In questi giorni (il 6 dicembre 2016) il consiglio regionale veneto ha approvato un disegno di legge che definisce il popolo veneto come una «minoranza nazionale».
Prontissimo sgorga sui media il neologismo: Venexit (naturalmente, sulla base di Brexit). Il disegno prevede, tra l’altro, misure a favore della tutela e della promozione del dialetto veneto, come l’uso pubblico di tale varietà, le scritte bilingui, l’insegnamento scolastico ecc. L’idea, insomma, è quella di fare del Veneto una sorta di regione a statuto speciale, o autonomo, e di attribuire al dialetto veneto gli stessi diritti riconosciuti in passato ad altre varietà, dal sardo al friulano, dal tedesco del Trentino al francoprovenzale e altre minoranze linguistiche presenti in Italia e tutelate dalle leggi italiane ed europee.
È fin troppo ovvio capire come dietro tali rivendicazioni linguistiche si celino motivi ideologici e socioeconomici, quali l’affermazione di istanze federalistiche e la speranza di ottenere agevolazioni fiscali e fondi speciali per la promozione linguistica, le attività traduttive, l’insegnamento ecc. Né questo può stupire o scandalizzare nessuno: le spinte autonomistiche, che da anni interessano percentuali non esigue di politici ed elettori italiani, hanno già dato e continuano a dare i loro frutti in diverse parti d’Europa, tanto più esposta ad estremismi particolaristici quanto più ufficialmente rappresentata come unitaria e globalizzata.
Naturalmente, DICO non intende entrare nel merito politico di tali questioni, bensì sottolinearne alcuni aspetti squisitamente linguistici e, dal nostro punto di vista, di notevole interesse.
In primo luogo, il disegno di legge veneto induce a riflettere, ancora una volta, su che cosa significhino termini come lingua e dialetto. Sarà bene sottolineare come ogni dialetto sia una “lingua”, con sue regole (nel senso di strutture e convenzioni, anche qualora non scritte), con una sua grammatica e un suo vocabolario (anche se non scritti e dunque non studiati a scuola), con usi, varietà e sottovarietà: non può esistere un dialetto monolitico, immutabile, adatto a ogni circostanza, perché la specificità di ogni forma di comunicazione umana, parlata o scritta che sia, è sempre variabile nel tempo, nello spazio e nelle situazioni. Ciò che distingue un dialetto da una lingua, dunque, non ha nulla a che vedere con ragioni linguistiche, né estetiche (nulla rende di per sé una lingua più bella, musicale o letteraria di altre), ma soltanto sociali (e dunque anche economiche e politiche). Nel momento in cui una varietà si impone sulle altre (appunto, per motivi storico-sociali, economici, politici), la varietà ritenuta di maggior prestigio prende il nome di lingua, mentre le altre vengono considerate dialetti: esattamente come è accaduto in Italia, verso la prima metà del Cinquecento, con l’assunzione del fiorentino come lingua italiana, che ha relegato tutte le altre varietà al rango di dialetti.
Detto in altri termini, «una lingua è un dialetto con un esercito e una marina», per riprendere un felicissimo aforisma riportato per la prima volta, pare, dal linguista Max Weinreich. Cioè, nel momento in cui una determinata varietà linguistica si afferma sulle altre, essa diventa la lingua dell’amministrazione pubblica, della scuola, della politica, del potere ecc. E, proprio per questo, in ogni epoca fioriscono più o meno vistose “questioni della lingua”, cioè rivendicazioni di dignità o autonomia da parte delle varietà subalterne (i dialetti).
Il riconoscimento della natura meramente sociale dell’opposizione lingua/dialetto (assodato che dal punto di vista “linguistico” esistono soltanto le lingue, cioè le varietà di comunicazione umana) richiede però una certa cultura linguistica, solitamente assente nella classe politica e giornalistica, come dimostra la valanga di luoghi comuni e inesattezze sui concetti di lingua e dialetto. Una su tutte: spesso si adduce a prova del fatto che un dialetto non sia tale, bensì sia una “lingua”, la ricchezza della sua tradizione letteraria, l’antichità delle sue prime attestazioni e la sua incomprensibilità agli orecchi degli italiani, dimenticando, o ignorando, che tutti i dialetti italiani condividono (tra loro e con l’italiano) la stessa origine (latina) e dunque più o meno la stessa data di nascita e che la ricchezza (ed eventuale bellezza) della tradizione letteraria (e culturale in genere), come anche la reciproca indecifrabilità delle lingue, è mera questione di punti di vista.
Senza poi trascurare il fatto che, per il fenomeno della variabilità già evocato sopra, non può esistere UN SOLO dialetto veneto, ma decine di dialetti veneti (ma il discorso è valido per ogni area geolingustica: anche per il sardo, il ladino ecc., che infatti hanno suscitato più volte analoghe obiezioni): quale dunque, semmai, si dovrebbe promuovere come varietà ufficiale?
Nonostante tutte le imprecisioni (del resto, non possiamo certe pretendere che a discutere di lingua siano soltanto i linguisti, sebbene consultarne qualcuno prima di sfornare leggi linguistiche non farebbe male, ammesso che sia sensato fare leggi sulla lingua), riteniamo che il dibattito su questi temi sia in certo qual modo salutare, perché induce a riflettere sulla natura ideologica ineliminabile, sempre, nella riflessione linguistica. Recentemente DICO ha trattato di ideologie linguistiche e non ci resta, dunque, che rinviare a quella sede. Ricordiamo qui soltanto che le riflessioni sulla lingua dominano il dibattito politico e mediatico proprio quando sono in corso importanti rivolgimenti sociali. Lo sosteneva, con insuperato acume, Antonio Gramsci:
«Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Quaderni dal carcere, 29, 1935).
Davvero potremmo riferire le parole di Gramsci esattamente al clima delle rivendicazioni del disegno di legge veneto e ai numerosi casi analoghi, sebbene non assurti a legge, degli ultimi anni (da Como a Bergamo, dalla Campania alla Sicilia, non sono mancate le proteste antitaliane e filodialettali).
Il clamore suscitato dal Veneto ha risvegliato i grandi quotidiani nazionali dal loro torpore nei confronti delle questioni linguistiche: dal 6 dicembre in poi, in effetti, decine di articoli sono stati pubblicati sull’argomento, come è facile verificare, per esempio, scrivendo dialetto nella sezione “cerca” dei siti di repubblica.it e corriere.it.
Parlare di lingua (e dialetto, naturalmente) e di linguistica significa, sempre, parlare di noi, del nostro vivere sociale, della nostra politica, del nostro futuro, dal momento che la lingua è il principale strumento di socializzazione, la caratteristica umana per eccellenza, quella che ci identifica rispetto agli altri animali. Lo sa bene l’Accademia della Crusca che, da qualche settimana, sta pubblicando (in edicola tutti i venerdì, con la Repubblica) una collana di 14 agili volumetti dedicati all’italiano e alle mille sue varietà, dal titolo L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile. Un modo non banale per trattare temi complessi in uno stile semplice e rivolto soprattutto ai non addetti ai lavori. Il quinto numero, dal titolo La ricchezza dei dialetti, è dedicato proprio ai temi di questo nostro articolo e dà molte risposte (ante litteram) alle numerose domande suscitate dal disegno di legge veneto e da altre simili questioni. Il numero successivo è invece dedicato a L’italiano e le lingue degli altri, altro tema caldissimo, oggi.
A quest’ultimo riguardo, per concludere con il binomio lingua-politica, è curioso come molti di quelli che tuonano contro l’italiano lingua comune e a favore dell’identità locale e del plurilinguismo dialettale siano gli stessi che rivendicano l’attaccamento all’identità nazionale e alla lingua italiana come arma di discriminazione nei confronti dei migranti. Ma, ancora una volta, se le esternazioni leghiste ci forniscono il pretesto per far uscire la linguistica dal mero interesse accademico e ci consentono di dimostrare l’utilità sociale (e dunque l’urgenza) di temi quali la didattica dell’italiano, la dialettologia, la sociolinguistica e simili, ben vengano anche quelle esternazioni. Chi l’avrebbe mai detto?
Fabio Rossi