QUESITO:
Provare a o provare di fare qualcosa? Qual è la forma corretta?
RISPOSTA:
Il verbo transitivo provare, che nell’accezione di ‘fare un tentativo’ viene definito verbo aspettuale, o fraseologico, regge di norma una proposizione infinitiva introdotta da a (provare a imparare lo spagnolo) o un complemento oggetto diretto (provare un esercizio). Nella storia dell’italiano, però, è attestato anche provare di, nella stessa accezione di ‘fare un tentativo’, in sporadiche occasioni fino al Settecento (per es., Carlo Goldoni: “Vo’ provare di mettere in pratica il progetto”) e con un incremento d’uso in tutto l’Ottocento (per es., Silvio Pellico: “Provai di tornare al cibo de’ sani, ma non v’era guadagno a fare, giacchè disgustava tanto ch’io non potea mangiarlo”), con occorrenze che arrivano almeno alla prima metà del Novecento.
La variante provare + di è attestata dai dizionari dell’uso contemporanei nell’accezione di ‘dimostrare’ (provare di aver capito la lezione). L’estensione della preposizione di a un significato diverso, cioè quello di ‘fare un tentativo’ sembra derivare dall’analogia semantica con i verbi cercare e tentare, la cui reggenza è per entrambi di (cercare di fare qualcosa; tentare di risolvere un problema).
In conclusione, la costruzione provare a + infinito è l’unica riconosciuta come grammaticalmente corretta nell’italiano standard. Tuttavia, in contesti di uso meno sorvegliato, si registra – sia in passato che in epoca recente – l’affiorare della forma provare di + infinito, probabilmente favorita da influenze esterne: dapprima dal francese essayer de, documentabile già nell’Ottocento, e più di recente dall’inglese try to. Tale oscillazione, sebbene non conforme alla norma, testimonia una certa persistenza e vitalità del costrutto nella lingua d’uso.
Raphael Merida