L’italiano d’oggi, tra giornalismo e memoir, secondo la giornalista-scrittrice Annarita Briganti

Pubblicato Categorie: Le interviste di DICO

Le interviste di DICO proseguono con Annarita Briganti, giornalista culturale (Repubblica e Donna Moderna), scrittrice (Non chiedermi come sei nata, Cairo, 2014; L’amore è una favola, Cairo, 2014), divoratrice e presentatrice di libri e iniziative culturali, blogger e altro ancora.

– Fabio Rossi: Lei che si confronta con l’italiano da una doppia specola, quella della narrativa e quella del giornalismo, pensa vi siano delle differenze tra queste due modalità espressive?

Annarita Briganti: L’italiano è la lingua più bella del mondo, anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo e la sporchiamo con frasi fatte, inglesismi o usiamo sempre gli stessi vocaboli. La narrativa, proprio per il suo respiro più ampio, corre meno rischi dei vari “attimino, assolutamente sì” e altri orrori simili. Un tempo si trattava veramente di due linguaggi diversi. Poi, grazie al “sangue freddo” di Truman Capote, è cambiato tutto. Questo scrittore complessato, insicuro, ma anche feroce e cinico, ha inventato il cosiddetto new journalism, sfornando uno dei capolavori dell’umanità: un libro che non è un romanzo, ma neanche un reportage, creando un ibrido che ancora oggi mi sembra il format più contemporaneo per raccontare il mondo. Quelle di Emmanuel Carrère sono narrazioni finzionali, cronache della sua vita o un mix di fiction e autobiografia? Così come gli articoli di Oriana Fallaci avevano uno sguardo più lungo dello spunto attorno al quale erano costruiti, il che caratterizza anche il miglior giornalismo culturale attuale.
Un frullatore di generi e contenuti, è questo lo storytelling oggi, con un punto fermo: l’autenticità. Il giornalismo dovrebbe raccontare la verità, la narrativa non dovrebbe mai ingannare i lettori. La seconda parola chiave è: libertà. Con le parole tutto è possibile sia che si tratti di articoli sia che si tratti di libri.

– F.R.: Quali pensa siano i caratteri principali della narrativa italiana degli ultimi anni? Molti parlano di inconsueto avvicinamento tra narrativa e teatro. Lei è d’accordo?

A.B.: A dieci anni da Gomorra, la cifra stilistica della narrativa italiana e internazionale è il memoir ovvero raccontare apparentemente i fatti propri, meglio se collegati a temi caldi dell’attualità. È l’effetto social, viviamo tutti in case di vetro, siamo abituati a mettere sulle bacheche anche le foto dei nostri figli, ma in fondo è sempre stato così. L’antesignano dei romanzi autobiografici è Proust.
Per quanto riguarda l’influsso del teatro, risponderei: magari. Se fosse davvero così, leggeremmo testi di qualità superiore. Il mio primo romanzo-memoir Non chiedermi come sei nata (Cairo) è andato in scena su un palcoscenico molto prestigioso, il Teatro Alfieri di Torino, con il mio adattamento drammaturgico, ma non c’è grande dialogo tra questi media. Se dovessi paragonare la letteratura contemporanea a un linguaggio per immagini mi verrebbero in mente le serie televisive: capitoletti brevi come le puntate di un telefilm, ritmo, azione, in molti casi sangue. E il cinema, certo. Il sogno di tutti gli scrittori.

– F.R.: Come si pone nei confronti della lingua italiana? Quali sono le sue priorità? Essere compresa dal pubblico più ampio possibile? Essere mimetica dell’italiano d’oggi? Ricercare uno stile più alto, più rispettoso della norma?

A.B.: Non costruisco mai niente a tavolino, né gli articoli né i libri. Le testate su cui scrivo, Repubblica e Donna Moderna, sono le stesse che leggo fin da ragazzina. Ritagliavo gli articoli da questi giornali. L’importante è tenere le antenne sempre bene alzate sia nei confronti del pubblico sia verso gli stimoli del mondo. Scrivere è dialogo. Gli scrittori sono delle spugne. La scrittura si evolve nel tempo, deve farlo.

– F.R.: Saprebbe dirmi due o tre cose dell’italiano d’oggi che proprio non le vanno a genio (di là dalla supposta morte del congiuntivo)?

A.B.: L’assenza del congiuntivo, che invece è sempre presente nella mia scrittura, è il sintomo di una lingua in crisi, pur essendo, come dicevo, tra le più ricche e stimolanti del mondo. Non sopporto “k” al posto di “ch”. Non uso le faccine, anche se gli altri lo fanno. Non capisco l’ignoranza ostentata. Non è obbligatorio essere colti, ma neanche vantarsi dei propri limiti e non fare niente per migliorarsi.