L’undicesimo errore grammaticale più comune commesso dagli italiani: criticare a sproposito i primi dieci

Pubblicato Categorie: Lo sapevate che?, Temi di lingua

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli interventi a vario titolo, nella stampa cartacea, nelle pagine web, nei social network, che lamentano gli errori grammaticali commessi dagli italiani nello scrivere.

Si tratta di interventi spesso privi di fondamenti, basati sulle convinzioni personali di chi li scrive, che a volte è solamente una persona della strada, o a volte è un intellettuale, ma senza conoscenze specifiche. Capita, però, che alcuni abbiano dietro una qualche raccolta di dati, da cui ricavano conclusioni. È questo il caso di un articolo pubblicato a fine 2018 nel sito libreriamo.it; questo l’indirizzo completo: https://libreriamo.it/scuola/10-errori-grammaticali-piu-comuni-commessi-italiani/.

L’argomento è stato esplorato anche da DICO, in una delle rubriche più vecchie del sito: Lo sapevate che (http://www.dico.unime.it/category/lo-sapevate-che/). In questa rubrica il prof. Rossi ha raccolto alcuni errori molto comuni nello scritto degli italiani, li ha commentati brevemente, spiegandone l’origine, e ha proposto per ognuno una o più correzioni. Non a caso, gli errori elencati nell’articolo di libreriamo.it sono anche tra quelli commentati dal prof. Rossi. Il modo in cui questi errori sono presentati, però, è davvero curioso per molti aspetti, a partire dal fatto che l’articolo non sia esente da errori ben più gravi di quelli che vitupera.

Un errore sintattico evidente, per esempio, è contenuto in questa frase: «L’uso corretto dei pronomi sono un altro grande errore commesso dagli italiani»; il soggetto di sono è l’uso corretto, quindi il verbo dovrebbe essere è. Si tratta di un caso, piuttosto comune, di attrazione del verbo da parte del referente più vicino, in questo caso pronomi, che, però, non è il soggetto. Senza contare il fatto che l’uso corretto non è certo un errore; semmai un errore potrebbe essere l’uso scorretto.

A parte i piccoli e grandi errori di composizione, però, dall’articolo emerge soprattutto l’impressione che l’autore (che non si firma) scriva a casaccio, tentando di spacciare per fondate e argomentate convinzioni frutto di pregiudizi fuorvianti, nonché triti e ritriti. I primi due capoversi dell’articolo sono illuminanti in proposito, visto che infilano una dopo l’altra oscurità, illazioni e dichiarazioni a dir poco incredibili. Li riporto, per commentarli brevemente subito dopo:

Strafalcioni da Oscar, supposizioni imbarazzanti e convinzioni infondate, oggi ben 7 italiani su 10 (71%) litigano con la grammatica e commettono errori inquietanti nello scritto, ma anche nel parlato. Una problematica frutto dell’abuso di internet, che ha reso gli italiani incapaci di scrivere e di formulare a volte un ragionamento sensato. “Qual’è”, “pultroppo”, “propio”, “avvolte”, “al linguine” senza dimenticare gli imperdibili “c’è ne” e “c’è né”, gli errori degli italiani variano dall’apostrofo (45%), al congiuntivo (34%) fino alla punteggiatura (31%). Ma come si può affrontare la problematica della grammatica in Italia? Leggere con regolarità (76%), scrivere a mano (43%) ed evitare neologismi nel parlato (35%) sono alcuni dei segreti per migliorare.

È quanto emerge da una nostra indagine realizzata in occasione della XVIII Settimana della lingua italiana nel mondo, su circa 8000 italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni, realizzata con la metodologia WOA (Web Opinion Analysis) attraverso un monitoraggio online sulle principali testate di settore, social network, blog, forum e community dedicate al mondo della cultura e su un panel di 30 esperti tra sociologi e letterati per capire quali sono i principali errori grammaticali che commettono gli italiani. Ecco gli errori grammaticali più comuni emersi dalla nostra indagine aggiornata.

Trascuro le sbavature, come il modismo giovanilista inquietanti, detto degli errori grammaticali (che ricalca l’atteggiamento allarmista di molti interventi privi di fondamenti concreti) e mi concentro su un aspetto ben più sorprendente: la descrizione della metodologia di reperimento dei dati. C’è un evidente conflitto, impossibile da spiegare per il lettore, tra gli «8000 italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni» e «la metodologia WOA», che si applica ai testi e non alle persone. I testi analizzati con la metodologia WOA, poi, sono stati scelti all’interno di «testate di settore» (ma di quale settore?) e altre sedi tutte on line, come se questo esaurisse l’universo dello scritto in italiano. Fa sorridere, infine, il «panel di 30 esperti tra sociologi e letterati»: chi sono? Come sono stati scelti? Perché mai i sociologi? E perché mai i letterati? I maggiori esperti di grammatica italiana, senza nulla togliere alla competenza dei sociologi e dei letterati nei loro rispettivi campi, sono i docenti di italiano di scuola, gli autori di grammatiche e gli studiosi di linguistica italiana (categorie largamente intersecate). E ancora: quale è stato l’apporto degli 8000 italiani, della metodologia WOA e del panel? In che modo il contributo delle tre componenti è state integrato?

Le premesse sono, come si vede, debolissime; nonostante ciò, però, l’autore si lancia in una dichiarazione impegnativa: «oggi ben 7 italiani su 10 (71%) litigano con la grammatica e commettono errori inquietanti nello scritto, ma anche nel parlato». Generalizza, quindi, dati che, anche volendo dare per buona la descrizione della modalità di reperimento, avrebbero comunque una rappresentatività ristrettissima. E li estende anche al parlato, con una facilità che rivela quanto poco sappia della specificità del parlato rispetto allo scritto.

Sentenzia, quindi, che la causa degli errori sia «l’abuso di internet, che ha reso gli italiani incapaci di scrivere e di formulare a volte un ragionamento sensato». A parte l’ironia involontaria di denunciare l’incapacità di comporre un ragionamento sensato componendo un ragionamento effettivamente poco sensato, su quali basi viene accusato l’abuso di Internet? Non voglio difendere la rete, ma prima di puntare il dito bisogna avere qualche prova, e non solo nell’articolo non se ne portano, ma è anche difficile in generale stabilire quanto e in quali punti Internet stia influendo sull’evoluzione della competenza scrittoria degli italiani.

Come se non bastasse la grossolanità delle affermazioni, poi, ecco l’elenco degli errori inquietanti che rivelerebbero la difficoltà a scrivere e a ragionare degli italiani: «“Qual’è”, “pultroppo”, “propio”, “avvolte”, “al linguine” senza dimenticare gli imperdibili “c’è ne” e “c’è né”». Insomma il catalogo ammuffito dell’italiano delle maestre, sbandierato continuamente come cahier de doléances da chi non sa niente dell’italiano contemporaneo e guarda il dito senza vedere la luna.

Come spesso abbiamo detto nelle risposte ai quesiti degli utenti di DICO e in vari interventi sparsi nelle pagine del sito, questi errori, puramente grafici, non comportano ambiguità o incoerenza e indicano sicuramente che chi li commette abbia poca dimestichezza con la scrittura, ma non escludono che sappia comporre un testo sensato, e certamente non indicano che sia incapace di ragionare. Molto più gravi di quelli elencati sono gli errori di coerenza logica commessi dall’autore dell’articolo, come quelli già evidenziati, a cui si aggiunge, tra gli altri, la seguente perla: «Ma come si può affrontare la problematica della grammatica in Italia? Leggere con regolarità (76%), scrivere a mano (43%) ed evitare neologismi nel parlato (35%) sono alcuni dei segreti per migliorare». Rimedi banali, e di discutibile utilità, suggeriti già dai magistri dell’antica Roma, sono definiti segreti, come se non li conoscesse nessuno, e sono associati a percentuali di cui non si coglie la funzione, e che sommate insieme arrivano al 154% (ma poi rispetto a quale totale?), a cui si dovrebbero sommare altre porzioni, visto che questi sono solo «alcuni dei segreti».

L’articolo continua con un elenco dettagliato dei “10 errori più comuni”, che correda di “correzioni” e a volte anche di spiegazioni. Sarebbe troppo lungo analizzare tutta la disamina, ma mi soffermo su un punto, nel quale l’autore manifesta con limpidezza la sua scarsa conoscenza della grammatica storica italiana, proprio mentre si erge a giudice degli errori degli altri. Il punto è l’apostrofo, che torna in tre momenti diversi:

Qual è o qual’è? (76%) – Un altro degli errori più comuni commessi dagli italiani. Qui, l’apostrofo ci vuole oppure no? Assolutamente no. Qual è si scrive senza. Sempre.

L’apostrofo (68%) – In cima alla classifica, ovviamente, c’è l’apostrofo. Davvero uno degli amici più antipatici della lingua italiana. Quando si mette? Semplice, con tutte le parole femminili, quindi: un’amica sì, un amico no. E quindi apostrofo? Si tratta di elisione: non si può dire lo apostrofo, diventa quindi l’apostrofo. Infine c’è anche il troncamento: un po’ vuole l’apostrofo, perché si tratta del troncamento della parola ‘poco’.

[…]

Un po, un po’ o un pò? (39%) – Pur scorretta, la grafia “pò” con l’accento risulta sempre più diffusa. Basta una rapida ricognizione in rete per accorgersi che “un pò” non si trova solo in chat, nei blog e nei forum, ma anche in comunicati stampa e talvolta in articoli di giornale! La grafia corretta è “un po’ ” con l’apostrofo, perché la forma è il risultato di un troncamento.

Impossibile stabilire anche qui a che cosa si riferiscano le percentuali presentate a fianco dei titoli dei paragrafi. Come si nota, infatti, lo stesso problema, l’apostrofo, è spezzettato in tre voci, una delle quali, però, dovrebbe contenere le altre due, perché si chiama l’apostrofo. Della metodologia incomprensibile della ricerca, però, si è detto, quindi non infierirò; non dirò niente neanche dell’affermazione che l’apostrofo si metta «con tutte le parole femminili», quindi anche in un’casa, e non in bell albero, perché è maschile. La questione che sottolineo è, invece, la ragione addotta per la necessità dell’apostrofo: «si tratta di elisione». Peccato che poco dopo si dica (e si ribadisca più sotto): «Infine c’è anche il troncamento: un po’ vuole l’apostrofo, perché si tratta del troncamento della parola ‘poco’». Quindi l’apostrofo è necessario tanto nell’elisione quanto nel troncamento? Bene, e allora come si spiega che «Qual è si scrive senza. Sempre», come detto appena prima? Al pari di po’, qual è una parola tronca (o apocopata, se volete) così come signor (Bianchi), fil (di ferro), can (che abbaia non morde) ecc. Per la verità, po’ ha subito una apocope sillabica, mentre qual e le altre elencate sopra hanno perso solo una vocale. È questo che produce la differenza di comportamento tra po’ e qual? Per saperlo, basta confrontare po’ con le altre parole con apocope sillabica dell’italiano, come piè (da piede) e (da fede), ma anche come città (da cittade), libertà (da libertade) e tutte le parole che finiscono in -tà, anche se si tratta di apocopi prodottesi nell’italiano antico. Come si vede, l’apocope sillabica vuole l’accento, non l’apostrofo: po’ rappresenta, quindi, un’eccezione, a cui siamo affezionati per tradizione, ma che non ha alcuna necessità storico-linguistica. Dire che si apostrofa «perché la forma è il risultato di un troncamento» è, quindi, una asineria; piuttosto, si apostrofa, e non si accenta, nonostante che sia il risultato di un troncamento.

Le regole linguistiche sono molto elastiche, diversamente da quelle giuridiche, e mutano nel tempo. Per questo motivo, bisogna essere cauti, e conoscere approfonditamente la struttura e la storia della lingua, quando si giudica la liceità di una forma grammaticale; è fin troppo facile basare il giudizio non sulla variegata realtà della lingua, ma sulle nostre convinzioni, magari incerte e persino errate.

Fabio Ruggiano

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