Norma, uso, deriva… Ma la grammatica serve davvero?

Pubblicato Categorie: Le interviste di DICO

Il professor Salvatore Claudio Sgroi, ordinario di Glottologia dell’Università di Catania, è da anni attento ai problemi della didattica dell’italiano. Il suo ultimo volume, Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016), raccoglie una serie di interventi decisamente anticonvenzionali (“laici”, per riprendere il titolo di un altro suo celebre volume: Grammatica laica, Utet 2010), indirizzati più alla lingua degli italiani che all’astratta imposizione di regole e purismi, più intenti a descrivere che a prescrivere, più volti all’educazione (meta)linguistica che alle geremiadi sulla (supposta e mal intesa) deriva dell’italiano d’oggi.

– Fabio Rossi: Rispetto a molti linguisti e opinionisti apocalittici, sulla deriva dell’italiano d’oggi, Lei è molto più ottimista: crede che compito del linguista sia descrivere e non prescrivere. Potrebbe illustrarci meglio il senso della sua Grammatica laica (Utet 2010)?
Salvatore Claudio Sgroi: Se è vero, com’è vero, che gli italiani che usano l’italiano sono oltre il 90% della popolazione, ritenere che l’italiano sia “alla deriva”, cioè allo sbando, è per lo meno paradossale. Più sono i parlanti nativi che adoperano una lingua più una lingua è vitale e gode di buona salute. Sarebbe legittimo parlare di “deriva” solo se il numero degli italofoni fosse in diminuzione o se si riducessero le occasioni e gli ambiti d’uso dell’italiano. Nel mondo ci sono sì idiomi a rischio di estinzione, per via del bassissimo numero di nativofoni. Ma non è il caso dell’italiano. In un utilissimo volumetto su “La diversità linguistica” due giovani linguisti, Giorgio Francesco Arcodia e Caterina Mauri (Carocci 2016), ricordano che su 7.102 lingue parlate nel mondo da circa 6 miliardi e 300 milioni di persone, 916 sono “moribonde”, 436 sono “quasi estinte”, e 1531 “in pericolo”.
Direi ancora che l’italiano, come tutte le lingue (e i dialetti), è una lingua “perfetta” e “infinita”, nel senso che con essa è possibile esprimere e comunicare qualunque contenuto esperienziale. La realizzazione mediante le parole è naturalmente sempre perfettibile, in termini di chiarezza logico-concettuale ed appropriatezza ed eleganza formale. E questo dipende da chi usa la lingua. Se la lingua è uno strumento in sé “perfetto”, i problemi della lingua sono allora i problemi di chi deve usare tale strumento. E la “verbalizzazione” per il parlante, il trovare cioè le parole (orali o scritte) più adatte a quello che vuol dire e più adeguate per l’interlocutore e nella situazione in cui si trova, è sempre un problema per qualunque utente non solo incolto ma anche colto. È banale ricordare che anche i grandi della nostra letteratura hanno scritto e ri-scritto i loro capolavori, l’ultima revisione essendo ultima solo per necessità contingenti (vedi I Promessi Sposi, il Gattopardo, ecc.).
Dinanzi agli usi infiniti di una lingua di milioni di parlanti nativi (colti e incolti o variamente acculturati), per non parlare degli stranieri in Italia parlanti l’italiano come lingua seconda (non già straniera) o anche come “interlingua”, qual’è (sic!) il compito del grammatico/linguista?
Il grammatico/linguista può solo ambire a chiarire quali sono le regole, consce o inconsce, alla base degli usi dei parlanti colti (e per converso di quelli incolti). Il ruolo del grammatico è quello del “notaio” (o del “botanico”) piuttosto che quello del “giudice” (o del “giardiniere”).
Una premessa va subito fatta: un testo di “grammatica” non può insegnare una lingua, non serve cioè per fare capire e produrre testi/discorsi (oralmente e per iscritto). Gli esempi che essa riporta non possono sostituire il ‘bagno’ nella lingua e nell’universo delle interazioni verbali della comunità italiana attraverso cui si acquisisce e si apprende naturalmente una lingua.
(Su quale testo di grammatica dell’italiano-toscano si basarono — c’è da chiedersi — i grandi della letteratura italiana del ‘300 e del ‘400? E forse che i grammatici dei secoli successivi sono (mai stati) i migliori romanzieri, poeti, ecc.?).
Facendo riflettere sugli usi dei parlanti colti e incolti il grammatico/la grammatica ne educa le capacità cognitive, e quindi può contribuire a far capire meglio il linguaggio proprio e altrui. La mia Grammatica laica (sottotitolo: Esercizi di analisi linguistica: dalla parte del parlante) in tal senso è una esemplificazione di usi di parlanti colti, medi e incolti, scritti e parlati, tratti da banche dati diverse, alla ricerca delle regole, consce e inconsce, che li hanno generati. Nel contempo si confrontano le regole (costitutive) alla base di tali usi con le regole (regolanti) prescrittive indicate nei testi normativi istituzionali (grammatiche e dizionari), evidenziando i frequenti apriorismi e non poche contraddizioni. Vi si esplicita altresì la nozione di “Errore” in quanto: a) uso linguistico, b) giudicato errato in base a criteri comunicativi e diastratici, prendendo le distanze dai criteri etimologici o razionalistici. La stessa ‘filosofia’ (meta)linguistica è alla base del mio (se è consentita un’auto-citazione) Il linguaggio di Papa Francesco. Analisi, creatività e norme grammaticali (Libreria Editrice Vaticana 2016), che dedica spazio anche alla lingua degli italiani (con un’analisi del provocatorio su citato “qual’è“).

– F.R.: Il rapporto tra norma e uso ha sempre caratterizzato la vita culturale italiana, l’unica, forse, ad aver costruito una vera e propria secolare «questione della lingua». Quale pensa sia il ruolo della norma linguistica (anche solo dal punto di vista sociale) oggi?
S.C. SGROI: Solitamente, come nella domanda che mi viene posta, la “Norma” (implicitamente del parlante colto) si contrappone all'”Uso” (implicitamente dei parlanti colti o incolti), quasi che la prima designasse una realtà linguistica ordinata, sorretta da “regole”, adottate da parlanti irreprensibili e quindi da approvare e approvata rispetto all'”Uso” che allude a qualcosa di ‘ribelle’, non sempre soggetto a regole condivise, dei parlanti di una comunità linguistica, giudicati spesso “malparlanti”. La “Norma” (colta) si contrappone quindi all'”Errore”, e gli “Usi” (dei parlanti colti e incolti) possono a loro volta ammettere “Errori” sanzionati invece dalla Norma.
In una tale concezione del linguaggio, occorre allora stabilire chi definisce la “Norma” con le relative “Regole” e quindi chi sbaglia, perché sbaglia, quando sbaglia, ovvero quali sono i criteri per definire un uso “errato”.
Per rispondere alle domande in questione, è opportuno tener presente che la funzione del linguaggio verbale del parlante è consentire la verbalizzazione dei propri pensieri, ora per esigenze individuali ed espressive, ora per esigenze di interazione, negoziazione comunicativa e dialogo con gli altri. Muovendo dalla lingua acquisita nativamente, egli ne utilizza le regole interiorizzate, con esito diverso, secondo che riesca: a) a farsi capire, senza illogicità, contraddizioni, oscurità, ambiguità ecc. e b) in forme accettabili per il suo interlocutore e in genere adatte alle circostanze della comunicazione.
Gli “Usi” della lingua, in quest’ottica sottendono sempre delle “Regole”, nella misura in cui essi risultano comunicativi e accettabili, per parlanti colti e incolti, un es. il periodo ipotetico misto standard (se potessi lo farei) o col doppio indicativo imperfetto (se potevo lo facevo) dell’uso medio. Non esistono insomma Usi senza Regole (o norme), se non quando si rischia di riuscire incomprensibili.
Nell’ottica tradizionale le “norme” (sinonimo di “regole”) sono però solo quelle dei parlanti colti, i parlanti incolti ignorandole. Se tuttavia le norme (o regole) sono invece alla base dell’uso (comprensibile e quindi corretto) della lingua da parte dei parlanti colti e incolti (per es. il citato se potevo lo facevo), è anche vero che le norme (o regole) esclusive e tipiche dei parlanti incolti (per es. il pan-italiano popolare se potrei lo farei, con valore ridondantemente ‘potenziale’) per quanto comprensibili, sono invece secondo la grammatica normativa giudicate (condivisibilmente) “errate”.
In italiano esistono quindi più Norme (o regole): italiano colto o standard, italiano medio o neostandard, italiani regionali, italiani parlati, italiani scritti, italiano formale, italiano informale, italiano settoriale, italiano dei nuovi media, ecc., diversificati secondo i vari livelli strutturali (fonologico, ortografico, morfologico, sintattico, lessicale, testuale), dai confini peraltro non sempre netti, gestiti con diversa appropriatezza dai parlanti. Si distingue da tali norme, l’italiano (regional)popolare (per es. del citato periodo ipotetico col doppio condizionale) di scarsissimo prestigio sociale, penalizzante ai fini di una adeguata integrazione sociale.
Ma il problema essenziale nell’uso della lingua rimane comunque quello della chiarezza dei contenuti, rispetto alla forma. Per soddisfare le quali (chiarezza e forma), solo l’uso e la pratica della lingua restano la via maestra da perseguire, con la prassi dell’auto-correzione, rispetto all’etero-correzione dell’insegnante e alle prescrizioni (neo)puristiche.

– F.R.: Quali sono, secondo Lei, i compiti fondamentali dell’educazione linguistica oggi? Pensa che la scuola italiana, primaria e secondaria, sia complessivamente ancora troppo tradizionalista e purista, nell’insegnamento dell’italiano? Quali sono, secondo Lei, i principali pregi e difetti degli insegnamenti linguistici nella scuola di oggi?
S.C. SGROI: L’Educazione linguistica nella scuola italiana, al di là dei programmi istituzionali che dopo il ventennio berlusconiano, anti-demauriano, andrebbero invero ripresi e teoricamente rifondati, dovrebbe conseguire il duplice obiettivo: a) di potenziare la “competenza linguistica” della lingua nazionale, a livello di comprensione e produzione testuale parlata e scritta, nelle diverse varietà della lingua, soprattutto quelle medie e alte, e b) di sviluppare la “competenza metalinguistica”, cioè la riflessione sulla lingua, le lingue, i dialetti, i diversi codici non-verbali per accrescere le capacità di astrazione e di raziocinio.
Senza voler essere ‘pessimisti’, a giudicare dalla manualistica corrente nelle scuole il giudizio sulla scuola non è affatto incoraggiante. I testi editorialmente più fortunati non sono invero i migliori sotto il profilo della coerenza teorica, dell’adeguatezza agli usi, della semplicità, dell’idoneità per gli utenti. Ma ciò è anche dovuto alla responsabilità dei docenti, non sempre in grado di discriminare i testi più felici. E a monte c’è anche la responsabilità degli istituti universitari, che non hanno saputo/potuto/voluto porsi istituzionalmente la formazione degli insegnanti, lasciati per lo più alla loro libera iniziativa.
In un periodo in cui l’Università italiana versa in una crisi strutturale di cui non si riesce a vedere lo sbocco (‘coma’ profondo? o irreversibile?), la produzione della manualistica scientifica, a disposizione degli insegnanti, ha raggiunto paradossalmente livelli notevoli. Agli insegnanti consiglieremmo per es. lo studio della recentissima Grammatica: parole, frasi, testi dell’italiano di Angela Ferrari e Luciano Zampese (Carocci 2016): un testo ricchissimo di fatti linguistici e di analisi teoriche nuove, condotte con grande chiarezza ed eleganza, in grado di suscitare l’amore per lo studio dei fenomeni grammaticali, non solo dell’italiano. Sul versante più pedagogico segnalerei anche, corredato di un adeguato apparato di esercizi, La «chimica» della lingua. Le strutture della frase tra sintassi e discorso di Eugenia Mascherpa (Aracne 2016).

– F.R.: Dalle statistiche OCSE pare evidente che il rapporto degli italiani con la loro lingua non sia dei migliori: studenti che, alle soglie della maturità e talora addirittura della laurea, non sono in grado di comprendere un testo, di riassumerlo, di argomentare. Quali pensa siano le cause principali di questi problemi e come pensa possano essere risolti?
S.C. SGROI: Se, come accennato in apertura, la lingua italiana in quanto idioma, come tutte le lingue (e i dialetti), è “perfetta” e non è certamente “alla deriva”; se il problema centrale della competenza linguistica è la capacità di verbalizzazione dei parlanti, allora le difficoltà “di comprendere un testo, di riassumerlo, di argomentarlo”, da parte non solo dei diplomandi ma anche dei laureati, accertate dall’OCSE, devono far riflettere seriamente la Società, lo Stato, i Governanti, l’Università, la Scuola. Si tratta tra l’altro di cittadini ‘manipolabili’ sotto ogni punto di vista.
E se è vero che non mancano strumenti didattici utili per raggiungere tali competenze, potrei ricordare per es. il volumetto di Ugo Cardinale, L’arte di riassumere. Introduzione alla scrittura breve (Il Mulino 2015). O, a più ampio raggio, il manuale di Fabio Rossi – Fabio Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria (Carocci 2013) con volumetto autonomo di Esercizi di scrittura per la scuola e l’università (Carocci 2015). E ancora Il piacere di scrivere. Guida all’italiano del terzo millennio di Luca Cignetti – Simone Fornara (Carocci 2014).
In termini generali, direi — concludendo — che bisogna ‘investire’ di più (in termini economici) sulla cultura, sulla scuola. E anche i mass media (TV e stampa, soprattutto) potrebbero invero contribuire ad alzare i livelli culturali e di capacità critica degli italiani.