A Napoli si dice pernacchio, ma nel resto d’Italia è più comune il femminile. Non vale la pena spiegare che cosa sia; del resto, l’interpretazione di Edoardo De Filippo (in fondo a questa pagina), tratta dall’Oro di Napoli di Vittorio De Sica (1954), a sua volta adattato dalla omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta (1947) è più che chiarificatrice a proposito.
Se l’atto è ben noto, l’origine e l’evoluzione della parola che lo designa sono molto meno chiare. La forma oggi usata è piuttosto moderna, visto che le prime attestazioni, sia per il femminile che per il maschile (per il quale pare che la prima attestazione in italiano sia nei Taccuini del fondatore del Futurismo, Filippo Marinetti), sono degli anni 1917-1918. Il fatto è, però, che fino al Novecento la pernacchia era nota solamente a Napoli e dintorni, e si chiamava vernacchio, forma che rivelava trasparentemente la sua origine: vernaculum (dictum), ovvero ‘(espressione) servile’. In latino, un verna era uno schiavo nato in casa del padrone, uno schiavo fin dalla nascita.
La parola verna era ambigua già nell’antica Roma, quando, a partire dal suo significato base, si sviluppò quello di ‘mascalzone, canaglia’, e anche ‘buffone’; l’aggettivo derivato vernaculus, invece, mettendo in evidenza l’idea di nato in casa, prese il significato di ‘indigeno, del luogo, nazionale’, quindi anche ‘romano’, con una connotazione evidentemente positiva. Da questo secondo significato si sviluppò in italiano vernacolo (parola dotta, cioè prelavata dal latino quasi così com’era) ‘linguaggio locale’, sinonimo di dialetto, ma usato soprattutto per le parlate toscane. Dal primo significato, invece, derivò vernacchio (secondo la normale trasformazione fonetica vernaculo → vernac(u)lo → vernacchio; la stessa che produsse, ad esempio, specchio da speculum). Vernacolo e vernacchio, quindi, sono allotropi, cioè parole diverse, ma derivate dalla stessa base latina.
Vernacchio è noto a Napoli fin dal Seicento, con il significato di ‘peto’: lo usa, ad esempio, Giovan Battista Basile nella sua raccolta di racconti Lo cunto de li cunti:
Li fammeliare suoie lo confortavano, consigliannolo che stesse ‘n cellevriello la terza notte, contannole lo cunto de lo malato pedetaro e de lo miedeco mozzecutolo, lo quale avennose lassato scappare no vernacchio, lo miedeco, parlannole letterumme, disse: “Sanitatibus!”; ma, asseconnanno n’autro, isso leprecaie: “Ventositatibus!”, ma, continuanno la terza, isso aperse tanto de canna e disse: “Asinitatibus!” (III, 5).
(I suoi parenti lo consolavano, consigliandogli di far attenzione alla terza notte, raccontandogli la storia del malato scoreggione e del medico arguto. Mentre il medico lo visitava, il malato si era lasciato scappare una scoreggia, e il medico parlando latino gli aveva detto: “Sanitatibus!”. Quando dopo poco gli era scappata la seconda, il medico aveva commentato: “Ventositatibus!”; ma quando il paziente aveva sparato la terza il medico aveva gridato: “Asinitatibus!”).
La vicinanza tra i due tipi di rumore – quello posteriore e quello anteriore – avrà favorito l’evoluzione semantica di vernacchio, dal significato attestato nel Seicento a quello, già diffuso nel Settecento, conservato dalla parola fino ad oggi. Il passaggio vernacchio → pernacchio, molto più recente, avvenuto tra il XIX e il XX secolo, è dovuto sicuramente all’analogia fonetica tra vernacchio e pireto (si noti già nel brano di Basile l’aggettivo pedetaro, derivato da pedeto, intermedio tra la base latina peditum e proprio l’esito napoletano moderno pireto).
In napoletano, pernacchio è rimasto maschile, mentre nel corso del XX secolo pernacchia ha preso il significato di ‘donna sguaiata, chiassosa, inelegante’. Il prelevamento del prestito da parte dell’italiano deve essere avvenuto poco dopo questa separazione tra il maschile e il femminile, quando quest’ultimo esisteva già ma non si era ancora specializzato nel nuovo significato.
Fabio Ruggiano