La lingua è mia, e guai a chi me la tocca. È questo lo spirito con cui normalmente partecipiamo ai dibattiti su questioni grammaticali. E, in effetti, è giusto che sia così: la lingua è di chi la usa; ovvero, per dirla con le parole di Alessandro Manzoni, l’Uso è il padrone della lingua:
L’uomo quando parla fa un’operazione maravigliosa […]. Forma, con una rapidità inconcepibile, ma insieme innegabile, più giudizi, spesso complicati e finissimi, sopra ciascheduna delle parole che manda fuori seguitamente, e come una cosa sola […]. E quale è il criterio che lo guida in questa operazione? […] Questo unico criterio è l’esperienza.
[…] È insomma ciò che, in fatto di lingua, si chiama, per antonomasia, l’Uso; quell’Uso che è detto l’arbitro, il maestro, il padrone, fino il tiranno delle lingue, e anche da quelli che, all’atto pratico, fondano le loro teorie, e i loro giudizi sopra non so quant’altre cose diverse, secondo l’opportunità, senza rispetto all’arbitro, al maestro, al padrone, e senza paura del tiranno (Lettera a Ruggero Bonghi intorno al Vocabolario, 1868).
L’Uso è ben difficile da definire: è una specie di sintesi delle forme linguistiche accettate dalla maggioranza, compresi i fraintendimenti, i dubbi e le scelte che la stessa maggioranza trova sbagliate (ma perpetua). Il fatto che l’Uso sia una materia indistinta e proteiforme è un bene, perché ciò crea la possibilità per il cambiamento, la nascita di forme nuove, la morte di espressioni vecchie, il confronto sulla legittimità del nuovo.
Se, però, l’Uso è il tiranno della lingua ed ha una natura indistinta è inevitabile che eserciti il suo potere in modo violento: e infatti è facile che chi si sente depositario dell’Uso biasimi, censuri e corregga con decisione e persino con disprezzo gli innovatori. Eppure bisogna accettarlo: l’Uso è il tiranno delle lingue e, come ogni tiranno, detiene un potere assoluto e indiscutibile, anche quando è esercitato male. Quando, per esempio, si oppone strenuamente ad un cambiamento per molti versi ormai maturo facendosi forte di ragioni soggettive come la tradizione (personale, familiare, locale, regionale, scolastica, letteraria…), la piacevolezza (o, al contrario, sgradevolezza) uditiva, la dichiarazione di un giornalista, un opinionista, un famoso qualsiasi, magari solamente sentita distrattamente, o letta di sfuggita, il timore che l’innovazione possa stravolgere le regole grammaticali.
I nuovi mezzi di comunicazione, in primis i social media, hanno potenziato quantitativamente, ma non qualitativamente, il dibattito anche sui temi linguistici. Hanno, infatti, fornito uno strumento a chi prima non aveva modo per partecipare, ma hanno, in virtù della loro conformazione ispirata alla rapidità di fruizione, ridotto lo spazio per il ragionamento. Violenza e rapidità sono compagne pericolose: possono produrre un risultato come quello che leggiamo in questa serie di commenti ad un post dell’Accademia della Crusca.
La questione dibattuta è quella del genere dei nomi di cariche pubbliche. Il problema, antico, ma risollevato negli ultimi anni dalla presidente della Camera Laura Boldrini, di trovare dei corrispondenti femminili a nomi solamente maschili come presidente, ministro, assessore, sindaco, questore, ha avuto sui social media un’eco eccezionale, suscitando condanne e dimostrazioni di apprezzamento. Negli ultimi giorni, un video del poliedrico Vittorio Sgarbi ha rinfocolato la questione. Proprio a questo video la Crusca ha risposto, ribadendo quanto la stessa Accademia va dicendo da anni.
Tra i riferimenti citati dallo staff dell’Accademia nel botta e risposta, spicca la guida GiULiA, realizzata dall’Accademia nel 2014 in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti. Il libriccino, una perla di chiarezza e completezza, spiega come il femminile dei nomi sia una risorsa morfologica del tutto normale in italiano. Mettendosi nei panni dei difensori dell’Uso, inoltre, risponde anche a molti dubbi e pone delle alternative di compromesso.
Come può facilmente vedere chi legga la guida, i motivi di scandalo dei commentatori del post sono in essa già ampiamente superati, e con ragionamenti difficilmente non condivisibili, perché risultanti dal confronto tra esigenze sociali e norma morfologica. È evidente, pertanto, che i commentatori, detentori dell’Uso, non si sono preoccupati di leggere la guida, o altri interventi dell’Accademia, prima di inveire. Tra tutti, spicca Filippo Di Franco (a cui va riconosciuto il merito di non nascondersi dietro uno pseudonimo), che elude completamente il confronto spostando la questione su un altro tormentone del 2016: «@AccademiaCrusca @VittorioSgarbi @stampasgarbi @lauraboldrini Ancora avete il coraggio di parlare dopo petaloso? Ma finitela! #branaccademy». L’intervento è un modello perfetto, prototipico, di commento social su una questione linguistica: unisce, cioè, la violenza alla frettolosità. Una violenza che, tra l’altro, prende di mira un obiettivo inscalfibile. Perché, infatti, l’Accademia dovrebbe finirla per aver spiegato, in modo chiaro e ragionato, che petaloso è un aggettivo morfologicamente ben formato (fatto incontestabile), ma non può entrare nel vocabolario finché non entri nell’Uso (altro fatto incontestabile)?
Ma leggendo i commenti si nota che c’è di più: come se già non bastasse la tipica violenza frettolosa del difensore dell’Uso, alle ragioni dei commentatori si aggiungono i due peggiori mali che caratterizzano il mondo dell’informazione in cui viviamo: l’incapacità di distinguere la realtà dall’invenzione (quella che qualcuno ha recentemente chiamato post-verità) e la teoria del complotto.
Per la prima, mi riferisco ai commentatori che liquidano la presidente Boldrini per aver coniato il termine presidenta, in realtà mai preso in considerazione da nessuno (la soluzione la presidente, sul modello di la cantante, la reggente, la dirigente, è talmente ovvia da escludere dubbi); la seconda, invece, ispira quelli che insinuano che l’Accademia difenda Boldrini (lo preferisco a la Boldrini, così come dico Grasso, non il Grasso) per secondi fini politici.
Di fronte a critiche tanto pretestuose, la responsabilità degli studiosi è senz’altro resistere alla tentazione di rinchiudersi nella torre d’avorio degli addetti ai lavori o nella pretesa di parlare dalla cattedra, e sforzarsi sempre di spiegare con pazienza e umiltà al grande pubblico come stanno le cose. Del resto, se vogliamo debellare i mali della post-verità, della nevrosi da complotto, della paura del nuovo, dobbiamo tutti usare anche i nuovi mezzi di comunicazione in modo posato, rimandando, all’occorrenza, a sedi più adatte al ragionamento, come i siti specialistici e i mai fuori moda libri.
Fabio Ruggiano