Avete letto scrittori italiani o scrittori stranieri, sotto l’ombrellone?

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Perché gli italiani leggono poco? E scrivono poco? E male?
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Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia, si chiedeva, a metà Ottocento, l’intellettuale, docente universitario e politico napoletano Ruggero Bonghi (potete leggere qui il suo saggio da cui citiamo). Ovvero, in termini moderni, perché non esiste una prosa (questo intendeva con letteratura, il Bonghi) unitaria (nazionale, diffusa presso tutte le persone di cultura: popolare) italiana?
Alcune delle sue risposte, appaiono oggi (ma non certo ieri!) comprensibilmente datate: manca, in Italia, una lingua unitaria adatta alla prosa, a differenza della tradizionale lingua poetica. Pertanto, gli italiani (colti) preferiscono rivolgersi ad autori francesi, inglesi e tedeschi, che già da secoli dispongono di un duttile codice comune per la narrativa, la filosofia, la storia, la scienza ecc.
Altre risposte del Bonghi colpiscono, invece, per la loro acutezza e potrebbero, in gran parte, essere valide tuttora. Gli italiani, secondo lui, sono troppo presi dallo stile ampolloso, dalle minuzie formali, e scarsamente interessati, invece, alla sintesi e alla chiarezza del pensiero. Prima ancora che a scrivere bene, gli italiani devono imparare a pensare bene. Due, infatti, sono i requisiti del buono scrittore: l’acutezza del pensiero e la chiarezza dell’obiettivo, ovvero, nelle parole del Bonghi: «Per avere una prosa migliore, bisogna volere e pensare» (p. 45).
Spesso gli italiani scrivono soltanto per il gusto di scrivere; dovrebbero, viceversa, coltivare di più l’arte del pensare. Prima bisogna avere qualcosa da dire (e da pensare), e poi si deve pensare a scrivere:
«Si smetta dunque di fraseggiare e si pensi […]: mettiamoci a tavolino, non perché […] bisogna pur scrivere qualcosa, ma perché abbiamo qualcosa da dire» (p. 166).
All’origine di questa italica e atavica resistenza all’espressione del pensiero chiara ed efficace sono precise dinamiche storico-sociali, allora come oggi. L’aveva ben compreso il Bonghi, l’aveva già lucidamente intuito Giacomo Leopardi (Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani [1824], Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ed efficacemente l’avrebbe riassunto Antonio Gramsci (Quaderni dal carcere, II, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975).
Secondo Bonghi, uno dei mali italici è la «separazione de’ letterati dalla società», che impedisce loro di confrontarsi con i problemi sociali e culturali vivi e reali, di guardarsi lucidamene allo specchio, di confrontarsi con altre lingue e culture, presi come sono da «lavori pedanteschi senza sugo e di nessun merito» (pp. 18-19).
Manca in Italia una coesione culturale, soprattutto perché il carattere dei letterati e dei lettori è fazioso e pedante, tanto da inibire anche la formazione di una matura critica letteraria e la compilazione di grammatiche moderne. Ben più che al peso della tradizione, i linguisti italiani dovrebbero guardare all’uso vivo (secondo Bonghi, convinto manzoniano), cioè «l’uso di quelli che parlano» (p. 177), e sulla base di quello compilare grammatiche e dizionari.
Per Giacomo Leopardi, manca, in Italia, la «società stretta» (p. 15), vale a dire in sé coesa e legata a forti valori etici e culturali condivisi. Tale mancanza fa sì che gli italiani siano cinici e costantemente avversi gli uni agli altri, privi di ambizione e di senso morale, incapaci di cooperare, di riconoscersi in ideali comuni e dunque di giungere a un reale progresso e anche a una letteratura comune e apprezzata:
«Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci» (p. 29).
«Le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti» (p. 33).
Secondo Antonio Gramsci, manca il genere del romanzo popolare (ovvero una prosa di consumo), in Italia, perché mancano una lingua comune e un «carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani» (p. 1136 ss.).
Quali sono le vostre opinioni in merito? Amate gli autori italiani contemporanei? O preferite leggere autori stranieri? Quali sono, secondo voi, i limiti della narrativa italiana? Perché gli italiani occupano i posti più bassi delle classifiche sulle abilità di lettura e scrittura (DICO se n’è già in parte occupato qui)?
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Fabio Rossi