: srotolospazioso o srotolaspazioso (che sarebbe più corretto, come si dirà tra poco), però, sebbene migliorativo di aggiustospazioso dal punto di vista della fedeltà semantica all’originale, è forse ancora peggiore dal punto di vista della vicinanza diastratica. Ma ovviamente le possibilità combinatorie non sono limitate alla struttura verbo + nome + suffisso. Anzi, proprio questa struttura, come vedremo, pone diversi problemi.

In ogni caso, la soluzione migliore sembra ancora l’adattamento fonetico della parola originale.

L’allontanamento dalla potenza evocativa della parola originale è provocato anche dall’ordine delle parole del composto. In italiano l’ordine tipico è determinato-determinante, come in pescecane ‘pesce che sembra un cane’; nelle lingue antiche, e anche nelle lingue germaniche moderne, invece, l’ordine è opposto, infatti psicologia è ‘studio dell’anima’, non ‘anima dello studio’, e sunglasses è ‘occhiali da sole’, non ‘sole degli occhiali’. In choranaptyxic si nota l’ordine tipico delle lingue antiche e dell’inglese, con il determinante che precede il determinato; aggiustospazioso, invece, segue l’ordine determinato-determinante.

C’è, poi, da considerare la forzatura morfologica operata dalla traduttrice sulla parola: se, infatti, come abbiamo detto, aggiusto- è collegato ad aggiustare, dovremmo avere aggiusta- (sul modello di  lavastoviglie, non *lavostoviglie, da lavare + stoviglie).

Un’altra possibilità è che aggiusto- sia il risultato dell’univerbazione di al giusto con l’assimilazione regressiva della l. In questo caso, la o finale di aggiusto- sarebbe normale, perché sarebbe la vocale tematica dell’aggettivo, e la parola sarebbe composta da al- + -giusto- + -spazio- + -oso-. Una simile parola potrebbe essere intesa sia come ‘che si adatta al giusto spazio’, sia come ‘che è spazioso quanto è giusto’. In questo secondo caso, l’elemento spazio non sarebbe riferito all’ambiente a cui l’animale si adatta, ma al volume del corpo dell’animale. La soluzione sarebbe semanticamente ingegnosa, ma sarebbe particolarmente “infedele” rispetto all’aggettivo originale. A prescindere dal significato, inoltre, la parola presenterebbe un ulteriore problema fonetico: l’assimilazione della l in italiano standard non avviene. Una pronuncia tendente a iggiudice per il giudice, per esempio, sarebbe un tratto di italiano popolare inaccettabile in contesti anche informali.

Alla base di aggiusto-, quindi, c’è senz’altro il verbo aggiustare, con la vocale tematica modificata. Questa modificazione è ardua da giustificare. È tanto insolita che la parola è stata percepita come giustospazioso da diversi spettatori del film (che evidentemente non hanno letto il libro).

Forse la traduttrice ha temuto che l’aggettivo aggiustaspazioso avrebbe lasciato interpretare spazio come complemento oggetto del verbo, trasformando il significato della parola in ‘che aggiusta lo spazio’ (mentre è ‘che si aggiusta nello spazio’). Grazie al cambiamento della vocale, il fraintendimento è molto più difficile, perché la vocale tematica o rimanda effettivamente all’aggettivo e non al verbo. Un ibrido di questo genere, però, è senza precedenti: tutti i verbi in -are che entrano in composizione con un nome mantengono immancabilmente la a (lavastoviglie, asciugacapelli, aspirapolvere, scacciacani, strizzacervelli, portafoglio, posacenere, marciapiede ecc.). Ancora una volta, inoltre, ripeto che tutti i problemi di adattamento non sorgerebbero se semplicemente si adattasse la parola alla fonomorfologia italiana.

Il secondo elemento della parola italiana, spazio, è semanticamente molto vicino al greco χώρος (già presente nelle spiegazioni in inglese come available space), spostato da sinistra a destra, come si è visto, sul modello dei composti tipici dell’italiano. Anche di questa parola va detto che causa la perdita della misteriosità contenuta nell’originale.

Ancora, i composti verbo + nome danno quasi sempre come risultato un nome (si vedano gli esempi sopra elencati contenenti verbi in -are): gli aggettivi sono possibili, ma sono eccezioni, diastraticamente colorite, adatte allo stile brillante e alla pubblicità: acchiappaclick, strappamutande, salvaspazio. Certo, aggiustospazioso si distingue dagli altri rari aggettivi composti da verbo + nome perché ha un suffisso aggettivale. Questo, però, non solo non allontana la parola dalla familiarità con salvaspazio e gli altri rari aggettivi brillanti, ma crea anche un ulteriore problema. Né salvaspazio, che condivide la seconda parte con aggiustaspazioso, né i composti italiani in generale tollerano suffissi ulteriori: la derivazione non si intreccia di norma con la composizione. Questa ulteriore stranezza è, comunque, facile da giustificare: visto che il composto ha un suffisso anche nella lingua d’origine, e visto che anche nella lingua d’origine la struttura composto + suffisso è insolita, è sensato mantenere tale stranezza rispecchiata nella lingua di arrivo.

Piuttosto, è il suffisso scelto che lascia perplessi. L’italiano conosce il suffisso aggettivale denominale -ico (quantico, balcanico, panoramico…), che sembrerebbe la scelta più ovvia – sebbene non l’unica possibile – per tradurre l’inglese -ic. D’altra canto, -oso è oggi molto più produttivo di -ico, quindi si direbbe meno adatto a tradurre una parola rara e misteriosa. La produttività di -oso, inoltre, è legata a neoformazioni brillanti; eccone alcune molto recenti spigolate nella raccolta di neologismi del portale Treccani (http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/neologismi): bicurioso, cernieroso, chiacchieroso, sciroccoso, serendipitoso). Per non parlare di petaloso, degli aggettivi ipercaratterizzati coccoloso, cuccioloso e delle formazioni come morbidoso, nelle quali il suffisso è trattato come un alterativo, alla stregua di -uccio, -etto e simili.

In conclusione, le scelte lessicali e morfologiche adottate dalla traduttrice per la coniazione di questo aggettivo, a partire dalla scelta stessa di tradurlo invece che adattarlo fonomorfologicamente, sono finalizzate a disinnescare la misteriosità della parola originale, come a scongiurarne una possibile carica ominosa. Tale operazione è portata alla soluzione estrema di trasformare un termine arcano, con un’aura solenne, in una parola più che comune, addirittura buffa, scherzosa, poco seria. Dietro questa operazione, condotta con coerenza, potrebbe profilarsi una scelta editoriale orientata all’assordimento dell’elemento più inquietante e pauroso emanante dalle storie di magia di Rowling.

Certo, una sola parola non basta a definire un orientamento editoriale. Può essere, però, l’occasione di indagare il delicato e multiforme processo della traduzione; potremmo, addirittura, azzardare la conclusione che la traduzione sia proprio coranattissica.

Fabio Ruggiano

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